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aggiornamento al 27.01.2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 27.01.2020

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Per tutti quei sindaci che ricorrono all'utilizzo dell'art. 110 dlgs n. 267/2000, per la copertura di posti apicali, non in conformità a legge...

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale al sindaco per l'incarico dirigenziale a un funzionario senza laurea.
Il sindaco che attribuisce un incarico dirigenziale a un funzionario non laureato arreca un danno erariale al Comune.

Lo ha stabilito la corte dei Corte dei conti del Veneto, con la sentenza 20.11.2019 n. 182, con la quale ha condannato il sindaco di un Comune al risarcimento di un danno erariale per oltre 78 mila euro, a seguito del decreto di conferimento di un incarico dirigenziale a un funzionario privo del necessario diploma di laurea.
L'attribuzione dell'incarico a tempo determinato, con decorrenza dal giugno 2013 al maggio 2018, era avvenuta con un decreto del sindaco adottato ai sensi dell'articolo 110 del Tuel, che disciplina gli incarichi a contratto. L'argomentazione addotta dai giudici a sostegno della pesante condanna fa perno sul fatto che quest'ultimo articolo consente la copertura dei posti di qualifica dirigenziale mediante contratto a tempo determinato «fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire».
Il requisito della laurea
L'impianto normativo connesso a questo disposto non lascia dubbi in ordine alla necessità del diploma di laurea per l'accesso alla dirigenza della Pa.
In particolare, l'articolo 19 del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego), con riguardo all'attribuzione degli incarichi dirigenziali a tempo determinato, fa espresso riferimento alla formazione universitaria e post universitaria ai fini della verifica della competenza professionale, mentre l'articolo 28 del medesimo decreto, per quanto riguarda l'accesso alle qualifiche dirigenziali a tempo indeterminato, prevede anch'esso la necessità del possesso di titolo di laurea.
Tenuto conto di ciò, il decreto illegittimo ha comportato il riconoscimento al funzionario di un trattamento economico superiore a quello che gli sarebbe spettato se l'incarico gli fosse stato attribuito con il riconoscimento di una posizione organizzativa, e per questo la Corte ha addebitato al sindaco un danno pari alla differenza retributiva tra le due posizioni in organico per tutto il periodo di svolgimento dell'incarico.
Il collegio ha respinto l'argomentazione difensiva secondo cui il sindaco non avrebbe avuto alternative nella scelta del funzionario (dato che era l'unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l'incarico), senza tener conto del fatto che la nomina avrebbe fatto risparmiare al Comune i costi di un conferimento di incarico dirigenziale a un soggetto esterno.
Al contrario, i giudici hanno sostenuto che «esistevano nell'organico dell'ente altre professionalità a cui attribuire l'incarico», mentre per quanto concerne il presunto risparmio di spesa la difesa del sindaco «nulla ha argomentato in merito alla possibilità di affidare la responsabilità dell'area a un funzionario di categoria D mediante l'istituto della posizione organizzativa».
La colpa grave
La sezione ha poi ravvisato i connotati di una colpa grave nella condotta del primo cittadino, in quanto in materia si è ormai consolidato «un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa».
A nulla è valso il tentativo della difesa nel sostenere un coinvolgimento di altri organi comunali nella responsabilità decisionale per il conferimento dell'incarico dirigenziale illegittimo.
Secondo i giudici la circostanza che, a monte del decreto in questione, la giunta comunale avesse adottato un piano di fabbisogno del personale prevedendo la copertura del posto di qualifica dirigenziale mediante contratto a tempo determinato con incarico in base all'articolo 110 del Tuel non ha escluso neppure parzialmente la responsabilità del convenuto.
La decisione di giunta, infatti, atteneva unicamente alle modalità di copertura del posto, e non all'individuazione del soggetto al quale l'incarico avrebbe dovuto essere conferito da parte del sindaco, nella veste di titolare della funzione di scelta del responsabile dell'ufficio.
Il segretario generale, chiamato a sua volta in causa dal sindaco in qualità di soggetto titolare delle «funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto e ai regolamenti» (articolo 97 del tuel), è stato scagionato dal collegio per aver rappresentato al sindaco subito dopo l'adozione del decreto, verbalmente e per iscritto, i profili di illegittimità dell'avvenuto conferimento dell'incarico.
In definitiva, l'addebito del danno erariale è stato posto interamente a carico del sindaco dell'ente, individuato dalla Corte quale titolare esclusivo del potere di esercitare la funzione di scelta dell'incarico, con esclusione peraltro della cosiddetta «esimente politica», riferibile ai soli atti rientranti nella competenza di uffici tecnici o amministrativi e approvati, autorizzati o eseguiti in buona fede dagli organi politici (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.12.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Accesso alla dirigenza e responsabilità erariale per mancanza del diploma di laurea.
In materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs. 267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs. 29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs. 165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale) che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito culturale della formazione universitaria con il requisito professionale dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza.
Tale ultima disposizione, nel testo in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata “dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis, alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis, sussistere congiuntamente.
Invero, “
il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito. Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della responsabilità amministrativa.
--------------
In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da colpa grave.

Invero,
il decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale, organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art. 48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale-
la “copertura del posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni (incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico, attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di esclusiva pertinenza del Sindaco.
--------------
Nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro, è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di amministrazione attiva.
La mera sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
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Il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune con il pagamento di competenze retributive ad un soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura dell’incarico illegittimamente conferito.

Invero,
l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta.
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Oggetto del presente giudizio è la responsabilità risarcitoria del convenuto, all’epoca Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di Verona, per l’illegittimo conferimento di incarico dirigenziale intra dotazione organica, a tempo determinato, ad un dipendente dell’ente poiché sprovvisto dell’imprescindibile requisito del diploma di laurea, così come previsto dalla disciplina di rango primario vigente all’atto del conferimento dell’incarico medesimo, nel giugno 2013.
Secondo la prospettazione della Procura Regionale, il possesso del titolo di studio della laurea, non solo era un requisito obbligatoriamente richiesto, ma emergeva in modo chiaro e puntuale dal complesso delle disposizioni normative regolanti la materia, circostanza che di per sé impediva il venir meno della gravità delle colpa.
A tale conclusione la Procura è pervenuta in considerazione dell'art. 110 del D.lgs. 267/2000, che prevede che la copertura dei posti di qualifica dirigenziale possa avvenire mediante contratto a tempo determinato “fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”, dell’art. 19 del D.Lgs. 165/2001 -divenuto applicabile a tutte le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.lgs. 165/2001 in forza dell’art. 40, comma 1, lett. f), del D.lgs. 150/2009-, che disciplina il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato e fa riferimento alla “particolare specificazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria”, e infine dell’art. 28 del D.Lgs. 165/2001 che, benché riferito alle nomine in ruolo dei dirigenti per le quali, appunto, è richiesto il diploma di laurea, è da considerarsi norma di generale applicazione, anche per ragioni di logica e coerenza del sistema.
Si tratterebbe di un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa da un lato e, dall’altro, della stessa Corte dei Conti, più volte intervenuta nella materia de qua anche in sede di controllo di legittimità (Sez. Centr. Contr. Leg. n. 31/2001, n. 3/2003) che in sede consultiva di controllo (a partire dalla Sez. Contr. Lombardia n. 31/2001) e ribadita anche dal Dipartimento della Funzione Pubblica fin dal 2008 (parere n. 35/2008).
La difesa del convenuto non ha formulato contestazioni circa le norme applicabili, al momento dell’adozione del decreto sindacale n. 11 del 18.06.2013, al conferimento di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 110 del TUEL -e, quindi, in relazione alla necessità del possesso del requisito della laurea-, tuttavia ha rappresentato che tale quadro normativo, in ogni caso farraginoso e di non semplice ricostruzione a causa della tecnica normativa del rinvio mobile, solo a partire dalla riforma del 2009 non poneva dubbi interpretativi circa i requisiti professionali e di studio necessari per il conferimento di incarichi dirigenziali.
In precedenza, infatti, la formulazione letterale dell’art. 19, comma 6, del D.lgs. 165/2001, elencando i requisiti possesso di laurea/esperienza in maniera disgiuntiva, consentiva di ritenere legittimo il conferimento di incarico anche a soggetti non in possesso del titolo di studio, ma in possesso di concreta esperienza di lavoro maturata presso pubbliche amministrazioni; solo dopo il d.lgs. 150/2009, il testo della disposizione è stato mutato in modo tale da non lasciare spazio a soluzioni ermeneutiche diverse circa la necessaria compresenza di entrambi i requisiti.
Osserva il Collegio che l’adozione da parte dell’odierno convenuto, all’epoca dei fatti Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di Verona, del decreto n. 11 del 18.06.2013 integra una condotta antigiuridica, essendo condivisibile la ricostruzione del quadro normativo applicabile alla fattispecie dedotta dalla Procura Regionale e, nella sostanza, condivisa anche dalla difesa del convenuto.
Come già ricordato,
in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs. 267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs. 29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs. 165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale) che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito culturale della formazione universitaria con il requisito professionale dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza.
Osserva a tal proposito il Collegio che
tale ultima disposizione, nel testo in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata “dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis, alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis, sussistere congiuntamente.
Come osservato, infatti, già prima dell’intervento del legislatore del 2009 dalla Sezione del controllo di legittimità su atti del Governo di questa Corte con la delibera n. 3/2003 del 09.01.2003, “
il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito. Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della responsabilità amministrativa.
In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da colpa grave.

Contrariamente, infatti, a quanto sostenuto dalla difesa del convenuto,
il decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune di Villafranca di Verona (art. 50, comma 10, TUEL: “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provincia”; Art. 109 TUEL: (Conferimento di funzioni dirigenziali) “1. Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, ai sensi dell'articolo 50, comma 10, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia (…)”; art, 12, comma 1, lett. c), del Regolamento secondo cui spetta al Sindaco “l’attribuzione e la definizione degli incarichi dirigenziali ai responsabili di area” e art. 60, comma 1, dello Statuto comunale: “(Incarichi dirigenziali) 1. L’atto del Sindaco di conferimento o revoca degli incarichi dirigenziali è adottato sentita la Giunta e il Direttore Generale, se nominato o il Segretario Generale.”).
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale, organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art. 48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale: D.G.C. n. 90 del 2013, cfr. doc. 16 allegato all’atto di citazione- la “copertura del posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni (incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico, attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di esclusiva pertinenza del Sindaco.

La difesa del ricorrente, poi, attribuisce al Segretario comunale, che con il suo comportamento reticente avrebbe omesso di rappresentare alla Giunta e al Sindaco l’esistenza di profili di illegittimità, l’aver indotto in errore gli organi politici, privando il Sindaco in particolare di “scegliere diversamente da come ha fatto” (pag. 18 comparsa).
Anche a prescindere dalla contraddittorietà dell’argomentazione difensiva, avendo lo stesso convenuto in precedenza sostenuto che la scelta del rag. Da. per l’attribuzione dell’incarico dirigenziale “si presentava sostanzialmente come obbligata” (pag. 10 comparsa) essendo quest’ultimo l’unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l’incarico,
nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro, è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di amministrazione attiva.
Risulta in atti che il segretario comunale di Villafranca di Verona abbia assolto al proprio compito di consulenza/assistenza, avendo rappresentato al Sindaco i profili di illegittimità del decreto di conferimento dell’incarico, sia per le vie brevi prima sia formalmente con PEC nei giorni immediatamente successivi all’adozione: la Procura ha prodotto, infatti, copia della comunicazione scritta che la medesima ha dichiarato di aver consegnato brevi manu al Sindaco e inviato tramite PEC.
La difesa del convenuto ha contestato la veridicità della circostanza, peraltro confermata dalla medesima Segretario in sede di audizione (doc. 33 Procura), producendo sub doc. 9 una nota (erroneamente qualificata come dichiarazione) a firma del Vice Segretario generale del Comune di Villafranca di Verona, dr. Bo., con la quale lo stesso trasmette al difensore un file di excel (non prodotto in atti) contenente l’elenco degli atti protocollati in arrivo nel periodo 21.06.2013-30.06.2010, evidenziando che con le chiavi di ricerca “sindaco” e “Fa.” non si producono risultati.
E’ di tutta evidenza che, anche al di là della considerazione per cui il file predetto, in assenza di iniziative processuali di parte convenuta diverse dalla prova testimoniale richiesta –inammissibile sia per l’omessa formulazione di specifici capitoli, ma anche irrilevante per le ragioni che seguiranno-, non avrebbe certo potuto essere acquisito d’ufficio agli atti del giudizio -con la conseguenza che la mera cognizione dell’ esistenza di un file non consente di valutarne il contenuto- e anche a voler superare ogni questione in merito alla natura e alla capacità probatoria di un file in assenza di forme di certificazione circa la sua completezza, autenticità ed effettiva corrispondenza con i dati del server (se il protocollo è elettronico) ovvero dei registri (se il protocollo è cartaceo) del Comune, l’estratto del protocollo generale dell’ente dal quale non risulta l’avvenuta protocollazione di una comunicazione, potrebbe unicamente attestare, appunto, che al protocollo generale non risulta acquisito un documento, ma non può escludere, in assoluto, che tale documento esista o sia stato consegnato al destinatario.
E ciò a maggior ragione se si considera che il documento allegato dal Segretario al proprio esposto (doc. 1 Procura) porta un numero del protocollo riservato (il n. 89 del 2013: il relativo registro –non prodotto né offerto in produzione- è conservato nell’Ufficio del Segretario, come risulta dalla dichiarazione resa dalla d.ssa Sa. in sede di audizione), circostanza che di certo spiega l’assenza di numero di protocollo generale e che non è stata oggetto di contestazione alcuna da parte della difesa del convenuto.
Del resto, la stessa Sa. ha espressamente confermato in audizione di aver, dapprima, rappresentato verbalmente l’illegittimità dell’atto e di aver, poi, consegnato la nota scritta brevi manu ed infine di averla trasmessa anche tramite PEC.
In tale sede, peraltro, la medesima Segretario ha dichiarato anche che nei colloqui intercorsi con il convenuto, quest’ultimo è apparso a conoscenza del fatto che il rag. Da. non avrebbe potuto rivestire l’incarico dirigenziale per difetto del titolo di studio, tant’è che oggetto di discussione era la possibilità di conferire detto incarico ad altro dipendente comunale in possesso di laurea, il dr. Gr., che seguiva le questioni relative alla programmazione di competenza del settore finanziario e di aver appreso dell’incarico solo successivamente al conferimento, essendole stata consegnata una copia del relativo decreto sindacale.
A fronte di tali evidenze probatorie, ampiamente circostanziate e non incise dalle produzioni documentali della difesa, non sembra che possa fondatamente ritenersi che via siano state condotte omissive imputabili al Segretario utili a escludere o ridurre la responsabilità del Sindaco.
Quanto, poi, al ruolo del Segretario comunale in relazione alla citata delibera della Giunta comunale che ha approvato il piano occupazionale 2013 (che, peraltro, come si è visto, non è causativa di danno alcuno), la mera sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
Priva di giuridico pregio appare, infine, l’argomentazione difensiva secondo cui il Sindaco, organo politico, non sarebbe per ciò tenuto, nell’esercizio delle sue funzioni e nell’adozione degli atti propri –quelli, cioè, per i quali è titolare di competenza esclusiva quale quello di cui si tratta-, alla conoscenza delle norme, dovendo provvedervi in sua vece gli uffici tecnici, invocando all’uopo la giurisprudenza di questa Corte in punto di esimente politica.
La disposizione normativa invocata dal ricorrente, infatti, (art. 1, comma 1-ter, della L. n. 20/1994), prevedendo che la responsabilità dei componenti di un organo politico viene meno quando essi abbiano in buona fede autorizzato o approvato atti di competenza di organi tecnici o amministrativi, non tutela sempre e comunque, come sembra pretendere l’appellante, il soggetto politico in quanto tale, ma si limita a prevedere la sua irresponsabilità nelle sole ipotesi in cui esso abbia fatto affidamento sull’attività gestoria svolta dai dipendenti amministrativi della quale non abbia potuto apprezzare, per la peculiarità dei relativi contenuti, il carattere potenzialmente lesivo.
Come ha invero correttamente osservato la Corte territoriale, la richiamata norma si limita ad attuare il principio di separazione tra politica e gestione amministrativa, più volte affermato dal legislatore (art. 3 d.lgs. n. 29/1993, art. 4 d.lgs. n. 165/2001, art. 107 del d.lgs. n. 267/2000) ed in forza del quale i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo delle amministrazioni pubbliche, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita mediante poteri autonomi ai dirigenti, Ne segue che tale norma non consente di ancorare sic et simpliciter l’irresponsabilità del soggetto politico al particolare ruolo istituzionale che lo diversifica dai dirigenti, dovendosi detta disposizione considerare inoperante quando il soggetto stesso abbia direttamente compiuto, nell’ambito delle sue competenze, atti causativi di danno erariale
” (Sez. III App., 432/2016).
Ed è, appunto, questo il caso che ci aggrava: come già ricordato più sopra,
il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune di Villafranca di Verona con il pagamento di competenze retributive ad un soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura dell’incarico illegittimamente conferito.
Venendo ad esaminare il terzo elemento costitutivo della responsabilità erariale, l’avvenuta causazione di un danno risarcibile, il Collegio osserva che, come peraltro correttamente rappresentato dalla Procura attrice,
l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta, come peraltro ormai acquisito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. Veneto sent. n. 107/2015; Sez. Sicilia n. 55/2014; Sez. Lombardia n. 280/2013; Sez. Toscana n. 433/2011; Sez. Sardegna n. 1246/2009; Sez. Piemonte n. 24/2009 per citare, ex multis, alcune tra le più recenti e, da ultimo, Sez. Campania n. 129/2017).
Alla luce di tali consolidati orientamenti, corretto appare, quindi, il criterio di quantificazione del danno utilizzato dalla Procura e, cioè, la differenza fra le retribuzioni percepite dal Dalgal in dipendenza dall’incarico dirigenziale e quelle che gli sarebbero spettate qualora avesse ricevuto il riconoscimento di una posizione organizzativa quale funzionario di cat. D5 (questa sì, legittima e conforme alla normativa e alle disposizioni contrattuali applicabili ratione temporis: “ART. 8 - Area delle posizioni organizzative.
1. Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato:
   a) lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa;
   b) lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole universitarie e/o alla iscrizione ad albi professionali;
   c) lo svolgimento di attività di staff e/o di studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza.
2. Tali posizioni, che non coincidono necessariamente con quelle già retribuite con l’indennità di cui all’art. 37, comma 4, del CCNL del 06.07.1995, possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, sulla base e per effetto d’un incarico a termine conferito in conformità alle regole di cui all’art. 9
.” CCNL del 31.03.1999).
La difesa del convenuto contesta in nuce l’esistenza di un danno risarcibile rappresentando, al contrario, l’avvenuta realizzazione di una economia di spesa in quanto il posto avrebbe comunque dovuto essere coperto, con maggiori costi, con ricorso ad un dirigente esterno, argomentando in ordine alla necessaria copertura del posto con una figura dirigenziale non potendosi procedere ad accorpamenti di aree, ma nulla argomentando in merito alla possibilità di affidare la responsabilità dell’area ad un funzionario di cat. D mediante l’istituto della posizione organizzativa, contrattualmente previsto (ed applicabile al caso de quo), appunto oggetto di contestazione da parte della Procura Regionale.
In conclusione, sussistendone tutti i presupposti, deve essere dichiarata la responsabilità erariale del convenuto per i fatti di cui è causa e lo stesso deve essere condannato al risarcimento del danno in favore del Comune di Villafranca di Verona.
Per le ragioni ampiamente più sopra esposte in merito alla solo presunta compartecipazione di soggetti terzi (Giunta comunale/Segretario Comunale) alla formazione della volontà sottostante al decreto di conferimento dell’incarico, ritiene il Collegio non ricorrere nemmeno i presupposti per l’applicazione del potere riduttivo, così come richiesto dalla difesa.
In conclusione, la domanda attorea deve essere accolta e il convenuto condannato al risarcimento in favore del Comune di Villafranca di Verona del danno complessivamente derivante dai fatti di cui è causa e quantificato in euro 78.120,00, somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre agli interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo.
Ai sensi dell’art. 31 del c.g.c. il convenuto va inoltre condannato al pagamento delle spese di giustizia, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto della Corte dei Conti, ogni diversa e/o contraria domanda od eccezione respinta, definitivamente pronunciando nel giudizio iscritto al n. 30799 del registro di segreteria promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di Fa.Ma.;
   - respinge l’eccezione preliminare di prescrizione;
   - in accoglimento della domanda avanzata dalla Procura Regionale condanna Fa.Ma. al risarcimento del danno nei confronti del Comune di Villafranca di Verona di euro 78.120,00 (settantottomilacentoventi/00), somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre interessi dalla data della sentenza fino al saldo effettivo (Corte dei Conti Veneto, sentenza 20.11.2019 n. 182).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi a contratto misurati. Non sono strumenti ordinari per coprire. Il Tar Calabria chiarisce la portata limitata del dlgs 267 (art. 110).
A giudizio del Tar, l’incarico è stato attribuito senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato.
Gli incarichi a contratto non sono uno strumento ordinario di copertura dei fabbisogni e possono essere assegnati esclusivamente nel caso di dimostrata assenza nell'organico di professionalità.

La sentenza 17.07.2019 n. 456 del TAR Calabria-Reggio Calabria chiarisce la portata limitata delle disposizioni dell'articolo 110 del dlgs 267/2000, evidenziando i corretti presupposti e condizioni per attivare gli incarichi a contratto. Il Tar ha annullato la deliberazione con la quale era stata decisa l'assunzione di un responsabile di servizio (in un comune privo di dirigenti) ai sensi dell'articolo 110 del Tuel (Testo unico enti locali), per violazione delle disposizioni normative, per altro ponendo le spese a carico del comune soccombente e trasmettendo il fascicolo alla procura della Corte dei conti.
A giudizio del Tar, l'incarico è stato attribuito «senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a ricoprire l'incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall'altro, che non ha assolto minimamente all'onere di esplicitare le ragioni per cui si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso».
Il comune ha violato le previsioni dell'art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001, norma da applicare obbligatoriamente insieme con l'art. 110 del Tuel. La difesa dell'ente locale aveva espresso la tesi secondo la quale i contratti di cui all'articolo 110 del Tuel non richiederebbero la previa, necessaria, valutazione circa l'esistenza di analoghe professionalità all'interno dell'ente, è stata respinta. Il Tar spiega che detta tesi «si scontra con la necessità di leggere la norma in discorso in connessione con gli artt. 19 comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001».
Proprio il comma 6 dell'art. 19 del dlgs 165/2001 impone di motivare gli incarichi a contratto a partire proprio dalla rilevazione dell'assenza irrimediabile di professionalità interne. Tale dimostrazione, spiega il Tar, è necessaria perché sia rispettato il principio di «autosufficienza» del personale, secondo il quale «ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale».
Il fondamento di tale principio, prosegue la sentenza, deriva non solo non solo «dal canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i principi di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa costituiscono attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni ente pubblico ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa organizzazione e con questo personale che l'ente deve attendere alle sue funzioni».
Da qui la fondamentale statuizione: utilizzare personale esterno alla dotazione organica è ammesso, ma entro limiti ristretti. Non solo occorre che gli incarichi a contratto si attivino nei limiti ed alle condizioni in cui la legge lo consenta, ma è necessario dimostrare che si tratti di un rimedio straordinario ad una carenza temporanea di professionalità. Infatti, afferma il Tar, «tutte le forme di esternalizzazione dell'attività pubblica quali le consulenze, le collaborazioni esterne, i contratti a tempo determinato, hanno la comune e generale funzione di acquisire professionalità qualitativamente e quantitativamente assenti nella pubblica amministrazione, oppure quella di sopperire ad esigenze eccezionali ed impreviste, di natura transitoria».
Di conseguenza gli incarichi ai sensi dell'art. 110 non solo debbono essere preceduti dalla dimostrata assenza di professionalità, non solo debbono essere affidati a persone dotati di una competenza estremamente peculiare e in possesso dei particolari requisiti imposti dall'art. 19, comma 6, dlgs 165/2001, ma debbono essere necessariamente connessi ad esigenze transitorie, alle quali porre rimedio in via definitiva con l'adeguamento della dotazione organica e, quindi, l'assunzione in ruolo delle professionalità mancanti, così da rispettare il principio di autosufficienza e non ripetere all'infinito il ricorso agli incarichi a contratto, trasformandoli surrettiziamente in strumenti di ordinaria copertura dei fabbisogni (articolo ItaliaOggi del 28.12.2019).
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SENTENZA
... per l'annullamento:
   - della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, pubblicata all’Albo Pretorio il 05.07.2016, con la quale è stata approvata la programmazione del fabbisogno di personale a tempo determinato;
   - del successivo Avviso pubblico del 12.07.2016 per l’assunzione di un funzionario tecnico categoria D3 ai sensi dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. 267/2000;
   - della deliberazione n. 27 del 12.08.2016, avente ad oggetto il conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai sensi dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. 267/2000.
...
1. Con il ricorso in epigrafe l’Architetto Gi.Ma. e l’Ingegnere Al.Ca., entrambi dipendenti a tempo indeterminato del Comune di Rosarno, chiedono l’annullamento della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, con la quale è stata approvata la programmazione del fabbisogno di personale a tempo determinato dell’ente per l’anno 2016, del successivo avviso pubblico del 12.07.2016 per l’assunzione di un funzionario tecnico categoria D3, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs 267/2000, nonché della deliberazione n. 27 del 12.08.2016 avente ad oggetto il conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs 267/2000.
2. Espongono in fatto i ricorrenti che, all’esito dell’approvazione (di cui alla Delibera del Commissario Prefettizio n. 35 del 27.08.2015) del nuovo organigramma dell’Ente, e dell’accorpamento (di cui alla successiva Delibera del Commissario Prefettizio n. 51 del 14.04.2016) delle due aree tecniche –“Lavori Pubblici” e “Urbanistica ed Edilizia”- in un’unica unità operativa complessa, gli stessi venivano privati della responsabilità di posizione organizzativa di cui godevano prima delle citate modifiche alla struttura burocratica del comune e che, all’esito delle elezioni amministrative del 2016, la nuova amministrazione insediatasi decideva di procedere, con i provvedimenti gravati, a reperire all’esterno il funzionario a cui affidare la direzione dell’area tecnica, con contratto a tempo determinato ex art. 110, comma 1, del TUEL.
3. Contro la detta decisione e contro i conseguenti provvedimenti di approvazione del bando di selezione e di conferimento dell’incarico al controinteressato sono perciò insorti i ricorrenti con il ricorso in epigrafe affidato, alle seguenti censure:
   3.1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. n. 267/2000.
L’amministrazione avrebbe omesso di considerare che, in seno alla struttura burocratica del comune, erano già in servizio gli odierni ricorrenti, sicché il provvedimento gravato sarebbe stato adottato in difetto della condizione normativa che consente di attivare i contratti a tempo determinato solo in assenza di analoghe professionalità, nei ruoli dell'Amministrazione.
Il provvedimento impugnato, per altro verso, violerebbe l’art. 9, comma 28, del D.L. 78/2010, il quale stabilisce che, a decorrere dall'anno 2011, le Amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici anche ad ordinamento autonomo, possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50% della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009.
   3.2. Violazione di legge e, in particolare, dell'art. 3 della legge n. 241/1990 per omessa e/o insufficiente motivazione del provvedimento.
Sarebbe evidente il vizio di motivazione del provvedimento gravato, che, in violazione anche dell’art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001, non rappresenterebbe né l’esigenza di una specifica qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, né le ragioni del ricorso all’incarico a contratto, invece che al concorso pubblico.
   3.3. Violazione del legittimo affidamento dei ricorrenti.
Si sostiene che i ricorrenti, in possesso dei requisiti professionali richiesti per l’espletamento dell’incarico, hanno visto del tutto disattesa la propria aspettativa di continuare a ricoprire la predetta posizione lavorativa. L’Amministrazione intimata avrebbe, infatti, leso il loro legittimo affidamento attraverso la decisione di assumere a tempo determinato un nuovo funzionario tecnico nonostante la presenza di analoghi profili professionali nei ruoli dell’Amministrazione.
...
5.1. Vanno preliminarmente scrutinate le eccezioni preliminari formulate dalla resistente amministrazione, che il Collegio giudica infondate.
Quanto alla eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata partecipazione dei ricorrenti alla procedura selettiva, in disparte ogni considerazione sul fatto che, seguendo la tesi della resistente amministrazione, l’architetto Ma., avrebbe dovuto, per continuare a coltivare il proprio interesse a ricorrere, partecipare ad una selezione per una qualifica già posseduta, appare evidente che il vulnus alle posizioni giuridiche di entrambi i ricorrenti si è perfezionato con la scelta dell’amministrazione di procedere a reperire all’esterno la professionalità a cui affidare la direzione dell’area tecnica.
In altri termini, la lesione della sfera giuridica dei ricorrenti era già compiuta al momento dell’indizione della procedura selettiva ex art. 110, co. 1, del TUEL e nessun rilievo può avere, ai fini del radicamento dell’interesse a ricorrere, la loro mancata partecipazione alla ridetta selezione, per altro evidentemente rivolta a selezionare all’esterno del personale dell’ente il soggetto a cui conferire l’incarico.
Il Collegio reputa altresì prive di fondamento le eccezioni di improcedibilità del ricorso legate ai successivi provvedimenti amministrativi adottati dall’ente (la proroga del contratto del controinteressato o addirittura i provvedimenti di riorganizzazione della struttura). Le descritte circostanze, in uno con quella relativa allo scadere del contratto di lavoro del controinteressato, anche se determinassero la cessazione degli effetti dei provvedimenti gravati, non potrebbero comunque considerarsi idonee a far venir meno l’interesse alla decisione dei ricorrenti che potrebbero, nei termini prescritti dall’art. 30, comma 5, del codice del processo amministrativo, attivare la tutela risarcitoria, come già ipotizzato in ricorso.
6. Nel merito, risultano, nei termini di cui si dirà, fondati ed assorbenti i primi due motivi di ricorso.
La tesi della resistente amministrazione secondo la quale i contratti ex 110, comma 1, del TUEL non richiedono la previa, necessaria, valutazione circa l’esistenza di analoghe professionalità all’interno dell’ente, si scontra con la necessità di leggere la norma in discorso in connessione con gli artt. 19 comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001, che, in disparte ogni altra considerazione, è resa ineludibile per tabulas dalla mera lettura dell’art. 88 del dlgs 267/2000 a mente del quale “All'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni, e le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni nonché quelle contenute nel presente testo unico.”
In altri termini,
la procedura finalizzata alla copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, mediante contratto a tempo determinato, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL, non può derogare dal rispetto delle prescrizioni dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, il quale fornisce due fondamentali e correlate indicazioni:
   - l’incarico può essere conferito a soggetti esterni a condizione che la correlata professionalità sia “non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione”; occorre, quindi, preliminarmente dimostrare, l’assenza totale nei ruoli dell’amministrazione di persone aventi la professionalità necessaria;
   - gli “incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione”, la quale è funzionale alla verifica della particolare e comprovata qualificazione professionale, richiesta ai funzionari da sottoporre a selezione, e della insussistenza di professionalità equivalenti all’interno dell’ente, anche ai fini del controllo della Corte dei Conti sugli atti di conferimento dei predetti incarichi
(Cass. civ. Sez. lavoro, sentenza 22.02.2017 n. 4621).
6.2. Tanto premesso,
il Collegio non può esimersi dal ricordare come sia un principio basilare del nostro ordinamento, da tempo unanimemente riconosciuto dalla giurisprudenza contabile, quello in virtù del quale ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale.
Detto principio trova in realtà il suo fondamento non solo nel canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i principi di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa costituiscono attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni ente pubblico ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa organizzazione e con questo personale che l'ente deve attendere alle sue funzioni.
La possibilità di ricorrere a personale esterno è ammessa nei limiti ed alle condizioni in cui la legge la preveda, stante che tutte le forme di esternalizzazione dell'attività pubblica quali le consulenze, le collaborazioni esterne, i contratti a tempo determinato, hanno la comune e generale funzione di acquisire professionalità qualitativamente e quantitativamente assenti nella pubblica amministrazione, oppure quella di sopperire ad esigenze eccezionali ed impreviste, di natura transitoria.
6.3. Tanto premesso,
nel caso di specie, dall’esame della documentazione versata in atti, risulta pacificamente, da un lato, che il Comune di Rosarno ha attivato la procedura di cui all’art. 110, comma 1, del TUEL senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a ricoprire l’incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall’altro, che non ha assolto minimamente all’onere di esplicitare le ragioni per cui si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso.
7. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati.

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE.

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGli incentivi ex art. 113, D.Lgs. n. 50/2016, hanno una funzione premiante di competenze e responsabilità legate inscindibilmente allo svolgimento di peculiari funzioni tecniche, nell'ambito di iter predeterminati e per risultati conseguiti. Si tratta, quindi, di un riconoscimento per attività puntuali svolte nell'ambito di appalti di servizi/forniture che, secondo le norme (comprese le direttive ANAC o il regolamento dell'ente) siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa in casi tassativamente previsti dalla legge.
E' poi compito dell'ente, nell'iter di adozione del preventivo ed obbligatorio regolamento, nell'ambito della propria autonomia, disciplinare criteri e modalità di svolgimento delle prestazioni.
L'applicabilità degli incentivi, nell'ambito dei contratti di affidamento di servizi e forniture è, quindi, contemplata soltanto "nel caso in cui sia nominato il direttore dell'esecuzione", inteso quale soggetto autonomo e diverso dal RUP. Tale figura interviene soltanto negli appalti di forniture o servizi di importo superiore a 500.000 €, ovvero di particolare complessità così come specificato al punto 10 delle Linee guida ANAC n. 3/2016, in attuazione dell'art. 31, comma 5, Codice, con delibera n. 1096/2016, per disciplinare in modo più dettagliato "Nomina, ruolo e compiti del RUP, per l'affidamento di appalti e concessioni", ed aggiornate con la delibera n. 1007/2017.
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Il Presidente pro-tempore del Consiglio regionale dell’Abruzzo ha chiesto a questa Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della Legge del 05.06.2003, n. 131, di rendere il proprio parere in merito alla corretta interpretazione dell’articolo 113, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 con riferimento alle funzioni del Responsabile unico del procedimento e del Direttore dell’esecuzione.
Il richiedente premette che l'articolo 31 del decreto in parola, rubricato "Ruolo e funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni", al comma 5, nel rinviare ad un regolamento la definizione di "una disciplina di maggiore dettaglio sui compiti specifici del RUP, sui presupposti e sulle modalità di nomina, nonché sugli ulteriori requisiti di professionalità rispetto a quanto disposto dal presente codice, in relazione alla complessità dei lavori" dispone che "con il medesimo regolamento di cui all'articolo 216, comma 27-octies, sono determinati, altresì, l'importo massimo e la tipologia dei lavori, servizi e forniture per i quali il RUP può coincidere con il progettista, con il direttore dei lavori o il direttore dell’esecuzione”.
Su quest'ultimo aspetto, le Linee guida n. 3 dell'ANAC, di attuazione del D.lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l'affidamento di appalti e concessioni» hanno così disciplinato: "10.1. Il responsabile del procedimento svolge, nei limiti delle proprie competenze professionali, anche le funzioni di progettista e direttore dell'esecuzione del contratto. Il direttore dell'esecuzione del contratto è soggetto diverso dal responsabile del procedimento nei seguenti casi:
   a. prestazioni di importo superiore a 500.000 euro;
   b. interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico;
   c. prestazioni che richiedono l'apporto di una pluralità di competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione, vigilanza, sociosanitario, supporto informatico);
   d. interventi caratterizzati dall'utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità
".
Il comma 2, del citato articolo 113, del d.lgs. n. 50 del 2016 dispone che: “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il Direttore dell'esecuzione”.
Alla luce di quanto sopra riportato, il Presidente pro tempore del Consiglio regionale dell’Abruzzo chiede delucidazioni in ordine alla corretta interpretazione della normativa in questione, attesa la sua incidenza sulla finanza pubblica, sulla possibilità di erogare incentivi nel caso di un ipotetico appalto di servizi o forniture di beni in cui non può essere nominato il Direttore dell’esecuzione, per mancanza dei richiamati presupposti, e le cui funzioni, nell’ambito della procedura di appalto e gestione del contratto di fornitura, saranno svolte, evidentemente dal RUP in ragione della generale attrazione.
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2. Nel merito il quesito riguarda l’ambito applicativo del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016 e s.m.i.) e, precisamente dell’art. 113.
Per quanto attiene al quesito sottoposto a questa Sezione, l’art. 113, nel dettare la disciplina dei nuovi “incentivi per funzioni tecniche”, stabilisce che: “Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti” (comma 1) e che “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti” (comma 2).
Il comma 2 si chiude con la chiara dizione che “La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”. Tale espressione non può essere interpretata estensivamente in quanto la norma deve intendersi di stretta interpretazione rispetto all’ordinaria normativa del lavoro pubblico.
Gli incentivi in materia hanno, infatti, una funzione premiante di competenze e responsabilità legate inscindibilmente allo svolgimento di peculiari funzioni tecniche, nell’ambito di iter predeterminati e per risultati conseguiti. Si tratta, quindi, di un riconoscimento per attività puntuali svolte nell’ambito di appalti di servizi o forniture che, secondo le norme (comprese le direttive ANAC o il regolamento dell’ente) siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa in casi tassativamente previsti dalla legge (in termini, Sezione delle autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6. In senso conforme: SRC Puglia parere 24.01.2017 n. 5 e parere 21.09.2017 n. 108; SRC Lombardia parere 16.11.2016 n. 333, SRC Lombardia parere 09.06.2017 n. 190, SRC Marche parere 08.06.2018 n. 28; SRC Veneto parere 27.11.2018 n. 455; SRC Lazio parere 06.07.2018 n. 57).
È, poi, compito dell’ente, nell’iter di adozione del preventivo ed obbligatorio regolamento ai sensi del comma 3 dell’art. 113 del d.lgs. 50/2016, nell’ambito della propria autonomia, disciplinare criteri e modalità di svolgimento delle prestazioni.
L’applicabilità degli incentivi, nell’ambito dei contratti di affidamento di servizi e forniture, è, quindi, contemplata soltanto “nel caso in cui sia nominato il direttore dell’esecuzione” (parte finale del comma 2, come modificata, in senso limitativo, dall’art. 76, comma 1, lett. b, del D.Lgs. n. 56/2017), inteso quale soggetto autonomo e diverso dal RUP.

Tale figura interviene soltanto negli appalti di forniture o servizi di importo superiore a 500.000 euro, ovvero di particolare complessità così come specificato al punto 10 delle citate Linee guida n. 3/2016, emanate dall’ANAC, in attuazione dell’art. 31, comma 5, Codice, con delibera n. 1096 del 26.10.2016, per disciplinare in modo più dettagliato “Nomina, ruolo e compiti del RUP, per l’affidamento di appalti e concessioni”, ed aggiornate con la delibera n. 1007 dell’11.10.2017 (SRC Lazio parere 06.07.2018 n. 57; SRC Veneto parere 21.05.2019 n. 107) (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 23.12.2019 n. 178).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHENiente incentivi per funzioni tecniche per le opere pubbliche realizzate a scomputo.
L'incentivo per funzioni tecniche previsto dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016 non può essere riconosciuto nel caso di opere pubbliche a scomputo realizzate in base all'articolo 16 del Testo unico edilizia, sia nel caso in cui si tratti di opere incluse nel raggio applicativo del codice degli appalti sia nel caso in cui si tratti di opere estranee a questa disciplina.

È quanto ha stabilito la Corte dei conti della Liguria con la parere 23.12.2019 n. 122 rispondendo a una specifica richiesta di parere, tra i molteplici che hanno interessato l'incentivo per le funzioni tecniche, che ha generato non poche difficoltà applicative e interpretative.
La questione specifica sottoposta riguarda la possibilità (e quindi legittimità) dell'inserimento, in un atto unilaterale d'obbligo relativo alla realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo, di una clausola finalizzata a imporre al privato il versamento degli oneri per compensare le funzioni tecniche del Rup, anche al fine di erogare l'incentivo pur se, a evidenza, questa fattispecie non determina l'espletamento di alcuna procedura di gara.
Le limitazioni agli incentivi tecnici
Per giungere alla conclusione indicata la Sezione ligure della magistratura contabile ha preliminarmente richiamato, effettuando un'utile ed efficace sintesi, le principali indicazioni giurisprudenziali in materia di riconoscimento dell'incentivo per funzioni tecniche.
Anzitutto, la Corte ha rammentato che le prestazioni incentivabili contenute nell'articolo 113 del Dlgs 50/2016 hanno natura rigorosamente tassativa e che si rende necessario adottare preventivamente un apposito regolamento con la sottoscrizione dell'accordo di contrattazione.
In aggiunta, ai fini dell'erogazione delle risorse, è, altresì, necessario l'effettivo svolgimento delle prestazioni a cui gli incentivi sono correlati, in modo da remunerare il concreto carico di responsabilità e di lavoro assunto dai dipendenti.
Ancora, è giustamente sottolineato che le risorse in questione possono essere riconosciute solamente in caso di contratti di appalto, con esclusione sia dei contratti di concessione, sia degli altri contratti di partenariato pubblico-privato.
In termini più specifici, poi, con riferimento alla disciplina recata dal codice dei contratti, la Corte ha ricordato come l'articolo 1 del Dlgs 50/2016 evidenzi che le disposizioni in materia di incentivi non si applicano, ai «soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di altro titolo abilitativo, che assumono in via diretta la realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 16, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001 n. 380 e dell'art. 28, comma 5, della legge 17.08.1942 n. 1150 ovvero che eseguono le relative opere in regime di convenzione».
Di conseguenza, con la medesima disposizione, il legislatore, da un lato, ha specificato che anche i lavori eseguiti dal privato che realizza opere a scomputo sono sottoposti alla disciplina del codice degli appalti e, dall'altro lato, ha escluso espressamente l'applicazione alle opere in questione degli incentivi per funzioni tecniche.
Come ben chiarito da altra Sezione regionale, del resto, lo stesso articolo 113 pone a carico della sola amministrazione la contabilizzazione, la gestione e l'onere finanziario degli incentivi, i quali devono essere attinti, comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, dall'apposito fondo a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti e, più precisamente, dal medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture.
A conclusioni diverse non può condurre la specifica ipotesi contemplata dall'articolo 16, comma 2-bis, Dpr 380/2001 che consente l'esecuzione diretta, a opera del titolare del permesso di costruire, delle opere funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, disponendo anche una eccezionale deroga all'applicazione delle disposizioni codicistiche in materia di affidamento di commesse pubbliche.
A corroborare ulteriormente questa conclusione ha rilevanza, infine, l'ulteriore preclusione costituita dall'assenza di una procedura di gara, che costituisce un presupposto fondamentale legato allo svolgimento di una procedura comparativa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.01.2020).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHESulle opere a scomputo niente incentivi ai tecnici della pubblica amministrazione.
Parere negativo della Corte dei Conti a un quesito di un comune della Liguria.
La Corte dei Conti sbarra la strada alla possibilità di poter mettere a carico dei privati l'incentivo interno a favore del Rup nel caso di opere a scomputo.
Il quesito in tal senso è stato formulato dal Comune ligure di Taggia (Imperia). Quesito sul quale è però arrivato il no dei giudici contabili, affidato al parere approvato con la parere 23.12.2019 n. 122, della sezione Liguria.
Più precisamente, il comune ha chiesto «se sia possibile inserire in un atto unilaterale d'obbligo relativo alla realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo ai sensi dell'art. 16, comma 2, d.p.r. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) una clausola che imponga al privato il versamento degli oneri per compensare le funzioni tecniche del Rup. In caso affermativo, l'ente chiede se possa essere erogato l'incentivo in caso di opere a scomputo non inserite nel piano triennale delle opere pubbliche e da realizzarsi senza l'espletamento di alcuna procedura di gara».
La risposta è negativa perché -spiegano i magistrati contabili- il legislatore «nella disposizione in cui assoggetta anche i lavori eseguiti dal privato che realizza opere a scomputo alla disciplina del codice degli appalti esclude espressamente l'applicazione alle opere in questione degli incentivi per funzioni tecniche».
L'articolo 113 del codice sugli incentivi a favore dei tecnici interni, infatti, «pone a carico della sola amministrazione la contabilizzazione, la gestione e l'onere finanziario degli incentivi» (articolo Edilizia e Territorio del 13.01.2020).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Va escluso l’incentivo nel caso di opere realizzate dal privato titolare del permesso di costruire a scomputo degli oneri di urbanizzazione.
L’art. 113 d.lgs. 50/2016 non trova applicazione in caso di opere pubbliche a scomputo realizzate ai sensi dell’art. 16 Testo Unico Edilizia, sia nel caso in cui si tratti di opere incluse nel raggio applicativo del codice degli appalti sia nel caso in cui si tratti di opere che estranee a tale disciplina.
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Con la nota in epigrafe, il Sindaco del Comune di Taggia (IM) formula i seguenti quesiti in materia di incentivi per funzioni tecniche:
   1) “se, in caso di stipula, tra il Comune ed un soggetto privato di un atto unilaterale d’obbligo per la realizzazione di opere pubbliche a scomputo, sia possibile e legittimo prevedere una clausola che imponga a carico del soggetto privato il versamento di oneri per retribuire le prestazioni professionali del RUP ex legge n. 109/1990 e successive modifiche ed integrazioni”;
   2) “nel caso in cui l’accollo dell’onere di cui sopra a carico del privato sia legittimo, si chiede di sapere se, in relazione a tali opere pubbliche a scomputo, non inserite nel piano triennale delle opere pubbliche e da realizzarsi senza espletamento di alcuna procedura di gara, possa essere riconosciuto al RUP l’incentivo previsto dalla legge n. 109/1990 e successive modifiche ed integrazioni”;
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3. Passando al merito della richiesta, il Comune chiede se sia possibile inserire in un atto unilaterale d’obbligo relativo alla realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo ai sensi dell’art 16, comma 2, d.p.r. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) una clausola che imponga al privato il versamento degli oneri per compensare le funzioni tecniche del RUP. In caso affermativo, l’ente chiede se possa essere erogato l’incentivo in caso di opere a scomputo non inserite nel piano triennale delle opere pubbliche e da realizzarsi senza l’espletamento di alcuna procedura di gara.
4. Preliminarmente, con riferimento ai presupposti ed alle condizioni per la corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche, si richiama la nutrita giurisprudenza esistente in materia, che ha sottolineato
la natura tassativa delle prestazioni incentivanti contemplate dall’art. 113 dlgs 50/2016, la necessità, ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate al fondo, della previa adozione del regolamento interno e della sottoscrizione dell’accordo di contrattazione (cfr., tra le tante, Sezione controllo Lombardia, parere 18.07.2019 n. 310, Sezione controllo Veneto parere 09.04.2019 n. 72 e parere 07.09.2016 n. 353, Sezione Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6 e deliberazione 09.01.2019 n. 2).
Ai fini dell’erogazione delle risorse, è, altresì, necessario l’effettivo svolgimento delle prestazioni a cui gli incentivi sono correlati, in modo da remunerare il concreto carico di responsabilità e di lavoro assunto dai dipendenti; la corresponsione dell’incentivo è disposta, ai sensi del comma 3 dell’art. 113, dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai dipendenti (Sezione controllo Lombardia parere 18.07.2019 n. 310, Sezione controllo Lazio parere 06.07.2018 n. 57). Le risorse in esame, infine, possono essere riconosciute solamente in caso di contratti di appalto, con esclusione sia dei contratti di concessione (Sezione delle Autonomie deliberazione 25.06.2019 n. 15) sia degli altri contratti di partenariato pubblico-privato (Sezione controllo Lombardia
parere 21.11.2019 n. 429).
5. Così richiamato sinteticamente il quadro normativo e giurisprudenziale in materia, la soluzione del quesito posto dall’ente in merito alla legittimità di una clausola inserita in un atto unilaterale d’obbligo che ponga a carico del privato gli oneri per gli incentivi in esame, implica, in via logicamente preliminare, la verifica dell’applicabilità della previsione di cui all’ art. 113 d.lgs. 50/2016 alle opere realizzate dal privato a scomputo degli oneri di urbanizzazione ex art 16, comma 2, d.p.r. 380/2001.
Sotto tale profilo, l’art. 1 dlgs 50/2016, che definisce l’oggetto e l’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici, sancisce, al comma 3, che le disposizioni di cui all’art. 113 non si applicano, tra gli altri, ai soggetti di cui al comma 2, lett. e), del medesimo articolo, ossia ai “soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di altro titolo abilitativo, che assumono in via diretta la realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 16, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001 n. 380 e dell’art. 28, comma 5, della legge 17.08.1942 n. 1150 ovvero che eseguono le relative opere in regime di convenzione”.
Il legislatore, quindi, nella medesima disposizione in cui assoggetta anche i lavori eseguiti dal privato che realizza opere a scomputo alla disciplina del codice degli appalti (in quanto sussumibile nella categoria degli “altri soggetti aggiudicatori” di cui all’art. 3, lett. g), del medesimo decreto), esclude espressamente l’applicazione alle opere in questione degli incentivi per funzioni tecniche.
L’art. 113, infatti, pone a carico della sola amministrazione la contabilizzazione, la gestione e l’onere finanziario degli incentivi. “Essi devono essere attinti, comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, dall’apposito fondo a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti e, più precisamente, dal medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture, salvo non siano in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dal pubblico dipendenti” (Sezione controllo Veneto parere 21.06.2018 n. 198).
Questa Corte si è già pronunciata in merito alla compatibilità degli incentivi in parola con le opere realizzate dal titolare del permesso di costruire a scomputo degli oneri di urbanizzazione, concludendo per la non applicabilità dell’art. 113 al caso di specie.
La disposizione da ultimo citata, infatti, indica “chiaramente che per la costituzione del fondo incentivante ci debbano essere ‘stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori’ nel bilancio dell’ente locale-stazione appaltante. Ne consegue che, poiché i lavori pubblici realizzati da parte di soggetti privati ex art. 1, comma 2, lett. e), d.lgs. n. 50/2016 non preventivano una spesa a carico dell’ente locale, non ricorre il presupposto per la costituzione del fondo incentivante. Dunque, alla luce del tenore letterale dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 , si deve concludere che gli incentivi per attività tecniche non possono essere riconosciuti in favore di dipendenti interni che svolgano attività di direzione lavori o di collaudo quando dette attività sono connesse a “lavori pubblici da realizzarsi da parte di soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di un altro titolo abilitativo, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso, ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dell'articolo 28, comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero eseguono le relative opere in regime di convenzione” (art. 1, comma 2, lett. e d.lgs. 50/2016)” (Sezione controllo Lombardia parere 05.07.2016 n. 184).
A diverse conclusioni non è possibile addivenire nell’ipotesi prevista dall’art 16, comma 2-bis, d.p.r. 380/2001 che consente l’esecuzione diretta, ad opera del titolare del permesso di costruire, delle opere funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio. La disposizione contiene una eccezionale deroga alla previsione dell’art. 1 dlgs 50/2016 ed all’applicazione delle disposizioni codicistiche in materia di affidamento di commesse pubbliche, sancendo che, nel caso in cui il valore complessivo delle opere sia inferiore alla soglia comunitaria, “il privato potrà avvalersi della deroga di cui all’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001 ed esclusivamente per quelle funzionali (Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale parere 24.12.2018 n. 2942).
In tale fattispecie, alle considerazioni sopra svolte, si aggiunge l’ulteriore preclusione costituita dall’assenza di una procedura di gara.
Siffatto principio è stato costantemente ribadito dalla giurisprudenza contabile, la quale ha osservato come
il tenore letterale della norma, che fa espresso riferimento all’importo dei lavori, servizi e forniture “posti a base di gara”, induca a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una procedura comparativa (cfr. Sezione controllo Lombardia parere 18.07.2019 n. 310, Sezione controllo Piemonte parere 19.03.2019 n. 25, Sezione controllo Veneto parere 11.10.2019 n. 301, Sezione controllo Liguria parere 21.12.2018 n. 136).
Conformemente alle coordinate normative e giurisprudenziali sopra richiamate,
la Sezione ritiene che l’art. 113 d.lgs. 50/2016 non trovi applicazione in caso di opere pubbliche a scomputo realizzate ai sensi dell’art. 16 Testo Unico Edilizia, sia nel caso in cui si tratti di opere incluse nel raggio applicativo del codice degli appalti sia nel caso in cui si tratti di opere che estranee a tale disciplina.
6. La risposta al secondo quesito è condizionata alla positiva risoluzione del primo, sicché può ritenersi assorbita dalle considerazioni sopra svolte (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 23.12.2019 n. 122).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 sono destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione.
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Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Inzago (MI) formula il seguente quesito: “se, nel caso in cui il disciplinare di gara relativo alla concessione di un servizio preveda che gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo 113 d.lgs. n. 50/2016, siano a carico dell'aggiudicatario della concessione e dunque dallo stesso finanziati, una volta che la relativa somma sia stata corrisposta dal privato aggiudicatario e, pertanto, la stessa sia entrata nella disponibilità e dunque nel patrimonio dell'Ente, questo possa erogarla ai dipendenti per le funzioni tecniche dagli stessi svolte".
Il Comune, pur prendendo atto del principio di diritto espresso dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione 25.06.2019 n. 15, che ha escluso gli incentivi tecnici per i contratti di concessione, ipotizza che dalla stessa deliberazione potrebbero emergere delle aperture in senso contrario laddove si legge che: "Si ipotizza (nel parere 21.06.2018 n. 198
Corte dei Conti Veneto ndr), inoltre, che nell'ambito della libertà contrattuale dell'Amministrazione potrebbe essere prevista, in sede di corrispettivo, una modalità di finanziamento degli oneri connessi, con soluzioni negoziali che pongano di fatto a carico del concessionario la quota di compenso incentivante da riconoscere al personale dell'Ente", senza che la Sezione muova rilievi di sorta a tale ipotesi.
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Il quesito sottoposto all’esame di questa Corte si riferisce sostanzialmente all’applicabilità degli incentivi tecnici di cui all'articolo 113 d.lgs. n. 50/2016 anche ai contratti di concessione. La questione è già stata decisa in sede di nomofilachia dalla Sezione delle Autonomie che, con la deliberazione 25.06.2019 n. 15, si è espressa nel senso che: «Alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione».
Né, d’altra parte, si può giungere a diversa conclusione partendo dall’ipotesi configurata nella richiesta di parere laddove si ritiene possibile “che il disciplinare di gara relativo alla concessione di un servizio preveda che gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo 113 d.lgs. n. 50/2016 siano a carico dell'aggiudicatario della concessione e dunque dallo stesso finanziati” e che “una volta che la relativa somma sia stata corrisposta dal privato aggiudicatario e, pertanto, la stessa sia entrata nella disponibilità e dunque nel patrimonio dell'Ente, questo possa erogarla ai dipendenti per le funzioni tecniche dagli stessi svolte”.
Tale prospettazione non è legittimamente configurabile, essendo chiaramente elusiva del disposto dell’art. 113 del d.lgs. 50/2016, che limita l’applicazione di detti incentivi ai contratti di appalto.
Va opportunamente soggiunto che ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, per effetto del d.lgs 165/2001, spetta il trattamento economico fondamentale e quello accessorio, se stabilito dal contratto collettivo nazionale o riconosciuto da specifiche disposizioni di legge (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 18.12.2019 n. 442).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHESul calcolo degli incentivi tecnici pesano anche le opzioni di proroga e rinnovo del contratto.
L'incentivo per funzioni tecniche (articolo 113 del codice dei contratti) finalizzato a compensare le varie funzioni inerenti la predisposizione dell'appalto e la fase esecutiva del contratto, deve essere erogato tenendo conto anche di eventuali opzioni di durata del contratto, quali proroghe e rinnovi, sempre che vengano attivate.
È la conclusione contenuta nel parere n. 472/2019 espresso dal Ministero delle Infrastrutture.
Il quesito
Un Comune ha rivolto al ministero un quesito a proposito della corretta modalità di determinazione ed erogazione dell'incentivo per funzioni tecniche alla centrale unica di committenza che, materialmente, ha espletato, per conto dell'ente, la procedura d'appalto.
Nel quesito si chiedeva, in particolare, se al fine di stabilire l'esatta misura dell'incentivo da erogare alla centrale di committenza l'importo da prendere in considerazione debba essere costituito dalla base d'asta "pura" oppure dall'importo complessivo contenente anche il costo di eventuali opzioni di durata del contratto quali le proroghe o rinnovi contrattuali.
La richiesta, quindi, teneva conto degli obblighi imposti dall'articolo 35 del codice dei contratti, comma 4, in cui si precisa che nell'ipotesi in cui l'appalto debba essere aggiudicato per una durata certa con possibilità, solo eventuali rimesse alla stazione appaltante, di prorogare o rinnovare il contratto per ulteriori periodi, il costo di tali "prosecuzioni" deve essere trasparente ovvero deve essere già indicato nel bando di gara/lettera di invito. Ciò con l'evidente fine di evitare che il Rup, attraverso un uso strumentale delle opzioni di prosecuzione possa violare le regole del sopra soglia comunitario ben più rigorose di quelle previste per il sotto soglia.
Il riscontro
Il Mit ha risposto positivamente affermando che nel calcolo degli incentivi (per un importo del 2%, massimo, sugli «stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture») la base di riferimento deve ritenersi comprensiva se previsti e se concretamente attivati del costo della proroga o del rinnovo.
In particolare, nel parere, premesso che «le amministrazioni aggiudicatrici possono sottoscrivere contratti o convenzioni con le Centrali di committenza di riferimento che prevedano modalità specifiche per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai dipendenti» si conferma l'erogabilità dell'incentivo anche per le opzioni. Il Mit ha puntualizzato che «l'incentivo ai sensi del comma 2 dell'art. 113 deve essere calcolato sull'importo posto a base di gara, eventualmente aumentato degli importi previsti dalle opzioni (rinnovi o proroghe). Ovviamente, la liquidazione aumentata degli importi relativi alle proroghe o rinnovi sarà consentita solo ove verrà attivata una delle predette opzioni».
La risposta è, ovviamente, condivisibile considerato che l'attività del direttore dell'esecuzione visto che il rinnovo e la proroga appare oggettivamente congeniale solo ai servizi ed alle forniture prosegue anche in caso di attuazione di queste appendici. Al contempo, e non deve essere sottovalutato, il Mit ha legittimato, oltre che l'opzione della proroga espressamente disciplinata nell'articolo 106 del codice dei contratti, al comma 11, anche l'opzione del rinnovo del contratto.
Il rinnovo del contratto, pacificamente ammesso in giurisprudenza, a condizione che risulti espressamente previsto negli atti di gara non ha una specifica disciplina nel codice dei contratti ma un unico riferimento risulta contenuto nel comma 4 dell'articolo 35 dove si dispone che «il calcolo del valore stimato di un appalto pubblico di lavori, servizi e forniture è basato sull'importo totale pagabile, al netto dell'Iva, valutato dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore. Il calcolo tiene conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di eventuali opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei documenti di gara».
Nei contratti di forniture e servizi, per poter erogare l'incentivo, così come previsto nelle linee guida Anac n. 4 e come confermato in modo unanime dalle sezioni della Corte dei conti, è imprescindibile la nomina di un direttore dell'esecuzione distinto dal Rup (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.12.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGli incentivi tecnici per la progettazione non si applicano al partenariato pubblico-privato.
Con il
parere 21.11.2019 n. 429, la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, ha escluso che il sistema degli incentivi tecnici per la progettazione, di cui al Dlgs 163/2006, si applichi alle operazioni di Partenariato Pubblico Privato.
Il quesito
Il caso in esame riguarda la richiesta di parere del Sindaco del comune di Arcore, il quale ha posto un quesito in merito alla corresponsione degli incentivi tecnici relativi all’attività di Rup, nel caso di Partenariato Pubblico Privato, in vigenza dell’ultrattività degli articoli 92 e 93, Dlgs 163/2006, per le opere realizzate prima dell’entrata in vigore del Dlgs 50/2016.
Le considerazioni della Corte
Preliminarmente, la Corte ha chiarito come la suddetta normativa abbia subito diverse evoluzioni e, pertanto, spetti alle singole Amministrazioni valutare, con particolare attenzione, quale sia la normativa applicabile rispetto alla specifica fattispecie.
In proposito, la Corte ha precisato che il legislatore del nuovo codice degli appalti ha scelto la strada dell’ultrattività della normativa per risolvere le questioni di diritto venutesi a porre con la sua emanazione, stabilendo che per tutte le procedure iniziate sotto il vigore del vecchio codice si continua ad applicare la precedente normativa. Infatti, ai sensi dell’art. 216, comma 1, le disposizioni introdotte dal Dlgs 50/2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo “Codice”, fatte salve disposizioni speciali di diverso tenore (Sez. Reg. controllo Lombardia parere 12.06.2017 n. 191).
La Corte ha richiamato la giurisprudenza della Sezione delle Autonomie, la quale ha chiarito che l’articolo 113, Dlgs 50/2016 è calibrato sui contratti di appalto e non tiene conto di quelle sostanziali differenze che caratterizzano i contratti di concessione. Analoghe considerazioni valgono per le norme che hanno disciplinato gli incentivi per la progettazione prima dell’emanazione del citato D.lgs. n. 50 del 2016, le quali, nelle loro diverse formulazioni, hanno sempre fatto riferimento, nell’individuare il parametro per stabilire la somma da destinare alla corresponsione degli incentivi, agli importi posti a base di gara per opere o lavori, facendo così esplicito riferimento ai contratti di appalto.
La stessa Sezione Lombardia, nel rimettere alla Sezione delle Autonomie in sede nomofilattica la questione degli incentivi nel caso di contratti di concessioni, ha sottolineato la intrinseca connessione degli incentivi, previsti dal vecchio codice, solamente con gli appalti di opere e lavori, essendo al tempo esclusi i casi di appalti per beni e servizi, poi introdotti dalla novella dell’articolo 113 del nuovo codice (deliberazione 14.03.2019 n. 96).
È evidente, quindi, che tale novella ha comportato una sostanziale estensione del campo di applicazione degli incentivi, senza, tuttavia, estenderli ai contratti di concessione. Se, dunque, secondo la normativa ora vigente, l’estensione agli appalti per beni e servizi non giova al riconoscimento dei contratti di concessioni come ambito incentivabile, tanto meno appare possibile che questo avvenga con riferimento alla normativa previgente che, come parametro alla base del calcolo delle somme erogabili si è riferita all’importo posto a base di gara solamente per opere e lavori.
Il principio enunciato dalla Sezione delle Autonomie, (che esclude l’applicazione degli incentivi alle concessioni, trova completa e totale applicazione non solo nell’ipotesi di concessione, ma anche nel caso in cui la questione attenga ad altre forme contrattuali come, per l’appunto, nel caso di forme di Partenariato Pubblico Privato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.12.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi per funzioni tecniche, tutte le regole nell'interpretazione della Corte dei Conti.
Gli incentivi per le funzioni tecniche possono essere corrisposti solamente se l'ente ha approvato il regolamento attuativo e ha dato corso alla contrattazione sulle modalità di ripartizione; per gli appalti di forniture e servizi essi possono essere corrisposti solamente se il direttore dell'esecuzione è un soggetto diverso dal responsabile unico del procedimento; l'appalto deve essere stato previsto nella programmazione e le somme da erogare ai dipendenti devono essere inserite, per la quota che si presume di corrispondere nel corso dell'anno, nel fondo per la contrattazione decentrata.

Sono queste le principali indicazioni dettate dalla Corte dei conti per l'applicazione delle previsioni contenute nell'articolo 113 del Dlgs 50/2016.
A queste indicazioni si devono aggiungere le prescrizioni dettate dalla Sezione autonomie della magistratura contabile che ha stabilito la possibilità di corrispondere questi incentivi anche per «appalti di manutenzione ordinaria e straordinaria di particolare complessità» (deliberazione 09.01.2019 n. 2) e che le somme destinate a questa incentivazione "maturate" tra il 18.04.2016 (data di entrata in vigore del decreto) e il 31.12.2017 (giorno precedente alla entrata in vigore delle modiche apportate dalla legge di bilancio 2018) entrano nel tetto del fondo (deliberazione 30.10.2019 n. 26).
Occorre premettere due indicazioni che le amministrazioni, sulla scorta delle previsioni legislative, e delle interpretazioni della Corte dei conti devono assumere come presupposti indefettibili.
In primo luogo, il legislatore subordina l'erogazione di questi compensi alla presenza di un appalto: senza il ricorso a questa procedura non è possibile l'incentivazione, per cui non possono ad esempio essere erogati questi compensi in caso di aggiudicazione mediante concessione. Nei Comuni senza dirigenti, i responsabili che beneficiano dell'erogazione di questo incentivo non possono disporne la liquidazione: in tal modo si viola infatti l'obbligo di astensione in presenza di un conflitto di interessi anche potenziale.
Perle Corte dei conti della Lombardia, parere 18.07.2019 n. 310, e del Piemonte, parere 19.03.2019 n. 25, una delle condizioni per la erogazione di questo incentivo è l'inserimento nello strumento di programmazione degli acquisti o delle opere pubbliche. Non possono, per il parere 08.05.2019 n. 39 dei giudici contabili piemontesi, essere remunerati con questo incentivo i componenti le commissioni di gara.
I giudici contabili umbri, parere 28.03.2019 n. 56, ritengono che queste risorse vadano inserite nel fondo per la contrattazione decentrata (aggiungiamo nella parte variabile sulla base delle previsioni del contratto 21.05.2018, articolo 67, comma 3, lettera c), dell'anno in cui sono maturati i presupposti che ne consentono la erogazione, quindi di norma si spalmano tra più esercizi.
Il loro ammontare, ci ricorda il parere 09.04.2019 n. 72 della Corte dei conti del Veneto, non deve superare per ogni beneficiario il 50% del trattamento economico annuo in godimento, che è dato dalla somma di quello fondamentale e di quello accessorio.
La stessa delibera ricorda che se il direttore dell'esecuzione coincide con il Rup, non si possono erogare questi compensi negli appalti di forniture e/o servizi.
Sempre i giudici contabili del Veneto, con la parere 11.10.2019 n. 301 hanno escluso la possibilità di erogare questo compenso per gli appalti di importo inferiore a 40.000 euro in quanto non si è dato corso ad un appalto in senso tecnico, ma ad una manifestazione di interesse (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.12.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIl sistema degli incentivi tecnici di cui al D.Lgs. n. 163/2006 non si applica alle operazioni di Partenariato Pubblico Privato.
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Con la nota sopra citata, il Sindaco del Comune di Arcore (MB) pone un quesito in merito alla corresponsione degli incentivi tecnici relativi all’attività di RUP nel caso di Partenariato Pubblico Privato in vigenza dell’ultrattività dell’art. 92 e 93 del D.Lgs. 163/2006 per le opere realizzate prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016.
In particolare, il Sindaco chiede se sia possibile applicare con riferimento alle norme del D.Lgs. 163/2006 le indicazioni recentemente tratteggiate dal giudice della nomofilachia con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15 nella quale la Sezione autonomie si è espressa negativamente rispetto alla possibilità di estendere la corresponsione degli incentivi tecnici previsti, ai sensi dell’art. 113 del D.Lgs. 50/2016, anche al caso delle concessioni.
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Con riferimento al quesito posto dal Comune di Arcore, giova preliminarmente ricostruire le questioni di diritto intertemporale venutesi a porre con l’emanazione del D.Lgs. 50/2016.
A questo proposito, come già ribadito più volte da questa sezione (da ultimo la
parere 10.10.2019 n. 385) il legislatore del 2016 si è fatto carico delle questioni e le ha risolte scegliendo l’opzione dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime previgente continui ad operare in relazione alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50 del 2016. Ai sensi dell’art. 216, comma 1, infatti, le disposizioni introdotte dal D.Lgs. n. 50 del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo “Codice”, fatto salve le disposizioni speciali e testuali di diverso tenore (Sez. Reg. controllo Lombardia parere 12.06.2017 n. 191).
Ne deriva che il D.Lgs. 50/2016 trova applicazione relativamente alle fattispecie inclusive degli incentivi tecnici maturati dopo la sua entrata in vigore.
In conclusione, e sulla base di questi principi, non è, perciò, inibito alla norma regolamentare sopravvenuta disciplinare, entro i limiti che si diranno, tali fattispecie pregresse, proprio perché riferite ad ambiti temporali ai quali il D.Lgs. 50/2016 non si applica per effetto della ridetta disposizione di diritto transitorio. Il regolamento dunque potrà disporre per la corresponsione degli incentivi maturati nel passato, ma solo in attuazione della normativa previgente, sulla base della sua ultrattività per la regolazione delle fattispecie pregresse (come disposto dall’art. 216 del D.Lgs. 50/2016) e nei limiti in cui rimette espressamente alla stessa normativa previgente la disciplina di quelle stesse fattispecie. Il regolamento sopravvenuto potrà dunque disciplinare le situazioni pregresse, con la ripartizione degli incentivi tecnici, nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri della normativa riferita alle fattispecie pregresse come sopra esplicitato. (Sez. Reg. controllo Liguria
parere 03.04.2019 n. 31).
Si deve, invece escludere “che lo stesso possa oggi disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non uniformi a quelli in vigore al momento dell’attività incentivabile” (Sez. reg. di controllo Piemonte
parere 09.12.2018 n. 135). Tanto premesso si tratta di verificare dunque quale era la normativa vigente all’epoca dei fatti a cui fa riferimento il Comune. D’altro canto, la normativa relativa agli incentivi tecnici per la progettazione ha subito diverse evoluzioni e pertanto spetta alla amministrazione valutare con particolare attenzione quale sia la normativa applicabile rispetto alla specifica fattispecie.
L’art. 92, c. 5, del D.Lgs. 163/2006 nella sua formulazione originaria prevedeva infatti che “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all’entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. Le quote parti della predetta somma corrispondenti a prestazioni che non sono svolte dai predetti dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri.”
Tale articolo venne poi abrogato e sostituito dalla Legge 201/2008 con la seguente formulazione: "Art. 13-bis. - (Fondi per la progettazione e l'innovazione). - 1. Dopo il comma 7 dell'articolo 93 del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, sono inseriti i seguenti:
   7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
   7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.

Premesso tutto ciò, il Sindaco del Comune di Arcore chiede se i contratti di PPP siano da considerare ambiti utili alla corresponsione degli incentivi di cui al D.Lgs. n. 163/2006, rappresentando anche che la Sezione delle Autonomie, con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15, si è espressa per l’applicazione degli incentivi ai contratti di appalto e non ai contratti di concessione, ma con riferimento ad una diversa normativa, ossia con riferimento all’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016.
Ebbene, è del tutto evidente che la Sezione delle Autonomie nella suddetta deliberazione si è pronunciata con riferimento ad una normativa diversa da quella riguardante il quesito del Comune di Arcore; tuttavia, le considerazioni effettuate dall’organo della nomofilachia appaiono estremamente utili per la risoluzione del quesito.
In particolare, la Sezione delle Autonomie afferma che, per una serie di ragioni esposte nel corso della trattazione e a cui si rinvia, “l’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 è calibrato sui contratti di appalto e non tiene conto di quelle sostanziali differenze che caratterizzano i contratti di concessione”.
Analoghe considerazioni valgono per le norme che hanno disciplinato gli incentivi per la progettazione prima dell’emanazione del D.Lgs. 50/2016, norme che, nelle diverse loro formulazioni, hanno sempre fatto riferimento, nell’individuare il parametro per stabilire la somma da destinare alla corresponsione degli incentivi, agli “importi posti a base di gara per opere o lavori”, facendo così esplicito riferimento ai contratti di appalto.
In questo senso questa stessa Sezione nella
deliberazione 14.03.2019 n. 96, nel rimettere alla Sezione autonomie in sede nomofilattica la questione degli incentivi ai sensi dell’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 nel caso di contratti di concessioni afferma tra l’altro “Rispetto alla normativa previgente (art. 93, comma 7-bis e seguenti del D.Lgs. 163/2006) la disposizione in esame (art. 113 D.Lgs. 50/2016) trova espressa applicazione non solo per gli appalti di lavori”, sottolineando così implicitamente la intrinseca connessione degli incentivi previsti dal D.Lgs. 163/2006 solamente con gli appalti di opere e lavori, essendo al tempo esclusi i casi di appalti per beni e servizi poi introdotti dalla novella dell’art. 113 del D.Lgs. 50/2016.
È evidente, quindi, che tale novella ha comportato una sostanziale estensione del campo di applicazione degli incentivi, senza, tuttavia, estenderli ai contratti di concessione. Se dunque secondo la normativa ora vigente l’estensione agli appalti per beni e servizi non giova al riconoscimento dei contratti di concessioni come ambito incentivabile, tanto meno appare possibile che questo avvenga con riferimento alla normativa previgente che, come parametro alla base del calcolo delle somme erogabili si è riferita all’importo posto a base di gara solamente “per opere e lavori”.
Giova tra l’altro, ricordare che questa stessa Sezione già con la
parere 18.07.2019 n. 311 ha avuto modo di affermare che il principio enunciato dalla Sezione delle Autonomie (che esclude l’applicazione degli incentivi alle concessioni) “trovi completa e totale applicazione non solo nell’ipotesi di concessione, ma anche nel caso in cui la questione attenga ad altre forme contrattuali come, per l’appunto, nel caso di forme di “Partenariato Pubblico Privato” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 21.11.2019 n. 429).
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Al riguardo si legga anche:
  
 Appalti: incentivi tecnici, le non condivisibili interpretazioni della Corte dei conti su concessioni e partenariati pubblico privati (16.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGli incentivi tecnici previsti dall’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso articolo, maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata in vigore dello stesso, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015, successivamente modificato dall’art. 23 del d.lgs. n. 75/2017, pur se la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi e forniture
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Con nota firma del sindaco pro tempore del comune di Civitanova Marche (MC), pervenuta via PEC in data 09.04.2019 per il tramite del Consiglio delle autonomie locali (CAL), il comune di Civitanova Marche ha avanzato a questa Corte una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003, nei seguenti termini “Voglia l’adita Corte…esprimere il proprio parere vincolante in merito alla possibilità e/o legittimità di erogazione degli incentivi per funzioni tecniche, nel caso in cui la relativa spesa sia stata in precedenza imputata ai capitoli afferenti alla realizzazione dei singoli lavori, servizi e/o forniture affidate, nel periodo temporale che va dall’entrata in vigore dell’art. 113 del Codice degli appalti (16.04.2016), fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del comma 5-bis dello stesso art. 113 (introdotto a far data dal 01.01.2018); se, conseguentemente, l’aver predeterminato la provvista dei predetti incentivi per funzioni tecniche nei quadri economici dei singoli appalti, collochino tali risorse economiche al di fuori dei capitoli di spesa del bilancio comunale destinati alle retribuzioni accessorie del personale, anche prima dell’espressa previsione di cui al comma 5-bis dell’art. 113”.
Al riguardo ha esposto quanto segue.
La richiesta di parere è stata avanzata al fine di individuare la corretta applicazione ed interpretazione dell’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, in materia di remunerazione delle funzioni tecniche svolte dal personale dipendente all’interno dell’ente pubblico, in relazione ai contratti di lavori, forniture e servizi affidati in appalto ed in particolare circa la corretta decorrenza ed applicazione del comma 5-bis (introdotto dall’art. 1, comma 526, della L. n. 205 del 2017) che ha modificato ed integrato lo stesso art. 113, nella parte in cui stabilisce che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
L’ente locale ha precisato che, pur essendo pacifico che siffatti emolumenti incentivanti siano esclusi dal fondo per il trattamento accessorio solo a decorrere dal 01.01.2018 (ovverosia dopo l’integrazione dell’art. 113 con il comma 5-bis approvato con legge 205/2017 e non anche per il periodo precedente) sorgerebbe il dubbio circa l’applicazione retroattiva della norma nel periodo precedente al 2018 (dall’entrata in vigore dell’art. 113 della L. n. 50/2016 e cioè a far data dal 19.04.2016) qualora l’Amministrazione abbia già inserito gli incentivi per funzioni tecniche riconosciuti al personale al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture appaltati.
Nel ricostruire la normativa in applicazione, il comune richiedente il parere ha rammentato che l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2017 (Codice dei contratti pubblici) rubricato “incentivi per funzioni tecniche” consente, previa adozione di un regolamento interno e della stipula di un accordo di contrattazione decentrato, di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche ed amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione e collaudo degli appalti di lavori, nonché a seguito delle integrazioni di cui all’art. 76 del D.Lgs. n. 56 del 2017 anche degli appalti di fornitura di beni e servizi.
Pur tuttavia l’Amministrazione comunale si è posta il problema della compatibilità di tale disposizione con all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015, sostituito dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017, il quale ha disposto che, dal 01.07.2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale di ciascuna delle amministrazioni pubbliche non potesse superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016.
L’istante non disconosce che la Sezione delle Autonomie di questa Corte, con deliberazione 26.04.2018 n. 6, ha precisato che, con l’introduzione del comma 5-bis citato, può evincersi che gli incentivi in questione non fanno carico ai capitoli di spesa del trattamento accessorio del personale, ma devono essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera e, quindi, fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto; per cui la separazione di tali emolumenti dai salari accessori del personale avverrà solo dal 01.01.2018. Tuttavia il chiarimento richiesto a questa Sezione concerne, come cennato, gli appalti eseguiti nel periodo 2016-2017, nel vigore dell’originaria formulazione dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, tenuto conto che l’imputazione degli incentivi tecnici in questione era già considerata nei singoli quadri economici degli appalti affidati.
...
Passando a trattare il merito della questione sottoposta al vaglio della Sezione, appare opportuno effettuare un sintetico excursus della normativa in applicazione.
I c.d. incentivi tecnici furono introdotti per la prima volta dall’art. 18 della L. n. 109/1994, allo scopo di compensare l’attività del personale delle pubbliche amministrazioni impegnato nelle attività di progettazione interna agli enti pubblici in funzione anche del risparmio conseguente ai minori costi conseguenti al mancato ricorso a professionalità esterne.
La disciplina degli emolumenti in questione è poi stata regolata dal d.lgs. 163/2006, art. 923, commi 5 e 6, per confluire successivamente nell’art. 93, commi 7 bis e seguenti dello stesso decreto legislativo, per essere quindi sostituita dall’attuale art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Sotto la vigenza di tale disciplina, la Sezione delle Autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24) ebbe ad affermare il principio che gli incentivi previsti dall’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 fossero da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015 (e successive modificazioni ed integrazioni introdotte dall’art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017). Questi, infatti, a differenza di quelli previsti dall’art. 113, comma 1, (dovuti per la progettazione) assumerebbero carattere di continuità e sarebbero dunque assimilabili al trattamento economico accessorio del personale in servizio.
Successivamente l’art. 113, comma 2, citato ha subìto un primo intervento legislativo ad opera del d.lgs. n. 56/2017 ed infine –per quel che interessa in questa sede– ad opera della L. n. 205/2017, il cui art. 1, comma 526, ha introdotto il comma 5-bis nell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, allo scopo di risolvere il problema interpretativo sorto intorno alla natura dell’incentivo stesso recita “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Sulla questione se detti incentivi fossero da ricomprendere nel vincolo dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015, sostituito dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017 –come correttamente non ha mancato di rammentare l’Amministrazione richiedente il parere- si è espressa la Sezione delle Autonomie con deliberazione 26.04.2018 n. 6, la quale ha espresso la massima che “gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
In altri termini è stato così superato il dubbio sulla natura di tali incentivi, che non sono più sottoposti al vincolo del trattamento accessorio che, invece, ha la sua fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto. Tanto dalla data dell’entrata in vigore della legge di bilancio 2018 (01.01.2018).
Con riferimento allo specifico quesito posto dal comune di Civitanova Marche, in relazione agli incentivi maturati nel periodo intertemporale in considerazione (anni 2016-2017) -e cioè se essi rientrino nei limiti di spesa del trattamento accessorio del personale- si riscontrano pronunce di segno opposto da parte delle Sezioni regionali di controllo.
Pertanto, in tale contrasto interpretativo, la questione, con deliberazione 16.05.2019 n. 30, è stata sottoposta al Presidente della Corte dei conti la relativa questione di massima, data l’esigenza di un’interpretazione uniforme della normativa citata.
La Sezione delle Autonomie ha emanato il proprio responso con deliberazione 30.10.2019 n. 26, con la quale ha espresso il proprio vincolante parere sulla questione sottopostagli.
Gli incentivi tecnici previsti dall’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso articolo, maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata in vigore dello stesso, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015, successivamente modificato dall’art. 23 del d.lgs. n. 75/2017, pur se la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi e forniture”.
Pertanto il comune di Civitanova Marche si atterrà al predetto principio di diritto che costituisce risposta al quesito posto con la richiesta di parere in epigrafe (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 15.11.2019 n. 129).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEGli incentivi tecnici maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata in vigore del D.lgs. n. 50/2016, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015, successivamente modificato dall’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017, anche se la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi e forniture.
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Il Sindaco della Città Metropolitana di Milano con la nota sopra indicata, dopo aver richiamato le disposizioni che hanno interessato gli incentivi tecnici previsti dal codice appalti e l’interpretazione che è stata adottata dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione 26.04.2018 n. 6) ha formulato il seguente quesito “si chiede a Codesta Sezione se l'intervenuto accantonamento degli incentivi di cui al citato art. 113 D.Lgs. 50/2016, anche se anteriori al 01/01/2018, sia da considerarsi o meno escluso dal computo della spesa per il personale e dai limiti del fondo produttività.”.
...
Tanto premesso, questa Sezione nell’adunanza del 19.06.2019, ha sospeso l’esame della richiesta di parere presentata dal Sindaco della Città Metropolitana, in quanto la Sezione della Corte dei Conti per le Marche, con deliberazione 16.05.2019 n. 30, per il medesimo quesito, aveva sottoposto all’esame del Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2009, n. 102, e dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, una questione di massima, al fine di stabilire se gli incentivi tecnici previsti dall’art. 113, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), maturati prima dell’entrata in vigore (01.01.2018) delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 536, della L. 27/12/2017 n. 205, vadano inclusi nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208, nel caso in cui la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi o forniture.
La Sezione delle autonomie si è pronunciata sulla suddetta questione con deliberazione 30.10.2019 n. 26, ed ha ritenuto che gli incentivi in argomento sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori, anche se la relativa provvista sia già stata determinata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi e forniture.
In particolare, la Sezione, in motivazione, nel procedere alla disamina delle precedenti pronunce riguardanti la tematica degli incentivi, rese dalla stessa Sezione delle autonomie (
delibera 13.11.2009 n. 16; deliberazione 06.04.2017 n. 7; deliberazione 10.10.2017 n. 24) e dalle Sezioni Riunite (deliberazione 04.10.2011 n. 51), ha evidenziato che “In sostanza, nelle pronunce della Sezione delle autonomie non è stata rinvenuta una specificità nei compensi previsti per le funzioni tecniche tale da far ritenere non applicabile il limite stabilito per i trattamenti accessori. Ciò anche in funzione della rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione, nonché per il fatto che tali emolumenti essendo erogabili anche per gli appalti di servizi e forniture, si configuravano, ai sensi delle disposizioni normative all’epoca vigenti, come spesa di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale)”.
Quanto alle modifiche apportate dalla legge n. 205/2017 all’art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016 n. 50, con l’introduzione del comma 5-bis dello stesso articolo “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”, la Sezione delle autonomie ha richiamato la propria deliberazione 26.04.2018 n. 6, con la quale, ha ritenuto che “L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale….Pertanto, il legislatore, con norma innovativa, contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale. Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017”.
A questo punto la Sezione, confermando la linea già adottata nella deliberazione 26.04.2018 n. 6, ossia la portata innovativa del suddetto comma 5-bis dell’art. 113, escludendo le caratteristiche di norma di interpretazione autentica, ed escludendo, di conseguenza, ogni possibile efficacia retroattiva della norma, ha enunciato il seguente principio di diritto «
Gli incentivi tecnici previsti dall’articolo 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso articolo, maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata in vigore dello stesso, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015, successivamente modificato dall’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017, pur se la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi e forniture».
La Sezione ha sottolineato che un’interpretazione tendente a superare la portata innovativa del comma 5-bis novellante l’art. 113 rischierebbe in definitiva “di contrastare, oltre che con specifiche disposizioni cristallizzate nel codice dei contratti disciplinanti le relazioni temporali tra azione amministrativa e leggi sopravvenute, altresì con i principi generali in materia di successione di leggi nel tempo e dei loro effetti”.
Questa Sezione regionale, in applicazione del sopra richiamato principio di diritto, espresso dalla Sezione delle autonomie, quale organo di nomofilachia, e in risposta al quesito afferma che
gli incentivi tecnici maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata in vigore del D.lgs. n. 50/2016, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015, successivamente modificato dall’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017, anche se la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi e forniture (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 08.11.2019 n. 424).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHECon il recente decreto 01.08.2019 è stato recentemente aggiornato, tra l’altro, il Principio contabile applicato n. 4/2 e chiarite le corrette modalità di iscrizione in bilancio degli incentivi di che trattasi.
Il Principio, nel ribadire come gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 del d.lgs. 50 del 2016, compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, debbano essere assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono -nel titolo II della spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture-
chiarisce che l’impegno deve essere registrato con imputazione all’esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio e tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 “Rimborsi e altre entrate correnti”, categoria 3059900 “Altre entrate correnti n.a.c.”, voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il personale (art. 113 del d.lgs. 50/2016).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale.
La copertura di tale spesa è costituita dall’accertamento di entrata di cui al periodo precedente, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa.

