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AGGIORNAMENTO AL 27.01.2020 |
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Per tutti quei
sindaci che ricorrono all'utilizzo dell'art.
110 dlgs n. 267/2000, per la copertura di posti apicali, non in
conformità a legge... |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale al sindaco per l'incarico dirigenziale a un funzionario senza
laurea.
Il sindaco che attribuisce un incarico dirigenziale a un funzionario non
laureato arreca un danno erariale al Comune.
Lo ha stabilito la corte dei Corte dei conti del Veneto, con la
sentenza 20.11.2019 n. 182,
con la quale ha condannato il sindaco di un Comune al risarcimento di un
danno erariale per oltre 78 mila euro, a seguito del decreto di conferimento
di un incarico dirigenziale a un funzionario privo del necessario diploma di
laurea.
L'attribuzione dell'incarico a tempo determinato, con decorrenza dal giugno
2013 al maggio 2018, era avvenuta con un decreto del sindaco adottato ai
sensi dell'articolo 110 del Tuel, che disciplina gli incarichi a contratto.
L'argomentazione addotta dai giudici a sostegno della pesante condanna fa
perno sul fatto che quest'ultimo articolo consente la copertura dei posti di
qualifica dirigenziale mediante contratto a tempo determinato «fermi
restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire».
Il requisito della laurea
L'impianto normativo connesso a questo disposto non lascia dubbi in ordine
alla necessità del diploma di laurea per l'accesso alla dirigenza della Pa.
In particolare, l'articolo 19 del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico
impiego), con riguardo all'attribuzione degli incarichi dirigenziali a tempo
determinato, fa espresso riferimento alla formazione universitaria e post
universitaria ai fini della verifica della competenza professionale, mentre
l'articolo 28 del medesimo decreto, per quanto riguarda l'accesso alle
qualifiche dirigenziali a tempo indeterminato, prevede anch'esso la
necessità del possesso di titolo di laurea.
Tenuto conto di ciò, il decreto illegittimo ha comportato il riconoscimento
al funzionario di un trattamento economico superiore a quello che gli
sarebbe spettato se l'incarico gli fosse stato attribuito con il
riconoscimento di una posizione organizzativa, e per questo la Corte ha
addebitato al sindaco un danno pari alla differenza retributiva tra le due
posizioni in organico per tutto il periodo di svolgimento dell'incarico.
Il collegio ha respinto l'argomentazione difensiva secondo cui il sindaco
non avrebbe avuto alternative nella scelta del funzionario (dato che era
l'unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l'incarico), senza
tener conto del fatto che la nomina avrebbe fatto risparmiare al Comune i
costi di un conferimento di incarico dirigenziale a un soggetto esterno.
Al contrario, i giudici hanno sostenuto che «esistevano nell'organico
dell'ente altre professionalità a cui attribuire l'incarico», mentre per
quanto concerne il presunto risparmio di spesa la difesa del sindaco «nulla
ha argomentato in merito alla possibilità di affidare la responsabilità
dell'area a un funzionario di categoria D mediante l'istituto della
posizione organizzativa».
La colpa grave
La sezione ha poi ravvisato i connotati di una colpa grave nella condotta
del primo cittadino, in quanto in materia si è ormai consolidato «un
quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla
luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa».
A nulla è valso il tentativo della difesa nel sostenere un coinvolgimento di
altri organi comunali nella responsabilità decisionale per il conferimento
dell'incarico dirigenziale illegittimo.
Secondo i giudici la circostanza che, a monte del decreto in questione, la
giunta comunale avesse adottato un piano di fabbisogno del personale
prevedendo la copertura del posto di qualifica dirigenziale mediante
contratto a tempo determinato con incarico in base all'articolo 110 del Tuel
non ha escluso neppure parzialmente la responsabilità del convenuto.
La decisione di giunta, infatti, atteneva unicamente alle modalità di
copertura del posto, e non all'individuazione del soggetto al quale
l'incarico avrebbe dovuto essere conferito da parte del sindaco, nella veste
di titolare della funzione di scelta del responsabile dell'ufficio.
Il segretario generale, chiamato a sua volta in causa dal sindaco in qualità
di soggetto titolare delle «funzioni di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla
conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto e ai
regolamenti» (articolo 97 del tuel), è stato scagionato dal collegio per
aver rappresentato al sindaco subito dopo l'adozione del decreto,
verbalmente e per iscritto, i profili di illegittimità dell'avvenuto
conferimento dell'incarico.
In definitiva, l'addebito del danno erariale è stato posto interamente a
carico del sindaco dell'ente, individuato dalla Corte quale titolare
esclusivo del potere di esercitare la funzione di scelta dell'incarico, con
esclusione peraltro della cosiddetta «esimente politica», riferibile
ai soli atti rientranti nella competenza di uffici tecnici o amministrativi
e approvati, autorizzati o eseguiti in buona fede dagli organi politici (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
10.12.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Accesso alla dirigenza e responsabilità erariale
per mancanza del diploma di laurea.
In materia di conferimento di incarichi dirigenziali a
tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs.
267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a
requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs.
29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs.
165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente
prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa
Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità
oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale)
che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito
culturale della formazione universitaria con il requisito professionale
dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso
alla dirigenza.
Tale ultima disposizione, nel testo
in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche
apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione
letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico
alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della
laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è
requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata
“dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria,
da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun
modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis,
alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis,
sussistere congiuntamente.
Invero, “il criterio secondo il
quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di
funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non
investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di
acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e
comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine
di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue
da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà
da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente
possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che
culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti,
in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non
può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli
elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne
discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di
formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi
che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità
debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di
funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito.
Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in
un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi
dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione
particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un
puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a
soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione
delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della
responsabilità amministrativa.
--------------
In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta
del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da
colpa grave.
Invero, il
decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto
proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in
via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli
uffici e dei servizi del Comune
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale,
organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art.
48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale-
la “copertura del
posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con
incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni
(incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico,
attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure
parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del
posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale
l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili
unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa
funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario
comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in
capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad
attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del
documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che
nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del
soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della
sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di
esclusiva pertinenza del Sindaco.
--------------
Nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del
segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato
il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti
degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente
consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro,
è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di
coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di
amministrazione attiva.
La mera
sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione
redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna
responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà
in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea
al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a
seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
--------------
Il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del
Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune con il pagamento di competenze retributive ad un
soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura
dell’incarico illegittimamente conferito.
Invero, l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di
studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto
pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del
prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della
violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione
percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e
qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta.
---------------
Oggetto del presente giudizio è la responsabilità risarcitoria del
convenuto, all’epoca Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di
Verona, per l’illegittimo conferimento di incarico dirigenziale intra
dotazione organica, a tempo determinato, ad un dipendente dell’ente poiché
sprovvisto dell’imprescindibile requisito del diploma di laurea, così come
previsto dalla disciplina di rango primario vigente all’atto del
conferimento dell’incarico medesimo, nel giugno 2013.
Secondo la prospettazione della Procura Regionale, il possesso del titolo di
studio della laurea, non solo era un requisito obbligatoriamente richiesto,
ma emergeva in modo chiaro e puntuale dal complesso delle disposizioni
normative regolanti la materia, circostanza che di per sé impediva il venir
meno della gravità delle colpa.
A tale conclusione la Procura è pervenuta in considerazione dell'art. 110
del D.lgs. 267/2000, che prevede che la copertura dei posti di qualifica
dirigenziale possa avvenire mediante contratto a tempo determinato “fermi
restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”, dell’art.
19 del D.Lgs. 165/2001 -divenuto applicabile a tutte le amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2, del D.lgs. 165/2001 in forza dell’art. 40, comma 1,
lett. f), del D.lgs. 150/2009-, che disciplina il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato e fa riferimento alla “particolare
specificazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla
formazione universitaria e postuniversitaria”, e infine dell’art. 28 del
D.Lgs. 165/2001 che, benché riferito alle nomine in ruolo dei dirigenti per
le quali, appunto, è richiesto il diploma di laurea, è da considerarsi norma
di generale applicazione, anche per ragioni di logica e coerenza del
sistema.
Si tratterebbe di un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano
ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza
amministrativa da un lato e, dall’altro, della stessa Corte dei Conti, più
volte intervenuta nella materia de qua anche in sede di controllo di
legittimità (Sez. Centr. Contr. Leg. n. 31/2001, n. 3/2003) che in sede
consultiva di controllo (a partire dalla Sez. Contr. Lombardia n. 31/2001) e
ribadita anche dal Dipartimento della Funzione Pubblica fin dal 2008 (parere
n. 35/2008).
La difesa del convenuto non ha formulato contestazioni circa le norme
applicabili, al momento dell’adozione del decreto sindacale n. 11 del
18.06.2013, al conferimento di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 110
del TUEL -e, quindi, in relazione alla necessità del possesso del requisito
della laurea-, tuttavia ha rappresentato che tale quadro normativo, in ogni
caso farraginoso e di non semplice ricostruzione a causa della tecnica
normativa del rinvio mobile, solo a partire dalla riforma del 2009 non
poneva dubbi interpretativi circa i requisiti professionali e di studio
necessari per il conferimento di incarichi dirigenziali.
In precedenza, infatti, la formulazione letterale dell’art. 19, comma 6, del
D.lgs. 165/2001, elencando i requisiti possesso di laurea/esperienza in
maniera disgiuntiva, consentiva di ritenere legittimo il conferimento di
incarico anche a soggetti non in possesso del titolo di studio, ma in
possesso di concreta esperienza di lavoro maturata presso pubbliche
amministrazioni; solo dopo il d.lgs. 150/2009, il testo della disposizione è
stato mutato in modo tale da non lasciare spazio a soluzioni ermeneutiche
diverse circa la necessaria compresenza di entrambi i requisiti.
Osserva il Collegio che l’adozione da parte dell’odierno convenuto,
all’epoca dei fatti Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di
Verona, del decreto n. 11 del 18.06.2013 integra una condotta antigiuridica,
essendo condivisibile la ricostruzione del quadro normativo applicabile alla
fattispecie dedotta dalla Procura Regionale e, nella sostanza, condivisa
anche dalla difesa del convenuto.
Come già ricordato, in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a
tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs.
267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a
requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs.
29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs.
165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente
prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa
Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità
oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale)
che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito
culturale della formazione universitaria con il requisito professionale
dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso
alla dirigenza.
Osserva a tal proposito il Collegio che tale ultima disposizione, nel testo
in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche
apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione
letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico
alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della
laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è
requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata
“dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria,
da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun
modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis,
alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis,
sussistere congiuntamente.
Come osservato, infatti, già prima dell’intervento del legislatore del 2009
dalla Sezione del controllo di legittimità su atti del Governo di questa
Corte con la delibera n. 3/2003 del 09.01.2003, “il criterio secondo il
quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di
funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non
investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di
acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e
comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine
di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue
da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà
da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente
possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che
culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti,
in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non
può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli
elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne
discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di
formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi
che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità
debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di
funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito.
Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in
un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi
dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione
particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un
puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a
soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione
delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della
responsabilità amministrativa.
In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta
del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da
colpa grave.
Contrariamente, infatti, a quanto sostenuto dalla difesa del convenuto,
il
decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto
proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in
via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli
uffici e dei servizi del Comune di Villafranca di Verona (art. 50, comma 10,
TUEL: “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili
degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi
dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i
criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e
regolamenti comunali e provincia”; Art. 109 TUEL: (Conferimento di
funzioni dirigenziali) “1. Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a
tempo determinato, ai sensi dell'articolo 50, comma 10, con provvedimento
motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in
relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o
del presidente della provincia (…)”; art, 12, comma 1, lett. c), del
Regolamento secondo cui spetta al Sindaco “l’attribuzione e la
definizione degli incarichi dirigenziali ai responsabili di area” e art.
60, comma 1, dello Statuto comunale: “(Incarichi dirigenziali) 1. L’atto
del Sindaco di conferimento o revoca degli incarichi dirigenziali è adottato
sentita la Giunta e il Direttore Generale, se nominato o il Segretario
Generale.”).
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale,
organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art.
48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale: D.G.C. n. 90
del 2013, cfr. doc. 16 allegato all’atto di citazione- la “copertura del
posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con
incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni
(incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico,
attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure
parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del
posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale
l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili
unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa
funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario
comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in
capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad
attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del
documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che
nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del
soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della
sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di
esclusiva pertinenza del Sindaco.