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Il Sindaco del Comune di Camponogara (VE) chiede se, alla luce dell’art. 113 del Decreto Legislativo n. 50 del 2016 disciplinante le modalità di iscrizione in bilancio e corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche, “sia legittima, sulla base della citata normativa e quindi non elusiva del principio di competenza potenziato, l'assunzione, nell'anno corrente, dell'impegno di spesa per gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'art. 113 del D.lgs. 50/2016 (quali Rup e di collaboratore tecnico), il cui regolamento è stato approvato nel corso del corrente anno, relativi alla realizzazione di un'opera pubblica:
   - la cui spesa complessiva è stata stanziata nell'anno 2018, il cui quadro economico prevede la spesa in argomento,
   - la procedura di gara si è conclusa nel 2018 con la relativa aggiudicazione,
   - l'impegno complessivo è avvenuto nel rispetto del principio di competenza potenziata, ossia tenendo conto della scadenza delle singoli obbligazioni connesse alla realizzazione dell'investimento
”.
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La questione degli incentivi per funzioni tecniche è stata ampiamente esaminata da questa Corte con numerose pronunce che si sono succedute nel tempo e non può che essere risolta sulla base del quadro normativo vigente.
In particolare, l’articolo 1, comma 526, della legge 205/2017 prevede che i suddetti incentivi facciano capo “al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”, secondo il principio dell’accessorietà rispetto alla spesa principale, della quale seguono l’iscrizione in bilancio.
La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Piemonte, con parere 19.03.2019 n. 25, ha chiarito come, nel rispetto del principio della competenza finanziaria potenziata sia rilevante, ai fini dell’assunzione dell’impegno, il momento di effettivo svolgimento dell’attività, ed è necessario che sia avvenuto l’accantonamento delle risorse, non potendosi impegnare nell’esercizio successivo risorse riferibili ad obbligazioni scadute in quanto di competenza dell’esercizio precedente.
Con specifico riferimento all’emanazione del regolamento, che costituisce presupposto per l’individuazione e la liquidazione di quanto dovuto, l’impegno deve essere effettuato, sempre in osservanza del principio della competenza potenziata, nell’esercizio in cui se ne prevede l’esigibilità.
La Sezione regionale di controllo per l’Umbria, con parere 28.03.2019 n. 56 ha chiarito come l’obbligazione dell’ente nei confronti del personale incentivato si costituisca nel momento in cui, con il relativo regolamento dell’amministrazione, vengono individuati i soggetti incaricati di svolgere le attività che, in base all’articolo 113 del Codice dei contratti pubblici, danno luogo alle incentivazioni ivi previste, in relazione ai singoli appalti di lavori, servizi e forniture.
In presenza di accantonamenti già effettuati nelle more di approvazione del regolamento, l’impegno di spesa dovrà essere assunto, a partire dalla data di entrata in vigore del regolamento, anche per attività svolte in precedenza, con l’unico limite di quelle relative ad appalti che si siano già conclusi prima dell’adozione del regolamento stesso (Cdc Lazio, parere 06.07.2018 n. 57).
Con il recente decreto 01.08.2019 è stato recentemente aggiornato, tra l’altro, il Principio contabile applicato n. 4/2, e chiarite le corrette modalità di iscrizione in bilancio degli incentivi di che trattasi.
Il Principio, nel ribadire come gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 del d.lgs. 50 del 2016, compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, debbano essere assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono -nel titolo II della spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture- chiarisce che l’impegno deve essere registrato con imputazione all’esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio e tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 “Rimborsi e altre entrate correnti”, categoria 3059900 “Altre entrate correnti n.a.c.”, voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il personale (art. 113 del d.lgs. 50/2016).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale.
La copertura di tale spesa è costituita dall’accertamento di entrata di cui al periodo precedente, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa (Corte dei Conti, Sez. controllo veneto, parere 07.11.2019 n. 319).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIn tema di incentivi tecnici di cui all’art. 113 del D.Lgs. 50/2016, ai sensi dell’art. 167, comma 4, lett. c), del medesimo Codice, non è possibile rinvenire, nel comma 5-bis dell’art. 113, il fondamento del legittimo riconoscimento dell’incentivo tecnico ai contratti di concessione, come forma di sostegno finanziario da parte della Stazione appaltante concedente.
In primis per la mancanza del requisito della “identità” del capitolo, non essendovi, nel caso di concessione, normalmente, costi di gestione a carico della stazione appaltante, sicché non sarebbe i rinvenibile la situazione evidenziata nel disposto normativo del richiamato comma.
In secondo luogo, in quanto l’art. 167 ha lo scopo di assicurare che nella determinazione dell’importo da mettere a base di gara la S.A. tenga conto, anche, delle forme di “vantaggio economico” comunque intese che si intende riconoscere all’aggiudicatario, al fine di assicurare effettività al principio della libera concorrenza ed ai corollari della non discriminazione e trasparenza nelle procedure di gara.
Infine, si ritiene che la presenza di forme di “ragionevole e proporzionata” contribuzione economica in favore del concessionario non avvicinano il contratto di concessione a quello d’appalto fino al punto di traslare il rischio operativo dal privato alla P.A.. La diversa natura fra i due Istituti rende inapplicabili alla concessione le norme di cui all’art. 113 in tema di incentivi tecnici.
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Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Trecate (No), dopo aver richiamato la disciplina relativa agli incentivi tecnici e l’evoluzione giurisprudenziale di questa Corte culminata nella pronuncia nomofilattica della Sezione delle Autonomie (deliberazione 25.06.2019 n. 15), ha chiesto a questa Sezione di esprimere “un’interpretazione in merito alla possibilità di prevedere la contabilizzazione degli incentivi in tutti i casi in cui, in correlazione ad un contratto di concessione, sia stato istituito un capitolo di spesa, quale costo iscritto a bilancio e correlato alla gestione del contratto medesimo ai sensi dell’art. 167, comma 4, lett. c), del D.Lgs. 50 del 2016 e s.m.i..
In caso di risposta affermativa, al fine di introdurre a regime tale previsione nel vigente regolamento comunale, di chiarire se a tali fattispecie contrattuali debbano essere applicati i criteri ed i principi enucleati dall’ANAC nelle Linee guida n. 3 paragrafo 10.2, approvate con Deliberazione n. 1096 del 26.10.2016 e richiamati dalla stessa Deliberazione della Sezione delle Autonomie n. 15 del 2019 dinanzi citata
.
...
La richiesta in esame attiene sostanzialmente all’esatta perimetrazione dell’ambito di applicazione dell’art. 113 del D.Lgs. 50 del 2016 e ss.mm.ii..
In particolare il Comune istante chiede se può ammettersi il riconoscimento del cd. incentivo tecnico, quale trattamento salariale accessorio in favore di alcune categorie di dipendenti che svolgono le funzioni tecniche descritte dalla medesima norma, anche all’ipotesi particolare delle concessioni nel caso in cui l’ordinario schema negoziale che prevede la remunerazione del concessionario esclusivamente a carico dell’utenza sia integrato dalla previsione di “pagamenti o qualsiasi vantaggio finanziario conferito al concessionario, in qualsivoglia forma, dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore o da altre amministrazioni pubbliche, incluse le compensazioni per l'assolvimento di un obbligo di servizio pubblico e le sovvenzioni pubbliche di investimento” (cfr. art. 167, comma 4, lettera c).
La soluzione del quesito proposto non può che muovere dalla recentissima pronuncia nomofilattica della Sezione delle Autonomie. Con la deliberazione 25.06.2019 n. 15, la Sezione de qua ha chiarito che “(..) per ritenere applicabile anche ai contratti di concessione gli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche si dovrebbe operare uno sforzo ermeneutico estensivo ed analogico tale da riscrivere, di fatto, il contenuto dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, che, come si è visto, è calibrato sui contratti di appalto (ai quali espressamente si riferisce) e non tiene conto di quelle sostanziali differenze che caratterizzano i contratti di concessione. Operazione, questa, che appare travalicare la competenza di chi è chiamato ad interpretare ed applicare le norme”.
Tale indirizzo ermeneutico è basato su considerazioni di ordine sistematico e testuale che, ad avviso di questa Sezione regionale, non possono essere superate dalle circostanze rappresentate dal Comune istante.
In particolare, si osserva, dal punto di vista sistematico, che il vigente codice dei contratti pubblici, in armonia con il diritto comunitario, ha compiutamente disciplinato i contratti di concessione chiarendone le differenze rispetto a quelli di appalto. [1: DIRETTIVA 2014/23/UE, combinato disposto dei considerando 18 e 68 della direttiva del parlamento Europeo e del Consiglio: “La caratteristica principale di una concessione, ossia il diritto di gestire un lavoro o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario di un rischio operativo di natura economica che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati e i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi aggiudicati in condizioni operative normali, e dove il concessionario assume responsabilità e rischi tradizionalmente assunti dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori e rientranti di norma nell’ambito di competenza di queste ultime”.]
Una prima differenza la si rinviene in punto di “oggetto” del contratto. Nelle definizioni di cui all’art. 3 del D.lgs. 50/2016, infatti, gli appalti pubblici hanno ad oggetto lavori, servizi o forniture, mentre le concessioni possono riguardare solo lavori o servizi. Un’ulteriore ed essenziale differenza risiede nell’allocazione del rischio di gestione.
Mentre ai sensi dell’art. 3, lett. ii), del Codice è previsto che il corrispettivo sia a carico della pubblica amministrazione beneficiaria della prestazione dedotta nel contratto d’appalto, nel caso della concessione, definita all’art. 3, lett. uu) e vv), al contrario, il carattere dell’onerosità è soddisfatto dalla previsione del diritto del concessionario di gestire l’opera o il servizio oggetto del contratto. Di guisa che l’alea del contratto, rappresentata dal cd. rischio operativo, ossia il rischio legato alla gestione dei lavori e dei servizi sul lato della domanda o dell’offerta, incomba sul concessionario (cfr. art. 3, lett. zz) D.lgs. 50/2016).
L’art. 165 del Codice è chiaro nell’affermare che nel caso della concessione “la maggior parte dei ricavi di gestione del concessionario proviene dalla vendita dei servizi resi al mercato. Tali contratti comportano il trasferimento al concessionario del rischio operativo definito dall'articolo 3, comma 1, lettera zz), riferito alla possibilità che, in condizioni operative normali, le variazioni relative ai costi e ai ricavi oggetto della concessione incidano sull'equilibrio del piano economico finanziario”.
L’incertezza per il concessionario di recuperare dall’utenza le spese e gli investimenti effettuati in esecuzione del contratto rappresenta, quindi, la causa giustificativa tipizzante della concessione pubblica da cui, conseguentemente, scaturiscono ulteriori elementi di differenziazione dall’appalto quali la natura ontologicamente plurisoggettiva e la struttura naturalmente trilaterale.
Secondo il consolidato orientamento della Giurisprudenza comunitaria ed amministrativa (cfr. Corte Giust., III, 10.03.2011, n. C- 274/2009; Corte Giust., II, 10.11.2011, n. C-348/10; Cons. St., V, 18.12.2015, n. 5745; Cons. St., VI, 04.09.2012, n. 4682; Cons. St., Ad. Pl., 27.07.2016, n. 22) la parte di rischio, derivante dal relativo sfruttamento economico dell’opera o del servizio, trasferita in capo al concessionario deve implicare una reale e concreta esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita subita non sia puramente teorica e quindi trascurabile in coerenza con la previsione dell’ultimo capoverso del comma 1 dell’art. 165 che testualmente dispone: “le variazioni devono essere, in ogni caso, in grado di incidere significativamente sul valore attuale netto dell'insieme degli investimenti, dei costi e dei ricavi del concessionario”.
La componente di “rischio cd. operativo” deve pertanto ricorrere sempre in concreto, ancorché, eventualmente, ridotta in ragione del riconoscimento in favore del concessionario di una forma di remunerazione, compensazione per l'assolvimento di un obbligo di servizio pubblico, sovvenzione pubblica di investimento e qualsiasi altra forma di vantaggio finanziario conferito al concessionario dall'amministrazione aggiudicatrice o da altre amministrazioni pubbliche (cfr. art. 167, comma 2, lett. c).
Tali forme di “sostegno”, se proporzionali alla finalità per cui sono riconosciute, non trasferiscono il rischio operativo dal concessionario alla p.a. concedente sicché non valgono a trasformare il contratto di concessione in appalto. Va da sé che la dosimetria di tali contribuzioni economiche rappresenta, indiscutibilmente, una valutazione delicata a cui è chiamata la stazione appaltante al fine di evitare indebiti arricchimenti dell’affidatario.
Il Legislatore pare, a tal riguardo, individuare parametri normativi a cui ancorare la valutazione della p.a. quando all’art. 165 (rubricato: “rischio ed equilibrio economico-finanziario nelle concessioni”) comma 2, nel premettere che “l'equilibrio economico finanziario definito all'articolo 3, comma 1, lettera fff), rappresenta il presupposto per la corretta allocazione dei rischi di cui al precedente comma 1”, afferma che “ai soli fini del raggiungimento del predetto equilibrio, in sede di gara l'amministrazione aggiudicatrice può stabilire anche un prezzo consistente in un contributo pubblico ovvero nella cessione di beni immobili. Il contributo, se funzionale al mantenimento dell'equilibrio economico-finanziario, può essere riconosciuto mediante diritti di godimento su beni immobili nella disponibilità dell'amministrazione aggiudicatrice la cui utilizzazione sia strumentale e tecnicamente connessa all'opera affidata in concessione. In ogni caso, l'eventuale riconoscimento del prezzo, sommato al valore di eventuali garanzie pubbliche o di ulteriori meccanismi di finanziamento a carico della pubblica amministrazione, non può essere superiore al quarantanove per cento del costo dell'investimento complessivo, comprensivo di eventuali oneri finanziari”.
In considerazione delle peculiari caratteristiche e differenze delle due tipologie di contratto il Legislatore ha inteso distinguere sotto molteplici aspetti le discipline a cominciare dalla collocazione in parti diverse del Codice. Da un punto di vista topografico, la seconda parte del Codice è dedicata agli appalti e contiene, tra l’altro la norma principale di riferimento degli incentivi per funzioni tecniche, l’art. 113, nella parte terza, invece, è inserita la disciplina delle concessioni.
Tale circostanza”, afferma la Sezione delle Autonomie nella richiamata deliberazione, “non è priva di rilievo, in quanto quando il Legislatore ha voluto ha specificatamente richiamato insieme le due tipologie contrattuali (v., ad es., art. 5, 6, 7, 17, 23, 30, 31), oppure ha genericamente fatto riferimento all’espressione -contratti pubblici- come categoria omnicomprensiva (v., ad es. art. 4, principi relativi all’affidamento di contratti pubblici esclusi)”.
Particolarmente significativa a tal proposito è la lettera dell’art. 164 che apre la parte terza del codice, dedicata alle concessioni, che al comma 2, individua le norme dettate in materia di appalto applicabili anche alle concessioni, ferma la previa verifica di compatibilità: “2. Alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II, del presente codice, relativamente ai principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione”.
Tale disposizione, ad avviso della Sezione delle Autonomie, non può indurre a ritenere che anche l’art. 113 sia applicabile ai contratti di concessione posto il richiamo a specifici e ben determinati aspetti della disciplina dettata in tema di appalti. Né a sostegno della possibilità di estendere tout court l’applicabilità degli incentivi tecnici alle concessioni può richiamarsi l’art. 31 che disciplina congiuntamente, sia per gli appalti che per le concessioni, la figura del Responsabile Unico del Procedimento.
Tale richiamo, ad avviso della Sezione delle Autonomie non è di per sé dirimente ed allo stesso modo non appare decisivo il riferimento contenuto nell’art. 102, il quale, al secondo periodo del comma 6, prevede che il compenso per l'attività di collaudo debba essere contenuto, per i dipendenti della stazione appaltante, nell'ambito dell'incentivo di cui all'articolo 113, (...)”. “L’art. 102 in discorso, infatti, pur riferendosi ai contratti pubblici in generale, pone attenzione a profili che caratterizzano i contratti per lavori e per forniture di beni e servizi e il rinvio all’art. 113 va letto in questa prospettiva”.
D’altro canto, il citato art. 113 è calibrato inequivocabilmente sulla tipologia dei contratti di appalto. Ed invero, come ricostruito dalla Sezione delle Autonomie:
   - “nel comma 1 si stabilisce che gli oneri per gli incentivi in questione “fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”;
   - nel comma 2 si istituisce un fondo “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1”, e le risorse finanziarie che lo alimentano (nella misura non superiore al 2%) sono “modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”;
   - nei commi 3 e 5 si fa riferimento all’acquisizione di lavori servizi e forniture;
   - il comma 5-bis, infine, sancisce che “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture (aggiunta dall'art. 1, comma 526, l. 27.12.2017, n. 205, a decorrere dal 01.01.2018)
”.
Come precisato dalla Sezione delle Autonomie con riferimento al sopra riportato comma 5-bis “i compensi incentivanti per chiara affermazione del legislatore costituiscono un ‘di cui’ delle spese per contratti appalto e non vi è alcun elemento ermeneutico che possa far ritenere estensibile le disposizioni dell’articolo in esame anche alle concessioni, non essendo normativamente previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture”.
E’ proprio su tale ultima considerazione che si è appuntata la richiesta di parere del Comune istante volta a chiarire se, nel caso in cui sia prevista la contabilizzazione su di un apposito capitolo di spesa delle forme di compensazione o remunerazione a sostegno del concessionario a carico della P.A. concedente, siano riconoscibili gli incentivi ex art. 113 venendo in rilievo l’esistenza di “un capitolo di spesa” su cui è imputato il “costo iscritto a bilancio e correlato alla gestione del contratto medesimo”.
Questa Sezione regionale, muovendo dalle considerazioni sopra espresse e dalla deliberazione 25.06.2019 n. 15 della Sezione delle Autonomie (cfr. anche Sezione controllo per la Lombardia parere 18.07.2019 n. 309), ritiene che anche allorquando sia prevista, ai sensi dell’art. 167, comma 4, lett. c), una forma di sostegno finanziario da parte della S.A. concedente, non sia possibile rinvenire nel richiamato comma 5-bis il fondamento del legittimo riconoscimento dell’incentivo tecnico ai contratti di concessione.
In primis per la mancanza del requisito della “identità” del capitolo, non essendovi, per il caso di concessione, normalmente, costi di gestione a carico della stazione appaltante sicché non sarebbe integrato il disposto normativo, di cui al citato comma 5-bis dell’art. 113, a mente del quale “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In secondo luogo occorre tener conto della ratio dell’art. 167 (rubricato come: “metodi di calcolo del valore stimato delle concessioni”) più volte richiamato e nello specifico del comma 4, lett. c). Quest’ultima disposizione ha il preciso e precipuo scopo di assicurare che nella determinazione dell’importo da mettere a base di gara la stazione appaltante tenga conto, anche, delle forme di “vantaggio economico” comunque intese che si intende riconoscere all’aggiudicatario, al fine di assicurare effettività al principio della libera concorrenza ed ai corollari della non discriminazione e trasparenza nelle procedure di gara.
Infine, come già osservato, la presenza di forme di “ragionevole e proporzionata” contribuzione economica (si pensi ad esempio a compensazioni attribuite a fronte degli obblighi di pubblico servizio) riconosciute al concessionario non avvicinano il contratto di concessione a quello d’appalto al punto tale da far traslare il rischio operativo dal privato alla Pubblica amministrazione. D’altronde se così fosse, perdendo la concessione la sua tipica essenza, finirebbe con l’immedesimarsi nell’appalto, legittimando un’applicazione diretta e non già un’interpretazione estensiva di tutte le disposizioni di cui alla II parte del codice, ivi compreso l’art. 113 in tema di incentivi tecnici.
In considerazione di quanto su esposto questa Sezione regionale ritiene che il principio di diritto enunciato dalla Sezione delle Autonomie trovi piena applicazione anche nell’ipotesi di un contratto di concessione in cui vi sia una sorta di “mitigazione” del rischio cd. operativo ma tale da non determinare un’alterazione del sinallagma e una sostanziale “conversione” del contratto di concessione in appalto.
La risposta negativa alla suddetta questione pregiudiziale, legata alla stessa possibilità di riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche in caso di contratti di concessione in cui sia prevista una forma di finanziamento a carico della stazione appaltante ai sensi dell’art. 167, comma 4, lett. c), comporta l’assorbimento del secondo e subordinato quesito posto dal Comune istante (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 17.10.2019 n. 110).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHENiente incentivi tecnici se l'affidamento dell'appalto è senza gara.
Non sono dovuti gli incentivi per le funzioni tecniche in caso di affidamento diretto di lavori, servizi e forniture né qualora il Rup svolga, com'è usuale, le funzioni di direttore dell'esecuzione.

Lo ha affermato la Corte dei conti del Veneto con la parere 11.10.2019 n. 301.
I quesiti
Due i quesiti posti in merito alla corretta applicazione della norma sugli incentivi per funzioni tecniche per appalti relativi a servizi e forniture di cui all'articolo 113 del codice dei contratti, che impegna ogni amministrazione aggiudicatrice a destinare a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 percento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti.
L'80 percento delle risorse è ripartito con le modalità e i criteri previsti dalla contrattazione decentrata integrativa, sulla base di apposito regolamento, tra il Rup, i soggetti che svolgono le funzioni tecniche e i loro collaboratori. Il restante 20 percento è destinato all'acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione.
Col primo quesito si chiede se l'incentivo è subordinato all'esperimento di una gara o di una procedura comparativa, posto che gli affidamenti di importo inferiore a 40mila euro possono avvenire in via diretta anche senza previa consultazione di due o più operatori economici. In questi casi si è infatti soliti pubblicare una richiesta di manifestazione d'interesse in base all'articolo 36, comma 2, lettera a), del codice, in esito alla quale vengono chiesti i preventivi ai soggetti che hanno manifestato l'interesse e, una volta valutati, si procede all'affidamento. In questi casi, chiede il sindaco, si configura una procedura comparativa che possa costituire presupposto per la costituzione del fondo e l'erogazione degli incentivi?
Il secondo quesito riguarda il fatto che l'articolo 113 del Codice subordina l'attribuzione dell'incentivo alla nomina del direttore dell'esecuzione. Poiché quel ruolo è svolto spesso dal Rup, si chiede se nel caso di coincidenza delle funzioni possano essere accantonate le relative risorse e distribuire l'incentivo.
Gli incentivi
La posizione della sezione Veneto è negativa per entrambi i quesiti. Ha ricordato innanzi tutto che gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa e, relativamente agli appalti relativi a servizi e forniture, solo nel caso in cui sia nominato il direttore dell'esecuzione. Circostanza, quest'ultima, che ricorre soltanto negli appalti di importo superiore a 500 mila euro ovvero di particolare complessità.
In mancanza di una procedura di gara, il comma 2 dell'articolo 113 non prevede l'accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione. Consegue che non è possibile riconoscere gli incentivi nei casi in cui il Codice preveda la possibilità di affidamento diretto. Così anche nel caso di coincidenza del Rup col direttore dell'esecuzione, posto che l'applicabilità degli incentivi è contemplata soltanto nel caso quest'ultimo sia soggetto autonomo e diverso dal primo e l'articolo 111, comma 2, del codice prevede la coincidenza dei due ruoli in capo al Rup, a meno che non si tratti di interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico, prestazioni che richiedono l'apporto di una pluralità di competenze, interventi caratterizzati dall'utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità, per ragioni concernenti l'organizzazione interna alla stazione appaltante che impongano il coinvolgimento di un'unità organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l'affidamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.11.2019).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEIncentivi ai tecnici senza l’Irap. Ordinanza (non convincente) della Cassazione.
Sull'erogazione degli incentivi per il personale addetto alle attività tecniche connesse agli appalti non deve gravare l'Irap, anche se il suo importo deve essere finanziato, e scorporato, dal fondo con cui si sostengono finanziariamente gli incentivi stessi.

L'ordinanza 13.08.2019 n. 21398 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro,  lascia ancora in piedi il garbuglio relativo all'Irap sugli incentivi tecnici, scatenato da anni a causa di disposizioni normative contraddittorie. Infatti, il legislatore, a partire dall'art. 18 della legge 109/1994 (modificato e interpretato autenticamente più volte), passando per l'art. 92 del dlgs 163/2006, ha spiegato con chiarezza le sorti dell'Irap, limitandosi a prevedere, nella norma del 2006 che la somma da mettere a disposizione per l'incentivo debba essere «comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione».
Contraddittorie le letture. Chi ha sostenuto che l'Irap fosse compresa negli oneri, contro chi, invece, ha osservato che la spesa per previdenza e assistenza, per legge da ripartire tra datore e lavoratore, sia ben diversa da quella per imposte che, nel caso dell'Irap, ricade solo sul datore di lavoro.
La sentenza della Cassazione giunge al termine di una vertenza apertasi molti anni fa, nel regime ancora della legge 109/1994, cagionata proprio dall'incertezza interpretativa, mai pienamente fugata dalla
deliberazione 30.06.2010 n. 33 della Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo. Innestandosi su di essa la Corte d'appello di Brescia sez. lavoro, con sentenza 12.05.2015 n. 147 (tratta da www.unaep.com), ha affermato che occorre individuare nell'ambito dei fondi destinati ad essere ripartiti tra il personale dell'avvocatura la quota da destinare a coprire gli oneri che gravano sull'ente a titolo di Irap; tale quota, quindi, è compresa nel fondo, ma va poi accantonata, rendendola indisponibile ai dipendenti.
Il che, spiega sempre la Corte d'appello di Brescia «comporta logicamente una riduzione delle somme distribuibili tra il personale dell'avvocatura, nel senso che potrà essere distribuito solo ciò che resta una volta scorporata la quota del fondo destinata a coprire l'Irap, ma tale logica conclusione non consente all'amministrazione di considerare il compenso spettante al lavoratore comprensivo dell'Irap, altrimenti si finisce per porre a carico del lavoratore l'imposta che è a carico dell'ente». Questa visione è, di fatto, quella considerata corretta dalla Cassazione.
In sostanza, è vietato il doppio scorporo: l'ente può, anzi deve, finanziare la quota Irap nell'ambito del finanziamento per l'incentivazione (oggi, nel massimo, l'80% del 2% degli importi a base di gara, ripartibile tra i dipendenti interessati) rendendola indisponibile e scorporandola dal fondo; ma, non può anche trattenere dall'incentivo effettivamente erogato al singolo dipendente la quota Irap. Una chiave di lettura, tuttavia, non del tutto convincente e non persuasiva.
Infatti, poiché l'Irap deve gravare solo sul datore di lavoro e visto che il fondo incentivante è comprensivo solo degli oneri previdenziali ed assistenziali (come confermato anche dall'articolo 113, comma 3, del dlgs 50/2016), non dovrebbe considerarsi consentito nessuno scorporo dell'Irap: né quello a valle, su quanto erogato al singolo dipendente; né quello a monte, sul fondo incentivante. L'Irap dovrebbe ricadere esclusivamente sul bilancio dell'ente (articolo ItaliaOggi del 22.11.2019).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROD.lgs. 09.04.2008, n. 81 - Testo coordinato con il D.Lgs. 03.08.2009, n. 106 - TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO (gennaio 2020 - tratto da www.ispettorato.gov.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pensionati incaricati di lavoro autonomo nella PA? Ma, lasciamoli riposare... (25.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTI: Appalti: stazioni appaltanti chiamate dal decreto fiscale a fare da "Agenzia delle entrate" (22.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La lotta ai furbetti del cartellino? Resta in mutande (21.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI: Province: la mesta fine di una riforma devastante quanto assurda (21.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: M. Lucca, DIA, trasformazione urbana e (ri)piantumazioni arboree (morte) (21.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
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La V Sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 17.01.2020 n. 429, chiarisce i limiti (disapplicazione) di una norma del regolamento edilizio nel caso di sostituzione di alberi preesistenti con altri dello stesso tipo, statuendo l’illegittimità dell’ordine di abbattimento (anche per incompetenza funzionale). (...continua).

ENTI LOCALI: M. Lucca, Erogazione di contributi pubblici, diversa destinazione e danno erariale (18.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
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Le Sezioni Un. Civ. della Cassazione, con l’ordinanza 07.01.2020, n. 111, intervengono per consolidare un orientamento che sottopone alla giurisdizione della Corte dei Conti, quelle condotte illecite di coloro che utilizzano l’erogazione di fondi pubblici, per scopi diversi da quelli della loro originaria destinazione. (...continua).

PATRIMONIO: M. Lucca, Questioni sull’affidamento diretto di un bene e responsabilità (16.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
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L’affidamento diretto di un bene pubblico –senza alcuna procedura comparativa– costituisce un’aperta violazione ai principi generali della contrattualistica pubblica che impongono da una parte, la redditività dei beni (con una conseguente entrata all’erario), dall’altra, una procedura aperta e trasparente (in piena aderenza alla disciplina comunitaria, deve intendersi «concorrenza»). (...continua).

PATRIMONIO: M. Lucca, Responsabilità erariale per l’assegnazione in comodato gratuito di beni pubblici (21.12.2019 - link a www.mauriziolucca.com).
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Nella gestione dei beni pubblici la regola base può essere riassunta nei principi elementari e comuni del buon andamento (ex art. 97 Cost. e art. 1 della Legge n. 241/1990), principi dell’evidenza pubblica e della necessaria utilità che dovrebbe percepire la P.A. nell’assegnare una risorsa pubblica ad un terzo. (...continua).

ATTI AMMINISTRATIVI: Trasparenza: misure burocratiche possono davvero fermare la corruzione? (17.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Sì al compenso dei dipendenti pubblici se componenti esterni di commissioni di concorso (15.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Trasparenza, ennesima puntata. La trasparenza è un valore, ma anche le sentenze della Consulta non scherzano (15.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Trasparenza. Dati patrimoniali dei dirigenti: quel che il populismo non vuol capire (14.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

PUBBLICO IMPIEGORedditi e patrimoni dei dirigenti pubblici restano "segreti"? Il travisamento delle sentenze e delle norme (13.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Trasparenza: obblighi sospesi solo per i dirigenti, non per i politici (13.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: M. Lucca, Libertà religiosa, pianificazione urbana e interesse pubblico prevalente (11.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
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La sez. IV del Cons. Stato, con la sentenza 05.12.2019 n. 8328, affronta gli effetti del mancato adempimento di una convenzione del diritto di superficie per la realizzazione di un centro religioso islamico, rilevando la prevalenza dell’interesse al culto rispetto all’inadempimento convenzionale, ove l’Amministrazione non disponga di una motivazione rafforzata sul bilanciamento degli interessi al corretto sviluppo territoriale e quello della libertà di culto. (...continua).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI: M. Lucca, Potere di ordinanza, custodia animali e regole di condotta sulle deiezioni liquide (08.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
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La Sez. I del TAR Emilia Romagna-Parma, con la sentenza 02.12.2019 n. 282, interviene per stabilire la legittimità di un atto dirigenziale che impone misure di natura pratica ai proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di cani, anche solo temporaneamente incaricati della loro custodia o conduzione, in relazione alle loro necessità essenziali di vita (c.d. deiezioni liquide), prevenendo l’asserito “pregiudizio igienico”. (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: Dati patrimoniali dei dirigenti pubblici: il buonsenso prevale sul voyeurismo (03.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTI: M. Lucca, Giurisdizione del rapporto negoziale con la P.A. (03.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
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Il TAR Puglia-Bari, con la sentenza 03.01.2020 n. 6, conferma il perimetro di competenza del Giudice Amministrativo prima della sottoscrizione del contratto; successivamente opera il Giudice Ordinario quando la controversia verta sul rapporto negoziale in assenza dell’esercizio di un potere pubblicistico di stampo autoritativo. (...continua).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Lucca, Istanza congiunta di accesso documentale e generalizzato (02.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
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La Sez. III del TAR Lombardia-Milano, con la sentenza 27.12.2019 n. 2750, chiarisce i contorni di un’istanza di accesso ai documenti, ben potendo coesistere –nella richiesta ostensiva– il diritto di accesso civico generalizzato (ex art. 5, comma 2, del D.lgs. n. 33/2013) e l’accesso documentale (ex art. 22 della Legge n. 241/1990). (...continua).

APPALTI: M. Lucca, Controversie (e forma) con la P.A. dopo la stipula del contratto (19.12.2019 - link a www.mauriziolucca.com).
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Le sez. Unite Civili della Corte di Cassazione, con l’ordinanza 13.12.2019 n. 32976, intervengono per riaffermare che le controversie relative alla fase successiva alla stipulazione del contratto di regola ricadono nella giurisdizione dell’A.G.O.: la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, cui spetta di conoscere dei diritti e degli obblighi che derivano dalla stipulazione del contratto con la P.A. (...continua).

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Bevilacqua, La dimensione territoriale dell’oblio in uno spazio globale e universale (18.12.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Abstract: L’interpretazione della dimensione territoriale del diritto all’oblio on-line genera importanti frizioni nella prassi di legislatori, autorità garanti della privacy e tribunali nazionali e internazionali. In seguito a una preliminare analisi della natura giuridica di questo emergente diritto fondamentale, orienteremo l’indagine sulle argomentazioni favorevoli e contrarie all’applicazione extraterritoriale dell’oblio. Per stabilire fino a che punto internet può dimenticare risulterà poi cruciale chiarire se in base al diritto internazionale pubblico questo spazio globale e universale può essere soggetto al tradizionale esercizio dell’autorità statale.
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Sommario: 1. Introduzione. - 2. L’evoluzione del diritto all’oblio on-line nelle fonti normative e negli sviluppi giurisprudenziali in materia di vita privata e protezione dei dati personali. - 2.1. Dai principi sulla qualità delle informazioni della Convenzione n. 108 al diritto all’autodeterminazione informativa derivante dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. - 2.2. Dal frammentato diritto alla deindicizzazione della Direttiva sul trattamento dei dati personali all’esplicito diritto all’oblio del Regolamento generale sulla protezione dei dati. - 3. L’ambito di applicazione territoriale del diritto all’oblio al bivio tra due opposte direzioni. - 3.1. Le argomentazioni in favore di una deindicizzazione circoscritta al territorio dell’Ue. - 3.2. La tendenza a una deindicizzazione extraterritoriale. - 4. Internet, la libertà dei mari e l’applicazione del diritto in spazi privi di confini. - 5. L’applicazione extraterritoriale del diritto all’oblio alla luce della prassi in materia di tutela internazionale dei diritti umani. - 6. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI: D. De Rada, La responsabilità civile in caso di mancato rispetto del GDPR. Privacy by default, privacy by design e accountability nell’ottica del Diritto Privato (18.12.2019 - tratto da www.federalismi.it).

PUBBLICO IMPIEGO: E. N. Fragale, Il reclutamento del personale pubblico: tra tradizione e innovazione (18.12.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premesse; 2. La prima tendenza: dalla politica verso l’amministrazione ovvero spoils system versus merit system; 3. La regola del concorso: tra amministrazione formale e amministrazione reale; 4. La seconda tendenza: verso l’esternalizzazione e la centralizzazione della funzione di reclutamento; 5. Note conclusive.

PATRIMONIO: M. Lucca, Concessionario uscente, diritto di prelazione e clausole concorsuali nell’affidamento di beni pubblici (26.10.2019 - link a www.mauriziolucca.com).
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Il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la sentenza 07.10.2019 n. 2106 conferma l’esigenza cogente, di matrice comunitaria, di procedere agli affidamenti in concessione di beni pubblici di rilevanza economica solo a seguito di un procedimento ad evidenza pubblica, ammettendo un “diritto di prelazione” in capo al precedente gestore, in relazione all’interesse dell’affidatario uscente di continuare un’attività (didattica) di rilevanza pubblica (ex art. 33 Cost., rientrante nei c.d. diritti di libertà, con il connesso principio pluralistico della libertà di scuola). (...continua).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGOPermessi studio art. 45 CCNL.
Domanda
Vorremmo dei chiarimenti sui permessi per diritto allo studio di cui all’art. 45 del CCNL Funzioni Locali del 21/05/2018.
In particolare, premesso che l’ente al momento non ha provveduto a regolamentare l’istituto con proprio atto interno, si chiede se tali congedi possano essere concessi al personale iscritto ad università telematiche e, in subordine, quale documentazione debba acquisire l’ente al fine di verificare il rispetto dei requisiti previsti dalla normativa.
Infine, si chiedono chiarimenti in merito ai criteri per la concessione nel caso in cui, in corso d’anno, il numero di domande ecceda il limite fissato dalla disposizione contrattuale.
Risposta
L’art. 45 del CCNL 21/05/2018 prevede in merito al diritto allo studio, la concessione di permessi straordinari retribuiti, nella misura massima di 150 ore annue, concessi per partecipare a corsi destinati al conseguimento di titoli di studio universitari, post universitari, di scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali o attestati professionali riconosciuti dall’ordinamento pubblico e per sostenere i relativi esami.
La disposizione in esame ricalca in larga parte quanto già sancito dal precedente art. 15 del CCNL 14.09.2000, pertanto si ritengono attualmente vigenti gli orientamenti applicativi forniti già dall’ARAN nonché dal Dipartimento della Funzione Pubblica.
Ciò posto, per quanto attiene la possibilità di riconoscere detti permessi a dipendenti iscritti a università telematiche, il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca con nota del 20.05.2009 n. 9/207/RET/R, aveva interpretato in senso favorevole l’utilizzo dei permessi sostenendo che “la ratio della norma vada nel senso di garantire il diritto allo studio e quindi le 150 ore debbano essere concesse anche agli studenti delle università telematiche”.
Tuttavia, al fine di evitare l’uso distorto dell’istituto, il Dipartimento della Funzione Pubblica, con Circolare n. 12/2011, pur confermando che non vi sono preclusioni alla fruizione dei permessi studio da parte dei dipendenti pubblici iscritti alle università telematiche, ha precisato che “la fruizione risulta subordinata alla presentazione della documentazione relativa all’iscrizione e agli esami sostenuti, nonché all’attestazione della partecipazione personale del dipendente alle lezioni. In quest’ultimo caso i dipendenti iscritti alle università telematiche dovranno certificare l’avvenuto collegamento all’università telematica durante l’orario di lavoro”.
L’ARAN si è attestata sul predetto orientamento, stabilendo tuttavia che l’attestato di partecipazione o frequenza assume un rilievo prioritario in quanto certifica sia la circostanza dell’effettiva presenza alle lezioni sia quella che le medesime lezioni si svolgono all’interno dell’orario di lavoro.
A tal fine, l’autocertificazione potrebbe ammettersi nei casi in cui la PA possa procurarsi direttamente, ex se, la certificazione necessaria; contrariamente sarà necessaria una attestazione da parte della stessa università, che certifichi che quel determinato dipendente ha seguito personalmente, effettivamente e direttamente le lezioni trasmesse in via telematica.
Per quanto attiene le modalità di concessione dei permessi, posto che si consiglia all’ente di approvare apposita regolamentazione, si osserva quanto segue:
   1. l’ARAN ritiene non vi siano preclusioni circa la sostituzione di un dipendente in corso d’anno, purché sia rispettato il tetto delle 150 ore. Pertanto, se un dipendente termina l’utilizzo a marzo, potrà cedere le ore residue per l’anno solare ad altro dipendente;
   2. ove non sia prevista alcuna regolamentazione, come regola generale prescritta dall’art. 45, qualora il numero delle domande presentate dai lavoratori superi il limite massimo del 3% del personale a tempo indeterminato in servizio all’inizio di ogni anno, l’attribuzione dei permessi avviene sulla base dei criteri di priorità indicati nei commi 6, 7 e 8 (23.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ufficio personale di questo ente pubblico economico (Settore Sanità) chiede quali siano gli attuali obblighi di pubblicazione degli incarichi, stipendi e redditi dei dirigenti alla luce delle recenti vicende (interventi Anac, Corte Costituzionale ecc…)?
La questione relativa agli obblighi di pubblicazione dei dati patrimoniali e reddituali dei dirigenti (art. 14, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33) ha visto degli sviluppi particolari che merita riepilogare.
Il D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 all'art. 14, comma 1-ter, dispone "Ciascun dirigente comunica all'amministrazione presso la quale presta servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, anche in relazione a quanto previsto dall'articolo 13, comma 1, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89. L'amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente".
L'autorità anticorruzione (ANAC) è intervenuta a chiarire nel tempo i contenuti prescrittivi delle disposizioni in materia con:
   - Del. 28.12.2016, n. 1310
   - Del. 08.03.2017, n. 241
   - Del. 12.04.del 2017, n. 382
La questione, attraverso il ricordo di dirigenti del Garante privacy è poi giunta al vaglio della Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20 "dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)".
A tale pronuncia, non del tutto esaustiva è seguita la Del. 26.06.2019, n. 586 dell’ANAC del la quale ha dato vita a polemiche ed a un nuovo ricorso (questa volta da parte di dirigenti del settore sanità) che ha portato alla sua sospensione con il provvedimento del TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent. 21.11.2019, n. 7579.
A questa ordinanza è seguito un nuovo Comunicato 04.12.2019 del Presidente ANAC circa gli effetti della sentenza e del citato complesso di disposizioni.
La situazione, che rischiava di creare problemi interpretativi e richieste di risarcimento di danni ha convinto il Governo ad inserire una disposizione nel "Decreto Milleproroghe 2020", all'art. 1, comma 7, D.L. 30.12.2019, n. 162 il quale dispone "Fino al 31.12.2020, nelle more dell'adozione dei provvedimenti di adeguamento alla sentenza della Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20, ai soggetti di cui all'articolo 14, comma 1-bis, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, non si applicano le misure di cui agli artt. 46 e 47 del medesimo decreto.
Conseguentemente, con regolamento da adottarsi entro il 31.12.2020, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23.08.1988, n. 400, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro della giustizia, il Ministro dell'interno, il Ministro dell'economia e delle finanze, il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale e il Ministro della difesa, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, sono individuati i dati di cui al comma 1 dell'articolo 14 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all'articolo 2-bis, comma 2, del medesimo decreto legislativo devono pubblicare con riferimento ai titolari amministrativi di vertice e di incarichi dirigenziali, comunque denominati, ivi comprese le posizioni organizzative ad essi equiparate, nel rispetto dei seguenti criteri:
   a) graduazione degli obblighi di pubblicazione dei dati di cui al comma 1, lettere a), b), c), ed e), dell'articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, in relazione al rilievo esterno dell'incarico svolto, al livello di potere gestionale e decisionale esercitato correlato all'esercizio della funzione dirigenziale;
   b) previsione che i dati di cui all'articolo 14, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, siano oggetto esclusivamente di comunicazione all'amministrazione di appartenenza;
   c) individuazione dei dirigenti dell'amministrazione dell'interno, degli affari esteri e della cooperazione internazionale, delle forze di polizia, delle forze armate e dell'amministrazione penitenziaria per i quali non sono pubblicati i dati di cui all'articolo 14 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, in ragione del pregiudizio alla sicurezza nazionale interna ed esterna e all'ordine e sicurezza pubblica, nonché in rapporto ai compiti svolti per la tutela delle istituzioni democratiche e di difesa dell'ordine e della sicurezza interna ed esterna
" di fatto sospendendo tutti gli obblighi di pubblicazione relativi.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 14 - Del. 08.03.2017, n. 241 dell’ANAC - Del. 12.04.2017, n. 382 dell’ANAC - Del. 26.06.2019, n. 586 dell’ANAC - Comunicato 04.12.2019 - D.L. 30.12.2019, n. 162, art. 1
Riferimenti di giurisprudenza
Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20
Documenti allegati
Del. 28.12.2016, n. 1310 dell’ANAC - TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent. 21.11.2019, n. 7579 (22.01.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTI SERVIZIVerifica aggiudicatario affidamento servizio assicurativo.
Domanda
Siamo un ente di piccole dimensioni, ed a breve dovremmo bandire una gara per il servizio di assicurazione obbligatoria per i veicoli del comune.
Come verificare i requisiti di idoneità e di capacità economico-finanziaria o tecnica-professionale previsti per la partecipazione ad una procedura come quella che verrà indetta? È possibile utilizzare il requisito del minor prezzo?
Risposta
Data la complessità della materia assicurativa si consiglia all’ente di affidarsi ad un broker, per la valutazione e gestione dei rischi attinenti alla specifica realtà comunale, per l’analisi delle polizze e predisposizione di adeguati capitolati, per l’assistenza nella redazione della documentazione di gara, sia con riferimento ai requisiti speciali da richiedere agli operatori, che nella scelta dei criteri di aggiudicazione. Servizio, tra l’altro, che non comporta oneri diretti per l’ente pubblico.
Passando nello specifico al quesito, per quanto riguarda la verifica dei requisiti di idoneità, intesa quale abilitazione all’esercizio dell’attività assicurativa relativa al ramo di rischio oggetto della procedura, è possibile accedere al sito dell’IVASS, ed in particolare alla sezione dedicata agli albi www.ivass.it/operatori/imprese/albi/index.html.
In merito ai requisiti speciali di capacità economico e/o tecnica, sono ritenuti di regola, quali elementi significativi nella selezione di un qualificato operatore economico:
   • una data quantificazione di una raccolta premi assicurativi complessiva nel ramo “RC Autoveicoli” nel precedente triennio finanziario;
   • l’esercizio, sempre nel precedente triennio finanziario, di servizi assicurativi analoghi a quello oggetto della procedura (rischio appunto RC Auto).
Per accertare la regolarità della dichiarazione resa in sede di gara con riferimento all’ammontare della raccolta premi
[1] in alternativa alla richiesta all’operatore economico è possibile accedere al sito di ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici), e prendere visione della pubblicazione “Premi del lavoro diretto italiano”.
Il secondo requisito andrà verificato mediante acquisizione d’ufficio di originale o copia conforme dei certificati rilasciati dall’amministrazione/ente pubblico contraente, con l’indicazione del tipo di polizza, effetto e scadenza della polizza e premio annuo lordo, o richiesta all’operatore aggiudicatario di analoghi documenti nel caso di committente privato.
Sulla scelta del criterio di aggiudicazione, si ritiene legittimo il minor prezzo, sia per importi infra 40.000 che superiori, ai sensi dell’art. 36, co. 9-bis, del codice, non rientrando, la prestazione in oggetto, tra quelle fattispecie descritte nell’art. 95, co. 3, del d.lgs. 50/2016.
Preme sottolineare l’opportunità di non prevedere l’esclusione automatica delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi del comma 2 e ss. dell’art. 97, del codice, stante l’interesse transfrontaliero che può presentare un servizio assicurativo.
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[1] La verifica va effettata per gruppo assicurativo di appartenenza (22.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIObblighi di pubblicità e trasparenza in materia di enti pubblici.
Domanda
L’articolo 22, del d.lgs. 33/2013, detta gli obblighi di pubblicità e trasparenza che hanno, anche i comuni, in materia di enti pubblici istituiti, vigilati o finanziati dall’amministrazione medesima.
I tre requisiti citati nella norma devono intendersi in modo cumulativo o alternativo?
Risposta
Il decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, all’articolo 22, disciplina gli “Obblighi di pubblicazione dei dati relativi agli enti pubblici vigilati, e agli enti di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in società di diritto privato".
L’Albero della Trasparenza – allegato “1” alla delibera ANAC n. 1310 del 28.12.2016 – prevede una specifica sottosezione di Livello 1, nel link Amministrazione trasparente, denominata “Enti controllati”, dove adempiere ai seguenti obblighi:

Comma 1
Tutti gli enti devono pubblicare, in formato tabellare aperto:
   a) l’elenco degli enti pubblici, comunque denominati, istituiti, vigilati o finanziati dall’amministrazione medesima, nonché di quelli per i quali l’amministrazione abbia il potere di nomina degli amministratori dell’ente, con l’elencazione delle funzioni attribuite e delle attività svolte in favore dell’amministrazione o delle attività di servizio pubblico affidate;
   b) l’elenco delle società di cui detiene direttamente quote di partecipazione anche minoritaria indicandone l’entità, con l’indicazione delle funzioni attribuite e delle attività svolte in favore dell’amministrazione o delle attività di servizio pubblico affidate;
   c) l’elenco degli enti di diritto privato, comunque denominati, in controllo dell’amministrazione, con l’indicazione delle funzioni attribuite e delle attività svolte in favore dell’amministrazione o delle attività di servizio pubblico affidate. Ai fini delle presenti disposizioni sono enti di diritto privato in controllo pubblico gli enti di diritto privato sottoposti a controllo da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti costituiti o vigilati da pubbliche amministrazioni nei quali siano a queste riconosciuti, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi;
   d) una o più rappresentazioni grafiche che evidenziano i rapporti tra l’amministrazione e gli enti;
   d-bis) i provvedimenti in materia di costituzione di società a partecipazione pubblica, acquisto di partecipazioni in società già costituite, gestione delle partecipazioni pubbliche, alienazione di partecipazioni sociali, quotazione di società a controllo pubblico in mercati regolamentati e razionalizzazione periodica delle partecipazioni pubbliche, previsti dal decreto legislativo adottato ai sensi dell’articolo 18 della legge 124/2015.

Comma 2
Per ciascuno degli enti di cui alle lettere da a) a c) del comma 1 sono pubblicati i dati relativi a:
   • ragione sociale;
   • misura della eventuale partecipazione dell’amministrazione;
   • durata dell’impegno;
   • onere complessivo a qualsiasi titolo gravante per l’anno sul bilancio dell’amministrazione;
   • numero dei rappresentanti dell’amministrazione negli organi di governo;
   • trattamento economico complessivo a ciascuno di essi spettante;
   • risultati di bilancio degli ultimi tre esercizi finanziari.
Devono essere pubblicati i dati relativi agli incarichi di amministratore dell’ente e il relativo trattamento economico complessivo.

Comma 3
Nel sito dell’amministrazione deve essere inserito il collegamento (tramite un apposito link) con i siti istituzionali dei soggetti di cui al comma 1.

Comma 4
Nel caso di mancata o incompleta pubblicazione dei dati relativi agli enti di cui al comma 1, è vietata l’erogazione in loro favore di somme a qualsivoglia titolo da parte dell’amministrazione interessata, ad esclusione dei pagamenti che le amministrazioni sono tenute ad erogare a fronte di obbligazioni contrattuali per prestazioni svolte in loro favore da parte di uno degli enti e società indicati nelle categorie di cui al comma 1, lettere da a) a c).

Comma 6
Le disposizioni dell’articolo 22 non trovano applicazione nei confronti delle società, partecipate da amministrazioni pubbliche, con azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione europea, e loro controllate.


Per gli enti che non provvedono alla pubblicazione dei dati su indicati o li pubblicano incompleti, l’articolo 47, comma 2, del decreto prevede una specifica sanzione amministrativa, a carico del responsabile della pubblicazione consistente nella decurtazione dal 30 al 60 per cento dell’indennità di risultato ovvero nella decurtazione dal 30 al 60 per cento dell’indennità accessoria percepita dal responsabile della trasparenza. La stessa sanzione si applica agli amministratori societari che non comunicano ai soci pubblici il proprio incarico ed il relativo compenso entro trenta giorni dal conferimento ovvero, per le indennità di risultato, entro trenta giorni dal percepimento
[1];
Delineato il quadro normativo complessivo in cui ci si muove, venendo alla questione specifica evidenziata nell’istanza, si risponde al quesito, specificando che i tre requisiti richiesti dall’art. 22, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 33/2013, ossia enti pubblici, comunque denominati, “istituiti”, “vigilati” e “finanziati” dalla amministrazione, sono da intendersi come alternativi e non cumulativi fra di loro. Ad esempio, i comuni dovranno provvedere alla pubblicazione dei dati relativi agli enti pubblici da loro vigilati, anche se gli stessi non risultino finanziati dalle amministrazioni
[2].
Per ciò che concerne, invece, gli obblighi di pubblicità e trasparenza delle società ed enti in controllo pubblico, occorre fare riferimento all’articolo 2-bis del d.lgs. 33/2013, nel testo introdotto dall’articolo 3, comma 2, del d.lgs. 97/2016. Con tale disposizione è stato ridisegnato l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina sulla trasparenza, rispetto alla precedente indicazione normativa, contenuta nell’abrogato articolo 11 del d.lgs. 33/2013.
I destinatari degli obblighi di trasparenza sono ora ricondotti a tre categorie di soggetti:
   1) pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2 del d.lgs. 165/2000, ivi comprese le autorità portuali nonché le autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione, destinatarie dirette della disciplina contenuta nel decreto (art. 2-bis, co. 1);
   2) enti pubblici economici, ordini professionali, società in controllo pubblico, associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato, sottoposti alla medesima disciplina prevista per le P.A. «in quanto compatibile» (art. 2-bis, co. 2);
   3) società a partecipazione pubblica, associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato soggetti alla medesima disciplina in materia di trasparenza prevista per le P.A. «in quanto compatibile» e «limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell’Unione europea» (art. 2-bis, co. 3)
[3].
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[1] Comma così sostituito dall’articolo 1, comma 163, della 27.12.2019, n. 160 (legge di stabilità 2020);
[2] Per ulteriori approfondimento: Linee guida ANAC, delib. n. 1310/2016, Paragrafo 5.4; FAQ Trasparenza 10.1.
[3] Per gli obblighi di pubblicità e trasparenza delle società ed enti in controllo pubblico si rinvia alla delib. ANAC n. 1134 dell’08/11/2017, recante: Nuove linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici
(21.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - VARI: Lanterne volanti.
Domanda
Nell’ambito di una cerimonia privata si ha l’intenzione di lanciare le cd “lanterne volanti”. È consentito? E se sì, sono necessarie delle autorizzazioni?
Risposta
La lanterna volante è un manufatto realizzato con un corpo di carta che avvolge una struttura rigida al cui interno vi è una fonte di calore. L’aria calda all’interno del corpo, avendo una densità minore rispetto all’esterno, fa innalzare la lanterna. Le lanterne in commercio rimangono in volo libero per circa 10 minuti dopodiché, allo spegnimento della fiamma, ritornano al suolo.
È evidente che tali oggetti volanti sono potenzialmente pericolosi per due motivi: possono propagare incendi e possono generare pericolo per l’ambiente e il traffico aereo.
Per il primo motivo l’accensione di tali manufatti è soggetto alla licenza di cui art. 57 TULPS, a prescindere dal fatto che l’evento abbia carattere pubblico o privato.
Per il secondo motivo è necessario inoltrare un’istanza all’autorità aeroportuale (direzione aeroportuale ENAC – Ente Nazionale Aviazione Civile) che valuta la compatibilità dell’evento con il traffico aereo. Si rimanda alla circolare ENAC – serie Air Traffic Management (ATM) del 16.12.2010 e in particolare all’allegato A) che consiste nel modello da compilare completo di note e indicazioni tecniche.
Pertanto la licenza di cui art. 57 TULPS deve richiamare il documento “validato” dell’ENAC. La circolare del Ministero dell’Interno del 06.12.2012 e la nota della Questura di Modena del 11.02.2013 sono esaustive in questo senso.
Infine, nel caso si debba intervenire –ci si riferisce alle forze di Polizia locale– e si accerti l’assenza di autorizzazione di cui art. 57 TULPS comprensiva della relativa valutazione ENAC, risulta d’obbligo, in forza all’art. 703 del codice penale (accensioni ed esplosioni pericolose), procedere ai sensi del codice di procedura penale con l’immediata interruzione dei lanci ed il sequestro delle lanterne ancora a terra.
Si ritiene inoltre doveroso avvisare senza ritardo, anche tramite la locale Stazione dei Carabinieri, gli organi di sicurezza aerea competente per territorio (Direzione Aeroportuale/ENAC) (17.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aumento orario temporaneo dipendente part-time.
Domanda
È possibile aumentare il tempo del lavoro di un dipendente a part-time per un determinato periodo?
Risposta
Il quesito pone in rilievo le disposizioni contrattuali in materia di rapporto di lavoro a tempo parziale, oggi disciplinate dagli articoli 53, 54 e 55 del CCNL 21/05/2018. Richiede inoltre qualche breve considerazione in merito al rispetto dei vincoli in materia di spesa di personale.
In linea generale, si ritiene possibile l’incremento dell’ampiezza percentuale di un rapporto di lavoro costituito a part-time, a condizione, innanzitutto, che vi sia l’accordo del dipendente. In tal caso, occorrerà rifarsi alle regole contrattuali in materia, ovvero procedere alla stipula di un nuovo contratto individuale di lavoro; esso dovrà contenere, ai sensi dell’art. 53, comma 11, del CCNL anzi richiamato, l’indicazione dell’inizio della nuova articolazione oraria del rapporto, la durata della prestazione lavorativa, la collocazione/articolazione temporale puntuale dell’orario e, naturalmente (ai sensi del comma 12, del tutto opportunamente a parere nostro) la durata del contratto medesimo. Le parti si daranno reciprocamente atto che, al raggiungimento del predetto termine contrattuale, torneranno a osservare la disciplina del contratto individuale di lavoro a part-time originario, costituito a tempo indeterminato.
Sotto il profilo dei vincoli alla spesa di personale, l’incremento dei costi derivante dall’aumento delle ore lavorative sarà certamente e pienamente rilevante ai fini del rispetto del limite di cui all’art. 1, comma 557 e segg., della legge 296/2006 e s.m.i.
Dal punto di vista della capacità assunzionale invece si ritiene, per giurisprudenza sufficientemente consolidata presso la Corte dei conti, che il semplice incremento orario di un rapporto di lavoro a part-time, senza il raggiungimento della consistenza di un rapporto a tempo pieno, non configuri una nuova assunzione, e non debba pertanto essere accompagnato dall’utilizzo di facoltà assunzionale, a condizione che non vengano poste in essere fattispecie potenzialmente elusive della lettera e dello spirito della norma, ovvero (detto in modo meno ortodosso) che l’incremento non sia tale da mascherare un full time dietro percentuali di part-time prossime al 100%.
Varie sezioni regionali della Corte dei conti (tra le altre, si apprezzi la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Campania, deliberazione n. 338/2016/PAR) hanno rimarcato quanto la scelta dell’individuazione di tale “limite di ragionevolezza” sia del tutto rimessa all’autonoma valutazione, e conseguente assunzione di responsabilità, da parte dell’ente.
In ogni caso, in ipotesi di incremento della percentuale di part-time in via temporanea –con “rientro” del dipendente alla quota originaria decorso qualche mese– a parere di chi scrive, difficilmente può concretizzare un utilizzo di facoltà assunzionali, giacché è una scelta, di fatto, a tempo determinato.
Per completezza, si segnala la possibilità dell’utilizzo di altro strumento contrattuale, che parrebbe poter rispondere, in alternativa e in modo probabilmente più lineare, alle esigenze di copertura di una vacanza per un periodo piuttosto breve: trattasi del lavoro supplementare, regolato dall’art. 55, commi da 2 a 6, del ridetto CCNL 21/05/2018.
Stabilisce il contratto che, con l’accordo del lavoratore (che potrebbe però rifiutare la prestazione unicamente per comprovate esigenze lavorative, di salute o familiari), l’ente possa richiedere al dipendente a part-time la prestazione di ore di lavoro supplementari (non si tratta, si presti attenzione, di lavoro straordinario) nel limite del 25% della durata dell’orario di lavoro contrattualmente stabilito, con riferimento al mese.
Rilevato su base settimanale, tale previsione consentirebbe di richiedere al dipendente, ad esempio il cui orario sia articolato su 24 ore, fino a 30 ore complessive, dovendosi semplicemente contenere l’orario giornaliero (giorno per giorno) entro quello previsto come orario ordinario di lavoro a tempo pieno del giorno di riferimento (esempio: giornata con orario a tempo pieno di 6 ore / dipendente a part-time con orario di 4 ore / lavoro supplementare fino a ulteriori 2 ore).
Il lavoro supplementare è ammesso (comma 3) per specifiche e comprovate esigenze organizzative o in presenza di particolari situazioni di difficoltà derivanti da concomitanti assenze di personale non prevedibili e improvvise.
Le ore di lavoro supplementare, entro il limite massimo del 25% suddetto, sono retribuite al dipendente con un compenso pari alla retribuzione oraria globale di fatto individuata dall’art. 10, comma 2, lett. d), del CCNL 09/05/2006 (“importo della retribuzione individuale per 12 mensilità cui si aggiunge il rateo della 13^ mensilità nonché l’importo annuo della retribuzione variabile e delle indennità contrattuali percepite nel mese o nell’anno di riferimento, ivi compresa l’indennità di comparto di cui all’art. 33 del CCNL del 22.01.2004”), maggiorata del 15%, e tali importi sono posti a carico del fondo per il lavoro straordinario.
Chi scrive ritiene che, attesa la brevissima durata del periodo di assenza/difficoltà organizzativa, rispetto al quale la scelta della stipula di un nuovo contratto a part-time incrementato potrebbe apparire forzata anche in considerazione dell’incertezza in merito all’esatto protrarsi della stessa, ove l’ente ravvisi compiutamente la sussistenza dei requisiti contrattuali su richiamati, la soluzione da ultimo analizzata possa costituire una valida alternativa (16.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Informazioni sulle procedure in formato tabellare anno 2020.
Domanda
Sono correttamente adempiute le disposizioni di cui all’art. 1, co. 32, legge 190/2012 qualora si proceda all’elaborazione nel solo mese di gennaio della tabella riassuntiva in formato digitale aperto relativamente agli appalti affidati nell’anno precedente?
Risposta
Si ritiene sia parzialmente adempiuta la disposizione richiamata nel quesito. Per avere un quadro completo degli adempimenti occorre richiamare oltre all’art. 1, co. 32, della legge 190/2012
[1], l’art. 37, co. 1, lett. a), del d.lgs. 33/2013, la Delibera ANAC n. 39 del 20.01.2016 [2], nonché la Delibera ANAC n. 1310 del 2016 completa di allegati [3].
L’art. 3 della sopra citata delibera ANAC 39/2016 prevede la pubblicazione e l’aggiornamento tempestivo sul proprio sito web istituzionale, nella sezione “Amministrazione trasparente”, sotto-sezione di primo livello “Bandi di gara e contratti”, delle informazioni indicate nell’art. 1, co. 32, legge 190/2012, come elencate nella nota a pie di pagina, relative ai procedimenti di scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, a cui deve associarsi ovviamente il codice CIG di riferimento. Tali informazioni devono essere riportate in formato tabellare (allegato alla Delibera ANAC n. 1310/2016).
Il comma due del sopra citato art. 3 stabilisce che entro il 31 gennaio di ogni anno le Amministrazioni pubblicano in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in formato digitale standard aperto, le informazioni di cui al comma precedente, riferite:
   • alle procedure avviate nel corso dell’anno precedente, anche se in pendenza di aggiudicazione (ad esempio anno 2019). In quest’ultimo caso verranno riportate le informazioni minime essenziali, quali CIG, struttura proponente, oggetto del bando e procedura di scelta del contraente. Nelle successive annualità si procederà all’aggiornamento e integrazione dei dati mancanti;
   • alle procedure in corso di esecuzione nel periodo preso in considerazione (ad esempio procedure bandite in anni precedenti ma in corso di esecuzione nell’anno 2019);
   • alle procedure i cui contratti nel periodo annuale di riferimento hanno subito modifiche e/o aggiornamenti (ad esempio i pagamenti effettuati nell’anno 2019 relativi a contratti derivanti da gare bandite in anni precedenti).
Nella prassi amministrativa di molti enti, compatibilmente con gli strumenti informatici a disposizione, si procede alla pubblicazione nella sezione Amministrazione trasparente di due distinte tabelle. Una prima che riguarda i dati di cui all’art. 3, co. 1, relativa ai CIG staccati nell’anno di riferimento, ed una seconda, da trasmettersi ad ANAC, nella quale sono indicati i CIG presi nell’anno oggetto di comunicazione, nonché riproposti quelli relativi ai contratti derivanti da gare bandite in anni precedenti ma in corso di esecuzione, oppure riferiti a contratti modificati o aggiornati nell’anno di interesse.
Per quanto riguarda la scadenza del 31.01.2020 e alle modalità di trasmissione del file relativo alle informazioni del 2019, si rinvia alle nuove modalità pubblicate sul sito dell’ANAC al seguente link.
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[1] Con riferimento ai procedimenti di cui al comma 16, lettera b), del presente articolo, le stazioni appaltanti sono in ogni caso tenute a pubblicare nei propri siti web istituzionali: la struttura proponente; l’oggetto del bando; l’elenco degli operatori invitati a presentare offerte; l’aggiudicatario; l’importo di aggiudicazione; i tempi di completamento dell’opera, servizio o fornitura; l’importo delle somme liquidate. Le stazioni appaltanti sono tenute altresì a trasmettere le predette informazioni ogni semestre alla commissione di cui al comma 2. Entro il 31 gennaio di ogni anno, tali informazioni, relativamente all’anno precedente, sono pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un formato digitale standard aperto che consenta di analizzare e rielaborare, anche a fini statistici, i dati informatici. Le amministrazioni trasmettono in formato digitale tali informazioni all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, che le pubblica nel proprio sito web in una sezione liberamente consultabile da tutti i cittadini, catalogate in base alla tipologia di stazione appaltante e per regione.
[2] pagina web linkata
[3] pagina web linkata
(15.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ufficio Personale di questo Comune chiede di conoscere il regime delle graduatorie dei pubblici concorsi a seguito delle novità normative introdotte dalla legge di bilancio 2020.
In particolare, esiste ancora il divieto di utilizzo per posti diversi da quelli messi a concorso per le graduatorie dal 2019?

La legge di bilancio 2020 (L. 27.12.2019, n. 160) ha introdotto delle novità rispetto alla disciplina limitativa introdotta con la L. 30.12.2018, n. 145.
Il comma 147 dell'art. 1 ha previsto che le amministrazioni possano "utilizzare le graduatorie dei concorsi pubblici, fatti salvi i periodi di vigenza inferiori previsti da leggi regionali, nel rispetto dei seguenti limiti:
   a) le graduatorie approvate nell'anno 2011 sono utilizzabili fino al 30.03.2020 previa frequenza obbligatoria, da parte dei soggetti inseriti nelle graduatorie, di corsi di formazione e aggiornamento organizzati da ciascuna amministrazione, nel rispetto dei princìpi di trasparenza, pubblicità ed economicità e utilizzando le risorse disponibili a legislazione vigente, e previo superamento di un apposito esame-colloquio diretto a verificarne la perdurante idoneità;
   b) le graduatorie approvate negli anni dal 2012 al 2017 sono utilizzabili fino al 30.09.2020;
   c) le graduatorie approvate negli anni 2018 e 2019 sono utilizzabili entro tre anni dalla loro approvazione
".
Il successivo comma ha disposto la abrogazione dei commi da 361 a 362-ter e il comma 365 dell'art. 1, L. 30.12.2018, n. 145, sono abrogati.
Fra le disposizioni abrogate vi è quella contenente l'inciso per cui le graduatorie "sono utilizzate esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso nonché di quelli che si rendono disponibili, entro i limiti di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando il numero dei posti banditi e nel rispetto dell'ordine di merito, in conseguenza della mancata costituzione o dell'avvenuta estinzione del rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori", con cioè determinando il ripristino delle possibilità di utilizzo delle graduatorie ante riforma.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 147 - L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 148 - L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 149 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 361 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362-bis - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362-ter - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 365 (15.01.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quote rosa nelle giunte. Anche negli enti sotto i 3.000 abitanti. Assessori esterni al consiglio per garantire la parità di genere
I comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti sono tenuti al rispetto delle quote rosa nella composizione delle rispettive giunte?
Il comma 137 della legge n. 56/2014 dispone che «nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico».
Per quanto concerne i comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti, occorre tenere conto che ai sensi dell'art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000, come modificato dalla legge n. 215/2012, è previsto che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
L'art. 2, comma 1, lett. b), della stessa legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma 2, del Tuel disponendo che il sindaco ed il presidente nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi».
La normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione della pari opportunità tra donne e uomini.
Pertanto si ritiene che per i comuni con popolazione inferiore a 3.000 abitanti debbano trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3 e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali.
Per quanto concerne la possibilità di pervenire alla nomina di assessori esterni, si richiama quanto osservato dalla scrivente amministrazione con circolare n. 6508 del 24.04.2014, nella quale gli enti locali sono stati invitati a valutare l'opportunità di procedere alle modifiche statutarie funzionali alla piena attuazione del principio di parità di genere introducendo la possibilità di ricorrere alla nomina di assessori privi dello status di consigliere comunale.
In proposito, risulta che, ai sensi dello statuto del comune che ha prospettato la questione, è prevista la possibilità di nominare gli assessori «anche al di fuori dei componenti del Consiglio fra i cittadini in possesso dei requisiti di compatibilità ed eleggibilità alla carica di Consigliere comunale». Pertanto, il sindaco dell'ente potrebbe valutare la possibilità di applicare tale disposizione statutaria al fine di conformare la composizione della giunta alle previsioni legislative.
Si fa presente, a tale riguardo, che il Tar Abruzzo, con sentenza n. 105 del 2019, ha ritenuto fondato il ricorso avverso un provvedimento di nomina della giunta in quanto non sarebbe stata effettuata «la necessaria attività istruttoria volta ad acquisire la disponibilità alla nomina di persone di sesso femminile anche tra cittadini al di fuori dei componenti dell'organo consiliare» (articolo ItaliaOggi del 10.01.2020).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità del sindaco.
Nei confronti del sindaco, il cui fratello risulta appaltatore di lavori di manutenzione di un immobile comunale, si configura la causa di incompatibilità di cui all’art. 61, comma 1-bis, del D.Lgs. 267/2000 secondo cui “non possono ricoprire la carica di sindaco o di presidente di provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali o provinciali o in qualunque modo loro fideiussore".
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di una causa di incompatibilità per il sindaco atteso che suo fratello, titolare di una ditta individuale, è risultato aggiudicatario di una gara indetta dall’Ente per l’esecuzione di lavori di manutenzione di un fabbricato di proprietà comunale.
Con riferimento al quesito posto viene in rilievo la norma di cui all’articolo 61, comma 1-bis, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 ai sensi della quale: “Non possono ricoprire la carica di sindaco o di presidente di provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali o provinciali o in qualunque modo loro fideiussore”.
Il Ministero dell’Interno, in un proprio parere
[1], ha rilevato che: “Solo per coloro che intendono ricoprire la carica di sindaco o di presidente della provincia, è prevista un'ipotesi d'incompatibilità, specificamente loro dettata dall'art. 61, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 267/2000, che impedisce di ricoprire le due cariche a coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali. La previsione si aggiunge a quella comune di cui all'art. 63, comma 1, n. 2, del T.U.O.E.L. e colpisce i citati amministratori anche in assenza di un vantaggio diretto o indiretto che possa essere imputato loro personalmente, ma rimanga esclusivo del parente che gestisce l'appalto o il servizio, a maggior salvaguardia del principio d'imparzialità dell'azione amministrativa e per porre al riparo coloro che svolgono una pubblica funzione dal sospetto di essere influenzati da interessi confliggenti con quelli del comune [2].
Attesa la chiarezza del dettato letterale della disposizione in esame, si ritiene che si configuri l’indicata causa di incompatibilità per il sindaco il cui fratello (parente in linea collaterale di secondo grado) risulta appaltatore di lavori di manutenzione di un immobile comunale. Tale conclusione rimane ferma indipendentemente dalle modalità di svolgimento della gara, alla quale il fratello poteva, com’è avvenuto, regolarmente partecipare e prescinde, altresì, dalla considerazione che l’applicazione di una norma siffatta potrebbe creare, di fatto, seri disagi e difficoltà nel reperimento di imprese che svolgano determinati lavori o servizi in realtà comunali dalle ridotte dimensioni demografiche e connotate da una peculiare posizione geografica.
Per completezza espositiva si ricorda che il comma 1-bis dell’articolo 61 TUEL è stato aggiunto dall’articolo 7, comma 1, lett. b-bis), n. 3), del decreto legge 29.03.2004, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.05.2004, n. 140, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità, avvenuta con sentenza 31.10.2000, n. 450, dell’articolo 61, n. 2, TUEL nella parte in cui prevedeva la medesima fattispecie quale causa generatrice di ineleggibilità alla carica di sindaco
[3].
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[1] Ministero dell’Interno, parere del 25.05.2010.
[2] Prosegue l’indicato parere rilevando che: “Per tutti gli altri amministratori non è posta invece analoga disposizione, per cui la possibilità di conflitto fra gli interessi del consigliere e quelli del Comune non può essere presunta dall'esistenza di un rapporto di parentela con l'amministratore di un'impresa che opera in servizi o appalti dell'Ente, ma va accertata adeguatamente”.
[3] La Corte costituzionale, in altri termini, aveva cancellato dall’ordinamento una previsione legislativa che aveva finito per considerare più grave il fatto che il candidato alla carica di sindaco avesse un rapporto di parentela o affinità con un appaltatore (e, quindi, causa di ineleggibilità, ex articolo 61, n. 2, TUEL testo precedente) rispetto a quello di essere egli stesso appaltatore in proprio di lavori o servizi comunali (e, quindi, causa di incompatibilità, ex articolo 63, comma 1, num. 2, TUEL).
Nel rispetto di quanto deciso dalla Corte Costituzionale è successivamente intervenuto il decreto legge 80/2004 che ha aggiunto, come sopra già riportato, il comma 1-bis dopo il comma 1 dell’articolo 61 del D.Lgs. 267/2000
(09.01.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Richiesta di fatturato e obbligo di motivazione.
Domanda
Nel programma biennale delle forniture e servizi, la nostra stazione appaltante ha previsto l’avvio di una serie di servizi nell’annualità 2020. I RUP stanno predisponendo gli atti di gara ed in assenza di specifiche indicazioni ci si interroga sul fatturato che può essere richiesto agli appaltatori. E’ possibile avere una generale ricognizione in merito?
Risposta
In tema di richiesta di un fatturato specifico (al fine della dimostrazione dei requisiti di affidabilità economica e finanziaria) dispone il comma 4 dell’articolo 83 del codice dei contratti, nel caso di specie la lettera a) in cui si prevede che le stazioni appaltanti, nel bando di gara, possono richiedere che “gli operatori economici abbiano un fatturato minimo annuo, compreso un determinato fatturato minimo nel settore di attività oggetto dell’appalto”.
La disciplina sul tema è completata dal successivo quinto comma in cui –primo periodo (limitando l’analisi)- chiarisce che “Il fatturato minimo annuo (…) non può comunque superare il doppio del valore stimato dell’appalto, calcolato in relazione al periodo di riferimento dello stesso, salvo in circostanze adeguatamente motivate relative ai rischi specifici connessi alla natura dei servizi e forniture, oggetto di affidamento. La stazione appaltante, ove richieda un fatturato minimo annuo, ne indica le ragioni nei documenti di gara”.
Dalla disposizione ultima riportata emerge che sul RUP grava un doppio onere motivazionale, il primo nel caso in cui venga indicato un fatturato minimo annuo, il secondo –ben più intenso– nel caso in cui il fatturato richiesto superi il doppio del valore stimato dell’appalto.
Alla luce di quanto, il primo suggerimento, ovvio, è che si rispettino le indicazioni cogenti del dettato normativo e che il fatturato richiesto non superi mai il doppio del valore dell’appalto salvo che insistano oggettivamente motivazioni specifiche. Ciò appare ovvio perché, francamente, appare anche difficile trovare motivazioni –che, si ripete, devono essere esplicitate nel bando di gara– che giustifichino la richiesta di un fatturato “eccessivo”.
In tema si può anche richiamare il recente intervento dell’ANAC espresso con il parere n. 1046/2019.
Anche l’autorità anticorruzione ribadisce che in base al chiaro dettato normativo, pur vero che le stazioni appaltanti “possono richiedere, a dimostrazione della solidità economico-finanziaria degli operatori, un importo di fatturato minimo annuo e di fatturato minimo specifico non superiore al doppio dell’importo posto a base di gara” ma “va sottolineato”, prosegue la deliberazione “che, in ogni caso, detta richiesta deve essere sempre accompagnata da una specifica motivazione”.
Inoltre “nell’ipotesi in cui l’importo richiesto superi il doppio dell’importo posto a base di gara", come previsto dalla norma e chiarito dal Consiglio di Stato, è necessario che siano fornite “motivazioni relative a rischi specifici connessi alla natura dei servizi e forniture, oggetto di affidamento” (Cons. Stat., sez. III, 19.01.2018, n. 357).
Nel caso trattato dall’autorità anticorruzione dette motivazioni erano del tutto generiche e sono apparse limitative della libera concorrenza, pertanto, nel parere il procedimento avviato dalla stazione appaltante è stato considerato non conforme al dettato normativo.
A nulla, tra l’altro, è valso il richiamo –da parte della stazione appaltante interessata– che il fatturato richiesto facesse riferimento non a servizi identici ma a servizi analoghi (a dimostrare la volontà di non limitare la concorrenza). Queste “aperture” non esonerano il RUP dal chiarire, fin dall’avvio della procedura, la motivazione che induce a richiedere un fatturato superiore al doppio rispetto al valore della base d’asta (08.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Misure da adottare nel caso di indagini penali a carico di propri dipendenti.
Domanda
Il dirigente dell’ufficio contratti e un dipendente dello stesso ufficio sono indagati rispettivamente per abuso d’ufficio e corruzione. Vorrei saper cosa deve fare l’Amministrazione e, in particolare, il Responsabile della Prevenzione della Corruzione
Risposta
Premesso che il verificarsi di un episodio di malamministrazione potenzialmente configurabile come fatto penalmente rilevante, impone al RPCT una riflessione di carattere generale circa l’adeguatezza delle misure di prevenzione della corruzione nell’area a rischio “contratti”, la prima valutazione che l’Amministrazione si trova a compiere è quella relativa all’opportunità/obbligo di procedere al trasferimento del dipendente ad altro incarico.
Si tratta della misura cosiddetta della rotazione straordinaria. È bene chiarire, innanzitutto, che si sta parlando di una misura preventiva, cautelare e non sanzionatoria. Il dipendente su cui grava il sospetto di una condotta di natura corruttiva viene rimosso dall’ufficio in cui presta l’attività, al fine di prevenire il danno all’immagine di imparzialità dell’Amministrazione.
Per capire se sussista un obbligo di provvedere in tal senso o se, invece, si tratti di una misura facoltativa, occorre analizzare la normativa (art. 3, comma 1, della legge 27.03.2001, n. 97 e art. 16, c. 1, lettera l-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165) e le indicazioni ANAC, contenute nella delibera n. 215 del 26.03.2019.
Inoltre, occorre compiere i necessari distinguo in ragione sia del diverso inquadramento dei dipendenti che della natura dei delitti di cui sono indagati.
L’art. 3, comma 1, della legge 97/2001, disciplina il trasferimento del dipendente per il quale è disposto il giudizio per alcuni dei delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 320 del codice penale.
Per come è formulata la disposizione “… lo trasferisce ad ufficio diverso…” la misura è da intendersi come obbligatoria, al momento in cui il dipendente è rinviato a giudizio per uno dei reati indicati, tra i quali è contemplata la corruzione ma non l’abuso d’ufficio.
L’art. 16, comma 1, lettera l-quater, del d.lgs. 165/2001, contempla, tra i compiti e i poteri dei dirigenti generali, il monitoraggio “delle attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva”.
Tale disposizione è evidentemente meno precisa, sia in ordine alla natura del reato di cui è sospettato il dipendente che al momento del procedimento penale in cui occorre intervenire.
Nell’aggiornamento al PNA del 2018
[1], l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) interpretava la norma in maniera restrittiva sul piano del momento rilevante per applicare la rotazione straordinaria, individuandolo nella richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero al termine delle indagini preliminari.
Successivamente, con la delibera n. 215 del 26.03.2019, l’ambito di applicazione della rotazione straordinaria si è esteso, anticipando il momento dell’adozione della misura cautelare a quello in cui il soggetto viene iscritto nel registro delle notizie di reato, di cui all’art. 355 c.p.p. sulla considerazione che il termine “procedimento penale” comprende, anche, la fase delle indagini preliminari.
In merito alla nozione di “condotta di natura corruttiva” invece, l’ANAC precisa nella citata delibera i reati per i quali la misura è obbligatoria (esempio: corruzione), distinguendoli dagli altri delitti contro la P.A. (abuso d’ufficio) per i quali è, evidentemente, facoltativa.
È necessario, pertanto, che non appena l’Amministrazione venga a conoscenza di indagini penali a carico di un dipendente, acquisisca le informazioni utili a valutare se e come applicare la rotazione straordinaria.
Nella valutazione si deve tener conto della gravità delle imputazioni e dello stato degli accertamenti compiuti dall’autorità giudiziaria. In ogni caso, ciò che l’ANAC raccomanda è di adottare comunque un provvedimento in cui si dia conto dell’applicazione o meno della misura e di motivarlo adeguatamente.
Con riferimento al caso proposto, pertanto, si potrebbero fare valutazioni diverse in relazione alla tipologia di reato di cui sono sospettati (abuso d’ufficio e corruzione) e tenere conto della fase del procedimento penale.
Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione (RPCT) deve, inoltre, segnalare la questione al Responsabile dell’Ufficio Procedimenti disciplinari (UPD), al quale spetta l’avvio del procedimento disciplinare, con l’eventuale sospensione, in attesa della definizione del procedimento penale, secondo le disposizioni previste, da ultimo, nell’articolo 62 del CCNL Funzioni locale del 21.05.2018.
In ragione della prosecuzione del procedimento, dell’eventuale rinvio a giudizio e dell’esito del processo penale, la valutazione in merito alle misure da adottare dovrà essere ripetuta. Inoltre per il dirigente occorre valutare, nel caso di sentenza di condanna, le conseguenze in termini di inconferibilità, ai sensi dell’art. 3, del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
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[1] Delibera ANAC n. 1074 del 13/11/2018 (07.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Paletti alle registrazioni. Non esiste un diritto a filmare le sedute. Il presidente del consiglio valuta caso per caso. Necessario un regolamento.
È possibile registrare e diffondere le immagini delle sedute di consiglio comunale pur in assenza di apposita previsione regolamentare, riconoscendo poteri autorizzativi al presidente del consiglio?
Il vigente ordinamento conferisce al consiglio comunale autonomia funzionale e organizzativa (art. 38, comma 3, Tuel) entro la quale si riconduce la potestà di regolare, con apposite norme, ogni aspetto attinente al funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale che da parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che assistono alla sedute pubbliche.
In questo quadro di riferimento, norme interne possono regolare, pertanto, nell'ambito della disciplina dello svolgimento delle adunanze, anche la registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi; ciò sia per gli uffici di supporto alla verbalizzazione (art. 97, comma 4, lett. a) del decreto legislativo n. 267/2000), che per i consiglieri e i cittadini che assistono alla seduta; lo stesso regolamento può riservare all'amministrazione il compito di registrare le sedute con mezzi audiovisivi escludendo da tale possibilità altri soggetti.
La pubblicità delle sedute non implica, infatti, la facoltà di registrazione ma la libera presenza di chi abbia interesse ad assistervi (v. sentenza della Corte di cassazione, sez. I, n. 5128/2001 ove si afferma la legittimità di un regolamento consiliare che vieta di introdurre nella sala del consiglio apparecchi di riproduzione audiovisiva, se non previa autorizzazione).
La giurisprudenza (in particolare, la sentenza n. 826 del 16/03/2010 del Tar per il Veneto) afferma che in assenza di un'apposita disciplina regolamentare adottata dall'ente, non possono essere garantiti i diritti previsti dal codice sul trattamento dei dati personali di cui al dlgs 196 del 2003 e successive modifiche, non essendo consentito al sindaco-presidente estemporanei assensi, alla videoregistrazione.
È stato ritenuto, invece, immediatamente concedibile da parte del presidente del consiglio comunale, nei confronti di emittenti televisive nazionali e locali l'autorizzazione a riprendere, in via non sistematica, gratuitamente e senza diritti di esclusiva, talune brevi fasi delle sedute del consiglio comunale in quanto da tale autorizzazione non conseguono obblighi di sorta per l'amministrazione comunale quale «titolare» o «responsabile» del trattamento dei personali.
Non sussiste, quindi, un autonomo e indiscriminato diritto a procedere alla registrazione che consenta di superare gli eventuali divieti posti dall'amministrazione.
Sulla materia, anche il Garante per la protezione dei dati personali con nota del 23.04.2003 ha ritenuto che l'amministrazione comunale possa, con apposita norma regolamentare, porre delle condizioni e dei limiti alle riprese ed alla diffusione televisiva delle riunioni del consiglio comunale, prevedendo, in quella sede, l'onere di informare preventivamente i presenti nell'aula consiliare dell'esistenza delle telecamere e della successiva diffusione delle immagini, ovvero il divieto di divulgare informazioni sullo stato di salute, nonché le ipotesi in cui eventualmente limitare le riprese per assicurare la riservatezza dei soggetti presenti o oggetto del dibattito.
Con precedenti pareri, questo ministero aveva ritenuto la possibilità per il presidente del consiglio di regolare e valutare la registrazione caso per caso, seppur in assenza di espressa previsione regolamentare, nell'esercizio dei già richiamati poteri di «direzione dei lavori e delle attività del consiglio», di cui all'art. 39, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000 in stretta correlazione alle esigenze di ordinato svolgimento dell'attività consiliare ed in relazione all'oggetto dei lavori previsti all'ordine del giorno.
Tuttavia alla luce anche degli orientamenti giurisprudenziali e del Garante per la protezione dei dati personali, si ritiene, invece, opportuno un approfondimento della problematica che non può non condurre alla necessità della previa adozione di norme regolamentari entro le quali il Presidente può esercitare le proprie prerogative (articolo ItaliaOggi del 03.01.2020).

ATTI AMMINISTRATIVI: Pubblicazione provvedimenti attributivi vantaggi economici su “Amministrazione trasparente.
Il D.Lgs. n. 33/2013 prevede, per finalità di trasparenza, l’obbligo di pubblicazione nella sezione “Amministrazione trasparente” degli atti di concessione di vantaggi economici di qualunque genere erogati in favore di soggetti pubblici o privati di importo superiore a mille euro.
Sotto il profilo dei rapporti tra trasparenza e privacy, il D.Lgs. n. 33/2013 rappresenta la base giuridica per la diffusione di dati necessari per compiti di interesse pubblico o connessi all’esercizio di pubblici poteri, la quale, secondo la normativa in materia di tutela dei dati personali, può essere solo la legge ovvero, nei casi previsti dalla legge, il regolamento (art. 6, Regolamento (UE) n. 679/2016; art. 2-ter, D.Lgs. n. 196/2003, come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018).
Peraltro, la presenza di un obbligo di legge, che imponga la pubblicazione sui siti web per finalità di trasparenza, non esime dal rispetto dei principi generali applicabili al trattamento dei dati personali, contenuti nell’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016, che, in particolare, esprime il principio di minimizzazione dei dati - rilevante in ordine all’individuazione dei dati da diffondere - secondo cui i dati personali devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati.

Il Comune chiede un parere in ordine alla pubblicità da dare ai provvedimenti di concessione di vantaggi economici a privati, non correlati –specifica– ad uno stato di disagio economico-sociale. In particolare, il Comune chiede quali dati vadano pubblicati, avuto riguardo alla normativa in tema di trasparenza e privacy, e con quali mezzi dare pubblicità.
L’art. 12, c. 1, L. n. 241/1990, prevede che “La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi
[1].
Con riferimento a detta norma, la giurisprudenza ha più volte affermato che qualsiasi genere di sovvenzione, contributo o sussidio a soggetti privati o pubblici deve essere preceduto dalla predeterminazione e dalla pubblicazione da parte delle pp.aa. procedenti dei criteri e delle modalità cui le stesse si dovranno attenere, al fine di soddisfare le esigenze di trasparenza e di imparzialità dell’azione amministrativa, nell’assegnare vantaggi economici ai soggetti amministrati
[2].
Un tanto premesso e venendo agli aspetti rilevati dall’Ente, si esprimono alcune considerazioni in relazione agli obblighi di pubblicazione previsti dal D.Lgs. n. 33/2013 per i provvedimenti di concessione di vantaggi economici, di cui all’art. 12, L. n. 241/1990, e a come gli stessi debbano rapportarsi con la normativa in materia di protezione dei dati personali delle persone fisiche, di cui al Regolamento (UE) n. 679/2016.
In particolare, l’art. 26, c. 2, del D.Lgs. n. 33/2013 stabilisce l’obbligo di pubblicazione degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere erogati in favore di soggetti pubblici o privati di importo superiore a mille euro.
Il successivo art. 27 stabilisce le informazioni che devono essere pubblicate, tra cui: il nome del soggetto beneficiario, l’importo del vantaggio, il titolo giuridico dell’attribuzione, la modalità seguita per l’individuazione del beneficiario (comma 1). Dette informazioni sono riportate nell’ambito della sezione “Amministrazione trasparente” (comma 2)
[3].
Pertanto, in relazione al quesito dell’ente circa la modalità di pubblicazione dei provvedimenti di cui si tratta, si osserva che per espressa previsione di legge, gli obblighi di pubblicazione relativi ai provvedimenti di attribuzione di vantaggi economici sono adempiuti attraverso il sito istituzionale della p.a., nella sezione “Amministrazione trasparente
[4].
Naturalmente –in relazione alla tematica dei rapporti tra trasparenza e privacy– per gli obblighi di pubblicazione nei siti istituzionali della p.a. previsti dalla normativa vigente per finalità di trasparenza vale il principio per cui la pubblicazione deve avvenire nel rispetto dei limiti alla trasparenza posti dalle norme sulla protezione dei dati personali delle persone fisiche, di cui al Regolamento (UE) n. 679/2016.
Per meglio chiarire, va fatta una necessaria premessa: l’art. 6 (Liceità del trattamento), par. 3, del Regolamento comunitario, prevede che la base su cui si fonda il trattamento dei dati necessari per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri deve essere stabilita dal diritto dell’Unione o dal diritto dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento.
In attuazione di tale previsione, il legislatore italiano, con l’art. 2-ter
[5], c. 1, del D.Lgs. n. 196/2003 (inserito dal D.Lgs. n. 101/2018), introducendo le “disposizioni più specifiche per adeguare l'applicazione delle norme” del regolamento (art. 6, par. 2, Regolamento comunitario), ha stabilito che la base giuridica prevista per il trattamento di dati necessari per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri possa essere solo la legge ovvero, nei casi previsti dalla legge, il regolamento (c. 1).
Inoltre, il medesimo art. 2-ter, tra le modalità di trattamento, ha definito diffusione “il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione”.
Il complesso delle disposizioni del D.Lgs. n. 33/2013 che impongono obblighi di pubblicazione costituisce la base giuridica per la diffusione di dati personali per compiti di interesse pubblico o connessi all’esercizio di pubblici poteri.
Peraltro, la presenza di un obbligo di legge, che imponga la pubblicazione sui siti web per finalità di trasparenza, non esime dal rispetto dei principi generali applicabili al trattamento dei dati personali, oggi contenuti nell’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016
[6].
In particolare, viene in considerazione il principio di minimizzazione dei dati, di cui all’art. 5, par. 1, lett. c), secondo il quale i dati personali devono essere “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati
[7], e che rileva in ordine all’individuazione dei dati da diffondere [8].
A tal proposito e in relazione alla domanda del Comune su quali dati vadano pubblicati, il Garante della privacy ha affermato che non risulta giustificato diffondere, tra l’altro, dati quali, ad esempio, l’indirizzo di abitazione o la residenza, il codice fiscale di persone fisiche, le coordinate bancarie dove sono accreditati i contributi o i benefici economici (codici IBAN), la ripartizione degli assegnatari secondo le fasce dell’indicatore della situazione economica equivalente-Isee, l’indicazione di analitiche situazioni reddituali, di condizioni di bisogno o di peculiari situazioni abitative
[9].
Con specifico riferimento all’operatività dell’obbligo di pubblicazione di cui agli artt. 26 e 27, D.Lgs. n. 33/2013, il Garante ha affermato che detta normativa prevede la pubblicazione obbligatoria dei soli nominativi dei soggetti destinatari di un contributo di natura economica superiore a mille euro
[10]. Di conseguenza, vanno oscurati i dati identificativi eccedenti, che non è giustificato diffondere, indicati sopra.
Infine –pur preso atto della precisazione dell’Ente sulla non afferenza dei provvedimenti di cui si tratta a situazioni di disagio economico e/o sociale dei destinatari– si richiama comunque l’attenzione sulle indicazioni del Garante secondo cui, qualora siano state formate graduatorie di ordine di priorità degli aventi diritto sulla base del reddito, andranno oscurati dagli elenchi pubblicati i dati personali dei soggetti la cui collocazione (nei primi posti) potrebbe rivelare situazioni di disagio economico
[11].
---------------
[1] L’art. 26, c. 1, D.Lgs. n. 33/2013, impone la pubblicazione degli atti con i quali sono determinati, ai sensi dell’art. 12, L. n. 241/1990, i criteri e le modalità cui le amministrazioni devono attenersi per la corresponsione di vantaggi economici.
[2] Cfr. Cons. St., sez. V, 23.03.2015, n. 1552; si veda anche: TAR Lazio Roma, sez. II-quater, 13.01.2017, n. 622, secondo cui i principi in materia di sovvenzioni pubbliche posti dall’art. 12, L. n. 241/1990, implicano il rispetto della par condicio tra i possibili destinatari; TAR Liguria Genova, sez. II, 15.02.2012, n. 293, secondo cui la pubblicazione, oltre a soddisfare esigenze di trasparenza ed imparzialità, offre saldo appiglio normativo per ritenere immediatamente impugnabili i criteri in forza dei quali l’amministrazione ripartisce le risorse.
[3] Il comma 4 dell’art. 26 del D.Lgs. n. 33/2013 esclude la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti di concessione dei benefici economici, qualora gli atti e i documenti da pubblicare siano idonei a disvelare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati.
Su questo aspetto –che l’Ente precisa non interessare il caso di specie– si rinvia alla lettura della nota di questo Servizio prot. n. 3221/2019.
[4] Ai sensi dell’art. 9, D.Lgs. n. 33/2013, ai fini della piena accessibilità delle informazioni pubblicate, nella home page dei siti istituzionali è collocata un’apposita sezione denominata “Amministrazione trasparente”, al cui interno sono contenuti i dati, le informazioni e i documenti pubblicati ai sensi della normativa vigente.
[5] Rubricato “Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri”.
[6] Cfr. Andrea d’Agostino, Luca R. Barlassina, Vincenzo Colarocco, Commentario al Regolamento UE 2016/679 e al Codice della privacy aggiornato, TopLegal Academy, 2019, p. 76.
[7] Sul piano dell’ordinamento interno, è espressione del principio di minimizzazione l’art. 7-bis del D.Lgs. n. 33/2013, il quale, in tema di pubblicazione di dati personali nella sezione “Amministrazione trasparente” di siti delle amministrazioni pubbliche, prevede al c. 4, che “Nei casi in cui norme di legge o di regolamento prevedano la pubblicazione di atti o documenti, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non indispensabili rispetto alle specifiche finalità di trasparenza della pubblicazione”.
In materia di tutela dei dati personali, assume altresì rilievo il principio di limitazione della conservazione, correlato, come quello della minimizzazione, alle finalità del trattamento (cfr. Andrea d’Agostino, Luca R. Barlassina, Vincenzo Colarocco, op. cit., pp. 58 e 77).
In proposito, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, sentenza del 13.05.2014, n. 131, ha rilevato che l’illiceità del trattamento “può derivare non soltanto dal fatto che tali dati siano inesatti, ma anche segnatamente dal fatto che essi siano inadeguati, non pertinenti o eccessivi in rapporto alle finalità del trattamento, che non siano aggiornati, oppure che siano conservati per un arco di tempo superiore a quello necessario” (v. in particolare i punti 92 e seguenti).
Questi principi sono stati ribaditi dalla Corte costituzionale, sentenza 21.02.2019, n. 20, la quale ha affermato che i principi di derivazione europea “sanciscono l’obbligo, per la legislazione nazionale, di rispettare i criteri di necessità, proporzionalità, finalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, pur al cospetto dell’esigenza di garantire, fino al punto tollerabile, la pubblicità dei dati in possesso della pubblica amministrazione”.
[8] Andrea d’Agostino, Luca R. Barlassina, Vincenzo Colarocco, op. cit., p. 77.
[9] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 15.05.2014, n. 243, recante: “Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”, parte I, par. 9.e.
[10] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 18.05.2016, n. 228. In quella sede il Garante ha inoltre precisato che va esclusa –in ogni caso– la diffusione di dati indentificativi (di tutti i dati identificativi, compreso il nome, n.d.r.) delle persone destinatarie dei contributi da cui è possibile ricavare informazioni relative alla situazione di disagio economico (e allo stato di salute).
[11] Cfr. provvedimento del Garante n. 228/2016 cit.
(23.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI: Contributo ad un Comitato di Iniziative Locali.
La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
Ogni “elargizione” di denaro pubblico deve essere, infatti, ricondotta a rigore e trasparenza procedurale e l’amministrazione agente non può considerarsi, quindi, operante in piena e assoluta libertà dovendo rispettare i canoni costituzionali di uguaglianza e i principi stabiliti negli atti fondamentali dell’ente.

Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di concedere un contributo straordinario ad un Comitato Iniziative Locali che ha organizzato, in collaborazione con altre realtà locali, la “festa dell’Avvento”.
Più in particolare l’Ente riferisce dell’esistenza di una mozione della minoranza consiliare che propone all’amministrazione comunale di «concedere un contributo straordinario al CIL (quale Capofila) di € 400,00 per l’organizzazione della tradizionale giornata “Festa dell’Avvento” in data 08.12.2019», precisando, altresì, “che ciò avvenga straordinariamente
[1] (e se tecnicamente possibile) d’Ufficio in deroga alla procedura del Regolamento sopra citato [2]”.
Il Comune rileva che l’importo proposto coinciderebbe con la somma versata dal Comitato per il pagamento della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP). Si precisa, al riguardo, nella mozione che “tra le voci di spesa maggiormente impattanti per gli Organizzatori c’è il pagamento a favore del Comune di XX della Tassa di Occupazione del Suolo Pubblico che ammonta a € 400,00 circa”.
Da ultimo si chiede, altresì, se, atteso che il Presidente del Comitato in riferimento è coniuge di un consigliere comunale, si configuri per quest’ultimo un obbligo di astensione dal partecipare a eventuali sedute consiliari che riguardassero la fattispecie in oggetto.
Quanto al fatto che l’importo proposto quale entità del contributo “corrisponda” a quello versato dal Comitato a titolo di TOSAP si rileva come non sia possibile collegare giuridicamente le due somme trattandosi di importi afferenti a due titoli giuridici differenti e non “compensabili” tra loro.
In altri termini, fermo l’avvenuto versamento della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, per quanto concerne la possibilità per il Comune di concedere un contributo per l’iniziativa in oggetto risulta necessario valutare la normativa di riferimento.
Al riguardo si osserva che la legge 07.08.1990, n. 241
[3] all’articolo 12 (Provvedimenti attributivi di vantaggi economici) prevede che: “1. La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1
”.
Il Comune si è dotato di un proprio Regolamento per la concessione di contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale ad associazioni, enti, altre istituzioni
[4] il quale, prevede un procedimento ad istanza di parte che necessita di una domanda “sottoscritta dal presidente o dal legale rappresentante dell’ente [5]: la richiesta di contributo, pertanto, pare non poter essere concessa d’ufficio dall’Amministrazione comunale.
Si consideri, al riguardo, che, come rilevato dalla Corte dei Conti, «il legislatore ha circondato tale materia di particolari cautele e garanzie procedimentali: ogni “elargizione” di denaro pubblico deve esser infatti ricondotta a rigore e trasparenza procedurale e l’amministrazione agente non può considerarsi, quindi, operante in piena e assoluta libertà e, nel caso specifico, deve rispettare i canoni costituzionali di uguaglianza e i principi stabiliti negli atti fondamentali dell’Ente»
[6].
Ancora la giurisprudenza contabile ha affermato che: “Le attività di soggetti terzi possono essere sostenute da un ente locale, laddove rappresentino una modalità alternativa e mediata di erogazione del servizio pubblico, siano svolte nell'interesse della comunità e siano ritenute utili per la stessa -in attuazione, quindi, dell'art. 118 Cost.- fermo restando lo scrupoloso rispetto delle forme di trasparenza e d'imparzialità, queste ultime presidiate dalla disciplina ex art. 12, L. n. 241 del 1990 e all'art. 26, D.Lgs. n. 33 del 2013
[7].
Per completezza espositiva si segnala che il Comitato potrebbe valutare se vi sia la possibilità di ottenere in altro modo contributi o sovvenzioni a supporto dell’attività svolta. Al riguardo si rileva che la legge regionale 03.05.2019, n. 7 recante “Misure per la valorizzazione e la promozione delle sagre e feste locali e delle fiere tradizionali”, all’articolo 4, prevede che: “1. Al fine di valorizzare e sostenere manifestazioni ed eventi pubblici e/o di pubblico spettacolo, organizzati da Comuni, Enti privati, Fondazioni e Associazioni senza fini di lucro, Pro Loco e Parrocchie, da tenersi in luoghi chiusi o all'aperto, la Regione istituisce un fondo per l'abbattimento delle spese sostenute dai soggetti organizzatori per lo svolgimento dell'evento finanziato e finalizzate:
   a) all'assistenza tecnica necessaria per la presentazione della documentazione richiesta dalla legge;
   b) all'acquisto di attrezzature o materiali necessari a garantire le normative in materia di sicurezza e salute;
   c) all'acquisto di allestimenti;
   d) all'acquisizione di servizi o al noleggio di allestimenti necessari a garantire le normative in materia di sicurezza e salute ovvero la copertura di oneri assicurativi.
2. Per le finalità di cui al comma 1, la Regione riconosce in favore dei soggetti organizzatori un contributo annuo fino ad un importo massimo di 3.000 euro, indipendentemente dal numero di eventi o manifestazioni da essi organizzati nel corso dell'anno.
3. Il contributo di cui al presente articolo è concesso anche in favore degli eventi e delle manifestazioni di cui all'articolo 2.
4. Per l'erogazione dei contributi di cui al presente articolo, la struttura competente è quella in materia di Autonomie locali e sicurezza
”.
Come specificato sul sito internet della Regione Friuli Venezia Giulia
[8]la domanda di contributo deve essere presentata a posteriori, quindi per eventi già realizzati. La concessione del contributo è disposta secondo l'ordine cronologico di presentazione delle domande medesime”.
Sarà cura del Comitato, nel caso intenda valutare la possibilità di ottenimento di un contributo per l’attività svolta, assumere ogni altra informazione necessaria ai fini della presentazione della domanda nel rispetto delle condizioni richieste dalla legge e dall’Avviso pubblicato sul sito istituzionale della Regione Friuli Venezia Giulia cui si rinvia
[9].
Con riferimento all’ultima questione posta, relativa alla sussistenza o meno di un obbligo di astensione per il consigliere comunale che è coniuge del Presidente del Comitato dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere vertenti sulla fattispecie in riferimento, si ritiene che, qualora il consiglio comunale si pronunciasse sulla questione in essere, verrebbe in rilievo il disposto di cui all’articolo 78, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale recita: “Gli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.
Come rilevato dalla giurisprudenza, «l'obbligo di astensione per incompatibilità del consigliere comunale, [è] espressione del principio generale di imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni Pubblica Amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la propria azione»
[10]. Ancora, si è affermato che: «L'obbligo di astensione degli amministratori locali costituisce principio di carattere generale ex art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti locali), che non ammette deroghe o eccezioni, ricorrendo ogni qualvolta sussista una correlazione diretta fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione, anche se la votazione potrebbe non avere altro apprezzabile esito e la scelta fosse in concreto la più utile e opportuna per l'interesse pubblico [11]
Alla base della scelta legislativa che impone l’obbligo di astensione per le deliberazioni riguardanti questioni per le quali potrebbe esservi un interesse personale degli amministratori o dei loro parenti o affini sino al quarto grado (tra cui rientrerebbe il coniuge) “non è la sfiducia sulle capacità del singolo consigliere di saper decidere anche contro il proprio personale interesse, ma piuttosto la convinzione che il soggetto, al quale è affidata la cura di un interesse pubblico, deve essere posto in condizione di operare senza condizionamenti di sorta, realizzabili evidentemente anche attraverso la mera presenza dell’interessato nell’aula del Consiglio
[12].
---------------
[1] Si precisa che, secondo quanto contenuto nel Regolamento per la concessione di contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale ad associazioni, enti, altre istituzioni dell’Ente il concetto di straordinarietà è riferito alla possibilità di concedere contributi per iniziative intraprese da soggetti ulteriori rispetto alle associazioni locali, in deroga ai requisiti di ammissibilità di cui all’articolo 4 del regolamento medesimo oppure, in altra accezione, alle domande di contributo “per manifestazioni e iniziative di particolare rilevanza, che hanno carattere straordinario e non ricorrente”.
Il contributo in oggetto non rientra in nessuna delle due tipologie sopra descritte: non nella prima atteso che il Comitato organizzatore dell’evento possiede, a quanto risulta, i requisiti di cui all’articolo 4, primo comma, n. 1 del regolamento comunale; non nella seconda trattandosi di un contributo ricorrente: nella mozione si legge, infatti, che «nella giornata dell’8 dicembre, com’è ormai consolidata tradizione da qualche anno, il CIL […], con la collaborazione del […] hanno organizzato la “Festa dell’Avvento”».
[2] Trattasi, come specificato, del Regolamento per la concessione di contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale ad associazioni, enti, altre istituzioni.
[3] Recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”.
[4] Sia per attività ordinarie che per singole iniziative.
[5] Articolo 7, primo comma, del Regolamento per la concessione di contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale ad associazioni, enti, altre istituzioni.
[6] Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere n. 260 del 20.04.2016.
[7] Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 146 del 17.04.2019.
[8] Si rinvia al seguente link relativo a “Contributi per il sostentamento delle spese di assistenza tecnica e acquisizione di servizi (art. 4 l.r. 7/2019).
[9] Si veda il link indicato in nota 8.
[10] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.09.2014, n. 4806.
[11] TAR Calabria, Reggio Calabria, sentenza del 09.01.2014, n. 18.
[12] TAR Toscana, Sez. I, sentenza del 06.06.2007, n. 830
(20.12.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni economiche orizzontali / In data 31.12.2018, un ente ha sottoscritto il contratto integrativo, prevedendo l’attivazione della progressione economica orizzontale con decorrenza 01.06.2018.
Alla luce di quanto previsto dall’art. 16, comma 7, del CCNL delle Funzioni locali tale decorrenza può ritenersi corretta, anche se il procedimento per l’attribuzione delle progressioni economiche orizzontali, con l’approvazione della relativa graduatoria, si è concluso nel 2019?

Come espressamente stabilito dall’art. 16, comma 7, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, l’attribuzione della progressione economica orizzontale non può avere decorrenza anteriore al 1° gennaio dell’anno nel quale viene sottoscritto il contratto integrativo che prevede l’attivazione dell’istituto, con la previsione delle necessarie risorse finanziarie.
Conseguentemente, se il contratto integrativo che prevede le nuove progressioni economiche è stato sottoscritto definitivamente, presso l’ente, comunque nel 2018, le stesse non avrebbero potuto avere decorrenza antecedente al 01.01.2018 (ma avrebbero potuto avere anche una diversa data del 2018, successiva al 1° gennaio, che le parti avranno ritenuto opportuno a tal fine prevedere).
Se, pertanto, nel caso concreto sottoposto, il contratto integrativo dell’ente è stato sottoscritto in data 31.12.2018, e sulla base degli accordi in esso contenuti, la decorrenza delle progressioni orizzontali è stata fissata alla data del 01.06.2018, tale disciplina può ritenersi coerente con le previsioni del citato art. 16, comma 7, del CCNL del 21.05.2018.
Per completezza, informativa, si ricorda che le posizioni economiche “nuove” D7, C6, B8 e A6, previste dalla Tabella C allegata al CCNL del 21.05.2018, non possono avere comunque decorrenza anteriore all’01.04.2018, dato che esse sono state istituite dalla contrattazione collettiva nazionale solo da tale data (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 69 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità disciplinare / Un dipendente è stato sospeso dal servizio in via cautelare, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del CCNL dell’11.04.2018. Successivamente, essendo stato lo stesso assolto con la formula “perché il fatto non sussiste”, il provvedimento è stato revocato.
Sulla base delle previsioni dell’art. 60, comma 8, del CCNL delle Funzioni Locali, come deve essere correttamente computato il conguaglio ivi previsto?
In particolare è dovuta anche la retribuzione di posizione in quanto il dipendente era titolare di posizione organizzativa al momento della sospensione oppure questa rientra tra le indennità connesse alla presenza in servizio e, quindi, non deve essere riconosciuta?

In relazione a tale problematica, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che la retribuzione di posizione, nella particolare fattispecie prospettata, debba essere riconosciuta al dipendente interessato.
In proposito, infatti, si osserva che:
   a) l’art. 61, comma 8, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 dispone “Nel caso di sentenza penale definitiva di assoluzione o di proscioglimento, pronunciata con la formula “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” oppure “non costituisce illecito penale” o altra formulazione analoga, quanto corrisposto, durante il periodo di sospensione cautelare, a titolo di indennità, verrà conguagliato con quanto dovuto al dipendente se fosse rimasto in servizio, escluse le indennità o i compensi connessi alla presenza in servizio, o a prestazioni di carattere straordinario...“;
   b) dal confronto della suddetta clausola contrattuale con la precedente disciplina dell’art. 5, comma 9, del CCNL del Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali dell’11.04.2008 non può non rilevarsi la mancata reiterazione nel testo della prima del riferimento anche “…ai compensi comunque collegati…..agli incarichi…”;
   c) si tratta di un aspetto importante perché proprio tale riferimento espresso consentiva di escludere dal conguaglio la retribuzione di posizione dei titolari di posizione organizzativa;
   d) pertanto, in mancanza di tale indicazione formale, non si ritiene più possibile non riconoscere al dipendente la retribuzione di posizione; infatti, tale particolare compenso, in considerazione della sua natura e delle sue caratteristiche legittimanti non può essere ricondotto tra le indennità connesse alla presenza in servizio che, ai sensi dell’art. 60, comma 8, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, sono escluse dal conguaglio ivi previsto (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 68 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ferie e festività / Un dipendente, già in servizio presso l’ente con inquadramento in un profilo della categoria B, con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica B3, è successivamente assunto, presso lo stesso ente, a seguito di scorrimento di graduatoria di procedura concorsuale, con inquadramento nella categoria C.
Le ferie residue, maturate nell’anno e non fruite da dipendente quando era inquadrato nel profilo B, con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica B3, possono essere conservate anche a seguito della nuova collocazione nella categoria C, in quanto maturate nella stessa amministrazione?


Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue:
   a) nella fattispecie prospettata, a seguito dell’assunzione conseguente allo scorrimento della graduatoria vigente di un concorso pubblico precedentemente da voi bandito, il lavoratore di cui si tratta instaura con l’Ente un nuovo rapporto di lavoro, diverso per natura e contenuti, da quello di cui precedentemente era titolare con lo stesso Ente;
   b) pertanto, essendosi estinto il precedente rapporto di lavoro, con il conseguente venir meno, quindi, anche di tutte le situazioni soggettive che in esso trovavano il proprio fondamento, le ferie maturate e non fruite nell’ambito di questo non possono essere trasportate e fruite nell’ambito del nuovo rapporto di lavoro;
   c) la trasposizione delle ferie maturate e non fruite presso il vostro sarebbe stato possibile solo nel caso di un processo di mobilità, ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. n. 165/2001;
   d) infatti, in questa ipotesi, non vi è costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, ma la continuazione del precedente rapporto, con i medesimi contenuti e caratteristiche, con un nuovo datore di lavoro;
  e) l’art. 5, comma 8, della legge n. 135/2012 ha disposto il divieto di monetizzazione delle ferie non godute dei pubblici dipendenti, salvo i limitati casi in cui questa possa ritenersi ancora possibile sulla base delle citate previsioni legislative e delle indicazioni fornite dal Dipartimento della Funzione Pubblica con le note n. 32937 del 06.08.2012 e n. 40033 dell’08.10.2012.
In tal senso, si richiamano anche alcune recenti indicazioni contrattuali:
   1) la disposizione dell’art. 28, comma 11, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo la quale: “11. Le ferie maturate e non godute per esigenze di servizio sono monetizzabili solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti delle vigenti norme di legge delle relative disposizioni applicative.”;
   2) la Dichiarazione congiunta n. 1, allegata al medesimo CCNL del 21.05.2018, che espressamente recita: “In relazione a quanto previsto dall’art. 28, comma 11, le parti si danno reciprocamente atto che, in base alle circolari applicative emanate in relazione all’art. 5, comma 8, del D.L. n. 95 convertito nella legge n. 135 del 2012 (MEF-Dip. Ragioneria Generale Stato prot. 77389 del 14.09.2012 e prot. 94806 del 09.11.2012-Dip. Funzione Pubblica prot.32937 del 06.08.2012 e prot. 40033 dell’08.10.2012), all’atto della cessazione del servizio le ferie non fruite sono monetizzabili solo nei casi in cui l’impossibilità di fruire delle ferie non è imputabile o riconducibile al dipendente come nelle ipotesi di decesso, malattia e infortunio, risoluzione del rapporto di lavoro per inidoneità fisica permanente e assoluta, congedo obbligatorio per maternità o paternità" (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 67 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMalattia / Un dipendente era in ferie dal 3 al 13 settembre. In data 13 ha svolto una terapia salvavita presso la struttura ospedaliera, che ha rilasciato apposita certificazione con la indicazione a penna “terapia salvavita”.
In tale fattispecie il citato giorno 13 deve essere considerato come giorno di ferie oppure deve essere ricondotto alle previsioni dell’art. 37 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018?

In materia, si ritiene opportuno evidenziare che, ai fini dell’interruzione del godimento delle ferie, l’art. 28, comma 16, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, richiede espressamente che intervenga una malattia o di durata superiore a 3 giorni (quindi almeno 4) o che abbia comportato il ricovero ospedaliero.
Pertanto, in coerenza con tale disciplina, nel caso in esame, l’effetto interruttivo potrebbe ritenersi ammissibile solo ove siano presenti tali presupposti e, quindi, si sia trattato di un giorno di effettivo svolgimento della terapia salvavita in regime di ricovero ospedaliero, in conformità alle previsioni dell’art. 37 del medesimo CCNL del 21.05.2018 (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 66 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuova disciplina delle posizioni organizzative / I compensi previsti dall’art. 1, comma 1091, della legge n. 145/2018 (compensi derivanti dagli accertamenti IMU e TARI) possono essere erogati anche ai titolari di posizione organizzativa in aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue:
   a) l’art. 67, comma 3, lett. c), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 espressamente stabilisce che, all’interno del Fondo, le risorse variabili possono essere incrementate con quelle derivanti da disposizioni di legge che prevedano specifici trattamenti economici in favore del personale, da utilizzarsi secondo quanto previsto dalle medesime disposizioni di legge;
   b) ad avviso della scrivente Agenzia, in tale ampia e generale indicazione possono essere riportati anche le risorse di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145/2018; infatti, sembrano sussistere entrambi i presupposti richiesti dalla clausola contrattuale: si tratta di risorse rinvenienti da specifiche disposizioni di legge ed, in base alle stesse, sono espressamente finalizzate anche al trattamento economico accessorio del personale, secondo le quantità e le modalità ivi previste (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 65 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Orario di lavoro / Un dipendente, con un’articolazione oraria su sei giorni settimanali ed il riposo coincidente con la domenica, nel caso effettui una prestazione lavorativa di sei ore nel giorno del riposo settimanale, può rinunziare a fruire del riposo compensativo sostituendolo con forme di monetizzazione?
Un dipendente che in una giornata non lavorativa effettui una prestazione di lavoro straordinario che verrà liquidata come tale, ha diritto a percepire anche l’indennità di condizioni di lavoro?

In materia, si ritiene utile precisare quanto segue:
problematica n. 1
In ordine alla portata contenutistica dell’art. 24, comma 1, del CCNL del 14.09.2000, l’Aran nei propri orientamenti ha sempre precisato che:
   a) dal punto di vista del trattamento economico, al lavoratore che presta lavoro nel giorno del riposo settimanale spetta solo un compenso aggiuntivo pari ad una maggiorazione del 50% della retribuzione oraria di cui all’art. 52, comma 2, lett. b), del CCNL del 14.09.2000, come sostituito dall’art. 10 del CCNL del 09.05.2006, commisurato alle ore di lavoro effettivamente prestate (pertanto, ad esempio, fatto 100 il valore della retribuzione oraria di cui all’art. 10, comma 2, lett. b), del CCNL del 09.05.2006, l’importo del compenso dovuto al lavoratore sarà pari a 50 - e non a 150 per ogni ora di lavoro prestato);
   b) al lavoratore spetta, sulla base della medesima disciplina contrattuale, anche un riposo compensativo di durata esattamente corrispondente a quella della prestazione lavorativa effettivamente resa (dichiarazione congiunta n. 13 allegata al CCNL del 05.10.2001).
Le suddette ore dovranno essere portate in detrazione alla durata ordinaria della settimana in cui il lavoratore fruirà del riposo compensativo. L’ente, necessariamente ed anche tempestivamente, deve provvedere sempre a far fruire questi riposi al personale interessato entro i termini contrattualmente stabiliti.
In proposito si deve ricordare che si tratta di un riposo volto a consentire al lavoratore di godere di quello settimanale, espressamente garantito dalla legge come diritto soggettivo, dallo stesso precedentemente non fruito per ragioni di servizio. Proprio, per tale aspetto, si esclude che lo stesso o anche solo parte di esso possa essere oggetto di rinunzia da parte del lavoratore e, quindi, anche che lo stesso possa essere sostituito con forme di monetizzazione.
problematica n. 2
Relativamente a tale aspetto, si evidenzia che l’art. 24, comma 4, del CCNL del 14.09.2000 prevede espressamente che lo specifico compenso previsto per il lavoro reso nel giorno del riposo settimanale è pienamente cumulabile con ogni altro trattamento accessorio collegato alla prestazione.
Si tratta di un trattamento di maggior favore che viene riconosciuto, formalmente e chiaramente, solo al dipendente che, eccezionalmente, viene chiamato a rendere la prestazione lavorativa nel giorno del riposo settimanale e che, conseguentemente in mancanza di indicazioni in tal senso, è insuscettibile di estensione, anche in via analogica, altre ipotesi ugualmente considerate dalla disciplina dell’art. 24: attività lavorativa prestata in via eccezionale in giornata festiva infrasettimanale (comma 2); attività lavorativa prestata, in via eccezionale, in giornata feriale non lavorativa (il sabato), in presenza di una articolazione dell'orario di lavoro settimanale su cinque giorni (comma 3) (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 64 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aspettative / Sulla base di un accordo tra ente e lavoratore, in deroga alle previsioni degli artt. 39 e 42 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, è possibile concedere un’ulteriore aspettativa per motivi familiari e personali a dipendente che ha già fruito, al medesimo titolo, di un periodo di nove mesi prima che siano trascorsi tre anni?
Anche ove la fruizione dell’ulteriore aspettativa porterebbe al superamento della concessione massima di 12 mesi nell’arco del triennio e non rispetterebbe i sei mesi di servizio attivo tra i due periodi di aspettativa?

Relativamente alla particolari problematiche esposte, si ritiene utile precisare quanto segue;
   a) sulla base delle precise indicazioni dell’art. 39, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, la durata complessiva del periodo di aspettativa per motivi personali non può essere superiore a dodici mesi in un triennio;
   b) la suddetta aspettativa, nei termini quantitativi previsti può essere fruita frazionatamente (art. 39, comma 2, del CCNL del 21.05.2018);
   c) ove la fruizione dell’ulteriore periodo di aspettativa nel triennio, portasse al superamento del vincolo temporale dei 12 mesi nel triennio, essa non potrebbe in alcun modo essere concessa; si tratta di una disciplina specifica che non ammette deroghe né unilaterali da parte del datore di lavoro, né consensuali, sulla base di un accordo con il lavoratore;
   d) ove, invece, la fruizione dell’ulteriore periodo di aspettativa non comporti il superamento di tale limite temporale dei 12 mesi, allora essa potrà essere concessa;
   e) si ricorda che, comunque, in base alla disciplina contrattuale, l’aspettativa può essere concessa solo previa autonoma valutazione della stessa con le esigenze organizzative o di servizio dell’ente;
   f) la possibilità di concedere l’ulteriore periodo di aspettativa (ove non comporti il superamento del tetto dei 12 mesi nel triennio) è comunque subordinata anche al divieto di cumulo sancito dall’art. 42, comma 1, del medesimo CCNL del 21.05.2018, secondo il quale: “1. Il dipendente, rientrato in servizio, non può usufruire continuativamente di due periodi di aspettativa, anche richiesti per motivi diversi, se tra essi non intercorrano almeno quattro mesi di servizio attivo”; per servizio attivo si intende solo la effettiva attività lavorativa;
   g) in relazione a tale ultimo aspetto, tuttavia, giova ricordare che nei propri orientamenti applicativi, pubblicati anche sul proprio sito istituzionale, la scrivente Agenzia, nella vigenza dei precedenti artt. 11 e 14 del CCNL del 14.09.2000 ha avuto modo di evidenziare che: “nel nuovo contesto privatizzato, salvo che non si tratti di disposizioni assolutamente inderogabili in quanto rappresentano la tutela minimale da garantire al lavoratore nel corso di svolgimento del rapporto, gli eventuali comportamenti del datore di lavoro pubblico difformi rispetto alle prescrizioni contrattuali non possono essere valutati in termini di legittimità o di illegittimità, come avveniva nel precedente assetto pubblicistico. Ciò vale soprattutto nel caso in cui vengono in considerazione istituti che possono considerarsi disponibili da parte del datore di lavoro, in quanto la relativa disciplina contrattuale è stata finalizzata alla tutela precisa del suo interesse, come nel caso in esame. Pertanto, ove l’ente, autonomamente valuti conforme al suo interesse organizzativo concedere l’aspettativa di cui si tratta anche in mancanza del servizio attivo richiesto dall’art. 14 del CCNL del 14.09.2000, può anche ammettere, assumendosi ogni responsabilità, il dipendente al beneficio, senza che il citato art. 14 possa costituire un ostacolo assolutamente insuperabile. Infatti, l’unico soggetto che potrebbe ricevere un danno dalla violazione della clausola contrattuale è lo stesso soggetto che concede il beneficio al lavoratore. Tuttavia, è opportuno che comportamenti che l’ente intende adottare in materia siano attentamente valutati anche nelle loro conseguenze. Infatti, l’ente, rinunciando a far valere la disciplina relativa al cumulo delle aspettative, ben difficilmente potrebbe giustificare il ricorso a strumenti organizzativi diversi quali il contratto a termine o il lavoro interinale sulla base delle esigenze operative determinate dall’assenza del dipendente. Inoltre occorre considerare che l’art. 14, disciplinando un particolare aspetto del rapporto di lavoro, ha inteso anche dettare una regola unica e uniforme, a garanzia della trasparenza ed imparzialità dei comportamenti datoriali nei confronti di tutti i lavoratori. Pertanto, eventuali deroghe alla regola generale potrebbero determinare richieste emulative da parte di tutti i dipendenti eventualmente interessati, anche con riferimento a forme di aspettative diverse da quelle riconducibili all’art. 13. In tal caso, comportamenti non omogenei del datore di lavoro potrebbero essere fatti valere in sede di contenzioso sotto il profilo della violazione di principi di non discriminazione ed imparzialità.”.
Si tratta di indicazioni che, seppure formulate, come detto nella vigenza della disciplina degli art. 11 e 14 del CCNL del 14.09.2000, possono ritenersi ancora validi in quanto la nuova regolamentazione della materia riproduce, sostanzialmente, quella precedente;
   h) pertanto, conclusivamente, si può dire che il periodo massimo di 12 mesi nel triennio non è assolutamente modificabile, mentre sulla disciplina del cumulo possono ritenersi possibili spazi di flessibilità, nei termini descritti alla precedente lett. g) (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 63 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aspettative / Nell’ambito del nuovo CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 sono previste giornate di permesso retribuito per il dipendente comunale in caso di nascita di un figlio o si deve fare riferimento ai permessi previsti dall’art. 32 del citato CCNL del 21.05.2018?
Se le 18 ore dell’art. 32 del CCNL del 21.05.2018 sono già state utilizzate nell’anno, sono previsti altri permessi oppure si deve fare riferimento a qualche altra norma specifica per la genitorialità?

In materia, si richiama l’attenzione sulla previsione dell’art. 32 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, che riconosce al datore di lavoro pubblico la possibilità di concedere ai dipendenti, in relazione a ciascun anno solare, 18 ore di permesso retribuito “….per particolari motivi personali o familiari”.
Nell’ampia e generica causale giustificativa dei permessi di cui si tratta (i particolari motivi personali o familiari) potrebbe certamente essere ricompresa anche la particolare fattispecie da Voi segnalata.
Ove ciò non sia possibile, perché i permessi sono già stati già integralmente utilizzati, il dipendente potrebbe avvalersi, ove lo reputi opportuno, solo dell’aspettativa per motivi familiari e personali, di cui all’art. 39 del medesimo CCNL del 21.05.2018, dato che la stessa può essere fruita anche frazionatamente.
La disciplina contrattuale non prevede altre forme di possibile assenza utilizzabili nella particolare fattispecie prospettata.
In ordine al diverso aspetto dell’esistenza di norme di legge che consentano l’assenza dal lavoro per nascita figli, indicazioni, eventualmente, potranno essere richieste al Dipartimento della Funzione Pubblica, istituzionalmente competente per l’interpretazione delle disposizioni legislative concernenti il rapporto di lavoro pubblico (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 62 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / Un dipendente chiede di assentarsi per l’intera giornata, utilizzando cumulativamente i permessi orari per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostiche, di cui all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.50.2018.
Ove dall’attestazione presentata si evinca che la prestazione abbia avuto una durata limitata e che anche cumulata con quella dei tempi di percorrenza non copra completamente l’orario di lavoro giornaliere cui il dipendente era tenuto nella giornata di assenza, come devono essere valutate e giustificate le ore non ricomprese nell’attestazione e nei tempi di percorrenza?

L’art. 35, comma 9, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, espressamente, dispone che l’assenza per la fruizione dei permessi orari per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici deve essere giustificata mediante attestazione di presenza, recante informazioni anche in ordine all’orario delle visite, terapie, ecc., rilasciata dal medico o dal personale amministrativo della struttura che le hanno effettuate.
Nella domanda, evidentemente, il dipendente indicherà anche la prevista durata del permesso di cui intende fruire.
Pertanto, sulla base della disciplina contrattuale, non può non ritenersi sussistente una relazione tra la durata visita, terapia ecc. e le ore di permesso fruito, al fine di consentire una applicazione dell’istituto coerente con le finalità perseguite con lo stesso (pur prendendo atto della opportunità di ammettere margini di flessibilità per tenere conto, ad esempio, di quei fattori di variabilità connessi ai tempi di percorrenza, che potrebbero risentire di fattori esterni o accidentali, come traffico, mezzo utilizzato, imprevisti di altro tipo ecc.).
Pur se l’art. 35, comma 5, del CCNL del 21.05.2018 prevede la possibilità di fruire anche cumulativamente dei permessi orari di cui al comma 1 per la durata dell’intera giornata lavorativa (con incidenza sul monte ore computata con riferimento all'orario di lavoro che avremmo dovuto osservare per tale giornata), ai fini di una valutazione complessiva della situazione determinatasi per la corretta applicazione dell’istituto, non sembra possa prescindersi, comunque, dalle risultanze delle attestazioni di presenza e degli orari ivi indicati, sia pure tenendo conto di quei margini di flessibilità di cui si è detto.
Ove emergano significative discrepanze orarie, ad avviso della scrivente Agenzia, l’ente potrebbe, comunque, valutare, secondo principi generali di correttezza e buona fede, di richiede specifici chiarimenti al dipendente (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 61 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMalattia / Un dipendente, cessato dal servizio per dimissioni da altra amministrazione e assunto da un nuovo ente, presso il nuovo datore di lavoro, ha diritto a usufruire di 18 mesi di malattia per causa di servizio senza sommare le precedenti assenze a tale titolo già intervenute nell’ambito del precedente rapporto di lavoro?
I 18 mesi di malattia per causa di servizio spettano una sola volta durante l’attività lavorativa del dipendente?
Al dipendente titolare di posizione organizzativa durante il periodo di malattia a causa di servizio, spetta la retribuzione di posizione?

Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene utile precisare quanto segue:
   a) se un dipendente, già in servizio presso altro ente o amministrazione, anche di diverso comparto, è assunta successivamente da altra amministrazione, tramite concorso o altro strumento selettivo previsto dalla vigente legislazione in materia, le assenze per malattia intervenute nel primo rapporto di lavoro non possono essere computate nell’ambito del secondo, trattandosi di due autonomi e distinti rapporti di lavoro.
Pertanto, anche in questa fattispecie, con l’estinzione del primo rapporto di lavoro, come sopra già detto, vengono meno tutte quelle situazioni soggettive che in quel rapporto trovavano il proprio fondamento.
Conseguentemente, il periodo di comporto delle malattie imputabili a causa di servizio presso il nuovo ente ricomincia ex novo;
   b) diversamente accade solo nel caso della mobilità.
Infatti, in base alle previsioni dell’art. 30 del D.Lgs. n. 165/2001, in tutti i casi di mobilità di personale tra enti o amministrazioni, non vi è costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, ma la continuazione del precedente rapporto, con i medesimi contenuti e caratteristiche, con un nuovo datore di lavoro.
Quindi, a seguito dell’assegnazione al nuovo ente, non si costituisce nuovo rapporto, ma più semplicemente quello intercorrente con l’ente di precedente appartenenza prosegue, con i medesimi contenuti e caratteristiche, con il nuovo datore di lavoro.
Conseguentemente, proprio perché si tratta della prosecuzione del precedente rapporto di lavoro, il nuovo datore di lavoro, ai fini dell’amministrazione del rapporto, relativamente ai vari istituti concernenti le diverse forme di assenze dal lavoro (aspettative, ferie, malattia, ecc.), potrà tenere conto, ai fini del rispetto delle regole e degli eventuali limiti quantitativi stabiliti dalla disciplina contrattuale, anche di quelle già fruite per il medesimo titolo presso l’amministrazione di originaria appartenenza;
   c) la risposta al punto 2 della vostra nota è negativa.
In proposito, si evidenzia che il meccanismo applicativo della disciplina delle assenze dal servizio per infortunio sul lavoro e malattie dovute a causa di servizio, di cui all’art. 38 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (come precedentemente nella vigenza dell’art. 22 del CCNL del 06/07/1995), in analogia a quanto espressamente previsto dall’art. 36 stesso CCNL per le assenze per malattia, per il personale che ancora se ne può avvalere, non è statico ma dinamico, sia nello scorrimento del triennio preso a riferimento sia, evidentemente, nella considerazione dei periodi di assenza da considerare;
   d) in base all'art. 38, comma 4, del CCNL del 21.05.2018, in caso di assenza dovuta ad infortunio sul lavoro o a malattia riconosciuta dipendente da causa di servizio, il dipendente ha diritto alla conservazione del posto fino alla guarigione clinica e, comunque, non oltre il periodo previsto dall'art. 36, commi 1 e 2.
In tale periodo al dipendente spetta l’intera retribuzione di cui all’art. 36, comma 10, lett. a), del medesimo CCNL, comprensiva del trattamento accessorio ivi previsto come determinato nella tabella n. 1 allegata al CCNL del 06.07.1995.
Pertanto, il periodo di comporto per le assenze dovute ad infortunio è un unico periodo di 36 mesi, durante il quale il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto e alla retribuzione in misura intera;
   e) in mancanza di una diversa regolamentazione (come evidenziato in precedenti orientamenti applicativi, spetta all’autonoma potestà regolamentare degli enti la determinazione della disciplina di dettaglio delle posizioni organizzative, con particolare riferimento alle ipotesi di assenza del responsabile delle stesse), il dipendente incaricato di una posizione organizzativa conserva la titolarità della stessa anche nei casi di assenza per malattia, anche di lunga durata, e, in relazione a tale incarico ed alla durata dello stesso, il corrispondente diritto a percepire la retribuzione di posizione;
   f) infatti, l’art. 36, comma 10, lett. a), del CCNL del 21.05.2018, espressamente stabilisce che al lavoratore deve essere riconosciuta “l’intera retribuzione fissa mensile ivi comprese le indennità fisse e ricorrenti…” ed in tale ambito certamente rientra anche la retribuzione di posizione di posizione dei titolari di posizione organizzativa, in quanto entrambe le caratteristiche della fissità e della continuità qualificano tale particolare voce retributiva (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 60 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuova disciplina delle posizioni organizzative / Quali sono le corrette modalità applicative dell’art. 17, comma 6, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 per la determinazione della retribuzione di posizione da riconoscere al dipendente che, già titolare di posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza, sia utilizzato a tempo parziale ed incaricato di altra posizione organizzativa presso altro ente o presso servizi in convenzione o presso una unione di comuni, secondo la disciplina degli art. 14 e 13 del CCNL del 22.01.2004?
La disciplina dell’art. 17, comma 6, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, in connessione le precedenti e vigenti disposizioni degli 14 e 13 del CCNL del 22.01.2004, ai fini della sua attuazione, richiede che:
   a) un dipendente di un ente sia utilizzato a tempo parziale presso altro ente o presso un servizio in convenzione; in base al citato art. 14,comma 1, la convenzione di utilizzo a tempo parziale, deve disciplinare in particolare: la durata del periodo di utilizzazione, il tempo di lavoro (nell’ambito dell’orario d’obbligo complessivo normalmente di 36 ore settimanali) e la relativa articolazione tra i due enti, la ripartizione degli oneri e i conseguenti adempimenti reciproci, ogni altro aspetto ritenuto utile per una corretta gestione del rapporto di lavoro;
   b) l’affidamento al suddetto dipendente utilizzato a tempo parziale presso altro ente, già titolare di posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza di una posizione organizzativa, di altra posizione organizzativa presso l’ente utilizzatore o presso il servizio in convenzione;
   c) deve determinarsi, quindi, una situazione di contestuale titolarità in capo al medesimo dipendente di due diverse e distinte posizioni organizzative, una presso l’ente di appartenenza e l’altra presso l’ente che lo utilizza a tempo parziale o presso il servizio in convenzione;
Spetta al datore di lavoro pubblico, nell’ambito della sua autonoma responsabilità gestionale, la valutazione della effettiva sussistenza di tali presupposti.
Ove questi, siano presenti, si potrà dare luogo all’applicazione della disciplina del citato art. 17, comma 6, del CCNL del 21.05.2018, che, ribadendo quanto già previsto dai richiamati artt. 14 e 13 del CCNL del 22.01.2004, dispone che:
   a) l’ente di appartenenza continua a corrispondere la retribuzione di posizione e di risultato secondo i criteri dallo stesso stabiliti, riproporzionate in base alla intervenuta riduzione della prestazione lavorativa e con onere a proprio carico;
   b) l’Unione, l’ente, o il servizio in convenzione presso il quale è stato disposto l’utilizzo a tempo parziale corrispondono, le retribuzioni di posizione e di risultato in base alla graduazione della posizione attribuita e dei criteri presso gli stessi stabiliti, con riproporzionamento in base alla ridotta prestazione lavorativa;
   c) al fine di compensare effettivamente la maggiore gravosità connessa alla titolarità di due posizioni organizzative e lo svolgimento delle prestazioni in diverse sedi di lavoro, i soggetti di cui si è detto (Unione, Ente utilizzatore e servizio in convenzione) possono altresì corrispondere, una maggiorazione della retribuzione di posizione attribuita ai sensi del precedente alinea, di importo non superiore al 30% della stessa, con oneri a proprio carico;
   d) quindi, solo l’ente utilizzatore a tempo parziale, il servizio in convenzione e l’unione di comuni, che si avvalgono del lavoratore di altro ente, si assumono l’onere della maggiorazione fino al 30% della retribuzione di posizione, considerata nel suo valore pieno, prevista dalla disciplina contrattuale;
   e) l’importo della retribuzione di posizione, determinato tenendo conto anche della eventuale maggiorazione dell’art. 17, comma 6, ultimo alinea, del CCNL del 21.05.2018, deve essere, comunque, poi riproporzionato in relazione alla durata prevista della prestazione lavorativa presso l’ente utilizzatore a tempo parziale, il servizio in convenzione e l’unione di comuni;
   f) gli oneri della eventuale maggiorazione della retribuzione riconosciuta dall’ente utilizzatore a tempo parziale, dal servizio in convenzione e dall’unione di comuni sono posti a carico di questi;
   g) in coerenza con la ratio dell’istituto e con gli orientamenti applicativi già formulati in materia, il riproporzionamento deve essere effettuato in relazione al numero delle ore che il dipendente effettivamente è chiamato a rendere presso l’ente di appartenenza e presso l’utilizzatore a tempo parziale, il servizio in convenzione e l’unione di comuni;
   h) per effetto della nuova disciplina, tenuto conto anche delle regole in materia di valori della retribuzione di posizione recate dall’art. 15 del CCNL del 21.05.2018, è venuto meno anche il precedente tetto di € 16.000, previsto dai precedenti artt. 13 e 14 del CCNL del 22.01.2004 per le ipotesi considerate;
   i) un esempio, potrà chiarire la disciplina:
Ente datore di lavoro:
   Valore posizione organizzativa intero: € 11.300,00
   Valore posizione riproporzionato in relazione al tempo di lavoro presso lo stesso: € 5.650,00
Ente utilizzatore a tempo parziale, Unione o Servizio in convenzione:
   Valore posizione organizzativa intero: € 11.300,00
   Valore eventuale incremento del 30% (valore massimo): € 3.390,00
   Valore posizione organizzativa intero con l’incremento del 30%: € 14.690,00
   Valore posizione riproporzionato in relazione al tempo di lavoro presso lo stesso: € 7.345,00
Si coglie l’occasione per evidenziare che anche la disciplina dell’art. 14, comma 5, del CCNL del 22.01.2004, nella parte relativa alla quantificazione della retribuzione di risultato, nel caso di incarico di posizione organizzativa conferito al medesimo dipendente presso l’ente di appartenenza e presso altro ente che lo utilizzi a tempo parziale o nell’ambito dei servizi in convenzione (da un minimo del 10% ad un massimo del 30% della retribuzione disposizione in godimento), non è più applicabile a seguito dell’introduzione delle nuove disposizioni in materia di retribuzione di risultato delle posizioni organizzative contenute nell’art. 15, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018.
Infatti, nell’ambito della nuova disciplina, analogamente a quanto avviene per la retribuzione di risultato della dirigenza, è previsto solo che al finanziamento della retribuzione di risultato deve essere destinata una quota non inferiore al 15% del complessivo ammontare delle risorse finalizzate all’erogazione della retribuzione di posizione e di risultato di tutte le posizione organizzative previste dall’ordinamento dell’ente.
Gli enti definiscono, poi, autonomamente, in sede di contrattazione integrativa, i criteri generali per la determinazione della retribuzione di risultato delle diverse posizioni organizzative, nell’ambito delle risorse a tal fine effettivamente disponibili. A seguito di tale nuova regolamentazione, deve ritenersi integralmente e definitivamente disapplicata la precedente disciplina della retribuzione di risultato delle posizioni organizzative contenuta nell’art. 10, comma 3, del CCNL del 31.03.1999, che rappresentava la cornice di riferimento anche del sopra citato art. 14, comma 5, del CCNL del 21.05.2004.
Pertanto, anche nel caso di un dipendente di un ente utilizzato a tempo parziale presso altro ente o presso un servizio in convenzione o presso una Unione di comuni, con contestuale conferimento della titolarità di due distinte posizioni organizzative, come sopra detto, la disciplina applicabile per la retribuzione di risultato deve essere individuata nelle previsioni dell’art. 15, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 59 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Previdenza complementare / E’ obbligatorio per l’ente destinare una quota dei proventi contravvenzionali, di cui all’art. 208, comma 4, lett. c), e 5 del D.Lgs. n. 285/1992, al finanziamento di forme di previdenza integrativa?
L’art. 56-quater del CCNL del 21.05.2018 delle Funzioni Locali individua, espressamente, alle lettere a), b) e c), del comma 1 dello stesso, le possibili modalità di utilizzo dei proventi della sanzioni amministrative derivanti dalla violazione del codice della strada.
Tale disciplina contrattuale, tuttavia, si muove, sempre all’interno della cornice regolativa dell’art. 208 del D.lgs. n. 285/1992.
Infatti, il citato art. 56-quater, comma 1, del CCNL del 21.05.2018 dispone che: “I proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie riscossi dagli enti, nella quota da questi determinata ai sensi dell’art. 208, commi 4 lett. c), e 5 del D.Lgs. n. 285/1992 sono destinati, in coerenza con le previsioni legislative,….”.
Pertanto, come evidenziato dalla clausola contrattuale, in coerenza e nel rispetto delle disposizioni del citato art. 208, commi 4, lett. c), e 5 del D.Lgs. n. 285/1992, spetta sempre e solo all’ente la concreta individuazione delle possibili finalità di utilizzo delle risorse di cui si tratta, tra quelle indicate nella legge e l’ammontare delle risorse per ciascuna fissata.
In proposito, infatti, si richiama la espressa previsione dell’art. 208, comma 5, del D.Lgs. n. 285/1992, secondo la quale: “Gli enti di cui al secondo periodo del comma 1 determinano annualmente, con delibera della giunta, le quote da destinare alle finalità di cui al comma 4. Resta facoltà dell'ente destinare in tutto o in parte la restante quota del 50 per cento dei proventi alle finalità di cui al citato comma 4.” (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 58 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / I permessi per l’effettuazione di esami prenatali devono considerarsi rientranti tra quelli di cui all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 oppure, in quanto previsti da specifiche disposizioni di legge, siano da considerare distinti e, quindi, aggiuntivi a questi ultimi?
In materia, si ritiene opportuno precisare che i permessi retribuiti per accertamenti prenatali, previsti dall’art. 14 del D.Lgs. n. 151/2001, rappresentano una autonoma e specifica forma di tutela che il legislatore ha inteso apprestare per le lavoratrici madri.
Pertanto, essi, proprio perché regolati direttamente dalla legge per la loro peculiare finalità, non possono in alcun modo essere ricondotti all’interno delle previsioni dell’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, che, concernono la diversa fattispecie dei permessi per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici.
Si tratta, quindi, come già evidenziato nella vigenza della precedente disciplina dell’art. 19 del CCNL del 06.07.1995, sempre di permessi ulteriori ed aggiuntivi rispetto a quelli di fonte negoziale.
Infatti, poiché la disciplina dell’art. 14 del D.Lgs. n. 151/2001 è direttamente ed immediatamente applicabile a tutti i lavoratori, pubblici e privati, ai fini del riconoscimento loro riconoscimento alle lavoratrici del settore pubblico non v’è alcun bisogno di una specifica clausola contrattuale, essendo sufficiente la generale previsione dell’art. 2, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001.
Inoltre, si richiama l’attenzione sulle previsioni dell’art. 33, comma 4, del medesimo CCNL del 21.05.2018, riconosce il diritto del dipendente alla fruizione, ove ne ricorrano le condizioni, di tutte le altre tipologie di permesso retribuito previste da norme di legge. Si tratta di una previsione di portata generale, anche se nella clausola contrattuale, l’attenzione, a titolo certamente esemplificativo e non esaustivo, è posta espressamente solo su alcune particolari tipologie legali di permesso (permessi per donatori di midollo; permessi e congedi dell’art. 4, comma 1, della legge n. 53/2000) (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 57 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Altri compensi ed indennità / Le attività connesse a indagini statistiche e censimenti, legittimanti l’erogazione dei compensi ISTAT, devono essere effettuate all’interno dell’orario di lavoro oppure al di fuori o, ancora, in parte all’interno ed in parte al di fuori dell’orario di lavoro?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene opportuno evidenziare che l’art. 70-ter, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 espressamente prevede che i compensi ISTAT sono finalizzati a “….remunerare prestazioni connesse a indagini statistiche periodiche e censimenti permanenti, rese al di fuori dell’ordinario orario di lavoro” (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 56 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aspettative / L’aspettativa prevista dall’art. 18 della legge n. 183/2010 è da considerarsi aggiuntiva a quelle previste dal CCNL delle funzioni Locali del 21/05/2018, in particolare a quella prevista dall’art. 39 del suddetto CCNL?
In ordine a tale problematica, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che la particolare aspettativa prevista dall’art. 18 della legge n. 183/2010, per sua particolare natura, per i suoi specifici contenuti e per le sue finalità, rappresenta una autonoma tipologia di aspettativa del tutto diversa e distinta da quella per motivi familiari e personali, disciplinata dall’art.39 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 55 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuova indennità per specifiche responsabilità / Quali sono le condizioni legittimanti il riconoscimento al messo notificatore dell’indennità di cui all’art. 70-quinquies, lett. d), del CCNL del 21.05.2018?
In materia, si ritiene utile precisare che l’art. 70-quinquies, comma 2, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, sostanzialmente ripetendo le previsioni del precedente art. 36, comma 2, del CCNL del 22.01.2004, ha inteso solo valorizzare l’eventuale funzione aggiuntiva di “ufficiale giudiziario” che potrebbe essere affidata ad un lavoratore con profilo di messo notificatore.
Il compenso in esame, quindi, era ed è finalizzato a remunerare solo le specifiche responsabilità del messo comunale cui siano state, formalmente, conferite le funzioni di ufficiale giudiziario. Se tale conferimento manca, l’indennità di cui si tratta non può essere riconosciuta.
Per le modalità di conferimento di tali funzioni, trattandosi di materia non regolata dalla contrattazione collettiva, si consiglia di acquisire il parere del Dipartimento della Funzione Pubblica, istituzionalmente competente per l’interpretazione delle disposizioni di legge concernenti il rapporto di lavoro pubblico (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 54 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Costituzione del rapporto di lavoro / Un dipendente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato di un ente, vincitore di concorso per consigliere di prefettura, che, già nominato, deve iniziare il corso di formazione di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 139/2000, con la previsione di un periodo di prova di un anno, può avvalersi della particolare disciplina dell’art. 20, comma 10, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue:
   a) l’art. 20, comma 10, del CCNL del 21.05.2018 delle Funzioni Locali prevede, come è noto, la conservazione del posto senza retribuzione presso l’ente di provenienza al dipendente, a tempo indeterminato, che sia vincitore di concorso presso un altro ente o amministrazione, per un arco temporale corrispondente pari alla durata del periodo di prova stabilita dal CCNL applicato presso l’ente o amministrazione di destinazione;
   b) il comma 12 del medesimo articolo precisa, inoltre, che il suddetto diritto alla conservazione del posto si applica anche al dipendente in prova proveniente da un ente di diverso comparto il cui CCNL preveda analoga disciplina;
   c) come nella vigenza del precedente art. 14-bis, comma 9, del CCNL del 06.07.1995, i cui contenuti sono stati sostanzialmente riprodotti nell’art. 20, comma 10, del CCNL del 21.05.2018, questa ultima previsione deve ritenersi applicabile solo nei confronti di dipendenti di amministrazioni pubbliche, di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, appartenenti comunque ad uno specifico comparto di contrattazione rientrante nella competenza dell’ARAN, che abbia previsto, nella propria disciplina negoziale, un’analoga regolamentazione;
   d) pertanto, la disciplina di cui si tratta non può trovare applicazione:
      1) nel caso di coinvolgimento di personale dipendente al quale non si applicano i CCNL sottoscritti in sede ARAN;
      2) anche in caso di provenienza da altro comparto di contrattazione collettiva, ove manchi quella condizione di reciprocità di cui si è detto, nel senso che non esista, nell’ambito della contrattazione collettiva di questo diverso comparto, una clausola di contenuto analogo che riconosca ai dipendenti vincitori di concorso in altro comparto di contrattazione, il diritto alla conservazione del posto nell’ente di provenienza, per la durata del periodo di prova.
Alla luce delle suesposte considerazioni si esclude che, nel caso prospettato, possa trovare applicazione la disciplina del citato art. 20, comma 10, del CCNL del 21.05.2018, dato che il personale della carriera prefettizia, ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. n. 165/2001, rientra tra i dipendenti delle amministrazioni ancora assoggettate a regime pubblicistico per gli aspetti concernenti il trattamento giuridico ed economico del proprio personale (orientamento applicativo 20.12.2019 CFL 53 - link a www.aranagenzia.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIIndividuazione del destinatario delle ordinanze contingibili e urgenti.
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Ordinanze contingibili e urgenti – Destinatari – Individuazione.
In materia di ordinanze contingibili e urgenti ex art. 54, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, con riguardo all’individuazione del destinatario dell’ordine di eseguire i lavori indispensabili per eliminare il pericolo, presupposto indispensabile è la disponibilità del bene in capo a tale soggetto, che costituisce condizione logica e materiale indispensabile per l’esecuzione dell’ordine impartito (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che in presenza di una conclamata condizione di pericolo per l’incolumità pubblica, per la legittimità dell’ordine è sufficiente che il Comune provveda ad individuarne i destinatari in base alla situazione di fatto che si presenta nell’immediato, indipendentemente da ogni laboriosa e puntuale ripartizione, di fronte a più soggetti eventualmente obbligati, dei rispettivi oneri di concorso all’eliminazione dell’accertata situazione di pericolo.
Il fatto che l’ordine di esecuzione dei lavori è legittimamente indirizzato al soggetto nella condizione di eliminare la situazione di pericolo lascia impregiudicata, perché estranea alla funzione del provvedimento contingibile e urgente, la diversa e successiva questione dell’accollo economico dei costi dell’intervento in capo ai soggetti responsabili (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.01.2020 n. 536 - commento tratto da e link a ww.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
1. - E’ appellata la sentenza con la quale il giudice di primo grado ha accolto il ricorso proposto avverso l’ordinanza sindacale con cui l’amministratore del condominio in epigrafe era stato diffidato ad eseguire tutte le opere di assicurazione strettamente necessarie ad eliminare lo stato di pericolo derivante dal “distacco d’intonaco dalla scala di collegamento tra le rampe che formano Via del Parco Grifeo, accosto al civico 30/M con caduta sul sottostante terrazzino …, con accesso da Via del Parco Grifeo n. 30/M”.
2. - Il TAR ha respinto l’eccezione di difetto di legittimazione dell’amministratore del condominio ricorrente per non essere stato autorizzato ad agire in giudizio con regolare delibera dell’assemblea condominiale, rilevando, in senso contrario, che egli era stato autorizzato alla lite giudiziaria con delibera condominiale del 19.06.2008.
Nel merito, ha accolto l’unico motivo di censura proposto, nei limiti del difetto di istruttoria e di motivazione, “in mancanza da parte del Comune di adeguata dimostrazione della proprietà condominiale della scala di collegamento ritenuta versare in stato di pericoloso dissesto, quale presupposto necessario e sufficiente per imporre al Condominio ed al suo amministratore, gli obblighi di messa in sicurezza della scala predetta” (pag. 11 della sentenza appellata).
...
5. – Col secondo motivo di appello il Comune ripropone, in termini critici, le questioni relative alla sufficienza dell’istruttoria condotta, in relazione al fatto che il giudice di primo grado, riscontrando che nessuno degli argomenti addotti dalle parti risultava decisivo per stabilire se la proprietà delle scale fosse condominiale o comunale, ha annullato il provvedimento impugnato per una pretesa carenza di istruttoria, assumendo che lo stesso dovesse essere preceduto da un rigoroso accertamento della proprietà della scala di collegamento ritenuta versare in stato di pericoloso dissesto.
Il motivo di appello è fondato.
In materia di ordinanze contingibili e urgenti ex art. 54, d.lgs. n. 267/2000, con riguardo all’individuazione del destinatario dell’ordine di eseguire i lavori indispensabili per eliminare il pericolo, presupposto indispensabile è la disponibilità del bene in capo a tale soggetto, che costituisce condizione logica e materiale indispensabile per l’esecuzione dell’ordine impartito (cfr. TAR Sardegna, sez. I, 03.10.2018, n. 817; id., sez. II, 05.06.2017, n. 375; TAR Liguria, sez. I, 19.04.2013, n. 702; TAR Lazio, sez. II ter, 17.10.2016, n. 10344).
Pertanto,
in presenza di una conclamata condizione di pericolo per l’incolumità pubblica, per la legittimità dell’ordine è sufficiente che il Comune provveda ad individuarne i destinatari in base alla situazione di fatto che si presenta nell’immediato, indipendentemente da ogni laboriosa e puntuale ripartizione, di fronte a più soggetti eventualmente obbligati, dei rispettivi oneri di concorso all’eliminazione dell’accertata situazione di pericolo (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 12.11.2008, n. 5310; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 20.12.2001, n. 2493; TAR Campania, Napoli, 03.02.2004 n. 166).
Il fatto che l’ordine di esecuzione dei lavori è legittimamente indirizzato al soggetto nella condizione di eliminare la situazione di pericolo lascia impregiudicata, perché estranea alla funzione del provvedimento contingibile e urgente, la diversa e successiva questione dell’accollo economico dei costi dell’intervento in capo ai soggetti responsabili.
Pertanto, l’Amministrazione comunale appellante non era tenuta a un’approfondita istruttoria in ordine alla proprietà del bene, essendo sufficiente che ne fosse accertata la disponibilità in capo al condominio.
Non essendo contestato che il condominio avesse la disponibilità e l’uso della rampa di scale in questione, il motivo di appello va, di conseguenza, accolto.
6. – Per queste ragioni, in conclusione, l’appello deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinto il ricorso di primo grado.

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO – Avventori di una discoteca – Provvedimento comunale – Prescrizioni in ordine al contenimento del rumore antropico – Adozione delle cautele ordinarie.
L’Amministrazione comunale ben può rammentare, in un proprio provvedimento, il dovere di contenimento del rumore, nei limiti di quanto possa rientrare nelle facoltà proprie del gestore di una discoteca, venendo in rilievo un interesse generale, strettamente connesso alla salute pubblica e alla vivibilità generale degli abitati e dei luoghi.
Non è infatti in discussione alcun obbligo di contenimento di rumorosità esterna indefinita o comunque aliena rispetto alle attività o alle appartenenze della struttura della discoteca in questione (nemo ad impossibilia tenetur), bensì l’esigenza concreta di non causare, con comportamenti gestori inappropriati, l’amplificazione della rumorosità, causata dagli avventori anche nel transito, in ingresso o in uscita, in ore notturne, nella discoteca.
Il provvedimento, in altri termini, può legittimamente sollecitare l’adozione, in conformità al dettato normativo, delle cautele ordinarie, volte a contenere con diligenza il cd. rumore antropico, causato dagli avventori, in particolare nelle ore notturne, relativamente al locale e alle sue pertinenze
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 21.01.2020 n. 27 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: APPALTI – Informativa antimafia – Soggetti legittimati alla richiesta – Rapporti tra privati – Esclusione – Vuoto normativo – Art. 83, c. 1, d.lgs. n. 159/2011.
L’art. 83, c. 1, del d.lgs. n. 159/2011 ha individuato i soggetti che devono acquisire la documentazione antimafia di cui all’art. 84 prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture pubblici, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nel precedente art. 67.
Si tratta delle Pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché i concessionari di lavori o di servizi pubblici. A tali soggetti si aggiungono, in virtù del successivo comma 2, i contraenti generali previsti dal Codice dei contratti pubblici. Trattasi, dunque, di soli soggetti pubblici.
Aggiungasi che tale documentazione può essere utilizzata solo nei rapporti tra una Pubblica amministrazione ed il privato e non, nei rapporti tra privati. Il vuoto normativo non può certo essere colmato da un Protocollo della legalità, stipulato tra il Ministero dell’interno e Confindustria, trattandosi di un atto stipulato tra due soggetti, che finirebbe per estendere ad un soggetto terzo, estraneo a tale rapporto, effetti inibitori (o, secondo l’Adunanza plenaria, addirittura “incapacitanti”), che la legge ha espressamente voluto applicare ai soli casi in cui il privato in odore di mafia contragga con una parte pubblica.
(Nella specie, la richiesta di rilasciare una comunicazione antimafia, rivolta alla Prefettura, era stata effettuata da Confindustria, associazione privata, per la conclusione di contratti di rilevanza solo privatistica, in alcun modo connessi all’uso di poteri, procedimenti o risorse pubbliche)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.01.2019 n. 452 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTILa normativa vigente non consente l’utilizzo della documentazione antimafia nei rapporti tra privati.
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Informativa antimafia – Rapporti tra privati – Esclusione.
L’impresa colpita da interdittiva antimafia può stipulare contratti con i privati, essendo i limiti introdotti dell’art. 89, comma 2, d.lgs. 06.09.2011, n. 159 applicabili solo quando il privato entra in rapporto con l’Amministrazione (1).
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   (1) In punto di fatto nella specie l’informativa era stata resa a seguito di una richiesta di informazioni proveniente da Confindustria Venezia, nell’ambito di un Protocollo di legalità, per la conclusione di contratti di rilevanza privatistica
La Sezione ha premesso che il comma 1 dell’art. 83, d.lgs. 06.09.2011, n. 159 ha individuato i soggetti che devono acquisire la documentazione antimafia di cui all'art. 84 prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture pubblici, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nel precedente art. 67. Si tratta delle Pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché i concessionari di lavori o di servizi pubblici. A tali soggetti si aggiungono, in virtù del successivo comma 2, i contraenti generali previsti dal Codice dei contratti pubblici.
Si tratta dunque di soggetti pubblici. Nel caso all’esame del Collegio, invece, la richiesta alla Prefettura di comunicazione antimafia è stata avanzata da Confindustria Venezia, quindi da un soggetto di indubbia natura privata.
Quanto all’utilizzabilità dell’informativa nei rapporti tra privati la Sezione ha chiarito che l’art. 89, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 ha previsto il potere del Perfetto che interviene quando il privato entra in rapporto con l’Amministrazione. Ed è la legge a conferire un siffatto potere di verifica al Prefetto.
Diverso è invece il caso di rapporti tra privati, in relazione ai quali la normativa antimafia nulla prevede.
Tale vuoto normativo non può certo essere colmato, nella specie, dal Protocollo della legalità e dal suo Atto aggiuntivo, entrambi stipulati tra il Ministero dell’interno e Confindustria. Si tratta, infatti, di un atto stipulato tra due soggetti, che finirebbe per estendere ad un soggetto terzo, estraneo a tale rapporto, effetti inibitori (o, secondo l'Adunanza plenaria, addirittura "incapacitanti"), che la legge ha espressamente voluto applicare ai soli casi in cui il privato in odore di mafia contragga con una parte pubblica.
Prova di tale voluntas legis è proprio nella modifica del comma 1 dell’art. 87, d.lgs. n. 159 del 2011 che, prima della novella introdotta dall’art. 4, d.lgs. 15.11.2012, n. 218, prevedeva espressamente la possibilità che a chiedere la comunicazione antimafia fosse un soggetto privato.
Ciò chiarito, la Sezione ha però rappresentato che il d.lgs. n. 218 del 2012 sembra aver aperto una breccia nella trama intessuta dal Codice delle leggi antimafia, il cui complesso di norme mira ad isolare le imprese vicine agli ambienti della criminalità organizzata, togliendo loro la linfa data dai guadagni, con l’esclusione dal settore economico pubblico, in particolare nella contrattualistica, e dai finanziamenti pubblici.
Occorre dunque interrogarsi –e nulla più che un interrogativo “aperto” può provenire da questo Giudice– se per rafforzare il disegno del Legislatore, con una sapiente disciplina antimafia che sta portando in modo tangibile i suoi risultati - non possano, le Istituzioni a ciò preposte, valutare il ritorno alla originaria formulazione del Codice Antimafia, nel senso che l’informazione antimafia possa essere richiesta anche da un soggetto privato ed anche per rapporti esclusivamente tra privati.
Soltanto un tale intervento potrebbe, in vicende come quella oggi in esame, permettere l’applicabilità generalizzata della documentazione antimafia, che non a caso questo Consiglio ritiene pietra angolare del sistema normativo antimafia (Cons. St., sez. III, 05.09.2019, n. 6105), in presenza di una serie di elementi sintomatici dai quali evincere l’influenza, anche indiretta (art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011), delle organizzazioni mafiose sull’attività di impresa, nella duplice veste della c.d. contiguità soggiacente o della c.d. contiguità compiacente. In tal modo si riuscirebbe –chiudendo gli spazi che oggi esistono– da un lato ad emarginare completamente tali soggetti rendendoli vulnerabili nel loro effettivo punto di forza e, dall’altro, lasciare il mercato economico agli operatori che svolgono l’attività affidandosi esclusivamente al proprio lavoro nel rispetto delle regole.
L’interrogativo che la Sezione ha posto si fonda sulla considerazione che le condotte infiltrative mafiose nel tessuto economico non solo sono un pericolo per la sicurezza pubblica e per l’economia legale, ma anzitutto e soprattutto un attentato al valore personalistico (art. 2 Cost.) e, cioè, quel “fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e il valore della persona” (v., per tutte, Corte cost. 07.12.2017, n. 258), anche in ambito economico, e rinnegato in radice dalla mafia, che ne fa invece un valore negoziabile nel “patto di affari” stipulato con l’impresa, nel nome di un comune o convergente interesse economico, a danno dello Stato.
E, su questo terreno, non vi è dubbio che il devastante impatto della infiltrazione mafiosa si manifesta nei rapporti tra privati come in quelli tra privati e P.A.. Sempre, infatti, chi contratta e collabora con la mafia, per convenienza o connivenza, non è soggetto, ma solo oggetto di contrattazione (Cons. St., sez. III, 30.01.2019, n. 758).
Se un vero e più profondo fondamento, allora, si vuole generalmente rinvenire nella legislazione antimafia e, particolarmente, nell’istituto dell’informazione antimafia, esso davvero riposa, come accennato, nella dignità della persona, principio supremo del nostro ordinamento, il quale –e non a caso– opera come limite alla stessa attività di impresa, ai sensi dell’art. 41, comma 2, Cost., laddove la disposizione costituzionale prevede che l’iniziativa economica privata, libera, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o –secondo un clima assiologico di tipo ascendente– in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
L’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e, dall’altro, la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale, secondo la logica della prevenzione, potrebbe allora essere valutata dal Legislatore allo scopo di restituire compiutezza piena ad un aspetto del Codice su cui certo non può intervenire il Giudice in via interpretativa (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.01.2020 n. 452 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza <<la figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine violato. Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate”>>.
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1. I due ricorsi sono fondati con riferimento alla mancata prova della responsabilità del ricorrente nella realizzazione degli abusi (primo e terzo motivo del ricorso introduttivo e primo e terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti).
L’art. 31, c. 2, del DPR 380/2001 stabilisce che “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”.
Secondo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.10.2015 n. 4880) <<la figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine violato. Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate”>> (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.01.2020 n. 120 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni.
La giurisprudenza è univoca nel ritenere che “i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale”.
Sicché, va
riaffermato il principio sulla base del quale l’istanza di accesso del consigliere comunale non può essere sorretta dalla sola allegazione della carica ricoperta ma deve, altresì, essere riconnessa ad un concreto esercizio delle prerogative consiliari pervenendo, quindi, al rigetto in ragione della mancata allegazione di un effettivo interesse all’accesso.
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In data 10.09.2019 il ricorrente, Consigliere comunale del Comune di Fabbrico, avanzava richiesta di accesso ex artt. 43, comma 2, del d.Lgs. n. 267/2000 e 22 della L. n. 2421/1990, riferita alla “copia della comparsa di costituzione e risposta depositata dal difensore del Comune di Fabbrico avv. Pa.Mi. nel procedimento giurisdizionale per risarcimento danno attivato avanti al tribunale civile di Reggio Emilia dal -OMISSIS- contro il Comune di Fabbrico” (vicenda che coinvolge l’Amministrazione relativamente all’esecuzione dei lavori di adeguamento sismico e ristrutturazione del Palazzetto dello Sport comunale).
Con atto del 07.10.2019, il Comune negava l’accesso ritenendo esclusa, anche per i Consiglieri comunali, l’operatività dell’istituto dell’accesso agli atti giudiziari.
Con nota del 10 ottobre successivo il ricorrente reiterava la propria richiesta e, in assenza di ulteriori riscontri, con il ricorso introduttivo del presente giudizio, impugnava il diniego intervenuto.
Il Comune, con atto del 12.11.2019, in esito alla richiesta da ultimo presentata dal ricorrente, adottava un nuovo diniego esplicitando più estesamente le ragioni per le quali gli atti richiesti non potevano costituire oggetto di ostensione.
Il ricorrente impugnava il reiterato diniego con motivi aggiunti affermando, sostanzialmente, la piena accessibilità dell’atto richiesto e la contraddittorietà dell’agire amministrativo stante il precedente accoglimento di una analoga istanza di accesso riferita all’atto di citazione introduttivo del giudizio civile in questione.
Il Comune si costituiva in giudizio confutando le avverse doglianze ed affermando la legittimità de proprio diniego.
All’esito della camera di consiglio del 15.01.2020, la causa veniva decisa.
Deve in premessa evidenziarsi che l’art. 43, comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000 prevede che “i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Circa lo specifico tema, la giurisprudenza è univoca nel ritenere che “i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare - con piena cognizione - la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale” (TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 09.01.2015, n. 77).
Il Regolamento comunale per l’esercizio del diritto di accesso del Comune di Fabbrico, disciplina l’accesso documentale dei Consiglieri Comunali all’art. 39.
Ai sensi del comma 3 del citato articolo, “i consiglieri comunali hanno diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle istituzioni, aziende ed enti dallo stesso dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, al fine di tutelare, in via generale, i diritti derivanti dalla propria posizione di consigliere comunale e già in particolare, di consentire la piena conoscenza di elementi informazioni utili all’espletamento del mandato”.
Lo stesso comma specifica ulteriormente che “i consiglieri hanno diritto: … b) di ottenere copie degli atti e dei documenti necessari per l’esercizio del loro mandato”.
Il successivo comma 4 dispone che “il consigliere non è tenuto a dimostrare l’esistenza di un interesse giuridicamente rilevante, ma è sufficiente che dichiari che le notizie e le informazioni sono richieste per l’espletamento del mandato”.
L’unico limite all’esercizio del diritto in questione posto dalla fonte regolamentare in esame, è contemplato nel comma 11 laddove si afferma che “l’accesso dei consiglieri comunali è vietato esclusivamente nelle eseguenti fattispecie: a) richieste assolutamente generiche, meramente emulative, pretestuose o paralizzanti l’attività amministrativa indirizzata a controlli generali di tutta l’attività dell’Amministrazione per un determinato arco di tempo”.
Chiarito nei su esposti termini il contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento deve rilevarsi che l’istanza di accesso presentata dal ricorrente era motivata sul presupposto dell’utilità della documentazione richiesta in vista della trattazione consiliare di questioni che, in ipotesi, avrebbero potuto incidere, sotto il profilo finanziario, sulla corretta tenuta del bilancio dell’Ente.
L’Amministrazione, rifacendosi ai contenuti della decisione del Consiglio di Stato n. 12/2019 (riassunta e ripetutamente richiamata), negava l’accesso rilevando l’insufficienza della sola qualità di Consigliere comunale, a consentire un indiscriminato accesso agli atti essendo, altresì, necessario “che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’Assemblea consiliare”.
Ne deriverebbe, secondo l’Amministrazione, che l’istituto dell’accesso del Consigliere comunale sarebbe garantito “solo se funzionale all’attività del Consiglio comunale, rilevando di converso che tale estensione del diritto non può andare oltre agli argomenti all’o.d.g. (quelli dell’art. 42 del TUEL)” (diniego impugnato).
Il ricorso è fondato.
Preliminarmente deve rilevarsi l’inconferenza della richiamata pronunzia del Consiglio di Stato in quanto in detta sede il giudice di appello, riaffermava il principio sulla base del quale l’istanza di accesso del consigliere comunale non può essere sorretta dalla sola allegazione della carica ricoperta ma deve, altresì, essere riconnessa ad un concreto esercizio delle prerogative consiliari pervenendo, quindi, al rigetto dell’appello, in ragione della mancata allegazione di un effettivo interesse all’accesso.
L’odierna fattispecie differisce da quella esaminata in detta sede avendo il ricorrente allegato, ed essendo documentata, l’attinenza della richiesta allo svolgimento delle attività assembleari.
Deve in primis evidenziarsi che, con atto del 20.09.2019, protocollato il giorno successivo, due Consiglieri del gruppo consiliare di opposizione (capeggiato dal ricorrente) richiedevano la convocazione del Consiglio comunale includendo nelle questioni all’ordine del giorno: “1. Lo stato di fatto delle opere di adeguamento sismico e ristrutturazione del Palazzetto dello Sport di Fabbrico; 2. Lo stato di fatto della vertenza legale con l’impresa appaltatrice …”.
La conoscenza dell’atto oggetto della richiesta di ostensione era, pertanto, “utile” (nei sensi di cui al richiamato art. 42 del TUEL) in vista della discussione assembleare di profili riferiti alla vicenda della ristrutturazione del Palazzetto dello Sport, al centro della disputa (e del giudizio civile) in atto fra il Comune e l’appaltatore incaricato delle relative lavorazioni.
Nel caso di specie, quindi, sotto un primo profilo, sussiste il requisito della funzionalità dell’accesso all’esercizio delle attività consiliari, richiesta dalla disciplina normativa nazionale; sotto altro profilo non ricorre il carattere emulativo, pretestuoso e paralizzante che, ai sensi delle illustrate disposizioni regolamentari interne, inibiscono l’esercizio dell’accesso.
La determinazione impugnata, infine, è ulteriormente viziata per contraddittorietà avendo l’Amministrazione (in precedenza e con riferimento alla medesima vicenda giudiziaria), accolto l’istanza di accesso avente ad oggetto l’atto di citazione dell’appaltatore con il quale veniva instaurato il giudizio risarcitorio in atto (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 20.01.2020 n. 16 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONEL’Adunanza plenaria pronuncia sulla cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo per effetto della rinuncia abdicativa.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione - Senza titolo – Illecito permanente – Cessazione per rinuncia abdicativa – Esclusione.
Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo (1)
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   (1) Ha chiarito l’Alto consesso che nel contesto dell’orientamento affermativo dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa quale strumento alternativo di tutela del privato leso dall’occupazione illegittima in funzione della domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà, non è mai stata fornita una soluzione certa e univoca in ordine all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante obbligata al risarcimento dei danni.
In particolare, in tale contesto, l’effetto acquisitivo in capo all’amministrazione occupante non può essere ricondotto all’art. 827 Cod. civ., il quale prevede l’acquisto –a titolo originario e non iure successionis, come nella diversa fattispecie disciplinata dall’art. 586 Cod. civ.– dei beni vacanti da parte dello Stato (segnatamente, al suo patrimonio disponibile; v., su tale ultimo punto, Cass. civ., 14.04.1966, n. 942).