La difesa del ricorrente, poi, attribuisce al Segretario comunale, che con
il suo comportamento reticente avrebbe omesso di rappresentare alla Giunta e
al Sindaco l’esistenza di profili di illegittimità, l’aver indotto in errore
gli organi politici, privando il Sindaco in particolare di “scegliere
diversamente da come ha fatto” (pag. 18 comparsa).
Anche a prescindere dalla contraddittorietà dell’argomentazione difensiva,
avendo lo stesso convenuto in precedenza sostenuto che la scelta del rag.
Da. per l’attribuzione dell’incarico dirigenziale “si presentava
sostanzialmente come obbligata” (pag. 10 comparsa) essendo quest’ultimo
l’unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l’incarico,
nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del
segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato
il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti
degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente
consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro,
è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di
coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di
amministrazione attiva.
Risulta in atti che il segretario comunale di Villafranca di Verona abbia
assolto al proprio compito di consulenza/assistenza, avendo rappresentato al
Sindaco i profili di illegittimità del decreto di conferimento
dell’incarico, sia per le vie brevi prima sia formalmente con PEC nei giorni
immediatamente successivi all’adozione: la Procura ha prodotto, infatti,
copia della comunicazione scritta che la medesima ha dichiarato di aver
consegnato brevi manu al Sindaco e inviato tramite PEC.
La difesa del convenuto ha contestato la veridicità della circostanza,
peraltro confermata dalla medesima Segretario in sede di audizione (doc. 33
Procura), producendo sub doc. 9 una nota (erroneamente qualificata come
dichiarazione) a firma del Vice Segretario generale del Comune di
Villafranca di Verona, dr. Bo., con la quale lo stesso trasmette al
difensore un file di excel (non prodotto in atti) contenente l’elenco degli
atti protocollati in arrivo nel periodo 21.06.2013-30.06.2010, evidenziando
che con le chiavi di ricerca “sindaco” e “Fa.” non si producono
risultati.
E’ di tutta evidenza che, anche al di là della considerazione per cui il
file predetto, in assenza di iniziative processuali di parte convenuta
diverse dalla prova testimoniale richiesta –inammissibile sia per l’omessa
formulazione di specifici capitoli, ma anche irrilevante per le ragioni che
seguiranno-, non avrebbe certo potuto essere acquisito d’ufficio agli atti
del giudizio -con la conseguenza che la mera cognizione dell’ esistenza di
un file non consente di valutarne il contenuto- e anche a voler superare
ogni questione in merito alla natura e alla capacità probatoria di un file
in assenza di forme di certificazione circa la sua completezza, autenticità
ed effettiva corrispondenza con i dati del server (se il protocollo è
elettronico) ovvero dei registri (se il protocollo è cartaceo) del Comune,
l’estratto del protocollo generale dell’ente dal quale non risulta
l’avvenuta protocollazione di una comunicazione, potrebbe unicamente
attestare, appunto, che al protocollo generale non risulta acquisito un
documento, ma non può escludere, in assoluto, che tale documento esista o
sia stato consegnato al destinatario.
E ciò a maggior ragione se si considera che il documento allegato dal
Segretario al proprio esposto (doc. 1 Procura) porta un numero del
protocollo riservato (il n. 89 del 2013: il relativo registro –non prodotto
né offerto in produzione- è conservato nell’Ufficio del Segretario, come
risulta dalla dichiarazione resa dalla d.ssa Sa. in sede di
audizione), circostanza che di certo spiega l’assenza di numero di
protocollo generale e che non è stata oggetto di contestazione alcuna da
parte della difesa del convenuto.
Del resto, la stessa Sa. ha espressamente confermato in audizione di
aver, dapprima, rappresentato verbalmente l’illegittimità dell’atto e di
aver, poi, consegnato la nota scritta brevi manu ed infine di averla
trasmessa anche tramite PEC.
In tale sede, peraltro, la medesima Segretario ha dichiarato anche che nei
colloqui intercorsi con il convenuto, quest’ultimo è apparso a conoscenza
del fatto che il rag. Da. non avrebbe potuto rivestire l’incarico
dirigenziale per difetto del titolo di studio, tant’è che oggetto di
discussione era la possibilità di conferire detto incarico ad altro
dipendente comunale in possesso di laurea, il dr. Gr., che seguiva le
questioni relative alla programmazione di competenza del settore finanziario
e di aver appreso dell’incarico solo successivamente al conferimento,
essendole stata consegnata una copia del relativo decreto sindacale.
A fronte di tali evidenze probatorie, ampiamente circostanziate e non incise
dalle produzioni documentali della difesa, non sembra che possa fondatamente
ritenersi che via siano state condotte omissive imputabili al Segretario
utili a escludere o ridurre la responsabilità del Sindaco.
Quanto, poi,
al ruolo del Segretario comunale in relazione alla citata delibera
della Giunta comunale che ha
approvato il piano occupazionale 2013 (che, peraltro, come si è visto, non è
causativa di danno alcuno), la mera
sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione
redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna
responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà
in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea
al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a
seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
Priva di giuridico pregio appare, infine, l’argomentazione difensiva secondo
cui il Sindaco, organo politico, non sarebbe per ciò tenuto, nell’esercizio
delle sue funzioni e nell’adozione degli atti propri –quelli, cioè, per i
quali è titolare di competenza esclusiva quale quello di cui si tratta-,
alla conoscenza delle norme, dovendo provvedervi in sua vece gli uffici
tecnici, invocando all’uopo la giurisprudenza di questa Corte in punto di
esimente politica.
“La disposizione normativa invocata dal ricorrente, infatti, (art. 1,
comma 1-ter, della L. n. 20/1994), prevedendo che la responsabilità dei
componenti di un organo politico viene meno quando essi abbiano in buona
fede autorizzato o approvato atti di competenza di organi tecnici o
amministrativi, non tutela sempre e comunque, come sembra pretendere
l’appellante, il soggetto politico in quanto tale, ma si limita a prevedere
la sua irresponsabilità nelle sole ipotesi in cui esso abbia fatto
affidamento sull’attività gestoria svolta dai dipendenti amministrativi
della quale non abbia potuto apprezzare, per la peculiarità dei relativi
contenuti, il carattere potenzialmente lesivo.
Come ha invero correttamente osservato la Corte territoriale, la richiamata
norma si limita ad attuare il principio di separazione tra politica e
gestione amministrativa, più volte affermato dal legislatore (art. 3 d.lgs.
n. 29/1993, art. 4 d.lgs. n. 165/2001, art. 107 del d.lgs. n. 267/2000) ed
in forza del quale i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi di governo delle
amministrazioni pubbliche, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica è attribuita mediante poteri autonomi ai dirigenti, Ne segue che
tale norma non consente di ancorare sic et simpliciter l’irresponsabilità
del soggetto politico al particolare ruolo istituzionale che lo diversifica
dai dirigenti, dovendosi detta disposizione considerare inoperante quando il
soggetto stesso abbia direttamente compiuto, nell’ambito delle sue
competenze, atti causativi di danno erariale” (Sez. III App., 432/2016).
Ed è, appunto, questo il caso che ci aggrava: come già ricordato più sopra,
il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del
Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune di
Villafranca di Verona con il pagamento di competenze retributive ad un
soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura
dell’incarico illegittimamente conferito.
Venendo ad esaminare il terzo elemento costitutivo della responsabilità
erariale, l’avvenuta causazione di un danno risarcibile, il Collegio osserva
che, come peraltro correttamente rappresentato dalla Procura attrice,
l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di
studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto
pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del
prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della
violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione
percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e
qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta, come
peraltro ormai acquisito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr.
Sez. Veneto sent. n. 107/2015; Sez. Sicilia n. 55/2014; Sez. Lombardia n.
280/2013; Sez. Toscana n. 433/2011; Sez. Sardegna n. 1246/2009; Sez.
Piemonte n. 24/2009 per citare, ex multis, alcune tra le più recenti
e, da ultimo, Sez. Campania n. 129/2017).
Alla luce di tali consolidati orientamenti, corretto appare, quindi, il
criterio di quantificazione del danno utilizzato dalla Procura e, cioè, la
differenza fra le retribuzioni percepite dal Dalgal in dipendenza
dall’incarico dirigenziale e quelle che gli sarebbero spettate qualora
avesse ricevuto il riconoscimento di una posizione organizzativa quale
funzionario di cat. D5 (questa sì, legittima e conforme alla normativa e
alle disposizioni contrattuali applicabili ratione temporis: “ART.
8 - Area delle posizioni organizzative.
1. Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione
diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato:
a) lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative
di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia
gestionale e organizzativa;
b) lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità
e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole universitarie
e/o alla iscrizione ad albi professionali;
c) lo svolgimento di attività di staff e/o di studio, ricerca,
ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed
esperienza.
2. Tali posizioni, che non coincidono necessariamente con quelle già
retribuite con l’indennità di cui all’art. 37, comma 4, del CCNL del
06.07.1995, possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti
classificati nella categoria D, sulla base e per effetto d’un incarico a
termine conferito in conformità alle regole di cui all’art. 9.” CCNL del
31.03.1999).
La difesa del convenuto contesta in nuce l’esistenza di un danno
risarcibile rappresentando, al contrario, l’avvenuta realizzazione di una
economia di spesa in quanto il posto avrebbe comunque dovuto essere coperto,
con maggiori costi, con ricorso ad un dirigente esterno, argomentando in
ordine alla necessaria copertura del posto con una figura dirigenziale non
potendosi procedere ad accorpamenti di aree, ma nulla argomentando in merito
alla possibilità di affidare la responsabilità dell’area ad un funzionario
di cat. D mediante l’istituto della posizione organizzativa,
contrattualmente previsto (ed applicabile al caso de quo), appunto
oggetto di contestazione da parte della Procura Regionale.
In conclusione, sussistendone tutti i presupposti, deve essere dichiarata la
responsabilità erariale del convenuto per i fatti di cui è causa e lo stesso
deve essere condannato al risarcimento del danno in favore del Comune di
Villafranca di Verona.
Per le ragioni ampiamente più sopra esposte in merito alla solo presunta
compartecipazione di soggetti terzi (Giunta comunale/Segretario Comunale)
alla formazione della volontà sottostante al decreto di conferimento
dell’incarico, ritiene il Collegio non ricorrere nemmeno i presupposti per
l’applicazione del potere riduttivo, così come richiesto dalla difesa.
In conclusione, la domanda attorea deve essere accolta e il convenuto
condannato al risarcimento in favore del Comune di Villafranca di Verona del
danno complessivamente derivante dai fatti di cui è causa e quantificato in
euro 78.120,00, somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre agli
interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo.
Ai sensi dell’art. 31 del c.g.c. il convenuto va inoltre condannato al
pagamento delle spese di giustizia, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto della Corte dei Conti,
ogni diversa e/o contraria domanda od eccezione respinta, definitivamente
pronunciando nel giudizio iscritto al n. 30799 del registro di segreteria
promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di Fa.Ma.;
- respinge l’eccezione preliminare di prescrizione;
- in accoglimento della domanda avanzata dalla Procura Regionale
condanna Fa.Ma. al risarcimento del danno nei confronti del Comune di
Villafranca di Verona di euro 78.120,00 (settantottomilacentoventi/00),
somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre interessi dalla data
della sentenza fino al saldo effettivo (Corte dei Conti Veneto,
sentenza 20.11.2019 n. 182). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi a contratto misurati. Non sono strumenti ordinari per
coprire. Il Tar Calabria chiarisce la portata limitata del dlgs 267 (art.
110).
A giudizio del Tar, l’incarico è stato attribuito
senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza
nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato.
Gli incarichi a contratto non sono uno strumento ordinario di copertura dei
fabbisogni e possono essere assegnati esclusivamente nel caso di dimostrata
assenza nell'organico di professionalità.
La
sentenza 17.07.2019 n. 456 del TAR Calabria-Reggio Calabria
chiarisce la portata limitata delle disposizioni dell'articolo 110 del dlgs
267/2000, evidenziando i corretti presupposti e condizioni per attivare gli
incarichi a contratto. Il Tar ha annullato la deliberazione con la quale era
stata decisa l'assunzione di un responsabile di servizio (in un comune privo
di dirigenti) ai sensi dell'articolo 110 del Tuel (Testo unico enti locali),
per violazione delle disposizioni normative, per altro ponendo le spese a
carico del comune soccombente e trasmettendo il fascicolo alla procura della
Corte dei conti.
A giudizio del Tar, l'incarico è stato attribuito «senza tenere in alcun
modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei
ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a
ricoprire l'incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall'altro,
che non ha assolto minimamente all'onere di esplicitare le ragioni per cui
si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso».
Il comune ha violato le previsioni dell'art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001,
norma da applicare obbligatoriamente insieme con l'art. 110 del Tuel. La
difesa dell'ente locale aveva espresso la tesi secondo la quale i contratti
di cui all'articolo 110 del Tuel non richiederebbero la previa, necessaria,
valutazione circa l'esistenza di analoghe professionalità all'interno
dell'ente, è stata respinta. Il Tar spiega che detta tesi «si scontra con
la necessità di leggere la norma in discorso in connessione con gli artt. 19
comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001».
Proprio il comma 6 dell'art. 19 del dlgs 165/2001 impone di motivare gli
incarichi a contratto a partire proprio dalla rilevazione dell'assenza
irrimediabile di professionalità interne. Tale dimostrazione, spiega il Tar,
è necessaria perché sia rispettato il principio di «autosufficienza»
del personale, secondo il quale «ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente
locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed
il proprio personale».
Il fondamento di tale principio, prosegue la sentenza, deriva non solo non
solo «dal canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i
principi di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa
costituiscono attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni
ente pubblico ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa
organizzazione e con questo personale che l'ente deve attendere alle sue
funzioni».
Da qui la fondamentale statuizione: utilizzare personale esterno alla
dotazione organica è ammesso, ma entro limiti ristretti. Non solo occorre
che gli incarichi a contratto si attivino nei limiti ed alle condizioni in
cui la legge lo consenta, ma è necessario dimostrare che si tratti di un
rimedio straordinario ad una carenza temporanea di professionalità. Infatti,
afferma il Tar, «tutte le forme di esternalizzazione dell'attività
pubblica quali le consulenze, le collaborazioni esterne, i contratti a tempo
determinato, hanno la comune e generale funzione di acquisire
professionalità qualitativamente e quantitativamente assenti nella pubblica
amministrazione, oppure quella di sopperire ad esigenze eccezionali ed
impreviste, di natura transitoria».
Di conseguenza gli incarichi ai sensi dell'art. 110 non solo debbono essere
preceduti dalla dimostrata assenza di professionalità, non solo debbono
essere affidati a persone dotati di una competenza estremamente peculiare e
in possesso dei particolari requisiti imposti dall'art. 19, comma 6, dlgs
165/2001, ma debbono essere necessariamente connessi ad esigenze
transitorie, alle quali porre rimedio in via definitiva con l'adeguamento
della dotazione organica e, quindi, l'assunzione in ruolo delle
professionalità mancanti, così da rispettare il principio di autosufficienza
e non ripetere all'infinito il ricorso agli incarichi a contratto,
trasformandoli surrettiziamente in strumenti di ordinaria copertura dei
fabbisogni (articolo ItaliaOggi del 28.12.2019).
---------------
SENTENZA
... per l'annullamento:
- della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, pubblicata all’Albo
Pretorio il 05.07.2016, con la quale è stata approvata la programmazione del
fabbisogno di personale a tempo determinato;
- del successivo Avviso pubblico del 12.07.2016 per l’assunzione di
un funzionario tecnico categoria D3 ai sensi dell’art. 110, comma 1, del
D.Lgs. 267/2000;
- della deliberazione n. 27 del 12.08.2016, avente ad oggetto il
conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai sensi dell’art. 110,
comma 1, del D.Lgs. 267/2000.
...
1. Con il ricorso in epigrafe l’Architetto Gi.Ma. e l’Ingegnere Al.Ca.,
entrambi dipendenti a tempo indeterminato del Comune di Rosarno, chiedono
l’annullamento della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, con la quale è stata
approvata la programmazione del fabbisogno di personale a tempo determinato
dell’ente per l’anno 2016, del successivo avviso pubblico del 12.07.2016 per
l’assunzione di un funzionario tecnico categoria D3, ai sensi dell’art. 110,
comma 1, del d.lgs 267/2000, nonché della deliberazione n. 27 del 12.08.2016
avente ad oggetto il conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai
sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs 267/2000.
2. Espongono in fatto i ricorrenti che, all’esito dell’approvazione (di cui
alla Delibera del Commissario Prefettizio n. 35 del 27.08.2015) del nuovo
organigramma dell’Ente, e dell’accorpamento (di cui alla successiva Delibera
del Commissario Prefettizio n. 51 del 14.04.2016) delle due aree tecniche –“Lavori
Pubblici” e “Urbanistica ed Edilizia”- in un’unica unità
operativa complessa, gli stessi venivano privati della responsabilità di
posizione organizzativa di cui godevano prima delle citate modifiche alla
struttura burocratica del comune e che, all’esito delle elezioni
amministrative del 2016, la nuova amministrazione insediatasi decideva di
procedere, con i provvedimenti gravati, a reperire all’esterno il
funzionario a cui affidare la direzione dell’area tecnica, con contratto a
tempo determinato ex art. 110, comma 1, del TUEL.
3. Contro la detta decisione e contro i conseguenti provvedimenti di
approvazione del bando di selezione e di conferimento dell’incarico al
controinteressato sono perciò insorti i ricorrenti con il ricorso in
epigrafe affidato, alle seguenti censure:
3.1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 110, comma 1, del
D.Lgs. n. 267/2000.
L’amministrazione avrebbe omesso di considerare che, in seno alla struttura
burocratica del comune, erano già in servizio gli odierni ricorrenti, sicché
il provvedimento gravato sarebbe stato adottato in difetto della condizione
normativa che consente di attivare i contratti a tempo determinato solo in
assenza di analoghe professionalità, nei ruoli dell'Amministrazione.
Il provvedimento impugnato, per altro verso, violerebbe l’art. 9, comma 28,
del D.L. 78/2010, il quale stabilisce che, a decorrere dall'anno 2011, le
Amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici anche ad ordinamento
autonomo, possono avvalersi di personale a tempo determinato o con
convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e
continuativa, nel limite del 50% della spesa sostenuta per le stesse
finalità nell’anno 2009.
3.2. Violazione di legge e, in particolare, dell'art. 3 della legge
n. 241/1990 per omessa e/o insufficiente motivazione del provvedimento.
Sarebbe evidente il vizio di motivazione del provvedimento gravato, che, in
violazione anche dell’art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001, non
rappresenterebbe né l’esigenza di una specifica qualificazione
professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, né le ragioni
del ricorso all’incarico a contratto, invece che al concorso pubblico.
3.3. Violazione del legittimo affidamento dei ricorrenti.
Si sostiene che i ricorrenti, in possesso dei requisiti professionali
richiesti per l’espletamento dell’incarico, hanno visto del tutto disattesa
la propria aspettativa di continuare a ricoprire la predetta posizione
lavorativa. L’Amministrazione intimata avrebbe, infatti, leso il loro
legittimo affidamento attraverso la decisione di assumere a tempo
determinato un nuovo funzionario tecnico nonostante la presenza di analoghi
profili professionali nei ruoli dell’Amministrazione.
...
5.1. Vanno preliminarmente scrutinate le eccezioni preliminari formulate
dalla resistente amministrazione, che il Collegio giudica infondate.
Quanto alla eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata
partecipazione dei ricorrenti alla procedura selettiva, in disparte ogni
considerazione sul fatto che, seguendo la tesi della resistente
amministrazione, l’architetto Ma., avrebbe dovuto, per continuare a
coltivare il proprio interesse a ricorrere, partecipare ad una selezione per
una qualifica già posseduta, appare evidente che il vulnus alle
posizioni giuridiche di entrambi i ricorrenti si è perfezionato con la
scelta dell’amministrazione di procedere a reperire all’esterno la
professionalità a cui affidare la direzione dell’area tecnica.
In altri termini, la lesione della sfera giuridica dei ricorrenti era già
compiuta al momento dell’indizione della procedura selettiva ex art. 110,
co. 1, del TUEL e nessun rilievo può avere, ai fini del radicamento
dell’interesse a ricorrere, la loro mancata partecipazione alla ridetta
selezione, per altro evidentemente rivolta a selezionare all’esterno del
personale dell’ente il soggetto a cui conferire l’incarico.
Il Collegio reputa altresì prive di fondamento le eccezioni di
improcedibilità del ricorso legate ai successivi provvedimenti
amministrativi adottati dall’ente (la proroga del contratto del
controinteressato o addirittura i provvedimenti di riorganizzazione della
struttura). Le descritte circostanze, in uno con quella relativa allo
scadere del contratto di lavoro del controinteressato, anche se
determinassero la cessazione degli effetti dei provvedimenti gravati, non
potrebbero comunque considerarsi idonee a far venir meno l’interesse alla
decisione dei ricorrenti che potrebbero, nei termini prescritti dall’art.
30, comma 5, del codice del processo amministrativo, attivare la tutela
risarcitoria, come già ipotizzato in ricorso.
6. Nel merito, risultano, nei termini di cui si dirà, fondati ed assorbenti
i primi due motivi di ricorso.
La tesi della resistente amministrazione secondo la quale i
contratti ex 110, comma 1, del TUEL non richiedono la previa, necessaria,
valutazione circa l’esistenza di analoghe professionalità all’interno
dell’ente, si scontra con la necessità di leggere la norma in discorso in
connessione con gli artt. 19 comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001, che,
in disparte ogni altra considerazione, è resa ineludibile per tabulas
dalla mera lettura dell’art. 88 del dlgs 267/2000 a mente del quale “All'ordinamento
degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed
i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni, e
le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle
pubbliche amministrazioni nonché quelle contenute nel presente testo unico.”
In altri termini, la procedura finalizzata alla copertura
dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche
dirigenziali o di alta specializzazione, mediante contratto a tempo
determinato, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL, non può derogare dal
rispetto delle prescrizioni dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001,
il quale fornisce due fondamentali e correlate indicazioni:
- l’incarico può essere conferito a soggetti esterni a condizione
che la correlata professionalità sia “non rinvenibile nei ruoli
dell'Amministrazione”; occorre, quindi, preliminarmente dimostrare,
l’assenza totale nei ruoli dell’amministrazione di persone aventi la
professionalità necessaria;
- gli “incarichi sono conferiti, fornendone esplicita
motivazione”, la quale è funzionale alla verifica della particolare e
comprovata qualificazione professionale, richiesta ai funzionari da
sottoporre a selezione, e della insussistenza di professionalità equivalenti
all’interno dell’ente, anche ai fini del controllo della Corte dei Conti
sugli atti di conferimento dei predetti incarichi
(Cass. civ. Sez. lavoro,
sentenza 22.02.2017 n. 4621).
6.2. Tanto premesso, il Collegio non può esimersi dal
ricordare come sia un principio basilare del nostro ordinamento, da tempo
unanimemente riconosciuto dalla giurisprudenza contabile, quello in virtù
del quale ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente locale, deve provvedere
ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale.
Detto principio trova in realtà il suo fondamento non solo
nel canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i principi di
efficacia ed economicità dell'azione amministrativa costituiscono
attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni ente pubblico
ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa organizzazione e
con questo personale che l'ente deve attendere alle sue funzioni.
La possibilità di ricorrere a personale esterno è ammessa
nei limiti ed alle condizioni in cui la legge la preveda, stante che tutte
le forme di esternalizzazione dell'attività pubblica quali le consulenze, le
collaborazioni esterne, i contratti a tempo determinato, hanno la comune e
generale funzione di acquisire professionalità qualitativamente e
quantitativamente assenti nella pubblica amministrazione, oppure quella di
sopperire ad esigenze eccezionali ed impreviste, di natura transitoria.
6.3. Tanto premesso, nel caso di specie,
dall’esame della documentazione versata in atti, risulta
pacificamente, da un lato, che il Comune di Rosarno ha attivato la
procedura di cui all’art. 110, comma 1, del TUEL senza tenere in alcun modo
conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei
ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a
ricoprire l’incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall’altro,
che non ha assolto minimamente all’onere di esplicitare le ragioni per cui
si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso.
7. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente
annullamento degli atti impugnati. |
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INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE. |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli
incentivi ex art. 113, D.Lgs. n. 50/2016, hanno una funzione premiante di
competenze e responsabilità legate inscindibilmente allo svolgimento di
peculiari funzioni tecniche, nell'ambito di iter predeterminati e per
risultati conseguiti. Si tratta, quindi, di un riconoscimento per attività
puntuali svolte nell'ambito di appalti di servizi/forniture che, secondo le
norme (comprese le direttive ANAC o il regolamento dell'ente) siano stati
affidati previo espletamento di una procedura comparativa in casi
tassativamente previsti dalla legge.