Pur in tesi non attribuendo all’art. 827 Cod. civ. una portata meramente transitoria collegata all’entrata in vigore del Codice civile –volta, cioè, a disciplinare la sola situazione giuridica dei beni che, in ragione di discipline pregresse, a tale momento siano stati privi di proprietario–, la sua applicazione alle vicende espropriative quale quella all’esame giammai consentirebbe di sprigionare l’effetto dell’acquisto della proprietà del bene (che, peraltro, secondo le previsioni dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, dovrebbe avvenire al patrimonio indisponibile) in capo all’amministrazione occupante diversa dallo Stato, ma ne determinerebbe l’acquisto al patrimonio disponibile di quest’ultimo (o, nelle Regioni a statuto speciale della Sardegna, della Sicilia e del Trentino-Alto Adige, al patrimonio delle rispettive Regioni, in forza degli articoli 14, 34 e 67 dei rispettivi statuti speciali), con la conseguenza che l’ente occupante, pur ad avvenuto versamento della somma liquidata a titolo risarcitorio, non ne diverrebbe proprietario.
Né a risolvere lo iato tra effetto abdicativo della rinuncia ed effetto acquisitivo in capo all’amministrazione occupante, determinato dall’applicazione dell’art. 827 Cod. civ., appare idonea la tesi, per cui la rinuncia alla titolarità del bene dovrebbe ritenersi risolutivamente condizionata all’inadempimento dell’amministrazione occupante all’obbligo di corrispondere il controvalore monetario liquidato dal giudice al momento della definizione della controversia, sicché la rinuncia, interinalmente efficace, consoliderebbe i propri effetti al momento dell’effettivo ed integrale versamento del risarcimento da parte dell’amministrazione occupante; secondo tale tesi, il relativo provvedimento di liquidazione escluderebbe in via definitiva la verificazione dell’evento (appunto l’inadempimento) dedotto in condizione e sarebbe soggetto a trascrizione ai sensi del combinato disposto degli artt. 2643 n. 5) e 2645 Cod. civ. «anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia» (v., in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 07.11.2016, n. 4636).
Infatti, la tesi si scontra con il rilievo che la trascrizione assolve alla funzione dell’opponibilità a terzi degli atti dispositivi di diritti reali, ma non ne integra la validità o l’efficacia né può assurgere a elemento costitutivo della fattispecie traslativa o acquisitiva, con la conseguenza che, in mancanza di idoneo titolo d’acquisto in capo all’amministrazione occupante, l’ordine di trascrizione in favore di quest’ultima resterebbe privo di base legale.
Neppure appare possibile l’applicazione analogica di altre fattispecie di acquisto a titolo originario per fatti ‘occupatori’ disciplinate dal Codice civile, quali gli artt. 923, 940 o 942 Cod. civ., in quanto si incorrerebbe nella violazione del principio di legalità delle fattispecie ablative, sancito dalla Costituzione e dalla CEDU.
Ad analoga obiezione si espongono i tentativi di ricostruire in via pretoria fattispecie traslative complesse, mediate da eventuali sentenze costitutive, atteso il principio di tassatività delle sentenze costitutive di effetti traslativi o acquisitivi di diritti reali, né offrendo l’art. 34, comma 1, lettera e), Cod. proc. amm. una sufficiente base legale per pronunce di siffatto tenore.
Né, infine, appare configurabile un’ipotesi di formazione tacita di un accordo traslativo tra parte privata e pubblica amministrazione –ad es., ipotizzando un atto di consenso del privato coessenziale alla dismissione della proprietà e la non opposizione all’acquisto da parte dell’amministrazione–, attesa la necessità della forma scritta ad substantiam per i contratti traslativi della proprietà immobiliare, tanto più se parte contrattuale è una pubblica amministrazione.
In secondo luogo, s’impone il rilievo che l’evento della perdita della proprietà è un elemento costitutivo del fatto illecito produttivo del danno.
Aderendo alla tesi della rinuncia abdicativa, l’evento dannoso (perdita della proprietà) verrebbe cagionato dallo stesso danneggiato, in contrasto con i principi che presiedono all’illecito aquiliano, che esigono un rapporto di causalità diretta tra evento dannoso e comportamento del soggetto responsabile, nella specie invece interrotto dalla rinuncia dello stesso danneggiato, la quale soltanto –secondo la tesi all’esame– determina l’effetto della perdita.
Né tale rilievo appare superabile con l’obiezione per cui il proprietario verrebbe ‘costretto’ ad abdicare in quanto con l’occupazione gli sarebbe rimasto un bene totalmente privo di utilità, sicché sarebbe l’irreversibile trasformazione del fondo da parte dell’amministrazione ad averne causato la perdita: infatti, per un verso, in caso di contestazione s’imporrebbe la necessità di (spesso complessi) accertamenti giudiziari sul grado di trasformazione del fondo idoneo a giustificare l’atto abdicativo, dall’esito per definizione incerto, con la conseguente introduzione, sotto diversa veste, dell’acquisizione giudiziaria già prevista nel pregresso art. 43 d.P.R. n. 327/2001 ed espunta dall’ordinamento per le criticità che la connotavano, e, per altro verso, attraverso la riconduzione causale della perdita del bene alla sua occupazione e trasformazione sine titulo da parte dell’amministrazione si (re)introdurrebbe una forma di espropriazione indiretta in contrasto con i canoni della CEDU.
Se, invece, la determinazione circa la rinuncia abdicativa fosse rimessa alla libera e insindacabile (sotto il profilo causale) scelta del proprietario –come sotteso alla tesi della sua ammissibilità, quale espressione della libera autodeterminazione del proprietario in ordine al diritto di proprietà sul bene leso dall’occupazione illegittima–, l’applicazione di tale strumento negoziale alle vicende delle occupazioni illegittime contrasterebbe con i richiamati principi civilistici in tema di illecito aquiliano.
Da ultimo, si osserva che la disciplina del procedimento espropriativo speciale ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 regola, in modo tipico, esaustivo e tassativo, il procedimento di (ri)composizione del contrasto tra l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale cui è preordinata l’acquisizione del bene alla mano pubblica comportante la cessazione dell’illecito permanente. L’operatività dell’istituto postula, sul piano logico-giuridico, che la formale titolarità della proprietà risulti ancora in capo al privato (e non sia venuta meno, in tesi, con l’eventuale rinuncia implicita nella proposizione della domanda risarcitoria): infatti, l’adozione dell’atto, unitamente alla liquidazione dell’indennizzo, rappresenta il necessario presupposto per il trasferimento del diritto di proprietà in favore dell’amministrazione.
Una volta disciplinata dal legislatore in modo compiuto ed esauriente, la procedura ablativa speciale –presupponente l’occupazione illegittima e la correlativa modificazione del bene da parte dell’amministrazione (in sé prive di riflessi in ordine alla titolarità del bene)– ‘tipizza’ i poteri dell’amministrazione e ‘conforma’ la facoltà di autodeterminazione del proprietario in ordine alla sorte del bene rimasto di sua proprietà.
Per quanto riguarda l’amministrazione, essa è titolare di una funzione, a carattere doveroso nell’an, consistente nella scelta tra la restituzione del bene previa rimessione in pristino e acquisizione ai sensi dell’articolo 42-bis; non quindi una mera facoltà di scelta (o di non scegliere) tra opzioni possibili, ma doveroso esercizio di un potere che potrà avere come esito o la restituzione al privato o l’acquisizione alla mano pubblica del bene. Alternative entrambe finalizzate a porre fine allo stato di illegalità in cui versa la situazione presupposta dalla norma.
Quanto al privato –e corrispondentemente all’alternativa posta in termini funzionali all’amministrazione–, la sua facoltà di autodeterminazione resta conformata (sul piano legislativo, ex art. 42, secondo e terzo comma, Cost.) nel senso che al medesimo è attribuita la potestà di compulsare la pubblica amministrazione, attraverso una correlativa istanza/diffida, all’esercizio del potere/dovere di porre comunque termine alla situazione di illecito permanente costituita dall’occupazione senza titolo e ricondurla a legalità secondo la seguente alternativa:
   - o adottando il provvedimento di acquisizione sulla base degli stringenti criteri motivazionali delineati dal comma 4 dell’art. 42-bis, verso la corresponsione dell’indennizzo parametrato ai criteri stabiliti nel precedente comma 1;
   - oppure, in mancanza dell’acquisizione, disponendo la restituzione del bene previa rimessione allo stato pristino (con salvezza, in entrambe le ipotesi, del diritto al risarcimento dei danni per il periodo dell’occupazione illegittima e degli eventuali danni ulteriori).
Altre soluzioni, che potevano trovare una spiegazione in presenza di una lacuna legislativa, non sono ipotizzabili, in quanto resterebbe irrisolta la definizione di una base legale certa per l’effetto traslativo della proprietà. Di conseguenza, all’interprete non è consentito più (se mai lo sia stato) di ricorrere all’analogia iuris per integrare la fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore, attraverso il ricorso ad un istituto di natura prettamente privatistica, al dichiarato fine di aggiungere un ulteriore strumento di tutela del privato, limitativo e derogatorio all’istituto dell’art. 42-bis.
Siffatta operazione ermeneutica –oltre a non essere necessaria sotto il profilo della garanzia della effettività della tutela del proprietario leso, in quanto sussistono idonei mezzi coercitivi affinché l’amministrazione occupante provveda a compiere la scelta tra acquisizione o restituzione– comporta, invero, uno stravolgimento dell’assetto d’interessi sotteso e (ri)composto (d)alla particolare procedura ablativa disciplinata dal citato articolo di legge; affida la decisione sulla sorte del bene ad un atto eventuale e unilaterale del proprietario, cui si finirebbe per attribuire una sorta di diritto potestativo direttamente ricadente nella sfera giuridica dell’amministrazione; e si risolve, in definitiva, nell’inammissibile introduzione praeter legem di una nuova fattispecie ablativa/traslativa (peraltro, lasciando irrisolta la questione fondamentale circa il titulus e il modus adquirendi della proprietà del bene in capo all’ente occupante), la cui disciplina è, invece, riservata alla legge e informata alla tassatività e tipicità dei poteri ablatori e delle relative procedure.
Concludendo sul punto, preminenti esigenze di sicurezza giuridica, implicanti la prevedibilità, per tutti i soggetti coinvolti (compresa la parte pubblica), della fattispecie ablativa/acquisitiva, non possono che escludere la rilevanza dell’atto unilaterale di rinuncia abdicativa alla proprietà dell’immobile, ai fini della cessazione dell’illecito permanente costituito dall’occupazione sine titulo del bene di proprietà privata e della riconduzione della situazione di fatto a legalità.
Come sopra ripetutamente accennato, l’ordinamento processuale amministrativo appresta uno strumentario processuale efficace per reagire all’eventuale inerzia della pubblica amministrazione con l’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm., oppure, a seconda della fase in cui pende il processo e del tipo di azione esercitata, attraverso l’assegnazione, nella sentenza cognitoria, di un termine per provvedere in ordine all’acquisizione o (in caso di non acquisizione) alla restituzione del bene illegittimamente occupato, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lettera b), Cod. proc. amm., con eventuale contestuale nomina di un commissario ad acta a norma dell’art. 34, comma 1, lett. e), Cod. proc. amm. per il caso di persistente inottemperanza all’ordine di provvedere (al fine, appunto, di ricondurre la situazione di occupazione illegittima nell’alveo della legalità attraverso l’esercizio del correlativo potere, di natura vincolata nell’an e discrezionale nel quomodo).
In particolare, l’iniziativa procedimentale e il successivo giudizio sul silenzio costituiscono mezzi con cui il proprietario del bene occupato può far valere l’interesse ad ottenere un ristoro pecuniario in luogo della restituzione del bene, che, per le ragioni sopra esposte, non può più trovare tutela attraverso il meccanismo della rinuncia abdicativa (che rimetterebbe alla determinazione unilaterale del privato la decisione sulla sorte del bene, al contempo lasciando irrisolta la vicenda acquisitiva).
Viene, con ciò, offerta al privato una tutela celere, concentrata e definitiva dell’interesse leso, senza necessità di ricorrere alla costruzione della rinuncia abdicativa. Ricorso, per quanto si è detto, non più consentito in assenza di una lacuna legislativa e anzi in presenza di una disciplina volta a fornire una base legale specifica, certa e prevedibile, all’effetto ablativo della proprietà.
Il carattere assorbente della risposta al quesito precedente rende non rilevante il quesito sub § 16.(ii), che comunque rafforza le criticità della teoria della rinuncia abdicativa.
In primo luogo, la proposizione di una domanda risarcitoria del pregiudizio sofferto rispetto a un bene, attraverso la richiesta di una somma corrispondente al controvalore del bene, nulla esprime realmente in ordine alla volontà di preservarne, o meno, la titolarità.
Infatti, siffatta domanda non è né logicamente né giuridicamente incompatibile con la volontà di permanere titolare del diritto di proprietà, potendo anche il danno da perdita del godimento del bene, in vista della sua proiezione tendenziale all’infinito in ragione di una prospettata radicale e irreversibile trasformazione del bene, finire per equivalere al valore di scambio, sicché la mera richiesta di un risarcimento del danno commisurato al valore del bene appare del tutto neutra sotto il profilo della volontà di rinunciare, o meno, alla proprietà.
Considerata la rilevanza degli effetti dell’atto abdicativo, comportante la perdita del diritto di proprietà su un bene immobile, non appare ammissibile, per ragioni di certezza del traffico giuridico immobiliare, ancorare l’effetto a manifestazioni di volontà enucleabili da atti processuali a contenuto non univoco, in violazione dei principi di accessibilità, precisione e prevedibilità cui deve essere improntata la disciplina delle procedure ablative nonché lo stesso regime giuridico di circolazione dei beni, per di più immobili.
In secondo luogo, occorre rilevare che l’atto di rinuncia al diritto di proprietà su beni immobili è soggetto alla forma scritta ad substantiam ai sensi dell’art. 1350, n. 5), Cod. civ., per cui vanno redatti per iscritto «gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti» (nei quali rientra anche il diritto di proprietà).
Ebbene, anche in ipotesi aderendo all’orientamento giurisprudenziale e dottrinario che ritiene ammissibile una manifestazione tacita di volontà nel contesto di un atto per la cui validità è richiesta la forma scritta –con la motivazione che una forma vincolata non significa che la volontà debba essere espressa, essendo sufficiente che la stessa vi sia contenuta, anche in forma tacita, ma in modo da rilevare, per quanto qui interessa, una volontà incompatibile con il mantenimento del diritto di proprietà–, l’atto formale contenente la volontà tacita di rinuncia deve, in ogni caso, assumere la forma scritta ad substantiam (scrittura privata o atto pubblico), ossia essere munita della sottoscrizione personale della parte, autenticata o comunque riconosciuta nelle forme di legge.
Tratterebbesi di requisito formale da vagliare caso per caso attraverso l’esame degli atti processuali di parte in tesi suscettibili di essere interpretati quali atti contenenti una volontà abdicativa.
Nel caso concreto sub iudice, né l’atto per motivi aggiunti del 31.10.2007 né quello successivo notificato il 24.05.2013 –con cui erano state veicolate le domande di risarcimento per equivalente rapportate al valore venale del bene (oltre ai danni da perdita del godimento per occupazione illegittima)– recano la sottoscrizione personale delle parti, né risulta conferita al difensore una procura speciale a disporre del diritto di proprietà attraverso un’eventuale rinuncia abdicativa.
Pertanto, anche sotto i profili sopra esaminati, la teoria della rinuncia abdicativa all’atto della sua applicazione pratica appaleserebbe una serie di criticità (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 20.01.2020 n. 4 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl combinato disposto dell’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47 e dell’art. 32, comma 27, lett. d), del dl n. 269 del 2003, convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326, in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale, comporta che un abuso commesso su un bene sottoposto a vincolo di inedificabilità, sia esso di natura relativa o assoluta, non può essere condonato quando ricorrono, contemporaneamente le seguenti condizioni:
   a) l’imposizione del vincolo di inedificabilità prima della esecuzione delle opere;
   b) la realizzazione delle stesse in assenza o difformità dal titolo edilizio;
   c) la non conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, sia esso assoluto o relativo, è cioè consentita la sanatoria dei soli abusi formali).
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Sempre con riguardo agli abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, va precisato che il condono previsto dall’art. 32 del dl n. 269 del 2003 è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del citato decreto (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti.
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Ritenuto in diritto che:
   - la sentenza di primo grado deve essere confermata;
   - il combinato disposto dell’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47 e dell’art. 32, comma 27, lettera d), del decreto-legge n. 269 del 2003, convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326, in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale (ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.10.2019, n. 7341; Sez. VI , 17.09.2019, n. 6182; Sez. IV, 29.03.2017, n. 1434; sez. IV, 21.02.2017, n. 813; Sez. VI, 02.08.2016 n. 3487; Sez. IV, sentenza 17.09.2013, n. 4587), comporta che un abuso commesso su un bene sottoposto a vincolo di inedificabilità, sia esso di natura relativa o assoluta, non può essere condonato quando ricorrono, contemporaneamente le seguenti condizioni:
a) l’imposizione del vincolo di inedificabilità prima della esecuzione delle opere;
b) la realizzazione delle stesse in assenza o difformità dal titolo edilizio;
c) la non conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, sia esso assoluto o relativo, è cioè consentita la sanatoria dei soli abusi formali);
   - sempre con riguardo agli abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, va precisato che il condono previsto dall’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del citato decreto (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti (in tal senso anche la giurisprudenza penale: cfr., ex plurimis, Cassazione penale sez. III, 20.05.2016, n. 40676; peraltro, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 150 del 2009, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 26, lettera a), del decreto-legge n. 269 del 2003 nella parte in cui prevede la condonabilità limitata ai soli abusi minori nelle zone sottoposte a vincolo di cui all'art. 32 della legge n. 47 del 1985);
   - su queste basi, sono evidenti le ragioni ostative alla concessione della sanatoria, dal momento che, come risulta dagli atti di causa:
      i) l’abuso realizzato dall’appellante è un manufatto residenziale di due piani, qualificabile come “nuova costruzione”;
     ii) il terreno su cui insiste il manufatto è sottoposto a vincolo paesistico in virtù di un provvedimento specifico emanato dall’Autorità competente (il più volte citato decreto ministeriale del 02.04.1954) e non già ex lege; ne consegue che le norme citate dall’appellante (art. 142, comma 2, lettera a, del d.lgs. n. 42 del 2004, e art. 4, della legge della Regione Lazio n. 24 del 1998) sono inconferenti riferendosi le stesse alle sole aree tutelate per legge (peraltro, secondo quanto dedotto dal Comune, senza specifica contestazione di controparte, l’area di proprietà non è delimitata nel PRG del Comune di Frascati come “zona territoriale omogenea B ai sensi del D.M. 02.04.1968, n. 1444” ma sarebbe, invece, classificato, ai sensi del D.M. 1444/1968, come zona territoriale di tipo C, come da delibera C.C. n. 161/1978);
      iii) l’opera realizzata non è conforme agli strumenti urbanistici del Comune di Frascati in quanto in contrasto con l’art. 35 NTA del PRG (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.01.2020 n. 425 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGODiritto a godere le ferie e perdita delle ferie non godute.
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Pubblico impiego privatizzato – Ferie – Godimento – Mancata volontaria fruizione – Conseguenza – Perdita delle ferie.
Il lavoratore che volontariamente non gode delle ferie maturate le perde (1)
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   (1) Come emerge dalla giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria (causa C-696/16 emessa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia il 06.11.2018) la regula juris nella materia del godimento delle ferie da parte del lavoratore è quello per cui, per un verso, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare, trovando il proprio fondamento nell’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ed ha il medesimo valore giuridico, dei Trattati ai sensi dell’art 6 paragrafo 1 TUE: la ratio dell’esercizio dello stesso è quella di consentire al lavoratore di riposarsi dall’esecuzione dei compiti attribuiti godendo così di un periodo di relax e svago.
Per altro verso, il datore di lavoro ha l’onere di assicurarsi concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di godere delle ferie annuali retribuite invitandolo, se necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo –in modo accurato e in tempo utile– del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
Tuttavia, in un equilibrato contemperamento di principi ed istanze assiologiche di pari rango, il rispetto di tale onere derivante dall’art. 7 della direttiva 2003/88 non può estendersi fino al punto di costringere quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente la fruizione delle ferie annuali retribuite.
Egli deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere delle stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché essi potessero effettivamente di esercitare tale diritto.
L’assetto ora descritto non collide con il principio costituzionale dell’irrinunciabilità delle ferie, in quanto garantisce, comunque, un equilibrato rispetto delle esigenze organizzative dell’amministrazione e di quelle di riposo del lavoratore.
Il presupposto imprescindibile per la perdita della possibilità di godimento delle ferie al di là di una determinata scadenza temporale è che il lavoratore non ne abbia goduto liberamente e consapevolmente. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito, nel ritenere non fondata questione di legittimità costituzionale del d.l. n. 95 del 2012, art. 5, comma 8, conv., con mod. dalla l. n. 135 del 2012 (che prevede, tra l'altro: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione..., sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi"), che il legislatore correla il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie (sentenza n. 95 del 2016).
Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina statale in questione come interpretata dalla prassi amministrativa e dalla magistratura contabile, è nel senso di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro.
Ha chiarito la Corte costituzionale che tale interpretazione, che si pone nel solco della giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. II, 15.04.2019, n. 2246) e della Corte di cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma 3), dalle citate fonti internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro h. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa esecutiva con l. 10.04.1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.09.2007; direttiva 23.11.1993, n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n. 2003/88/CE, che interviene a codificare la materia) (TAR Valle d’Aosta, sentenza 17.01.2020 n. 1 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e che debba essere respinto per le seguenti ragioni.
Come emerge dalla giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria (causa C-696/16 emessa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia il 06.11.2018) la regula juris della materia de qua è quello per cui, per un verso, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare, trovando il proprio fondamento nell’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ed ha il medesimo valore giuridico, dei Trattati ai sensi dell’art 6 paragrafo 1 TUE: la ratio dell’esercizio dello stesso è quella di consentire al lavoratore di riposarsi dall’esecuzione dei compiti attribuiti godendo così di un periodo di relax e svago.
Per altro verso, il datore di lavoro ha l’onere di assicurarsi concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di godere delle ferie annuali retribuite invitandolo, se necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo –in modo accurato e in tempo utile– del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato. Tuttavia, in un equilibrato contemperamento di principi ed istanze assiologiche di pari rango, il rispetto di tale onere derivante dall’art. 7 della direttiva 2003/88 non può estendersi fino al punto di costringere quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente la fruizione delle ferie annuali retribuite.
Egli deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere delle stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché essi potessero effettivamente di esercitare tale diritto.
Ciò posto nel caso di specie, come si evince con chiarezza dai documenti prodotti dalle parti, la direzione ha invitato la sig.ra Cr. a programmare nel più breve tempo possibile la fruizione dei periodi di congedo ordinario degli anni 2018 e 2019. Tale invito non è stato però accettato dalla ricorrente che ha avanzato la pretesa di fruire anche del periodo di congedo maturato per gli anni 2015, 2016 e 2017.
Tale pretesa si rivela però del tutto priva di fondamento. Come si deduce, infatti, dall’art. 9 del Nuovo Accordo Quadro Nazionale, pubblicato sulla G.U. n. 100 del 02.05.2018, il congedo ordinario va programmato e fruito nell’anno solare di riferimento, salvo indifferibili esigenze di servizio che non ne rendano possibile la completa fruizione o per motivate esigenze di carattere personale e, limitatamente a queste ultime, compatibilmente con le esigenze di servizio. In tal caso, la parte residua deve essere fruita entro i successivi 12 mesi, fino all’entrata in vigore del Nuovo Accordo Quadro Nazionale (G.U. n. 100 del 02.05.2018), ed entro i successivi 18 mesi per il periodo successivo all’entrata in vigore del predetto accordo.
Nel caso in esame non risulta esser stata presentata da parte dell’interessata al direttore di istituto, nei termini di legge e secondo le puntuali modalità ivi indicate, alcuna istanza di congedo ordinario né documentazione comprovante anche l’impossibilità oggettiva di godere dei predetti benefici
Pertanto non è possibile giustificarne la mancata fruizione, né per motivate esigenze di servizio e né tanto meno per obbiettive esigenze personali.
Sul punto giova ricordare come, anche in base a recenti arresti della giurisprudenza amministrativa sia di primo grado (TAR Campania–Napoli, sez. I, sentenza n. 1609 del 16.03.2019; TAR Calabria–Reggio Calabria, sentenza n. 264 del 15.05.2018; TAR Puglia-Lecce, sez. II, sentenza n. 431 del 14.03.2018) che d’appello (Cons. Stato, Sez. II, Sent. 2246 del 15.04.2019; parere definitivo, Sezione 1, n. 2756/2016), l’assetto ora descritto non collide con il principio costituzionale dell’irrinunciabilità delle ferie, in quanto garantisce, comunque, un equilibrato rispetto delle esigenze organizzative dell’amministrazione e di quelle di riposo del lavoratore.
Il presupposto imprescindibile per la perdita della possibilità di godimento delle ferie al di là di una determinata scadenza temporale è che il lavoratore non ne abbia goduto liberamente e consapevolmente.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito, nel ritenere non fondata questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 95 del 2012, art. 5, comma 8, conv., con mod. dalla L. n. 135 del 2012 (che prevede, tra l'altro: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione..., sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi"), che il legislatore correla il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie (sentenza n. 95 del 2016).
Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina statale in questione come interpretata dalla prassi amministrativa e dalla magistratura contabile, è nel senso di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro.
Ha chiarito la Corte costituzionale che tale interpretazione, che si pone nel solco della giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. II, Sent. 2246 del 15.04.2019; parere definitivo, Sezione 1, n. 2756/2016) e della Corte di cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma 3), dalle citate fonti internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro h. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa esecutiva con L. 10.04.1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.12.2007; direttiva 23.11.1993, n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n. 2003/88/CE, che interviene a codificare la materia).
Ne consegue l’infondatezza delle articolate censure del ricorso che va pertanto respinto.

URBANISTICAQuanto agli aspetti di istruttoria e di motivazione che rendono legittimo l’atto di pianificazione,  il Collegio ritiene di dover ribadire quanto già affermato di recente.
Invero, “Per quanto concerne la motivazione dell’atto, ... le scelte di pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità e, in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le decisioni dell’amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di ordine tecnico discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso.
In particolare, la richiamata decisione dell’Adunanza Plenaria 22.12.1999, n. 24, ha posto in rilievo che per l’interesse correlato ad una precedente previsione urbanistica che consenta un utilizzo dell’area in modo più proficuo vale il principio generale della non necessità di motivazione ulteriore rispetto a quelle che si possono evincere dai criteri di ordine tecnico-urbanistico, seguiti per la redazione del progetto di strumento.
In questo caso, infatti, viene in considerazione una aspettativa generica del privato alla non reformatio in peius delle destinazioni di zona edificabili, cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica, ed analoga a quella di ogni proprietario di aree che aspira ad una utilizzazione più proficua dell’immobile.
La Sezione, peraltro, ha già avuto modo di enunciare i seguenti principi in materia di pianificazione urbanistica, che il Collegio condivide e che possono essere applicati anche in sede di decisione della presente controversia, ancorché questa sia inerente ad un piano sovracomunale:
   - le scelte di pianificazione urbanistica costituiscono esercizio di ampia discrezionalità da parte dell’amministrazione e le stesse, nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (nei sensi precisati dalla giurisprudenza), onde evitare un indebito “sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”;
   - l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo (alle) ... diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti;
   - l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le previsioni incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”;
   - le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come, mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG, per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute;
   - la motivazione delle scelte urbanistiche, sufficientemente espressa in via generale, è desumibile sia dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle scelte effettuate dall’amministrazione comunale"
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13.5. Allo stesso modo, le considerazioni innanzi espresse sorreggono il rigetto dei motivi dell’appello Ti. (sub lett. a1) e b1) dell’esposizione in fatto) e dell’appello K. (sub lett. b4) e d4).
Inoltre, il Collegio ritiene di dover ribadire, quanto agli aspetti di istruttoria e di motivazione che rendono legittimo l’atto di pianificazione, quanto già affermato con la citata sentenza di questa Sezione n. 6484/2018 (e dall’ulteriore giurisprudenza ivi richiamata): “Per quanto concerne la motivazione dell’atto, ... le scelte di pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità e, in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le decisioni dell’amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di ordine tecnico discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 22.12.1999, n. 24 nonché, ex multis, Cons. Stato, IV, 28.06.2018, n. 3987).
In particolare, la richiamata decisione dell’Adunanza Plenaria 22.12.1999, n. 24, ha posto in rilievo che per l’interesse correlato ad una precedente previsione urbanistica che consenta un utilizzo dell’area in modo più proficuo vale il principio generale della non necessità di motivazione ulteriore rispetto a quelle che si possono evincere dai criteri di ordine tecnico-urbanistico, seguiti per la redazione del progetto di strumento.
In questo caso, infatti, viene in considerazione una aspettativa generica del privato alla non reformatio in peius delle destinazioni di zona edificabili, cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica, ed analoga a quella di ogni proprietario di aree che aspira ad una utilizzazione più proficua dell’immobile.
La Sezione, peraltro, ha già avuto modo di enunciare i seguenti principi in materia di pianificazione urbanistica, che il Collegio condivide e che possono essere applicati anche in sede di decisione della presente controversia, ancorché questa sia inerente ad un piano sovracomunale (cfr. Cons. Stato, IV, 11.10.2017, n. 4707):
   - le scelte di pianificazione urbanistica costituiscono esercizio di ampia discrezionalità da parte dell’amministrazione e le stesse, nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (nei sensi precisati dalla giurisprudenza), onde evitare un indebito “sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”;
   - l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo (alle) ... diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012, n. 2710);
   - l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le previsioni incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5478);
   - le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come, mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG, per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2016, n. 2221; Id, 08.06.2011, n. 3497);
   - la motivazione delle scelte urbanistiche, sufficientemente espressa in via generale, è desumibile sia dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle scelte effettuate dall’amministrazione comunale (Cons. Stato, sez. IV, 26.03.2014, n. 1459)
” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.01.2020 n. 379 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanatoria per così dire “ordinaria”, ossia quella disciplinata all’epoca dei fatti di causa dall’anzidetto art. 13 della l. n. 47 del 1985 e, attualmente, dall’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 (e che in tal senso si distingue quindi da quella “straordinaria”, viceversa applicabile entro ben definiti spazi temporali per effetto delle disposizioni speciali introdotte in prosieguo di tempo dall’art. 31 e ss. della l. n. 47 del 1985, dall’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni in l. 24.11.2003, n. 326) costituisce lo strumento tipico per ordinariamente ricondurre alla legalità gli abusi edilizi, e la sua utilizzazione non può che essere consentita a chiunque abbia edificato sine titulo, anche a prescindere dalla pregressa sua mancata impugnazione di provvedimenti di diniego a costruire l’opera abusiva, purché ovviamente seguitino a sussistere al riguardo le condizioni inderogabilmente chieste dalla disciplina medesima, ossia
   - sotto il profilo sostanziale la c.d. “doppia conformità” (e cioè la rispondenza di quanto edificato alla strumentazione urbanistica vigente sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, sia al momento della realizzazione dell’abuso nonché
   - sotto il profilo procedimentale -e per quanto qui segnatamente interessa, anche con riguardo a quanto testualmente disposto sia dal predetto art. 13 della l. n. 47 del 1985, sia, ora, dall’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001- la non ancora intervenuta irrogazione delle sanzioni amministrative previste per la realizzazione dell’abuso.
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3.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.
3.2. La sentenza resa dal giudice di primo grado va innanzitutto confermata nel capo in cui è respinta l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Comune in ordine all’impugnazione proposta avverso il provvedimento n. -OMISSIS- recante il diniego dell’accertamento di conformità del ballatoio, richiesto a’ sensi dell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, a quel tempo vigente e ad oggi sostituito dall’omologa disciplina contenuta nell’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Invero mediante la propria prospettazione l’Amministrazione comunale sostiene un principio alquanto paradossale, ossia che se è in passato intervenuto un provvedimento di diniego di costruire un determinato manufatto e se tale atto non è stato impugnato, risulterebbe tout court precluso l’accertamento di conformità per chi successivamente, e malgrado il diniego, abbia realizzato abusivamente lo stesso manufatto.
La sanatoria per così dire “ordinaria”, ossia quella disciplinata all’epoca dei fatti di causa dall’anzidetto art. 13 della l. n. 47 del 1985 e, attualmente, dall’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 (e che in tal senso si distingue quindi da quella “straordinaria”, viceversa applicabile entro ben definiti spazi temporali per effetto delle disposizioni speciali introdotte in prosieguo di tempo dall’art. 31 e ss. della l. n. 47 del 1985, dall’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni in l. 24.11.2003, n. 326) costituisce, infatti, lo strumento tipico per ordinariamente ricondurre alla legalità gli abusi edilizi, e la sua utilizzazione non può che essere consentita a chiunque abbia edificato sine titulo, anche a prescindere dalla pregressa sua mancata impugnazione di provvedimenti di diniego a costruire l’opera abusiva, purché ovviamente seguitino a sussistere al riguardo le condizioni inderogabilmente chieste dalla disciplina medesima, ossia sotto il profilo sostanziale la c.d. “doppia conformità” (e cioè la rispondenza di quanto edificato alla strumentazione urbanistica vigente sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, sia al momento della realizzazione dell’abuso: cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. II, 13.06.2019, n. 3958) nonché sotto il profilo procedimentale -e per quanto qui segnatamente interessa, anche con riguardo a quanto testualmente disposto sia dal predetto art. 13 della l. n. 47 del 1985, sia, ora, dall’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001- la non ancora intervenuta irrogazione delle sanzioni amministrative previste per la realizzazione dell’abuso; condizione, quest’ultima, sicuramente sussistente nel caso di specie e che pertanto abilita la parte interessata a proporre l’istanza che in ogni caso obbliga l’Amministrazione comunale a esprimersi verificando la sussistenza dell’anzidetta “doppia conformità”, nonché l’osservanza di tutte le altre ulteriori disposizioni applicabili in proposito (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.01.2020 n. 355 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATATutela degli immobili di interesse storico e architettonico e applicazione delle norme per l'abbattimento delle barriere architettoniche.
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Edilizia – Barriere architettoniche – Opere volte alla loro eliminazione – Immobili di interesse storico e architettonico - Diniego – Condizione.
Ai sensi dell’art. 4, l. 09.01.1989, n. 13, l’amministrazione può negare l’autorizzazione per realizzare opere edilizie volte all’abbattimento di barriere architettoniche in immobili di interesse storico e architettonico nella sola ipotesi in cui le opere in questione arrechino grave e serio pregiudizio all’intero fabbricato (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che la speciale disciplina di favore contenuta nella l. 09.01.1989, n. 13 si applica anche a beneficio di persone anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e proprie, soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie (Cass. civ., sez. II, 28.03.2017, n. 7938).
Tale legge infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall’intera collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali (Corte cost. 10.05.1999, n. 167, e Cass. civ., sez. II, 25.10.2012, n. 18334) e non già di accordare diritti personali ed intrasmissibili a titolo di concessione alla persona disabile in quanto tale (cfr. sul punto Cass. civ., sez. II, 26.02.2016, n. 3858).
In conseguenza di ciò, per le disposizioni contenute nella testé citata l. n. 13 del 1989 si impone “un’interpretazione estensiva, nel senso appena visto” (Cons. St., sez. VI, 18.10.2017, n. 4824).
Va rimarcato inoltre che, in particolare, secondo l’art. 4 della legge stessa, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate nel senso descritto, si possono effettuare anche su beni sottoposti a vincolo come beni culturali, e la relativa autorizzazione, come previsto dal comma 4 di tale articolo, “può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi quindi al comma 5 che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato”.
Si è in tal modo introdotto nell’ordinamento, in ordine ai peculiari valori presidiati dalla legge in esame (tra l’altro non soltanto inerenti all’art. 32 Cost., ma anche di rilievo internazionale, in quanto stabiliti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti per le persone con disabilità adottata dall’Assemblea Generale con risoluzione n. 61/106 del 13.12.2006 e ratificata con l. 03.03.2009, n. 18) un onere di motivazione particolarmente intenso, e ciò in quanto l’interesse alla protezione della persona svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico, a sua volta promanante dall’art. 9 Cost., soltanto in casi eccezionali (Cons. St., sez. VI, 18.10.2017, n. 4824; id. 07.03.2016, n. 705; id. 28.12.2015, n. 5845; id. 12.02.2014, n. 682) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.01.2020 n. 355 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA  
3.3. Venendo ora al merito di causa, a ragione il giudice di primo grado ha accolto i due ricorsi proposti dal condominio.
Va opportunamente premesso in proposito che, come anche affermato ad esempio da Cass. civ., Sez. II, 28.03.2017, n. 7938, la speciale disciplina di favore contenuta nella l. 09.01.1989, n. 13, si applica anche a beneficio di persone anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e proprie, soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie.
Tale legge infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall’intera collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali (così Corte Cost., 10.05.1999, n. 167, e Cass. civ., Sez. II, 25.10.2012, n. 18334) e non già di accordare diritti personali ed intrasmissibili a titolo di concessione alla persona disabile in quanto tale (cfr. sul punto Cass. civ., Sez. II, 26.02.2016, n. 3858).
In conseguenza di ciò, per le disposizioni contenute nella testé citata l. n. 13 del 1989 si impone “un’interpretazione estensiva, nel senso appena visto” (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 18.10.2017, n. 4824).
Va rimarcato inoltre che, in particolare, secondo l’art. 4 della legge stessa, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate nel senso descritto, si possono effettuare anche su beni sottoposti a vincolo come beni culturali, e la relativa autorizzazione, come previsto dal comma 4 di tale articolo, “può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi quindi al comma 5 che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato”.
Si è in tal modo introdotto nell’ordinamento, in ordine ai peculiari valori presidiati dalla legge in esame (tra l’altro non soltanto inerenti all’art. 32 Cost., ma anche di rilievo internazionale, in quanto stabiliti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti per le persone con disabilità adottata dall’Assemblea Generale con risoluzione n. 61/106 del 13.12.2006 e ratificata con l. 03.03.2009, n. 18) un onere di motivazione particolarmente intenso, e ciò in quanto l’interesse alla protezione della persona svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico, a sua volta promanante dall’art. 9 Cost., soltanto in casi eccezionali (così, puntualmente, la già citata sentenza di Cons. Stato, Sez. VI, n. 4824 del 2017; nonché id., 07.03.2016, n. 705, 28.12.2015, n. 5845, e 12.02.2014, n. 682).
Del tutto fondatamente, pertanto, il giudice di primo grado ha evidenziato che nel caso di specie il sopradescritto e alquanto rigoroso onere motivazionale non è stato adempiuto, posto che:
   1) nel parere del 28.01.1999, la Commissione edilizia integrata si è limitata ad affermare, in via del tutto generica, che mediante la realizzazione dei due ballatoi “si configurerebbe un’ulteriore alterazione della facciata laterale dello stabile”;
   2) nel precedente parere del 21.10.1996, la stessa Commissione aveva espresso parere negativo senza peraltro esprimersi in ordine all’asserito pregiudizio per l’estetica della facciata dello stabile, limitandosi unicamente a prospettare la soluzione alternativa dell’installazione di un “opportuno mezzo meccanico posto all’interno”;
   3) in modo ancor più breviloquente la Soprintendenza per i Beni architettonici e artistici di Napoli, nella propria nota del 30.05.1997, ha aderito alla già di per sé carente motivazione espressa dalla Commissione edilizia integrata limitandosi ad affermare che la stessa era comunque congruente rispetto ad una “migliore tutela del sito”.
Puntualmente il giudice di primo grado ha colto l’intrinseco difetto motivazionale di tutti e tre tali atti rispetto all’anzidetto precetto di legge, posto che in nessuno di essi è stato enunciato un qualsivoglia riferimento a quanto esplicitamente e puntualmente chiesto dalla disposizione di legge, ossia –giova ribadire- la compiuta enunciazione della “natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato”; né in tutti e tre tali atti sono contenuti rilievi in ordine alla criticità, rilevata dal condominio, della proposta installazione del mezzo meccanico rispetto alla presenza delle volte a botte e a crociera presenti all’interno dello stesso stabile e parimenti assoggettate a tutela.
Risulta ben evidente, quindi, che tali innegabili carenze che si riscontrano nelle pronunce da parte dei soggetti competenti ad esprimersi sotto il profilo della compatibilità del progetto con il vincolo insistente sull’immobile dispiegano i propri effetti vizianti sul provvedimento di diniego dell’accertamento di conformità il quale, a sua volta, non può che refluire altrettanto negativamente sulla susseguente ingiunzione a demolire susseguentemente emanata dallo stesso Comune, parimenti impugnata dal condominio e che risulta pertanto illegittima in via derivata rispetto al presupposto provvedimento di diniego: il tutto, con conseguente assorbimento di ogni altra censura dedotta e salvi e riservati restando gli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione comunale adotterà nella riedizione dell’azione amministrativa di propria competenza.
Invero soltanto nel corso di causa, segnatamente nel primo grado di giudizio, la difesa del Comune aveva fatto cenno ad un’interlocuzione intervenuta nelle vie brevi in sede di istruttoria della pratica, nel corso della quale l’amministrazione comunale avrebbe rappresentato al condominio che “il mezzo meccanico suggerito era da installarsi lungo la parete del rampante perché in tal modo non avrebbe interferito con le volte a botte ed a crociera della stessa”.
Tale circostanza, tuttavia, non trova un qualsivoglia riscontro negli atti dei procedimenti da cui è scaturita la presente causa, e può quindi essere -al più- ricondotta ad un’ipotesi di integrazione postuma della motivazione del provvedimento impugnato nella susseguente sede di contraddittorio giudiziale: fattispecie, questa che -come è ben noto- risulta comunque ex se illegittima (cfr. sul punto, tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. III, 18.06.2019, n. 4119).

APPALTINon può assurgere a motivo di esclusione in termini di grave illecito professionale una irregolarità fiscale da tempo superata e, comunque, non avente più attuale rilevanza.
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Il thema decidendum è costituito dalla considerazione degli effetti -in termini sanzionatori- della omessa dichiarazione in quanto tale circa l’annotazione nel casellario informatico dell'ANAC.
Occorre richiamare a riguardo la giurisprudenza secondo cui, anche alla luce dell’attuale testo dell’art. 80, comma 5, “i c.d. obblighi informativi, in particolare quelli di cui alla lettera c-bis) ed alla lettera f-bis), sono posti a carico dell’operatore economico per consentire alla stazione appaltante un’adeguata e ponderata valutazione sull’affidabilità e sull’integrità del medesimo” .
Come rilevato dal Collegio in sede cautelare, “sussiste in capo alla stazione appaltante un potere di apprezzamento discrezionale in ordine alla sussistenza dei requisiti di “integrità o affidabilità” dei concorrenti, e che, pertanto, al fine di rendere possibile il corretto esercizio di tale potere, questi ultimi sono tenuti a dichiarare qualunque circostanza che possa ragionevolmente avere influenza sul processo valutativo demandato all’amministrazione”.
Tuttavia, occorre, altresì, rilevare che l’orientamento che impone agli operatori economici di portare a conoscenza della stazione appaltante tutte le informazioni relative alle proprie vicende professionali, anche non costituenti cause tipizzate di esclusione, è stato oggetto di interpretazione evolutiva.
Sono, infatti, stati individuati limiti di operatività di un siffatto generalizzato obbligo dichiarativo, “dato che l’ampia interpretazione anzidetta, come osservato in un condivisibile recente arresto giurisprudenziale, “potrebbe rilevarsi eccessivamente onerosa per gli operatori economici imponendo loro di ripercorrere a beneficio della stazione appaltante vicende professionali ampiamente datate o, comunque, del tutto insignificanti nel contesto della vita professionale di una impresa””.
La giurisprudenza più recente si è orientata nel ritenere che “la mancata ostensione di un pregresso illecito è rilevante -a fini espulsivi- non già in sé, bensì in funzione dell’apprezzamento della stazione appaltante, il quale va a sua volta eseguito in considerazione anzitutto della consistenza del fatto omesso”.
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Secondo la giurisprudenza che si è di recente sempre più consolidata, “Eventuali esclusioni da precedenti procedure di gara, per quanto siano state accertate dal giudice amministrativo, assumono pertanto rilevanza solo se e fino a quando risultino iscritte nel Casellario, per gli effetti e con le modalità previste nell'art. 80, comma 12, del D.Lgs. n. 50 del 2016, qualora l'ANAC ritenga che emerga il dolo o la colpa grave dell'impresa interessata, in considerazione dell'importanza e della gravità dei fatti”.
Tenuto conto dell’evoluzione giurisprudenziale registratasi sulla questione degli oneri di dichiarazione degli operatori economici partecipanti ad una gara, il Collegio ritiene che assumono rilievo e siano idonei a fondare l’adozione di provvedimenti sanzionatori o espulsivi dalla procedura di gara solo i casi di mancata dichiarazione di precedenti esclusioni da analoghe gare disposte per omessa o falsa attestazione circa l’iscrizione nel casellario informatico, ai sensi e per gli effetti dei cui ai commi 5 e 12 dell’art. 80 d.lgs. 50/2016.
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La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato in termini generali:
   - che “in riferimento all’omessa dichiarazione dell’esclusione da una precedente gara d’appalto, per potersi ritenere integrata l’ipotesi di omissione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione (art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, nella formulazione anteriore alle modifiche di cui al d.l. n. 135 del 2018) “è necessario che le informazioni di cui si lamenta la mancata segnalazione risultino, comunque, dal Casellario informatico dell’Anac, in quanto solo rispetto a tali notizie potrebbe porsi un onere dichiarativo ai fini della partecipazione alle procedure di affidamento (…)”;
   - e ancora che “la preclusione alla partecipazione alle gare per effetto della produzione di false dichiarazioni o falsa documentazione resti confinata alle due ipotesi tipiche: a) dell’esclusione dalla medesima gara nel cui ambito tale produzione è avvenuta; b) dall’esclusione da ulteriori e successive gare (ma soltanto nel caso in cui sia intervenuta l’iscrizione dell’impresa nel casellario informatico tenuto dall’Osservatorio dell’ANAC, nelle ipotesi e con i limiti di cui all’art. 80, comma 5, lett. f-ter), e comma 12.
Resta, invece, preclusa alle stazioni appaltanti la possibilità di valutare autonomamente ai fini escludenti la condotta di un concorrente il quale abbia reso false e/o omissive dichiarazioni nell’ambito di una precedente gara e non sia stato iscritto nell’indicata casellario” .
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7. Ai fini di più completa comprensione delle questioni ritenute rilevanti per la decisione occorre chiarire che:
   7a) non è in discussione, nel caso in esame, il principio, peraltro ribadito dal Consiglio proprio con riferimento alla vicenda (gara per l’affidamento del servizio di “refezione scolastica” nel Comune di Marcianise) che ha riguardato la ricorrente, secondo cui non può assurgere a motivo di esclusione in termini di grave illecito professionale una irregolarità fiscale da tempo superata e, comunque, non avente più attuale rilevanza (Cons. Stato, 597/2019, cit.; in termini Sez. V, 27.09.2019, n. 6490; Sez. III, 02.04.2019, n. 2183);
   7b) come ribadito dalla difesa della civica amministrazione nella memoria depositata il 06.12.2019, quel che è stato ritenuto determinante ai fini dell’esclusione è la mancata dichiarazione, sia nella domanda di partecipazione che nell’apposito spazio riservato del DGUE, di essere stata la ricorrente destinataria di un’annotazione nel casellario informatico, il cui inserimento era stato disposto dall’Anac con la Delibera n. 1154 del 12.12.2018.
   7c) riconosciuta allora l’irrilevanza, ai fini espulsivi, del fatto sotteso al procedimento avviato dall’Anac, il thema decidendum è costituito dalla considerazione degli effetti -in termini sanzionatori, come avvenuto nel caso di specie- della omessa dichiarazione in quanto tale circa l’annotazione nel casellario informatico, disposta dalla Delibera n. 1154.
7.1. - Occorre richiamare a riguardo la giurisprudenza secondo cui, anche alla luce dell’attuale testo dell’art. 80, comma 5, “i c.d. obblighi informativi, in particolare quelli di cui alla lettera c-bis) ed alla lettera f-bis), sono posti a carico dell’operatore economico per consentire alla stazione appaltante un’adeguata e ponderata valutazione sull’affidabilità e sull’integrità del medesimo (cfr. Cons. Stato, V, 04.02.2019, n. 827; V, 16.11.2018, n. 6461; V, 03.09.2018, n. 5142; V, 17.07.2017, n. 3493; V, 05.07.2017, n. 3288)” (Cons. Stato, sez. V, sent. 5171 del 22.07.2019).
Come rilevato dal Collegio in sede cautelare, “sussiste in capo alla stazione appaltante un potere di apprezzamento discrezionale in ordine alla sussistenza dei requisiti di “integrità o affidabilità” dei concorrenti, e che, pertanto, al fine di rendere possibile il corretto esercizio di tale potere, questi ultimi sono tenuti a dichiarare qualunque circostanza che possa ragionevolmente avere influenza sul processo valutativo demandato all’amministrazione (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 15.04.2019, n. 2430; 12.03.2019, n. 1649; id. 24.09.2018, n. 5500; TAR Lazio, sez. I, sent. 4729/2019 richiamate anche nel verbale n. 4 del 12.09.2019 con cui la Commissione ha formulato proposta di esclusione)”.
Tuttavia, occorre, altresì, rilevare che l’orientamento che impone agli operatori economici di portare a conoscenza della stazione appaltante tutte le informazioni relative alle proprie vicende professionali, anche non costituenti cause tipizzate di esclusione (cfr. Cons. Stato, V, 11.06.2018, n. 3592; id., V, 25.07.2018, n. 4532; id., V, 19.11.2018, n. 6530; id. III, 29.11.2018, n. 6787 ed altre), è stato oggetto di interpretazione evolutiva.
Sono, infatti, stati individuati limiti di operatività di un siffatto generalizzato obbligo dichiarativo, “dato che l’ampia interpretazione anzidetta, come osservato in un condivisibile recente arresto giurisprudenziale, “potrebbe rilevarsi eccessivamente onerosa per gli operatori economici imponendo loro di ripercorrere a beneficio della stazione appaltante vicende professionali ampiamente datate o, comunque, del tutto insignificanti nel contesto della vita professionale di una impresa” (così Cons. Stato, V, 03.09.2018, n. 5142)” (Cons Stato, n. 5171/2019, cit.).
La giurisprudenza più recente si è orientata nel ritenere che “la mancata ostensione di un pregresso illecito è rilevante -a fini espulsivi- non già in sé, bensì in funzione dell’apprezzamento della stazione appaltante, il quale va a sua volta eseguito in considerazione anzitutto della consistenza del fatto omesso” (ex multis, Cons. Stato, sez. V, sent. 8480 del 13.12.2019; Cons. Stato, Sez. V, 15.04.2019, n. 2430; 12.03.2019, n. 1649; id. 24.09.2018, n. 5500; TAR Lazio, sez. I, sent. 4729/2019, queste ultime richiamate anche nel verbale n. 4 del 12.09.2019 con cui la Commissione ha formulato proposta di esclusione).
7.2. - È allora necessario, nel caso in esame, esaminare quanto disposto dalla Delibera Anac n. 1154 del 12/12/2018.
Risulta dagli atti che l’oggetto della nota di trasmissione della Deliberazione in questione è il “procedimento sanzionatorio per l’iscrizione nel casellario informatico di annotazione interdittiva, ai sensi dell’art. 80, comma 12, d.lgs. 50/2016 e per l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 213, comma 13, del Codice”.
La nota espressamente trasmette copia della delibera n. 1154 del 12.12.2018, con la quale è stata disposta, “oltre all’archiviazione del procedimento, l’annotazione non interdittiva nel casellario informatico degli operatori economici”.
L’Anac, dunque, archivia il procedimento sanzionatorio avviato ai sensi dell’art. 80, comma 12, d.lgs. 50/2016 e per l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 213, comma 13, del Codice, ed inserisce nel casellario informatico contratti pubblici una annotazione “non interdittiva”, riferita alle esclusioni dell’operatore economico da due gare aventi ad oggetto il servizio di refezione scolastica. Giova in proposito rimarcare che una delle due esclusioni è stata oggetto annullamento da parte del giudice in appello (Cons. Stato, sent. 597/2019 più volte menzionata), in data successiva alla delibera.
Ebbene, secondo la giurisprudenza che si è di recente sempre più consolidata, richiamata anche da parte ricorrente, “Eventuali esclusioni da precedenti procedure di gara, per quanto siano state accertate dal giudice amministrativo, assumono pertanto rilevanza solo se e fino a quando risultino iscritte nel Casellario, per gli effetti e con le modalità previste nell'art. 80, comma 12, del D.Lgs. n. 50 del 2016, qualora l'ANAC ritenga che emerga il dolo o la colpa grave dell'impresa interessata, in considerazione dell'importanza e della gravità dei fatti” (cfr. Cons. Stato Sez. V, 27/09/2019, n. 6490).
7.3. - È per questo che all’esito dell’approfondimento del merito del ricorso, e tenuto conto dell’evoluzione giurisprudenziale registratasi sulla questione degli oneri di dichiarazione degli operatori economici partecipanti ad una gara, il Collegio ritiene che assumono rilievo e siano idonei a fondare l’adozione di provvedimenti sanzionatori o espulsivi dalla procedura di gara, solo i casi di mancata dichiarazione di precedenti esclusioni da analoghe gare disposte per omessa o falsa attestazione circa l’iscrizione nel casellario informatico, ai sensi e per gli effetti dei cui ai commi 5 e 12 dell’art. 80 d.lgs. 50/2016.
7.4 – Per quanto sopra esposto e ricostruito, le doglianze della ricorrente meritano favorevole apprezzamento, in base alle seguenti dirimenti considerazioni:
   7.I) il fatto che aveva portato alle precedenti esclusioni della ricorrente da gare analoghe non è stato ritenuto rilevante (in tal senso Cons. Stato sent. 597/2019 ”i) la produzione di false dichiarazioni relative alla regolarità fiscale si era prodotta nell’ambito di una precedente gara di appalto (e nell’ambito di tale gara aveva correttamente determinato l’esclusione dell’appellante); ii) l’appellante non era stata tuttavia iscritta in conseguenza di ciò nel casellario informativo dell’ANAC (ragione per cui non sussisteva nei suoi confronti la preclusione alla partecipazione di cui all’articolo 80, comma 12); iii) l’appellante aveva oltretutto rimosso nelle more lo stato di irregolarità fiscale, ragione per cui al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla successiva gara non sussisteva nei suoi confronti una preclusione in tal senso; iv) nei confronti dell’impresa non sussisteva l’onere di dichiarare la pregressa esclusione (i.e.: l’onere di rappresentare una circostanza che, quand’anche conosciuta dalla stazione appaltante, non avrebbe comunque potuto condurre all’esclusione dalla gara)";
   7.II) la relativa omessa comunicazione non è stata ritenuta rilevante neanche ai fini sanzionatori dall’Anac, che ha archiviato il procedimento con la Delibera n. 1154; difettano, pertanto, senz’altro i presupposti dell’illecito in relazione alla corrispondente omissione, nella prospettiva della omessa o falsa dichiarazione, in quanto l’annotazione Anac non ha natura sanzionatoria, essendosi il relativo procedimento concluso, come visto, con un’archiviazione.
L’annotazione in questione, dunque, è diversa dall’iscrizione dell’impresa nel casellario informatico tenuto dall’Osservatorio, disposta nei casi in cui ANAC eserciti il potere sanzionatorio di cui agli artt. 80, comma 12, e 213, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016;
   7.III) la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato in termini generali che “in riferimento all’omessa dichiarazione dell’esclusione da una precedente gara d’appalto, per potersi ritenere integrata l’ipotesi di omissione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione (art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, nella formulazione anteriore alle modifiche di cui al d.l. n. 135 del 2018) “è necessario che le informazioni di cui si lamenta la mancata segnalazione risultino, comunque, dal Casellario informatico dell’Anac, in quanto solo rispetto a tali notizie potrebbe porsi un onere dichiarativo ai fini della partecipazione alle procedure di affidamento (…) (così Cons. Stato, V, n. 2063/2018 e id., III, n. 4266/2018 cit.)” (Cons. Stato, V, n. 6576/2018, cit.; nello stesso senso, oltre ai precedenti richiamati dalla citata sentenza, cfr. Cons. Stato, V, 03.09.2018, n. 5136; 04.07.2017, n. 3257 e 3258; contra, v. Cons. Stato, n. 5171/2019, cit., cui segue tuttavia Cons. Stato, V, 27.09.2019, n. 6490, che si uniforma al precedente orientamento)” (Cons. Stato sent. 8480/2019, cit); e ancora che “la preclusione alla partecipazione alle gare per effetto della produzione di false dichiarazioni o falsa documentazione resti confinata alle due ipotesi tipiche: a) dell’esclusione dalla medesima gara nel cui ambito tale produzione è avvenuta; b) dall’esclusione da ulteriori e successive gare (ma soltanto nel caso in cui sia intervenuta l’iscrizione dell’impresa nel casellario informatico tenuto dall’Osservatorio dell’ANAC, nelle ipotesi e con i limiti di cui all’art. 80, comma 5, lett. f-ter), e comma 12.
7.9.5. Resta, invece, preclusa alle stazioni appaltanti la possibilità di valutare autonomamente ai fini escludenti la condotta di un concorrente il quale abbia reso false e/o omissive dichiarazioni nell’ambito di una precedente gara e non sia stato iscritto nell’indicata casellario
” (Cons. Stato, sez. V, sent. 6490/2019);
   7.IV) in conformità a quanto in questa sede rilevato si è pronunciato, da ultimo, questo TAR su analogo caso, relativo a procedura di gara aggiudicata alla ricorrente, in cui la controinteressata ha proposto ricorso lamentando la mancata esclusione della Gl.Se. in considerazione della falsa dichiarazione riferita proprio alla medesima annotazione sul casellario informatico dell’ANAC di cui alla Delibera 1154/2018 (TAR Napoli, sez. II sent. 5884 dell’11.12.2019 nella quale, dopo il richiamo alle sentenza n. 597/2019, in cui il “Giudice di appello –pur dando atto all’interno della Sezione V di diversi orientamenti culminati rispettivamente in decisioni nn. 5365 e 3592/2018- ha riformato pronunce del TAR Campania (nn. 2495/2018, 1146/2018 e 902/2017) statuendo che una precedente esclusione per irregolarità fiscale priva di rilevanza attuale non può assurgere a motivo di esclusione in termini di grave illecito professionale, anche perché l’art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016 riconosce efficacia escludente alla partecipazione alla gara solamente sino al momento in cui il concorrente non provveda alla regolarizzazione della propria posizione od ottenga la rateizzazione del debito tributario; ragionando in termini contrari, si determinerebbe una indefinita protrazione di efficacia “a strascico” delle violazioni relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse”; si è stabilito che “l’ANAC con deliberazione n. 1154 del 12/12/2018 ha disposto nei confronti dell’odierna controinteressata l’archiviazione dei profili sanzionatori e chiarito che l’annotazione non costituisce motivo di automatica esclusione dalle gare”).
8. - Per tutto quanto esposto, il ricorso è accolto per la parte relativa alla domanda di annullamento degli atti impugnati (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 14.01.2019 n. 168 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Ai fini risarcitori, non è sufficiente il presupposto costituito dall’illegittimità della procedura, occorrendo dedurre e provare che il provvedimento amministrativo illegittimo abbia impedito di conseguire il bene della vita ad esso sotteso.
Inoltre, come chiarito dalla ormai consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità –o di estrema difficoltà– di una precisa prova sull’ammontare del danno (A.P. n. 2 del 2017).
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Nel caso di specie, ricorrente ha avanzato la propria pretesa senza fornire una prova concreta e rigorosa del danno.
Ebbene, come sopra rilevato, alla totale carenza probatoria non può supplire l’attività valutativa del giudice che non può essere di certo destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti alla base delle proprie richieste.
Tali considerazioni devono essere svolte con riguardo alle varie voci di danno indicate dalla ricorrente, non senza sottolineare che le spese di partecipazione alla procedura rimangono comunque un costo a carico dell’operatore economico anche in caso di aggiudicazione dell’affidamento.
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9. - Parte ricorrente ha presentato anche domanda di risarcimento del danno subito in conseguenza della disposta esclusione.
10. - La pretesa non può trovare favorevole apprezzamento.
Ai fini risarcitori, non è, infatti, sufficiente il presupposto costituito dall’illegittimità della procedura, occorrendo dedurre e provare che il provvedimento amministrativo illegittimo abbia impedito di conseguire il bene della vita ad esso sotteso (ex multis: Cons. Stato, Ad. plen., 03.12.2008, n. 13; III, 23.01.2015, n. 302; IV, 04.07.2017, n. 3255, 06.02.2017, n. 489; V, 17.07.2017, n. 3505, 06.03.2017, n. 1037, 15.11.2016, n. 4718, 23.08.2016, n. 3674, 10.02.2015, n. 675, 14.10.2014, n. 5115; VI, 30.11.2016, n. 5042).
Inoltre, come chiarito dalla ormai consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità –o di estrema difficoltà– di una precisa prova sull’ammontare del danno (A.P. n. 2 del 2017).
10.1 - Nel caso in esame va rilevato, innanzitutto, che, l’esito della domanda impugnatoria incide in senso determinante sulla pretesa di parte ricorrente, in considerazione del ristoro che consegue al dovere dell’amministrazione di ottemperare agli obblighi conformativi derivanti dalla presente decisione, attesa la dichiarata disponibilità di parte ricorrente all’immediato subentro nell’esecuzione del servizio oggetto della procedura di gara.
Inoltre, non può essere trascurata la circostanza per cui la ricorrente ha avanzato la propria pretesa senza fornire una prova concreta e rigorosa del danno.
Ebbene, come sopra rilevato, alla totale carenza probatoria non può supplire l’attività valutativa del giudice che non può essere di certo destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti alla base delle proprie richieste.
10.2. - Tali considerazioni devono essere svolte con riguardo alle varie voci di danno indicate dalla ricorrente, non senza sottolineare che le spese di partecipazione alla procedura rimangono comunque un costo a carico dell’operatore economico anche in caso di aggiudicazione dell’affidamento (ex multis: Cons. Stato, III, 30.04.2015, n. 1839; IV, 14.03.2016, n. 992; V, 26.07.2017, n. 3679, 24.07.2017, n. 3650, 31.10.2016, n. 4562, 16.08.2016, n. 3634; VI, 17.02.2017, n. 731).
11. – In conclusione, la domanda di annullamento deve essere accolta, mentre quella risarcitoria deve essere respinta (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 14.01.2019 n. 168 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso spese legali. Il mancato avvio del procedimento disciplinare non esclude, per il dipendente assolto, la mancanza del conflitto di interessi per il rimborso delle spese legali.
Il Consiglio di Stato, dopo aver ricostruito i principi fondamentali per il rimborso delle spese legali al dipendente assolto in una causa penale, ha negato il rimborso in presenza dell'assoluzione dai reati di calunnia, omissione o rifiuto di atti di ufficio, non potendo escludere nel caso concreto la loro riconducibilità ad esigenze di servizio, non trovando immediata e diretta riferibilità nella volontà dell'Ente di appartenenza. Anzi, il non adempimento da parte del dipendente di un suo dovere di ufficio, pur considerando lo stesso non rilevante ai fini penali, non lo pone al di fuori di un possibile conflitto di interessi con la propria amministrazione, a nulla rilevando la mancata attivazione del procedimento disciplinare.
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8. Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato e vada, pertanto, respinto.
9. Nell’odierno giudizio viene in questione la spettanza del rimborso delle spese legali sostenute dal pubblico dipendente, ai sensi dell’art. 18, co. 1, del D.L. n. 67 del 1997, come convertito nella legge n. 135 del 1997, che testualmente dispone: “Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato. Le Amministrazioni interessate, sentita l’Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”.
9.1. Sui presupposti che indefettibilmente devono essere presenti affinché il pubblico dipendente possa invocare l’applicazione del citato art. 18 è attualmente ravvisabile una convergenza di posizioni nella giurisprudenza amministrativa.
9.2. Come recentemente chiarito anche dalla sentenza n. 8137/2019 di questa Sezione, la norma subordina la spettanza del beneficio ad una duplice circostanza:
   a) l’esistenza di un giudizio, promosso nei confronti del (e non anche dal) dipendente, conclusosi con un provvedimento che abbia definitivamente escluso la sua responsabilità;
   b) la sussistenza di un nesso tra gli atti e i fatti ascritti al dipendente e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali.
9.3. In ordine alla prima circostanza, è necessario che la pronuncia giurisdizionale abbia accertato l’assenza di responsabilità ed un tale presupposto può ritenersi sussistente anche laddove sia stato applicato l’art. 530, comma 2, del c.p.p. (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Ad. Gen., 29.11.2012, n. 20/2013; Sez. IV, 21.01.2011, n. 1713); dovendosi invece negare l’applicazione dell’art. 18 quando il proscioglimento sia conseguenza di cause diverse, quali l’estinzione del reato, l’intervenuta prescrizione, oppure quando sia stato disposto per ragioni processuali, quali la mancanza delle condizioni di promovibilità o di procedibilità dell’azione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. VI, 2005, n. 2041).
9.4. Ulteriore presupposto cui l’art. 18 ricollega il riconoscimento del rimborso delle spese legali è che il dipendente abbia agito in nome, per conto ed anche nell’interesse dell’Amministrazione; solo in tal caso, infatti, è possibile ravvisare il nesso di immedesimazione organica in ordine ai fatti o agli atti oggetto del giudizio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137).
9.5. Al riguardo è stato ulteriormente precisato che tale presupposto sussiste solo ove gli atti o i fatti compiuti dall’interessato siano riconducibili, in un rapporto di stretta dipendenza, con l’adempimento dei propri obblighi, ossia con l’esercizio diligente della funzione pubblica; occorrendo, altresì, che sia ravvisabile l’esistenza di un nesso di strumentalità tra il compimento dell’atto o del fatto e l’adempimento del dovere, non potendo il dipendente assolvere ai propri compiti, se non tenendo quella determinata condotta (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190).
9.6. Peraltro, occorre porre in rilievo come la ricostruzione dell’esatta portata dei requisiti indefettibili, ai quali l’art. 18 subordina il rimborso delle spese legali, sia condivisa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, in ordine ai rapporti di impiego pubblico contrattualizzato.
9.7. La Cassazione, dando vita ad un orientamento ermeneutico consolidato, ha affermato l’esigenza che il giudizio, cui la richiesta di rimborso inerisce, riguardi procedimenti giudiziari strettamente connessi all’adempimento dei compiti istituzionali. Ed infatti, lo specifico interesse che deve necessariamente sussistere affinché l’Amministrazione possa essere chiamata a tenere indenne dalle spese legali il proprio dipendente, imputato in un procedimento penale, consiste nella circostanza che l’attività sia riferibile all’Ente di appartenenza, ponendosi in un rapporto di stretta connessione con il fine pubblico (cfr. Cass., 29.01.2019, n. 2475; Cass., 06.08.2018, n. 20561; Cass. Lav., 06.07.2018 n. 17874; Cass., 05.02.2016 n. 2366; Cass. Lav, 03.02.2014, n. 2297)
9.8. Risulta pertanto evidente come il rimborso delle spese legali rappresenti un meccanismo volto ad imputare al titolare dell’interesse sostanziale le conseguenze dell’operato di chi abbia agito per suo conto; ne deriva che un siffatto meccanismo di imputazione può operare solo in quanto siano ravvisabili quel rapporto di stretta dipendenza, nonché quel nesso di strumentalità tra l’adempimento del doveri istituzionali e il compimento dell’atto, di cui si è detto in precedenza.
Una diversa conclusione condurrebbe a riconoscere la spettanza del beneficio in ogni ipotesi di reato proprio, anche laddove il fatto addebitato esuli dai doveri istituzionali, senza che possa ravvisarsi un collegamento, diretto e di tipo oggettivo, con l’interesse dell’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 05.04.2017, n. 1568).
9.9. Alla luce delle accennate coordinate ermeneutiche consegue ulteriormente che la condotta del dipendente, consistente in atti o in comportamenti, deve essere espressione della volontà dell’Amministrazione di appartenenza e a questa riferibile, in quanto finalizzata al corretto adempimento dei suoi fini istituzionali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137).
Sussistendo tali condizioni, il principio di immedesimazione organica consente, mediante la creazione del rapporto d’ufficio, l’imputazione in capo all’Amministrazione dell’intera attività, quindi anche degli effetti, scaturenti dai comportamenti posti in essere dal titolare dell’organo.
9.10. La giurisprudenza ha infine chiarito come la natura eccezionale della disposizione in esame ne imponga una stretta interpretazione, dovendo concludersi per la non spettanza del beneficio nel caso in cui l’atto o il comportamento:
   a) non abbiano trovato origine nell’esecuzione dei compiti istituzionali, ma abbiano avuto luogo ‘in occasione’ dello svolgimento della pubblica funzione, senza che possa ravvisarsi la necessaria riferibilità all’Amministrazione di appartenenza (cfr. Cass. civ., Sez. I, 31.01.2019, n. 3026; Sez. lav., 06.07.2018, n. 17874; Sez. lav., 03.02.2014, n. 2297; Sez. lav., 30.11.2011, n. 25379; Sez. lav., 10.03.2011, n. 5718; Cons. Stato, Sez. V, 05.05.2016, n. 1816; Sez. III, 2013, n. 4849; Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190);
   b) costituiscano violazione dei doveri d’ufficio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2018, n. 3427);
   c) possano condurre ad un conflitto con gli interessi dell’Amministrazione di appartenenza, cioè quando, pur in assenza di responsabilità penale, sussistano i presupposti per la configurazione di un illecito disciplinare e l’attivazione del relativo procedimento (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 27.08.2018, n. 2055; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. IV, 2013, n. 1190; Sez. IV, 2012, n. 423).
9.11. La necessità che la disposizione sia oggetto di stretta interpretazione è del resto ricavabile dalla ratio che il legislatore ha inteso imprimere all’istituto del rimborso delle spese legali.
Lo scopo della norma è quello di sollevare i funzionari pubblici dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento del servizio, nell’intento di impedire ‘che il dipendente statale tema di fare il proprio dovere’ (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137). Il fine avuto di mira dal normatore consiste quindi nel tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome, per conto e nell’interesse dell’Amministrazione dalle spese legali sostenute per difendersi dalle accuse di responsabilità, poi rivelatesi infondate.
9.12. Al conseguimento di un siffatto scopo non basta una connessione con il fatto di reato, di tipo soggettivo ed indiretto, come accadrebbe se lo svolgimento dell’attività costituisse una mera occasione per il compimento dell’atto o del comportamento; è necessario, invece, che sussista uno specifico nesso causale che consenta di affermare la stretta riconducibilità del fatto contestato all’espletamento del dovere d’ufficio, pena la dilatazione del perimetro applicativo della norma oltre i confini delineati dal legislatore.
10. Ricostruita la ragione ispiratrice della predetta disciplina, ne consegue come del tutto inconferente si riveli il richiamo, operato nell’atto di appello, agli artt. 11 e 12 del D.P.R. n. 461/2001 sulla riconducibilità a cause di servizio di lesioni, infermità o aggravamenti di lesioni o infermità preesistenti, riscontrate in capo al dipendente appartenente ad amministrazioni pubbliche.
10.1. La ricorrente ha infatti esposto di aver ottenuto con determinazione dirigenziale n. 1489/D del 27.10.2014 il riconoscimento della dipendenza da fatti di servizio della patologia riscontrata, nella specie reazione ansioso depressiva. Ha quindi lamentato la circostanza secondo cui l’Amministrazione avrebbe aderito al parere espresso dal Comitato di Verifica sulle Cause di Servizio in ordine al riconoscimento della valenza patogenetica del servizio prestato, salvo discostarsene successivamente e senza che venisse resa un’adeguata motivazione nell’ambito del procedimento sull’istanza di rimborso delle spese legali.
10.2. A giudizio dell’appellante sia l’Amministrazione di appartenenza, che il Tar avrebbero operato una riedizione illegittima del riconoscimento del nesso causale effettuato dall’organo tecnico preposto, stravolgendolo implicitamente.
10.3. Siffatta ricostruzione non coglie nel segno. È infatti da respingere la tesi, da ultimo ribadita nella memoria di replica prodotta dall’appellante, secondo cui il parere del C.V.C.S., seppur relativo ad un diverso procedimento, dovrebbe essere assunto quale indice rivelatore della presenza del nesso causale anche in altri giudizi, in ragione della natura vincolata ed insindacabile della valutazione compiuta dal Comitato, siccome connotata da certezza o da alto grado di credibilità logica e razionale.
10.4. A tale tesi non è possibile accedere proprio alla luce della ratio ispiratrice dell’istituto del rimborso delle spese legali. Eterogenei, infatti, sono i criteri che informano le relative discipline e differenti devono essere i principi che presiedono alle rispettive valutazioni.
10.5. Dal riconoscimento degli eventi di servizio prestato, quali fattori concausali efficienti sull’insorgenza o l’aggravamento dell’affezione, non può automaticamente e meccanicamente desumersi un accertamento, differente per natura e per oggetto, circa la stretta riconducibilità dell’atto o del fatto ai doveri istituzionali dell’Ente di appartenenza. Ed invero, i fatti addebitati al dipendente potrebbero, come nel caso di specie, esulare dall’esercizio della funzione, per rinvenire nell’attività lavorativa solo l’occasione del loro verificarsi.
10.6. Nel caso all’esame del Collegio, infatti, le condotte che hanno portato alla contestazione dei reati di calunnia, omissione o rifiuto di atti d’ufficio, seppur riconosciute come non rilevanti penalmente, non sono in ogni caso riconducibili ad esigenze di servizio, non trovando immediata e diretta riferibilità nella volontà dell’Ente di appartenenza. Anzi, l’astenersi dal porsi alla guida di un mezzo militare non può che rendere ipotizzabile in capo all’interessata una violazione dei doveri d’ufficio, se si consideri che la stessa era munita di apposita patente di guida militare. Ne deriva l’impossibilità di ravvisare un nesso tra l’agire della Sig.ra -OMISSIS- e la volontà dell’Amministrazione, in ragione del dissolvimento del rapporto di immedesimazione organica.
10.7. Né ha pregio l’eccezione sollevata dall’appellante in ordine al riconoscimento di un conflitto di interesse tra Amministrazione e dipendente. Si legge nell’atto di appello che il predetto conflitto potrebbe ritenersi sussistente solo ove l’Amministrazione avviasse un procedimento disciplinare nei confronti del proprio dipendente e procedesse all’irrogazione di una sanzione, nonostante l’intervenuta assoluzione in sede penale.
Orbene, la circostanza dell’assoluzione, così come la mancata instaurazione di un procedimento disciplinare non ha alcuna rilevanza. Il conflitto d’interesse può infatti rilevare ex se, indipendentemente dall’esito del giudizio penale (cfr. Cass. Lav., 03.02.2014, n. 2297).
E l’assoluzione, giova ulteriormente precisare, non ha alcuna incidenza in ordine al giudizio sulla non riconducibilità all’Amministrazione del fatto addebitato (cfr. Cass. 05.02.2016, n. 2366).
Ne consegue che per ravvisare un conflitto con gli interessi dell’Amministrazione ed escludere la spettanza del beneficio è sufficiente che sussistano i presupposti per la configurazione dell’illecito disciplinare e per l’attivazione del relativo procedimento (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 27.08.2018, n. 2055; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. IV, 2013, n. 1190; Sez. IV, 2012, n. 423).
11. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e, per l’effetto, va confermata la sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.01.2020 n. 281 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Alla Corte di Giustizia la mancanza della fase del contraddittorio prima dell’emissione dell’informativa antimafia interdittiva.
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Informativa antimafia – Comunicazione di avvio del procedimento - Esclusione – Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
E’ rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione se gli artt. 91, 92 e 93, d.lgs. 06.09.2011, n. 159, nella parte in cui non prevedono il contraddittorio endoprocedimentale in favore del soggetto nei cui riguardi l’Amministrazione si propone di rilasciare una informativa antimafia interdittiva, siano compatibili con il principio del contraddittorio ex art. 7, l. 07.08.1990, m. 241, così come ricostruito e riconosciuto quale principio di diritto dell’Unione (1).
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   (1) La Sezione non condivide l’assunto della natura cautelare dell’informativa antimafia interdittiva, poiché non si tratta di misura provvisoria e strumentale, adottata in vista di un provvedimento che definisca, con caratteristiche di stabilità e inoppugnabilità, il rapporto giuridico controverso, bensì di atto conclusivo del procedimento amministrativo avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili e inemendabili, se si considera che alla citata interdittiva antimafia segue il ritiro di un titolo pubblico o il recesso o la risoluzione contrattuale, nonché la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore che, da quel momento e per sempre, non possono rientrare nel circuito economico dei rapporti con la P.A. dal quale sono stati estromessi.
L’informazione antimafia interdittiva non fa pertanto parte dei provvedimenti interinali e cautelari in relazione ai quali il legislatore nazionale consente di escludere, in via generale, l’applicazione della partecipazione al procedimento amministrativo (art. 7, l. 07.08.1990, n. 241).
La stessa partecipazione al procedimento amministrativo, garantita attraverso l’ascolto delle ragioni del destinatario del provvedimento interdittivo antimafia, non ha controindicazioni perché il soggetto nei cui riguardi opera la misura non ha alcuna possibilità di mettere in atto strategie elusive o condotte ostruzionistiche con l’intento di sottrarsi al provvedimento conclusivo.
Ha aggiunto il Tar che il procedimento amministrativo che culmina nel rilascio della informazione antimafia interdittiva, pur in presenza di considerevoli effetti negativi nella sfera giuridica del destinatario, non prevede alcuna forma di contraddittorio con il destinatario medesimo, se non nella ipotesi disciplinata dall’art. 93, d.lgs. n. 159 del 2011, in cui “Il prefetto emette, entro quindici giorni dall’acquisizione della relazione del gruppo interforze, l’informazione interdittiva, previa eventuale audizione dell’interessato secondo le modalità individuate dal successivo comma 7”.
Anche nel caso ora esaminato, si tratta di audizione con finalità istruttoria la quale consente un contraddittorio meramente eventuale, non di garanzia effettiva di partecipazione al procedimento, atteso che l’eventualità che il contraddittorio si instauri è discrezionalmente valutata dall’Autorità prefettizia che procede, in base alle proprie esigenze istruttorie.
La garanzia partecipativa assume speciale rilievo e importanza nel procedimento in esame in relazione ad almeno tre circostanze:
   1) le valutazioni del Prefetto possono fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (ex art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011; si pensi ai cosiddetti delitti-spia), mentre altri elementi fattuali, cosiddetti “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’Autorità amministrativa, che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali ovvero anche solo da elementi da cui risulti che l’attività di impresa «possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata» (Cons. Stato, sez. III, 30.01.2019, n. 758);
   2) tale ultima ipotesi di “condizionamento indiretto” dell’impresa da parte della mafia comprende un numero di casi davvero molto significativo e appare di difficile distinzione rispetto a quella dei casi di imprese che subiscono le pressioni mafiose, essendone le vittime;
   3) il Giudice amministrativo chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario posto a base della valutazione prefettizia, in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, possiede un sindacato giurisdizionale estrinseco sull'esercizio del potere prefettizio, la qual cosa comporta un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consentendo di sindacare l'esistenza o meno di questi fatti, ma non possiede un vero e proprio sindacato ab intrinseco che vada oltre l’apprezzamento della ragionevolezza e della proporzionalità della prognosi inferenziale che l'Autorità amministrativa trae da quei fatti (cfr., ex multis: Cons. Stato, sez. III, 05.09.2019, n. 6105; id. 30.01.2019, n. 758); ne discende che il contraddittorio tra il Prefetto e l’impresa nella fase procedimentale assume un’importanza davvero rilevante ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa la quale potrebbe offrire al Prefetto prove e argomenti convincenti per ottenere un’informazione liberatoria, pur in presenza di elementi o indizi sfavorevoli, mentre è più difficile che il Giudice amministrativo sostituisca il proprio convincimento a quello dell’Autorità, una volta che quest’ultima abbia adottato l’interdittiva antimafia.
Il Tar ha infine ricordato che il diritto dell’Unione riconosce la sussistenza di un principio del contraddittorio di carattere endoprocedimentale, da far valere al di fuori del diritto di difesa nel processo giurisdizionale e da intendere nel senso che “ogni qualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo, i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’Amministrazione intende fondare la sua decisione; il principio del contraddittorio endoprocedimentale è enunciato in maniera precisa, in quanto sono chiariti con sufficienza gli elementi che ne fanno parte e in maniera incondizionata, trattandosi di principio capace di autoaffermarsi nei rapporti del cittadino con l’Amministrazione; il principio del contraddittorio, quale espressione fondamentale di civiltà giuridica europea, appartiene, oltretutto, al catalogo dei principi generali del Diritto dell’Unione in base all’art. 6, par. 3 del Trattato sull’Unione Europea, a mente del quale “i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali” (TAR Puglia-Bari, Sez. III, ordinanza 13.01.2020 n. 28 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela delle aree sottoposte a vincoli paesaggisti-ambientali – Interventi non esternamente visibili – Rilevanza delle opere interrate – Principio di offensività – Fattispecie – Artt. 3, 10, 22, 37, 44, 95 d.P.R. n. 380/2001 – Art. 131, 181 d.lgs. n. 42/2004.
In tema di tutela delle aree sottoposte a vincolo, ai fini della configurabilità del reato paesaggistico, non assume alcun rilievo l’assenza di una possibile incidenza sul bene sotto l’aspetto attinente al suo mero valore estetico, dovendosi invece tener conto del rilievo attribuito dal legislatore alla interazione tra elementi ambientali ed antropici che caratterizza il paesaggio nella più ampia accezione ricavabile dalla disciplina di settore, con la conseguenza che anche interventi non esternamente visibili, quali quelli interrati, possono determinare una alterazione dell’originario assetto dei luoghi suscettibile di valutazione in sede penale.
Fattispecie, intervento edilizio consistente nell’esecuzione di opere, in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed alla disciplina per le costruzioni in zone sismiche, in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica, nonché senza preventivo avviso scritto al competente ufficio tecnico regionale.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Aree sottoposte a vincolo paesaggistico – Interventi “precari”, opere facilmente rimovibili e immobili interrati – Pericolo per il bene protetto – Causazione di un danno – Necessità – Esclusione – Possibile pregiudizio al bene tutelato e incidenza della condotta.
In tema di abusi paesaggistici, quando il giudice abbia accertato, con logica ed adeguata motivazione, che l’intervento abbia posto in pericolo l’interesse protetto, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene tutelato, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull’assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall’amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell’intervento eseguito.
Sulla base di tale principio si è pertanto ritenuta la sussistenza del reato anche con riferimento agli interventi “precari” o ad opere facilmente rimovibili e, agli immobili interrati.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Interventi in zone vincolate – Incidenza del principio di offensività – Natura di reato di pericolo presunto od astratto – Mancanza di danno ambientale – Ininfluenza – Valutazione della offensività della condotta.
L’incidenza del c.d. principio di offensività, secondo la quale anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo, presunto od astratto, è sempre devoluto al sindacato del giudice penale l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della singola condotta, dal momento che, ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di reato impossibile, ex art. 49 cod. pen..
Precisando, che il principio di offensività deve essere considerato non tanto sulla base di un concreto apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per l’attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto. Pertanto, ai fini della valutazione della offensività della condotta, da eventuali valutazioni postume di compatibilità paesaggistica delle opere abusivamente realizzate, escludendone ogni efficacia.
Osservando, nella specie, che il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, si è ritenuto irrilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza  09.01.2020 n. 370 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Regime dei titoli abilitativi edilizi – Suddivisione dell’attività edificatoria finale in singole opere – Elusione normativa – L’opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso.
In materia urbanistica, il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull’assetto territoriale.
L’opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva.