E' poi compito dell'ente, nell'iter di adozione del preventivo ed
obbligatorio regolamento, nell'ambito della propria autonomia, disciplinare
criteri e modalità di svolgimento delle prestazioni.
L'applicabilità degli incentivi, nell'ambito dei contratti di affidamento di
servizi e forniture è, quindi, contemplata soltanto "nel caso in cui sia
nominato il direttore dell'esecuzione", inteso quale soggetto autonomo e
diverso dal RUP. Tale figura interviene soltanto negli appalti di forniture
o servizi di importo superiore a 500.000 €, ovvero di particolare
complessità così come specificato al punto 10 delle Linee guida ANAC n.
3/2016, in attuazione dell'art. 31, comma 5, Codice, con delibera n.
1096/2016, per disciplinare in modo più dettagliato "Nomina, ruolo e compiti
del RUP, per l'affidamento di appalti e concessioni", ed aggiornate con la
delibera n. 1007/2017.
--------------
Il Presidente pro-tempore del Consiglio regionale dell’Abruzzo ha
chiesto a questa Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della Legge del
05.06.2003, n. 131, di rendere il proprio parere in merito alla corretta
interpretazione dell’articolo 113, comma 2, del decreto legislativo
18.04.2016, n. 50 con riferimento alle funzioni del Responsabile unico del
procedimento e del Direttore dell’esecuzione.
Il richiedente premette che l'articolo 31 del decreto in parola, rubricato "Ruolo
e funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e nelle
concessioni", al comma 5, nel rinviare ad un regolamento la definizione
di "una disciplina di maggiore dettaglio sui compiti specifici del RUP,
sui presupposti e sulle modalità di nomina, nonché sugli ulteriori requisiti
di professionalità rispetto a quanto disposto dal presente codice, in
relazione alla complessità dei lavori" dispone che "con il medesimo
regolamento di cui all'articolo 216, comma 27-octies, sono determinati,
altresì, l'importo massimo e la tipologia dei lavori, servizi e forniture
per i quali il RUP può coincidere con il progettista, con il direttore dei
lavori o il direttore dell’esecuzione”.
Su quest'ultimo aspetto, le Linee guida n. 3 dell'ANAC, di attuazione del
D.lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile
unico del procedimento per l'affidamento di appalti e concessioni» hanno
così disciplinato: "10.1. Il responsabile del procedimento svolge, nei
limiti delle proprie competenze professionali, anche le funzioni di
progettista e direttore dell'esecuzione del contratto. Il direttore
dell'esecuzione del contratto è soggetto diverso dal responsabile del
procedimento nei seguenti casi:
a. prestazioni di importo superiore a 500.000 euro;
b. interventi particolarmente complessi sotto il profilo
tecnologico;
c. prestazioni che richiedono l'apporto di una pluralità di
competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture
sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione,
vigilanza, sociosanitario, supporto informatico);
d. interventi caratterizzati dall'utilizzo di componenti o di
processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per
quanto riguarda la loro funzionalità".
Il comma 2, del citato articolo 113, del d.lgs. n. 50 del 2016 dispone che:
“a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire
l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del
progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte
di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere
contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione
delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che
costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono
destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La
disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a
servizi o forniture nel caso in cui è nominato il Direttore dell'esecuzione”.
Alla luce di quanto sopra riportato, il Presidente pro tempore del
Consiglio regionale dell’Abruzzo chiede delucidazioni in ordine alla
corretta interpretazione della normativa in questione, attesa la sua
incidenza sulla finanza pubblica, sulla possibilità di erogare incentivi nel
caso di un ipotetico appalto di servizi o forniture di beni in cui non può
essere nominato il Direttore dell’esecuzione, per mancanza dei richiamati
presupposti, e le cui funzioni, nell’ambito della procedura di appalto e
gestione del contratto di fornitura, saranno svolte, evidentemente dal RUP
in ragione della generale attrazione.
...
2. Nel merito il quesito riguarda l’ambito applicativo del nuovo codice dei
contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016 e s.m.i.) e, precisamente
dell’art. 113.
Per quanto attiene al quesito sottoposto a questa Sezione, l’art. 113, nel
dettare la disciplina dei nuovi “incentivi per funzioni tecniche”,
stabilisce che: “Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione
dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi
tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo
statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani
di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n.
81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la
redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico
agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti” (comma 1) e che “a valere sugli stanziamenti di cui al
comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica
preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di
bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del
contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi
e costi prestabiliti” (comma 2).
Il comma 2 si chiude con la chiara dizione che “La disposizione di cui al
presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel
caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”. Tale espressione
non può essere interpretata estensivamente in quanto la norma deve
intendersi di stretta interpretazione rispetto all’ordinaria normativa del
lavoro pubblico.
Gli incentivi in materia hanno,
infatti, una funzione premiante di competenze e
responsabilità legate inscindibilmente allo svolgimento di peculiari
funzioni tecniche, nell’ambito di iter predeterminati e per risultati
conseguiti. Si tratta, quindi, di un riconoscimento per attività puntuali
svolte nell’ambito di appalti di servizi o forniture che, secondo le norme
(comprese le direttive ANAC o il regolamento dell’ente) siano stati affidati
previo espletamento di una procedura comparativa in casi tassativamente
previsti dalla legge (in termini,
Sezione delle autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6. In senso conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e
parere 21.09.2017 n. 108; SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333, SRC Lombardia
parere 09.06.2017 n. 190, SRC Marche
parere 08.06.2018 n. 28; SRC Veneto
parere 27.11.2018 n. 455; SRC Lazio
parere 06.07.2018 n. 57).
È, poi, compito dell’ente, nell’iter di adozione del
preventivo ed obbligatorio regolamento ai sensi del comma 3 dell’art. 113
del d.lgs. 50/2016, nell’ambito della propria autonomia, disciplinare
criteri e modalità di svolgimento delle prestazioni.
L’applicabilità degli incentivi, nell’ambito dei contratti di affidamento di
servizi e forniture, è, quindi, contemplata soltanto “nel caso in cui sia
nominato il direttore dell’esecuzione” (parte finale del comma 2, come
modificata, in senso limitativo, dall’art. 76, comma 1, lett. b, del D.Lgs.
n. 56/2017), inteso quale soggetto autonomo e diverso dal RUP.
Tale figura interviene soltanto negli appalti di forniture
o servizi di importo superiore a 500.000 euro, ovvero di particolare
complessità così come specificato al punto 10 delle citate Linee guida n.
3/2016, emanate dall’ANAC, in attuazione dell’art. 31, comma 5, Codice, con
delibera n. 1096 del 26.10.2016, per disciplinare in modo più dettagliato “Nomina,
ruolo e compiti del RUP, per l’affidamento di appalti e concessioni”, ed
aggiornate con la delibera n. 1007 dell’11.10.2017
(SRC Lazio
parere 06.07.2018 n. 57; SRC Veneto parere
21.05.2019 n. 107) (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 23.12.2019 n. 178). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Niente
incentivi per funzioni tecniche per le opere pubbliche realizzate a scomputo.
L'incentivo per funzioni tecniche previsto dall'articolo 113 del Dlgs
50/2016 non può essere riconosciuto nel caso di opere pubbliche a scomputo
realizzate in base all'articolo 16 del Testo unico edilizia, sia nel caso in
cui si tratti di opere incluse nel raggio applicativo del codice degli
appalti sia nel caso in cui si tratti di opere estranee a questa disciplina.
È quanto ha stabilito la Corte dei conti della Liguria con la
parere
23.12.2019 n. 122 rispondendo a una
specifica richiesta di parere, tra i molteplici che hanno interessato
l'incentivo per le funzioni tecniche, che ha generato non poche difficoltà
applicative e interpretative.
La questione specifica sottoposta riguarda la possibilità (e quindi
legittimità) dell'inserimento, in un atto unilaterale d'obbligo relativo
alla realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo, di una clausola
finalizzata a imporre al privato il versamento degli oneri per compensare le
funzioni tecniche del Rup, anche al fine di erogare l'incentivo pur se, a
evidenza, questa fattispecie non determina l'espletamento di alcuna
procedura di gara.
Le limitazioni agli incentivi tecnici
Per giungere alla conclusione indicata la Sezione ligure della magistratura
contabile ha preliminarmente richiamato, effettuando un'utile ed efficace
sintesi, le principali indicazioni giurisprudenziali in materia di
riconoscimento dell'incentivo per funzioni tecniche.
Anzitutto, la Corte ha rammentato che le prestazioni incentivabili contenute
nell'articolo 113 del Dlgs 50/2016 hanno natura rigorosamente tassativa e
che si rende necessario adottare preventivamente un apposito regolamento con
la sottoscrizione dell'accordo di contrattazione.
In aggiunta, ai fini dell'erogazione delle risorse, è, altresì, necessario
l'effettivo svolgimento delle prestazioni a cui gli incentivi sono
correlati, in modo da remunerare il concreto carico di responsabilità e di
lavoro assunto dai dipendenti.
Ancora, è giustamente sottolineato che le risorse in questione possono
essere riconosciute solamente in caso di contratti di appalto, con
esclusione sia dei contratti di concessione, sia degli altri contratti di
partenariato pubblico-privato.
In termini più specifici, poi, con riferimento alla disciplina recata dal
codice dei contratti, la Corte ha ricordato come l'articolo 1 del Dlgs
50/2016 evidenzi che le disposizioni in materia di incentivi non si
applicano, ai «soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di
altro titolo abilitativo, che assumono in via diretta la realizzazione di
opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto
per il rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 16, comma 2,
del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001 n. 380 e dell'art.
28, comma 5, della legge 17.08.1942 n. 1150 ovvero che eseguono le relative
opere in regime di convenzione».
Di conseguenza, con la medesima disposizione, il legislatore, da un lato, ha
specificato che anche i lavori eseguiti dal privato che realizza opere a
scomputo sono sottoposti alla disciplina del codice degli appalti e,
dall'altro lato, ha escluso espressamente l'applicazione alle opere in
questione degli incentivi per funzioni tecniche.
Come ben chiarito da altra Sezione regionale, del resto, lo stesso articolo
113 pone a carico della sola amministrazione la contabilizzazione, la
gestione e l'onere finanziario degli incentivi, i quali devono essere
attinti, comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a
carico dell'amministrazione, dall'apposito fondo a valere sugli stanziamenti
previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di
previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti e, più
precisamente, dal medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi e forniture.
A conclusioni diverse non può condurre la specifica ipotesi contemplata
dall'articolo 16, comma 2-bis, Dpr 380/2001 che consente l'esecuzione
diretta, a opera del titolare del permesso di costruire, delle opere
funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio,
disponendo anche una eccezionale deroga all'applicazione delle disposizioni
codicistiche in materia di affidamento di commesse pubbliche.
A corroborare ulteriormente questa conclusione ha rilevanza, infine,
l'ulteriore preclusione costituita dall'assenza di una procedura di gara,
che costituisce un presupposto fondamentale legato allo svolgimento di una
procedura comparativa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
16.01.2020). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Sulle
opere a scomputo niente incentivi ai tecnici della pubblica amministrazione.
Parere negativo della Corte dei Conti a un quesito di un
comune della Liguria.
La Corte dei Conti sbarra la strada alla possibilità di poter mettere a
carico dei privati l'incentivo interno a favore del Rup nel caso di opere a
scomputo.
Il quesito in tal senso è stato formulato dal Comune ligure di Taggia
(Imperia). Quesito sul quale è però arrivato il no dei giudici contabili,
affidato al parere approvato con la
parere
23.12.2019 n. 122, della sezione Liguria.
Più precisamente, il comune ha chiesto «se sia possibile inserire in un
atto unilaterale d'obbligo relativo alla realizzazione di opere di
urbanizzazione a scomputo ai sensi dell'art. 16, comma 2, d.p.r. 380/2001
(Testo Unico Edilizia) una clausola che imponga al privato il versamento
degli oneri per compensare le funzioni tecniche del Rup. In caso
affermativo, l'ente chiede se possa essere erogato l'incentivo in caso di
opere a scomputo non inserite nel piano triennale delle opere pubbliche e da
realizzarsi senza l'espletamento di alcuna procedura di gara».
La risposta è negativa perché -spiegano i magistrati contabili- il
legislatore «nella disposizione in cui assoggetta anche i lavori eseguiti
dal privato che realizza opere a scomputo alla disciplina del codice degli
appalti esclude espressamente l'applicazione alle opere in questione degli
incentivi per funzioni tecniche».
L'articolo 113 del codice sugli incentivi a favore dei tecnici interni,
infatti, «pone a carico della sola amministrazione la contabilizzazione,
la gestione e l'onere finanziario degli incentivi» (articolo Edilizia
e Territorio del
13.01.2020). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Va
escluso l’incentivo nel caso di opere realizzate dal privato titolare del
permesso di costruire a scomputo degli oneri di urbanizzazione.
L’art. 113 d.lgs. 50/2016 non trova
applicazione in caso di opere pubbliche a scomputo realizzate ai sensi
dell’art. 16 Testo Unico Edilizia, sia nel caso in cui si tratti di opere
incluse nel raggio applicativo del codice degli appalti sia nel caso in cui
si tratti di opere che estranee a tale disciplina.
--------------
Con la nota in epigrafe, il Sindaco del Comune di Taggia (IM) formula i seguenti
quesiti in materia di incentivi per funzioni tecniche:
1) “se, in caso di stipula, tra il Comune ed un soggetto privato
di un atto unilaterale d’obbligo per la realizzazione di opere pubbliche a
scomputo, sia possibile e legittimo prevedere una clausola che imponga a
carico del soggetto privato il versamento di oneri per retribuire le
prestazioni professionali del RUP ex legge n. 109/1990 e successive
modifiche ed integrazioni”;
2) “nel caso in cui l’accollo dell’onere di cui sopra a carico
del privato sia legittimo, si chiede di sapere se, in relazione a tali opere
pubbliche a scomputo, non inserite nel piano triennale delle opere pubbliche
e da realizzarsi senza espletamento di alcuna procedura di gara, possa
essere riconosciuto al RUP l’incentivo previsto dalla legge n. 109/1990 e
successive modifiche ed integrazioni”;
...
3. Passando al merito della richiesta, il Comune chiede se sia possibile
inserire in un atto unilaterale d’obbligo relativo alla realizzazione di
opere di urbanizzazione a scomputo ai sensi dell’art 16, comma 2, d.p.r.
380/2001 (Testo Unico Edilizia) una clausola che imponga al privato il
versamento degli oneri per compensare le funzioni tecniche del RUP. In caso
affermativo, l’ente chiede se possa essere erogato l’incentivo in caso di
opere a scomputo non inserite nel piano triennale delle opere pubbliche e da
realizzarsi senza l’espletamento di alcuna procedura di gara.
4. Preliminarmente, con riferimento ai presupposti ed alle condizioni per la
corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche, si richiama la nutrita
giurisprudenza esistente in materia, che ha sottolineato la natura tassativa
delle prestazioni incentivanti contemplate dall’art. 113 dlgs 50/2016, la
necessità, ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle
risorse accantonate al fondo, della previa adozione del regolamento interno
e della sottoscrizione dell’accordo di contrattazione (cfr., tra le tante,
Sezione controllo Lombardia,
parere 18.07.2019 n. 310, Sezione controllo Veneto
parere 09.04.2019 n. 72 e
parere 07.09.2016 n. 353, Sezione Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6 e
deliberazione 09.01.2019 n. 2).
Ai fini dell’erogazione delle risorse, è, altresì, necessario l’effettivo
svolgimento delle prestazioni a cui gli incentivi sono correlati, in modo da
remunerare il concreto carico di responsabilità e di lavoro assunto dai
dipendenti; la corresponsione dell’incentivo è disposta, ai sensi del comma
3 dell’art. 113, dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte
dai dipendenti (Sezione controllo Lombardia
parere 18.07.2019 n. 310, Sezione
controllo Lazio
parere 06.07.2018 n. 57). Le risorse in esame, infine, possono essere
riconosciute solamente in caso di contratti di appalto, con esclusione sia
dei contratti di concessione (Sezione delle Autonomie
deliberazione 25.06.2019 n. 15) sia
degli altri contratti di partenariato pubblico-privato (Sezione controllo
Lombardia
parere 21.11.2019 n. 429).
5. Così richiamato sinteticamente il quadro normativo e giurisprudenziale in
materia, la soluzione del quesito posto dall’ente in merito alla legittimità
di una clausola inserita in un atto unilaterale d’obbligo che ponga a carico
del privato gli oneri per gli incentivi in esame, implica, in via
logicamente preliminare, la verifica dell’applicabilità della previsione di
cui all’ art. 113 d.lgs. 50/2016 alle opere realizzate dal privato a scomputo
degli oneri di urbanizzazione ex art 16, comma 2, d.p.r. 380/2001.
Sotto tale profilo, l’art. 1 dlgs 50/2016, che definisce l’oggetto e
l’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici, sancisce, al
comma 3, che le disposizioni di cui all’art. 113 non si applicano, tra gli
altri, ai soggetti di cui al comma 2, lett. e), del medesimo articolo, ossia ai
“soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di altro titolo
abilitativo, che assumono in via diretta la realizzazione di opere di
urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il
rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 16, comma 2, del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001 n. 380 e dell’art.
28, comma 5, della legge 17.08.1942 n. 1150 ovvero che eseguono le
relative opere in regime di convenzione”.
Il legislatore, quindi,
nella medesima disposizione in cui assoggetta anche
i lavori eseguiti dal privato che realizza opere a scomputo alla disciplina
del codice degli appalti (in quanto sussumibile nella categoria degli “altri
soggetti aggiudicatori” di cui all’art. 3, lett. g), del medesimo
decreto), esclude espressamente l’applicazione alle opere in questione degli
incentivi per funzioni tecniche.
L’art. 113, infatti, pone a carico della sola amministrazione la contabilizzazione, la gestione e l’onere finanziario degli incentivi. “Essi
devono essere attinti, comprensivi anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell’amministrazione, dall’apposito fondo a valere
sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti e, più precisamente, dal medesimo capitolo di spesa previsto per
i singoli lavori, servizi e forniture, salvo non siano in essere contratti o
convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle
funzioni tecniche svolte dal pubblico dipendenti” (Sezione controllo
Veneto
parere 21.06.2018 n. 198).
Questa Corte si è già pronunciata in merito alla compatibilità degli
incentivi in parola con le opere realizzate dal titolare del permesso di
costruire a scomputo degli oneri di urbanizzazione, concludendo per la non
applicabilità dell’art. 113 al caso di specie.
La disposizione da ultimo
citata, infatti, indica “chiaramente che per la costituzione del fondo
incentivante ci debbano essere ‘stanziamenti previsti per la realizzazione
dei singoli lavori’ nel bilancio dell’ente locale-stazione appaltante. Ne
consegue che, poiché i lavori pubblici realizzati da parte di soggetti
privati ex art. 1, comma 2, lett. e), d.lgs. n. 50/2016 non preventivano una
spesa a carico dell’ente locale, non ricorre il presupposto per la
costituzione del fondo incentivante.
Dunque, alla luce del tenore letterale
dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 , si deve concludere che gli incentivi
per attività tecniche non possono essere riconosciuti in favore di
dipendenti interni che svolgano attività di direzione lavori o di collaudo
quando dette attività sono connesse a “lavori pubblici da realizzarsi da
parte di soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di un altro
titolo abilitativo, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di
urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il
rilascio del permesso, ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dell'articolo 28, comma 5,
della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero eseguono le relative opere in regime
di convenzione” (art. 1, comma 2, lett. e d.lgs. 50/2016)” (Sezione
controllo Lombardia
parere 05.07.2016 n. 184).
A diverse conclusioni non è possibile addivenire nell’ipotesi prevista
dall’art 16, comma 2-bis, d.p.r. 380/2001 che consente l’esecuzione diretta,
ad opera del titolare del permesso di costruire, delle opere funzionali
all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio. La disposizione
contiene una eccezionale deroga alla previsione dell’art. 1 dlgs 50/2016 ed
all’applicazione delle disposizioni codicistiche in materia di affidamento
di commesse pubbliche, sancendo che, nel caso in cui il valore complessivo
delle opere sia inferiore alla soglia comunitaria, “il privato potrà
avvalersi della deroga di cui all’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380
del 2001 ed esclusivamente per quelle funzionali” (Consiglio di Stato,
Adunanza della Commissione speciale
parere 24.12.2018 n. 2942).
In tale fattispecie, alle considerazioni sopra svolte,
si aggiunge
l’ulteriore preclusione costituita dall’assenza di una procedura di gara.
Siffatto principio è stato costantemente ribadito dalla giurisprudenza
contabile, la quale ha osservato come il tenore letterale della norma, che
fa espresso riferimento all’importo dei lavori, servizi e forniture “posti
a base di gara”, induca a ritenere incentivabili le sole funzioni
tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una
procedura comparativa (cfr. Sezione controllo Lombardia
parere 18.07.2019 n. 310,
Sezione controllo Piemonte
parere 19.03.2019 n. 25,
Sezione controllo Veneto
parere 11.10.2019 n. 301, Sezione controllo Liguria
parere 21.12.2018 n. 136).
Conformemente alle coordinate normative e giurisprudenziali sopra
richiamate, la Sezione ritiene che l’art. 113 d.lgs. 50/2016 non trovi
applicazione in caso di opere pubbliche a scomputo realizzate ai sensi
dell’art. 16 Testo Unico Edilizia, sia nel caso in cui si tratti di opere
incluse nel raggio applicativo del codice degli appalti sia nel caso in cui
si tratti di opere che estranee a tale disciplina.
6. La risposta al secondo quesito è condizionata alla positiva risoluzione
del primo, sicché può ritenersi assorbita dalle considerazioni sopra svolte
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere
23.12.2019 n. 122). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli
incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 sono
destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di
contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione.
--------------
Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Inzago (MI) formula il
seguente quesito: “se, nel caso in cui il disciplinare di gara relativo
alla concessione di un servizio preveda che gli incentivi per funzioni
tecniche di cui all'articolo 113 d.lgs. n. 50/2016, siano a carico
dell'aggiudicatario della concessione e dunque dallo stesso finanziati, una
volta che la relativa somma sia stata corrisposta dal privato aggiudicatario
e, pertanto, la stessa sia entrata nella disponibilità e dunque nel
patrimonio dell'Ente, questo possa erogarla ai dipendenti per le funzioni
tecniche dagli stessi svolte".
Il Comune, pur prendendo atto del principio di diritto espresso dalla
Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15, che ha escluso
gli incentivi tecnici per i contratti di concessione, ipotizza che dalla
stessa deliberazione potrebbero emergere delle aperture in senso contrario
laddove si legge che: "Si ipotizza (nel
parere 21.06.2018 n. 198
Corte dei Conti Veneto ndr), inoltre, che nell'ambito della libertà
contrattuale dell'Amministrazione potrebbe essere prevista, in sede di
corrispettivo, una modalità di finanziamento degli oneri connessi, con
soluzioni negoziali che pongano di fatto a carico del concessionario la
quota di compenso incentivante da riconoscere al personale dell'Ente",
senza che la Sezione muova rilievi di sorta a tale ipotesi.
...
Il quesito sottoposto all’esame di questa Corte si riferisce sostanzialmente
all’applicabilità degli incentivi tecnici di cui all'articolo 113 d.lgs. n. 50/2016
anche ai contratti di concessione. La questione è già stata decisa in sede
di nomofilachia dalla Sezione delle Autonomie che, con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15, si è espressa nel senso che: «Alla luce dell’attuale
formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi
disciplinati sono destinabili al personale dipendente dell’ente
esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di
contratti di concessione».
Né, d’altra parte, si può giungere a diversa conclusione partendo
dall’ipotesi configurata nella richiesta di parere laddove si ritiene
possibile “che il disciplinare di gara relativo alla concessione di un
servizio preveda che gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo
113 d.lgs. n. 50/2016 siano a carico dell'aggiudicatario della concessione e
dunque dallo stesso finanziati” e che “una volta che la relativa
somma sia stata corrisposta dal privato aggiudicatario e, pertanto, la
stessa sia entrata nella disponibilità e dunque nel patrimonio dell'Ente,
questo possa erogarla ai dipendenti per le funzioni tecniche dagli stessi
svolte”.
Tale prospettazione non è legittimamente configurabile, essendo chiaramente
elusiva del disposto dell’art. 113 del d.lgs. 50/2016, che limita
l’applicazione di detti incentivi ai contratti di appalto.
Va opportunamente soggiunto che ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni, per effetto del d.lgs 165/2001, spetta il trattamento
economico fondamentale e quello accessorio, se stabilito dal contratto
collettivo nazionale o riconosciuto da specifiche disposizioni di legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere
18.12.2019 n. 442). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Sul
calcolo degli incentivi tecnici pesano anche le opzioni di proroga e rinnovo
del contratto.