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Art. 10 del d.P.R. 380/2001 – Natura meramente esemplificativa – Specifiche disposizioni regionali integrative – Validità – Aumento del c.d. carico urbanistico.
In materia edilizia, l’art. 10 del d.P.R. 380/2001 non costituisce un elenco chiuso, elenco la cui natura è meramente esemplificativa, potendo essere integrato da specifiche disposizioni regionali.
Sono pertanto soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U.E., tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo inedificato.
Tale tipologia di intervento deve essere dunque computata ai fini volumetrici, perché, detto calcolo deve essere effettuato, salvo che non viga un’espressa disposizione contraria, con riferimento all’opera in ogni suo elemento, ivi compresi gli ambienti seminterrati ed interrati funzionalmente asserviti, poiché nel concetto di costruzione rientra ogni intervento edilizio che abbia rilevanza urbanistica, in quanto incide sull’assetto del territorio ed aumenta il c.d. carico urbanistico e tali sono pure i piani interrati cioè sottostanti al livello stradale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza  09.01.2020 n. 370 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAPresupposti per la disapplicazione del Regolamento.
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Regolamenti - Disapplicazione - Presupposti - Individuazione.
La disapplicazione, da parte del giudice amministrativo, della norma secondaria di regolamento ai fini della decisione sulla legittimità del provvedimento amministrativo impugnato è uno strumento per la risoluzione delle antinomie tra fonti del diritto che trova fondamento nel principio della graduazione della forza delle diverse fonti normative tutte astrattamente applicabili e, pertanto, presuppone che il precetto contenuto nella norma regolamentare si ponga in contrasto diretto con quello contenuto in altra fonte di grado superiore (1).
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   (1) Cons. St., sez. VI, 05.01.2015, n. 1.
Quando l’atto impugnato si riflette con esiti opposti (conformità/difformità rispetto al parametro normativo) in disposizioni di forza differente che siano l’una di norma primaria e l’altra di norma secondaria, il giudice che è chiamato a giudicare della legittimità di un provvedimento conforme al regolamento ma in contrasto con la norma primaria, o viceversa, deve dare prevalenza a quest’ultima, in ragione della gerarchia delle fonti.
Tutto ciò presuppone un’effettiva antinomia tra fonti rispetto alla posizione della regola iuris che costituisce il parametro di valutazione della legittimità del provvedimento amministrativo impugnato e non un contrasto qualsiasi tra la legge ed il regolamento, per cui quest’ultimo possa essere illegittimo sotto un altro e diverso profilo (come può essere nel caso di disposizioni regolamentari che vadano soltanto praeter legem: Cons. St., sez. VI, 29.05.2008, n. 2536; ovvero in quello dell’attribuzione della competenza funzionale tra diverse amministrazioni: Cons. St., sez. VI, n. 1 del 2015 cit.), nel quale ultimo caso si verte, invece, di un vizio dell’atto normativo regolamentare al cui rilievo è funzionale l’ordinario sistema impugnatorio (Cons. St., sez. VI, n. 1 del 2015 cit.; sez. V, 03.02.2015, n. 515).
Non ricorre un conflitto fra disposizioni di rango diverso che debba essere risolto attraverso la disapplicazione della disposizione regolamentare antinomica rispetto alla normativa primaria qualora il contrasto tra disposizione primaria e disposizione secondaria non riguardi il precetto normativo a monte del provvedimento impugnato, ma il sistema delle competenze (nel caso di specie si discuteva della possibilità per il regolamento edilizio di un comune, munito di piano regolatore, di attribuire alla commissione edilizia la funzione di adottare pareri anche in merito al valore architettonico, al decoro e all’ambientazione delle opere nonostante ciò, in tesi, non sarebbe stato consentito dall’art. 33 della legge urbanistica) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 09.01.2020 n. 219 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrariva.it).

EDILIZIA PRIVATALe controversie relative all'an e al quantum delle somme dovute a titolo di oblazione e di oneri concessori riguardano diritti soggettivi rispetto ai quali non è configurabile il vizio di difetto di motivazione nella considerazione che le operazioni di concreta quantificazione dei suddetti oneri si esauriscono in una mera operazione materiale.
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È indubbio che il momento rilevante ai fini della determinazione del contributo di costruzione non può che essere quello di rilascio del permesso di costruire.
Giova sottolineare che la giurisprudenza in materia ha anche di recente ribadito che l'obbligazione di corrispondere il contributo nasce nel momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo.

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6.2. Occorre quindi esaminare il primo motivo di gravame con cui il Comune contesta la contraddittorietà della statuizione del Tar laddove, ritenuto di aderire all'orientamento giurisprudenziale secondo cui il vizio di motivazione non è configurabile nelle controversie concernenti il quantum e l'an del contributo di costruzione, ha poi annullato l’atto per difetto di motivazione.
Il Collegio condivide l’impostazione ribadita dall’appellante, e avallata dallo stesso giudice di prime cure, secondo cui le controversie relative all'an e al quantum delle somme dovute a titolo di oblazione e di oneri concessori riguardano diritti soggettivi rispetto ai quali non è configurabile il vizio di difetto di motivazione nella considerazione che le operazioni di concreta quantificazione dei suddetti oneri si esauriscono in una mera operazione materiale.
Pur tuttavia, ciò non vale di per sé a porre in discussione la correttezza della statuizione del Tar laddove afferma che ai sensi dell'articolo 16 d.p.r. 380 del 2001 le determinazioni e l'ordine di pagamento dovrebbero essere effettuati nel permesso di costruire rispetto al quale la proroga è circostanza meramente eventuale per cui sarebbe stato indispensabile che il Comune avesse chiarito la ragione per la quale ha rinviato le suddette operazioni alla proroga del titolo edilizio.
A ben vedere, tale affermazione ha ad oggetto, non già la qualificazione giuridica della situazione sottesa alla richiesta di determinazione degli oneri di costruzione, ma la legittimità del provvedimento di proroga del permesso di costruire nel quale si determini e quantifichi per la prima volta l’obbligazione di pagamento relativa all’intervento assentito, determinazione che alla luce del dato testuale di cui al citato articolo 16 non pare potersi ammettere.
Ed invero, al comma 1 è stabilito che il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione; al comma 2 che la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire; al comma 3 che la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio, è corrisposta in corso d’opera.
È indubbio che il momento rilevante ai fini della determinazione del contributo di costruzione non può che essere quello di rilascio del permesso di costruire.
Giova sottolineare che la giurisprudenza in materia ha anche di recente ribadito che l'obbligazione di corrispondere il contributo nasce nel momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo (Cons. Stato, sez. IV, n. 3009/2014; id., sez. IV, n. 1475/2018) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 09.01.2020 n. 190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1.- Edilizia ed Urbanistica – Strumenti di pianificazione generale – caratteristiche.
   2.- Edilizia ed Urbanistica – strumenti urbanistici – adozione – onere motivazionale – carattere generale – va affermato.
   3.- Edilizia ed Urbanistica – strumenti urbanistici – singole aree – destinazione – onere motivazionale – contenuto.
   4.- Processo amministrativo – scelte pianificatorie – sindacabilità del G.A. – limiti.
   1. Il disegno urbanistico espresso da uno strumento di pianificazione generale, o da una sua variante costituisce estrinsecazione di potere pianificatorio connotato da ampia discrezionalità che rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti all’organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico; tali scelte non sono nemmeno condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua variante.
   2. L’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di strumenti urbanistici, anche sovracomunali, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che sorreggono le scelte effettuate, potendo la motivazione desumersi anche dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica e, più in generale, dagli atti del procedimento.
   3. In occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le decisioni dell’amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di ordine tecnico discrezionale– seguiti nell’impostazione del piano stesso.
   4. Le scelte di pianificazione urbanistica in quanto caratterizzate da ampia discrezionalità costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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 7. Per la soluzione del caso presente occorre ricordare l’insegnamento giurisprudenziale (recente ma, al tempo stesso, coerente con orientamenti in materia ormai consolidati) secondo il quale:
   - “il disegno urbanistico espresso da uno strumento di pianificazione generale, o da una sua variante costituisce estrinsecazione di potere pianificatorio connotato da ampia discrezionalità che rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti all’organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico; tali scelte non sono nemmeno condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua variante” (CdS, IV, 25.06.2019, n. 4343);
   - “le scelte di pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità e, in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le decisioni dell’amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di ordine tecnico discrezionale– seguiti nell’impostazione del piano stesso” (CdS, IV, 02.09.2019, n. 6050; II, 04.09.2019, n. 6086);
   - “l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di strumenti urbanistici, anche sovracomunali, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che sorreggono le scelte effettuate, potendo la motivazione desumersi anche dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica e, più in generale, dagli atti del procedimento” (CdS, IV, 02.09.2019, n. 6052) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.01.2020 n. 153 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPer consolidati principi giurisprudenziali, il dies a quo ai fini della decorrenza del termine di impugnazione dei titoli edilizi va individuato nel momento in cui il soggetto, che assume di esser leso dai menzionati titoli, ha acquisito con certezza piena conoscenza degli stessi.
E, proprio da ultimo, la quarta Sezione del Consiglio di Stato, nel richiamare tali principi sulla verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, ha in particolare chiarito quanto segue:
   a) ove si contesti l’an dell’edificazione, l’inizio dei lavori segna il dies a quo per la tempestiva proposizione del ricorso;
   b) ove si contesti invece il quomodo dell’edificazione, la piena conoscenza del provvedimento si intende ordinariamente acquisita al completamento dei lavori, salvo che non sia data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso.
In estrema sintesi il giudice di appello ha sancito -ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire da parte di terzi- che la percezione dell’effetto lesivo si atteggi diversamente a seconda che si contesti l’illegittimità del titolo per il solo fatto che esso sia stato rilasciato ovvero che se ne contesti il contenuto specifico.
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2.1.- Con una prima eccezione, il sig. -OMISSIS- ha sostenuto l’irricevibilità del ricorso per esser stato il gravame proposto soltanto il -OMISSIS- 2012, trascorsi ben oltre sessanta giorni dall’apposizione del cartello di cantiere esposto in data -OMISSIS-; cartello da cui sarebbe derivata la percezione dell’asserita portata lesiva dell’intervento.
L’eccezione non può trovare accoglimento.
Per consolidati principi giurisprudenziali, il dies a quo ai fini della decorrenza del termine di impugnazione dei titoli edilizi va individuato nel momento in cui il soggetto, che assume di esser leso dai menzionati titoli, ha acquisito con certezza piena conoscenza degli stessi (ex multis: C.d.S., IV, n. 3075 del 2018; Sez. IV, n. 5675 del 2017; Sez. IV, n. 4701 del 2016; Sez. IV, n. 1135 del 2016).
E, proprio da ultimo, la quarta Sezione del Consiglio di Stato, nel richiamare tali principi sulla verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, ha in particolare chiarito quanto segue:
   a) ove si contesti l’an dell’edificazione, l’inizio dei lavori segna il dies a quo per la tempestiva proposizione del ricorso;
   b) ove si contesti invece il quomodo dell’edificazione, la piena conoscenza del provvedimento si intende ordinariamente acquisita al completamento dei lavori, salvo che non sia data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso.
In estrema sintesi il giudice di appello ha sancito -ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire da parte di terzi- che la percezione dell’effetto lesivo si atteggi diversamente a seconda che si contesti l’illegittimità del titolo per il solo fatto che esso sia stato rilasciato ovvero che se ne contesti il contenuto specifico (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 08.01.2020 n. 18 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIContratto di avvalimento e teoria della cd. causa concreta.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento - Esperienze professionali pertinenti – Limiti.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Contratto tipico – Teoria della cd. causa concreta – Applicabilità.
   L'esercizio dell’avvalimento può essere limitato, in circostanze particolari, tenuto conto dell'oggetto dell'appalto in questione e delle finalità dello stesso; in particolare, ciò può avvenire quando le capacità di cui dispone un soggetto terzo, e che sono necessarie all'esecuzione di detto appalto, non siano trasmissibili al candidato o all'offerente, di modo che quest'ultimo può avvalersi di dette capacità solo se il soggetto terzo partecipa direttamente e personalmente all'esecuzione di tale appalto (1).
  
Il contratto di avvalimento che trova una sua compiuta definizione nell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016 deve ritenersi “tipico”; l’autonomia contrattuale è condizionata dagli obiettivi fissati dalla norma che le parti contrattuali devono perseguire all’atto della stipula del contratto di avvalimento; da ciò consegue che lo schema contrattuale definito dalla norma contenuta nell’art. 89, d.lgs. n. 50 del 2016 non può essere in alcun modo alterato; è necessario, infatti, che attraverso il contenuto specifico del contratto di avvalimento prescritto dal Codice dei contratti pubblici, si offra alla Stazione appaltante una garanzia di solidità del concorrente oltre che di corretta esecuzione dell’appalto ed in determinati casi, anche di un particolare standard di qualità dell’esecuzione dello stesso; ai fini della valutazione della causa in concreto, il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento.
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   (1) Corte giust. Comm. Ue 07.04.2016, C-324/14.
La tesi in oggetto è fatta propria dal più recente orientamento del Consiglio di Stato (sentenza n. 2019 del 2191); il giudice di appello, pronunciandosi in una fattispecie avente ad oggetto un appalto di servizio mensa, ha ritenuto anche la necessaria esperienza pregressa elemento prescritto “per eseguire l’appalto con un adeguato standard di qualità” (secondo la lettera dell’art. 83, comma 6, del Codice dei Contratti pubblici).
Inoltre ha rimarcato che “Né la nozione di “esperienze professionali pertinenti” può essere riferibile solo a prestazioni che richiedono l’impiego di capacità non trasmissibili, come avviene negli appalti aventi ad oggetto servizi intellettuali o prestazioni infungibili: in disparte la considerazione per cui anche il servizio oggetto dell’appalto in questione richiede competenze professionali specialistiche e l’impiego di figure professionali qualificate, la lettera della norma e soprattutto la ratio dell’istituto non autorizzano affatto una siffatta opzione ermeneutica.
Se, infatti, gli operatori economici possono soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale necessari a partecipare ad una procedura di gara “avvalendosi delle capacità di altri soggetti”, ovvero mediante il trasferimento delle risorse e dei mezzi di cui l’ausiliata sia carente, l’ipotesi contemplata dal secondo capoverso dell’articolo 89 contiene una disciplina più stringente e rigorosa, stabilendo che per i criteri relativi alle indicazioni dei titoli di studio e professionali o esperienze professionali pertinenti “tuttavia” (i.e. in deroga al regime ordinario) gli operatori possano avvalersi della capacità di altri soggetti “solo” se (i.e. a condizione che) questi ultimi eseguano direttamente i lavori o i servizi per cui tali capacità sono richiesti (senza operare alcuna distinzione in base alla natura intellettuale o materiale del servizio da espletarsi)
".
Ha rilevato nella fattispecie il Giudice di appello che: ”con il contratto di avvalimento in esame si è, infatti, convenuto tra le parti l’obbligo dell’ausiliaria di mettere a disposizione, in relazione all’esecuzione dell’appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, e precisamente:
   a) i propri manuali tecnico/operativi, le proprie procedure operative, istruzioni operative, schede di registrazione- report inerenti l’organizzazione e conduzione di servizi di ristorazione, i propri protocolli di formazione e addestramento del personale, nonché il know how maturato in tali settori mediante la consegna di tutta la predetta documentazione sopracitata e la previsione di giornate di affiancamento;
   b) l’interfacciarsi di figure professionali dell’ausiliaria (il Responsabile della produzione, il Responsabile degli acquisti, il Responsabile dell’amministrazione del personale e delle relazioni sindacali) con le corrispondenti figure professionali già presenti all’interno dell’organizzazione dell’ausiliata, al fine di trasferire il proprio know how mediante la previsione di giornate di affiancamento
.”
Conclusivamente, nel caso di specie, il contratto di avvalimento aveva ad oggetto il prestito del requisito di “esperienza pregressa”, dal che discendeva la necessità dell’impegno dell’ausiliaria ad assumere un ruolo esecutivo nello svolgimento del servizio, e non solo a trasmettere all’ausiliata il Know how e la struttura organizzativa dall’esterno
.”
   (2) Quanto alla teoria della causa concreta della causa in concreto e la giurisprudenza della Terza sezione civile della Corte di Cassazione.
Osserva in proposito il Collegio che va fatto ricorso alla teorica della causa in concreto del contratto, elaborata dalla Terza sezione civile della corte di Cassazione, a partire dalla sentenza del 2006 n. 10490, che ha inaugurato un nuovo corso nella valutazione dell’elemento causale del contratto.
Da tempo la giurisprudenza della Corte di Cassazione ed in particolare la Terza sezione civile è giunta ad un progressivo abbandono della tradizionale teorica della causa come funzione economico sociale del contratto, ovvero cosiddetta causa in senso astratto, per approdare ad un’interpretazione della causa come funzione economico individuale, superando una visione di carattere puramente oggettivistico.
Si è infatti rilevato che nella prospettiva dello Stato autoritario in cui vide luce il codice del 1942, la concezione pubblicistica della causa come funzione economico sociale, inserita in un’ottica tesa a controllare anche le relazioni contrattuali tra privati, identificando causa e tipo ,escludeva la possibilità di esistenza di un contratto tipico con causa illecita.
Una siffatta impostazione di stampo estremo oggettivistico ha comportato critiche sin dalla dottrina che si è sviluppata nel clima post costituzionale, ove si proponeva una maggiore attenzione alla funzione concreta della singola e specifica negoziazione.
Tuttavia, tranne alcune isolate pronunce in giurisprudenza, la consapevole e matura adesione alla teoria della causa concreta è stata inaugurata solo dopo molto tempo, e segnatamente dalla storica sentenza della Cassazione Terza sezione civile n. 10490 del 2006, che ha ammesso la possibilità di nullità di un contratto tipico per mancanza di causa concreta. In tal sede si è affermata la nullità per difetto di causa del contratto tipico di consulenza delineato dall’articolo 2222 c.c., stipulato da un soggetto in favore di una società, attività a cui tuttavia lo stesso era tenuto in adempimento dei propri doveri di amministratore della stessa, e per la quale percepiva il relativo compenso.
La Suprema Corte ha dunque rilevato che di fatto in concreto lo scambio di quella attività di consulenza a titolo oneroso, essendovi il soggetto già tenuto ad altro titolo, era priva di causa, facendo leva proprio sulla causa intesa come “fattispecie causale concreta“, che discende da una “serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio“.
Secondo la teorica fatta propria dalla corte di Cassazione la causa in concreto è “sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (aldilà del modello, benché tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragioni concrete) della dinamica contrattuale, si badi e non anche della volontà delle parti. Causa dunque ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga al fine di cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso con i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale“.
Tali coordinate ermeneutiche non comportano un ritorno alla concezione soggettiva della causa, per la evidente la necessità di sottolineare l’interesse sociale che il singolo contratto intende perseguire, segnatamente l’insieme degli interessi rilevanti nel complesso dell’operazione economica, con il ripudio della causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, facendosi invece valere la stessa quale elemento di verifica degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare.
A riprendere significativamente tale concetto la S.C. è intervenuta con una serie di pronunce merito alla responsabilità da vacanza rovinata (Cassazione terza sezione civile 24.07.2007 n. 16315), ove si è data piena cittadinanza alla finalità nel contratto dello scopo concreto stabilendo che “la finalità turistica o “scopo di piacere “....non è un motivo irrilevante ma si sostanza nell’interesse che lo stesso è funzionalmente rivolto a soddisfare, connotandone la causa concreta e determinando perciò l’essenzialità di tutte le attività e dei servizi strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero“ (fattispecie in cui è stata dichiarata la nullità di un contratto di cd. pacchetto turistico per due settimane all’estero in presenza di un’epidemia in atto nel luogo di destinazione; in tal senso altresì Cassazione sezione terza 20.12.2007 n. 26958).
Ancora successivamente la Terza sezione civile (sentenza 20.03.2012 n. 4372) individua come essenziale l’offerta di tutte le prestazioni contenute nel pacchetto di viaggio (nella specie esaminando la possibilità di effettuare immersioni subacquee rivelatasi impraticabile durante il periodo del soggiorno del turista in quel luogo), così avendo modo di ribadire che la causa non può più essere intesa in senso astratto, svincolata dalla singola fattispecie contrattuale e si identifica nella funzione economico individuale del singolo specifico negozio.
In tal modo si è progressivamente abbandonata la teoria della causa come funzione economico sociale del contratto, con notevoli riflessi anche sui principi costituzionali che danno rilievo all’interesse concretamente perseguito dalle parti ovvero alla cosiddetta ragione pratica dell’affare, calandosi nell’attuale contesto socio economico e nella realtà delle contrattazioni tra privati, spesso tale da coinvolgere anche più generali principi di buona fede ed affidamento.
La Suprema Corte ha successivamente accolto la nozione di causa concreta anche al di là dei contratti di viaggio turistico (cfr. Cass. n. 24769 del 2008 che ha affermato la nullità di contratto di locazione di un fondo sottoposto a vincolo di destinazione ad uso boschivo in quanto ne prevedeva l’utilizzazione in spregio al vincolo stesso e quindi un contrasto della causa concreta del contratto con le norme di legge).
Egualmente la pronuncia della Cassazione Sezioni unite n. 26972 del 2008, intervenendo sul significativo aspetto della categoria del danno esistenziale, ha affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile quando il contratto sia rivolto alla tutela di interessi non patrimoniali, la cui individuazione deve essere condotta accertando la causa concreta del negozio nel senso chiarito dalla storica Cassazione sezione terza n. 10490 del 2006.
Ancora più recentemente in tema di mutuo di scopo (Cassazione sezione I ordinanza n. 26770 del 2019), si è rilevato che l’utilizzo delle somme erogate per finalità diverse da quelle previste nel contratto (nella specie per ripianamento di pregressa esposizione anziché per l’acquisto di un immobile) comporti la deviazione della causa concreta rispetto a quella specificamente convenuta con conseguente nullità del contratto. La finalità cui l’attribuzione delle somme era preordinata entra dunque nella causa concreta del contratto, per cui l’oggettiva deviazione dallo scopo determina la carenza di causa concreta del contratto, nonostante sia stato adoperato un contratto tipico (in termini altresì Sez. 1, n. 15929/2018).
Il principio è stato poi affermato dalle Sez. U, n. 22437/2018, nel contratto di assicurazione per la responsabilità civile con clausole “claims made”. Tale decisione -dopo aver premesso che il modello “claims made” si colloca ormai nell’area della tipicità legale, rifluendo nell’alveo proprio dell’esercizio dell’attività assicurativa- ha ritenuto tuttavia necessario che la clausola “on claims made basis”, con la quale il pagamento dell’indennizzo è subordinato al fatto che il sinistro venga denunciato nel periodo di efficacia del contratto, «rispetti, anzitutto, i “limiti imposti dalla legge”, secondo quella che suole definirsi “causa in concreto” del negozio».
In tal senso, hanno precisato le Sezioni Unite, l’indagine è volta ad accertare l’adeguatezza del contratto agli interessi concreti delle parti. Sul punto la sentenza osserva che l’analisi del sinallagma del contratto assicurativo costituisce un adeguato strumento per verificare se ne sia stata realizzata la funzione pratica di assicurazione dallo specifico pregiudizio, e ciò al fine non di sindacare l’equilibrio economico delle prestazioni (profilo rimesso esclusivamente all’autonomia contrattuale), ma di indagare se lo scopo pratico del negozio presenti un arbitrario squilibrio tra rischio assicurato e premio, poiché nel contratto di assicurazioni contro i danni la corrispettività si fonda su una relazione oggettiva e coerente fra rischio assicurato e premio.
Particolarmente significativa, per le implicazioni sotto certi aspetti parametrabili al contratto di avvalimento, in quanto diretto a produrre peculiari effetti anche verso terzi, si presenta la recente pronuncia in tema di concordato preventivo (Cassazione civ. sezione I, 08.02.2019 n. 3863) che indica la causa concreta come l’obiettivo specifico perseguito dal procedimento, priva di un contenuto fisso e predeterminabile e dipendente essenzialmente dal tipo di proposta formulata.
In tal sede la S.C. ha rilevato come sia essenziale verificare se il contratto sia idoneo ad espletare una funzione commisurata agli interessi che le parti perseguono; tale controllo, operato dal giudice sul regolamento degli interessi voluto dalle parti, ha essenzialmente ad oggetto il rispetto, da parte dei contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale, del principio di conformità all’utilità sociale dell’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost..
La valutazione di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c., in altri termini, non si esaurisce in una verifica di liceità della causa, ma investe il risultato perseguito con il contratto, del quale deve accertare la conformità ai principi di solidarietà e parità che l’ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati (cfr., anche Cassazione civile sezione unite 23.01.2000 n. 13521, che ha affermato a fronte della proposta di concordato preventivo, come il controllo del giudice si spinge alla verifica dell’effettiva realizzabilità della causa concreta del procedimento, dipendente dal tipo di proposta formulata, finalizzata da un lato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e dall’altro all’assicurazione di un soddisfacimento dei creditori, nonché Cassazione civile 18.08.2011 n. 17360, 12.11.2009 n. 22941). L’inserimento dunque nel giudizio di fattibilità del concordato preventivo della categoria della causa in concreto comporta la mancanza di tutela prestata dall’ordinamento al negozio stipulato qualora se ne riscontri la mancanza.
Conclusivamente, la Corte di Cassazione, attraverso un filo ininterrotto di pronunce, afferma come la causa in concreto può essere assente in contratti formalmente riconducibili a figure tipiche, ma che non sono in grado di realizzare gli interessi previsti dal tipo legale (
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 51 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa veranda realizzata su un terrazzo e/o su un balcone facenti parte di un immobile principale, essendo materialmente incorporata all’immobile principale di cui costituisce parte integrante e zona di ampliamento volumetrico, non può essere ricondotta alla nozione di pertinenza urbanisticamente rilevante, la quale, invece, postula indefettibilmente l’individualità fisica e strutturale del manufatto destinato a servizio od ornamento di quello principale, con conseguente assoggettabilità dell’intervento al regime del permesso di costruire ed al corrispondente sistema sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Invero, è principio consolidato che l’opera pertinenziale è collegata alla costruzione preesistente in termini non di integrazione ma di asservimento, per cui deve renderne più agevole e funzionale l’uso, ma non deve divenire parte essenziale della costruzione stessa, come avvenuto nel caso di specie.
Ad ogni modo, il Collegio ritiene che il manufatto in questione, in sé considerato ed indipendentemente dalla denegata qualificazione di pertinenza, sia stato correttamente inquadrato quale nuova costruzione soggetta al trattamento sanzionatorio contemplato dal succitato art. 31, poiché la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre nel caso di specie è stata aggiunta alla precedente unità abitativa una nuova struttura verandata di due vani, adibita a cucina e servizio igienico, con conseguente creazione non solo di un non trascurabile aumento di volume ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli dell’edificio originario.
Invero, pur consentendo l’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo preesistente.
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5. La veranda realizzata su un terrazzo e/o su un balcone facenti parte di un immobile principale, essendo materialmente incorporata all’immobile principale di cui costituisce parte integrante e zona di ampliamento volumetrico, non può essere ricondotta alla nozione di pertinenza urbanisticamente rilevante, la quale, invece, postula indefettibilmente l’individualità fisica e strutturale del manufatto destinato a servizio od ornamento di quello principale, con conseguente assoggettabilità dell’intervento al regime del permesso di costruire ed al corrispondente sistema sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Invero, è principio consolidato che l’opera pertinenziale è collegata alla costruzione preesistente in termini non di integrazione ma di asservimento, per cui deve renderne più agevole e funzionale l’uso, ma non deve divenire parte essenziale della costruzione stessa, come avvenuto nel caso di specie (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.05.2013 n. 2678; Cass. Pen., Sez. III, 08.04.2015 n. 20544; TAR Liguria, Sez. I, 13.02.2014 n. 269; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 07.02.2014 n. 883; TAR Trentino Alto Adige Trento, Sez. I, 11.02.2012 n. 264; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 16.12.2011 n. 5912).
5.1 Ad ogni modo, il Collegio ritiene che il manufatto in questione, in sé considerato ed indipendentemente dalla denegata qualificazione di pertinenza, sia stato correttamente inquadrato quale nuova costruzione soggetta al trattamento sanzionatorio contemplato dal succitato art. 31, poiché la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre nel caso di specie è stata aggiunta alla precedente unità abitativa una nuova struttura verandata di due vani, adibita a cucina e servizio igienico, con conseguente creazione non solo di un non trascurabile aumento di volume ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli dell’edificio originario.
Invero, pur consentendo l’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo preesistente (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. II, 09.01.2017 n. 189; TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, 25.02.2010 n. 1613) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire: tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri.
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia, appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua.

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8. Rimangono da esaminare le ulteriori censure, formulate nei motivi aggiunti, con cui il ricorrente mira ad infirmare l’ordinanza acquisitiva nella parte in cui ha disposto l’acquisizione gratuita di quota parte dell’area del cortile di pertinenza del fabbricato.
Con una prima doglianza, dedotta in via principale, parte ricorrente denuncia che tale porzione di area è stata indebitamente acquisita pur appartenendo in comunione ai comproprietari del fabbricato, con conseguente violazione del principio di tutela della proprietà privata di cui all’art. 42 della Costituzione e dello stesso art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che impediscono che la misura repressiva in questione possa incidere su beni appartenenti ad altri soggetti totalmente estranei all’abuso.
La censura è fondata e merita accoglimento.
Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire: tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri (cfr. Cass. Civ. Sez. III, 04.06.2013 n. 14022; TAR Lazio Roma, Sez. II, 08.10.2018 n. 9799).
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia, appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua.
Restano assorbite le rimanenti censure qui non esaminate, articolate dal ricorrente in via meramente subordinata (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Edilizia ed Urbanistica - trasformazione tendenzialmente permanente e ontologicamente modificativa dello stato fisico dei luoghi - nuova costruzione - è tale.
   2. Edilizia ed Urbanistica - nuova opera - trasformazione urbanistica del territorio - opera in itinere - è integrata.
   1. La nozione di nuova costruzione è ravvisabile in presenza di opere che attuino trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio, la quale consiste in un dato oggettivo che ha riguardo alla trasformazione tendenzialmente permanente e ontologicamente modificativa dello stato fisico dei luoghi, prescindendo dalla natura e tipologia delle opere mediante le quali tale modificazione sia stata attuata e, dunque, addirittura anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati in plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore.
   2. La trasformazione urbanistica del territorio si avvera non solo a fronte di un’opera nuova ed autonoma ma anche allorquando l’opera si presenta in itinere, quale che sia lo stato del suo avanzamento e la percentuale del suo completamento, per modo che, al fine di ritenere integrata la trasformazione urbanistica del territorio, a nulla rileva che, nella specie, il manufatto si presenta incompleto, solo con i quattro muri perimetrali senza solaio di copertura e realizzato con pilastri in cemento armato e blocchi portanti in lapilcemento
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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  Ciò posto, nel merito, con la prima censura si deduce la violazione dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001, oltre all’eccesso di potere (per presupposti erronei e contraddittorietà), risultando l’ordinanza impugnata fondata su presupposti erronei, perché:
   - nell'atto impugnato si rileva l'assenza di permesso a costruire in merito a manufatto di "circa mq. 137,00 x h mt. 3,00" realizzato sull'area di proprietà dei ricorrenti, del quale se ne ingiunge la demolizione ai sensi dell’art. 31 (L) del DPR 380/01 (“Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”) senza tener conto che il provvedimento repressivo di cui all'art. 31 è applicabile solo relativamente alla realizzazione di opere nuove ed autonome, eseguite in assenza di permesso o in totale difformità, ovvero nei confronti di interventi sul costruito di entità tale da superare i limiti della "trasformazione" delle strutture preesistenti;
   - nella specie la P.A. ha, invero, disposto la demolizione, attivando i propri poteri repressivi ex art. 31 D.P.R. 380/2001, in relazione ad opere -che non possono considerarsi nuove e autonome- in quanto non tali da incidere sul tessuto urbanistico preesistente, in proposito, la giurisprudenza avendo rilevato che, a norma degli artt. 31 e 32. t.u. delle disposizioni in materia edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2011 n. 380, gli interventi edilizi in totale difformità dalla concessione, sanzionabili con l'ordine di demolizione, sono quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile;
   - nel complesso, dunque, gli interventi realizzati non costituiscono, come assume una "costruzione ex novo", in quanto corrispondenti esclusivamente a muri perimetrali, peraltro in assenza di solaio di copertura, rilevandosi, con la conseguenza che, nella fattispecie, non possa applicarsi l'art. 31 del DPR 380/2001, richiamato nell'atto oggetto di gravame, avendo la P.A. attivato i propri poteri repressivi ex art 31 DPR 380/2001, in relazione ad opere che mancano di assoluta autonomia funzionale rispetto alla struttura in cui sono inserite;
   - secondo la richiamata giurisprudenza, la difformità totale dalla concessione è configurabile rispetto a quella approvata soltanto quando la diversità concerne l'intero edificio e sia accompagnato da trasformazioni tipologiche e plano-volumetriche di tale entità da costituire stravolgimento complessivo all'originario progetto non più riferibile all'immobile realizzato; inoltre, al fine di ritenere configurata l'ipotesi di difformità totale di un manufatto dal permesso di costruire, nell'ipotesi di realizzazione di volumi oltre í limiti indicati nel progetto, e per la quale i volumi realizzati devono costituire un organismo edilizio o una parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile;
   - ne consegue che gli atti impugnati risultano illegittimi, in quanto non è in alcun modo applicabile il provvedimento repressivo adottato ex art. 31 D.P.R. 380/2001, sproporzionato, inoltre, in eccesso rispetto all'entità del presunto ed indimostrato abuso.
Osserva il Collegio che parte ricorrente prospetta un’erronea lettura ed interpretazione dell’art. 31, d.P.R. 380/2001 sostenendo che le opere realizzate in assenza di permesso di costruire sanzionate con la demolizione, ai sensi della predetta disposizione sono unicamente le opere nuove e funzionalmente autonome, le uniche suscettibili di apportare carico urbanistico, mentre, nella specie, il Comune avrebbe attivato i propri poteri repressivi ex art. 31 citato, in relazione ad interventi che non costituiscono, come assume una "costruzione ex novo", in quanto corrispondenti esclusivamente a muri perimetrali, peraltro in assenza di solaio di copertura, come tali, opere che mancano di assoluta autonomia funzionale rispetto alla struttura in cui sono inserite.
In contrario va, però, rilevato che per gli interventi di nuova costruzione ai sensi del precedente art. 3, co. 1, lett. e), per i quali il successivo articolo 10 richiede il rilascio del permesso di costruire devono intendersi non solo quelli che creano (dal nulla) un’opera (volumi e superfici) prima del tutto inesistente, ma anche quelli che, allo stato, sono in via di realizzazione e potranno pervenire al completamento dell’opera soltanto attraverso l’eventuale e futuro completamento di elementi strutturali preesistenti, ovvero il riempimento di spazi vuoti preesistenti.
Invero il citato articolo 3, co. 1, lett. e), offre una nozione molto ampia degli ”interventi di nuova costruzione” definiti come quelli che attuano una “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”, tra i quali, comunque, sono ricompresi, alla lettera e.1); “la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6)”.
Secondo la giurisprudenza di questa Sezione: <<La nozione di nuova costruzione è ravvisabile in presenza di opere che attuino trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio, la quale consiste in un dato oggettivo che ha riguardo alla trasformazione tendenzialmente permanente e ontologicamente modificativa dello stato fisico dei luoghi, prescindendo dalla natura e tipologia delle opere mediante le quali tale modificazione sia stata attuata e, dunque, addirittura anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati in plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore>> (TAR Campania, sez. III, 20.02.2018, n. 1093).
Ne deriva che la trasformazione urbanistica del territorio si avvera non solo a fronte di un’opera nuova ed autonoma ma anche allorquando l’opera si presenta in itinere, quale che sia lo stato del suo avanzamento e la percentuale del suo completamento, per modo che, al fine di ritenere integrata la “trasformazione urbanistica del territorio”, a nulla rileva che, nella specie, il manufatto “si presenta incompleto, solo con i quattro muri perimetrali senza solaio di copertura e realizzato con pilastri in cemento armato e blocchi portanti in lapilcemento”.
Inoltre, l’art. 31, nel prevedere al comma 2 la sanzione demolitoria in relazione agli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità ovvero con variazioni essenziali, individua tre distinte di fattispecie illecite tra gli “interventi di nuova costruzione” ex art. 31, co. 1, lett. e), d.P.R. 380/2001, tutte accomunate dalla medesima sanzione.
Nella fattispecie -contrariamente a quanto dedotto- in assenza di un neanche ipotetico permesso di costruire, non si tratta, né di intervento in totale difformità, (dal titolo), né con variazioni, ma realizzato puramente e semplicemente in assenza di titolo che, nel caso di specie è individuare nel permesso di costruire richiesto dall’art. 10, d.P.R. 380/2001 in relazione ad “un manufatto di rilevante dimensione" (“circa 137,00 mq con altezza di mt 3,00”.
Ne consegue che il richiamo a precedenti giurisprudenziali, a più riprese, operato dal ricorrente a fattispecie di edificazione in difformità del titolo abilitativo appare del tutto inconferente atteso che nel caso di specie non v’è alcun titolo abilitativo edilizio (né pregresso, né a sanatoria) preesistente di riferimento cui rapportare la presunta, dedotta difformità (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 43 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: La destinazione a verde agricolo di una zona del territorio comunale, contenuta in uno strumento urbanistico, impedisce l'insediamento abitativo residenziale, ma non preclude l'istallazione di opere pubbliche, quale un impianto idroelettrico.
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Con la seconda censura si deduce la violazione dell’art. 3, L. 241/1990 per difetto di motivazione, oltre all’erroneità dei presupposti e la manifesta illogicità, risultando l’ordinanza emessa fondata su ulteriori presupposti erronei, perché:
   - il Comune di Somma Vesuviana assume lamenta altresì che l'abuso in questione ricade in zona "agricola" rispetto al PRG vigente, laddove -alla stregua della giurisprudenza richiamata- una tale destinazione a verde agricolo di un suolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto ed immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell'ordinato governo del territorio, quale la necessità di mantenere un equilibrato rapporto tra le aree libere ed edificate o industriali, con la conseguenza che la zonizzazione agricola assume un carattere residuale, salvo l'espressa prescrizione dello strumento urbanistico all'utilizzo produttivo agricolo in via esclusiva;
   - il Comune di Somma Vesuviana, attraverso l'atto gravato, non ha tenuto conto della sentenza 117/2015 con cui la Corte Costituzionale ha sancito la legittimità della Legge Regionale 16/2014, alla stregua della quale, nelle zone sottoposte a vincoli che non comportano l'inedificabilità assoluta, il titolo edilizio in sanatoria possa essere rilasciato ed, allo stesso tempo, ha previsto gli interventi per l'adeguamento antisismico e l'efficientamento energetico degli immobili nella zona rossa del Vesuvio;
   - sul vincolo di inedificabilità la Consulta ribadisce la validità della ratio espressa dall'art. 33 della L. 47/1985, ovvero non è consentita alcuna sanabilità soltanto se vincolo inedificabile a carattere assoluto e non anche nella diversa ipotesi di un vincolo di inedificabilità relativa, ossia di un vincolo superabile mediante un giudizio a posteriori di compatibilità paesaggistica, per modo che può agevolmente sostenersi la compatibilità dell'intervento in oggetto con legge regionale 16/2004;
   - invero, il condono edilizio previsto dall'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 (cono. con modd. in l. 326/2003) è applicabile agli interventi edilizi anche se eseguiti in area vincolata in assenza dì titolo abitativo e di autorizzazione paesaggistica, purché si tratti di interventi di minore rilevanza previo parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo;
   - dunque, in alcune zone ritenute a rischio Vesuvio potranno inoltre essere praticati incrementi volumetrici, purché gli interventi effettuati nella cosiddetta "zona rossa" siano finalizzati al risparmio energetico degli edifici o alla stabilità antisismica, come nel caso di specie.
La censura -che può scomporsi in due profili- non è fondata.
Si premette che l’impugnato ordine di demolizione è stato emanato dopo aver accertato che “l’abuso ricade in zona “E” agricola, in area soggetta ai seguenti vincoli. Decreto L. vo n. 42/2004, con dichiarazione di interesse pubblico con D.M. 26.10.1961, emanato ai sensi dell’art. 2 della legge 1497 del 1939, ai vincoli di cui alla L.R. n. 21/2003 (norme urbanistiche per i comuni rientranti nelle zone a rischio vulcanico dell’area vesuviana) e che l’intero territorio è stato dichiarato sismico (S9)”.
Relativamente al primo dei profili considerati i ricorrenti censurano il presupposto che l’abuso in questione ricade in zona “agricola” rispetto al P.R.G. vigente, sostenendo che la destinazione a verde agricolo di un suolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto ed immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di mantenere un equilibrato rapporto tra le aree libere ed edificate o industriali.
La destinazione agricola assume un carattere residuale, salvo l’espressa prescrizione dello strumento urbanistico all’utilizzo produttivo agricolo in via esclusiva.
Ne consegue indimostrata la compatibilità dell’intervento con la strumentazione urbanistica vigente.
In contrario si osserva che, anche a prescindere dai vincoli derivanti della inesistenza dell’opera abusiva nella c.d. zona rossa che precludono già a priori ogni possibilità di edificazione a scopo abitativo, la destinazione a verde agricola contenuta nello strumento urbanistico vale proprio a sventare la possibilità di utilizzazione dell’area a scopo di edilizia residenziale, mentre la compatibilità con altre possibilità di utilizzazione della zona agricola sarebbe da esaminare caso per caso.
Si aderisce, pertanto al consolidato e risalente indirizzo giurisprudenziale per i quali: <<La destinazione a verde agricolo di una zona del territorio comunale, contenuta in uno strumento urbanistico, impedisce l'insediamento abitativo residenziale, ma non preclude l'istallazione di opere pubbliche, quale un impianto idroelettrico>> (ex multis: Consiglio di Stato sez. IV, 27/09/1989, n. 642) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 43 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza, i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un permesso di costruire.
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Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Secondo la giurisprudenza: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa ... non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>>.
Inoltre, il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione.
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Per costante giurisprudenza, i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali.
Pertanto, ai fini dell’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che consentono l’individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
In proposito, secondo condivisa giurisprudenza, l'esercizio del potere repressivo delle opere edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio mediante l'applicazione della misura ripristinatoria può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso, accertato con atti facenti fede fino a querela di falso e dalla quale risulta la descrizione dell’abuso, esplicitante in dettaglio la natura e consistenza delle opere abusive riscontrate, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
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Il secondo profilo di censura è inammissibile e, comunque, infondato.
Sotto tale profilo si osserva che parte ricorrente articola la censura sull’implicito presupposto che il permesso di costruire la cui mancanza (o, secondo l’erronea prospettazione dei ricorrenti la difformità dallo stesso) viene contestata dal Comune, che, in base a tale presupposto ritiene di dover irrogare la sanzione demolitoria prevista dall’art. 31 del d.P.R. 380/2001 è non soltanto quello consueto ed ordinario che viene richiesto prima della realizzazione dell’intervento, ma anche quello che, dopo la realizzazione di quest’ultimo, viene richiesto a sanatoria avvalendosi, in ogni caso a certe condizioni ed entro limiti ben precisi, del primo (L. 47/1985) e del secondo (L. 724/1994) condono, al fine di recuperare alla legalità l’opera abusiva.
Tuttavia, nel caso di specie, non consta che sia stata presentata da parte ricorrente alcuna istanza del tipo su indicato, per modo che ogni affermazione, al riguardo, non potrà che risultare generica, ipotetica ed aleatoria.
D’altronde, contrariamente a quanto asserito dai ricorrenti, il Comune, nell’ordinanza impugnata non oppone l’insuscettibilità di sanatoria delle opere edilizia ad uso residenziale realizzate nella c.d. zona rossa, limitandosi unicamente ad individuare e descrivere i vincoli afferenti a siffatta zona e, secondo la giurisprudenza, i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un permesso di costruire (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 22/10/2015, n. 4968).
...
Con la terza censura si deduce la violazione degli artt. 7 e ss. L. 241/1990, attesa la violazione dei principi del giusto procedimento di legge, per non essere stati gli atti impugnati preceduti dalla doverosa comunicazione di avvio del procedimento ai destinatari dello stesso onde garantire la loro partecipazione allo stesso, in ragione non solo delle esigenze difensive proprie del giusto procedimento, ma anche per garantire, in funzione collaborativa, la massima trasparenza ed efficienza nell’azione dei pubblici poteri.
Riguardo alla lamentata omessa comunicazione dell’avviso del procedimento culminato con l’impugnata ordinanza del comune di Somma Vesuviana, l’orientamento giurisprudenziale in argomento è pressoché costante e consolidato, rilevandosi che: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233; TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); secondo la giurisprudenza: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383)
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione (cfr. C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737); in ogni caso, alla stregua di quanto si è andato esponendo, il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, con la conseguente irrilevanza dei vizi di procedura rilevato da parte ricorrente, ai sensi dell’art. 21-octies della L. n. 241 del 1990.
Con la quarta censura si deduce la violazione dell’art. 3, L. 241/1990, nonché l’illogicità manifesta, dovendo i procedimenti amministrativi, ai sensi del rubricato art 3 essere idonei a perseguire la miglior realizzazione dell'interesse pubblico nel rispetto dei diritti e degli interessi legittimi dei soggetti coinvolti nell'attività amministrativa e l'obbligo di motivazione può ritenersi adeguatamente assolto quando la stessa emerga agevolmente dalla valutazione complessiva dell'atto.
La censura non è fondata.
Riguardo al lamentato deficit motivazionale da cui l’ordinanza impugnata sarebbe affetta, per costante giurisprudenza, anche di questa Sezione, dalla quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali. Pertanto, ai fini dell’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che consentono l’individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 22/08/2016, n. 4088).
In proposito, secondo condivisa giurisprudenza e contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, l'esercizio del potere repressivo delle opere edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio mediante l'applicazione della misura ripristinatoria può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso (Cfr. TAR Napoli, (Campania), sez. VI, 03/08/2016, n. 4017), accertato con atti facenti fede fino a querela di falso e dalla quale risulta la descrizione dell’abuso, esplicitante in dettaglio la natura e consistenza delle opere abusive riscontrate, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria (Cfr. TAR Napoli, (Campania), sez. VI, 03/08/2016, n. 4017 e C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
Infine, del tutto inconferente si presenta il riferimento alla natura di “provvedimento contingibile”, ravvisato nell’impugnata ordinanza, attesa che questa è stata emanata nell’esercizio degli ordinari poteri di vigilanza e controllo, spettanti, anche in funzione della repressione degli eventuali abusi commessi sul proprio territorio, spettanti all’Ente comunale, quale ordinaria Autorità urbanistica
In definitiva, il ricorso è infondato e va, quindi, respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 43 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire.
In giurisprudenza si ritiene che <<Il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire>>.
Anche la Cassazione penale ha stabilito che per il mutamento di destinazione d'uso da cantina ad abitazione è necessario il permesso di costruire: <<In tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea. (Fattispecie relativa a sequestro preventivo di locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione, con conseguente passaggio dalla categoria d'uso non residenziale alla diversa categoria residenziale>>.
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La censura è complessivamente infondata.
Premette il Collegio che le due contestazioni mosse con l’impugnata ordinanza, sì come inerenti alle opere interne al fabbricato di proprietà dei ricorrenti, destinato a loro residenza - unitamente ai corrispondenti profili di censura, vanno lette ed esaminate congiuntamente.
In particolare con il rilievo n. 1 si contesta la “trasformazione dell’intero piano terra da cantinato a residenziale”, mentre con quello n. 2 “il frazionamento dell’unità abitativa posta al piano primo, in n. 3 unità residenziali”.
Parte ricorrente deduce che entrambi gli interventi non necessitavano del previo rilascio del permesso di costruire, ma di una segnalazione certificata di attività la cui mancanza è sanzionabile (non con la sanzione demolitoria ex art. 31, d.P.R. 380/2001, ma) con la mera sanzione pecuniaria.
A supportare la loro tesi sostengono che “la destinazione prevalente del fabbricato di proprietà dei ricorrenti, è quella residenziale, ovvero la destinazione sub a) del comma 1 dell’art. 23-ter d.P.R. 380/2001", atteso che “il fabbricato in questione si compone di un piano seminterrato e di un piano rialzato ed i ricorrente hanno provveduto a destinare a residenza anche il piano seminterrato”.
Ma tale presupposto -quanto meno con specifico riferimento alle unità immobiliari oggetto di contestazione- non è affatto pacifico tra le parti, né dimostrato dai ricorrenti.
Invero, quanto al rilievo n. 1 inerente alla “trasformazione dell’intero piano terra”, ciò che si contesta è proprio il mutamento di destinazione fra categorie funzionalmente autonome e non omogenee (“da cantinato a residenziale”), mentre il richiamo alla “categoria prevalente” può valere unicamente con riferimento ad una variazione che si mantenga nell’ambito della medesima categoria urbanistica.
In giurisprudenza si ritiene che <<Il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire>> (TAR Genova, (Liguria) sez. I, 26/07/2017, n. 682).
Anche la Cassazione penale ha stabilito che per il mutamento di destinazione d'uso da cantina ad abitazione è necessario il permesso di costruire: <<In tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea. (Fattispecie relativa a sequestro preventivo di locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione, con conseguente passaggio dalla categoria d'uso non residenziale alla diversa categoria residenziale>> (Cassazione penale sez. III, 05/04/2016, n. 26455).
Per quanto attiene alla contestazione di cui al n. 2 (“frazionamento dell’unità abitativa posta al piano prima, in n. 3 unità residenziali”), per la quale i ricorrenti riferiscono di un <<frazionamento del piano rialzato “già destinato a residenza” in tre unità residenziali>>, va rilevato quanto segue.
Lo stesso provvedimento impugnato dà atto del pregresso uso abitativo del piano rialzato, come da permesso di costruire, per cui è fondato il richiamo alla nuova formulazione dell’articolo 3, lettera b), del D.P.R. 380/2001, come integrato con le aggiunte di cui al d.l. 12.09.2014, convertito in L. 11.11.2014 n. 164 -dal cui contenuto testuale si evince che è stata ampliata la nozione di manutenzione straordinaria, comprendendovi tutti quegli interventi di conservazione dell'edilizia esistente, ivi compresi anche quegli interventi che portano all'accorpamento o al frazionamento interni alle unità immobiliari- presuppone che alle operazioni da ultimo indicate non si accompagni alcun cambio di destinazione.
Invero la suddetta modifica normativa, entrata in vigore il 13.09.2014, ha esteso la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria ricomprendendovi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico, ma a condizione che non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione d'uso.
Il disposto del nuovo art. 3-ter d.P.R. n. 380 del 2001 (introdotto dalla legge di conversione del predetto d.l., ossia dalla l. 11.11.2014, n. 164), che, sul punto, chiarisce come «costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione, dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati, ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale) commerciale) rurale».
Ne consegue che nella fattispecie in esame in cui lo stesso provvedimento impugnato assume la destinazione abitativa dell’unità immobiliare interessata dal frazionamento, devono ritenersi sussistenti i presupposti necessari per l’applicazione della normativa invocata dai ricorrenti (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATASi rileva con la giurisprudenza dominante che la realizzazione di una piscina non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire.
Inoltre, per la piscina installata parzialmente fuori terra, fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un metro, la giurisprudenza ha statuito quanto segue: <<La piscina fuori terra non può essere considerata come struttura di natura accessoria e come tale riconducibile alle ipotesi di attività edilizia libera ex art. 6, T.U. n. 380/2001 lett. a) o meglio tra gli interventi aventi natura pertinenziale realizzabili mediante SCIA e non necessitanti del permesso di costruire ex art. 10, T.U. n. 380/2001>>.
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E ‘altresì da escludere che la suddetta piscina possa assolvere ad una funzione di semplice decoro o arredo, sì da potersi qualificare “pertinenza urbanistica”.
A tale conclusione si perviene non tanto per le dimensioni della piscina, quanto per il contesto, particolarmente attrezzato (“area posta od ovest del fabbricato e delimitata sui lati nord, sud ed ovest da muro avente un’altezza di circa ml. 2.20 e posta a quota superiore di circa m. 1, accessibile mediante una piccola rampa scale scoperta”) in cui essa insiste e va ad inserirsi, area che appare appositamente allestita (“area pavimentata di mq. 100”) in funzione della struttura .
A ciò va soggiunto che la nozione “urbanistica” di pertinenza è nozione molto più ristretta di quella dettata da diritto civile, non potendo, in particolare, considerarsi pertinenze quelle opere che non sono coessenziali al bene principale, e che, per loro natura , hanno un’autonoma rilevanza funzionale ed economica, con la conseguenza che: <<La qualifica di pertinenza è applicabile solo ad opere di modesta entità, accessorie rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera c.d. principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulta possibile alcuna diversa utilizzazione economica>>.
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Quanto alla pavimentazione dell’area adiacente alla piscina, di essa non può operarsene una considerazione atomistica, isolata ed a se stante, partecipando del medesimo regime giuridico (nella specie di abusività), mutuato dalla res principale, formando con essa un quadro unitario ed inscindibile (per un’applicazione TAR Napoli, (Campania) sez. III, 20/02/2018, n. 1093, nel quale si evidenzia che gli interventi edilizi vanno considerati nel loro complesso per stabilire se hanno determinato trasformazione del territorio o aumento de carico urbanistico).
La valutazione urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli stessi onde apprezzarne la rilevanza sotto il profilo urbanistico e la conseguente loro iscrizione alla relativa categoria edilizia (manutenzione, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione ovvero nuova costruzione) ai fini dell'individuazione del titolo autorizzatorio al cui regime sono assoggettati. Ai fini della ricognizione del regime giuridico e della categoria edilizia cui vanno ricondotti gli abusi edilizi non possono formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza.
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Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza impugnata (“Pavimentazione ulteriore area esterna (realizzazione di un area circa mq. 110 completamente piastrellata e delimitata sui lati nord/est da muretto in di altezza media di circa cm 80, la stessa area è accessibile da rampa scala scoperta posta sul versante est e da altra rampa scala posta sul versante nord, entrambe realizzate in muratura”), è sufficiente il richiamo alla giurisprudenza che si condivide, per la quale: <<L'intervento edilizio, consistente nella pavimentazione di tutta l'area di pertinenza dell'intero stabile con cemento nonché la contestuale realizzazione di una scala e di una parte di pavimentazione in cotto, integrano trasformazione urbanistica ed edilizia, tendenzialmente permanente ed alterazione dell'assetto del territorio da qualificare correttamente come intervento di nuova costruzione in ossequio al disposto dell'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001, e conseguentemente subordinato a permesso di costruire in forza dell'art. 10, comma 1, lett. a) dello stesso decreto>>.
A ciò aggiungasi che l’ulteriore area pertinenziale esterna è destinata (oltre che a giardino ed alla fruizione del tempo libero, anche) alla adibizione a parcheggio e, secondo, recentissima, condivisa giurisprudenza <<Il permesso di costruire è necessario anche per la realizzazione di parcheggi, in quanto la sistemazione di un'area a parcheggio aumenta il carico urbanistico>>.
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Infine, in ordine alla necessità del permesso di costruire negli interventi contemplati con la censura in esame, dirimente è la considerazione in via prioritaria dei vincoli paesaggistici che interessano la zona di afferenza dell’abuso (come desumibile dal richiamo nell’ordinanza al D.Lgs. 22/01/2004, n. 42, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) che impongono, in assenza di adeguato titolo abilitativo, anche sotto il profilo paesaggistico, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
In proposito, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso: <<a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva, al fine dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona vincolata ed in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico, che urbanistico>>.
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Con la seconda censura, in relazione alle opere esterne realizzata nell'area di pertinenza dell'immobile residenziale, relativamente alla piscina, si deduce la violazione degli artt. 3 e 31 del d.P.R. 380/2001, oltre all’eccesso di potere (per istruttoria erronea ed insufficiente, difetto dei presupposti, errore di fatto, motivazione illogica ed insufficiente, illogicità manifesta), al riguardo in particolare:
   A - in relazione alla piscina, essa sarebbe di modestissima dimensioni, di tipo prefabbricato ed è stata installata parzialmente fuori terra, fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un metro.
Sostengono, in argomento, i ricorrenti, richiamando la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che, ai sensi dell'art. 7, secondo comma, lett. a) «opere costituenti pertinenze od impianti tecnici al servizio di edifici già esistenti», è rilevante che sussista un rapporto pertinenziale tra un edificio preesistente e l'opera da realizzare e tale rapporto sia oggettivo nel senso che la consistenza dell'opera deve essere tale da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio e deve inquadrarsi nei limiti di un rapporto adeguato e non esorbitante rispetto alle esigenze di un effettivo uso normale del soggetto che risiede nell'edificio principale.
Nel caso in esame, la piscina prefabbricata, di dimensioni normali, annessa ad un fabbricato ad uso residenziale sito in zona agricola, ha certamente natura obiettiva di pertinenza, e costituisce un manufatto adeguato all'uso effettivo e quotidiano del proprietario dell'immobile principale.
Inoltre l’installazione di una piscina prefabbricata di modeste dimensioni non integra violazione degli indici di copertura che riguardano interventi edilizi, né degli standard, atteso che non aumentano il carico urbanistico della zona, rilevando solo in termini ili sistemazione esterna del terreno, e che i vani per impianti tecnologici sono comunque consentiti.
Infine, secondo la giurisprudenza, la installazione di una piscina, avente le caratteristiche di quella descritta, non sarebbe soggetta al previo rilascio del permesso di costruire, la cui mancanza non sarebbe, dunque, sanzionabile con la demolizione, ai sensi dell’art. 31, D.P.R. 380/2001, difettando i presupposti di fatto e di diritto per la sua applicazione.
   B - In relazione alle altre opere realizzate nell'area esterna pertinenziale, ovvero la pavimentazione di alcune parti del giardino (in particolare al contorno della piscina e in un'altra area destinata al tempo libero, l'allungamento del viale di accesso, lo spiazzo ad uso parcheggio), trattasi di interventi insuscettibili di aumentare il carico urbanistico o di determinare una rilevante trasformazione fisica e funzionale del territorio, stante la intrinseca pertinenzialità funzionale di tali superfici esterne rispetto all'edificio principale.
Infatti, rappresentano i ricorrenti che la pavimentazione esterna fu effettuata al solo fine della messa in sicurezza delle aree scoperte, per destinarla in parte alla permanenza delle persone per godere del tempo libero, ed in altra parte, a parcheggio privato di autovetture, per modo che l'area non ha perduto i suoi connotati di spazio pertinenziale al servizio esclusivo del fabbricato principale ad uso residenziale.
Inoltre, anche per tale intervento, va dedotta la violazione della normativa urbanistica di riferimento e segnatamente dell'articolo 6 D.P.R. 380/2001, come modificato dal D.L. 25.03.2010 n. 40, conv. in Legge n. 73/2010, atteso che, alla stregua di siffatta normativa, costituiscono attività edilizia libera la pavimentazione delle aree esterne di pertinenza degli edifici (peraltro già prevista in progetto), le aree ludiche senza fine di lucro e gli elementi di arredo de le aree di sosta apposti nelle aree pertinenziali degli edifici, per modo che, anche in tal caso non può che rilevarsi l'illegittimità dell'ordinanza comunale per difetto dei presupposti previsti dal più volte citato articolo 31 T.U. Edilizia.
La censura, sotto entrambi i profili sub A e B) considerati è infondata.
Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza (“piscina anch'essa abusiva, di forma ovale dalla lunghezza di circa ml. 8,40 ed una larghezza media di circa m 1.4, contornata da un area pavimentata di circa mq. 100”), si rileva con la giurisprudenza dominante che la realizzazione di una piscina non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire (TAR Salerno, (Campania) sez. II, 18/04/2019, n. 642).
Inoltre, come asserito dai medesimi ricorrenti la piscina è stata installata parzialmente fuori terra, fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un metro, circostanza per la quale, secondo condivisa giurisprudenza: <<La piscina fuori terra non può essere considerata come struttura di natura accessoria e come tale riconducibile alle ipotesi di attività edilizia libera ex art. 6, T.U. n. 380/2001 lett. a) o meglio tra gli interventi aventi natura pertinenziale realizzabili mediante SCIA e non necessitanti del permesso di costruire ex art. 10, T.U. n. 380/2001>> (TAR Napoli, (Campania) sez. VI, 07/06/2019, n. 3103).
E ‘altresì da escludere che la suddetta piscina possa assolvere ad una funzione di semplice decoro o arredo, sì da potersi qualificare “pertinenza urbanistica”.
A tale conclusione si perviene non tanto per le dimensioni della piscina, quanto per il contesto, particolarmente attrezzato (“area posta od ovest del fabbricato e delimitata sui lati nord, sud ed ovest da muro avente un’altezza di circa ml. 2.20 e posta a quota superiore di circa m. 1, accessibile mediante una piccola rampa scale scoperta”) in cui essa insiste e va ad inserirsi, area che appare appositamente allestita (“area pavimentata di mq. 100”) in funzione della struttura .
A ciò va soggiunto che la nozione “urbanistica” di pertinenza è nozione molto più ristretta di quella dettata da diritto civile, non potendo, in particolare, considerarsi pertinenze quelle opere che non sono coessenziali al bene principale, e che, per loro natura , hanno un’autonoma rilevanza funzionale ed economica, con la conseguenza che: <<La qualifica di pertinenza è applicabile solo ad opere di modesta entità, accessorie rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera c.d. principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulta possibile alcuna diversa utilizzazione economica>> (TAR Campania, sez. VII, 27.11.2017, n. 5564).
Quanto alla pavimentazione dell’area adiacente alla piscina, di essa non può operarsene una considerazione atomistica, isolata ed a se stante, partecipando del medesimo regime giuridico (nella specie di abusività), mutuato dalla res principale, formando con essa un quadro unitario ed inscindibile (per un’applicazione TAR Napoli (Campania) sez. III, 20/02/2018, n. 1093, nel quale si evidenzia che gli interventi edilizi vanno considerati nel loro complesso per stabilire se hanno determinato trasformazione del territorio o aumento de carico urbanistico).
La valutazione urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli stessi onde apprezzarne la rilevanza sotto il profilo urbanistico e la conseguente loro iscrizione alla relativa categoria edilizia (manutenzione, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione ovvero nuova costruzione) ai fini dell'individuazione del titolo autorizzatorio al cui regime sono assoggettati. Ai fini della ricognizione del regime giuridico e della categoria edilizia cui vanno ricondotti gli abusi edilizi non possono formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza.
Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza impugnata (“Pavimentazione ulteriore area esterna (realizzazione di un area circa mq. 110 completamente piastrellata e delimitata sui lati nord/est da muretto in di altezza media di circa cm 80, la stessa area è accessibile da rampa scala scoperta posta sul versante est e da altra rampa scala posta sul versante nord, entrambe realizzate in muratura”), è sufficiente il richiamo alla giurisprudenza che si condivide, per la quale: <<L'intervento edilizio, consistente nella pavimentazione di tutta l'area di pertinenza dell'intero stabile con cemento nonché la contestuale realizzazione di una scala e di una parte di pavimentazione in cotto, integrano trasformazione urbanistica ed edilizia, tendenzialmente permanente ed alterazione dell'assetto del territorio da qualificare correttamente come intervento di nuova costruzione in ossequio al disposto dell'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001, e conseguentemente subordinato a permesso di costruire in forza dell'art. 10, comma 1, lett. a) dello stesso decreto>> (TAR Napoli, (Campania) sez. III, 20/02/2018, n. 1093).
A ciò aggiungasi che -come asserito dai medesimi ricorrenti- l’ulteriore area pertinenziale esterna è destinata (oltre che a giardino ed alla fruizione del tempo libero, anche) alla adibizione a parcheggio e, secondo, recentissima, condivisa giurisprudenza <<Il permesso di costruire è necessario anche per la realizzazione di parcheggi, in quanto la sistemazione di un'area a parcheggio aumenta il carico urbanistico>> (C. di S., sez. II, 01.07.2019, n. 4475).
Infine, in ordine alla necessità del permesso di costruire negli interventi contemplati con la censura in esame, dirimente è la considerazione in via prioritaria dei vincoli paesaggistico che interessano la zona di afferenza dell’abuso (come desumibile dal richiamo nell’ordinanza al D.Lgs. 22/01/2004, n. 42, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) che impongono, in assenza di adeguato titolo abilitativo, anche sotto il profilo paesaggistico, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
In proposito, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso (cfr. la sentenza della Sez. VI di questo Tribunale del 26/03/2015 n. 1815): <<a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva, al fine dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona vincolata ed in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico, che urbanistico>> (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le rilevanti dimensioni della tettoia realizzata ed i materiali a tal fine utilizzati (“tettoia in travi e tavolato in legno lamellare di mq. 45 posta in aderenza al prospetto ovest del fabbricato”) conducono ad escludere che essa possa ritenersi sottratta al regime del permesso di costruire ex art. 10 d.P.R. 380/2001.
Questa Sezione ha già avuto modo di rilevare in generale che: <<Anche la realizzazione di una tettoia è soggetta al permesso di costruire, in quanto essa incide sull’assetto edilizio preesistente; incisione particolarmente significativa ove -come nella fattispecie- la tettoia insiste su un territorio vincolato. La realizzazione di una tettoia, nella misura in cui realizza l’inserimento di nuovi elementi e impianti, resta subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 380/2001 laddove comporti, come nella fattispecie, una modifica della sagoma e del prospetto del fabbricato cui inerisce>>.
Altre sentenze si soffermano sulla giustificazione di tale impostazione, escludendo che possano considerarsi elementi accidentali dell’intera struttura e rilevando che: <<La realizzazione di una tettoia, anche se in aderenza ad un muro preesistente, non può essere considerata un intervento di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non consiste nella rinnovazione o nella sostituzione di un elemento architettonico, ma nell'aggiunta di un elemento strutturale dell'edificio, con modifica del prospetto. La sua costruzione, pertanto, necessita del previo rilascio di permesso di costruire>>.
Fermo restando la correttezza di tale impostazione, la giurisprudenza soggiunge che dette strutture possono ritenersi liberamente edificabili solo qualora la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da agenti atmosferici, e quando, per la loro consistenza, possano ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono.
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In relazione alla tettoia, con la terza censura è dedotta la violazione degli artt. 3, 10 e 31 del d.P.R.380/2001, oltre all’eccesso di potere (per difetto di istruttoria, motivazione illogica ed insufficiente, illogicità manifesta), atteso che la tettoia rientrerebbe nell'ambito delle opere pertinenziali ai sensi dell'articolo 3 lett. e.6), del D.P.R. 380/2001, non essendo autonomamente utilizzabile in quanto posta ad esclusivo servizio dell'immobile principale, senza creazione di alcun volume o superficie utile, né, trattandosi di modestissima opera, è idonea ad aumentare il carico urbanistico della zona.
L’ordine di idee di parte ricorrente non merita condivisione.
In argomento questa Sezione ha già avuto modo di rilevare in generale che: <<Anche la realizzazione di una tettoia è soggetta al permesso di costruire, in quanto essa incide sull’assetto edilizio preesistente; incisione particolarmente significativa ove -come nella fattispecie- la tettoia insiste su un territorio vincolato. La realizzazione di una tettoia, nella misura in cui realizza l’inserimento di nuovi elementi e impianti, resta subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 380/2001 laddove comporti, come nella fattispecie, una modifica della sagoma e del prospetto del fabbricato cui inerisce>> (TAR Napoli, sez. III, 10.01.2014, n. 142; TAR Napoli, sez. II, 12.07.2013, n. 3647).
Altre sentenze si soffermano sulla giustificazione di tale impostazione, escludendo che possano considerarsi elementi accidentali dell’intera struttura e rilevando che: <<La realizzazione di una tettoia, anche se in aderenza ad un muro preesistente, non può essere considerata un intervento di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non consiste nella rinnovazione o nella sostituzione di un elemento architettonico, ma nell'aggiunta di un elemento strutturale dell'edificio, con modifica del prospetto. La sua costruzione, pertanto, necessita del previo rilascio di permesso di costruire>> (Consiglio di Stato, sez. VI, 26/01/2015, n. 319).
Fermo restando la correttezza di tale impostazione, la giurisprudenza soggiunge che dette strutture possono ritenersi liberamente edificabili solo qualora la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da agenti atmosferici, e quando, per la loro consistenza, possano ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono (cfr. TAR Campania, Napoli, sezione III, 25.07.2011 n. 3947).
Nel caso di specie, le rilevanti dimensioni della tettoia realizzata ed i materiali a tal fine utilizzati (“tettoia in travi e tavolato in legno lamellare di mq. 45 posta in aderenza al prospetto ovest del fabbricato”) conducono ad escludere che essa possa ritenersi sottratta al regime del permesso di costruire ex art. 10, d.P.R. 380/2001, per rientrare fra gli interventi assoggettati a segnalazione certificata di inizio attività o, addirittura, nella libera attività edilizia ai sensi del precedente art. 6.
In definitiva, nella sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per ingiungere la sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, il ricorso si appalesa infondato e va, quindi, respinto, ad eccezione di quanto rilevato per il frazionamento del piano rialzato (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAPer l’emanazione dell'ordine di rimozione dei rifiuti ex art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, è necessario in primo luogo che sussista la colpa specifica, e non già presunta o di posizione, del proprietario non autore materiale delle condotte di abbandono dei rifiuti.
Pertanto, la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti previsti dall'art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 necessita di un serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità ove si ravvisi il titolo colposo di tale responsabilità, non potendosi configurare, in assenza di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del diritto europeo, una responsabilità del proprietario da posizione.
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La sig.ra Le Pe. La., ha impugnato, con richiesta di sospensione, l’ordinanza contingibile ed urgente n. 3 del 15.01.2019 emanata dal Sindaco del Comune di Tiriolo con cui le si è ordinata la rimozione dei rifiuti abbandonati su sua proprietà, pena la rimozione “di ufficio in danno”, e la conseguente determinazione del costo dell’intervento deducendone l’illegittimità per eccesso di potere per travisamento ed erronea valutazione dei fatti, difetto di istruttoria ed ingiustizia manifesta per difetto di sopralluogo con il proprietario e di riscontro di sua colpa per come previsto dall’art. 192 d.lgs. 152/2006.
In particolare, ha dedotto che i materiali abbandonati non si trovano proprio terreno, bensì sulla adiacente via comunale.
L’ente locale, cui il ricorso è stato ritualmente notificato, non si è ritualmente costituito ed ha provveduto a depositare relazione e documenti per contrastare le deduzioni ricorsuali.
L’istanza cautelare è stata accolta con ordinanza n. 196/2019, non impugnata.
Nella fase del merito l’ente resistente ha documentato l’intervenuta rimozione dei rifiuti.
All’udienza pubblica del 18.12.2019 la causa, all’esito della trattazione, è stata trattenuta in decisione.
2. Coglie nel segno il secondo motivo di ricorso ove si lamenta l’eccesso di potere e la violazione dell’art. 192 TUAmb.
Infatti, per l’emanazione dell'ordine di rimozione dei rifiuti ex art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, è necessario in primo luogo che sussista la colpa specifica, e non già presunta o di posizione, del proprietario non autore materiale delle condotte di abbandono dei rifiuti (cfr. da ultimo Cons. Stato, IV, 07.06.2018, n. 3430).
Pertanto, la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti previsti dall'art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 necessita di un serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità ove si ravvisi il titolo colposo di tale responsabilità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3672 del 2017; sez. V, n. 1089 del 2017; sez. IV, n. 1301 del 2016; sez. V, n. 933 del 2015), non potendosi configurare, in assenza di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del diritto europeo, una responsabilità del proprietario da posizione (cfr. da ultimo Corte giust. UE, sez. II, 13.07.2017, C-129/2016; sez. III, 04.03.2015, n. 534; Cons. Stato, Ad. plen., nn. 21 e 25 del 2013).
Nella specie è incontestato e riscontrabile negli atti prodotti che il sopralluogo sul terreno sia avvenuto da tecnici comunali in assenza della proprietaria ricorrente.
In conclusione, il ricorso va accolto con annullamento dell’ordinanza contingibile e dell’atto conseguenziale di determinazione del costo di rimozione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 07.01.2020 n. 5 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICASe sussiste una discrasia tra parte normativa e parte grafica delle prescrizioni di Piano regolatore generale, si applica la regula iuris per cui occorre dare prevalenza alla prima.
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1. Con ricorso dinanzi al Tar Lombardia (R.G. n. 2987/2012), l’odierno appellato impugnava la deliberazione di Consiglio comunale n. 55 del 28.09.2012, mediante la quale il Comune di Carugate ha approvato la proposta di deliberazione avente ad oggetto la correzione di errori materiali e rettifiche degli atti del P.G.T., ai sensi dell’art. 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del 2005.
2. Il Tar, con la sentenza n. 1167 del 25.05.2017, ha accolto il ricorso e ha compensato le spese di giudizio tra le parti.
Secondo il Tribunale, in particolare il Comune ha variato le previsioni contenute nello strumento urbanistico comunale utilizzando la procedura di correzione di errori materiali ex art. 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del 2005 in assenza dei relativi presupposti.
Si è infatti provveduto a variare la classificazione della zona in cui è situata l’area di proprietà del ricorrente da zona B (“ambito di completamento, di espansione recente in via di saturazione”), come previsto dalla precedente deliberazione n. 21 del 2010 (poi rettificata con deliberazione n. 11 del 2011), in zona C1 (“zone residenziali soggette a piani attuativi di recente approvazione ed in corso di esecuzione”), in assenza di un evidente e manifesto errore materiale in tal senso.
3. Il Comune di Carugate ha proposto appello, per ottenere la riforma della sentenza impugnata e il conseguente rigetto integrale del ricorso originario. In particolare, l’appellante ha sostenuto le seguenti censure in tal modo rubricate:
...
5. L’appello è fondato e deve pertanto essere accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata.
...
7.1. I due motivi di appello devono essere esaminati congiuntamente in ragione del rapporto di stretta connessione tra loro, fondandosi entrambi sulla questione di merito della sussistenza dell’errore materiale (oggetto di correzione nella delibera impugnata) derivante dalla non corrispondenza tra la parte scritta e la parte grafica delle previsioni di P.G.T.
7.1.2. La specifica censura risulta fondata.
Attesa la fondatezza dell’appello nel merito, il Collegio può quindi prescindere dall’esame dell’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado ex art. 35, comma 1, lett. b, c.p.a., per difetto di interesse.
7.2. Il Collegio rileva in primo luogo che il menzionato art. 13, comma 14-bis, l.r. Lombardia n. 12/2005, prevede, esclusivamente per l’ipotesi della correzione dell’errore materiale, una disciplina semplificata di approvazione, che deroga al procedimento ordinario di approvazione delle varianti agli strumenti di pianificazione urbanistica e non reca le correlate garanzie partecipative.
Come ha già rilevato questo Consiglio (cfr. Sez. IV, 24.12.2019, n. 8799), la sussistenza del presupposto dell’errore materiale risulta pertanto imprescindibile per l’applicazione della procedura agevolata.
7.3. Al riguardo, va rilevato che, ai sensi dell’art. 24 delle Norme di Attuazione del Piano delle regole (“zona C1 - Zone residenziali soggette a piani attuativi di recente approvazione ed in corso di esecuzione”): “1. Il PGT prende atto della esistenza di una serie di piani attuativi già adottati ed in corso di attuazione, relativi sia ad ambiti di zone C del PRG previgente, sia ad ambiti di zone di recupero. 2. Tali ambiti vengono identificati unitariamente come zone C1 ancorché caratterizzati da discipline autonome e differenti tra loro in attuazione delle previsioni del previgente PRG. 3. Le indicazioni planimetriche e le Norme Tecniche di Attuazione dei Piani Esecutivi già adottati ed in corso di esecuzione, di cui al comma precedente, sono fatte salve e formano parte integrante delle presenti norme. 4. Esse trovano applicazione fino allo scadere del termine di efficacia del piano attuativo a cui si riferiscono. 5. Allo scadere del termine di cui al comma precedente, essi perdono efficacia, e i relativi ambiti sono assoggettati ad una disciplina di conservazione dell'esistente, senza possibilità di ulteriori edificazioni. 6. La destinazione d'uso prevalente è quella residenziale. E' ammessa, al piano terra degli edifici, la destinazione per attività commerciali di vicinato”.
Ne consegue che, alla stregua della parte normativa delle previsioni di P.G.T., gli ambiti considerati dai piani attuativi già adottati ed in corso di esecuzione, sia quelli compresi nella zona C sia quelli di recupero, sono identificati unitariamente come zone C1 e vengono assoggettati, allo scadere del termine di efficacia dei piani stessi, ad una disciplina di conservazione dell’esistente, senza possibilità di ulteriori edificazioni.
7.4. Ciò premesso, in primo luogo non risulta sostenibile quanto dedotto dall’appellato in ordine alla inapplicabilità alla fattispecie in esame della norme di attuazione del Piano delle regole, in ragione del fatto che il Piano PP9 sarebbe stato del tutto concluso in epoca precedente l’entrata in vigore di tali norme, come dimostrato dalla delibera di Giunta comunale n. 210 del 17.11.2009 (avente ad oggetto “presa d’atto fine lavori piano particolareggiato PP9 sito in Via C. Battisti - approvazione certificato di regolare esecuzione - presa in consegna”) con cui è stato approvato il certificato di regolare esecuzione delle opere di urbanizzazione, in ottemperanza alla convenzione urbanistica stipulata in data 20.01.2006 per l’attuazione di tale piano.
7.4.1. Invero, come rilevato, il citato art. 24 delle norme di attuazione del Piano delle regole fa riferimento ai “piani attuativi già adottati e in corso di attuazione”, così come, in maniera sostanzialmente conforme, l’art. 3 delle medesime norme fa riferimento ai “piani attuativi già approvati e vigenti alla data di adozione del presente PGT”.
Del resto, il citato certificato non è di per sé idoneo ad escludere che il Piano, già adottato alla data di adozione del nuovo P.G.T., fosse in quel momento ancora in corso di attuazione, non apportando elementi dimostrativi in ordine alla integrale attuazione delle previsioni edificatorie del PP9.
In senso contrario, come correttamente dedotto dal Comune appellante, va infatti considerato che la invocata deliberazione G.C. n. 210/2009 concerne solo l’ultimazione delle opere di urbanizzazione, per l’esecuzione delle quali era previsto lo specifico termine di 36 mesi dall’approvazione del piano, almeno per quanto riguarda la transitabilità delle strade.
Al contrario, la convenzione relativa al piano presenta una durata decennale, come confermato -stando a quanto riferito dal Comune e non contestato dall’appellato- dalla successiva presentazione di titoli abilitativi per varianti in corso d’opera per immobili all’interno del PP9, tra cui una d.i.a. del 2010 dello stesso appellato per opere di varianti in corso d’opera a sanatoria.
7.4.2. Non essendo pertanto dimostrata né la piena attuazione di tutte le previsioni edificatorie del PP9 né la scadenza del termine decennale di efficacia della relativa convenzione, risulta che il piano particolareggiato era ancora in corso di esecuzione al momento dell’entrata in vigore del nuovo P.G.T., con la conseguenza che agli ambiti da esso considerati risultano applicabili le disposizioni delle Norme di Attuazione del Piano delle regole.
7.5. Ciò detto, considerata l’applicabilità del citato art. 24, appare sostenibile che con l’impugnata delibera si sia voluto correggere la discrasia tra quanto previsto dalla norma e quanto riportato nella parte grafica; discrasia che, pertanto, risulta essere stata correttamente qualificata dal Comune alla stregua di un “errore materiale”.
Invero, la divergenza tra la parte scritta e la parte grafica delle previsioni di P.G.T. in relazione alla classificazione delle aree dei piani considerati si palesa quale errore che emerge in maniera manifesta ed immediata dalla documentazione del piano, a prescindere da qualunque attività interpretativa, atteso che:
   a) l’ambito in esame secondo la previsione “scritta” del citato art. 24 delle norme di attuazione del Piano delle Regole è stato classificato come zona C1 (“zone residenziali soggette a piani attuativi di recente approvazione ed in corso di esecuzione”), mentre dalla parte grafica di cui alla tavola n. 9 viene individuato come zona B (“ambito di completamento, di espansione recente in via di saturazione”);
   b) per la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, se sussiste una discrasia tra parte normativa e parte grafica delle prescrizioni di Piano regolatore generale, si applica la regula iuris per cui occorre dare prevalenza alla prima (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. II, 26.08.2019, n. 5876; sez. IV, 13.01.2015, n. 49; sez. IV, 16.06.2015, n. 2998; sez. IV, 13.07.2010, n. 4542; sez. IV, 15.12.1981, n. 1089);
   c) non emerge la volontà del Comune di voler esercitare nuovamente il proprio potere discrezionale di individuazione della destinazione urbanistica dell’area in esame, in quanto la medesima variazione di azzonamento, volta a rettificare l’errore, è stata disposta non solo con riferimento al citato PP9, ma anche in relazione ad altri sette piani attuativi previsti nel PRG pre-vigente (PL A, PL C, PL D, PL E, PL F, PP 12 e PP 15), in tal modo dando dimostrazione della portata generale della delibera;
   d) del resto, a differenza di quanto sostenuto dall’appellato, a fronte della presenza di una chiara previsione normativa non può dirsi che nella fattispecie si sia formato un affidamento incolpevole del proprietario sull’edificabilità delle aree interessate dalla censurata riclassificazione urbanistica, nonostante la rettifica sia intervenuta dopo due anni dall’approvazione del P.G.T..
8. In conclusione, in ragione di quanto esposto, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.01.2020 n. 62 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia.
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Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014, n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d. sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è e resta comunque un atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta di recente a rilevare che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>>.
In sostanza, la decisione della Plenaria superando l’orientamento giurisprudenziale che richiedeva un onere motivazionale particolarmente rafforzato nel caso di esercizio del potere sanzionatorio di un abuso edilizio a distanza di tempo dalla sua realizzazione ritiene che l'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione (se non quella relativa all'accertata abusività dell'opera) indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell'abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso.
Successivamente all’emanazione della citata sentenza dell’Adunanza Plenaria l’orientamento è stato ribadito da Cons. Stato, IV, 28.02.2017 n. 908, evidenziando che: <<La repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Invero, l'illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva nel tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso è in re ipsa. L'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio>>.

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Con la terza censura si deduce l’eccesso di potere (per erroneità del presupposto di fatto determinato da insufficiente istruttoria e difetto di motivazione) in quanto la circostanza per la quale l'opera in oggetto esiste da circa dieci anni rende applicabile il cd. principio di affidamento del privato, in base al quale, il decorso di un lungo periodo di tempo dalla realizzazione dell'opera, legittima i ricorrenti a ritenere di vantare un diritto assoluto alla detenzione dello stesso, per modo che il Comune potrebbe disporre la demolizione di dette opere solo in caso di prevalenza dell'interesse pubblico sull'interesse privato, tale da rendere necessario un tale provvedimento.
Con l’ausilio della giurisprudenza richiamata i ricorrenti sostengono che, nel caso in cui, dato il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e per il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento del privato, sussisterebbe a carico della P.A: un onere di congrua e puntuale motivazione che indichi, avuto riguardo anche alla vetustà, all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
La censura non coglie nel segno.
Posto che l’abuso in discussione circa l’epoca di sua realizzazione risulta non databile, nulla al riguardo, i ricorrenti avendo provato, decisivo è il rilievo che, in materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è e resta comunque un atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (Cfr. ex multis, TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016; TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770).
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta di recente a rilevare che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>> (Consiglio di Stato ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
In sostanza, la decisione della Plenaria superando l’orientamento giurisprudenziale che richiedeva un onere motivazionale particolarmente rafforzato nel caso di esercizio del potere sanzionatorio di un abuso edilizio a distanza di tempo dalla sua realizzazione ritiene che l'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione (se non quella relativa all'accertata abusività dell'opera) indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell'abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso.
Successivamente all’emanazione della citata sentenza dell’Adunanza Plenaria l’orientamento è stato ribadito da Cons. Stato, IV, 28.02.2017 n. 908, evidenziando che: <<La repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Invero, l'illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva nel tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso è in re ipsa. L'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio>>
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire.
La circostanza che, nella licenza edilizia, il piano cantinato non abbia alcuna indicazione in ordine alla destinazione d’uso non può fare presumere, proprio per le caratteristiche intrinseche del relativo locale, un uso abitativo dello stesso.
Sul punto si osserva che, laddove il cantinato assuma un carattere di pertinenza rispetto all’unità principale ad uso abitativo la sua funzione non può che essere servente dell’appartamento, giammai autonoma quale unità abitativa del tutto distinta da quella principale.
Non a caso, nella classificazione a fini di rendita fiscale, i cantinati –a differenza delle abitazioni– rientrano nella categoria catastale C, sottocategoria C/2, quali locali di deposito, proprio in considerazione della loro funzione servente dell’unità abitativa e quindi fondamentalmente diversa da quest’ultima.
Da ciò consegue anche che non è applicabile l’invocato art. 23-ter d.p.r. 380/2001, in quanto il passaggio da cantinato a locale abitabile rientra nell’ambito del cambiamento della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante, considerata la totale diversità delle modalità di utilizzo di una cantina rispetto ad un appartamento e l’evidente aggravio del carico urbanistico complessivo sul territorio comunale.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire.
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2.3.- Circa il cambio di destinazione d’uso non sono condivisibili le tesi di parte ricorrente.
La circostanza che nella licenza edilizia, il piano cantinato non abbia alcuna indicazione in ordine alla destinazione d’uso non può fare presumere, proprio per le caratteristiche intrinseche del relativo locale, un uso abitativo dello stesso.
Tra l’altro, è la stessa parte ricorrente a riconoscerlo nel punto in cui sostiene, benché incidentalmente, che il cantinato riveste una funzione pertinenziale dell’appartamento.
Sul punto si osserva che, laddove il cantinato assuma un carattere di pertinenza rispetto all’unità principale ad uso abitativo –aspetto che il Collegio non nega ma anzi sul quale conviene- la sua funzione non può che essere servente dell’appartamento, giammai autonoma quale unità abitativa del tutto distinta da quella principale.
Non a caso, nella classificazione a fini di rendita fiscale, i cantinati –a differenza delle abitazioni– rientrano nella categoria catastale C, sottocategoria C/2, quali locali di deposito, proprio in considerazione della loro funzione servente dell’unità abitativa e quindi fondamentalmente diversa da quest’ultima.
2.4.- Da ciò consegue anche che non è applicabile l’invocato art. 23-ter d.p.r. 380/2001, in quanto il passaggio da cantinato a locale abitabile rientra nell’ambito del cambiamento della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante, considerata la totale diversità delle modalità di utilizzo di una cantina rispetto ad un appartamento e l’evidente aggravio del carico urbanistico complessivo sul territorio comunale.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire (cfr. Tar Genova, sez. I, 26.07.2017, n. 682).
2.5.- L’elemento dell’altezza non appare rilevante, almeno nei termini invocati dai ricorrenti.
Ed invero, costoro non contestano che l’altezza effettiva del piano interrato sia difforme da quella indicata nel grafico di prospetto, pari a metri 3,00, ma che questa, sin dall’origine, sia sempre stata pari a metri 2,10.
Ebbene, anche laddove l’altezza non sia mai variata e quella riportata nel grafico sia frutto di errore (materiale) e quindi fuorviante, è del tutto evidente che, a questo punto, l’unità, per ricevere destinazione abitativa, non risponderebbe in alcun modo ai requisiti minimi di altezza utile, fissata in metri 2,70 -riducibili a m 2.40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli- come indicato in via inderogabile dal D.M. del 05.07.1975, contenente le “Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20.06.1896 relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 31 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATACome insegna costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli abusi edilizi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di tutela in costanza di una situazione di fatto abusiva e giuridicamente illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto del solo trascorrere del tempo.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dall'abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti.
Come tra l’altro sottolineato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di stato, l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133, e secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”- il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.

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3.- Non fondata è la seconda censura.
Come insegna altrettanto costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli abusi edilizi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di tutela in costanza di una situazione di fatto abusiva e giuridicamente illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto del solo trascorrere del tempo.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dall'abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti (Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2017, n. 4580).
Come tra l’altro sottolineato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di stato (17.10.2017, n. 9), l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133, e secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”- il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 31 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’atto endoprocedimentale non è, di regola, impugnabile se non unitamente all’atto che conclude il procedimento amministrativo.
Nel caso di specie, trattandosi di di un mero atto endoprocedimentale la natura provvedimentale è esclusa dall’assenza di idoneità ad incidere in modo definitivo sulla posizione soggettiva del ricorrente. E deve pure escludersi che esso ponga in essere un arresto procedimentale di qualunque genere.
Sul punto, è sufficiente richiamare i principi di recente affermati, in materia, dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “in tema di procedimento amministrativo, il provvedimento finale a rilevanza esterna è impugnabile quale atto direttamente e immediatamente lesivo, mentre non sussiste l'interesse ad impugnare un atto privo di effetti immediati e diretti in quanto meramente endoprocedimentale”, ove in particolare si è precisato che “la regola secondo cui l'atto endoprocedimentale non è autonomamente impugnabile -la lesione della sfera giuridica dell'interessato provenendo in tal caso solo dall'atto conclusivo del procedimento amministrativo- trova eccezione solo nei casi in cui dall'atto procedimentale consegua un effetto preclusivo del successivo sviluppo del procedimento e, quindi, solo in caso di:
   a) atti di natura vincolanti (pareri o proposte) idonei come tali ad esprimere un indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva;
   b) atti interlocutori, idonei ad arrecare un arresto procedimentale capace di frustrare l'aspirazione dell'istante ad un celere soddisfacimento dell'interesse pretensivo prospettato;
   c) atti soprassessori, i quali rinviano ad un evento futuro ed incerto nell'an e nel quando il predetto soddisfacimento e, quindi, determinano un arresto procedimentale a tempo indeterminato.
Ciò posto e considerato altresì che l'interesse ad impugnare va accertato con riferimento al concreto ed attuale pregiudizio che l'atto arreca all'interesse sostanziale dedotto in giudizio e non già con riguardo alla possibile futura incidenza dell'atto sulla sfera giuridica del ricorrente, si osserva che, nello specifico, è la stessa natura del provvedimento impugnato (…) ad escludere che l'atto in questione possa considerarsi espressivo di una volontà dell'amministrazione con efficacia immediatamente lesiva e depone, invece, nel senso di un atto meramente interinale, privo di effetti "diretti", che si inserisce nell'istruttoria senza peraltro condizionarne l'esito (…)”.
Tale indirizzo trova sostanziale rispondenza nell’orientamento del Consiglio di Stato, che, a partire dalla nota decisione dell’Adunanza plenaria n. 8 del 10.07.1986, ha delineato i contorni del c.d. “arresto procedimentale”, ponendo l’accento sull’effetto preclusivo derivante da un atto prodromico che, da un lato, frustra l’aspirazione alla realizzazione dell’interesse pretensivo provocando un’interruzione, virtualmente definitiva, del normale svolgimento del procedimento amministrativo, e, dall’altro, assumendo natura “esterna”, incide immediatamente sulla situazione giuridica del richiedente.
L’arresto procedimentale assume, quindi, una duplice valenza, che può ricondursi, volendo individuare un comune elemento caratterizzante, a una particolare efficacia, normalmente preclusiva, dell'atto prodromico rispetto alla propria funzione endoprocedimentale e agli effetti normalmente prodotti dal provvedimento conclusivo del procedimento.
Nel tempo la giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente specificato che non è autonomamente impugnabile un atto prodromico che non possa essere considerato come un diniego esplicito, né come un provvedimento dotato di autonoma capacità lesiva, in quanto inidoneo, in ragione della sua natura meramente interlocutoria, a determinare un arresto procedimentale.
Deve, dunque, concludersi nel senso che l’atto endoprocedimentale non è, di regola, impugnabile se non unitamente all’atto che conclude il procedimento amministrativo.
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E' consolidato il principio per cui “Ai sensi degli artt. 14-bis, 14-ter e 14-quater, l. 07.08.1990, n. 241, l’atto conclusivo dei lavori della conferenza di servizi si concreta in un atto istruttorio endoprocedimentale a contenuto consultivo, perché l’atto conclusivo del procedimento è il provvedimento finale a rilevanza esterna con cui l’Amministrazione c.d. “procedente” decide a seguito di una valutazione complessiva, ed è contro di esso, in quanto atto direttamente e immediatamente lesivo, che deve dirigersi l’impugnazione, e ciò perché gli altri atti o hanno carattere meramente endoprocedimentale o non risultano impugnabili, se non unitamente al provvedimento conclusivo, in quanto non immediatamente lesivi”.
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Come noto, l’art. 7 l 241/1990 esonera la P.A. procedente dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 10-bis della medesima legge quando “sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento”.
A ciò si aggiunga che, in ogni caso, l’art. 21-octies della norma sul procedimento amministrativo espressamente esclude l’annullabilità del provvedimento per omissione della comunicazione in esame “qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Tuttavia, quanto alla consistenza dell’onere probatorio posto a carico dell’Amministrazione, l’orientamento prevalente in giurisprudenza, dal quale questo Collegio non ha ragione di discostarsi, è quello per cui “onde evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento, risulta preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi dell’omessa comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione, la P.A. sarà gravata del ben più consistente onere di dimostrare che anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che, ove il ricorrente si limiti a dedurre la mancata comunicazione di avvio per contestare la legittimità del provvedimento adottato dall’Amministrazione, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre alla stessa, il motivo di cui si lamenta comunicazione deve ritenersi inammissibile”.
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Per consolidata giurisprudenza amministrativa, “l'annullamento d'ufficio che intervenga entro breve tempo dall'adozione del provvedimento annullabile, quando le situazioni giuridiche coinvolte non si siano consolidate, è soggetto a un obbligo di motivazione attenuato.
Si tratta di un provvedimento ad alto contenuto discrezionale, con il quale l'Amministrazione persegue la tutela dell'interesse pubblico nella sua dinamicità temporale, né tanto meno, in siffatta ipotesi, è richiesta la comparazione con l’interesse privato sacrificato, “posto che in presenza di tale circostanza l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto illegittimo può considerarsi in re ipsa”.
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Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene il ricorso inammissibile per carenza di interesse e, in ogni caso, infondato nel merito.
Sul piano argomentativo e motivazionale, i motivi di gravame di cui al ricorso introduttivo sono suscettivi di trattazione unitaria, facendo tutti leva sul medesimo ordine di argomentazioni di massima.
In primo luogo, è fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dal Comune di Manfredonia.
Invero, come emerge dalla ricostruzione in fatto, la società En. S.p.A. impugnava il provvedimento di annullamento d’ufficio dalla Direzione Generale presso il M.I.B.A.C., reso nel corso della sessione conferenziale e giustificato dall’esigenza di acquisire puntuali integrazioni documentali in ordine alle opere in progetto indispensabili per il successivo sviluppo procedimentale, stante l’introduzione del nuovo P.P.T.R. della Regione Puglia.
Risulta evidente che di tale atto non è in alcun modo predicabile la natura provvedimentale o di arresto procedimentale idonea a radicare l’interesse all’impugnazione.
Essendo invero un mero atto endoprocedimentale, la natura provvedimentale, in particolare, è esclusa dall’assenza di idoneità ad incidere in modo definitivo sulla posizione soggettiva del ricorrente.
Deve pure escludersi che esso ponga in essere un arresto procedimentale di qualunque genere.
Sul punto, sarà sufficiente richiamare i principi di recente affermati, in materia, dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “in tema di procedimento amministrativo, il provvedimento finale a rilevanza esterna è impugnabile quale atto direttamente e immediatamente lesivo, mentre non sussiste l'interesse ad impugnare un atto privo di effetti immediati e diretti in quanto meramente endoprocedimentale” (cfr. Cass., Sez. UU, Sentenza 19.04.2016, n. 7702), ove in particolare si è precisato che “la regola secondo cui l'atto endoprocedimentale non è autonomamente impugnabile -la lesione della sfera giuridica dell'interessato provenendo in tal caso solo dall'atto conclusivo del procedimento amministrativo- trova eccezione solo nei casi in cui dall'atto procedimentale consegua un effetto preclusivo del successivo sviluppo del procedimento e, quindi, solo in caso di:
   a) atti di natura vincolanti (pareri o proposte) idonei come tali ad esprimere un indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva;
   b) atti interlocutori, idonei ad arrecare un arresto procedimentale capace di frustrare l'aspirazione dell'istante ad un celere soddisfacimento dell'interesse pretensivo prospettato;
   c) atti soprassessori, i quali rinviano ad un evento futuro ed incerto nell'an e nel quando il predetto soddisfacimento e, quindi, determinano un arresto procedimentale a tempo indeterminato (cfr. ex multis, Cons. Stato, 28.03.2012, n. 1829).
Ciò posto e considerato altresì che l'interesse ad impugnare va accertato con riferimento al concreto ed attuale pregiudizio che l'atto arreca all'interesse sostanziale dedotto in giudizio e non già con riguardo alla possibile futura incidenza dell'atto sulla sfera giuridica del ricorrente, si osserva che, nello specifico, è la stessa natura del provvedimento impugnato (…) ad escludere che l'atto in questione possa considerarsi espressivo di una volontà dell'amministrazione con efficacia immediatamente lesiva e depone, invece, nel senso di un atto meramente interinale, privo di effetti "diretti", che si inserisce nell'istruttoria senza peraltro condizionarne l'esito (…)
”.
Tale indirizzo trova sostanziale rispondenza nell’orientamento del Consiglio di Stato, che, a partire dalla nota decisione dell’Adunanza plenaria n. 8 del 10.07.1986, ha delineato i contorni del c.d. “arresto procedimentale”, ponendo l’accento sull’effetto preclusivo derivante da un atto prodromico che, da un lato, frustra l’aspirazione alla realizzazione dell’interesse pretensivo provocando un’interruzione, virtualmente definitiva, del normale svolgimento del procedimento amministrativo, e, dall’altro, assumendo natura “esterna”, incide immediatamente sulla situazione giuridica del richiedente.
L’arresto procedimentale assume, quindi, una duplice valenza, che può ricondursi, volendo individuare un comune elemento caratterizzante, a una particolare efficacia, normalmente preclusiva, dell'atto prodromico rispetto alla propria funzione endoprocedimentale e agli effetti normalmente prodotti dal provvedimento conclusivo del procedimento.
Nel tempo la giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente specificato che non è autonomamente impugnabile un atto prodromico che non possa essere considerato come un diniego esplicito, né come un provvedimento dotato di autonoma capacità lesiva, in quanto inidoneo, in ragione della sua natura meramente interlocutoria, a determinare un arresto procedimentale (Cons. Stato, 27.05.2014, n. 2742; Cons. Stato, Sez. V, 03.05.2012, n. 2530).
Deve, dunque, concludersi nel senso che l’atto endoprocedimentale non è, di regola, impugnabile se non unitamente all’atto che conclude il procedimento amministrativo.
Come visto supra, le relative eccezioni sono costituite dagli atti di natura vincolata idonei a determinare in via inderogabile il contenuto dell’atto conclusivo del procedimento, ovvero dagli atti interlocutori che comportino un arresto procedimentale (Cons. Stato, 13.02.2017, n. 602): la natura eccezionale di tale impugnabilità consiglia una rigorosa interpretazione dell’atto amministrativo, pur sempre da svolgersi nell’ambito dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt. 1362 c.c. e s.s. (Cons. Stato, 09.10.2015, n. 4648; id., 27.11.2014, n. 5877).
Nel caso di specie, il Collegio ritiene che l’atto impugnato, stante il suo carattere evidentemente interlocutorio, non rechi in sé alcuna autonoma idoneità lesiva della posizione giuridica della ricorrente, in quanto non determina di per sé alcun autonomo effetto preclusivo del successivo sviluppo procedimentale, poiché reso nell’ambito della conferenza di servizi indetta dal M.I.S.E. ai fini del rilascio dell’Autorizzazione Unica, per la quale gli artt. 14-ter e s.s. della L. n. 241/1990 prevedono, come è noto, specifiche modalità di superamento del dissenso espresso dalle Amministrazioni coinvolte, ove tale dissenso si ritenga di dover superare.
In siffatto contesto, invero, è consolidato il principio per cui “Ai sensi degli artt. 14-bis, 14-ter e 14-quater, l. 07.08.1990, n. 241, l’atto conclusivo dei lavori della conferenza di servizi si concreta in un atto istruttorio endoprocedimentale a contenuto consultivo, perché l’atto conclusivo del procedimento è il provvedimento finale a rilevanza esterna con cui l’Amministrazione c.d. “procedente” decide a seguito di una valutazione complessiva, ed è contro di esso, in quanto atto direttamente e immediatamente lesivo, che deve dirigersi l’impugnazione, e ciò perché gli altri atti o hanno carattere meramente endoprocedimentale o non risultano impugnabili, se non unitamente al provvedimento conclusivo, in quanto non immediatamente lesivi” (cfr. TAR Torino, Piemonte, sez. I, 28.11.2018, n. 1314, TAR Lazio, Latina, sez. I, 06.06.2018, n. 312; Consiglio di Stato, sez. IV, 10.04.2014, n. 178).
Di conseguenza, ove pure, per ipotesi, la Soprintendenza dovesse esprimere -a seguito del prescritto approfondimento istruttorio- parere definitivamente sfavorevole alla realizzazione dell’impianto progettato dalla società En., ciò non sarebbe di per sé sufficiente a precludere la positiva conclusione della conferenza di servizi in corso.
Né, tanto meno, nella fattispecie de qua è dato riscontrare un “blocco procedimentale”, così come sostenuto da parte ricorrente, trattandosi di un semplice differimento del termine di conclusione del procedimento per ritenute esigenze di approfondimento istruttorio.
Ne deriva, dunque, l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse all’azione, non vantando, la società in epigrafe, alcuna concreta possibilità di perseguire il bene della vita richiesto attraverso l’odierno giudizio, in corrispondenza ad una lesione diretta ed attuale dell’interesse protetto, a norma dell'art. 100 c.p.c..
Ad abundantiam il ricorso è da ritenersi, altresì, infondato nel merito.
Con primo motivo di doglianza, la società ricorrente censura l’illegittima omissione, ad opera dell’Amministrazione procedente, della formale comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990, la quale avrebbe precluso alla società attrice la possibilità di fornire il proprio contributo documentale a sostegno della compatibilità ambientale dell’impianto in questione.
Tale rilievo non è, tuttavia, suscettibile di positivo apprezzamento.
Come noto, infatti, l’art. 7 del disposto normativo richiamato esonera la P.A. procedente dalla comunicazione anzidetta quando “sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento”, esigenze ravvisabili nel caso di specie, in cui il celere esercizio del potere di annullamento in autotutela ad opera della Direzione Generale presso il M.I.B.A.C., risulta giustificato dalla necessità di salvaguardare un interesse pubblico superiore, in virtù del potere di controllo sugli atti del proprio ufficio alla stessa attribuito dall’art. 17, comma 1, lettera d), del D.lgs. n. 165/2001.
A ciò si aggiunga che, in ogni caso, l’art. 21-octies della norma sul procedimento amministrativo espressamente esclude l’annullabilità del provvedimento per omissione della comunicazione in esame “qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Tuttavia, quanto alla consistenza dell’onere probatorio posto a carico dell’Amministrazione, l’orientamento prevalente in giurisprudenza, dal quale questo Collegio non ha ragione di discostarsi, è quello per cui “onde evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento, risulta preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi dell’omessa comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione, la P.A. sarà gravata del ben più consistente onere di dimostrare che anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che, ove il ricorrente si limiti a dedurre la mancata comunicazione di avvio per contestare la legittimità del provvedimento adottato dall’Amministrazione, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre alla stessa, il motivo di cui si lamenta comunicazione deve ritenersi inammissibile” (cfr. TAR Veneto, Venezia, Sez. III, 12.04.2018, n. 391).
Ne deriva, dunque, l’infondatezza di tale censura anche alla luce dell’omessa allegazione, da parte della società in epigrafe, dei presunti elementi che, qualora tempestivamente sottoposti al vaglio della P.A. procedente, avrebbero potuto determinare un differente esito dell’istruttoria.
Da ultimo, non coglie nel segno il profilo di asserita illegittimità dell’impugnato provvedimento di annullamento in autotutela per carenza dei presupposti di cui all’art. 21-nonies, posto che lo stesso risulta adeguatamente motivato in ordine al pubblico e prevalente interesse sotteso al disposto annullamento e che il legittimo affidamento del privato risulta adeguatamente tutelato mediante il celere esercizio di tale potere, il cui termine ragionevole è fissato dalla legge in diciotto mesi.
Invero, per consolidata giurisprudenza amministrativa, “l'annullamento d'ufficio che intervenga entro breve tempo dall'adozione del provvedimento annullabile, quando le situazioni giuridiche coinvolte non si siano consolidate, è soggetto a un obbligo di motivazione attenuato. Si tratta di un provvedimento ad alto contenuto discrezionale, con il quale l'Amministrazione persegue la tutela dell'interesse pubblico nella sua dinamicità temporale” (cfr. TAR Roma, Lazio, sez. III, 21/12/2018, n. 12485), né tanto meno, in siffatta ipotesi, è richiesta la comparazione con l’interesse privato sacrificato, “posto che in presenza di tale circostanza l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto illegittimo può considerarsi in re ipsa” (cfr. TAR Venezia, Veneto, sez. I, 07/01/2019, n. 22).
In conclusione, l’accoglimento dell’eccezione preliminare di rito supra esaminata è di per sé idoneo e sufficiente a supportare la declaratoria di inammissibilità del ricorso in epigrafe, di per sé comunque, altresì, infondato nel merito.
Quanto al resto, le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, tra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663; sez. I, 27.12.2013 n. 28663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 03.01.2020 n. 5 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: 1.- Appalti Pubblici – bando di gara suddivisa in più lotti – carattere unitario della selezione – non sussiste.
In termini generali, e salvo le specificità di ciascun caso concreto, va affermato che il bando di una gara suddivisa in lotti costituisce un atto ad oggetto plurimo e determina l'indizione non di un'unica gara, ma di tante gare, per ognuna delle quali vi è un'autonoma procedura, che si conclude con un'aggiudicazione.
La scelta legislativa di cui all’art. 120, comma 11-bis, c.p.a. costituisce il corollario obbligato di tale premessa: se, infatti, non si ponesse un problema di pluralità di atti (o di atti plurimi), neppure dovrebbe porsi la questione del ricorso plurimo, in quanto l’atto sarebbe unico e risponderebbe alla regola generale del processo amministrativo impugnatorio in forza della quale il ricorso deve avere ad oggetto un solo provvedimento e i vizi-motivi si debbono correlare strettamente a questo.
Invece, proprio in considerazione della sussistenza di una pluralità di provvedimenti, è stato codificato un orientamento -già consolidato della giurisprudenza del giudice amministrativo-, attraverso il summenzionato l'art. 120, comma 11-bis, c.p.a., secondo cui l'ammissibilità del ricorso cumulativo degli atti di gara pubblica resta subordinata all'articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara, la composizione della Commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti aggiudicazioni.
Ne consegue che, nel caso di gara a più lotti, le concorrenti partecipino al solo o ai soli lotti per i quali presentino l’offerta: posto che il perimetro della partecipazione delinea l’ambito della legittimazione deve ritenersi inammissibile il ricorso volto a contestare segmenti procedurali non riguardanti i lotti interessati dall’offerta presentata
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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SENTENZA
13.1. Prioritariamente il Collegio esamina la censura dell’appellante Mo., controinteressata in primo grado, di erronea, illogica e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo per una pluralità di lotti per violazione dell’art. 120, comma 11-bis, c.p.a., anche perché il TAR avrebbe omesso di considerare che la ricorrente in primo grado non ha presentato domanda per i lotti 2, 4 e 6 e, in relazione ai restanti lotti, 1, 3 e 5, la posizione della medesima è sub iudice.
Così facendo Mo. ha giustapposto due eccezioni di diverso tenore, relative all’asserita violazione dell’art. 120, comma 11-bis, c.p.a. e alla carenza di legittimazione di K. in riferimento alle gare relative ai lotti per i quali non risulta essere candidata.
13.2. Il Collegio ritiene che debba essere prioritariamente esaminata la censura relativa alla (parziale) carenza di legittimazione di K. in ragione della radicalità del vizio (Ad. Plen. 5 del 2015), attinente alla sussistenza della condizione di ammissibilità della legittimazione a ricorrere.
La censura deve essere accolta.
Sulla scorta di una consolidata giurisprudenza, richiamata, fra l’altro, nell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2018, la legittimazione a impugnare gli atti di gara è ancorata, salvo le poche eccezioni individuate dalla giurisprudenza, che non ricorrono nella presente controversia, alla partecipazione alla gara.
L’applicazione della suddetta regola al caso controverso richiede di valutare preliminarmente come si concretizza la nozione di partecipazione alla gara in relazione a una procedura selettiva articolata in più lotti. Si tratta, cioè, di verificare se la suddivisione in lotti determina una moltiplicazione delle procedure o se la gara permane unitaria.
In termini generali, e salvo le specificità di ciascun caso concreto, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che il bando di una gara suddivisa in lotti costituisce un atto ad oggetto plurimo e determina l'indizione non di un'unica gara, ma di tante gare, per ognuna delle quali vi  è un'autonoma procedura, che si conclude con un'aggiudicazione (Cons. St., sez. III, 15.05.2018, n. 2892).
La scelta legislativa di cui all’art. 120, comma 11-bis, c.p.a. costituisce il corollario obbligato di tale premessa. Se, infatti, non si ponesse un problema di pluralità di atti (o di atti plurimi), neppure dovrebbe porsi la questione del ricorso plurimo, in quanto l’atto sarebbe unico e risponderebbe alla regola generale del processo amministrativo impugnatorio in forza della quale il ricorso deve avere ad oggetto un solo provvedimento e i vizi-motivi si debbono correlare strettamente a questo.
Invece, proprio in considerazione della sussistenza di una pluralità di provvedimenti, è stato codificato un orientamento già consolidato della giurisprudenza del giudice amministrativo (Cons. St., sez. III, 04.02.2016, n. 449) attraverso l'art. 120, comma 11-bis, c.p.a., secondo cui l'ammissibilità del ricorso cumulativo degli atti di gara pubblica resta subordinata all'articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara, la composizione della Commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti aggiudicazioni (Cons. St., sez. III, 03.07.2019, n. 4569).
In ragione di quanto argomentato appena sopra il Collegio ritiene che, nel caso di gara a più lotti, le concorrenti partecipino al solo o ai soli lotti per i quali presentano l’offerta.
Posto che il perimetro della partecipazione delinea l’ambito della legittimazione (Ad. Plen. n. 9 del 2014) deve ritenersi inammissibile il ricorso volto a contestare segmenti procedurali non riguardanti i lotti interessati dall’offerta presentata.
Del resto, neppure si comprende di quale interesse potrebbe essere portatore colui che pretende di far annullare un atto che nega un bene della vita che costui non manifesta di voler conseguire, non partecipando alla procedura finalizzata a ottenerlo (ordinanza CGA n. 325 del 2019, richiamata in fatto) (CGARS, sentenza 03.01.2020 n. 2 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVIIl Collegio intende dare continuità all’indirizzo giurisprudenziale in forza del quale:
   - la nozione di controinteressato all'accesso è data dall'art. 22, comma 1, lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, per il quale sono ‘controinteressati’ ‘tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza’; il che avviene quando vi sia un soggetto titolare di un diritto alla riservatezza dei dati racchiusi nel documento;
   - l’Amministrazione deve valutare l'esistenza di controinteressati ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184, per il quale, “fermo quanto previsto dall'articolo 5, la pubblica amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione”;
   - se, nel procedimento avviato dall'istanza di accesso ai documenti, l'Amministrazione individua un controinteressato, a quel soggetto dovrà essere notificato l'eventuale ricorso proposto dall'istante avverso il rifiuto all'accesso adottato dall'amministrazione (ovvero avverso il silenzio); per converso, nel caso in cui l'Amministrazione non abbia in sede procedimentale individuato alcun controinteressato, l'istante non sarà onerato a notificare il ricorso, a pena di sua inammissibilità, ad alcun controinteressato;
   - qualora l'amministrazione, in sede procedimentale, non ravvisi posizioni di controinteresse rispetto alla domanda di accesso e, dunque, l'istante non sia tenuto a notificare il ricorso ad altri oltre all'Amministrazione, il giudice adito deve valutare comunque, anche d'ufficio, l'esistenza di controinteressati e imporre la notifica del ricorso di primo grado ai fini dell’integrazione del contraddittorio;
   - dall'art. 3, comma 1, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 emerge che, in sede giurisdizionale, non può essere dichiarato inammissibile il ricorso per l'accesso, per mancata notifica al controinteressato, quando l’Amministrazione, in sede procedimentale, non abbia consentito la partecipazione di altri soggetti suscettibili di essere pregiudicati dall'accoglimento dell’istanza di accesso, che acquisterebbero la qualifica di controinteressati nel caso di impugnazione del conseguente diniego: in tali ipotesi -ove ravvisi posizioni di controinteresse – il giudice adito è tenuto a imporre la notifica del ricorso di primo grado alla parte controinteressata, al fine di integrare il relativo contraddittorio processuale.
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In via generalizzata, la parte controinteressata viene individuata nel soggetto, individuato o facilmente individuabile sulla base del provvedimento impugnato, titolare di un interesse eguale e contrario a quello azionato dal ricorrente principale –e, quindi, di un interesse al mantenimento della situazione esistente, messa in forse dal ricorso, fonte di una posizione qualificata meritevole di tutela conservativa- suscettibile di essere pregiudicato dall’eventuale emissione di una sentenza di accoglimento del ricorso.
Come osservato, con riferimento alla materia dell’accesso ai documenti amministrativi deve, in particolare, ritenersi ‘controinteressato’ colui che vedrebbe compromesso il proprio diritto alla riservatezza dall’ostensione del documento richiesto.
Trattasi di nozione ricavabile:
   - dall’art. 22, comma 1, lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, secondo cui i controinteressati devono individuarsi in tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza;
   - dall’art. 5-bis D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 che, in materia di accesso civico, prevede tra gli interessi qualificati, in funzione ostativa all’accesso, la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza della corrispondenza, nonché gli interessi economici e commerciali del singolo, suscettibili di essere pregiudicati dall’ostensione del documento oggetto di accesso;
   - dall’art. 53, comma 5, lett. a), D.Lgs. n. 50/2016 che, in materia di appalti pubblici, accorda tutela alle informazioni fornite nell’ambito dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali.
A prescindere dai rapporti intercorrenti fra le esigenze di trasparenza amministrativa e di tutela giuridica degli istanti, sottese all’istanza di accesso, e le esigenze di tutela della riservatezza, poste a garanzia della posizione del controinteressato –variamente ricostruibili a seconda del regime giuridico di accesso concretamente rilevante– in ogni caso, deve riconoscersi una posizione di controinteresse in capo a colui che, in quanto titolare di dati personali ovvero di segreti commerciali o tecnici suscettibili di essere disvelati dall’ostensione del documento richiesto, dall’accoglimento dell’istanza di accesso subirebbe un pregiudizio nella propria sfera giuridica, sub specie di diritto alla riservatezza di dati racchiusi nel relativo documento.
Trattasi, pertanto, di posizione qualificata e differenziata, in quanto, da un lato, presa in considerazione dal legislatore nel regolare la materia dell’accesso ai documenti amministrativi, dall’altro, imputabile ad un soggetto direttamente inciso dall’azione amministrativa, titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva (diritto alla riservatezza) correlata allo specifico documento oggetto di accesso.
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1. In via pregiudiziale, attenendo alla corretta instaurazione del contraddittorio processuale -presupposto di validità del giudizio, necessario per poter esaminare il merito della controversia– occorre pronunciare sul capo di sentenza con cui il Tar, escludendo che il Ci. rivestisse la qualità di contoininteressato, ha (implicitamente) ritenuto ammissibile il ricorso di prime cure: trattasi di statuizione censurata sia dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca con il primo motivo di appello, sia dal Ci. con il primo motivo di opposizione di terzo, valevole altresì come atto di intervento ex art. 109, comma 2, c.p.a.
In subiecta materia, anche ai sensi dell’art. 88, comma 2, lettera d), del codice del processo amministrativo, il Collegio intende dare continuità all’indirizzo giurisprudenziale (cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 04.0.2019, n. 6719), in forza del quale:
   - la nozione di controinteressato all'accesso è data dall'art. 22, comma 1, lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, per il quale sono ‘controinteressati’ ‘tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza’; il che avviene quando vi sia un soggetto titolare di un diritto alla riservatezza dei dati racchiusi nel documento;
   - l’Amministrazione deve valutare l'esistenza di controinteressati ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184, per il quale, “fermo quanto previsto dall'articolo 5, la pubblica amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione”;
   - se, nel procedimento avviato dall'istanza di accesso ai documenti, l'Amministrazione individua un controinteressato, a quel soggetto dovrà essere notificato l'eventuale ricorso proposto dall'istante avverso il rifiuto all'accesso adottato dall'amministrazione (ovvero avverso il silenzio); per converso, nel caso in cui l'Amministrazione non abbia in sede procedimentale individuato alcun controinteressato, l'istante non sarà onerato a notificare il ricorso, a pena di sua inammissibilità, ad alcun controinteressato;
   - qualora l'amministrazione, in sede procedimentale, non ravvisi posizioni di controinteresse rispetto alla domanda di accesso e, dunque, l'istante non sia tenuto a notificare il ricorso ad altri oltre all'Amministrazione, il giudice adito deve valutare comunque, anche d'ufficio, l'esistenza di controinteressati e imporre la notifica del ricorso di primo grado ai fini dell’integrazione del contraddittorio;
   - dall'art. 3, comma 1, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 emerge che, in sede giurisdizionale, non può essere dichiarato inammissibile il ricorso per l'accesso, per mancata notifica al controinteressato, quando l’Amministrazione, in sede procedimentale, non abbia consentito la partecipazione di altri soggetti suscettibili di essere pregiudicati dall'accoglimento dell’istanza di accesso, che acquisterebbero la qualifica di controinteressati nel caso di impugnazione del conseguente diniego: in tali ipotesi -ove ravvisi posizioni di controinteresse – il giudice adito è tenuto a imporre la notifica del ricorso di primo grado alla parte controinteressata, al fine di integrare il relativo contraddittorio processuale.
Alla stregua di tali coordinate ermeneutiche, preliminarmente, occorre verificare se nella specie sia corretta la decisione del Tar di non ritenere il Ci. parte controinteressata nel presente giudizio; in caso di riscontrata erroneità della relativa statuizione, sarà necessario verificare se l’omessa evocazione in primo grado del Ci. abbia comportato l’inammissibilità del ricorso, come dedotto dal Miur e dal Ci., ovvero abbia determinato la violazione del contraddittorio processuale, fattispecie rilevante ai fini della rimessione della causa al primo giudice ai sensi dell’art. 105 c.p.a.
2. Con riferimento al primo profilo di indagine, il Collegio ritiene che il Ci. sia da considerare parte controinteressata in relazione al ricorso ex art. 116 c.p.a. proposto in prime cure.
In via generalizzata, la parte controinteressata viene individuata nel soggetto, individuato o facilmente individuabile sulla base del provvedimento impugnato, titolare di un interesse eguale e contrario a quello azionato dal ricorrente principale –e, quindi, di un interesse al mantenimento della situazione esistente, messa in forse dal ricorso, fonte di una posizione qualificata meritevole di tutela conservativa- suscettibile di essere pregiudicato dall’eventuale emissione di una sentenza di accoglimento del ricorso (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 06.06.2019, n. 3911).
Come osservato, con riferimento alla materia dell’accesso ai documenti amministrativi deve, in particolare, ritenersi ‘controinteressato’ colui che vedrebbe compromesso il proprio diritto alla riservatezza dall’ostensione del documento richiesto.
Trattasi di nozione ricavabile:
   - dall’art. 22, comma 1, lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, secondo cui i controinteressati devono individuarsi in tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza;
   - dall’art. 5-bis D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 che, in materia di accesso civico, prevede tra gli interessi qualificati, in funzione ostativa all’accesso, la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza della corrispondenza, nonché gli interessi economici e commerciali del singolo, suscettibili di essere pregiudicati dall’ostensione del documento oggetto di accesso;
   - dall’art. 53, comma 5, lett. a), D.Lgs. n. 50/2016 che, in materia di appalti pubblici, accorda tutela alle informazioni fornite nell’ambito dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali.
A prescindere dai rapporti intercorrenti fra le esigenze di trasparenza amministrativa e di tutela giuridica degli istanti, sottese all’istanza di accesso, e le esigenze di tutela della riservatezza, poste a garanzia della posizione del controinteressato –variamente ricostruibili a seconda del regime giuridico di accesso concretamente rilevante (nella specie, la parte appellata ha comunque fatto riferimento, in primo grado, sia all’accesso documentale ex art. 22 e ss. L. n. 241/1990, sia all’accesso civico ex art. 5 D.Lgs. 14.03.2013, n. 33)– in ogni caso, deve riconoscersi una posizione di controinteresse in capo a colui che, in quanto titolare di dati personali ovvero di segreti commerciali o tecnici suscettibili di essere disvelati dall’ostensione del documento richiesto, dall’accoglimento dell’istanza di accesso subirebbe un pregiudizio nella propria sfera giuridica, sub specie di diritto alla riservatezza di dati racchiusi nel relativo documento.
Trattasi, pertanto, di posizione qualificata e differenziata, in quanto, da un lato, presa in considerazione dal legislatore nel regolare la materia dell’accesso ai documenti amministrativi, dall’altro, imputabile ad un soggetto direttamente inciso dall’azione amministrativa, titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva (diritto alla riservatezza) correlata allo specifico documento oggetto di accesso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.01.2020 n. 30 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Richiesta, nel procedimento di verifica di anomalia, di fatture e non di preventivi a giustificazione dei prezzi offerti.
Il TAR Milano ritiene non irragionevole la scelta della stazione appaltante, nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta, a fronte dei rilevanti scostamenti tra i prezzi offerti dal concorrente rispetto a quelli di mercato, di non ritenere sufficiente la loro giustificazione mediante “preventivi” e, pertanto, di mere proposte contrattuali provenienti da terzi, in luogo di “fatture” e, dunque, di documenti che comprovino l’avvenuta esecuzione di un contratto a determinate condizioni, rispondendo questa scelta all’esigenza di tutelare la stazione appaltante da offerte eccessivamente basse senza risultare discriminatoria, in quanto riferita a materiali di uso comune e facilmente reperibili (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 02.01.2020 n. 9 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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   I) In via preliminare, il Collegio dà atto che, in sede di verifica di anomalia, la Commissione ha rilevato che per alcune voci di prezzo la ricorrente ha indicato costi che presentano scostamenti significativi rispetto a quelli dei materiali/attrezzature che compongono le lavorazioni poste a base di gara, richiedendo conseguentemente “la presentazione di recenti fatture di acquisto quietanziate, da cui risulti il costo dichiarato per le quantità necessarie e similari a quelle poste a base di gara, a garanzia della qualità, congruità ed affidabilità dell’offerta” (verbale n. 1 del 21.2.2019).
A fronte della mancata presentazione delle richieste fatture, la Commissione ha pertanto ritenuto non giustificati i valori indicati nell’offerta della ricorrente, che è stata conseguentemente giudicata anomala, in particolare, rispetto ai costi indicati per i materiali, per un importo di € 75.642,38 (v. verbale n. 2 del 20.03.2019).
   II) Secondo la ricorrente, l’operato della stazione appaltante sarebbe tuttavia illegittimo, per aver preteso la produzione di fatture di acquisto quietanziate, e per non aver accettato, in loro mancanza, preventivi dei fornitori.
Ritiene il Collegio che il ricorso vada respinto atteso che, come già evidenziato in sede cautelare, nell’ambito del limitato sindacato giurisdizionale esercitabile dal g.a. in materia di anomalia dell’offerta, la richiesta di giustificare talune voci mediante la produzione di fatture non sia irragionevole, in quanto finalizzata alla necessità di verificare l’effettiva reperibilità sul mercato di taluni materiali, alle condizioni particolarmente favorevoli allegate dalla ricorrente, né particolarmente gravosa, alla luce del loro ampio utilizzo e diffusione sul mercato (ad es. ghiaia).
Sulla questione il Collegio si è peraltro già pronunciato in più occasioni, in cui, malgrado le inevitabili peculiarità delle relative fattispecie, evidenziate dalla ricorrente nella propria memoria finale, gli istanti deducevano l’illegittimità della richiesta del Comune di Milano, di giustificare la propria offerta mediante la produzione di fatture (TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 16.12.2015 n. 2672, 12.05.2017 n. 1095) analogamente a quanto ha luogo nel presente giudizio.
   III) Malgrado la ricorrente deduca che “la giurisprudenza ritiene pacificamente ammissibile la produzione di preventivi a giustificazione di talune voci di costo dell’offerta”, come del resto dalla stessa correttamente osservato, l’oggetto del presente giudizio è “la legittimità della decisione della p.a. di richiedere necessariamente ed esclusivamente le fatture” (v. pag. 3 memoria finale), e non invece la legittimità di un giudizio di anomalia fondato sulla produzione di preventivi, ciò che, in taluni casi, e nell’ambito della sua discrezionalità, una stazione appaltante può certamente consentire.
Come già evidenziato, il sindacato del g.a. sulle valutazioni amministrative caratterizzate da discrezionalità tecnica è di tipo “debole”, e pertanto circoscritto ai soli casi di manifesta e macroscopica erroneità, irragionevolezza o arbitrarietà, ovvero di motivazione fondata su palese e manifesto travisamento dei fatti, laddove siano sintomatiche di un uso della discrezionalità tecnica distorto e contrario ai principi di efficacia, economicità e buon andamento, in presenza del quale, soltanto, è consentito l'intervento caducatorio dell'autorità giurisdizionale (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 03.12.2018, n. 11691).
Nel caso di specie, a fronte dei rilevanti scostamenti tra i prezzi offerti dalla ricorrente rispetto a quelli di mercato, la scelta del Comune di non ritenere sufficiente la loro giustificazione mediante “preventivi”, e pertanto, di mere proposte contrattuali provenienti da terzi, in luogo di “fatture”, e dunque di documenti che comprovino l’avvenuta esecuzione di un contratto a determinate condizioni, non è certamente irragionevole, rispondendo infatti all’esigenza di tutelare la stazione appaltante da offerte eccessivamente basse, né discriminatoria, in quanto riferita a materiali di uso comune e facilmente reperibili.
   IV) Infine, evidenzia il Collegio che la lex specialis si limitava a prevedere che “le giustificazioni e i relativi documenti a corredo (fatture, preventivi, ecc.), dovranno essere presentate su supporto informatico”, con ciò prescrivendo le relative modalità di documentazione, senza invece vincolare la stazione appaltante ad un giudizio di equipollenza tra le due forme.
In conclusione, il ricorso va pertanto respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Non occorre il permesso di costruire per la costruzione di box di ricovero per cani randagi. Inoltre, la recinzione può essere considerata costruzione -e come tale subordinata al previo rilascio di titolo abilitativo- solo nei casi in cui sia stabilmente infissa al suolo.
Nel caso di specie trattasi della realizzazione, senza titolo edilizio, di "recinti realizzati con rete metallica a maglie larghe fissata a supporti verticali in legno di castagno stagionato infissi semplicemente al suolo per circa 40/50 cm, senza l’utilizzo di malta o calcestruzzo cementizio, e che affiorano a giorno per una altezza pari a circa mt 2.20, sormontati in parte da lamiere sandwich ed in parte da vegetazione rampicante, al fine di proteggere gli animali dalla calura estiva e dagli eventi meteorici, senza pavimentazioni rigide o impermeabili sul piano di campagna, risultando l’intera area costituita da terreno vegetale secondo l’originario stato dei luoghi”.
Le peculiari caratteristiche costruttive dei recinti contestati, come descritte, sono tali da configurarli come entità precarie, amovibili, prive di impatto paesaggistico, e volumetrico.
Ne deriva che non risulta adeguatamente considerata dall’amministrazione comunale la natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione, rivolta alla cura e ricovero di animali randagi ed abbandonati, attraverso la realizzazione di manufatti di precaria installazione e di facile asportazione, e non è sufficientemente motivata la ritenuta necessità del titolo abilitativo, richiesto per costruzioni stabili e con ingombro volumetrico.
Corrobora tale configurazione la mancanza di una sostanziale modifica del suolo, atteso che, secondo le attestazioni della perizia di parte in atti, il piano di campagna non risulta alterato da pavimentazioni rigide o impermeabili, risultando per l’intera area costituito da terreno vegetale .
In proposito la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire che una recinzione può essere considerata costruzione e come tale subordinata al previo rilascio di titolo abilitativo, solo nei casi in cui sia stabilmente infissa al suolo.
Ed ancora: “La recinzione metallica (nella specie: di alcuni box per il ricovero dei cani) non è qualificabile come costruzione, in quanto non sviluppa volumetrie e non determina un ingombro paragonabile a quello delle costruzioni in muratura. Essa non soggiace, pertanto, alla normativa sulle distanze tra edifici, la quale si riferisce, in relazione all'interesse tutelato, ad opere che, per la loro consistenza, abbiano l'idoneità a creare intercapedini pregiudizievoli alla sicurezza ed alla salubrità del godimento della proprietà fondiaria”.
Ne consegue che la sanzione demolitoria inflitta dall’amministrazione comunale non risulta sorretta da motivazione idonea che ne giustifichi la adeguatezza e proporzionalità rispetto alla precarietà, ed assenza di volumetria edilizia urbanisticamente rilevante in relazione alle caratteristiche costruttive .
Neppure è stata motivata la necessità, nella fattispecie in esame, del nulla osta paesaggistico, trattandosi di recinzioni costituite da una rete metallica e da paletti di legno infissi nel terreno, di natura precaria e di consistenza e di dimensioni ridotte, aventi la funzione di dividere i cani randagi, senza l’intervento di opere murarie, in quanto si tratta di opere prive di apprezzabile impatto ambientale.
Né può ritenersi a priori la incompatibilità delle opere con la destinazione urbanistica di zona, nella specie agricola. Invero, la destinazione agricola di una zona comporta che la stessa non può essere destinata ad insediamento abitativo residenziale, ma non preclude l’istallazione di opere quali nella specie, un ricovero e/o rifugio per cani randagi, per il quale la venga ubicato in aperta campagna e, quindi, in zona agricola, salvo che il piano regolatore generale non preveda apposite localizzazioni.
La destinazione a zona agricola di un'area non impone un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, avendo lo scopo di evitare insediamenti residenziali; essa, pertanto, non costituisce ostacolo all'installazione di opere che non riguardino tale tipologia edilizia e che, per contro, siano incompatibili con zone abitate e da realizzare necessariamente in aperta campagna (nella specie, un canile municipale).
Conclusivamente, il gravato atto risulta viziato per difetto di istruttoria e di motivazione, non avendo l’amministrazione intimata adeguatamente valutato l’entità e della tipologia dell'abuso contestato, e per l’effetto va annullato.
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... per l'annullamento del provvedimento n. 61 del 07/06/2016 di sospensione lavori e ripristino dello stato dei luoghi spedito a fronte della realizzazione di un canile in un’area agricola, realizzato con box in legno per il ricovero di cani randagi su circa 600 m² di superficie.
...
Parte ricorrente, nella spiegata qualità, insorge avverso il provvedimento di sospensione lavori e ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi spedito a fronte della realizzazione di un canile in un’area agricola, realizzato con box in legno per il ricovero di cani randagi su circa 600 m² di superficie, privi di titolo autorizzativo e privi di autorizzazione paesaggistica.
Assume che non sono opere edilizie rilevanti in termine di superficie e volumi, in quanto finalizzate ai soccorsi ed all’assistenza di cani randagi e nega nello specifico che si tratti di box in legno affermando che sono solo recinzioni metalliche senza alcun ingombro, di colore neutro, non chiusi e circoscrivono una superficie di terreno tra pali di castagno stagionato infissi in terra, coperti con lamiere di colore neutro ad un’altezza di circa 2,20 m, ricoperti da vegetazione rampicante per riparare i cani dalla calura estiva. In quanto opere precarie, prive di impatto paesaggistico e facilmente rimovibili, non potrebbero essere oggetto della disposta misura sanzionatoria.
In subordine, trattandosi al più di opere soggette a DIA, sarebbe stata applicabile la semplice sanzione pecuniaria.
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Il presente ricorso verte sulla legittimità dell’ordine di demolizione spedito nei confronti della ricorrente a fronte della realizzazione di opere su un fondo agricolo, specificamente trentadue box in legno per ricovero di cani randagi su una superficie di circa 600 mq., contestati a seguito di rapporto dalla Polizia municipale del 22.09.2014, prot. P-61-14.
Non è contestato che la ricorrente è una Associazione di Volontariato E.I.P.A. Onlus – Ente Italiano Protezione Animali – Sezione Napoli – senza scopi di lucro. La stessa, ispirandosi ai principi di solidarietà sociale, si prefigge una serie di obiettivi tra cui: a) sostenere le persone che, nella gestione di propri animali o accudendo quelli senza proprietario, vengono a trovarsi in difficoltà; b) operare concretamente in difesa degli animali e dei loro diritti; c) sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere una cultura del rispetto che riconosca gli animali come soggetti di diritto.
La stessa deduce che, al fine di perseguire i propri obiettivi associativi, in data 19.08.2014 stipulava con il Sig. Io.Sa.Pa., nella qualità di proprietario, un contratto di affitto avente ad oggetto una porzione, di circa are 35,00, del fondo rustico di are 49,11, sito in Via ... snc, convenendo la durata in anni nove, decorrente dal 01.09.2014, e che sullo stesso realizzava una serie di opere finalizzate al soccorso ed all’assistenza, a cura di volontari ed a titolo gratuito, di cani randagi, abbandonati o maltrattati, nel territorio del circondario di Somma Vesuviana.
Dette opere sono state tuttavia sanzionate dalla intimata amministrazione comunale, ravvisandovi violazioni edilizie e paesaggistiche.
Assume parte ricorrente con un’unica articolata censura che le stesse non costituisco un’entità edilizia, necessitante di titolo abilitativo, trattandosi di semplici recinzioni metalliche, non qualificabili come ‘box/costruzioni’ in legno, atteso che non sviluppano alcuna volumetria e non determinano un ingombro paragonabile a quello delle costruzioni in senso proprio, allegando foto e relazione tecnica di parte.
Osserva il Collegio che, pur essendo stata respinta la domanda cautelare con ordinanza in data 08.11.2016, nella presente sede di merito sono venuti in rilievo elementi tali da indurre ad una differente valutazione delle opere, a seguito di una più approfondita disamina del materiale probatorio offerto da parte ricorrente, non avendo l’amministrazione intimata fornito ulteriori apporti oltre ai riscontri emergenti dall’atto impugnato, in quanto non costituita in giudizio.
Occorre invero esaminare la consistenza e caratteristiche delle opere contestate, per valutare se le stesse possano determinare trasformazione del territorio sia a fini urbanistici che paesistico–ambientali anche in virtù del vincolo di cui al d.lgs. 22.1.2004 n. 42 gravante sull’area in questione con dichiarazione di notevole interesse pubblico operata con D.M. 26.01.1961.
Al riguardo il verbale di accertamento, pur dando atto che si tratta di strutture per il ricovero di cani randagi, descrive le stesse come 32 box in legno, su una superficie di circa mq. 600,00, adoperando un termine che in sé caratterizza strutture chiuse e volumetricamente rilevanti.
Per contro, facendo riferimento a quanto risultante dalla perizia di parte in atti con allegata documentazione fotografica, emerge che quanto eseguito consiste in recinzioni metalliche, non propriamente ‘box/costruzioni’ in legno, atteso che non sviluppano alcuna volumetria e non determinano un ingombro paragonabile a quello delle costruzioni in senso proprio, anche in considerazione della loro funzione .
La descrizione contenuta nei provvedimenti gravati, in cui si parla di «n. 32 box realizzati in legno» non è corredata da ulteriori elementi descrittivi, né da documentazione fotografica, e sotto tale aspetto, per la sua genericità, non appare idonea a contrastare le risultanze della relazione tecnica di parte ricorrente redatta dall’ing. Fr.Ro. del 07.10.2016, ove si descrivono compiutamente le caratteristiche costruttive, come recinzioni metalliche sorrette tra pali di castagno stagionato infissi nella terra per circa 40/50 cm, facilmente rimovibili, e quindi precarie.
Attesta in particolare la perizia che non risulta utilizzata né malta né calcestruzzo cementizio, ma solo una rete metallica a maglie larghe di colore neutro sorretta da paletti in legno infissi nella terra.
Si precisa trattarsi di: "recinti realizzati con rete metallica a maglie larghe fissata a supporti verticali in legno di castagno stagionato infissi semplicemente al suolo per circa 40/50 cm, senza l’utilizzo di malta o calcestruzzo cementizio, e che affiorano a giorno per una altezza pari a circa mt 2.20, sormontati in parte da lamiere sandwich ed in parte da vegetazione rampicante, al fine di proteggere gli animali dalla calura estiva e dagli eventi meteorici, senza pavimentazioni rigide o impermeabili sul piano di campagna, risultando l’intera area costituita da terreno vegetale secondo l’originario stato dei luoghi, così come si evince dalla documentazione”.
Le peculiari caratteristiche costruttive dei recinti contestati, come descritte, sono tali da configurarli come entità precarie, amovibili, prive di impatto paesaggistico, e volumetrico.
Ne deriva che non risulta adeguatamente considerata dall’amministrazione comunale la natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione, rivolta alla cura e ricovero di animali randagi ed abbandonati, attraverso la realizzazione di manufatti di precaria installazione e di facile asportazione, e non è sufficientemente motivata la ritenuta necessità del titolo abilitativo, richiesto per costruzioni stabili e con ingombro volumetrico.
Corrobora tale configurazione la mancanza di una sostanziale modifica del suolo, atteso che, secondo le attestazioni della perizia di parte in atti, il piano di campagna non risulta alterato da pavimentazioni rigide o impermeabili, risultando per l’intera area costituito da terreno vegetale.
In proposito la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire che una recinzione può essere considerata costruzione e come tale subordinata al previo rilascio di titolo abilitativo, solo nei casi in cui sia stabilmente infissa al suolo (Cfr. Cons. Stato, sez. II, 08.01.1989, n. 1396; Tar Piemonte, Torino, sez. II, 07.11.2014, n. 1764).
Ed ancora: “La recinzione metallica (nella specie: di alcuni box per il ricovero dei cani) non è qualificabile come costruzione, in quanto non sviluppa volumetrie e non determina un ingombro paragonabile a quello delle costruzioni in muratura. Essa non soggiace, pertanto, alla normativa sulle distanze tra edifici, la quale si riferisce, in relazione all'interesse tutelato, ad opere che, per la loro consistenza, abbiano l'idoneità a creare intercapedini pregiudizievoli alla sicurezza ed alla salubrità del godimento della proprietà fondiaria” (Cfr. Cass. Civile sentenza n. 5956/1996 e Tribunale Amministrativo Regionale Puglia-Lecce, Sezione 3, Sentenza 14.11.2012, n. 1881).
Ne consegue che la sanzione demolitoria inflitta dall’amministrazione comunale non risulta sorretta da motivazione idonea che ne giustifichi la adeguatezza e proporzionalità rispetto alla precarietà, ed assenza di volumetria edilizia urbanisticamente rilevante in relazione alle caratteristiche costruttive.
Neppure è stata motivata la necessità, nella fattispecie in esame, del nulla osta paesaggistico, trattandosi di recinzioni costituite da una rete metallica e da paletti di legno infissi nel terreno, di natura precaria e di consistenza e di dimensioni ridotte, aventi la funzione di dividere i cani randagi, senza l’intervento di opere murarie, in quanto si tratta di opere prive di apprezzabile impatto ambientale (Cfr. Tar Piemonte I, 15.02.2010 n. 950; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 08.05.2007, n. 4821; Tar Lazio Roma, sentenza 27.05.2013, n. 5276).
Né può ritenersi a priori la incompatibilità delle opere con la destinazione urbanistica di zona, nella specie agricola. Invero, la destinazione agricola di una zona comporta che la stessa non può essere destinata ad insediamento abitativo residenziale, ma non preclude l’istallazione di opere quali nella specie, un ricovero e/o rifugio per cani randagi, per il quale la venga ubicato in aperta campagna e, quindi, in zona agricola, salvo che il piano regolatore generale non preveda apposite localizzazioni (Cfr. Tar Napoli, Sez. II, 09.11.2006/21.11.2006, n. 10065).
La destinazione a zona agricola di un'area non impone un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, avendo lo scopo di evitare insediamenti residenziali; essa, pertanto, non costituisce ostacolo all'installazione di opere che non riguardino tale tipologia edilizia e che, per contro, siano incompatibili con zone abitate e da realizzare necessariamente in aperta campagna (nella specie, un canile municipale - TAR Campania-Napoli, Sezione III Sentenza 13.04.2011, n. 2135).
Conclusivamente, il gravato atto risulta viziato per difetto di istruttoria e di motivazione, non avendo l’amministrazione intimata adeguatamente valutato l’entità e della tipologia dell'abuso contestato, e per l’effetto va annullato (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 02.01.2020 n. 4 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa possibilità di esonero dal pagamento del contributo di costruzione indicata dall'art. 17 dpr 380/2001 individua tra le varie ipotesi anche quella della esistenza di un “interesse generale” (comma 3, lettera c) che richiede la concorrenza di due requisiti:
   - uno di carattere oggettivo, attinente al carattere pubblico o di interesse generale delle opere da realizzare, e
   - uno di carattere soggettivo, in quanto le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente o da privati che abbiano un legame istituzionale con l’azione dell’Amministrazione volti alla cura di interessi pubblici.
Non è dunque la sola destinazione che soggettivamente s’intende dare alla struttura sufficiente ai fini di beneficiare dell’esonero dal costo di costruzione, ma la circostanza che oggettivamente la stessa abbia natura di interesse generale, ipotesi che può rinvenirsi quando l’opera non possa, neppure in astratto, avere una destinazione diversa da quella pubblica.
L'esenzione prevista dal citato art. 17 necessita, infatti, che l'opera, per la quale si chiede l'esenzione del pagamento degli oneri di urbanizzazione, sia, per le sue oggettive caratteristiche, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo a tempo indeterminato dell'intera collettività; ciò in quanto il pagamento degli oneri concessori, essendo finalizzato alla realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie al corretto assetto del territorio, costituisce un principio generale dell'ordinamento le cui eccezioni sono di stretta interpretazione.
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13.5. La possibilità di esonero indicata dal successivo art. 17, che individua tra le varie ipotesi anche quella della esistenza di un “interesse generale” (comma 3, lettera c), richiede infatti la concorrenza di due requisiti: uno di carattere oggettivo, attinente al carattere pubblico o di interesse generale delle opere da realizzare, ed uno di carattere soggettivo, in quanto le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente o da privati che abbiano un legame istituzionale con l’azione dell’Amministrazione volti alla cura di interessi pubblici (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 5942/2018).
13.6. Non è dunque la sola destinazione che soggettivamente s’intende dare alla struttura sufficiente ai fini di beneficiare dell’esonero dal costo di costruzione, ma la circostanza che oggettivamente la stessa abbia natura di interesse generale, ipotesi che può rinvenirsi quando l’opera non possa, neppure in astratto, avere una destinazione diversa da quella pubblica.
L'esenzione prevista dal citato art. 17 necessita infatti che l'opera, per la quale si chiede l'esenzione del pagamento degli oneri di urbanizzazione, sia, per le sue oggettive caratteristiche, esclusivamente finalizzata ad un utilizzo a tempo indeterminato dell'intera collettività; ciò in quanto il pagamento degli oneri concessori, essendo finalizzato alla realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie al corretto assetto del territorio, costituisce un principio generale dell'ordinamento le cui eccezioni sono di stretta interpretazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2394/2016) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.01.2020 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIRisalenza del tempo dei fatti sui quali si fonda l’interdittiva antimafia.
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Informativa antimafia – Presupposti –Fatti risalenti nel tempo – Irrilevanza ex se.
I fatti sui quali si fonda l’interdittiva antimafia possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione (21.01.2019, n. 515), che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenza’ dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.
Con riferimento poi alla presenza, all’interno della società, di soggetti vicini agli ambienti della mala, è sufficiente ricordare che proprio in relazione ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose la Sezione (07.02.2018, n. 820) ha affermato che l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto.
Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione.
Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza –su un’area più o meno estesa– del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.01.2020 n. 2 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
1. Oggetto del gravame è l’interdittiva antimafia, emessa, in data 16.03.2018, dalla Prefettura della Provincia di Crotone a carico della -OMISSIS- (d’ora in poi, -OMISSIS-) a seguito delle risultanze istruttorie riportate nell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva ex art. 292 c.p.p., emessa in data 28.12.2017 dal Gip del Tribunale ordinario di Catanzaro, nell’ambito del procedimento penale scaturito in esito all’operazione di Polizia giudiziaria denominata “-OMISSIS-”, che ha coinvolto una pluralità di indagati, tra cui anche la società -OMISSIS-.
Il Tar Catanzaro, dinanzi al quale la società aveva impugnato l’interdittiva, ha accolto il ricorso sul rilievo che dalle verifiche fatte svolgere alla Guardia di finanza non emerge il connotato di univocità agli elementi indiziari ricavati, in ordine alla soggezione all’ingerenza criminale, dai provvedimenti emessi in sede penale, con la conseguenza che, se è vero che il giudice amministrativo non può certo sostituire la propria valutazione a quelle operate, nell’ambito del procedimento penale, dall’Autorità giudiziaria competente, altrettanto vero è che il giudice amministrativo deve assicurare alla società ricorrente il diritto fondamentale alla difesa, e dunque non può omettere di considerare quei dati fattuali allegati dal soggetto colpito da informazione interdittiva per dimostrare l’insussistenza del condizionamento mafioso.
In altri termini il giudice di primo grado, richiamati correttamente i principi che sono alla base del sistema preventivo dell’interdittiva, ha concluso nel senso che alla luce degli esiti delle Guardia di finanza mancavano, nella specie, anche i meri indizi, questi sì necessari per far scattare la misura di prevenzione.
Il Collegio non condivide le conclusioni del primo giudice. Non ritiene infatti di poter escludere il tentativo di infiltrazione nella società appellata, che emerge dalle indagini del Gip del Tribunale ordinario di Catanzaro, nell’ambito del procedimento penale scaturito in esito all’operazione di Polizia giudiziaria denominata “-OMISSIS-” e riportate nell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva ex art. 292 c.p.p., emessa in data 28.12.2017. L’avversa conclusione del Tar poggia, infatti, sul diverso esito delle indagini che lo stesso aveva affidato alla Guardia di finanza, di durata e profondità necessariamente più limitata.
Dalle indagini penali è emerso, infatti, che la società appellata è tra quelle che hanno beneficiato dei favori del Sindaco del Comune di -OMISSIS- che, pur non essendo inserito stabilmente nella struttura organizzativa del sodalizio della ndragheta locale della famiglia -OMISSIS-, con la pressione o, comunque, l’approvazione delle cosche dominanti sul territorio, “poneva in essere tutta una serie di atti procedimentali al fine di far appaltare lavori a ditte controllate e/o indicate dalla stessa cosca e/o dai suoi fiancheggiatori e/o provvedendo, attraverso atti amministrativi e contabili, quali fittizi mandati di pagamento, ad assegnare a membri della famiglia … delle somme di denaro destinate apparentemente a ditte che svolgono servizi per l’Ente …”. Tra queste ditte, appunto, era compresa anche la società appellata, come risulta dalla lettura dell’ordinanza del Gip del Tribunale ordinario di Catanzaro del 28.12.2017.
Aggiungasi che, come emerge dagli stessi atti di causa, il legale rappresentante della società appellata –alla quale sono stati affidati nel Comune gli appalti di pulizia dei locali comunali, di mensa scolastica ed il trasporto scolastico– è -OMISSIS- di soggetto nei cui confronti è stata svolta attività estorsiva alla quale, da quanto è dato leggere dall’ordinanza del Gip, avrebbe ceduto.
2. Tutti gli elementi fattuali sopra descritti sono sufficienti a supportare l’informativa impugnata dinanzi al Tar Catanzaro, alla luce dei consolidati principi che governano tale materia, ben conosciuti dal giudice di primo grado che, pur avendoli correttamente richiamati, non ne ha fatto corretto uso.
E’ noto, infatti che l’informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.
Ha aggiunto la Sezione (-OMISSIS- del 2019) che lo stesso legislatore –art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011– ha riconosciuto quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.
Ha ancora chiarito la Sezione (05.09.2019, -OMISSIS-) che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell'art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f), d.lgs. n. 159 del 2011), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.
L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.
Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 04.01.2018, n. 111).
Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame.
Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.
La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. St., sez. III, 30.01.2019, -OMISSIS-).
E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi.
Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere il passo con il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legittimità sostanziale.
Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché «il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale» (Cass. pen., sez. II, 09.07.2018, n. 30974).
Al delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione di questo Consiglio di Stato non osta nemmeno, come sostiene l’appellante, l’orientamento assunto dalla Corte costituzionale nelle recenti sentenze n. 24 del 27.02.2019 e n. 195 del 24.07.2019, orientamento di cui, per la sua importanza sistematica anche nella materia della documentazione antimafia, occorre dare qui conto.
Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019, infatti, allorché si versi al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione».
Essenziale –nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (v., ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione quinta, sentenza 26.11.2011, Gochev c. Bulgaria; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 04.06.2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 20.05.2010, Lelas c. Croazia)– è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.
In tale direzione la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18.04.2018, n. 2343).
Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali –secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale– sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18.04.2018, n. 2343).
Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, va del resto qui ricordato, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale» (Cons. St., sez. III, 26.09.2017, n. 4483).
3. Ciò chiarito, con riferimento alla pregressa presenza, all’interno della società appellata, del signor -OMISSIS- -OMISSIS-, -OMISSIS- del legale rappresentante -OMISSIS- -OMISSIS-, è sufficiente ricordare che proprio in relazione ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose la Sezione (07.02.2018, n. 820) ha affermato che l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto.
Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione.
Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza –su un’area più o meno estesa– del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti.
Nel caso all’esame del Collegio il -OMISSIS- del legale rappresentante della società appellata -già titolare della stessa, ceduta al -OMISSIS- (il -OMISSIS- 2008) quando questi non aveva ancora raggiunto la maggiore età, ma ancora gestore di fatto- in data antecedente al 1998, quando era amministratore della società, sarebbe stato vittima di un’estorsione alla quale, da quanto emerge dall’ordinanza del Gip di Catanzaro, avrebbe ceduto, essendosi recato presso la filiale della -OMISSIS- dopo aver parlato con -OMISSIS-, condannata a 15 anni e 4 mesi nell’ambito dell’operazione di polizia -OMISSIS-.
Giova a tale proposito ricordare che alcune operazioni societarie possono disvelare un’attitudine elusiva della normativa antimafia ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con la pregressa gestione subendone, anche inconsapevolmente, i tentativi di ingerenza (Cons. St., sez. III, 27.11.2018, n. 6707; 07.03.2013, n. 1386).
Ancora priva di giuridico peso la circostanza che il fatto estorsivo che ha colpito il -OMISSIS- del legale rappresentante della società appellata risale al 1998.
E’, infatti, sufficiente sul punto richiamare il principio secondo cui i fatti sui quali si fonda tale misura di prevenzione possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.
Come chiarito dalla Sezione (21.01.2019, n. 515), il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica, cioè, la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenza’ dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.
Diversamente da quanto assume il giudice di primo grado, non può sottacersi il fatto che due dipendenti della società appellata siano legati da vincoli parentali a componenti alla cosca. Ove pure gli stessi fossero stati assunti con la cd. clausola sociale, non è offerto neanche un principio di prova del tentativo di non addivenire a tali assunzioni né rileva il fatto che gli stessi occupassero bassi profili, essendo uno autista e l’altro addetto alle pulizie. Indipendentemente, infatti, dalle mansioni ricoperte, un dipendente di società legato alla malavita può costituire un ponte tra questa e la società per la quale lavora.
Rileva ancora il Collegio che non assume portata determinante la circostanza, non chiarita nella sua materialità, se vi sia stato o meno l’effettivo pagamento, da parte del Comune di -OMISSIS-, di un importo pari a € 3.000,00, risultando comunque dalle intercettazioni che la stessa società compulsava i competenti uffici comunali per provvedere al relativo mandato di pagamento.
4. In conclusione, correttamente il coacervo di elementi è stato ritenuto dal Prefetto di Crotone sufficiente ad evidenziare il pericolo di contiguità con la mafia, con un giudizio peraltro connotato da ampia discrezionalità di apprezzamento, con conseguente sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001).
Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010).
4. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
5. In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello deve essere accolto e va, dunque, riformata la sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- del 20.03.2019, che ha accolto il ricorso di primo grado.