L'incentivo per funzioni tecniche (articolo 113 del
codice dei contratti) finalizzato a compensare le varie funzioni inerenti la
predisposizione dell'appalto e la fase esecutiva del contratto, deve essere
erogato tenendo conto anche di eventuali opzioni di durata del contratto,
quali proroghe e rinnovi, sempre che vengano attivate.
È la conclusione contenuta nel
parere n. 472/2019 espresso dal
Ministero delle Infrastrutture.
Il quesito
Un Comune ha rivolto al ministero
un quesito a proposito della corretta modalità di determinazione ed
erogazione dell'incentivo per funzioni tecniche alla centrale unica di
committenza che, materialmente, ha espletato, per conto dell'ente, la
procedura d'appalto.
Nel quesito si chiedeva, in particolare, se al fine di stabilire l'esatta
misura dell'incentivo da erogare alla centrale di committenza l'importo da
prendere in considerazione debba essere costituito dalla base d'asta "pura"
oppure dall'importo complessivo contenente anche il costo di eventuali
opzioni di durata del contratto quali le proroghe o rinnovi contrattuali.
La richiesta, quindi, teneva conto degli obblighi imposti dall'articolo 35
del codice dei contratti, comma 4, in cui si precisa che nell'ipotesi in cui
l'appalto debba essere aggiudicato per una durata certa con possibilità,
solo eventuali rimesse alla stazione appaltante, di prorogare o rinnovare il
contratto per ulteriori periodi, il costo di tali "prosecuzioni" deve
essere trasparente ovvero deve essere già indicato nel bando di gara/lettera
di invito. Ciò con l'evidente fine di evitare che il Rup, attraverso un uso
strumentale delle opzioni di prosecuzione possa violare le regole del sopra
soglia comunitario ben più rigorose di quelle previste per il sotto soglia.
Il riscontro
Il Mit ha risposto positivamente affermando che nel calcolo degli incentivi
(per un importo del 2%, massimo, sugli «stanziamenti previsti per i
singoli appalti di lavori, servizi e forniture») la base di riferimento
deve ritenersi comprensiva se previsti e se concretamente attivati del costo
della proroga o del rinnovo.
In particolare, nel parere, premesso che «le amministrazioni
aggiudicatrici possono sottoscrivere contratti o convenzioni con le Centrali
di committenza di riferimento che prevedano modalità specifiche per la
retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai dipendenti» si conferma l'erogabilità
dell'incentivo anche per le opzioni. Il Mit ha puntualizzato che
«l'incentivo ai sensi del comma 2 dell'art. 113 deve essere calcolato
sull'importo posto a base di gara, eventualmente aumentato degli importi
previsti dalle opzioni (rinnovi o proroghe). Ovviamente, la liquidazione
aumentata degli importi relativi alle proroghe o rinnovi sarà consentita
solo ove verrà attivata una delle predette opzioni».
La risposta è, ovviamente, condivisibile considerato che l'attività del
direttore dell'esecuzione visto che il rinnovo e la proroga appare
oggettivamente congeniale solo ai servizi ed alle forniture prosegue anche
in caso di attuazione di queste appendici. Al contempo, e non deve essere
sottovalutato, il Mit ha legittimato, oltre che l'opzione della proroga
espressamente disciplinata nell'articolo 106 del codice dei contratti, al
comma 11, anche l'opzione del rinnovo del contratto.
Il rinnovo del contratto, pacificamente ammesso in giurisprudenza, a
condizione che risulti espressamente previsto negli atti di gara non ha una
specifica disciplina nel codice dei contratti ma un unico riferimento
risulta contenuto nel comma 4 dell'articolo 35 dove si dispone che «il
calcolo del valore stimato di un appalto pubblico di lavori, servizi e
forniture è basato sull'importo totale pagabile, al netto dell'Iva, valutato
dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore. Il calcolo
tiene conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di
eventuali opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei
documenti di gara».
Nei contratti di forniture e servizi, per poter erogare l'incentivo, così
come previsto nelle linee guida Anac n. 4 e come confermato in modo unanime
dalle sezioni della Corte dei conti, è imprescindibile la nomina di un
direttore dell'esecuzione distinto dal Rup (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
16.12.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli
incentivi tecnici per la progettazione non si applicano al partenariato
pubblico-privato.
Con il
parere 21.11.2019 n. 429, la
Sezione regionale di controllo per la Lombardia, ha escluso che il sistema
degli incentivi tecnici per la progettazione, di cui al Dlgs 163/2006, si
applichi alle operazioni di Partenariato Pubblico Privato.
Il quesito
Il caso in esame riguarda la richiesta di parere del Sindaco del comune di
Arcore, il quale ha posto un quesito in merito alla corresponsione degli
incentivi tecnici relativi all’attività di Rup, nel caso di Partenariato
Pubblico Privato, in vigenza dell’ultrattività degli articoli 92 e 93, Dlgs
163/2006, per le opere realizzate prima dell’entrata in vigore del Dlgs
50/2016.
Le considerazioni della Corte
Preliminarmente, la Corte ha chiarito come la suddetta normativa abbia
subito diverse evoluzioni e, pertanto, spetti alle singole Amministrazioni
valutare, con particolare attenzione, quale sia la normativa applicabile
rispetto alla specifica fattispecie.
In proposito, la Corte ha precisato che il legislatore del nuovo codice
degli appalti ha scelto la strada dell’ultrattività della normativa per
risolvere le questioni di diritto venutesi a porre con la sua emanazione,
stabilendo che per tutte le procedure iniziate sotto il vigore del vecchio
codice si continua ad applicare la precedente normativa. Infatti, ai sensi
dell’art. 216, comma 1, le disposizioni introdotte dal Dlgs 50/2016 si
applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore
del nuovo “Codice”, fatte salve disposizioni speciali di diverso
tenore (Sez. Reg. controllo Lombardia
parere 12.06.2017 n. 191).
La Corte ha richiamato la giurisprudenza della Sezione delle Autonomie, la
quale ha chiarito che l’articolo 113, Dlgs 50/2016 è calibrato sui contratti
di appalto e non tiene conto di quelle sostanziali differenze che
caratterizzano i contratti di concessione. Analoghe considerazioni valgono
per le norme che hanno disciplinato gli incentivi per la progettazione prima
dell’emanazione del citato D.lgs. n. 50 del 2016, le quali, nelle loro
diverse formulazioni, hanno sempre fatto riferimento, nell’individuare il
parametro per stabilire la somma da destinare alla corresponsione degli
incentivi, agli importi posti a base di gara per opere o lavori, facendo
così esplicito riferimento ai contratti di appalto.
La stessa Sezione Lombardia, nel rimettere alla Sezione delle Autonomie in
sede nomofilattica la questione degli incentivi nel caso di contratti di
concessioni, ha sottolineato la intrinseca connessione degli incentivi,
previsti dal vecchio codice, solamente con gli appalti di opere e lavori,
essendo al tempo esclusi i casi di appalti per beni e servizi, poi
introdotti dalla novella dell’articolo 113 del nuovo codice (deliberazione
14.03.2019 n. 96).
È evidente, quindi, che tale novella ha comportato una sostanziale
estensione del campo di applicazione degli incentivi, senza, tuttavia,
estenderli ai contratti di concessione. Se, dunque, secondo la normativa ora
vigente, l’estensione agli appalti per beni e servizi non giova al
riconoscimento dei contratti di concessioni come ambito incentivabile, tanto
meno appare possibile che questo avvenga con riferimento alla normativa
previgente che, come parametro alla base del calcolo delle somme erogabili
si è riferita all’importo posto a base di gara solamente per opere e lavori.
Il principio enunciato dalla Sezione delle Autonomie, (che esclude
l’applicazione degli incentivi alle concessioni, trova completa e totale
applicazione non solo nell’ipotesi di concessione, ma anche nel caso in cui
la questione attenga ad altre forme contrattuali come, per l’appunto, nel
caso di forme di Partenariato Pubblico Privato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
16.12.2019). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
per funzioni tecniche, tutte le regole nell'interpretazione della Corte dei
Conti.
Gli incentivi per le funzioni tecniche possono essere corrisposti solamente
se l'ente ha approvato il regolamento attuativo e ha dato corso alla
contrattazione sulle modalità di ripartizione; per gli appalti di forniture
e servizi essi possono essere corrisposti solamente se il direttore
dell'esecuzione è un soggetto diverso dal responsabile unico del
procedimento; l'appalto deve essere stato previsto nella programmazione e le
somme da erogare ai dipendenti devono essere inserite, per la quota che si
presume di corrispondere nel corso dell'anno, nel fondo per la
contrattazione decentrata.
Sono queste le principali indicazioni dettate dalla Corte dei conti per
l'applicazione delle previsioni contenute nell'articolo 113 del Dlgs
50/2016.
A queste indicazioni si devono aggiungere le prescrizioni dettate dalla
Sezione autonomie della magistratura contabile che ha stabilito la
possibilità di corrispondere questi incentivi anche per «appalti di
manutenzione ordinaria e straordinaria di particolare complessità» (deliberazione
09.01.2019 n. 2) e che le somme destinate a questa incentivazione
"maturate" tra il 18.04.2016 (data di entrata in vigore del decreto)
e il 31.12.2017 (giorno precedente alla entrata in vigore delle modiche
apportate dalla legge di bilancio 2018) entrano nel tetto del fondo (deliberazione
30.10.2019 n. 26).
Occorre premettere due indicazioni che le amministrazioni, sulla scorta
delle previsioni legislative, e delle interpretazioni della Corte dei conti
devono assumere come presupposti indefettibili.
In primo luogo, il legislatore subordina l'erogazione di questi compensi
alla presenza di un appalto: senza il ricorso a questa procedura non è
possibile l'incentivazione, per cui non possono ad esempio essere erogati
questi compensi in caso di aggiudicazione mediante concessione. Nei Comuni
senza dirigenti, i responsabili che beneficiano dell'erogazione di questo
incentivo non possono disporne la liquidazione: in tal modo si viola infatti
l'obbligo di astensione in presenza di un conflitto di interessi anche
potenziale.
Perle Corte dei conti della Lombardia,
parere 18.07.2019 n. 310, e del Piemonte,
parere 19.03.2019 n. 25, una delle condizioni per la erogazione
di questo incentivo è l'inserimento nello strumento di programmazione degli
acquisti o delle opere pubbliche. Non possono, per il
parere 08.05.2019 n. 39
dei giudici contabili piemontesi, essere remunerati con questo incentivo i
componenti le commissioni di gara.
I giudici contabili umbri,
parere 28.03.2019 n. 56, ritengono che queste risorse vadano
inserite nel fondo per la contrattazione decentrata (aggiungiamo nella parte
variabile sulla base delle previsioni del contratto 21.05.2018, articolo 67,
comma 3, lettera c), dell'anno in cui sono maturati i presupposti che ne
consentono la erogazione, quindi di norma si spalmano tra più esercizi.
Il loro ammontare, ci ricorda il
parere 09.04.2019 n. 72
della Corte dei conti del Veneto,
non deve superare per ogni beneficiario il 50% del trattamento economico
annuo in godimento, che è dato dalla somma di quello fondamentale e di
quello accessorio.
La stessa delibera ricorda che se il direttore dell'esecuzione coincide con
il Rup, non si possono erogare questi compensi negli appalti di forniture
e/o servizi.
Sempre i giudici contabili del Veneto, con la
parere 11.10.2019 n. 301 hanno escluso la possibilità di erogare
questo compenso per gli appalti di importo inferiore a 40.000 euro in quanto
non si è dato corso ad un appalto in senso tecnico, ma ad una manifestazione
di interesse (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
05.12.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Il sistema degli incentivi tecnici di cui al D.Lgs.
n. 163/2006 non si applica alle operazioni di Partenariato Pubblico Privato.
--------------
Con
la nota sopra citata, il Sindaco del Comune di Arcore (MB) pone un quesito in
merito alla corresponsione degli incentivi tecnici relativi all’attività di RUP nel caso di Partenariato Pubblico Privato in vigenza dell’ultrattività
dell’art. 92 e 93 del D.Lgs. 163/2006 per le opere realizzate prima
dell’entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016.
In particolare, il Sindaco chiede se sia possibile applicare con
riferimento alle norme del D.Lgs. 163/2006 le
indicazioni recentemente tratteggiate dal giudice della nomofilachia con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15 nella quale la Sezione autonomie si è espressa
negativamente rispetto alla possibilità di estendere la corresponsione degli
incentivi tecnici previsti, ai sensi dell’art. 113 del D.Lgs. 50/2016, anche
al caso delle concessioni.