EDILIZIA PRIVATA: EDILIZIA – INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO – Allocazione di una stazione radio base all’interno di un’area lottizzata – Non rappresenta inadempimento, da parte del Comune, della convenzione di lottizzazione.
L’allocazione all’interno di un’area lottizzata di una stazione radio base non rappresenta un inadempimento, da parte dell’Ente territoriale, della convenzione di lottizzazione, seppure essa destinasse a giardino tutte le aree non soggette a edificazione, a opere di urbanizzazione primaria, a standard urbanistici. L’art. 86, comma 3, d.lgs. 01.08.2003 n. 259, norma di carattere imperativo, ha equiparato le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazioni alle opere di urbanizzazione primaria, evidenziando il principio della necessaria capillarità della localizzazione di detti impianti (cfr. TAR Lazio–Latina 30.01.2015, n. 114).
L’assimilazione delle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria e la considerazione che gli impianti in questione e le opere accessorie occorrenti per la loro funzionalità rivestano carattere di pubblica utilità, postulano la possibilità che gli stessi siano ubicati in qualsiasi parte del territorio comunale, essendo compatibili con tutte le destinazioni urbanistiche (TAR Lombardia–Brescia, Sez. II, 15.02.2018, n. 188)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 31.12.2019 n. 2174 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIRilevanza ai fini espulsivi della mancata ostensione di un pregresso illecito.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Pregresso illecito professionale anteriore al triennio – Omessa dichiarazione – Art. 80, commi 5 e 10, d.lgs. n. 50 del 2016 – Obbligo dichiarativo – Non sussiste
Dalla piana esegesi dell’art. 80, commi 5 e 10, d.lgs. n. 50 del 2016, nel testo vigente ratione temporis (gennaio-febbraio 2019), si evince che la risoluzione per inadempimento del contratto (e comunque la commissione di gravi illeciti professionali) assumono rilevanza ai fini della ammissione (e costituiscono quindi oggetto dell’obbligo dichiarativo) per un periodo di tempo non superiore a tre anni dalla data dell’accertamento definitivo; in mancanza di ulteriori indicazioni normative, la data dell’accertamento definitivo deve intendersi quella in cui è stato adottato il provvedimento amministrativo che ha accertato la violazione degli obblighi contrattuali ed ha quindi contestato la risoluzione in danno, e ciò a prescindere dalla eventuale impugnazione dello stesso provvedimento e dalla pendenza del relativo giudizio (1).
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   (1) Ha aggiunto il Tar che in tal senso è dirimente l’art. 57, comma 7, della direttiva 2014/24/UE, dotata di efficacia diretta e verticale nell’ordinamento interno, nella parte in cui stabilisce che, nell’ipotesi in esame, il periodo di esclusione non deve superare i tre anni dalla “data del fatto”, ciò che evidentemente non consente di attribuire rilevanza ai fini della decorrenza del termine ad accadimenti successivi all’accertamento dell’inadempimento da parte dell’amministrazione.
Il Tar ha chiarito che nel concreto caso di specie, la questione della collocazione temporale dell’illecito professionale assume una rilevanza centrale ed assorbente, nei termini appresso indicati.
Le disposizioni di cui all’art. 80, commi 5 e 10, d.gs. n. 50 del 2016 hanno subito ripetute modifiche nel corso del tempo e pertanto sussiste l’esigenza di individuare le norme applicabili alla fattispecie oggetto del giudizio.
Nel caso di specie devono trovare applicazione, ratione temporis, le norme di cui al comma 5 dell’art. 80 d.lgs. 60/2016, nel testo introdotto dall'articolo 5, comma 1, del d.l. 14.12.2018, n. 135, nonché al comma 10 dello stesso articolo, nel testo modificato dall'articolo 49, comma 1, lettera f), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56, entrambe vigenti nel periodo compreso tra la data di pubblicazione del bando della procedura concorsuale (11.01.2019) ed il termine di scadenza per la presentazione delle offerte (fissato al 22.02.2019).
Sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che “il riferimento alla definitività dell'accertamento” contenuto nella norma di cui all’art. 80, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella versione risultante all'esito delle modifiche apportate con il d.lgs. n. 56 del 2017 deve essere interpretato nel senso che “il termine decorre da quando è stato adottato l'atto definitivo, cioè di conclusione del procedimento di risoluzione” (Cons. St., sez. V, 06.05.2019, n. 2895).
Il Tar ha osservato per inciso che la norma oggi vigente, e cioè il comma 10-bis, aggiunto dall'articolo 1, comma 20, lettera o), numero 5), d.l.. 18.04.2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla l. 14.06.2019, n. 55, contiene prescrizioni sostanzialmente diverse, dal momento che prende espressamente in considerazione soltanto il caso in cui sia stato adottato un “provvedimento di esclusione” e stabilisce che, in caso di contestazione in giudizio del provvedimento amministrativo, il termine triennale decorre dalla data del passaggio in giudicato della relativa sentenza, ciò che vale indubbiamente ad aggravare la posizione del dichiarante che abbia inteso insorgere in giudizio, in termini che non appaiono compatibili con la prescrizione di chiusura di cui l’art. 57, comma 7, della direttiva 2014/24/UE, che, come si è detto, non consente di attribuire rilevanza all’illecito dopo tre anni dalla data del fatto, a prescindere dalla eventuale contestazione giudiziale del provvedimento amministrativo (TAR Molise, sentenza 31.12.2019 n. 483 - commento tratto da e ink a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. Il ricorso è infondato.
7.1. Con il primo motivo parte ricorrente ha lamentato che l’aggiudicatario, avendo omesso di dichiarare la risoluzione contrattuale disposta dal Comune di Minori con delibera n. 35 del 21.05.2012, avrebbe falsamente attestato il possesso del requisito generale di partecipazione previsto dall’art. 80, co. 5 lett. c), d.lgs. n. 50/2016, con conseguente violazione della lett. f)-bis del medesimo comma, che sanziona con l’esclusione gli operatori che abbiano prodotto «nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere».
A sostegno della censura il Consorzio Ar. ha segnalato che la medesima questione ha già costituito oggetto di delibazione, in relazione ad altra procedura concorsuale, da parte del TAR Napoli che, con sentenza n. 2885/2019, ha ritenuto l’illegittimità dell’ammissione del Consorzio Re. alla gara per violazione dell’art. 80, co. 5 lett. c), d.lgs. n. 50/2016, in ragione della omessa dichiarazione della risoluzione contrattuale disposta dal Comune di Minori, precisando altresì che la contestazione giudiziale dell’inadempimento (dinanzi al Tribunale di Salerno) non elide l’obbligo dichiarativo.
7.2. Al riguardo, occorre innanzi tutto osservare che parte ricorrente ha formulato la censura in esame con esclusivo riferimento alle disposizioni di cui all’art. 80, co. 5, lett. c) ed f)-bis, del d.lgs. n. 50/2016, omettendo di considerare che la prescrizione sanzionatoria individuata dal combinato disposto di tali norme è ulteriormente precisata dal comma 10 dello stesso articolo 80 che, nel testo vigente ratione temporis, limita espressamente, sotto il profilo temporale, il perimetro degli illeciti professionali rilevanti ai fini della partecipazione e quindi, in ultima analisi, vale a conformare l’oggetto dell’obbligo dichiarativo.
La predetta questione non ha assunto specifica rilevanza neanche nel percorso motivazionale articolato nella pronuncia del TAR Campania, e comunque non è stata delibata nel corpo motivazionale della sentenza.
Invece, nel concreto caso di specie, la questione della collocazione temporale dell’illecito professionale assume una rilevanza centrale ed assorbente, nei termini appresso indicati.
7.3. Le disposizioni di cui all’art. 80, commi 5 e 10, del d.gs. 50/2016 hanno subito ripetute modifiche nel corso del tempo e pertanto sussiste l’esigenza di individuare le norme applicabili alla fattispecie oggetto del presente giudizio.
Nel caso di specie devono trovare applicazione, ratione temporis, le norme di cui al comma 5 dell’art. 80 d.lgs. 60/2016, nel testo introdotto dall'articolo 5, comma 1, del d.l. 14.12.2018, n. 135, nonché al comma 10 dello stesso articolo, nel testo modificato dall'articolo 49, comma 1, lettera f), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56, entrambe vigenti nel periodo compreso tra la data di pubblicazione del bando della procedura concorsuale (11.01.2019) ed il termine di scadenza per la presentazione delle offerte (fissato al 22.02.2019).
Le predette disposizioni stabiliscono che:
   - “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, qualora: … omissis … c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità; c-bis) l'operatore economico abbia tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate a fini di proprio vantaggio oppure abbia fornito, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione, ovvero abbia omesso le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione; c-ter) l'operatore economico abbia dimostrato significative o persistenti carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione per inadempimento ovvero la condanna al risarcimento del danno o altre sanzioni comparabili; su tali circostanze la stazione appaltante motiva anche con riferimento al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità della stessa; … omissis …” (art. 80, co. 5);
   - “Se la sentenza di condanna definitiva non fissa la durata della pena accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, ovvero non sia intervenuta riabilitazione, tale durata è pari a cinque anni, salvo che la pena principale sia di durata inferiore, e in tale caso è pari alla durata della pena principale e a tre anni, decorrenti dalla data del suo accertamento definitivo, nei casi di cui ai commi 4 e 5 ove non sia intervenuta sentenza di condanna” (art. 80, co. 10).
7.4. Dalla piana esegesi del combinato disposto di tali norme si evince che la risoluzione per inadempimento del contratto (e comunque la commissione di gravi illeciti professionali) assumono rilevanza ai fini della ammissione (e costituiscono quindi oggetto dell’obbligo dichiarativo) per un periodo di tempo non superiore a tre anni dalla data dell’accertamento definitivo.
In mancanza di ulteriori indicazioni normative, la data dell’accertamento definitivo deve intendersi quella in cui è stato adottato il provvedimento amministrativo che ha accertato la violazione degli obblighi contrattuali ed ha quindi contestato la risoluzione in danno, e ciò a prescindere dalla eventuale impugnazione dello stesso provvedimento e dalla pendenza del relativo giudizio.
In tal senso è dirimente l’art. 57, co. 7, della direttiva 2014/24/UE, dotata di efficacia diretta e verticale nell’ordinamento interno, nella parte in cui stabilisce che, nell’ipotesi in esame, il periodo di esclusione non deve superare i tre anni dalla “data del fatto”, ciò che evidentemente non consente di attribuire rilevanza ai fini della decorrenza del termine ad accadimenti successivi all’accertamento dell’inadempimento da parte dell’amministrazione.
Sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che “il riferimento alla definitività dell'accertamento” contenuto nella norma di cui all’”art. 80, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella versione risultante all'esito delle modifiche apportate con il d.lgs. n. 56 del 2017” deve essere interpreto nel senso che “il termine decorre da quando è stato adottato l'atto definitivo, cioè di conclusione del procedimento di risoluzione” (Cons. Stato, Sez. V, 06.05.2019 n. 2895).
7.5. Per inciso, si osserva che la norma oggi vigente, e cioè il comma 10-bis, aggiunto dall'articolo 1, comma 20, lettera o), numero 5), del D.L. 18.04.2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla Legge 14.06.2019, n. 55, contiene prescrizioni sostanzialmente diverse, dal momento che prende espressamente in considerazione soltanto il caso in cui sia stato adottato un “provvedimento di esclusione” e stabilisce che, in caso di contestazione in giudizio del provvedimento amministrativo, il termine triennale decorre dalla data del passaggio in giudicato della relativa sentenza, ciò che vale indubbiamente ad aggravare la posizione del dichiarante che abbia inteso insorgere in giudizio, in termini che non appaiono compatibili con la prescrizione di chiusura di cui l’art. 57, co. 7, della direttiva 2014/24/UE, che, come si è detto, non consente di attribuire rilevanza all’illecito dopo tre anni dalla data del fatto, a prescindere dalla eventuale contestazione giudiziale del provvedimento amministrativo recante la relativa contestazione.
7.6. Nel concreto caso di specie il provvedimento di risoluzione cui fa riferimento parte ricorrente è stato adottato dal Comune di Minori in data 21.05.2012, sicché al momento della pubblicazione del bando il termine triennale di rilevanza del fatto, nei termini stabiliti dalla normativa vigente ratione temporis, era già ampiamente decorso, la qual cosa esclude che l’aggiudicatario avesse l’obbligo di farvi menzione ai fini della partecipazione alla procedura concorsuale: “la mancata ostensione di un pregresso illecito è rilevante –a fini espulsivi– non già in sé, bensì in funzione dell’apprezzamento della stazione appaltante, il quale va a sua volta eseguito in considerazione anzitutto della consistenza del fatto omesso … Il non aver comunicato una pregressa risoluzione anteriore al triennio, in sé priva d’attitudine espulsiva, non determina infatti una condotta falsa o inveritiera…” (Cons. Stato, Sez. V, 13.12.2019 n. 8480).

ATTI AMMINISTRATIVILa decadenza dal beneficio ottenuto mediante la falsa dichiarazione non è automatica.
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Procedimento amministrativo – Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà – Sussistenza eventuali pendenze fiscali – Dichiarazione falsa – Art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 – Conseguenza – Decadenza del beneficio – Automatismo sanzionatorio – Esclusione
In sede di applicazione dell’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000, l’Amministrazione procedente deve valutare caso per caso tutti gli elementi emersi nel corso del procedimento affinché la sanzione prevista dalla legge, e cioè la perdita dei benefici conseguiti per effetto della falsa dichiarazione, non sia irragionevolmente applicata nelle ipotesi di mere irregolarità nella dichiarazione (1).
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   (1) Il Tar ha richiamato l’art. 75 (“Decadenza dai benefici”), d.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”) il quale dispone che “fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”.
Il Tar ha ritenuto che ad una rigorosa interpretazione delle norme dettate in materia di c.d autocertificazione, che comporterebbe l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non residuando alcun margine di discrezionalità alle PP.AA., vada preferita una lettura costituzionalmente orientata, volta cioè a valorizzare, oltre il dato meramente formale, anche la sostanza della dichiarazione e del suo contenuto.
Conformemente al più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa, teso a considerare il contenuto effettivo dell’attestazione in presenza di vizi meramente formali (Cons. Stato sez. V, 17.01.2018 n. 257 e 23.01.2018, n. 418), quel che si ritiene di dover valorizzare sono le peculiari circostanze di volta in volta emerse nel caso concreto, alla luce delle quali poter valutare, nella specie, se si tratti di una vera e propria falsità o, piuttosto, di una mera irregolarità nella dichiarazione resa alla P.a..
Il Tar ha chiarito che secondo questa interpretazione, e proprio con riferimento all’esistenza di pendenze fiscali non dichiarate al momento della istanza di rinnovo del rilascio del patentino, si è opportunamente rilevato come, per la decadenza dal beneficio, non sarebbe determinante il profilo formale della falsità della dichiarazione bensì quello sostanziale costituito dalla mancanza del requisito falsamente dichiarato: l’Amministrazione, quindi, sarebbe tenuta a valutare compiutamente la portata e l’attualità delle pendenze fiscali sussistenti al momento della istanza (Tar Palermo, sez. I, 29.10.2018, n. 2190).
Il tutto conformemente ai principi di ragionevolezza e proporzionalità che pure devono ispirare l’azione amministrativa e che portano ad escludere ogni automatismo sanzionatorio nell’applicazione dell’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000.
Il Tar ha rilevato che, nel caso in esame, l’Amministrazione resistente ha del tutto omesso questa valutazione del caso concreto essendosi limitata ad applicare automaticamente l’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000. All’opposto, nel corso del procedimento, erano emerse circostanze tali da far ritenere meritevole di accoglimento l’istanza di rinnovo del patentino presentata dalla ricorrente, consistenti nella esiguità dell’importo ab origine dovuto al fisco, nel fatto che lo stesso fosse relativo ad una attività commerciale cessata nell’anno 2010 e nel fatto che il debito fiscale era stato estinto prima ancora della adozione dei provvedimenti impugnati (TAR Molise, sentenza 28.12.2019 n. 478 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
Ciò premesso, il Collegio ritiene che le censure prospettate dal ricorrente meritino di essere condivise.
Ed invero, l’articolo 75 (“Decadenza dai benefici”) del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”) dispone che “fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. Ciò vuol dire che la dichiarazione “non veritiera”, al di là dei profili penali, ove ricorrano i presupposti del reato di falso, nell’ambito della disciplina dettata dal D.p.r. n. 445/2000, preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio.
Si è in merito ritenuto, quindi, che, “in tale contesto normativo, in cui la “dichiarazione falsa o non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza l’elemento soggettivo ovvero il dolo o la colpa del dichiarante” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 27.04.2012, n. 2447): sicché ogni eventuale ulteriore circostanza, “senz’altro rilevante in sede penale, in quanto ostativa alla configurazione del falso ideologico, attesa la mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e della consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del 2000, in cui il mendacio rileva quale inidoneità della dichiarazione allo scopo cui è diretto” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013).
Ritiene, tuttavia, il Collegio che a tale rigorosa interpretazione vada preferita una lettura costituzionalmente orientata delle norme dettate in materia di c.d. autocertificazione, volta cioè a valorizzare, oltre il dato meramente formale, anche la sostanza della dichiarazione e del suo contenuto.
Conformemente al più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa, infatti, teso a considerare il contenuto effettivo dell’attestazione in presenza di vizi meramente formali (Cons. Stato sez. V, 17.01.2018 n. 257 e 23.01.2018, n. 418), quel che si ritiene di dover valorizzare sono le peculiari circostanze di volta in volta emerse nel caso concreto, alla luce delle quali poter valutare, nella specie, se si tratti di una vera e propria falsità o, piuttosto, di una mera irregolarità nella dichiarazione resa alla P.a..
Secondo questa interpretazione, infatti, e proprio con riferimento all’esistenza di pendenze fiscali non dichiarate al momento della istanza di rinnovo del rilascio del patentino, si è opportunamente rilevato come, per la decadenza dal beneficio, non sarebbe determinante il profilo formale della falsità della dichiarazione bensì quello sostanziale costituito dalla mancanza del requisito falsamente dichiarato: l’Amministrazione, quindi, sarebbe tenuta a valutare compiutamente la portata e l’attualità delle pendenze fiscali sussistenti al momento della istanza (Tar Palermo, sez. I, 29.10.2018, n. 2190).
Ed ancora, la Corte Costituzionale, pur dichiarando inammissibile la questione di illegittimità costituzionale sollevata, nella specie, dal Giudice a quo per non avere questo esaminato, la sussistenza o meno di una vera e propria pendenza fiscale definitivamente accertata come prevista dagli artt. 7 e 8 del D.m. 21.02.2013 n. 38 (Regolamento recante disciplina della distribuzione e vendita dei prodotti da fumo), ha implicitamente confermato la tesi secondo cui la decadenza dal beneficio ottenuto mediante la falsa dichiarazione non possa conseguire in via automatica ma possa essere disposta solo dopo una valutazione casistica da parte della P.a di tutte le circostanze rilevanti nel caso concreto (Corte Costituzionale, sentenza 24.07.2019, n. 199).
In tal senso, si è, quindi, esclusa la sussistenza di una vera e propria “pendenza fiscale”, come prevista dal combinato disposto di cui agli art. 7 e 8 del d.m. n. 38/2013, nelle ipotesi di un debito tributario di scarsa entità, non idoneo, come tale ed alla luce della normativa tributaria, a superare la soglia minima di rilevanza fiscale prevista nel nostro ordinamento (Tar Potenza, 07.01.2019, n. 31).
Si ravvisa, in sostanza, l’esigenza che l’Amministrazione procedente valuti caso per caso tutti gli elementi emersi nel corso del procedimento affinché la sanzione prevista dalla legge, e cioè la perdita dei benefici conseguiti per effetto della falsa dichiarazione, non sia irragionevolmente applicata nelle ipotesi di mere irregolarità nella dichiarazione.
Il tutto conformemente ai principi di ragionevolezza e proporzionalità che pure devono ispirare l’azione amministrativa e che portano ad escludere ogni automatismo sanzionatorio nell’applicazione dell’art. 75 del DPR n. 445/2000 (si veda anche ordinanza del TAR Lecce, sez. III, 24.10.2018, n. 1544).

APPALTI: Utile esiguo in offerta e verifica della congruità attraverso un giudizio comparativo.
L'utile esiguo è ammissibile, potendo comunque costituire un elemento favorevole per l’impresa in termini di prestigio, specialmente se è avvenuta l’aggiudicazione e la buona riuscita di un appalto importante.
La verifica di congruità di un’offerta sospetta di anomalia non può essere effettuata attraverso un giudizio comparativo che coinvolga altre offerte, perché va condotta con esclusivo riguardo agli elementi costitutivi dell’offerta analizzata e alla capacità dell’impresa -tenuto conto della propria organizzazione aziendale e, se del caso, della comprovata esistenza di particolari condizioni favorevoli esterne- di eseguire le prestazioni contrattuali al prezzo proposto, essendo ben possibile che un ribasso sostenibile per un concorrente non lo sia per un altro, per cui il raffronto fra offerte differenti non è indicativo al fine di dimostrare la congruità di una di ess
e (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.12.2019 n. 2739 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.3. Con il primo motivo aggiunto la ricorrente lamenta che alcune voci dell’offerta tecnica di Du.Se. S.r.l. (relative alle attrezzature, ai prodotti, alle qualifiche professionali, ai mezzi impiegati nell’esecuzione della commessa) non troverebbero copertura nell’offerta economica.
Secondo la prospettazione attorea questi costi, ove considerati, renderebbero incapiente e, dunque, inaffidabile l’offerta della controinteressata, poiché ridurrebbero (anzi, supererebbero del tutto) l’utile –asseritamente troppo esiguo- atteso dall’esecuzione della commessa (circa 100.000 euro annui).
2.3.1. La tesi non persuade.
Al riguardo, è sufficiente rilevare che:
   - secondo consolidata giurisprudenza l’utile, ancorché esiguo, è ammissibile, potendo comunque costituire un elemento favorevole per l’impresa in termini di prestigio, specialmente se è avvenuta l’aggiudicazione e la buona riuscita di un appalto importante (ex multis, C.d.S., Sez. V, n. 4978/2017);
   - la verifica di congruità di un’offerta sospetta di anomalia non può essere effettuata attraverso un giudizio comparativo che coinvolga altre offerte, perché va condotta con esclusivo riguardo agli elementi costitutivi dell’offerta analizzata ed alla capacità dell’impresa -tenuto conto della propria organizzazione aziendale e, se del caso, della comprovata esistenza di particolari condizioni favorevoli esterne- di eseguire le prestazioni contrattuali al prezzo proposto, essendo ben possibile che un ribasso sostenibile per un concorrente non lo sia per un altro, per cui il raffronto fra offerte differenti non è indicativo al fine di dimostrare la congruità di una di esse (C.d.S., Sez. V, n. 607/2017; n. 3271/2016; n. 4694/2007; Id., Sez. IV, n. 5945/2002);

EDILIZIA PRIVATALa sanzione della perdita della proprietà per inottemperanza all'ordine di remissione in pristino, pur se definita come una conseguenza di diritto dall'art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, richiede, in ogni caso, un provvedimento amministrativo che definisca l'oggetto dell'acquisizione al patrimonio comunale attraverso la quantificazione e la perimetrazione dell'area sottratta al privato.
E’, pertanto, obbligo specifico dell’Amministrazione quello di “esplicitare le modalità del calcolo (in relazione ai richiamati parametri urbanistici in astratto applicabili per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusivamente realizzate) con cui l’ufficio tecnico dell’ente locale perviene alla individuazione di tale area ulteriore”, indicando nell’atto di acquisizione, “la classificazione urbanistica ed il relativo regime per l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi sviluppare (in base agli indici di fabbricabilità, territoriale o fondiaria, conseguentemente applicabili) il calcolo della superficie occorrente per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, disponendone comunque l’acquisizione -laddove dovesse risultare una superficie superiore- nel limite massimo del decuplo dell’area di sedime”.
Infatti, “la circostanza che il legislatore non abbia predeterminato l'ulteriore area acquisibile, ma si sia limitato a prevedere che tale area non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita, si giustifica per il fatto che l'ulteriore acquisto sia funzionale e strumentale rispetto all'acquisto del bene abusivo e della relativa area di sedime. In altri termini -non potendosi ritenere che la determinazione dell'ulteriore area acquisibile sia affidata al puro arbitrio dell'Amministrazione- la circostanza che sia stata predeterminata solo la superficie massima di tale area (comunque non superiore a dieci volte quella abusivamente costruita) può spiegarsi solo ipotizzando che l'ulteriore acquisto sia necessario al fine di consentire l'uso pubblico del bene abusivo acquisito al patrimonio comunale. Ne consegue che il nesso funzionale tra i due acquisti implica che l'Amministrazione sia tenuta a specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione”.
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12.1. Osserva il Collegio come l’acquisizione dell’area di sedime della strada risulta corrispondente al manufatto con conseguente infondatezza delle censure articolate in parte qua.
12.2. Un diverso discorso vale per la c.d. “area pertinenziale”.
Come correttamente evidenziato dal Consiglio di Stato, “la sanzione della perdita della proprietà per inottemperanza all'ordine di remissione in pristino, pur se definita come una conseguenza di diritto dall'art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, richiede, in ogni caso, un provvedimento amministrativo che definisca l'oggetto dell'acquisizione al patrimonio comunale attraverso la quantificazione e la perimetrazione dell'area sottratta al privato” (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
E’, pertanto, obbligo specifico dell’Amministrazione quello di “esplicitare le modalità del calcolo (in relazione ai richiamati parametri urbanistici in astratto applicabili per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusivamente realizzate) con cui l’ufficio tecnico dell’ente locale perviene alla individuazione di tale area ulteriore” (TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II-quater, 30.08.2018, n. 9103), indicando nell’atto di acquisizione, “la classificazione urbanistica ed il relativo regime per l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi sviluppare (in base agli indici di fabbricabilità, territoriale o fondiaria, conseguentemente applicabili) il calcolo della superficie occorrente per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, disponendone comunque l’acquisizione -laddove dovesse risultare una superficie superiore- nel limite massimo del decuplo dell’area di sedime” (Consiglio di Stato, sez. VI, 05.04.2013, n. 1881).
Infatti, “la circostanza che il legislatore non abbia predeterminato l'ulteriore area acquisibile, ma si sia limitato a prevedere che tale area non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita, si giustifica per il fatto che l'ulteriore acquisto sia funzionale e strumentale rispetto all'acquisto del bene abusivo e della relativa area di sedime. In altri termini -non potendosi ritenere che la determinazione dell'ulteriore area acquisibile sia affidata al puro arbitrio dell'Amministrazione- la circostanza che sia stata predeterminata solo la superficie massima di tale area (comunque non superiore a dieci volte quella abusivamente costruita) può spiegarsi solo ipotizzando che l'ulteriore acquisto sia necessario al fine di consentire l'uso pubblico del bene abusivo acquisito al patrimonio comunale. Ne consegue che il nesso funzionale tra i due acquisti implica che l'Amministrazione sia tenuta a specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione” (Consiglio di Stato, sez. IV, 05.04.2013, n. 1881: TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 25.03.2019, n. 646).
12.3. Nel caso di specie il provvedimento impugnato non risulta, quindi, conforme alla previsione di cui all’articolo 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 non essendo ivi evidenziate le ragioni che, in relazione allo specifico parametro normativo (ed alle necessità indicate in tale proposizione normativa) giustificano l’acquisizione della superficie degli interi mappali nn. 3649 e 3651 (pur nell’avvenuta rettifica, attraverso l’espunzione dei mappali 3650 e 3652).
Né rileva, come spiegato, il riferimento al limite massimo dettato dalla previsione di cui all’articolo 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 che, come spiegato dal Consiglio di Stato, “configura un limite all’acquisizione, ma non anche l’elemento fondamentale che deve essere tenuto presente per determinare l’area da acquisire” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.12.2019 n. 2735 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Istanza diretta a sollecitare il potere di autotutela.
Per consolidata giurisprudenza, l’amministrazione non abbia l’obbligo di pronunciarsi in maniera esplicita su un’istanza diretta a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela (che costituisce una manifestazione tipica della discrezionalità amministrativa, di cui è titolare in via esclusiva l’amministrazione per la tutela dell’interesse pubblico) e come il potere di autotutela sia incoercibile dall’esterno attraverso l’istituto del silenzio–inadempimento ai sensi dell’art. 117 c.p.a..
Ciò posto in linea di principio, va tuttavia dato atto di come la stessa giurisprudenza, a parziale temperamento del succitato rigoroso orientamento, abbia riconosciuto che, fermo restando il carattere discrezionale dell’autotutela, il riesame da parte dell’amministrazione, quale fase ad essa prodromica, possa ritenersi in taluni casi (e non solo in relazione ad atti vincolati) doveroso; se, infatti, non può legittimarsi un uso distorto e strumentale della richiesta di riesame che investa situazioni già valutate dall’amministrazione, sì da rimettere in discussione rapporti già definititi e provvedimenti rimasti inoppugnati (con pregiudizio per il principio di certezza dell’azione amministrativa), nondimeno il concreto esercizio del potere di autotutela è pur sempre vincolato all’attuazione delle finalità per cui esso è attribuito dalla legge del perseguimento, secondo le migliori modalità, dell’interesse pubblico, nella comparazione con i differenti interessi coinvolti nella vicenda oggetto di valutazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 23.12.2019 n. 2725 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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5.1) Preliminarmente, osserva il Collegio come, per consolidata giurisprudenza, l’amministrazione non abbia l’obbligo di pronunciarsi in maniera esplicita su un istanza diretta a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela (che costituisce una manifestazione tipica della discrezionalità amministrativa, di cui è titolare in via esclusiva l’amministrazione per la tutela dell’interesse pubblico) e come il potere di autotutela sia incoercibile dall’esterno attraverso l’istituto del silenzio–inadempimento ai sensi dell’art. 117 c.p.a. (cfr. ex multis, Cons. di Stato, V, 04.05.2015, n. 2237; Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4309; 07.07.2014, n. 3426; 24.09.2013, n. 4714; Sez. IV, 22.01.2013, n. 355; sez. V, 03.10.2012, n. 5199; sez. VI, 09.07.2013, n. 3634).
Ciò posto in linea di principio, va tuttavia dato atto di come la stessa giurisprudenza, a parziale temperamento del succitato rigoroso orientamento, abbia riconosciuto che, «fermo restando il carattere discrezionale dell’autotutela, il riesame da parte dell’amministrazione, quale fase ad essa prodromica, possa ritenersi in taluni casi (e non solo in relazione ad atti vincolati) doveroso» [cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2019, n. 3576, per cui: «Se, infatti, non può legittimarsi un uso distorto e strumentale della richiesta di riesame che investa situazioni già valutate dall’amministrazione sì da rimettere in discussione rapporti già definititi e provvedimenti rimasti inoppugnati (con pregiudizio per il principio di certezza dell’azione amministrativa), nondimeno il concreto esercizio del potere di autotutela è pur sempre vincolato all’attuazione delle finalità per cui esso è attribuito dalla legge (del perseguimento, secondo le migliori modalità, dell’interesse pubblico, nella comparazione con i differenti interessi coinvolti nella vicenda oggetto di valutazione)»].

APPALTI SERVIZIQualificazione, requisiti dell'Ati e quota dei lavori. Assenza e scostamento esclude da gara
L'assenza di un requisito di qualificazione in misura corrispondente alla quota dei lavori, cui si è impegnata una delle imprese costituenti il raggruppamento temporaneo (Ati) in sede di presentazione dell'offerta determina l'esclusione dell'intero raggruppamento, anche se lo scostamento sia minimo ed anche nel caso in cui il raggruppamento nel suo insieme (ovvero un'altra delle imprese del medesimo) sia in possesso del requisito di qualificazione sufficiente all'esecuzione dell'intera quota di lavori.
È quanto ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 18.12.2019 n. 8540 in merito ad una procedura di affidamento riguardante «servizi a quantità indeterminata di pitturazione e trattamento dei ponti di volo, ponti coperti e scoperti» di unità della Marina militare che, preliminarmente, i giudici riconducono alla nozione di appalto di lavori e in particolare alla categoria dei lavori di manutenzione ordinaria «visto che un servizio non è un opus, ma è un'attività propria del terziario non diretta alla produzione o alla fornitura di beni, e svolta per soddisfare bisogni di singoli oppure di collettività che attengono ad esigenze diverse e che è di suo ripetibile nel tempo, a differenza di un lavoro che si esaurisce una tantum nel suo compimento ed è oggettivamente tangibile nella sua realizzazione».
Ciò premesso, la questione principale atteneva alla legittimità o meno della partecipazione di un raggruppamento temporaneo in cui un mandante non possedeva un requisito speciale (fatturato specifico) nella misura corrispondente alla quota dei lavori, cui si è impegnata una delle imprese costituenti il raggruppamento temporaneo in sede di presentazione dell'offerta. Per il collegio giudicante (che richiama l'adunanza plenaria n. 6 del 27.03.2019, pronunciatasi «in applicazione dell'articolo 92, comma 2, del dpr 207/2010») in questi casi scatta l'esclusione dell'intero raggruppamento.
A nulla vale che lo scostamento minimo e che il raggruppamento nel suo insieme (ovvero un'altra delle imprese del medesimo) sia in possesso del requisito di qualificazione sufficiente all'esecuzione dell'intera quota di lavori. La mancata copertura dei requisiti rispetto alla quota di lavori da eseguire è motivo di esclusione
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2020).

APPALTI: Principio di tassatività delle clausole escludenti.
Il TAR Milano precisa, con riferimento al principio di tassatività delle clausole escludenti, che se è vero che la sanzione della nullità implica l’automatica inefficacia delle previsioni del bando, disapplicabili direttamente dalla stazione appaltante senza necessità di attendere l’eventuale annullamento giurisdizionale, per la prevalente giurisprudenza, però, la disposizione in ordine alla tassatività delle clausole escludenti –in precedenza prevista dall’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006– non può essere interpretata in modo avulso dal contesto normativo di riferimento, sì da doversene individuarne la ratio nella necessità di ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell’evidenza pubblica.
E' quindi da condividere, per il TAR, l’orientamento giurisprudenziale per il quale la sanzione della nullità testuale è riferita esclusivamente alle ragioni di esclusione incentrate sulle forme con cui la dichiarazione negoziale viene esternata, in quanto aspetti formali e documentali che, in assenza di una specifica previsione di nullità, potrebbero essere regolarizzati attraverso l’istituto del soccorso istruttorio.
Il “principio di tassatività delle cause di esclusione” e la conseguente nullità ex lege, invece, non riguardano i profili sostanziali o qualitativi dell’offerta –come, ad esempio, la base d’asta–, in sé insuscettibili di regolarizzazione postuma giacché l’amministrazione si troverebbe altrimenti a comparare proposte tra loro non omogenee, violando i principi basilari che presiedono lo svolgimento delle procedure competitive.
Del resto, come pure è stato rilevato in giurisprudenza, la disposizione di cui all’art. 83, comma 8, del d.lgs. 50 del 2016 va letta in continuità ermeneutica con la norma di cui all’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, restando quindi pienamente valido, anche nell’attuale regime normativo, il principio secondo cui la sanzione della nullità testuale è preordinata a privare di rilievo giuridico tutte le ragioni di esclusione dalle gare incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, quanto piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.12.2019 n. 2693 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Ritenuto:
   - che la controversia ha ad oggetto la riammissione della controinteressata alla gara e la conseguente aggiudicazione della fornitura in suo favore, all’esito di determinazioni assunte dall’ente appaltante in sede di autotutela;
   - che si tratta di stabilire, in particolare, se la formulazione di un’offerta economica “in aumento” per una sola delle prestazioni ricomprese nell’appalto da aggiudicare imponesse, secondo la normativa di gara, l’automatica espulsione del concorrente che se ne era reso autore –anche quando ciò non si traduceva in un superamento della soglia di spesa pubblica complessiva ancorata alla base d’asta relativa all’intero “lotto”–, e se, in questo caso, le corrispondenti prescrizioni fossero disapplicabili dalla stazione appaltante in quanto “nulle” per contrasto con il principio di tassatività delle cause di esclusione, ai sensi dell’art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016;
   - che, in via preliminare, appare privo di pregio l’assunto di parte resistente in forza del quale, stante il tenore letterale della lex specialis della gara, al superamento della base d’asta relativa al servizio di “assistenza tecnica full risk per sonde” non avrebbe dovuto corrispondere un provvedimento di esclusione, per essere la sanzione espulsiva espressamente comminata dal Capitolato tecnico solo con riferimento al servizio di “assistenza full risk per ecografo”; non v’è dubbio, infatti, come nell’economia della procedura di scelta del contraente privato il Bando, il Disciplinare di gara e il Capitolato tecnico assolvano ciascuno una propria ed autonoma funzione –il primo fissando le regole della gara, il secondo disciplinando il procedimento di gara in senso stretto e il terzo integrando eventualmente le disposizioni del bando (v. TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 13.07.2017 n. 1793)–, e costituendo tutti insieme i documenti, in un rapporto di eterointegrazione, la lex specialis della gara;
   - che, ciò posto, nonostante l’apparente diversa formulazione del Capitolato tecnico (il cui art. 4.2 si limita a stabilire che “… Il costo del servizio a triennio non può essere superiore al valore di Base d’Asta per le sonde di cui alla configurazione base …”, senza al contempo esplicitamente prevedere l’esclusione del concorrente che vi contravvenga), il fatto che un inderogabile divieto di offerte in aumento operasse non solo con riferimento all’offerta complessiva, ma anche in relazione ai singoli prezzi unitari delle prestazioni che compongono l’appalto, emerge in modo chiaro e non equivoco dal tenore letterale dell’art. 22 del Disciplinare di gara, alla stregua del quale “… Saranno, altresì, esclusi dalla procedura i concorrenti che presentino:… - offerte che presentino prezzi superiori alla base d’asta unitaria del/i lotto/i cui si partecipa… - offerte con prezzo complessivo offerto superiore alla base d’asta complessiva ...” (pag. 65 e 66, doc. n. 4 - fascicolo di parte ricorrente);
   - che non è dato riscontrare, nel caso di specie, quel margine di “obiettiva incertezza” sulla portata della clausola che, nei limiti, avrebbe consentito all’Amministrazione di discostarsi in via interpretativa dalle norme di gara, dovendo invece essere sottolineato il carattere vincolante che la disposizione assumeva non solo nei confronti dei concorrenti ma anche della stazione appaltante, notoriamente soggetta, in applicazione dell’art. 97 Cost., al principio generale del c.d. autovincolo; segnatamente la giurisprudenza è pressoché unanime nell’affermare come le previsioni della lex specialis della gara costituiscano un vincolo per l’amministrazione che le ha predisposte, in capo alla quale non sussiste alcun margine di discrezionalità circa la loro concreta attuazione, sicché le singole clausole, finanche quando illegittime, non possono essere disapplicate né dal giudice né dalla stessa stazione appaltante, salvo naturalmente l’esercizio del potere di autotutela (sulla vincolatività della lex specialis v. Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.05.2019, n. 2991; Consiglio di Stato, Sez. V, 14.12.2018, n. 7057; Consiglio di Stato, Sez. V, 22.11.2017, n. 5428; Consiglio di Stato, Sez. IV, 15.09.2015, n. 4302);
   - che, in applicazione di siffatti assunti, di fronte ad una prescrizione vincolante e con formulazione chiara come quella del caso in esame, non v’è dubbio che in capo alla stazione appaltante sussistesse un obbligo conformativo con riferimento all’esclusione della concorrente Es. S.p.A., con conseguente illegittimità dell’aggiudicazione oggetto della presente controversia; non di meno, infatti, nella pacifica vigenza del principio, la giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente identificato nell’illegittimità delle successive determinazioni la conseguenza giuridica della violazione dell’autovincolo (v. Consiglio di Stato, Sez. III, 30.10.2019, n. 7446; Consiglio di Stato, Sez. V, 17.07.2017, n. 3502);
   - che neppure coglie nel segno l’ulteriore assunto di parte resistente in forza del quale la clausola espulsiva prevista dalla normativa di gara violerebbe il principio della tassatività delle cause di esclusione ed incorrerebbe perciò nella nullità testuale di cui all’art. 83, comma 8, del d.lgs. 50 del 2016; se è vero, in effetti, che la sanzione della nullità implica l’automatica inefficacia delle previsioni del bando, disapplicabili direttamente dalla stazione appaltante senza necessità di attendere l’eventuale annullamento giurisdizionale (in tal senso v. Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.09.2017, n. 4350), per la prevalente giurisprudenza, però, la disposizione in ordine alla tassatività delle clausole escludenti –in precedenza prevista dall’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006– non può essere interpretata in modo avulso dal contesto normativo di riferimento, sì da doversene individuarne la ratio nella necessità di “ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell’evidenza pubblica” (in tal senso Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4350/2017 cit.; Consiglio di Stato, Sez. V, 23.09.2015, n. 4460; e, da ultimo, a proposito del principio per cui la declaratoria di nullità per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione si riferisce solo a clausole del bando che impongono adempimenti formali v. Consiglio di Stato, Sez. V, 23.08.2019, n. 5828);
   - che è da condividere, quindi, l’orientamento giurisprudenziale per il quale la sanzione della nullità testuale è riferita esclusivamente alle ragioni di esclusione incentrate sulle forme con cui la dichiarazione negoziale viene esternata, in quanto aspetti formali e documentali che, in assenza di una specifica previsione di nullità, potrebbero essere regolarizzati attraverso l’istituto del soccorso istruttorio; il “principio di tassatività delle cause di esclusione” e la conseguente nullità ex lege, invece, non riguardano i profili sostanziali o qualitativi dell’offerta –come, ad esempio, la base d’asta–, in sé insuscettibili di regolarizzazione postuma giacché l’amministrazione si troverebbe altrimenti a comparare proposte tra loro non omogenee, violando i principi basilari che presiedono lo svolgimento delle procedure competitive (in tal senso v. TAR Toscana, Sez. III, 27.02.2018, n. 316, conf. da Cons. Stato, III, 25/07/2018 n. 4546/2018);
   - che, del resto, come pure è stato rilevato (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 02.10.2018, n. 5766), la disposizione di cui all’art. 83, comma 8, del d.lgs. 50 del 2016 va letta in continuità ermeneutica con la norma di cui all’art. 46 comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, restando quindi pienamente valido, anche nell’attuale regime normativo, il principio secondo cui la sanzione della nullità testuale è preordinata a privare di rilievo giuridico tutte le ragioni di esclusione dalle gare incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, quanto piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata;

APPALTI: Potere di rettifica di errori materiali o di refusi in una offerta per una gara d’appalto.
Le offerte, intese come atto negoziale, devono essere interpretate al fine di ricercare l’effettiva volontà dell’impresa partecipante alla gara, superandone le eventuali ambiguità, a condizione di giungere ad esiti certi circa la portata dell’impegno negoziale assunto; tale attività interpretativa può, quindi, anche consistere nell’individuazione e nella rettifica di eventuali errori di scritturazione o di calcolo, a condizione, però, che alla rettifica si possa pervenire con ragionevole certezza e, comunque, senza attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta o a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerente.
Va, allora, ribadita la legittimità del potere di rettifica di errori materiali o refusi da circoscrivere nelle ipotesi in cui l’effettiva volontà negoziale è stata comunque espressa nell’offerta e risulta palese che la dichiarazione discordante non è voluta, ma è frutto di un errore ostativo, da rettificare in applicazione dei principi civilistici contenuti negli artt. 1430-1433 cod. civ.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.12.2019 n. 2684 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Il ricorso è fondato.
Come questa Sezione ha già avuto modo di affermare, «le offerte, intese come atto negoziale, devono essere interpretate al fine di ricercare l’effettiva volontà dell’impresa partecipante alla gara, superandone le eventuali ambiguità, a condizione di giungere ad esiti certi circa la portata dell’impegno negoziale assunto (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2015, n. 2082; id., Sez. III, 22.10.2014, n. 5196).
Tale attività interpretativa può, quindi, anche consistere nell’individuazione e nella rettifica di eventuali errori di scritturazione o di calcolo, a condizione, però, che alla rettifica si possa pervenire con ragionevole certezza e, comunque, senza attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta o a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerente (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 28.05.2014, n. 1487; id., Sez. VI, 13.02.2013, n. 889; id., Sez. III, 22.08.2012, n. 4592).
Va, allora, ribadita la legittimità del potere di “rettifica di errori materiali o refusi” (su cui, fra le altre, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 25.02.2014, n. 9), da circoscrivere nelle ipotesi in cui l’effettiva volontà negoziale è stata comunque espressa nell’offerta e risulta palese che la dichiarazione discordante non è voluta, ma è frutto di un errore ostativo, da rettificare in applicazione dei principi civilistici contenuti negli artt. 1430-1433 cod. civ. (cfr. diffusamente sul tema, da ultimo, TAR Lazio, Roma, II sez., sentenza 04.05.2016 n. 5060, che si sofferma anche sulle differenze fra l’errore ostativo, emendabile, e l’errore-vizio, disciplinato dagli articoli 1427 e ss. cod. civ., che, incidendo sul processo di formazione della volontà negoziale, si colloca al di fuori del potere di rettifica)
» (così, sentenza n. 1554/2016).

EDILIZIA PRIVATAL’abuso di cui all’art. 37, comma 1, dpr 380/2001 riguarda gli interventi eseguiti in assenza della presentazione di una segnalazione di inizio attività non conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dell’intervento, posto che la fattispecie di cui al comma 4 riguarda invece gli interventi conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della presentazione della domanda.
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La giurisprudenza ha ormai chiarito che la sanatoria giurisprudenziale, secondo cui sarebbe sufficiente la conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda, deve considerarsi normativamente superata e recessiva rispetto al chiaro disposto normativo e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti della doppia conformità espressamente delineati dall'art. 36, e 37, comma 4, del DPR 06.06.2001, n. 380.
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Con il primo motivo la ricorrente sostiene che il Comune avrebbe dovuto applicare la sanzione per abuso formale di cui all’art. 37, comma 4, del DPR 06.06.2001, n. 380, e non per l’abuso consistito nella realizzazione di lavori consistenti in opere di manutenzione straordinaria eseguiti senza la presentazione della segnalazione di inizio attività.
La censura non può essere accolta, perché gli interventi edilizi abusivamente realizzati funzionali alla modifica della destinazione d’uso erano stati eseguiti prima della deliberazione del Consiglio comunale necessaria al rilascio del titolo edilizio e alla modifica di destinazione d’uso, senza che fosse stata presentata alcuna segnalazione di inizio attività.
Ne consegue che correttamente il Comune ha ascritto l’abuso alla categoria di cui all’art. 37, comma 1, che riguarda gli interventi eseguiti in assenza della presentazione di una segnalazione di inizio attività non conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dell’intervento, posto che la fattispecie di cui al comma 4 riguarda invece gli interventi conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della presentazione della domanda.
La tesi della ricorrente secondo cui dovrebbe essere applicata la sanzione di cui all’art. 37, comma 4, perché l’intervento deve considerarsi conforme allo strumento urbanistico vigente al momento della presentazione della domanda non può essere accolta.
Infatti sul punto va osservato che la giurisprudenza (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 11.09.2018, n. 5319; id, 24.04.2018, n. 2496; id 20.02.2018, n. 1087) ha ormai chiarito che la sanatoria giurisprudenziale, secondo cui sarebbe sufficiente la conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda, deve considerarsi normativamente superata e recessiva rispetto al chiaro disposto normativo e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti della doppia conformità espressamente delineati dall'art. 36, e 37, comma 4, del DPR 06.06.2001, n. 380.
La censura con la quale la ricorrente sostiene che avrebbe dovuto essere applicata la sanzione di cui all’art. 37, comma 4, in luogo di quella di cui all’art. 37, comma 1, deve pertanto essere respinta.
Dalla documentazione versata in atti emerge tuttavia un evidente difetto di istruttoria e di motivazione perché, come dedotto dalla parte ricorrente, non è chiaro da quali fonti il Comune abbia tratto il dato di un valore unitario di € 2.800 al mq come valore finale, e risulta illogico e contraddittorio che un medesimo abuso edilizio venga qualificato dal Comune come ascrivibile alle fattispecie di cui agli artt. 37, comma 1, relativo ad interventi assoggettati alla presentazione di una segnalazione di inizio attività non conforme agli strumenti urbanistici e 36 relativo ad interventi assoggettati al rilascio di un permesso di costruire e conformi agli strumenti urbanistici, così come si rivelano parimenti fondate le censure di cui al secondo motivo del ricorso introduttivo, così come integrate dalle ulteriori deduzioni proposte con i motivi aggiunti seguiti alla produzione documentale del Comune, con il quale la ricorrente contesta il calcolo del valore dell’immobile prima e dopo l’abuso edilizio commesso.
Infatti, come dedotto nel ricorso, deve ritenersi illegittima l'indiscriminata ed immotivata applicazione del valore massimo, così come applicata dal Comune in base alla deliberazione della Giunta Comunale n. 55 dell'11.03.2009 (cfr. Tar Toscana, Sez. III, 23.07.2012, n. 1351), e di ciò dovrà tener conto il Comune in sede di riedizione dell’attività amministrativa; e dovrà altresì considerare che se effettivamente, come dedotto dal ricorrente nella relazione tecnica depositata in giudizio il 20.12.2018, che sul punto non ha ricevuto repliche da parte del Comune, fosse dimostrato un incremento di valore dell’immobile perché il valore unitario a metro quadro degli immobili destinati a grandi magazzini (con destinazione commerciale) è maggiore di quelli destinati a banca (con destinazione terziaria), non dovrà tenersi conto dello stesso e dovrà essere applicata la sanzione in misura minima (cfr. Tar Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 10.10.2013, n. 458) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 17.12.2019 n. 1376 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATANon è condivisibile l’assunto secondo cui l’amministrazione comunale non disporrebbe del potere di inibire l’intervento comunicato con CILA nel caso in cui esso rientri tra quelli previsti dall’art. 6-bis D.P.R. 380/2001 ma risulti in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia vigente.
L’art. 6-bis, infatti, nel far “salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”, non esclude l’assoggettabilità dell’intervento al generale potere di vigilanza posto in capo al Comune dall’art. 27 DPR 380/2001, mentre la sanzione pecuniaria è prevista solo nel caso in cui l’unica violazione riscontrata sia la mancata comunicazione di inizio lavori.
La CILA, infatti, è un istituto di semplificazione che -a differenza di quanto si prevede per la SCIA e il permesso di costruire- esclude l’assoggettamento degli interventi che ne costituiscono oggetto al controllo sistematico da parte dell’amministrazione, ma non deroga al potere-dovere del Comune di vigilare sul rispetto della normativa urbanistico-edilizia e di inibirne le violazioni.
Nel caso in cui l’amministrazione rilevi, autonomamente o perché sollecitata da terzi, che l’attività oggetto di CILA è in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia ha il dovere di porre in essere i provvedimenti inibitori previsti nell’ambito della propria attività di vigilanza.
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FATTO
La società Fi.It. s.r.l. il 23.12.2016 ha concesso in locazione alla società Va.Im. s.r.l. (che, a sua volta l’ha concessa in sublocazione a Va. s.r.l.) un capannone industriale collocato in zona D5 “zona per attività produttive di riqualificazione urbana” del Comune di Lozzo Atesino.
Prima che l’immobile fosse locato, la Fi. vi svolgeva attività di stampaggio, molto rumorosa, cessata nel 2013. Afferma il ricorrente che, in ragione del disturbo che tale attività provocava agli abitanti della zona, il capannone è stato individuato dallo strumento urbanistico comunale tra quelli ove si svolge un’“attività produttiva da trasferire”, la cui disciplina è dettata dall’art. 1.6 delle n.t.o.
La società Va. ha affittato il capannone per utilizzarlo come a magazzino a servizio dell’attività conserviera svolta da altra società appartenente al medesimo gruppo, il cui stabilimento si trova a poca distanza.
Per realizzare tale destinazione, la Va.Im. ha presentato, l’11.01.2017, una CILA per modificare la destinazione d’uso e ripartire diversamente gli spazi interni.
Il 16.01.2017 il Comune ha inviato alla società una comunicazione di motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, ai sensi dell’art. 10-bis, l. 241/1990 e, successivamente, dopo aver acquisito le osservazioni della società ricorrente, il 24.02.2017, ha ordinato alla Va.Im. ed alla società Fi.It. di non svolgere l’intervento comunicato con la c.i.l.a..
Il provvedimento inibitorio reca una duplice motivazione:
   - le modifiche interne si riferiscono ad un immobile parzialmente abusivo per cui pende un’istanza di sanatoria;
   - “il riutilizzo dell’immobile per attività di magazzino contrasta con gli artt. 1.6. e 6.9 del vigente p.r.g. in quanto si configura come nuovo insediamento dopo l’avvenuta cessazione dell’attività della società Fi.”.
In data 10.03.2017, il ricorrente, per ovviare al primo rilievo, ha presentato una nuova CILA, con cui ha circoscritto l’ambito spaziale delle modifiche interne in modo da lasciare fuori la parte oggetto dell’istanza di sanatoria.
Il Comune ha adottato l’ordinanza n. 17 del 30.05.2017, recante l’ordine di non effettuare l’intervento oggetto della C.I.L.A. presentata dalla società Fi.It. s.r.l. in data 10.03.2017 per le stesse ragioni sottese all’analogo provvedimento relativo alla CILA del 11.01.2017.
Anche questa ordinanza è impugnata, con motivi aggiunti identici a quelli formulati con il ricorso originario.
Si è costituito il Comune di Lozzo Atesino, controdeducendo nel merito.
All’udienza del 18.07.2019 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Le censure contenute nel ricorso originario e nel ricorso per motivi aggiunti, benché riferiti a provvedimenti diversi, appaiono in parte sovrapponibili e possono, pertanto, essere trattate congiuntamente, salvi i diversi effetti che ne derivano in relazione ai singoli provvedimenti impugnati.
2. Il primo motivo del ricorso originario, identico al primo mezzo del ricorso per motivi aggiunti, lamenta l’illegittimità del provvedimento inibitorio adottato dall’Amministrazione, perché perplesso:
   - non individuando il fondamento normativo del potere esercitato;
   - non essendo riconducibile ai poteri di cui l’amministrazione dispone a fronte di un intervento soggetto al regime della CILA (solo sanzionatorio e non inibitorio);
   - non essendo riconducibile a quelli relativi agli interventi soggetti a SCIA, mancando le valutazioni relative alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21-nonies;
   - non essendo riconducibile a quelli relativi all’art. 31 DPR 380/2001, essendo gli interventi non soggetti a permesso di costruire.
Le censure non sono fondate.
Non è condivisibile l’assunto secondo cui l’amministrazione non disporrebbe del potere di inibire l’intervento comunicato con CILA nel caso in cui esso rientri tra quelli previsti dall’art. 6-bis D.P.R. 380/2001, ma risulti in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia vigente.
L’art. 6-bis, infatti, nel far “salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”, non esclude l’assoggettabilità dell’intervento al generale potere di vigilanza posto in capo al Comune dall’art. 27 DPR 380/2001, mentre la sanzione pecuniaria è prevista solo nel caso in cui l’unica violazione riscontrata sia la mancata comunicazione di inizio lavori.
La CILA, infatti, è un istituto di semplificazione che -a differenza di quanto si prevede per la SCIA e il permesso di costruire- esclude l’assoggettamento degli interventi che ne costituiscono oggetto al controllo sistematico da parte dell’amministrazione, ma non deroga al potere-dovere del Comune di vigilare sul rispetto della normativa urbanistico-edilizia e di inibirne le violazioni.
Nel caso in cui l’amministrazione rilevi, autonomamente o perché sollecitata da terzi, che l’attività oggetto di CILA è in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia ha il dovere di porre in essere i provvedimenti inibitori previsti nell’ambito della propria attività di vigilanza (TAR Calabria 29/11/2018 n. 2052, TAR Catania 16/07/2018 n. 1497) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.12.2019 n. 1368 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il prevalente orientamento, formatosi in particolare con riguardo agli interventi di manutenzione di immobili abusivi per i quali sia pendente un’istanza di condono, essi non sarebbero di regola ammissibili, poiché gli interventi su manufatti abusivi “ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione".
Il medesimo orientamento giurisprudenziale, tuttavia, li ammette, purché essi siano autorizzati ai sensi dell’art. 35 L. n. 47 del 1985, essendo tale procedura preordinata sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che ad evitare “postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza che, come previsto dalla legge, l'esecuzione delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza che sebbene interventi di natura eminentemente conservativa possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato, si dovrà demolire anche le migliorie apportate.”.
Dai principi enucleati dalla giurisprudenza sopra riportata, pur se riferita ad una normativa speciale, può evincersi che l’insegnamento tradizionale alla stregua del quale non possono essere autorizzati lavori su manufatti abusivi, ripetendo i primi le medesime caratteristiche di illiceità dei secondi, è riconducibile ad una duplice esigenza: da un lato, evitare l’aggravamento della complessiva difformità dell’immobile abusivo rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia, con conseguente approfondimento del pregiudizio recato all’interesse all’ordinato assetto del territorio, dall’altro, evitare che attraverso l’autorizzazione di nuove opere destinate ad innestarsi su quelle abusive, possa ingenerarsi una situazione di incertezza su quali siano le opere legittimamente realizzate e quali siano, invece, da demolire.
Laddove tale duplice rischio non sussista, come nel caso in cui l’abuso sia limitato ad una parte fisicamente individuabile del bene e le opere di manutenzione concernano una parte strutturalmente estranea a quella abusiva, l’intervento di manutenzione non può ritenersi per ciò solo illegittimo.
Una differente soluzione -che impedisse sempre e comunque interventi di manutenzione su un immobile solo perché in parte abusivo– introdurrebbe una limitazione non prevista dalla legge alle facoltà di godimento del bene oggetto del diritto di proprietà, estesa anche alla parte non abusiva e che sarebbe ingiustificata ove le opere siano preordinate all’utilizzo del bene secondo una destinazione legittima.
S’introdurrebbe, in altre parole, uno statuto peculiare del bene anche in parte abusivo che –oltre alle facoltà di disposizione, espressamente escluse dalla Legge– limiterebbe anche quelle di mero godimento.
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3. La disamina del secondo motivo del ricorso introduttivo e del secondo mezzo del ricorso per motivi aggiunti impone di affrontare la questione relativa all’ammissibilità di interventi di manutenzione su immobili parzialmente abusivi che siano fatti oggetto di istanza di sanatoria.
Secondo il prevalente orientamento in materia, formatosi, in particolare, con riguardo agli interventi di manutenzione di immobili abusivi per i quali sia pendente un’istanza di condono, essi non sarebbero di regola ammissibili, poiché gli interventi su manufatti abusivi “ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione” (cfr. ex multis TAR sez. VII - Napoli, 27/09/2018, n. 5656, TAR sez. VI - Napoli, 20/02/2017, n. 1009 TAR sez. VII - Napoli, 24/12/2018, n. 7322).
Il medesimo orientamento giurisprudenziale, tuttavia, li ammette, purché essi siano autorizzati ai sensi dell’art. 35 L. n. 47 del 1985, essendo tale procedura preordinata sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che ad evitare “postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza che, come previsto dalla legge, l'esecuzione delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza che sebbene interventi di natura eminentemente conservativa possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato, si dovrà demolire anche le migliorie apportate.”.
Dai principi enucleati dalla giurisprudenza sopra riportata, pur se riferita ad una normativa speciale, può evincersi che l’insegnamento tradizionale alla stregua del quale non possono essere autorizzati lavori su manufatti abusivi, ripetendo i primi le medesime caratteristiche di illiceità dei secondi, è riconducibile ad una duplice esigenza: da un lato, evitare l’aggravamento della complessiva difformità dell’immobile abusivo rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia, con conseguente approfondimento del pregiudizio recato all’interesse all’ordinato assetto del territorio, dall’altro, evitare che attraverso l’autorizzazione di nuove opere destinate ad innestarsi su quelle abusive, possa ingenerarsi una situazione di incertezza su quali siano le opere legittimamente realizzate e quali siano, invece, da demolire.
Laddove tale duplice rischio non sussista, come nel caso in cui l’abuso sia limitato ad una parte fisicamente individuabile del bene e le opere di manutenzione concernano una parte strutturalmente estranea a quella abusiva, l’intervento di manutenzione non può ritenersi per ciò solo illegittimo.
Una differente soluzione -che impedisse sempre e comunque interventi di manutenzione su un immobile solo perché in parte abusivo– introdurrebbe una limitazione non prevista dalla legge alle facoltà di godimento del bene oggetto del diritto di proprietà, estesa anche alla parte non abusiva e che sarebbe ingiustificata ove le opere siano preordinate all’utilizzo del bene secondo una destinazione legittima.
S’introdurrebbe, in altre parole, uno statuto peculiare del bene anche in parte abusivo che –oltre alle facoltà di disposizione, espressamente escluse dalla Legge– limiterebbe anche quelle di mero godimento (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.12.2019 n. 1368 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI FORNITURE: Campione privo del marchio CE.
La necessità di garantire la concorrenza impone alle stazioni appaltanti di non escludere tutte quelle offerte che hanno ad oggetto prodotti con caratteristiche tali da soddisfare le specifiche tecniche richieste.
Ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 68 del d.lgs. 50/2016, il riferimento negli atti di gara a specifiche certificazioni tecniche non consente alla stazione appaltante di escludere un concorrente respingendo un’offerta se questa possiede una certificazione equivalente e se il concorrente dimostra che il prodotto offerto ha caratteristiche tecniche perfettamente corrispondenti allo specifico standard richiesto.
Dato tale principio risulterebbe abnorme far discendere l’esclusione dell’offerta dal fatto che, incontestato che il prodotto offerto possiede tutte le caratteristiche richieste (e dichiarate nell’offerta), quello fornito per la “verifica in vivo” risulti privo esclusivamente del marchio CE, di cui la ditta concorrente garantisce la presenza nel prodotto che sarà fornito
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.12.2019 n. 1055 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Configurabilità del reato di gestione abusiva di rifiuti – Natura non occasionale del trasporto – Elementi significativi – Condotta integrante il reato ex art. 256 T.U.A. – Natura di reato istantaneo – Artt. 256 e 318-bis d.lgs. 152/2006 – Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, la condotta in esso sanzionata è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all’esercizio di una attività primaria diversa, che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
Occasionalità, da escludersi in ragione dell’esistenza di una minima organizzazione dell’attività, del quantitativo dei rifiuti gestiti, della predisposizione di un veicolo adeguato e funzionale al loro trasporto, dello svolgimento in più occasioni delle operazioni preliminari di raccolta, raggruppamento e cernita dei soli metalli, della successiva vendita e del fine di profitto perseguito dall’imputato
(Sez. 3, n. 5716 del 07/01/2016, P.M. in proc. lsoardi).
Inoltre, nel caso dell’art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, trattandosi di reato istantaneo, è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative previste dalla norma, potendosi tuttavia escludere l’occasionalità della condotta da dati significativi, quali l’ingente quantità di rifiuti, denotanti lo svolgimento di un’attività implicante un “minimum” di organizzazione necessaria alla preliminare raccolta e cernita dei materiali (Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016, P.M. in proc. Revello).
Sicché, oltre agli elementi significativi precedentemente indicati per individuare la natura non occasionale dell’attività di trasporto, vanno considerati, anche alternativamente, altri dati univocamente sintomatici, quali, ad esempio, la provenienza del rifiuto da una determinata attività imprenditoriale esercitata da colui che effettua o dispone l’abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto quando risultino indicative di precedenti attività preliminari, quali prelievo, raggruppamento, cernita, deposito (Sez. 3, n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).

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RIFIUTI – Illecita gestione – Trasporto non autorizzato di rifiuti – Sentenza di condanna – Confisca obbligatoria del mezzo.
Il trasporto di rifiuti rientra tra le attività di gestione, come espressamente previsto dall’art. 183, lett. n), d.lgs. 1526 e la sua effettuazione in assenza di valido titolo abilitativo configura un’ipotesi di illecita gestione, sanzionata dall’art. 256 d.lgs. 152/2006.
Sicché, alla sentenza di condanna per tale reato (o a quella emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.) consegue, come stabilito dall’art. 259, ultimo comma, d.lgs. 152/2006, la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto.

...
RIFIUTI – Art. 318-bis e applicabilità della speciale procedura estintiva – Effetti – Requisito della insussistenza del danno o pericolo concreto – Procedibilità dell’azione penale.
L’art. 318-bis, limita l’applicazione della procedura alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale previste dal d.lgs. 152/2006 che non abbiano cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette. Si tratta, dunque, di casi di minore rilievo.
Tale procedura non è affatto obbligatoria, sicché, la disciplina di cui agli artt. 318-bis e ss. d.lgs. 152/2006 trova, inoltre, un ulteriore limite nella condizione, espressamente imposta, della insussistenza del danno o pericolo concreto, ribadendo che gli art. 318-bis e ss. d.lgs. 152/2006 non stabiliscono che l’organo di vigilanza o la polizia giudiziaria impartiscano obbligatoriamente una prescrizione per consentire al contravventore l’estinzione del reato e l’eventuale mancato espletamento della procedura di estinzione non comporta l’improcedibilità dell’azione penale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.12.2019 n. 49718 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAGli strumenti di pianificazione comunale non possono essere utilizzati per limitare la libertà di culto.
La Corte costituzionale dichiara incostituzionali le disposizioni della legge regionale della Lombardia che subordinano, da un lato, la realizzazione di edifici di culto alla previa approvazione di specifici strumenti di piano (PAR: piano per le attrezzature religiose); dall’altro lato, la approvazione del medesimo PAR alla contestuale approvazione del piano urbanistico generale di livello comunale.
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Regione – Lombardia – Edifici di culto – Localizzazione e dimensionamento – Piano comunale delle attrezzature religiose – Necessità – Funzione di pianificazione urbanistica comunale – Limiti – Incostituzionalità.
La Corte costituzionale, con riguardo alle questioni sollevate –per violazione degli artt. 2, 3 e 19 Cost.– in merito all’articolo 72, commi 1, 2 e 5, della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 03.02.2015, n. 2, dichiara:
    inammissibile la questione relativa al comma 1, secondo cui la possibilità di edificare luoghi di culto è limitata alle sole zone ed aree a ciò specificamente dedicate dal piano per le attrezzature religiose (PAR);
    fondata la questione relativa al comma 2, il quale afferma l’impossibilità di edificare luoghi di culto in assenza di PAR;
    fondata la questione relativa al comma 5 ove si afferma che, decorsi 18 mesi dalla entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, il piano per le attrezzature religiose (PAR) può essere adottato solo unitamente ad un nuovo piano regolatore comunale oppure ad una specifica variante di quest’ultimo (1).

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   (1) I. – Con la sentenza in rassegna la Corte costituzionale dichiara illegittime le disposizioni di cui all’art. 72, commi 2 e 5, l.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 (“Legge per il governo del territorio”), come modificata sul punto dalla l.r. 03.02.2015, n. 2.
Tali disposizioni prevedono in particolare che: gli edifici di culto possono essere realizzati soltanto in presenza di uno specifico piano di settore (piano per le attrezzature religiose, PAR); quest’ultimo strumento di piano può essere adottato, una volta trascorsi 18 mesi dalla entrata in vigore della citata legge regionale del 2015, soltanto contestualmente allo strumento urbanistico generale del comune.
Una simile disposizione, secondo la Corte, si pone in contrasto con le norme costituzionali in tema di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di libertà religiosa (art. 19 Cost.).
   II. – La sottesa vicenda normativa e processuale può essere così sintetizzata:
      a) due associazioni culturali, entrambe aventi ad oggetto il mantenimento e la valorizzazione delle tradizioni culturali islamiche, chiedevano di poter realizzare, nel territorio di due comuni lombardi, alcuni complessi immobiliari destinati ad attività di culto. Nel primo caso, il comune interessato rigettava la suddetta richiesta a causa della mancata approvazione, secondo quanto previsto dalla normativa regionale in materia, del piano per le attività religiose (PAR). Nel secondo caso, il comune interpellato faceva presente che il PAR non poteva essere approvato in assenza di un nuovo piano regolatore o di una sua variante;
      b) tali dinieghi formavano oggetto di ricorso davanti al Tar per la Lombardia che, con sentenza non definitiva 03.08.2018, n. 1939 (oggetto della News US, in data 15.10.2018) e sentenza non definitiva 08.10.2018, n. 2227 (oggetto della News US, in data 15.10.2018, ed alle quali News si rinvia per ogni ulteriore approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), sollevava q.l.c. del menzionato articolo 72, commi 1, 2 e 5, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione;
      c) le disposizioni di cui sopra prevedevano, più in particolare:
         c1) la possibilità di edificare luoghi di culto soltanto nelle zone e nelle aree a ciò specificamente dedicate dal piano per le attrezzature religiose, c.d. PAR (art. 72, comma 1);
         c2) l’impossibilità di edificare luoghi di culto in assenza di PAR (art. 72, comma 2);
         c3) decorsi 18 mesi dalla entrata in vigore della legge, la possibilità di adottare il piano per le attrezzature religiose (PAR) solo contestualmente ad un nuovo piano regolatore comunale oppure ad una specifica variante di quest’ultimo (art. 72, comma 5);
   III. – Questi gli esiti del giudizio davanti alla Corte costituzionale:
      d) la questione relativa al comma 1 è stata innanzitutto dichiarata inammissibile atteso che alcun piano per le attrezzature religiose (PAR) è stato approvato nei due casi rispettivamente prospettati;
      e) la questione relativa al comma 2 (impossibilità di edificare luoghi di culto in assenza di PAR) è stata invece ritenuta fondata per le ragioni di seguito sintetizzate:
         e1) la libertà religiosa, specificamente garantita dall’art. 19 Cost., è un diritto inviolabile con valenza sia positiva (le amministrazioni competenti debbono mettere a disposizione adeguati spazi pubblici per le relative attività religiose) sia negativa (le stesse autorità non debbono frapporre ingiustificati ostacoli all’esercizio del culto stesso);
         e2) la tutela di una simile libertà non può dipendere dalla consistenza sociale e dalla entità della presenza sul territorio dei soggetti interessati all’esercizio del culto;
         e3) in questa stessa direzione, sono state a loro tempo dichiarate incostituzionali talune norme che prevedevano determinati vantaggi (id est: benefici economici) soltanto in favore di quelle confessioni religiose che avevano stipulato intese con lo Stato italiano ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost. Parimenti incostituzionali sono state dichiarate quelle norme che prevedevano determinati oneri (es. videosorveglianza negli edifici di culto) soltanto a carico di confessioni che non avevano stipulato simili intese;
         e4) le regioni possono dunque sì intervenire, in tema di edilizia di culto, ma a condizione di disciplinare soltanto aspetti legati al governo del territorio e senza in alcun modo compromettere o addirittura ostacolare la libertà di religione;
e5) tanto premesso il predetto comma 2 è stato pertanto ritenuto costituzionalmente illegittimo dal momento che:
             il carattere assoluto di una simile previsione (impossibilità di realizzare qualsivoglia attrezzatura religiosa in assenza di PAR) impedisce di distinguere i singoli interventi in funzione della loro dimensione e del loro impatto sul carico urbanistico (piccole sale di preghiera privata sono infatti considerate alla stessa stregua di una moschea di notevoli proporzioni);
             si crea un ingiustificato regime differenziato tra attrezzature religiose (soggette a PAR) ed altri impianti di interesse generale (es. scuole, ospedali, palestre, etc.) i quali non sono sottoposti alle stesse limitazioni di carattere pianificatorio;
      f) anche il comma 5 (con cui si afferma che, decorsi 18 mesi dalla entrata in vigore della legge regionale in esame, il piano per le attrezzature religiose può essere adottato soltanto unitamente ad un nuovo piano regolatore generale oppure ad una sua variante) è stato reputato costituzionalmente illegittimo dal momento che:
         f1) gli strumenti urbanistici in generale (piano regolatore o sue varianti) sono riservate al potere ampiamente discrezionale della amministrazione comunale sia per quanto riguarda l’an, sia per quanto attiene al quando;
         f2) ciò vorrebbe dire che la approvazione del PAR sarebbe conseguentemente ancorata ad una tempistica del tutto incerta ed aleatoria;
         f3) di qui un ulteriore profilo di forte compressione della libertà religiosa, di cui all’art. 19 Cost., che potrebbe in questo modo essere non solo ostacolata ma persino negata.
IV. – Si segnala per completezza quanto segue:
      g) sul principio di laicità dello Stato si veda, tra le altre:
         g1) Corte cost. 20.11.2000, n. 508 (in Foro it., 2002, I, 985; Critica del diritto, 2000, 531, con nota di D’AMATO; Quaderni dir. e politica ecclesiastica, 2002, 1141, con note di CASUSCELLI e IANNACCONE), che ha dichiarato incostituzionale l’art. 402 c.p. nella parte in cui prevedeva il reato di vilipendio della religione dello Stato;
         g2) Corte cost. 14.11.1997, n. 329 (in Foro it., 1998, I, 26, con nota di FIANDACA; Giur. it., 1998, 987, con nota di FONTANA; Giur. costit., 1997, 3335, con nota di RIMOLI; Dir. eccles., 1998, II, 3, con nota di PALOMBO; Cass. pen., 1998, 1575, con nota di CHIZZONITI), che ha dichiarato incostituzionale l’art. 404, primo comma, c.p., nella parte in cui prevedeva la pena della reclusione da uno a tre anni, anziché la pena diminuita prevista dall’art. 406 c.p.;
         g3) Corte cost., 08.10.1996, n. 334 (in Cons. Stato, 1996, II, 1641; Arch. civ., 1996, 1241; Nuovo dir., 1996, 971, con nota di SFORZA e NUNZIATA; Foro it., 1997, I, 25, con nota di VERDE), secondo cui: “Gli art. 2, 3 e 19 cost. garantiscono come diritto la libertà di coscienza in relazione all'esperienza religiosa, diritto rappresentante, sotto il profilo giuridico-costituzionale, un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall'art. 2, e spettante ugualmente ai credenti e ai non credenti, con la conseguenza, valida per gli uni e per gli altri, tenuto conto del connesso principio di laicità o non confessionalità dello stato, che in nessun caso il compimento di atti appartenenti alla sfera della religione può essere oggetto di prescrizioni obbligatorie derivanti dall'ordinamento giuridico, anche come mezzi a fini statali, indipendentemente dall'irrilevante circostanza che il loro contenuto sia conforme, estraneo o contrastante rispetto alla coscienza religiosa individuale; pertanto, sono incostituzionali, rispetto ai suddetti parametri, sia l'art. 238, 2º comma, c.p.c., nella parte in cui la formula del giuramento decisorio deferito da una delle parti all'altra indica la consapevolezza che l'assunzione della responsabilità affrontata avviene «davanti a Dio», sia, ai sensi dell'art. 27 d.p.r. 11.03.1953 n. 87, l'art. 238, 1º comma, stesso codice, nella parte in cui stabilisce che il giudice deve ammonire il giurante sull'importanza anche «religiosa» del giuramento, risultandone un inammissibile collegamento fra l'obbligo religioso, con il vincolo nel relativo ambito, da un lato, ed il fine probatorio proprio dell'ordinamento processuale statale, dall'altro”.
La Corte ha inoltre affermato che: “Pur essendo venuto meno un contesto culturale unitario che attribuisca al giuramento un condiviso significato religioso e pur scontando il connesso affievolimento del valore relativo, l'ordinamento, allorché i cittadini siano chiamati a svolgere funzioni di particolare rilievo collettivo, può continuare ad utilizzare il giuramento, per il mantenersi di un suo significato etico-individuale (che aggiunge un sovrappiù di gravità e negatività dello spergiuro, rispetto al mancamento di una semplice promessa), in riferimento al suo collegamento con i valori da ciascuno considerati, nel profondo della coscienza, come più impegnativi e degni di osservanza; ma proprio in questa ottica, esaltante il contenuto della libertà individuale di coscienza, la dichiarazione di incostituzionalità del giuramento deferito da una parte all'altra a norma dell'art. 238 c.p.c., nella parte in cui si riferisce alla responsabilità che si assume «davanti a Dio» deve estendersi anche al rinvio alla responsabilità «davanti agli uomini», nella duplice considerazione che la mancata eliminazione di detto richiamo potrebbe sancire il riconoscimento di una «religione dell'umanità» e che la conservazione di un solo valore potrebbe implicitamente escludere ogni altro, con violazione della libertà di coscienza di quei cittadini credenti, per i quali, del tutto legittimamente, il giuramento ha un significato religioso”;
         g4) Corte cost., 18.10.1995, n. 440 (in Cons. Stato, 1995, II, 1714; Ammin. it., 1995, 1811; Foro it., 1996, I, 30, con nota di COLAIANNI), secondo cui: “L'art. 724, 1º comma, c.p., nella parte in cui punisce la bestemmia contro i simboli o le persone venerati nella religione cattolica, già religione di stato (e fermo il divieto penale della bestemmia contro la divinità in genere), viola gli art. 3 e 8 cost., in quanto contrastante con il principio di generalità di tutela del sentimento religioso, bene comune a tutte le fedi presenti nella comunità nazionale e rispetto al quale è irrilevante il criterio del numero degli osservanti”;
         g5) Corte cost., 12.04.1989, n. 203 (in Foro it., 1989, I, 1333, con nota di COLAIANNI; Arch. civ., 1989, 471; Corriere giur., 1989, 639, con nota di FERRARI; Ammin. it., 1989, 1035; Cons. Stato, 1989, II, 537; Giust. civ., 1989, I, 1277; Riv. giur. scuola, 1989, 405; Riv. amm., 1989, 945; Nomos, 1989, fasc. 1, 185; Vita not., 1988, 1108), secondo cui: “È infondata, nei sensi di cui in motivazione (ove si rileva che l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo e per quanti decidano di non avvalersene l’alternativa è uno stato di non-obbligo), la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, n. 2, l. 25.03.1985 n. 121 e del punto 5, lett. b, n. 2, del protocollo addizionale, in riferimento agli art. 2, 3 e 19 Cost.”;
      h) sulla competenza regionale in materia di edilizia di culto si veda:
         h1) Corte cost., 07.04.2017, n. 67 (in Foro it., 2017, I, 1451; Giur. costit., 2017, 662, con nota di RIMOLI), secondo cui:
             “è incostituzionale l'art. 2 l.reg. Veneto 12.04.2016 n. 12, nella parte in cui, nell'introdurre nella l.reg. 23.04.2004 n. 11 l'art. 31-ter, al suo 3º comma, dispone che nella convenzione può essere previsto l'impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività, svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto”.
La Corte dichiara dunque incostituzionale la norma regionale per la parte in cui prevede la possibilità di impegnare le autorità a richiedere l’utilizzo della lingua italiana per le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi. Il giudice costituzionale rileva infatti come la legislazione regionale in materia di edilizia di culto trovi la sua ragione nella esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi, per cui risulta «palesemente irragionevole», in quanto incongruo e «del tutto eccentrico» rispetto alla finalità perseguita, il prescritto impegno ad utilizzare la lingua italiana;
             “è infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 l.reg. Veneto 12.04.2016 n. 12, nella parte in cui introduce nella l.reg. 23.04.2004 n. 11 l'art. 31-bis, che riconosce alla regione ed ai comuni veneti, ciascuno nell'esercizio delle rispettive competenze, il compito di individuare i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della chiesa cattolica, delle confessioni religiose, i cui rapporti con lo stato siano disciplinati ai sensi dell'art. 8, 3º comma, cost. e delle altre confessioni religiose, in riferimento agli art. 3, 8 e 19 cost.”.
La Corte esclude il contrasto con il principio di laicità dello Stato e con il divieto di discriminazione fra le diverse confessioni religiose attraverso una lettura «costituzionalmente conforme» della normativa regionale impugnata, rilevando come eventuali illegittime applicazioni della normativa, non discendenti immediatamente dal testo della legge, potranno essere censurate, caso per caso, nelle opportune sedi giurisdizionali;
         h2) Corte cost., 24.03.2016, n. 63 (in Foro it., 2017, I, 1451; Regioni, 2016, 598, con nota di GUAZZAROTTI; Giur. it., 2016, 1070, con nota di TUCCI; Riv. neldiritto, 2016, 780, con nota di SANSONE; Giur. costit., 2016, 616, con note di RIMOLI, CROCE), secondo cui, tra l’altro:
             “è incostituzionale l'art. 70, comma 2-bis, lett. a) e b), e 2-quater, l.reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12, introdotto dall'art. 1, 1º comma, lett. b), l.reg. Lombardia 3 febbraio 2015 n. 2, nella parte in cui, per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi, distingue tre ordini di destinatari e stabilisce specifici requisiti per le confessioni «senza intesa», la cui valutazione è obbligatoriamente rimessa al vaglio preventivo, ancorché non vincolante, di una consulta regionale, da istituirsi e nominarsi con provvedimento della giunta regionale”;
             “è incostituzionale l’art. 72, 4° e 7° comma, lett. e), l. reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12, introdotto dall’art. 1, 1° comma, lett. c), l.reg. Lombardia 03.02.2015 n. 2, nella parte in cui prevede che, nel corso del procedimento per la predisposizione del «piano delle attrezzature religiose», vengano acquisiti i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine, oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura, al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali, nonché, per ciascun edificio di culto, la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine”;
             “è infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 70, 2º comma ter, ultimo periodo, l.reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12, introdotto dall'art. 1, 1º comma, lett. b), l.reg. Lombardia 03.02.2015 n. 2, nella parte in cui prevede che gli enti delle confessioni religiose diverse dalla chiesa cattolica devono stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato e che tali convenzioni devono prevedere espressamente la possibilità della risoluzione o della revoca, in caso di accertamento da parte del comune di attività non previste nella convenzione, in riferimento all'art. 19 cost.”;
             “è infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 72, 7º comma, lett. g), l.reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12, introdotto dall'art. 1, 1º comma, lett. c), l.reg. Lombardia 03.02.2015 n. 2, nella parte in cui prevede che il piano delle attrezzature religiose garantisca la congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo, così come individuate nel piano territoriale regionale (Ptr), in riferimento agli art. 3, 8 e 19 cost.”;
             “è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli art. 3, 8, 19 e 117, 2º comma, lett. c), cost., l'art. 70, 2º comma bis, limitatamente alle parole «che presentano i seguenti requisiti» e lett. a) e b), e 2º comma quater, l.reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12 (introdotti dall'art. 1, 1º comma, lett. b), l.reg. 03.02.2015 n. 2), in quanto impongono alle sole confessioni religiose non firmatarie di intese con lo stato requisiti differenziati e più stringenti per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi”;
             il principio costituzionale di laicità dello Stato in regime di pluralismo confessionale e culturale deve essere inteso nel senso che il libero esercizio del culto è da ritenersi aspetto essenziale della libertà di religione e, quindi, l’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio del medesimo, ricade nella garanzia dell’art. 19 Cost.;
             “nella Costituzione italiana ciascun diritto fondamentale, compresa la libertà di religione, è predicato unitamente al suo limite; sicché non v’è dubbio che le pratiche di culto, se contrarie al ‘buon costume’, ricadano fuori dalla garanzia costituzionale di cui all’art. 19 Cost.; né si contesta che, qualora gli appartenenti a una confessione si organizzino in modo incompatibile ‘con l’ordinamento giuridico italiano’, essi non possano appellarsi alla protezione di cui all’art. 8, 2° comma, Cost. Tutti i diritti costituzionalmente protetti sono soggetti al bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli interessi costituzionali in gioco, di modo che nessuno di essi fruisca di una tutela assoluta e illimitata e possa, così, farsi ‘tiranno’. Tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto —nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra— sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza”;
         h3) Corte cost., 16.07.2002, n. 346 (in Foro it., 2002, I, 2935; Giur. it., 2002, 2245, con nota di COLELLA), secondo cui: “E’ incostituzionale l'art. 1 l.reg. Lombardia 09.05.1992 n. 20, nella parte in cui condiziona l'erogazione dei contributi a favore delle confessioni religiose al requisito dell'avere queste stipulato un'intesa con lo Stato, ai sensi dell'art. 8, 3º comma, Cost.”.
Si trattava, nella specie, di contributi erogati proprio per la realizzazione di edifici di culto. La Corte ha in particolare ribadito che lo strumento delle intese di cui all’art. 8, 3° comma, Cost., vale per gli aspetti che si ricollegano alla specificità delle singole confessioni o che richiedono deroghe al diritto comune, mentre non possono divenire una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire delle libertà di organizzazione e di azione, libertà garantite dall’art. 8, 1° e 2° comma, Cost., né per usufruire di norme di favore riguardanti le confessioni religiose medesime;
         h4) ancora in tema di costruzione di edifici di culto si veda Corte cost., 27.04.1993, n. 195 (in Foro it., 1994, I, 2986, con nota di COLAIANNI; Giur. costit., 1993, 2151 con nota di ACCIAI, DI COSIMO; Giur. it., 1994, I, 97, con nota di COLELLA; Regioni, 1994, 276, con nota di PIVA; Nuove autonomie, 1993, fasc. 2, 106, con nota di CORSO), che ha dichiarato incostituzionale l’art. 1 l.r. Abruzzo 16.03.1988, n. 29, nella parte in cui si limitava l’accesso ai contributi per la realizzazione degli edifici di culto alla chiesa cattolica e alle altre confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.;
      i) sui poteri comunali urbanistici in relazione agli edifici di culto si veda Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2019, n. 8328, che, sempre con riferimento ad un comune lombardo, ha dichiarato illegittima la risoluzione di una convenzione urbanistica -preordinata alla costruzione di un edificio da adibire a Centro di cultura islamico- disposta dall’autorità comunale in mancanza di una preventiva valutazione che abbia dato mostra di aver bilanciato la gravità dell'inadempimento all'obbligo di pagare una certa somma per opere di urbanizzazione con la finalità della convenzione di garantire il libero esercizio del culto.
Il Consiglio di Stato ha, in particolare, richiamato quel dato orientamento della Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 63 del 2016, cit.) secondo cui, a fronte di comportamenti abnormi dei titolari di autorizzazioni edilizie (nella specie si trattava del mancato versamento di 320 mila euro a titolo di oneri concessori), è ammessa la possibilità di risoluzione o di revoca della presupposta convenzione, fermo restando che deve trattarsi di rimedi estremi da attivare soltanto in assenza di alternative meno severe;
      j) più in particolare, sul divieto di discriminazione fra i differenti culti e sul raggiungimento o meno dell’intesa con lo Stato in relazione alla libertà di religione, si veda Corte cost. 10.03.2016, n. 52 (in Foro it., 2016, I, 1940, con note di ROMBOLI, AMOROSO e TRAVI, e in Giur. costit., 2016, 537, con note di CARLASSARE e CROCE), che ha ritenuto non spettare alla Corte di cassazione affermare la sindacabilità in sede giurisdizionale della delibera con cui il Consiglio dei ministri ha negato all’unione degli atei e degli agnostici razionalisti l’apertura delle trattative per la stipulazione dell’intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost.
Nel caso di specie la Corte ha in particolare ritenuto che spetta al Consiglio dei ministri valutare l’opportunità di avviare trattative con una determinata associazione, al fine di addivenire, in esito ad esse, alla elaborazione bilaterale di una speciale disciplina dei reciproci rapporti.
Di tale decisione il governo può essere chiamato a rispondere politicamente di fronte al parlamento, ma non in sede giudiziaria. Qualora l’atto governativo, di diniego all’avvio delle trattative, contenga altresì la negazione della qualifica di «confessione religiosa» all’associazione richiedente, questa parte della decisione potrà invece formare oggetto di controllo giudiziario, nelle forme processuali consentite dall’ordinamento, allo scopo di sindacare la suddetta mancata qualificazione di «confessione religiosa» (Corte Costituzionale, sentenza 05.12.2019 n. 254 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi – Esecutore materiale di opere abusive – Responsabilità a titolo di colpa – Configurabilità – Oneri dell’imprenditore che noleggia mezzo e manovratore – Verifica e responsabilità della liceità dell’opera – Configurabilità – Art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001, Artt. 142 e 181 d.lgs. n. 42/2004.
In tema di reati edilizi, l’esecutore dei lavori edilizi ha il dovere di controllare preliminarmente che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, rispondendo a titolo di dolo del reato di cui all’art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in caso di inizio delle opere nonostante l’accertamento negativo, e a titolo di colpa nell’ipotesi in cui tale accertamento venga omesso (Sez. 3, n. 16802 del 08/04/2015, Carafa e altro).
Per cui, è onere dell’imprenditore, che noleggia mezzo e manovratore, la verifica della liceità dell’opera che la sua organizzazione aziendale contribuirà a realizzare, ancorché sotto le direttive del proprietario dell’area.
Se dunque la responsabilità, a norma dell’art. 44 d.P.R. n. 380/2001, è ravvisata financo nell’operato dei meri esecutori materiali, nell’ambito della verifica dell’esistenza del titolo autorizzativo, a maggior ragione non può esimersi da un’elementare attività informativa l’imprenditore specializzato che consente l’uso di proprie attrezzature e di proprio personale, pena l’illiceità dello stesso rivendicato contratto stipulato.