...
Con riferimento al quesito posto dal Comune di Arcore, giova preliminarmente
ricostruire le questioni di diritto intertemporale venutesi a porre con
l’emanazione del D.Lgs. 50/2016.
A questo proposito, come già ribadito più
volte da questa sezione (da ultimo la
parere 10.10.2019 n. 385) il legislatore
del 2016 si è fatto carico delle questioni e le ha risolte scegliendo
l’opzione dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime previgente
continui ad operare in relazione alle procedure e ai contratti per i quali i
bandi o avvisi siano stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del D.Lgs.
n. 50 del 2016. Ai sensi dell’art. 216, comma 1, infatti, le disposizioni
introdotte dal D.Lgs. n. 50 del 2016 si applicano solo alle procedure
bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo “Codice”, fatto salve
le disposizioni speciali e testuali di diverso tenore (Sez. Reg. controllo
Lombardia
parere 12.06.2017 n. 191).
Ne deriva che il D.Lgs. 50/2016 trova applicazione relativamente alle
fattispecie inclusive degli incentivi tecnici maturati dopo la sua entrata
in vigore.
In conclusione, e sulla base di questi principi, non è, perciò, inibito alla
norma regolamentare sopravvenuta disciplinare, entro i limiti che si
diranno, tali fattispecie pregresse, proprio perché riferite ad ambiti
temporali ai quali il D.Lgs. 50/2016 non si applica per effetto della
ridetta disposizione di diritto transitorio. Il regolamento dunque potrà
disporre per la corresponsione degli incentivi maturati nel passato, ma solo
in attuazione della normativa previgente, sulla base della sua ultrattività
per la regolazione delle fattispecie pregresse (come disposto dall’art. 216
del D.Lgs. 50/2016) e nei limiti in cui rimette espressamente alla stessa
normativa previgente la disciplina di quelle stesse fattispecie. Il
regolamento sopravvenuto potrà dunque disciplinare le situazioni pregresse,
con la ripartizione degli incentivi tecnici, nel rigoroso rispetto dei
limiti e parametri della normativa riferita alle fattispecie pregresse come
sopra esplicitato. (Sez. Reg. controllo Liguria
parere 03.04.2019 n. 31).
Si deve, invece escludere “che lo stesso possa oggi disciplinare la
distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non uniformi a quelli
in vigore al momento dell’attività incentivabile” (Sez. reg. di controllo
Piemonte
parere 09.12.2018 n. 135). Tanto premesso si tratta di verificare dunque quale
era la normativa vigente all’epoca dei fatti a cui fa riferimento il Comune.
D’altro canto, la normativa relativa agli incentivi tecnici per la
progettazione ha subito diverse evoluzioni e pertanto spetta alla
amministrazione valutare con particolare attenzione quale sia la normativa
applicabile rispetto alla specifica fattispecie.
L’art. 92, c. 5, del D.Lgs. 163/2006 nella sua formulazione originaria prevedeva
infatti che “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a
base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri
previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere
direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita,
per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in
sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato
dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale
effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento
in rapporto all’entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La
ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle
specifiche prestazioni da svolgere. Le quote parti della predetta somma
corrispondenti a prestazioni che non sono svolte dai predetti dipendenti, in
quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma
1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi
criteri.”
Tale articolo venne poi abrogato e sostituito dalla Legge 201/2008 con la
seguente formulazione: "Art. 13-bis. - (Fondi per la progettazione e l'innovazione). - 1. Dopo il
comma 7 dell'articolo 93 del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, sono inseriti i seguenti:
7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni
pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a
base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è
stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la
progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis,
tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del
progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle
risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle
specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale
ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive,
e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il
regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione
delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di
eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207,
depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo
periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei
lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati
all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio
preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi
complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente,
anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per
cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi
dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con
qualifica dirigenziale.”
Premesso tutto ciò, il Sindaco del Comune di Arcore chiede se i contratti di
PPP siano da considerare ambiti utili alla corresponsione degli incentivi di
cui al D.Lgs. n. 163/2006, rappresentando anche che la Sezione delle
Autonomie, con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15, si è espressa per l’applicazione
degli incentivi ai contratti di appalto e non ai contratti di concessione,
ma con riferimento ad una diversa normativa, ossia con riferimento all’art.
113 del D.Lgs. n. 50/2016.
Ebbene, è del tutto evidente che la Sezione delle Autonomie nella suddetta
deliberazione si è pronunciata con riferimento ad una normativa diversa da
quella riguardante il quesito del Comune di Arcore; tuttavia, le
considerazioni effettuate dall’organo della nomofilachia appaiono
estremamente utili per la risoluzione del quesito.
In particolare, la
Sezione delle Autonomie afferma che, per una serie di ragioni esposte nel
corso della trattazione e a cui si rinvia, “l’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 è
calibrato sui contratti di appalto e non tiene conto di quelle sostanziali
differenze che caratterizzano i contratti di concessione”.
Analoghe
considerazioni valgono per le norme che hanno disciplinato gli incentivi per
la progettazione prima dell’emanazione del D.Lgs. 50/2016, norme che, nelle
diverse loro formulazioni, hanno sempre fatto riferimento, nell’individuare
il parametro per stabilire la somma da destinare alla corresponsione degli
incentivi, agli “importi posti a base di gara per opere o lavori”, facendo
così esplicito riferimento ai contratti di appalto.
In questo senso questa
stessa Sezione nella
deliberazione 14.03.2019 n. 96, nel rimettere alla Sezione
autonomie in sede nomofilattica la questione degli incentivi ai sensi
dell’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 nel caso di contratti di concessioni afferma
tra l’altro “Rispetto alla normativa previgente (art. 93, comma 7-bis e
seguenti del D.Lgs. 163/2006) la disposizione in esame (art. 113 D.Lgs.
50/2016) trova espressa applicazione non solo per gli appalti di lavori”,
sottolineando così implicitamente la intrinseca connessione degli incentivi
previsti dal D.Lgs. 163/2006 solamente con gli appalti di opere e lavori,
essendo al tempo esclusi i casi di appalti per beni e servizi poi introdotti
dalla novella dell’art. 113 del D.Lgs. 50/2016.
È evidente, quindi, che tale novella ha comportato una sostanziale
estensione del campo di applicazione degli incentivi, senza, tuttavia,
estenderli ai contratti di concessione. Se dunque secondo la normativa ora
vigente l’estensione agli appalti per beni e servizi non giova al
riconoscimento dei contratti di concessioni come ambito incentivabile, tanto
meno appare possibile che questo avvenga con riferimento alla normativa
previgente che, come parametro alla base del calcolo delle somme erogabili
si è riferita all’importo posto a base di gara solamente “per opere e
lavori”.
Giova tra l’altro, ricordare che questa stessa Sezione già con la
parere 18.07.2019 n. 311 ha avuto modo di affermare che il principio enunciato dalla
Sezione delle Autonomie (che esclude l’applicazione degli incentivi alle
concessioni) “trovi completa e totale applicazione non solo nell’ipotesi di
concessione, ma anche nel caso in cui la questione attenga ad altre forme
contrattuali come, per l’appunto, nel caso di forme di “Partenariato
Pubblico Privato” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 21.11.2019 n. 429).
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
Appalti:
incentivi tecnici, le non condivisibili interpretazioni della Corte dei
conti su concessioni e partenariati pubblico privati
(16.12.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli incentivi tecnici previsti dall’art. 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso
articolo, maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata
in vigore dello stesso, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del
citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015,
successivamente modificato dall’art. 23 del d.lgs. n. 75/2017, pur se la
provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri
economici dei singoli appalti, servizi e forniture
--------------
Con nota firma del sindaco pro tempore del comune di Civitanova
Marche (MC), pervenuta via PEC in data 09.04.2019 per il tramite del
Consiglio delle autonomie locali (CAL), il comune di Civitanova Marche ha
avanzato a questa Corte una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma
8, della L. n. 131/2003, nei seguenti termini “Voglia l’adita
Corte…esprimere il proprio parere vincolante in merito alla possibilità e/o
legittimità di erogazione degli incentivi per funzioni tecniche, nel caso in
cui la relativa spesa sia stata in precedenza imputata ai capitoli afferenti
alla realizzazione dei singoli lavori, servizi e/o forniture affidate, nel
periodo temporale che va dall’entrata in vigore dell’art. 113 del Codice
degli appalti (16.04.2016), fino al giorno anteriore all’entrata in vigore
del comma 5-bis dello stesso art. 113 (introdotto a far data dal
01.01.2018); se, conseguentemente, l’aver predeterminato la provvista dei
predetti incentivi per funzioni tecniche nei quadri economici dei singoli
appalti, collochino tali risorse economiche al di fuori dei capitoli di
spesa del bilancio comunale destinati alle retribuzioni accessorie del
personale, anche prima dell’espressa previsione di cui al comma 5-bis
dell’art. 113”.
Al riguardo ha esposto quanto segue.
La richiesta di parere è stata avanzata al fine di individuare la corretta
applicazione ed interpretazione dell’art. 113, comma 2, del d.lgs. n.
50/2016, in materia di remunerazione delle funzioni tecniche svolte dal
personale dipendente all’interno dell’ente pubblico, in relazione ai
contratti di lavori, forniture e servizi affidati in appalto ed in
particolare circa la corretta decorrenza ed applicazione del comma 5-bis
(introdotto dall’art. 1, comma 526, della L. n. 205 del 2017) che ha
modificato ed integrato lo stesso art. 113, nella parte in cui stabilisce
che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
L’ente locale ha precisato che, pur essendo pacifico che siffatti emolumenti
incentivanti siano esclusi dal fondo per il trattamento accessorio solo a
decorrere dal 01.01.2018 (ovverosia dopo l’integrazione dell’art. 113 con il
comma 5-bis approvato con legge 205/2017 e non anche per il periodo
precedente) sorgerebbe il dubbio circa l’applicazione retroattiva della
norma nel periodo precedente al 2018 (dall’entrata in vigore dell’art. 113
della L. n. 50/2016 e cioè a far data dal 19.04.2016) qualora
l’Amministrazione abbia già inserito gli incentivi per funzioni tecniche
riconosciuti al personale al medesimo capitolo di spesa previsto per i
singoli lavori, servizi e forniture appaltati.
Nel ricostruire la normativa in applicazione, il comune richiedente il
parere ha rammentato che l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2017 (Codice dei
contratti pubblici) rubricato “incentivi per funzioni tecniche”
consente, previa adozione di un regolamento interno e della stipula di un
accordo di contrattazione decentrato, di erogare emolumenti economici
accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per
attività, tecniche ed amministrative, nelle procedure di programmazione,
aggiudicazione e collaudo degli appalti di lavori, nonché a seguito delle
integrazioni di cui all’art. 76 del D.Lgs. n. 56 del 2017 anche degli
appalti di fornitura di beni e servizi.
Pur tuttavia l’Amministrazione comunale si è posta il problema della
compatibilità di tale disposizione con all’art. 1, comma 236, della L. n.
208/2015, sostituito dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017, il quale
ha disposto che, dal 01.07.2017, l’ammontare complessivo delle risorse
destinate annualmente al trattamento accessorio del personale di ciascuna
delle amministrazioni pubbliche non potesse superare il corrispondente
importo determinato per l’anno 2016.
L’istante non disconosce che la Sezione delle Autonomie di questa Corte, con
deliberazione 26.04.2018 n. 6, ha
precisato che, con l’introduzione del comma 5-bis citato, può evincersi che
gli incentivi in questione non fanno carico ai capitoli di spesa del
trattamento accessorio del personale, ma devono essere ricompresi nel costo
complessivo dell’opera e, quindi, fanno capo al capitolo di spesa
dell’appalto; per cui la separazione di tali emolumenti dai salari accessori
del personale avverrà solo dal 01.01.2018. Tuttavia il chiarimento richiesto
a questa Sezione concerne, come cennato, gli appalti eseguiti nel periodo
2016-2017, nel vigore dell’originaria formulazione dell’art. 113 del D.Lgs.
n. 50/2016, tenuto conto che l’imputazione degli incentivi tecnici in
questione era già considerata nei singoli quadri economici degli appalti
affidati.
...
Passando a trattare il merito della questione sottoposta al vaglio della
Sezione, appare opportuno effettuare un sintetico excursus della normativa
in applicazione.