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Opere abusive – Noleggio dei mezzi meccanici – Operato dei meri esecutori materiali – Responsabilità del noleggiatore – Concorso nel reato per colpa – Verifica dei provvedimenti abilitanti – Necessità – Natura di reati comuni – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Zona sottoposta a vincolo paesaggistico – Ampliamento abusivo di un piazzale con sbancamento – Fattispecie.
In materia urbanistica, e specificamente di lavori di costruzione edilizia in assenza del relativo permesso, gli esecutori materiali dei lavori, che prestano la loro attività alle dipendenze del costruttore, possono concorrere, per colpa, nella commissione dell’illecito per il caso di mancanza del permesso di costruire, se non adempiono all’onere di accertare l’intervenuto rilascio del provvedimento abilitante.
Del pari, è stato così ribadito che le contravvenzioni edilizie previste dall’art. 44, d.P.R. n. 380/2001 devono essere qualificate come reati comuni e possono dunque essere commesse da qualsiasi soggetto (fatta eccezione per le condotte di inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori, per quelle ascrivibili esclusivamente al direttore dei lavori, nonché per alcune fattispecie riconducibili alla lettera a) della norma in quanto riferibili a specifici destinatari).
Fattispecie: conferma della condanna del noleggiatore dei mezzi meccanici utilizzati dal costruttore per la realizzazione dell’ampliamento abusivo di un piazzale in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, con sbancamento di una porzione di versante della collina adiacente
(Corte di Cassazione,Sez. III penale, sentenza 03.12.2019 n. 49022 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione struttura sportiva in zona agricola (campi di calcetto e manufatto seminterrato) – Interventi su aree non destinate ad attività sportiva senza creazione di volumetria – Trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio – Permesso di costruire – Necessità – Artt. 22, 23, 37, 44, 83 e 95 del dpr n. 380/2001.
In materia urbanistica, la realizzazione di un impianto sportivo in zona agricola (come nella specie, due campi di calcetto e manufatto seminterrato di circa 115 metri quadrati fuoriuscente dal livello stradale per circa 1,10 metri) integra la violazione dell’art. 44 lett. b), d.P.R. 06.06.2001 n. 380, atteso che la disposizione di cui all’art. 4, legge n. 493 del 1993 (ai sensi della quale gli interventi su aree destinate ad attività sportiva senza creazione di volumetria sono subordinati alla semplice denuncia di inizio attività) trova applicazione su aree già destinate ad attività sportive (Sez. 3, n. 12920 del 17/02/2016; Sez. 3, n. 19521 del 04/04/2013, Cacciato; Sez. 3, n. 8414 del 14/01/2005, Forleo).
L’art. 3, lett. e.1), del p.P.R. n. 380/2001 indica tra gli interventi di nuova costruzione anche i manufatti fuori terra ed interrati quindi, anche la realizzazione di un immobile, in tutto o in parte interrato, rientra tra gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio per i quali è necessario il permesso di costruire, trattandosi di opere in relazione al quale l’autorità amministrativa deve svolgere il proprio controllo sul rispetto delle norme urbanistiche ed edilizie, anche tecniche, finalizzato ad assicurare il regolare assetto e sviluppo del territorio (Sez. 3, n. 24464 del 10/05/2007)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.12.2019 n. 49021 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legge regionale sul piano casa e recupero dei volumi mediante mutamento di destinazione d’uso.
La L.R. 4/2012 non subordina il recupero di volumi o l’utilizzo di superfici e volumi esistenti alla concreta esecuzione di opere edilizie.
La legislazione sul piano casa consente sia il recupero dell’esistente (quid pluris) sia l’ampliamento (quid novi), per cui non appaiono sussistere ostacoli, sul piano normativo, a che il recupero avvenga attraverso il mutamento di destinazione, che consente l’utilizzo di superfici un tempo non rilevanti ai fini della slp
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.12.2019 n. 2565 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1. Et. s.p.a. chiede l’annullamento dei provvedimenti indicati in epigrafe con i quali il comune di Milano nega il permesso di costruire richiesto dalla Società in data 22.10.2013 e volto al recupero per uso terziario, ai sensi e per gli effetti della previsione di cui all’articolo 3 della L.r. n. 4/2012, di due distinti spazi dell’immobile di proprietà della ricorrente, non compresi nella s.l.p. assentita e consistenti: a) in un loggiato posto al piano terra di mq 22,21; b) in locali comuni ubicati al piano 4° già destinati ad area “fitness” con vincolo per atto notarile del 13.10.2009.
2. L’Amministrazione comunale nega il permesso di costruire evidenziando la non assentibilità dell’intervento in ragione della mancata esecuzione di opere (sostanziandosi il recupero nella mera rimozione degli effetti derivanti dall’atto unilaterale d’obbligo) e della non conformità dell’immobile ai parametri urbanistici che discenderebbe dalla concessione del permesso richiesto.
3. La ricorrente articola due motivi di ricorso deducendo, in primo luogo, l’illegittimità del diniego per violazione delle previsioni di cui agli articoli 3 della L.r. n. 4 del 2012 e 2 della L.r. n. 13 del 2009, nonché l’eccesso di potere “nelle sue diverse figure sintomatiche”.
In secondo luogo, la Società deduce la contrarietà del diniego alla previsione di cui all’articolo 20, comma 4, del D.P.R. n. 380 del 2001 e 1 della L. n. 241 del 1990. Lamenta, inoltre, la violazione dei principi di efficacia ed efficienza dell’attività amministrativa e la lesione del principio di leale collaborazione tra cittadino e Pubblica Amministrazione.
4. Si costituisce in giudizio il comune di Milano in data 07.11.2014 chiedendo di dichiarare il ricorso inammissibile o, comunque, infondato.
5. In vista dell’udienza pubblica del 27.11.2019 il comune di Milano deposita memoria difensiva finale con la quale evidenzia la legittimità dell’operato dell’Ufficio. In data 06.11.2019, la ricorrente deposita memoria di replica con la quale insiste nei motivi di ricorso richiamando, all’uopo, precedenti giurisprudenziali sulle questioni all’attenzione del Collegio.
6. All’udienza pubblica del 27.11.2019 la causa è trattenuta in decisione.
7. Il ricorso è fondato.
8. Incentrando la disamina sull’aspetto decisivo del giudizio (come focalizzato anche dalle memorie delle parti depositate in vista dell’udienza di trattazione del merito della causa), si osserva come il Comune neghi il permesso richiesto stante il ritenuto contrasto con “il disposto della L.R. 4/12 in quanto il recupero dei locali fitness [è] realizzato senza alcun intervento edilizio, previa revoca dell’atto di destinazione già trascritto nei registri immobiliari”.
Infatti, secondo il comune di Milano, “il recupero della slp previsto nel progetto non si [concretizza] nell’esecuzione di interventi edilizi, bensì in una semplice operazione giuridica consistente nella revoca del precedente vincolo di destinazione a locali fitness dei locali posti al quarto piano dello stabile”.
In tal modo, inoltre, “la revoca dell’atto di vincolo di superfici in tutto e per tutto abitabili ne comporta la trasformazione in superfici realizzate in difformità dal titolo edilizio originario, in quanto eccedente l’indice di edificabilità indicato nello strumento urbanistico allora vigente” con conseguente impossibilità di “avvalersi delle misure incentivanti del cd. Piano Casa in conformità al disposto dell’art. 5.3., lett. c), della L.r. 13/2009”.
9. Osserva il Collegio come la Sezione si esprima in relazione ad una fattispecie omologa a quella in esame affermando che: “la lettura delle norme in materia (vale a dire le già ricordate LR 13/2009 e 4/2012), non porta a rinvenire un divieto come quello indicato dal Comune, né la legislazione subordina il recupero di volumi o l’utilizzo di superfici e volumi esistenti alla concreta esecuzione di opere edilizie. L’interpretazione propugnata dall’Amministrazione appare ingiustificatamente restrittiva, a fronte della chiara lettera della norma, che consente in ogni modo l’utilizzo di superfici e volumi esistenti. […] Lo scrivente Tribunale, del resto, nella sentenza della sezione II n. 85/2011 [ammette] che la legislazione sul piano casa consente sia il recupero dell’esistente (quid pluris) sia l’ampliamento (quid novi), per cui non appaiono sussistere ostacoli, sul piano normativo, a che il recupero avvenga attraverso il mutamento di destinazione, che consente l’utilizzo di superfici un tempo non rilevanti ai fini della slp” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 01.07.2015, n. 1512).
10. Tali principi sono condivisi dal Collegio e sono, pertanto, applicati anche con riferimento alla fattispecie in esame. Ne discende l’illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui nega il titolo edilizio richiesto ritenendo non sussistenti i presupposti legali per assentirlo.
11. In secondo luogo, l’Amministrazione evidenzia come l’intervento risulterebbe contrario alle previsioni di cui all’articolo 5, comma 3, lettera c), della L.r. n. 13/2009 che vieta l’applicazione delle disposizioni “con riferimento agli edifici realizzati in assenza di titolo o in totale difformità, anche condonati”.
La tesi non convince atteso che, come evidenziato dalla Società ricorrente, “il recupero funzionale dell’area fitness avviene con il contestuale concorso di due elementi tra loro conseguenziali: il primo è dato dall’esistenza della disciplina delle leggi regionali n. 4/2012 e 13/2009 che consentono la trasformazione, anche senza opere, di locali privi delle caratteristiche di fatto e/o di diritto per essere considerati nell’ambito della s.l.p. dell’edificio; il secondo [è] rappresentato da quell’attività volta a far acquisire ai predetti locali le caratteristiche di abitabilità sul presupposto dell’applicabilità della disciplina sul “Piano Casa” nell’ambito delle quali deve essere compreso il ritiro dell’atto di vincolo quale condizione alla piena operatività della nuova funzione”.
In sostanza, non si tratta, quindi, di applicare la normativa ad un abuso ma di recuperare, per il tramite della normativa del c.d. Piano casa, gli spazi interni dell’edificio.
12. In definitiva il ricorso deve essere accolto.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Nozione di bosco.
Un bosco rappresenta un sistema vivente complesso insediato in modo tale da essere in grado di autorigenerarsi, così dissipando del tutto l’idea che per bosco debba intendersi l’insieme monocultura di alberi destinati, ad esempio, alla produzione di legname; la nozione di bosco non è in alcun modo riducibile a quella di un insieme di alberi.
Del resto, una differente nozione sarebbe non solo incompatibile con il dato esperenziale, ma non consentirebbe la tutela di tutti gli altri interessi pubblici, che motivano il divieto di antropizzazione di detti territori; si pensi alla tutela della fauna selvatica che evidentemente necessita per la sua vita non solo di aree interamente boscate, ma anche di radure
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.12.2019 n. 8242 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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6. L’appello è fondato e merita di essere accolto. Prima di scendere nel dettaglio dell’esame delle singole doglianze è bene, però, chiarire la nozione di: “bosco”. L’art. 10, comma 3, l.r. Lazio, n. 24/1998, stabilisce che: “Si considerano boschi:
   a) i terreni di superficie non inferiore a 5.000 metri quadrati coperti da vegetazione forestale arborea e/o arbustiva, a qualunque stadio di età, di origine naturale o artificiale, costituente a maturità un soprassuolo continuo con grado di copertura delle chiome non inferiore al 50 per cento;
   b) i castagneti da frutto, di superficie non inferiore a 5 mila metri quadrati, di origine naturale o artificiale, costituente a maturità un soprassuolo continuo con grado di copertura delle chiome non inferiore al 50 per cento;
   c) gli appezzamenti arborati isolati di qualunque superficie, situati ad una distanza, misurata fra i margini più vicini, non superiore a 20 metri dai boschi di cui alla lettera a) e con densità di copertura delle chiome a maturità non inferiore al 20 per cento della superficie boscata
”.
Dalla detta definizione, come anche dall’analisi del successivo comma 8 dello stesso articolo si evince che la radura non è un luogo diverso dal bosco, ben potendo essere quest’ultimo dalla presenza di porzioni di area coperte da alberature e porzioni di area sprovviste delle stesse. Tanto che il citato comma 8 stabilisce che la realizzazione di attrezzature e servizi strumentali allo svolgimento di attività didattiche e di promozioni dei valori naturalistico-ambientali deve essere localizzata nelle radure prive di alberature.
In questo senso milita anche la normativa nazionale. Infatti, l’art. 4, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 34/2018, che reitera la disposizione contenuta nell’abrogato art. 2, comma 3, lett. c), d.lgs. 227/2001, assimila a bosco: “e) le radure e tutte le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco, non riconosciute come prati o pascoli permanenti o come prati o pascoli arborati;”. Del resto, una differente nozione sarebbe non solo incompatibile con il dato esperenziale, ma non consentirebbe la tutela di tutti gli altri interessi pubblici, che motivano il divieto di antropizzazione di detti territori. Si pensi alla tutela della fauna selvatica, che evidentemente necessita per la sua vita non solo di aree interamente boscate, ma anche di radure.
A conforto dell’analisi testuale del dato normativo di riferimento deve aggiungersi l’analisi della giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo, Cons. St, Sez. IV, 04.03.2019, n. 1462) che nell’interpretare l’art. 142, d.lgs. n. 42/2004, ha chiarito che un bosco rappresenta un sistema vivente complesso insediato in modo tale da essere in grado di autorigenerarsi, così dissipando del tutto l’idea che per bosco debba intendersi l’insieme monocultura di alberi destinati, ad esempio, alla produzione di legname.
Ma anche della giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. Corte cost., n. 201/2018), che rammenta come l’art. 149, d.lgs. 42/2004, abbia escluso dall’ambito di applicazione dell’autorizzazione paesaggistica proprio le attività, quali il taglio colturale rappresentano opere di manutenzione della aree boscate. Ciò a riprova del fatto che la nozione di bosco non è in alcun modo riducibile a quella di un insieme di alberi.

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Abbandono di rifiuti da parte di terzi – Proprietario del terreno – Inconfigurabilità in forma omissiva il reato – Responsabilità e limiti – Concorso nel reato – Compimento di atti – Art. 255, 256, d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all’art. 256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell’evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.11.2019 n. 48403 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Potestà regolamentare in materia di fanghi di depurazione.
E' sottratta ai Comuni ogni potestà regolamentare in materia di disciplina dell’attività di spandimento dei fanghi di depurazione in agricoltura, essendo la stessa attribuita dal legislatore statale alla competenza regionale, che non l'ha delegata agli enti locali (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 28.11.2019 n. 2537 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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FATTO
Con il regolamento impugnato, il Comune resistente, che non si è costituito in giudizio, ha disciplinato lo “spandimento di liquami” sul proprio territorio, introducendo all’art. 13 in particolare le seguenti prescrizioni:
   - divieto di spandimento di fanghi di depurazione ad una distanza inferiore a 500 metri dall’abitato;
   - divieto di spandimento di fanghi di depurazione ad una distanza inferiore a 500 metri dalle aree di rispetto dei pozzi di captazione idrica ad uso potabile;
   - divieto di spandimento di fanghi di depurazione nelle aree in cui le falde idriche interessano lo strato superficiale del suolo e comunque ove il massimo livello della superficie libera della falda idrica disti meno di 1,50 m. dal piano di campagna.
Le ricorrenti, società attive nel recupero dei fanghi provenienti da impianti di depurazione, contestano le suindicate prescrizioni, in quanto adottate senza avere previamente svolto una specifica attività istruttoria, e contrastanti poi palesemente, da un lato, con la disciplina nazionale (D.lgs. 99/1992) e regionale (DGR 2031/2014, DGR 5269/2016) che regola gli spandimenti di fanghi in agricoltura e, dall’altro, con la normativa comunitaria (Direttiva 86/278/CE) e nazionale (d.lgs. 152/2006) che favoriscono l’utilizzazione agronomica dei fanghi di depurazione come modalità maggiormente sostenibile di recupero di siffatti rifiuti, ritenendo infine l’insussistenza di plausibili ragioni tecniche che giustifichino l’adozione di siffatti divieti e limitazioni.
DIRITTO
Il Collegio ritiene di poter definire il giudizio con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., mediante richiamo a precedenti conformi.
Con censura avente carattere assorbente la ricorrente sostiene che i comuni non avrebbero potestà regolamentare in materia di disciplina dell’attività di spandimento dei fanghi di depurazione in agricoltura, competenza che l’art. 6 del d.lgs. n. 99 del 1992 attribuisce in via esclusiva alle regioni.
Il motivo è fondato atteso che, per giurisprudenza unanime, deve considerarsi sottratta ai Comuni ogni potestà regolamentare in materia di fanghi biologici, essendo la stessa attribuita dal legislatore statale alla competenza regionale, che non l'ha delegata agli enti locali (TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 17.04.2019 n. 861, 29.05.2015 n. 1280, C.S., Sez. V, 15.10.2010, n. 7528, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 04.04.2012, n. 1006).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di opere abusive su aree demaniali – DIRITTO DEMANIALE – Sequestrabilità delle aree demaniali – Artt. 7 e 44 d.P.R. 380/2001 – Art. 181 d.lgs. 42/2004
Non essendovi alcuna preclusione al sequestro di aree demaniali sulle quali siano state realizzate opere abusive, posto che un tale sequestro non incide sulla naturale e intangibile destinazione dei beni del demanio necessario, ma colpisce le porzioni di quei beni che, a causa della illiceità della loro realizzazione, hanno assunto anch’essi carattere di illiceità, carattere che ne consente il sequestro, onde evitare la protrazione o l’aggravamento delle conseguenze del reato, salve le questioni relative alla individuazione dell’avente diritto alla eventuale restituzione di tali beni (per effetto dell’accessione dell’opera al suolo) e alla loro confiscabilità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.11.2019 n. 47829 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICI: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Opere realizzate da pubbliche amministrazioni (Comuni, Province e altri Enti) – Realizzazione in difformità alle previsioni degli strumenti urbanistici – Obbligo di conformarsi alle disposizioni urbanistiche vigenti e ai relativi controlli – Alternative al permesso di costruire – Atti equipollenti e progetto conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie – PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Procedura di validazione del progetto – Effetti dell’esito non favorevole della Conferenza di Servizi – Inapplicabilità dell’istituto del silenzio assenso alla Conferenza di Servizi – Artt. 14, 14-bis et 14-quater l. 241/1990 – Giurisprudenza.
Anche le opere realizzate dai Comuni sono soggette all’obbligo di conformarsi alle disposizioni urbanistiche vigenti e ai relativi controlli, salvo restando che, per effetto dell’art. 7 del d.P.R. n. 380 del 2001 e della contestuale abrogazione del d.l. n. 398 del 1993 e successive modifiche, per dette opere non è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire, cui deve ritenersi equipollente la delibera del consiglio o della giunta comunale accompagnata da un progetto riscontrato conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie (v. Sez. 3, n. 18900 del 02/04/2008, Vinci; nello stesso senso Sez. 3, n. 40115 del 22/05/2012, Massa, secondo cui integra il reato previsto dall’art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 la realizzazione di opere da parte dei comuni in difformità dalle previsioni degli strumenti urbanistici, anche nel caso in cui sia stata perfezionata la procedura di validazione del progetto, di cui all’art. 7 del d.P.R. n. 380 del 2001, che è sostitutiva del permesso di costruire; conf. Sez. 3, n. 27298 del 10/05/2019, Blandina).
Nel caso in esame il Tribunale ha rilevato la illegittimità delle opere a causa dell’esito non favorevole della Conferenza di Servizi, necessaria per l’accertamento di conformità urbanistica, non sostituibile dal silenzio assenso, non contemplato dagli artt. 14, 14-bis et 14-quater l. 241/1990, che disciplinano il funzionamento della Conferenza di Servizi.
Si tratta di rilievi corretti, sia quanto alla necessità del titolo abilitativo, sia quanto alla inapplicabilità dell’istituto del silenzio assenso, non applicabile alla Conferenza di Servizi
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.11.2019 n. 47829 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva – Concorso nel reato nella forma negoziale e materiale- Consapevolezza dell’agente – Allegazione dell’atto di trasferimento e certificato di destinazione urbanistica dell’area interessata – Obbligo – Omissione – Effetti – Nullità – Artt. 30, 44, 64, 65, 71, 72, 93 e 94, d.P.R. n. 380/2001.
In tema di lottizzazione abusiva, la consapevolezza, in capo all’agente, dell’abusività della lottizzazione di terreni si trae dal fatto di dover allegare, per legge, all’atto di trasferimento, il certificato di destinazione urbanistica che contiene tutte le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’area interessata.
L’art. 30, comma secondo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, infatti, prescrivendo a pena di nullità l’allegazione del certificato di destinazione urbanistica a tutti gli atti di trasferimento o di costituzione o scioglimento di diritti reali relativi a terreni, contenente tutte le prescrizioni urbanistiche che riguardano l’area cui si riferisce, rende estremamente difficile per il venditore una negoziazione inconsapevole, atteso che il mancato rilascio, nel termine prescritto di giorni trenta dalla richiesta, del citato certificato, comporta la sua sostituzione con una dichiarazione dell’alienante stesso attestante la destinazione urbanistica dei terreni secondo gli strumenti urbanistici vigenti.

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Confisca delle aree abusivamente lottizzate – Principio di proporzionalità – Corretta estensione della confisca – Terreni non direttamente interessati dall’attività lottizzatoria – Esclusione – Verifiche del giudice del merito – Adeguata e specifica motivazione – Giurisprudenza Corte EDU – Convenzione dei diritti dell’uomo – Salvaguardia dell’interesse generale.
La confisca riguarda tutte le aree abusivamente lottizzate, indipendentemente dalla presenza o meno di volumi, mentre tale misura ablativa non potrebbe mai riguardare aree completamente estranee all’attività lottizzatoria abusiva.
Sicché, prevale l’esigenza di un giusto equilibrio tra l’ingerenza sul diritto del singolo e le esigenze di salvaguardia dell’interesse generale, considerando conformi ai principi della Convenzione dei diritti dell’uomo, pur tenendo conto della specificità dei singoli casi sottoposti alla sua attenzione, interventi radicali e definitivi quali la demolizione di singoli edifici realizzati in spregio alle previsioni della pianificazione urbanistica, effettuando tale apprezzamento attraverso un’analisi globale dei vari interessi, anche mediante la verifica del comportamento tenuto dalle parti, dei mezzi utilizzati dallo stato, dalle modalità di attuazione del provvedimento, specie per quanto riguarda l’obbligo delle autorità di agire in modo tempestivo, corretto e coerente.
Pertanto, la misura ablativa non rispetta sicuramente i criteri di proporzionalità se applicata a terreni che non sono direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e che il giudice del merito può senz’altro individuare, limitando la misura alle sole aree abusivamente lottizzate, venendo assicurate agli interessati, per le diverse ipotesi, anche in sede di esecuzione, le garanzie del contraddittorio, restando la confisca e la conseguente perdita della proprietà una misura residuale, assunta dal giudice penale sempre che non sia già intervenuta l’autorità amministrativa e soggetta ai diversi esiti.
La valutazione del rispetto del criterio di proporzionalità importa un accertamento del fatto che deve essere svolto dal giudice del merito, non rientrando nell’ambito della cognizione del Giudice di legittimità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.11.2019 n. 47094 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATALa contestazione degli oneri di urbanizzazione, qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili innanzi al Giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva nel termine di prescrizione, e a prescindere dall’impugnazione del relativo atto di imposizione.
Ciò in quanto gli atti con i quali, in applicazione dei criteri legislativi e regolamentari stabiliti, l’amministrazione comunale quantifica le somme dovute e le pone a carico del titolare, sia a titolo di oblazione che a titolo di contributo, hanno natura di atti paritetici. Fatta quindi eccezione per le impugnative degli atti regolamentari con i quali le Regioni e i Consigli comunali stabiliscono i criteri generali per la determinazione del contributo, tutte le altre controversie relative all’an e al quantum delle somme dovute a tali titoli, riservate dalla legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, riguardano diritti soggettivi delle parti in relazione ai quali l’amministrazione è sfornita di potestà autoritativa, dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai parametri normativi prefissati.
Ne consegue, pertanto, il diritto per i soggetti interessati di contestare, mediante azione di accertamento, l’erroneità della imposizione operata dall’Amministrazione secondo i criteri fissati in via normativa o regolamentare, indipendentemente dalla rituale impugnazione degli atti emanati, i quali si risolvono in definitiva in mere operazioni materiali o di calcolo.
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8. Con una seconda eccezione il Comune deduce l’inammissibilità della domanda di annullamento della nota comunale trattandosi di vertenza relativa ad un rapporto obbligatorio. L’eccezione è infondata atteso che, nell’economia complessiva delle domande svolte, la richiesta di annullamento è effettuata per mero scrupolo difensivo e non distrae dal fulcro della controversia che risiede nell’accertamento dell’eventuale debenza delle somme richieste dal Comune.
Infatti, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la contestazione degli oneri di urbanizzazione, qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili innanzi al Giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva nel termine di prescrizione, e a prescindere dall’impugnazione del relativo atto di imposizione (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 27.09.2004, n. 6281, Id., sez. V, 09.02.2001, n. 584, Id., sez. V, 21.04.2006, n. 2258).
Ciò in quanto gli atti con i quali, in applicazione dei criteri legislativi e regolamentari stabiliti, l’amministrazione comunale quantifica le somme dovute e le pone a carico del titolare, sia a titolo di oblazione che a titolo di contributo, hanno natura di atti paritetici. Fatta quindi eccezione per le impugnative degli atti regolamentari con i quali le Regioni e i Consigli comunali stabiliscono i criteri generali per la determinazione del contributo, tutte le altre controversie relative all’an e al quantum delle somme dovute a tali titoli, riservate dalla legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, riguardano diritti soggettivi delle parti in relazione ai quali l’amministrazione è sfornita di potestà autoritativa, dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai parametri normativi prefissati (in questi termini: Consiglio di Stato, sez. V, 22.11.1996, n. 1388; in termini, cfr. anche: TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. III, 17.09.2009, n. 4983; TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II, 15.11.2006, n. 12461; TAR per la Puglia – sede di Lecce, sez. III, 13.05.2005, n. 2744).
Ne consegue, pertanto, il diritto per i soggetti interessati di contestare, mediante azione di accertamento, l’erroneità della imposizione operata dall’Amministrazione secondo i criteri fissati in via normativa o regolamentare, indipendentemente dalla rituale impugnazione degli atti emanati, i quali si risolvono in definitiva in mere operazioni materiali o di calcolo (TAR per la Campania, sede di Napoli, sez. III, 17.09.2009, n. 4983) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.11.2019 n. 2392 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Contributo concessorio per titolo edilizio rilasciato dopo la scadenza del termine di durata del piano di lottizzazione.
Osserva il Tribunale che:
   a) il piano di lottizzazione ha durata decennale, “di talché decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento attuativo perde efficacia”;
   b) non è ipotizzabile l’ultrattività delle previsioni del Piano di lottizzazione decennale, in quanto la prosecuzione degli effetti oltre il detto termine decennale confligge con la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura;
   c) risulta irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione, la circostanza che l’impossibilità della mancata attuazione sia dovuta alla pubblica amministrazione o al privato lottizzante;
   d) il termine di validità decennale del piano di lottizzazione decorre dalla data di stipula della relativa convenzione e ciò si ricollega “al fatto che, in via normale, all’approvazione del piano di lottizzazione segue, in tempi ragionevoli, la stipula della relativa convenzione”, con la conseguenza che “la circostanza della mancata stipula della convenzione non possa ragionevolmente costituire legittimo motivo per cui il piano di lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato, sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di cui all'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa esclusivamente riferimento al tempo, non maggiore di anni dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato, sia perché deve comunque ritenersi prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione devono avere una determinata e certa durata temporale, con conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine di garantire l'adeguatezza e rispondenza di tali previsioni agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di validità del piano, con la conseguente e ragionevole necessità che, dopo un certo periodo di tempo (10 anni), si debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte urbanistiche in questione";
   e) “il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure sull'accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo”;
   f) “la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria”;
   g) secondo la giurisprudenza consolidata “decorso il termine stabilito per l'esecuzione del piano di lottizzazione, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
Dalla notazione in ultimo effettuata discende che:
   1) le previsioni dello strumento attuativo che comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata rimangono efficaci a tempo indeterminato e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), “diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del p.r.g. e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia ultrattiva”;
   2) “il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi riferito all’esecuzione delle previste opere di urbanizzazione che devono essere realizzate entro tale termine; viceversa per la realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi, fermo restando che poiché, in generale, il termine di efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”;
   3) le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano di lottizzazione si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi.
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Il TAR Milano, in relazione all’ipotesi in cui l’amministrazione abbia rilasciato il titolo edilizio dopo anni dalla maturata scadenza del termine di durata del piano di lottizzazione e della relativa convenzione, chiarisce che:
   a) una volta scaduto il termine di efficacia della convenzione, il Comune non può in ogni caso ritenersi vincolato a riconoscere agli esborsi sostenuti dallo stesso lottizzante per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione carattere integralmente sostitutivo rispetto al contributo concessorio;
   b) deve tenersi presente che le opere previste dalla convenzione di lottizzazione siano strettamente correlate alle esigenze di urbanizzazione dell'area, come stimate al tempo della stipula della convenzione, e in relazione al quadro complessivo della disciplina urbanistica a quel tempo vigente, sicché decorso il termine decennale di efficacia della lottizzazione convenzionata, si impone unicamente, secondo i principi, e in assenza di una diversa disciplina di dettaglio, il rispetto degli allineamenti e delle prescrizioni di zona stabilite dal piano di lottizzazione, in applicazione dell'articolo 17 della legge n. 1150 del 1942;
   c) non può ritenersi pregiudicata la potestà dell'Amministrazione, una volta scaduta la convenzione urbanistica, di riconsiderare il fabbisogno di opere di urbanizzazione e di dare applicazione agli eventuali nuovi importi stabiliti per la quantificazione del contributo concessorio;
   d) l'eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione eseguite a spese del lottizzante carattere integralmente satisfattivo dell'obbligazione relativa al contributo concessorio non può vincolare l'Ente oltre il termine di durata della convenzione urbanistica.

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9. Entrando in medias res, osserva il Collegio come il punto centrale della controversia consista nella verifica delle conseguenze derivante dalla scadenza del piano di lottizzazione in assenza di esecuzione entro il termine decennale.
9.1. Sul punto, sono utilmente richiamabili i principi affermati dalla sentenza del Tribunale n. 2001/2018 resa inter partes e relativa alla medesima convenzione in esame. Osserva il Tribunale che:
   a) il piano di lottizzazione ha durata decennale, “di talché decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento attuativo perde efficacia” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.01.2003, n. 200; Id., Sez. IV, 27.04.2015, n. 2109);
   b) non è ipotizzabile l’ultrattività delle previsioni del Piano di lottizzazione decennale, in quanto la prosecuzione degli effetti oltre il detto termine decennale confligge con la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura (Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.11.2010 n. 8384);
   c) risulta irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione, la circostanza che l’impossibilità della mancata attuazione sia dovuta alla pubblica amministrazione o al privato lottizzante (Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.08.2011 n. 4761);
   d) il termine di validità decennale del piano di lottizzazione decorre dalla data di stipula della relativa convenzione e ciò si ricollega “al fatto che, in via normale, all’approvazione del piano di lottizzazione segue, in tempi ragionevoli, la stipula della relativa convenzione”, con la conseguenza che “la circostanza della mancata stipula della convenzione non possa ragionevolmente costituire legittimo motivo per cui il piano di lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato, sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di cui all'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa esclusivamente riferimento al tempo, non maggiore di anni dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato, sia perché deve comunque ritenersi prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione devono avere una determinata e certa durata temporale, con conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine di garantire l'adeguatezza e rispondenza di tali previsioni agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di validità del piano, con la conseguente e ragionevole necessità che, dopo un certo periodo di tempo (10 anni), si debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte urbanistiche in questione” (TAR per la Sardegna, sez. II, 18.01.2018, n. 24);
   e) “il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure sull'accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.03.2003 n. 1315);
   f) “la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 17.08.2018, n. 2001);
   g) secondo la giurisprudenza consolidata (cfr. TAR per il Lazio – sede di Roma, Sez. II, 01.04.2015, n. 4920; Consiglio di Stato, Sez. V, 30.04.2009, n. 2768) “decorso il termine stabilito per l'esecuzione del piano di lottizzazione, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
9.2. Dalla notazione in ultimo effettuata discende che:
   a) le previsioni dello strumento attuativo che comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata rimangono efficaci a tempo indeterminato e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), “diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del p.r.g. e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia ultrattiva” (TAR per l’Abruzzo – sede di L'Aquila, sez. I, 20.11.2014, n. 810);
   b) “il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi riferito all’esecuzione delle previste opere di urbanizzazione che devono essere realizzate entro tale termine; viceversa per la realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi, fermo restando che poiché, in generale, il termine di efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso” (cfr. TAR per il Lazio – sede di Latina, sez. I, 26.04.2018, n. 226);
   c) le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano di lottizzazione si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr., in particolare, TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II, 01.04.2015, n. 4920).
9.3. Inoltre, in relazione all’ipotesi, ricorrente anche nel caso di specie, in cui l’amministrazione abbia rilasciato il titolo edilizio dopo anni dalla maturata scadenza del termine di durata del piano di lottizzazione e della relativa convenzione, questo Tribunale chiarisce che:
   a) una volta scaduto il termine di efficacia della convenzione, il Comune non può in ogni caso ritenersi vincolato a riconoscere agli esborsi sostenuti dallo stesso lottizzante per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione carattere integralmente sostitutivo rispetto al contributo concessorio;
   b) deve tenersi presente che le opere previste dalla convenzione di lottizzazione siano strettamente correlate alle esigenze di urbanizzazione dell'area, come stimate al tempo della stipula della convenzione, e in relazione al quadro complessivo della disciplina urbanistica a quel tempo vigente, sicché decorso il termine decennale di efficacia della lottizzazione convenzionata, si impone unicamente, secondo i principi, e in assenza di una diversa disciplina di dettaglio, il rispetto degli allineamenti e delle prescrizioni di zona stabilite dal piano di lottizzazione, in applicazione dell'articolo 17 della legge n. 1150 del 1942 (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.10.2009, n. 6661);
   c) non può ritenersi pregiudicata la potestà dell'Amministrazione, una volta scaduta la convenzione urbanistica, di riconsiderare il fabbisogno di opere di urbanizzazione e di dare applicazione agli eventuali nuovi importi stabiliti per la quantificazione del contributo concessorio;
   d) “ne deriva che l'eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione eseguite a spese del lottizzante carattere integralmente satisfattivo dell'obbligazione relativa al contributo concessorio non può vincolare l'Ente oltre il termine di durata della convenzione urbanistica” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 29.02.2016, n. 406).
9.4. Declinando la messe di principi esposti al caso di specie, deve osservarsi che il piano di lottizzazione e la relativa convenzione risalgono al 04.12.1990, con conseguente scadenza della disciplina pianificatoria di secondo grado in data 05.12.2000. Né risultano in atti proroghe per l’attuazione del Piano non potendosi conferire rilevanza alla delibera del Consiglio comunale n. 6 del 24.01.2002 che approva una variante di completamento del piano di lottizzazione a cui non fa, tuttavia, seguito la stipulazione della convenzione di lottizzazione.
9.5. Pertanto, alla data del rilascio del permesso di costruire, il piano di lottizzazione del 1990 è, da tempo, scaduto e di conseguenza non è ipotizzabile alcuno scomputo degli oneri correlati a tale titolo edilizio in ragione delle previsioni contenute in un piano di lottizzazione da anni inefficace. Di conseguenza, deve ritenersi fondata la pretesa comunale di ottenere il pagamento degli oneri relativi al permesso di costruire n. 16 del 28.04.2010.
Inoltre, come accertato anche dalla sentenza n. 2001/2018 del Tribunale, il comune di Sumirago accertata il mancato completamento delle opere di urbanizzazione previste dal piano del 1990 e l’idoneità di quelle eseguite rilasciando, pertanto, successivi permessi di costruire. Al momento della corresponsione degli oneri correlati al permesso, le opere di urbanizzazione non sono, quindi, completate con conseguente sussistenza di un inadempimento dei lottizzanti rispetto all’obbligo assunto e al tempo di doverosa realizzazione della prestazione. Il completamento di tali opere avviene in epoca successiva alla scadenza del piano come risulta dalla determinazione n. 320 del 28.11.2016. Prestazione, comunque, ancora dovuta atteso che, come evidenzia la giurisprudenza, la scadenza dell’efficacia del piano di lottizzazione incide sulla sola disciplina urbanistica, “non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi” (cfr. TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II, 01.04.2015, n. 4920).
Né una diversa conclusione può inferirsi dalla determinazione n. 320 del 2016 seppure affermi di “dare esecuzione alla delibera di Consiglio comunale n. 15 del 19.03.1990 di approvazione del PL acquisendo le opere di urbanizzazione eseguite dai lottizzanti in conformità alla convenzione urbanistica”, “non può ritenersi una conseguenza degli effetti del piano del 1990, perché ormai definitivamente scaduto” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 17.08.2018, n. 2001).
La determinazione assume, piuttosto, valenza in ordine allo svincolo delle fideiussioni rilasciate e che, invero, sarebbero state escutibili “stante la mancata attuazione del piano, compresa l’esecuzione delle opere di urbanizzazione, entro il termine decennale” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 17.08.2018, n. 2001). D’altra parte la determinazione in esame non è certamente atto idoneo a determinare la reviviscenza di un piano scaduto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.11.2019 n. 2392 - link a www.giustizia-amministrativa.it
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APPALTIIl giudizio sull’anomalia delle offerte presentate nelle gare pubbliche di appalto, oltre ad avere natura globale e sintetica sulla serietà delle stesse nel loro complesso, è ampiamente discrezionale e sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, con la conseguenza che il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della Pubblica Amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, ma non procedere ad una autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, con conseguente invasione della sfera propria della Pubblica Amministrazione.
Tale giudizio mira, nello specifico, ad accertare in concreto che la proposta economica risulti nel suo complesso attendibile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto, né le singole operazioni valutative ad esse sottostanti possono essere sostituite e ripetute in sede giurisdizionale.
Anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica della Pubblica Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica Amministrazione.
La giurisprudenza ha, pertanto, affermato che le valutazioni compiute dalla Stazione Appaltante, in sede di verifica dell'anomalia delle offerte, costituiscono espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale, insindacabile in sede giurisdizionale, salva l'ipotesi in cui dette valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su un'insufficiente motivazione o su errori di fatto.
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Deve innanzitutto rammentarsi che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di discostarsi, il giudizio sull'anomalia delle offerte presentate nelle gare pubbliche di appalto, oltre ad avere natura globale e sintetica sulla serietà delle stesse nel loro complesso, è ampiamente discrezionale e sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, con la conseguenza che il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della Pubblica Amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, ma non procedere ad una autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, con conseguente invasione della sfera propria della Pubblica Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.06.2017, n. 2900; 26.11.2018, n. 6689; 17.05.2018, n. 2953; 24.08.2018, n. 5047; Sez. III, 18.09.2018, n. 5444).
Tale giudizio, dunque, mira, nello specifico, ad accertare in concreto che la proposta economica risulti nel suo complesso attendibile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto (Cons. Stato, Sez. VI, 15.09.2017, n. 4350), né le singole operazioni valutative ad esse sottostanti possono essere sostituite e ripetute in sede giurisdizionale (TAR Campania-Napoli, Sez. I, 03.07.2017, n. 3577; in senso analogo, TAR Lazio-Roma, Sez. II, 07.08.2017, n. 9240).
Anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica della Pubblica Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica Amministrazione (cfr.: Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2017, n. 5387).
La giurisprudenza ha, pertanto, affermato che le valutazioni compiute dalla Stazione Appaltante, in sede di verifica dell'anomalia delle offerte, costituiscono espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale, insindacabile in sede giurisdizionale, salva l'ipotesi in cui dette valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su un'insufficiente motivazione o su errori di fatto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 25.10.2019 n. 1839  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Negli appalti a corpo -in cui la somma complessiva offerta copre l'esecuzione di tutte le prestazioni contrattuali- l'elenco prezzi analitico risulta irrilevante.
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2.4.- Tanto chiarito, le contestazioni sollevate dall’impresa ricorrente non valgono ad inficiare, nei limiti in cui è ammissibile il sindacato giurisdizionale, la logicità e la congruenza della valutazione operata dalla stazione appaltante.
Invero, diversamente da quanto sostenuto dalla parte ricorrente, ai fini del positivo superamento del giudizio ex art. 97 dlgs. 50/2016, non era richiesto all’aggiudicataria di giustificare la sua offerta mediante una puntuale analisi dei prezzi concorrenti a determinare l’importo nella misura ribassata.
La gara di che trattasi, infatti, era da aggiudicare a "corpo". In siffatta tipologia di appalti il corrispettivo è determinato in una somma fissa e invariabile derivante dal ribasso offerto sull'importo a base d'asta.
Elemento essenziale della proposta economica è, quindi, il solo importo finale offerto, mentre i prezzi unitari indicati nel c.d. elenco prezzi, tratti dai listini ufficiali (che possono essere oggetto di negoziazione o di sconti sulla base di svariate circostanze), hanno un valore meramente indicativo delle voci di costo che hanno concorso a formare il detto importo finale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.09.2018, n. 5161; Cons. Stato, V, 03.04.2018, n. 2057).
Ne consegue che le indicazioni contenute nel c.d. elenco-prezzi sono destinate a restare fuori dal contenuto essenziale dell'offerta e quindi del contratto da stipulare, non assumendo rilevanza neppure ai fini della valutazione della dedotta anomali. Ciò, peraltro, trova conferma nell'art. 59, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il quale (riproducendo l'analoga norma contenuta nell'art. 53, comma 4, d.lgs. 12.04.2016, n. 163) stabilisce che: "per le prestazioni a corpo il prezzo convenuto non può variare in aumento o in diminuzione, secondo la qualità e la quantità effettiva dei lavori eseguiti" (cfr., in relazione all'analoga previsione del previgente Codice dei contratti pubblici, Cons. Stato, VI, 04.01.2016, n. 15).
In definitiva, pertanto, negli appalti a corpo -in cui la somma complessiva offerta copre l'esecuzione di tutte le prestazioni contrattuali- l'elenco prezzi analitico risulta irrilevante (Cons. Stato, V, 03.04.2018, n. 2057; Cons. Stato, VI, 04.01.2016, n. 15; Cons. Stato, VI, 04.08.2009, n. 4903; Cons. Stato, IV, 26.02.2015, n. 963)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 25.10.2019 n. 1839  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Le contestazioni avverso il giudizio di anomalia, tese ad evidenziare l'insostenibilità dell'offerta dell'aggiudicataria, devono essere supportate da elementi probatori.
Deve applicarsi, difatti, in questa materia, il principio per cui per contestare un esito positivo della verifica dell'eventuale anomalia dell'offerta va fornita una prova fondata su elementi concreti accompagnati da conteggi analitici e non da generiche considerazioni circa l'implausibilità del calcolo di alcuni fattori dell'offerta.

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2.5.- Parimenti, le ulteriori contestazioni mosse avverso il giudizio di anomalia, tese ad evidenziare l'insostenibilità dell'offerta dell'aggiudicataria, non sono supportate da alcun elemento probatorio.

Deve applicarsi, difatti, in questa materia, il principio per cui per contestare un esito positivo della verifica dell'eventuale anomalia dell'offerta va fornita una prova fondata su elementi concreti accompagnati da conteggi analitici e non da generiche considerazioni circa l'implausibilità del calcolo di alcuni fattori dell'offerta (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, 09.01.2018, n. 138)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 25.10.2019 n. 1839  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 27 dpr 380/2001 incardina in capo all’amministrazione comunale il potere repressivo degli abusi edilizi in zona vincolata, anche a prescindere dal titolo occorrente.
Invero, è stato affermato: “a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 deve essere sanzionato. Detto articolo riconosce, infatti, all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato. E ciò mediante l’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con DIA, prive di autorizzazione paesaggistica”.
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2.1.- Infondato è il primo motivo.
Il provvedimento impugnato è stato emesso ai sensi sia dell’art. 27 sia dell’art. 31 d.p.r. 380/2001.
Per il profilo urbanistico, il riferimento all’art. 31 si giustifica con la circostanza che il ricorrente ha realizzato opere rilevanti in zona “E” ad originaria destinazione agricola, secondo il vigente PRG, consistenti nella realizzazione di due tettoie di non trascurabili dimensioni, delle quali una risulta essere anche chiusa ai tre lati, con creazione di volume oltre che di superficie aggiuntiva utile; senza trascurare le altre opere, quali lo scavo di terreno per collegare lo spiazzo antistante i manufatti con il confine sud, le quali hanno inciso sul preesistente assetto del territorio.
2.2.- Trattandosi di “interventi di nuova costruzione” ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.1), d.p.r. 380/2001, sarebbe stato necessario acquisire preventivamente il permesso di costruire, di cui all’art. 10 d.p.r. 380/2001, assente nel caso specifico. Ne consegue che la sanzione della demolizione è quella appropriata, posto che l’art. 31 d.p.r. 380/2001 intende colpire proprio gli interventi eseguiti, tra gli altri, in assenza di permesso di costruire.
2.3.- In ogni caso, l’amministrazione ha fatto riferimento anche all’art. 27 d.p.r. 380/2001, in considerazione della sussistenza dei diversi vincoli di carattere paesistico-ambientale esistenti sull’area interessata dagli abusi edilizi.
Le opere contestate, infatti, sono state realizzate in area soggetta ai seguenti vincoli:
   - paesaggistico, con dichiarazione di notevole interesse pubblico come da d.m. 26.10.1961, emanato ai sensi dell’art. 2 L n. 1497/1939, sostituito dal vigente d.lgs. 42/2004;
   - urbanistico ambientale applicabili ai comuni –tra i quali Somma Vesuviana- rientranti nelle zone ad altro rischio vulcanico dell’area vesuviana di cui alla legge regionale n. 21/2003,
   - sismico (con grado di classificazione di rischio: S9), come da D.M. del 07.03.1981, classificazione confermata con delibera di giunta regionale n. 5447 del 07.11.2002.
Al riguardo, l’art. 27 menzionato incardina in capo all’amministrazione comunale il potere repressivo degli abusi edilizi in zona vincolata, anche a prescindere dal titolo occorrente (cfr., per tutte, le sentenze di questa Sezione: 24.10.2017 n. 4966, 08.01.2016, n. 17; nonché di questo TAR, sez. VI, 26.03.2015, n. 1815, secondo cui: “a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 deve essere sanzionato. Detto articolo riconosce, infatti, all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato. E ciò mediante l’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con DIA, prive di autorizzazione paesaggistica”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.10.2019 n. 4718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione generale di “pertinenza” sul piano urbanistico-edilizio assume caratteri specifici e di certo meno ampi rispetto a quella civilistica ricavabile dall’art. 817 c.c., data la peculiarità della materia e la differente finalità pubblica posta a base della relativa normativa.
Per questo, il concetto di pertinenza urbanistica non consente di per sé la realizzazione di opere soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato come principale.
La pertinenza urbanistica è, dunque, configurabile quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un legame che non consenta altro che la destinazione del bene accessorio, di modesta consistenza, esclusivamente ad un uso pertinenziale durevole, sempre che l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico.
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Nel caso di specie risultano realizzate due tettoie, di cui una chiusa, comportanti significativi incrementi in termini di volume e di superficie utile, rilevanti sul piano urbanistico.
I manufatti in questione, pertanto, lungi dal potere essere derubricati alla nozione di pertinenza costituiscono nuove costruzioni soggette a permesso di costruire, come peraltro la stessa ordinanza impugnata esplicitamente chiarisce, avendo inciso in modo permanente e non precario sull’assetto edilizio del territorio, con conseguente assoggettamento alla sanzione di tipo demolitorio, di cui all’art. 31 d.p.r. 380/2001.
E ciò anche a prescindere da ogni ulteriore considerazione, oltre quelle già illustrate, in merito alla realizzazione dei manufatti in questione senza la preventiva autorizzazione paesaggistica, di cui all’art. 146 d.lgs. 42/2004, in zona soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale.
Si osserva al riguardo che, anche in caso di opere pertinenziali ovvero di interventi minori di restauro e risanamento conservativo, l’esistenza, com’è nella fattispecie in esame, di vincoli di tutela paesaggistico–ambientale, ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, esclude comunque l’applicabilità della sanzione pecuniaria anziché di quella demolitoria in caso di realizzazione degli interventi stessi senza la preventiva autorizzazione.
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3.- Infondato è il secondo motivo.
3.1.- La nozione generale di “pertinenza” sul piano urbanistico-edilizio assume caratteri specifici e di certo meno ampi rispetto a quella civilistica ricavabile dall’art. 817 c.c., data la peculiarità della materia e la differente finalità pubblica posta a base della relativa normativa.
Per questo, il concetto di pertinenza urbanistica non consente di per sé la realizzazione di opere soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato come principale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3127).
La pertinenza urbanistica è, dunque, configurabile quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un legame che non consenta altro che la destinazione del bene accessorio, di modesta consistenza, esclusivamente ad un uso pertinenziale durevole, sempre che l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.01.2015, n. 406; Id., 05.01.2015, n. 13).
Nel caso di specie, al contrario, come sopra esposto in fatto, risultano realizzate due tettoie, di cui una chiusa, comportanti significativi incrementi in termini di volume e di superficie utile, rilevanti sul piano urbanistico.
I manufatti in questione, pertanto, lungi dal potere essere derubricati alla nozione di pertinenza costituiscono nuove costruzioni soggette a permesso di costruire, come peraltro la stessa ordinanza impugnata esplicitamente chiarisce, avendo inciso in modo permanente e non precario sull’assetto edilizio del territorio, con conseguente assoggettamento alla sanzione di tipo demolitorio, di cui all’art. 31 d.p.r. 380/2001 (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 14.03.2017, n. 1490; sulla carenza del requisito di pertinenza della tettoia, cfr. anche, recente, questa Sezione 21.09.2019, n. 4530).
3.2.- E ciò anche a prescindere da ogni ulteriore considerazione, oltre quelle già illustrate, in merito alla realizzazione dei manufatti in questione senza la preventiva autorizzazione paesaggistica, di cui all’art. 146 d.lgs. 42/2004, in zona soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale.
Si osserva al riguardo che, anche in caso di opere pertinenziali ovvero di interventi minori di restauro e risanamento conservativo, l’esistenza, com’è nella fattispecie in esame, di vincoli di tutela paesaggistico–ambientale, ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, esclude comunque l’applicabilità della sanzione pecuniaria anziché di quella demolitoria in caso di realizzazione degli interventi stessi senza la preventiva autorizzazione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.10.2019 n. 4718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato, che scaturisce dal mero accertamento tecnico in merito alla realizzazione di un intervento edilizio senza le autorizzazioni previste dalla legge.
Pertanto, l’esercizio doveroso del potere repressivo è sufficientemente sorretto dalla mera enunciazione dei presupposti di fatto, ossia l’individuazione delle opere abusive prive di titolo abilitativo, con la qualificazione delle stesse, e di diritto, consistente nell’indicazione delle norme di legge e regolamentari che si assumono violate.
L’enunciazione di siffatti presupposti giustifica da sola l’applicazione della sanzione prevista dalla normativa di legge per il tipo di intervento abusivo rilevato.
Invero, 'l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato che, in linea generale, non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto nonché all'individuazione ed alla qualificazione degli abusi edilizi. L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione con l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della legalità.
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In materia di abusi edilizi, l’autorità comunale nella fase immediata di contrasto delle opere abusive rilevate, non è tenuta a verificarne la legittimità o la sanabilità essendo sufficiente accertare l’assenza di titolo edilizio a supporto delle stesse.
Ciò si evince in maniera chiara dagli artt. 27 e 31 d.p.r. 380/2001, norme che obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione circa la sanabilità dello stesso, il quale può rilevare solo nel caso di richiesta di accertamento di conformità di cui all’art. 36 d.p.r. 380/2001, procedimento eventuale e successivo che, non a caso, il legislatore rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata.
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Riguardo all’epoca della realizzazione degli abusi, il lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli interventi abusivi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di tutela in costanza di una situazione giuridicamente illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto del mero trascorrere del tempo.
Ne consegue che, l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dal compimento dell'abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti.
Tra l’altro, l’Adunanza plenaria del Consiglio di stato (17.10.2017, n. 9), ha rimarcato che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133 -secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente” il decorso del tempo dal momento del commesso abuso- non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l’ingiunzione a demolire, configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.
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Secondo consolidata e condivisa giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presuppone un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; la stessa, pertanto, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento.
In ogni caso, per effetto della previsione introdotta dall'art. 21-octies L. n. 241/1990, nei procedimenti preordinati all'emanazione delle ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l'asserita violazione dell'obbligo di comunicarne l'avvio –laddove si ritenesse anche in materia di sanzioni edilizie dovuta- non ha effetti invalidanti, specie quando emerga che il contenuto del provvedimento finale non potrebbe essere diverso da quello in concreto adottato.
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5.- Infondato è il quarto motivo di ricorso.
5.1- Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione, l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato, che scaturisce dal mero accertamento tecnico in merito alla realizzazione di un intervento edilizio senza le autorizzazioni previste dalla legge (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2016, n. 5262).
Pertanto, l’esercizio doveroso del potere repressivo è sufficientemente sorretto dalla mera enunciazione dei presupposti di fatto, ossia l’individuazione delle opere abusive prive di titolo abilitativo, con la qualificazione delle stesse, e di diritto, consistente nell’indicazione delle norme di legge e regolamentari che si assumono violate.
L’enunciazione di siffatti presupposti giustifica da sola l’applicazione della sanzione prevista dalla normativa di legge per il tipo di intervento abusivo rilevato (cfr., per tutte, di questa Sezione, sentenze 01.03.2019, n. 1162 e 07.11.2017 n. 5212 secondo cui: ''l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato che, in linea generale, non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto nonché all'individuazione ed alla qualificazione degli abusi edilizi. L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione con l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della legalità (ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2017, n. 908; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 21.06.2017, n. 3377)'').
5.2.- Nella fattispecie in discussione, come sopra illustrato nell’esame del primo motivo di ricorso, i presupposti di diritto dell’ordinanza impugnata sono puntualmente individuati nell’art. 27 e 31 d.p.r. 380/2001 nonché nel d.lgs. n. 42/2004.
Quanto ai presupposti di fatto, lo stesso provvedimento, oltre a fare riferimento per relationem all’informativa di reato per abusivismo edilizio redatta dai Carabinieri, contiene una puntuale ed esauriente descrizione delle opere abusive, idonea ad individuarne la consistenza in maniera non equivoca.
5.3.- Riguardo all’accertamento sul carattere abusivo delle opere contestate, come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, in materia di abusi edilizi, l’autorità comunale nella fase immediata di contrasto delle opere abusive rilevate, non è tenuta a verificarne la legittimità o la sanabilità essendo sufficiente accertare l’assenza di titolo edilizio a supporto delle stesse.
Ciò si evince in maniera chiara dagli artt. 27 e 31 d.p.r. 380/2001, norme che obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione circa la sanabilità dello stesso, il quale può rilevare solo nel caso di richiesta di accertamento di conformità di cui all’art. 36 d.p.r. 380/2001, procedimento eventuale e successivo che, non a caso, il legislatore rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata (cfr. TAR Napoli, sez. IV, 04.12.2018, n. 6966; sez. II, 12.07.2019, n. 3864).
Depone, tra l’altro, in senso sfavorevole al ricorrente la mancanza della necessaria autorizzazione paesaggistica, di cui all’art. 146 menzionato d.lgs. 42/2004, non potendosi nel caso di specie fare applicazione, per le ragioni sopra esposte, alle esclusioni di cui al successivo art. 149, posto che si è al di fuori degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo e perché, in ogni caso, vi è stata oggettiva alterazione dello stato dei luoghi e, comunque, aumenti plano-volumetrici.
Ne consegue anche l’impossibilità di conseguire l’autorizzazione paesaggistica in via postuma, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42/2004, norma che, secondo le previsioni di cui ai commi 4 e 5, la ammette esclusivamente per i lavori: "che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati" o comunque "configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380".
5.4.- Riguardo all’epoca della realizzazione degli abusi, secondo altrettanto costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli interventi abusivi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di tutela in costanza di una situazione giuridicamente illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto del mero trascorrere del tempo.
Ne consegue che, l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dal compimento dell'abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti (Cons. Stato, sez. VI, 3 ottobre 2017, n. 4580).
Tra l’altro, l’Adunanza plenaria del Consiglio di stato (17.10.2017, n. 9), ha rimarcato che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133 -secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente” il decorso del tempo dal momento del commesso abuso- non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l’ingiunzione a demolire, configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.
6.- Infondato è il quinto motivo.
Secondo consolidata e condivisa giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presuppone un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; la stessa, pertanto, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento (cfr., ex multis, questa Sezione, 03.10.2018, n. 5782; 17.09.2018, n. 5510; TAR Liguria, sez. I, 22.04.2011 n. 666; Cons. Stato, sez. IV, 06.02.2013 n. 666, 06.06.2011 n. 3398; Idem, sez. VI, 02.02.2015 n. 466).
In ogni caso, per effetto della previsione introdotta dall'art. 21-octies L. n. 241/1990, nei procedimenti preordinati all'emanazione delle ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l'asserita violazione dell'obbligo di comunicarne l'avvio –laddove si ritenesse anche in materia di sanzioni edilizie dovuta- non ha effetti invalidanti, specie quando emerga che il contenuto del provvedimento finale non potrebbe essere diverso da quello in concreto adottato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016 n. 3620; questa Sezione, 26.06.2013 n. 3328; TAR Liguria, sez. I, 22.04.2011 n. 666) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.10.2019 n. 4718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIndipendentemente da come sia stata costituita la garanzia provvisoria, occorre sempre l’intervento di un fideiussore che si impegni al rilascio della cauzione definitiva.
La tesi dell’appellante secondo cui l’impegno del fideiussore a costituire la garanzia definitiva occorrerebbe solo nel caso in cui la garanzia provvisoria sia stata rilasciata mediante fideiussione non trova, quindi, riscontro nelle norme di gara e di legge.
Né la mancata allegazione all’offerta dell’impegno a costituire la garanzia definitiva può ritenersi sanata dal rilascio di quest’ultima intervenuto a valle dell’aggiudicazione, trattandosi di adempimento pacificamente occorrente ai fini della partecipazione alla gara.
Alle esposte considerazioni giova soggiungere che, diversamente da quanto la stazione appaltante mostra di ritenere, il versamento in contanti della garanzia provvisoria, non è idoneo a soddisfare le esigenze di tutela a cui è preordinata la costituzione della garanzia definitiva (ovvero, ex art. 93, comma 8, del D.Lgs n. 50/2016, la corretta esecuzione del contratto).
Ed invero, ai sensi, dell’art. 93, comma 6, del citato D.Lgs. la garanzia provvisoria “è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto” … Pertanto, una volta stipulato il contratto, la stazione appaltante non avrebbe più titolo per trattenere la somma versata a titolo di garanzia provvisoria.
Quest’ultima, inoltre, è pari al due per cento dell’importo a base d’asta, mentre la definitiva ammonta al dieci per cento del valore economico del contratto, per cui, comunque, non essendo le due entità corrispondenti, non ci sarebbe certezza che la somma versata a titolo di garanzia provvisoria sia sufficiente a coprire quanto dovuto per quella definitiva. …
Al riguardo è sufficiente rilevare che il soccorso istruttorio non è utilizzabile per sanare l’inosservanza di adempimenti procedimentali o l’omessa produzione di documenti richiesti ai fini della partecipazione alla gara.
L’art. 83, comma 9, del D.Lgs. n. 50/2016 limita, infatti, il ricorso all’istituto in questione alle ipotesi di carenze riguardanti “qualsiasi elemento formale della domanda
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Con il primo motivo di ricorso, la Ci. si duole del fatto che, nella seduta del 13.12.2016, in sede di esame della documentazione amministrativa della ditta Es.It. la Commissione di gara –rilevata la mancata dichiarazione di cui all’art. 93, co. 8, del d.lgs. n. 50/2016– ha concesso alla concorrente il soccorso istruttorio senza penalità, ai sensi dell’art. 83 del d.lgs. n. 50/2016 (cfr. avviso esito prima seduta di gara del 13.12.2016: «Ditta Es.It.: ...b) soccorso istruttorio, senza penalità, per attestazione di cui al punto 14.7 del disciplinare e dichiarazione “Protocollo di legalità”»).
Il motivo è fondato.
Il soccorso istruttorio è previsto, in via generale, dall’art. 83, co. 9, del d.lgs. n. 50/2016 (nel testo applicabile ratione temporis): «le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio … la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere … Nei casi di irregolarità formali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non essenziali, la stazione appaltante ne richiede comunque la regolarizzazione con la procedura di cui al periodo precedente, ma non applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa».
Nella disciplina di gara, il soccorso istruttorio era previsto dall’art. 14.22 del disciplinare: «La mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità delle attestazioni, dichiarazioni ed elementi di cui al paragrafo 14 [ivi incluso, dunque, il documento attestante la cauzione provvisoria di cui al paragrafo 10 con allegata la dichiarazione di cui all’art. 93, co. 8, del Codice, concernente l’impegno a rilasciare la cauzione definitiva, come richiesto dal punto 14.7] potranno essere sanate ai sensi dell’art. 83, comma 9, del Codice, purché i requisiti dichiarati siano sussistenti al momento della presentazione della domanda e dietro pagamento in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria prevista al paragrafo 6.5 del presente disciplinare. In caso di mancata sanatoria la Stazione Appaltante procederà all’esclusione del concorrente dalla procedura di gara».
Al riguardo, il Collegio ritiene che il rimedio non si sarebbe potuto applicare in caso di mancata dichiarazione di cui all’art. 93, co. 8, del d.lgs. n. 50/2016 («L’offerta è altresì corredata, a pena di esclusione, dall’impegno di un fideiussore, anche diverso da quello che ha rilasciato la garanzia provvisoria, a rilasciare la garanzia fideiussoria per l’esecuzione del contratto, di cui agli articoli 103 e 104, qualora l’offerente risultasse affidatario»), trattandosi –non di un requisito in tesi posseduto e tuttavia non tempestivamente dimostrato, bensì– di una manifestazione di volontà che, una volta decorso il termine di presentazione dell’istanza di partecipazione, si rivela definitivamente tardiva e la cui mancanza è espressamente sanzionata, dalla legge come dalla lex specialis, con l’esclusione.
Sul punto, il Consiglio di Stato ha affermato che «indipendentemente da come sia stata costituita la garanzia provvisoria, occorre sempre l’intervento di un fideiussore che si impegni al rilascio della cauzione definitiva.
La tesi dell’appellante secondo cui l’impegno del fideiussore a costituire la garanzia definitiva occorrerebbe solo nel caso in cui la garanzia provvisoria sia stata rilasciata mediante fideiussione non trova, quindi, riscontro nelle norme di gara e di legge.
Né la mancata allegazione all’offerta dell’impegno a costituire la garanzia definitiva può ritenersi sanata dal rilascio di quest’ultima intervenuto a valle dell’aggiudicazione, trattandosi di adempimento pacificamente occorrente ai fini della partecipazione alla gara.
Alle esposte considerazioni giova soggiungere che, diversamente da quanto la stazione appaltante mostra di ritenere, il versamento in contanti della garanzia provvisoria, non è idoneo a soddisfare le esigenze di tutela a cui è preordinata la costituzione della garanzia definitiva (ovvero, ex art. 93, comma 8, del D.Lgs. n. 50/2016, la corretta esecuzione del contratto).
Ed invero, ai sensi, dell’art. 93, comma 6, del citato D.Lgs. la garanzia provvisoria “è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto” … Pertanto, una volta stipulato il contratto, la stazione appaltante non avrebbe più titolo per trattenere la somma versata a titolo di garanzia provvisoria.
Quest’ultima, inoltre, è pari al due per cento dell’importo a base d’asta, mentre la definitiva ammonta al dieci per cento del valore economico del contratto, per cui, comunque, non essendo le due entità corrispondenti, non ci sarebbe certezza che la somma versata a titolo di garanzia provvisoria sia sufficiente a coprire quanto dovuto per quella definitiva. …
Al riguardo è sufficiente rilevare che il soccorso istruttorio non è utilizzabile per sanare l’inosservanza di adempimenti procedimentali o l’omessa produzione di documenti richiesti ai fini della partecipazione alla gara.
L’art. 83, comma 9, del D.Lgs. n. 50/2016 limita, infatti, il ricorso all’istituto in questione alle ipotesi di carenze riguardanti “qualsiasi elemento formale della domanda
» (sez. V, sent. n. 721/2018).
Ritiene, altresì, il Collegio che l’art. 14.22 del disciplinare –nel prevedere il soccorso istruttorio, peraltro dietro pagamento della sanzione pecuniaria– non si ponga in contrasto con la richiamata disciplina legislativa, laddove coerentemente con la stessa esige che “i requisiti dichiarati siano sussistenti al momento della presentazione della domanda
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 30.09.2019 n. 4641 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Cauzione provvisoria nelle gare: valido solo l’assegno circolare.
Solo l’assegno circolare –e non anche quello bancario– costituisce un ordinario strumento di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, in tutto e per tutto equivalente al versamento in contanti delle somme dovute, sicché in sede di gara per l’aggiudicazione di lavori pubblici, la presentazione delle cauzioni mediante assegno circolare deve ritenersi ritualmente effettuata rispetto alla previsione del bando che faccia riferimento al versamento per numerario o in titoli di Stato o garantiti dallo Stato.
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Con il secondo motivo, la ricorrente censura l’avvenuta costituzione di garanzia mediante assegno bancario, in quanto mezzo inidoneo a garantire l’esistenza della provvista.
Con nota del 21.12.2016, la controinteressata –a seguito dell’attivazione del soccorso istruttorio per la produzione dell’attestazione d’impegno a rilasciare cauzione definitiva ai sensi dell’art. 93, co. 8, del d.lgs. n. 50/2016– ha rappresentato che il fatto di essersi dovuta avvalere del requisito della capacità finanziaria di un’impresa ausiliaria «non le ha consentito di ottenere, in fase di presentazione della propria domanda di partecipazione, polizza fideiussoria provvisoria con impegno a versare la cauzione definitiva in caso di aggiudicazione, proprio perché in assenza di redditi pregressi, nessuna Compagnia assicurativa si è resa disponibile a rilasciarla», sicché ha proceduto a «versare sin d’ora cauzione definitiva attraverso emissione di assegno bancario», autorizzando il Comune di Torre Annunziata a incassarlo in caso di aggiudicazione.
Al riguardo, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che solo l’assegno circolare –e non anche quello bancario– costituisce un ordinario strumento di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, in tutto e per tutto equivalente al versamento in contanti delle somme dovute, sicché «in sede di gara per l’aggiudicazione di lavori pubblici, la presentazione delle cauzioni mediante assegno circolare deve ritenersi ritualmente effettuata rispetto alla previsione del bando che faccia riferimento al versamento per numerario o in titoli di Stato o garantiti dallo Stato» (Cons. di Stato, V, sent. n. 3398/2013; in termini, Cons. di Stato, V, sent. n. 5554/2015), in quanto solo l’assegno circolare garantisce al prenditore la percezione del denaro contante, attesa la sicura solvibilità della banca emittente.
Ciò non si applica all’assegno bancario, che non è un mezzo idoneo a garantire l’esistenza della relativa provvista presso la banca obbligata al pagamento (a nulla valendo la prospettiva, indicata dalla Commissione di gara ma non comprovata, che l’Ente avrebbe proceduto a incassare l’assegno bancario presentato dalla ditta concorrente).
A ciò si aggiunga che l’ammontare dell’assegno versato risulta parametrato all’importo posto a base di gara e non all’«importo contrattuale», in violazione dell’art. 103, co. 1, del d.lgs. n. 50/2016
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 30.09.2019 n. 4641 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIPer consolidato orientamento, ai fini della validità del contratto di avvalimento, è necessario che l’impegno assunto dall’ausiliaria non si limiti a dichiarazioni di carattere meramente “cartolare e astratto”, bensì consista nella concreta messa a disposizione delle necessarie risorse (e, ove necessario, dell’apparato organizzativo).
Invero, «è stato condivisibilmente stabilito al riguardo che in caso di avvalimento cd. di garanzia, avente cioè ad oggetto il requisito di capacità economica finanziaria, rappresentato dal fatturato sia globale che specifico, l’indagine circa l’efficacia del contratto allegato al fine di attestare il possesso dei relativi titoli partecipativi deve essere svolta in concreto, avuto riguardo, cioè, al tenore testuale dell’atto ed alla sua idoneità ad assolvere la precipua funzione di garanzia assegnata all’istituto di cui all’articolo 49 del previgente ‘Codice dei contratti’ –e in seguito dall’articolo 89 del nuovo ‘Codice dei contratti pubblici’–.
E’ stato altresì chiarito che nelle gare pubbliche, allorquando un’impresa intenda avvalersi, mediante stipula di un c.d. contratto di avvalimento dei requisiti finanziari di un’altra (c.d. avvalimento di garanzia), la prestazione oggetto specifico dell’obbligazione è costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a garantire con le proprie complessive risorse economiche, il cui indice è costituito dal fatturato, l’impresa ausiliata munendola, così, di un requisito che altrimenti non avrebbe e consentendole di accedere alla gara nel rispetto delle condizioni poste dal bando».

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Ciò premesso, in ordine al contratto di avvalimento prodotto dall’aggiudicataria, la ricorrente muove le censure di genericità e indeterminatezza.
Il motivo è infondato.
Per consolidato orientamento, ai fini della validità del contratto di avvalimento, è necessario che l’impegno assunto dall’ausiliaria non si limiti a dichiarazioni di carattere meramente “cartolare e astratto”, bensì consista nella concreta messa a disposizione delle necessarie risorse (e, ove necessario, dell’apparato organizzativo; cfr. Ad. Plen. n. 23/2016; Cons. di Stato, V, sent. n. 275/2015 e sent. n. 5244/2014).
Con riguardo agli specifici contenuti dell’accordo oggetto di contestazione e agli impegni ivi contenuti, deve concludersi nel senso della complessiva conformità del contratto di avvalimento intercorso fra la ditta Es.It. e l’ausiliaria rispetto al pertinente paradigma normativo e giurisprudenziale: «è stato condivisibilmente stabilito al riguardo che in caso di avvalimento cd. di garanzia, avente cioè ad oggetto il requisito di capacità economica finanziaria, rappresentato dal fatturato sia globale che specifico, l’indagine circa l’efficacia del contratto allegato al fine di attestare il possesso dei relativi titoli partecipativi deve essere svolta in concreto, avuto riguardo, cioè, al tenore testuale dell’atto ed alla sua idoneità ad assolvere la precipua funzione di garanzia assegnata all’istituto di cui all’articolo 49 del previgente ‘Codice dei contratti’ –e in seguito dall’articolo 89 del nuovo ‘Codice dei contratti pubblici’– (in tal senso: Cons. Stato, III, 03.05.2017, n. 2022).
E’ stato altresì chiarito che nelle gare pubbliche, allorquando un’impresa intenda avvalersi, mediante stipula di un c.d. contratto di avvalimento dei requisiti finanziari di un’altra (c.d. avvalimento di garanzia), la prestazione oggetto specifico dell’obbligazione è costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a garantire con le proprie complessive risorse economiche, il cui indice è costituito dal fatturato, l’impresa ausiliata munendola, così, di un requisito che altrimenti non avrebbe e consentendole di accedere alla gara nel rispetto delle condizioni poste dal bando (in tal senso: Cons. Stato, V, 15.03.2016, n. 1032)
» (Cons. di Stato, V, sent. n. 187/2018)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 30.09.2019 n. 4641 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa configurabilità della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” è costantemente esclusa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, trattandosi di istituto di origine giurisprudenziale, che si pone in contrasto con i principi di tipicità e legalità dell’azione amministrativa.
Invero, “Non è invocabile la c.d. "sanatoria giurisprudenziale", giacché il permesso in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 è ottenibile solo alla condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in questione, con la "sanatoria giurisprudenziale", un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori d'ogni previsione normativa e che, pertanto, non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate”.
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5. La configurabilità della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” è costantemente esclusa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, trattandosi di istituto di origine giurisprudenziale, che si pone in contrasto con i principi di tipicità e legalità dell’azione amministrativa (Cons. Stato Sez. VI, 07/09/2018, n. 5274: “Non è invocabile la c.d. "sanatoria giurisprudenziale", giacché il permesso in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 è ottenibile solo alla condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in questione, con la "sanatoria giurisprudenziale", un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori d'ogni previsione normativa e che, pertanto, non è ammessa nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate”) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.01.2019 n. 65 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordinanza di demolizione può legittimamente essere emessa nei confronti del proprietario dell’opera abusiva anche se non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato.
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A norma del comma 1 dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, la demolizione è ingiunta sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario del bene.
Tale ingiunzione, per poter rivestire portata cogente, deve essere assistita dalla comminatoria della sanzione di cui al successivo comma 3 (ossia dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio comunale), applicabile in caso di inottemperanza ad essa.
Trattasi di modulo procedimentale enucleato non solo a supporto della coattività del precetto ripristinatorio, ma anche a garanzia del proprietario dell’immobile, al fine di permettergli di assumere tutte le iniziative necessarie a far valere la propria estraneità all’illecito edilizio e ad eseguire il precetto anzidetto, e scongiurare, così, futuri ed eventuali effetti ablatori (solo) preannunciati in sede di ingiunzione e derivanti dall’inottemperanza all’ordine impartito, la quale, ove a lui non imputabile, implicherà unicamente, ai sensi dell’art. 31, comma 5, del d.p.r. n. 380/2001, la demolizione in danno del soggetto responsabile.
Ed invero, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale non può incidere sulla sfera giuridica del proprietario dell’area di intervento, di cui emerga in modo inequivocabile la completa estraneità alla realizzazione dell’opera abusiva e l’impegno profuso per impedirla e rimuoverla.

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2. Il ricorrente sostiene, poi, che non avrebbe potuto essere destinatario della gravata ordinanza di demolizione n. 34 dell’11.05.2011, avendo acquistato da terzi l’immobile controverso già nelle condizioni emerse dalla relazione di accertamento del Settore Abusivismo del Comune di Montesarchio, prot. n. 151/S.E., del 21.04.2011, e non essendo, quindi, autore degli abusi contestatigli.
Tale doglianza è priva di pregio.
L'ordinanza di demolizione può, infatti, legittimamente essere emessa nei confronti del proprietario dell’opera abusiva, anche se non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi –come accennato– di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato (cfr., ex multis, TAR Lazio, Latina, 06.08.2009, n. 780; TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.12.2009, n. 8704; sez. IV, 09.04.2010, n. 1890; sez. III, 23.04.2010, n. 2106; sez. IV, 24.05.2010, n. 8343; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 13.08.2013, n. 1619).
3. Del pari, privo di pregio è l’assunto a tenore del quale lo Sp., non avendo la materiale disponibilità dell’immobile, concesso in locazione a terzi, neppure avrebbe potuto essere destinatario della comminatoria di acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio comunale per il caso di inottemperanza alla disposta misura repressivo-ripristinatoria.
In proposito, giova rammentare che, a norma del comma 1 dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, la demolizione è ingiunta sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario del bene.
Tale ingiunzione, per poter rivestire portata cogente, deve essere assistita dalla comminatoria della sanzione di cui al successivo comma 3 (ossia dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio comunale), applicabile in caso di inottemperanza ad essa.
Trattasi di modulo procedimentale enucleato non solo a supporto della coattività del precetto ripristinatorio, ma anche a garanzia del proprietario dell’immobile, al fine di permettergli di assumere tutte le iniziative necessarie a far valere la propria estraneità all’illecito edilizio e ad eseguire il precetto anzidetto, e scongiurare, così, futuri ed eventuali effetti ablatori (solo) preannunciati in sede di ingiunzione e derivanti dall’inottemperanza all’ordine impartito, la quale, ove a lui non imputabile, implicherà unicamente, ai sensi dell’art. 31, comma 5, del d.p.r. n. 380/2001, la demolizione in danno del soggetto responsabile (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4107; sez. IV, 04.10.2013, n. 4913; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 09.06.2008, n. 364; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 26.05.2010, n. 1352; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 12.04.2012, n. 369; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.01.2011, n. 381; 12.09.2011, n. 7189).
Ed invero, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale non può incidere sulla sfera giuridica del proprietario dell’area di intervento, di cui emerga in modo inequivocabile la completa estraneità alla realizzazione dell’opera abusiva e l’impegno profuso per impedirla e rimuoverla (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 09.01.2006, n. 117; sez. VI, 24.01.2006, n. 877; sez. VII, 29.07.2010, n. 17176; sez. II, 20.12.2010, n. 27683; sez. VII, 11.11.2011, n. 5293; 17.09.2012, n. 3879; sez. VIII, 26.04.2013, n. 2180; sez. VII, 28.08.2013, n. 4141; sez. VIII, 07.11.2013, n. 4964; 09.09.2014, n. 4799; TAR Lazio, Roma, sez. I, 09.12.2011, n. 9645; TAR Puglia, Bari, sez. III, 10.05.2013, n. 710).
Del modus operandi nella specie osservato dall’amministrazione comunale intimata il ricorrente non può, dunque, fondatamente dolersi.
Proprio in virtù di siffatto modus operandi, e cioè in quanto reso avveduto della ingiunta misura demolitoria, egli potrà, infatti, dimostrare la sua estraneità all’abuso e il suo attivarsi, con i mezzi concessigli dall'ordinamento, per evitarlo ed eliminarlo (tra le misure concretanti le ‘attività idonee’ ad escludere la partecipazione all’illecito edilizio commesso da terzi è predicata la necessità di un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del detentore, onde evitare l'applicazione della norma che, in caso di omessa rimozione dell’abuso, prevede l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, non bastando a tal fine una condotta meramente passiva di adesione all’azione amministrativa: cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I, 04.04.2012, n. 3103).
E, una volta fornita una simile prova, riuscirà –come accennato– a sottrarsi all’accertamento di inottemperanza a suo carico ai sensi dell’art. 31, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 ed ai (solo) comminati effetti sanzionatori acquisitivi (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.09.2015 n. 4310 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 184, comma 3, lett. b), del d.lgs. n. 152/2006, i residui delle attività di demolizione sono rifiuti speciali e che, ai sensi del successivo art. 256, il loro abbandono incontrollato è sanzionato penalmente.
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7. Destituito di fondamento è, infine, il motivo di gravame incentrato sulla presunta abnormità degli adempimenti prescritti in sede di ingiunzione di demolizione e consistenti, segnatamente, nella richiesta attestazione, a cura di tecnico abilitato, circa lo smaltimento dei rifiuti speciali prodotti, nonché circa il regolare ripristino dello stato dei luoghi.
Trattasi, all’evidenza, di adempimenti che costituiscono il naturale e corretto corollario esecutivo del precetto demolitorio, il quale non può essere attuato con modalità arbitrarie e incontrollate.
In questo, senso, giova rammentare che, ai sensi dell’art. 184, comma 3, lett. b), del d.lgs. n. 152/2006, i residui delle attività di demolizione sono rifiuti speciali e che, ai sensi del successivo art. 256, il loro abbandono incontrollato è sanzionato penalmente (cfr. Cass. pen., sez. III, 17.01.2012, n. 17823, 07.03.2012, n. 37083; 02.10.2014, n. 3202; 09.04.2015, n. 17126) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.09.2015 n. 4310 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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