I c.d. incentivi tecnici furono introdotti per la prima volta dall’art. 18
della L. n. 109/1994, allo scopo di compensare l’attività del personale
delle pubbliche amministrazioni impegnato nelle attività di progettazione
interna agli enti pubblici in funzione anche del risparmio conseguente ai
minori costi conseguenti al mancato ricorso a professionalità esterne.
La disciplina degli emolumenti in questione è poi stata regolata dal d.lgs.
163/2006, art. 923, commi 5 e 6, per confluire successivamente nell’art. 93,
commi 7 bis e seguenti dello stesso decreto legislativo, per essere quindi
sostituita dall’attuale art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Sotto la vigenza di tale disciplina, la Sezione delle Autonomie (deliberazione
06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24)
ebbe ad affermare il principio che gli incentivi previsti dall’art. 113,
comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 fossero da includere nel tetto dei
trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015 (e
successive modificazioni ed integrazioni introdotte dall’art. 23 del d.lgs.
n. 75 del 2017). Questi, infatti, a differenza di quelli previsti dall’art.
113, comma 1, (dovuti per la progettazione) assumerebbero carattere di
continuità e sarebbero dunque assimilabili al trattamento economico
accessorio del personale in servizio.
Successivamente l’art. 113, comma 2, citato ha subìto un primo intervento
legislativo ad opera del d.lgs. n. 56/2017 ed infine –per quel che interessa
in questa sede– ad opera della L. n. 205/2017, il cui art. 1, comma 526, ha
introdotto il comma 5-bis nell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, allo
scopo di risolvere il problema interpretativo sorto intorno alla natura
dell’incentivo stesso recita “gli incentivi di cui al presente articolo
fanno capo al medesimo capitolo di spesa per i singoli lavori, servizi e
forniture”.
Sulla questione se detti incentivi fossero da ricomprendere nel vincolo dei
trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015,
sostituito dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017 –come correttamente
non ha mancato di rammentare l’Amministrazione richiedente il parere- si è
espressa la Sezione delle Autonomie con
deliberazione 26.04.2018 n. 6, la quale ha espresso la massima che “gli incentivi
disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, nel testo modificato
dall’art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017, erogati su risorse finanziarie
individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli
oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al
vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti
degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
In altri termini è stato così superato il dubbio sulla natura di tali
incentivi, che non sono più sottoposti al vincolo del trattamento accessorio
che, invece, ha la sua fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto.
Tanto dalla data dell’entrata in vigore della legge di bilancio 2018
(01.01.2018).
Con riferimento allo specifico quesito posto dal comune di Civitanova
Marche, in relazione agli incentivi maturati nel periodo intertemporale in
considerazione (anni 2016-2017) -e cioè se essi rientrino nei limiti di
spesa del trattamento accessorio del personale- si riscontrano pronunce di
segno opposto da parte delle Sezioni regionali di controllo.
Pertanto, in tale contrasto interpretativo, la questione, con
deliberazione 16.05.2019 n. 30,
è stata sottoposta al Presidente della Corte dei conti la relativa questione
di massima, data l’esigenza di un’interpretazione uniforme della normativa
citata.
La Sezione delle Autonomie ha emanato il proprio responso con
deliberazione 30.10.2019 n. 26, con la quale ha espresso il proprio vincolante parere sulla
questione sottopostagli.
“Gli incentivi tecnici previsti dall’art. 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso
articolo, maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata
in vigore dello stesso, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del
citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015,
successivamente modificato dall’art. 23 del d.lgs. n. 75/2017, pur se la
provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri
economici dei singoli appalti, servizi e forniture”.
Pertanto il comune di Civitanova Marche si atterrà al predetto principio di
diritto che costituisce risposta al quesito posto con la richiesta di parere
in epigrafe
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 15.11.2019 n. 129). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Gli
incentivi tecnici maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di
entrata in vigore del D.lgs. n. 50/2016, fino al giorno anteriore
all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere
nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della
legge n. 208/2015, successivamente modificato dall’articolo 23 del d.lgs. n.
75/2017, anche se la provvista dei predetti incentivi sia già stata
predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi e
forniture.
---------------
Il Sindaco della Città Metropolitana di Milano con la nota sopra indicata,
dopo aver richiamato le disposizioni che hanno interessato gli incentivi
tecnici previsti dal codice appalti e l’interpretazione che è stata adottata
dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione
26.04.2018 n. 6)
ha formulato il seguente quesito “si chiede a Codesta Sezione se
l'intervenuto accantonamento degli incentivi di cui al citato art. 113 D.Lgs.
50/2016, anche se anteriori al 01/01/2018, sia da considerarsi o meno
escluso dal computo della spesa per il personale e dai limiti del fondo
produttività.”.
...
Tanto premesso, questa Sezione nell’adunanza del 19.06.2019, ha sospeso
l’esame della richiesta di parere presentata dal Sindaco della Città
Metropolitana, in quanto la Sezione della Corte dei Conti per le Marche, con
deliberazione 16.05.2019 n. 30, per il medesimo
quesito, aveva sottoposto all’esame del Presidente della Corte dei conti, ai
sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78,
convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2009, n. 102, e dell’art. 6,
comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni
dalla legge 07.12.2012, n. 213, una questione di massima, al fine di
stabilire se gli incentivi tecnici previsti dall’art. 113, comma 2, del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici),
maturati prima dell’entrata in vigore (01.01.2018) delle modifiche apportate
dall’art. 1, comma 536, della L. 27/12/2017 n. 205, vadano inclusi nel tetto
dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, della legge
28.12.2015, n. 208, nel caso in cui la provvista dei predetti incentivi sia
già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi o
forniture.
La Sezione delle autonomie si è pronunciata sulla suddetta questione con
deliberazione 30.10.2019 n. 26,
ed ha ritenuto che gli incentivi in argomento sono da includere nel tetto
dei trattamenti accessori, anche se la relativa provvista sia già stata
determinata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi e forniture.
In particolare, la Sezione, in motivazione, nel procedere alla disamina
delle precedenti pronunce riguardanti la tematica degli incentivi, rese
dalla stessa Sezione delle autonomie (delibera
13.11.2009 n. 16;
deliberazione 06.04.2017 n. 7;
deliberazione 10.10.2017 n. 24) e dalle Sezioni Riunite (deliberazione
04.10.2011 n. 51), ha evidenziato che “In sostanza, nelle pronunce
della Sezione delle autonomie non è stata rinvenuta una specificità nei
compensi previsti per le funzioni tecniche tale da far ritenere non
applicabile il limite stabilito per i trattamenti accessori. Ciò anche in
funzione della rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art.
113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli
incentivi alla progettazione, nonché per il fatto che tali emolumenti
essendo erogabili anche per gli appalti di servizi e forniture, si
configuravano, ai sensi delle disposizioni normative all’epoca vigenti, come
spesa di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale)”.
Quanto alle modifiche apportate dalla legge n. 205/2017 all’art. 113 del
D.Lgs. 18.04.2016 n. 50, con l’introduzione del comma 5-bis dello stesso
articolo “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al
medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture”, la Sezione delle autonomie ha richiamato la propria
deliberazione 26.04.2018 n. 6, con la quale, ha
ritenuto che “L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse
ad ogni singola opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un
modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori
dei capitoli destinati a spesa di personale….Pertanto, il legislatore, con
norma innovativa, contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha
stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e
predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte
all’erogazione di compensi accessori al personale. Gli incentivi per le
funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio degli enti pubblici dall’art.
23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017”.
A questo punto la Sezione, confermando la linea già adottata nella
deliberazione 26.04.2018 n. 6, ossia la portata
innovativa del suddetto comma 5-bis dell’art. 113, escludendo le
caratteristiche di norma di interpretazione autentica, ed escludendo, di
conseguenza, ogni possibile efficacia retroattiva della norma, ha enunciato
il seguente principio di diritto
«Gli incentivi tecnici previsti dall’articolo 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso
articolo, maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata
in vigore dello stesso, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del
citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015,
successivamente modificato dall’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017, pur se la
provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri
economici dei singoli appalti, servizi e forniture».
La Sezione ha sottolineato che un’interpretazione tendente a superare la
portata innovativa del comma 5-bis novellante l’art. 113 rischierebbe in
definitiva “di contrastare, oltre che con specifiche disposizioni
cristallizzate nel codice dei contratti disciplinanti le relazioni temporali
tra azione amministrativa e leggi sopravvenute, altresì con i principi
generali in materia di successione di leggi nel tempo e dei loro effetti”.
Questa Sezione regionale, in applicazione del sopra richiamato principio di
diritto, espresso dalla Sezione delle autonomie, quale organo di
nomofilachia, e in risposta al quesito afferma che gli incentivi tecnici
maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata in vigore
del D.lgs. n. 50/2016, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del
citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015,
successivamente modificato dall’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017, anche se
la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri
economici dei singoli appalti, servizi e forniture
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 08.11.2019 n. 424). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Con il recente
decreto 01.08.2019 è stato recentemente aggiornato, tra l’altro,
il Principio contabile applicato n. 4/2 e chiarite le corrette modalità di
iscrizione in bilancio degli incentivi di che trattasi.
Il Principio, nel ribadire come gli impegni di spesa riguardanti gli
incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 del d.lgs. 50 del
2016, compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, debbano essere
assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori,
servizi e forniture cui si riferiscono -nel titolo II della spesa ove si
tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture-
chiarisce che l’impegno deve essere registrato con imputazione
all’esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al
fondo delle risorse stanziate in bilancio e tempestivamente emesso il
relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al Titolo terzo
delle entrate, tipologia 500 “Rimborsi e altre entrate correnti”,
categoria 3059900 “Altre entrate correnti n.a.c.”, voce del piano dei
conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il personale (art. 113
del d.lgs. 50/2016).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata
anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per
la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti
per il trattamento accessorio e premiale del personale.
La copertura di tale spesa è costituita dall’accertamento di entrata di cui
al periodo precedente, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio
impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
---------------
Il Sindaco del Comune di Camponogara (VE) chiede se, alla luce
dell’art. 113 del Decreto Legislativo n. 50 del 2016 disciplinante le
modalità di iscrizione in bilancio e corresponsione degli incentivi per
funzioni tecniche, “sia legittima, sulla base della citata
normativa e quindi non elusiva del principio di competenza potenziato,
l'assunzione, nell'anno corrente, dell'impegno di spesa per gli incentivi
per funzioni tecniche di cui all'art. 113 del D.lgs. 50/2016 (quali Rup e di
collaboratore tecnico), il cui regolamento è stato approvato nel corso del
corrente anno, relativi alla realizzazione di un'opera pubblica:
- la cui spesa complessiva è stata stanziata nell'anno 2018, il
cui quadro economico prevede la spesa in argomento,
- la procedura di gara si è conclusa nel 2018 con la relativa
aggiudicazione,
- l'impegno complessivo è avvenuto nel rispetto del principio di
competenza potenziata, ossia tenendo conto della scadenza delle singoli
obbligazioni connesse alla realizzazione dell'investimento”.
...
La questione degli incentivi per funzioni tecniche è stata ampiamente
esaminata da questa Corte con numerose pronunce che si sono succedute nel
tempo e non può che essere risolta sulla base del quadro normativo vigente.
In particolare, l’articolo 1, comma 526, della legge 205/2017 prevede che i
suddetti incentivi facciano capo “al medesimo capitolo di spesa previsto
per i singoli lavori, servizi e forniture”, secondo il principio
dell’accessorietà rispetto alla spesa principale, della quale seguono
l’iscrizione in bilancio.
La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Piemonte, con
parere 19.03.2019 n. 25, ha chiarito come, nel rispetto del
principio della competenza finanziaria potenziata sia rilevante, ai fini
dell’assunzione dell’impegno, il momento di effettivo svolgimento
dell’attività, ed è necessario che sia avvenuto l’accantonamento delle
risorse, non potendosi impegnare nell’esercizio successivo risorse
riferibili ad obbligazioni scadute in quanto di competenza dell’esercizio
precedente.
Con specifico riferimento all’emanazione del regolamento, che costituisce
presupposto per l’individuazione e la liquidazione di quanto dovuto,
l’impegno deve essere effettuato, sempre in osservanza del principio della
competenza potenziata, nell’esercizio in cui se ne prevede l’esigibilità.
La Sezione regionale di controllo per l’Umbria, con
parere 28.03.2019 n. 56 ha chiarito come l’obbligazione dell’ente
nei confronti del personale incentivato si costituisca nel momento in cui,
con il relativo regolamento dell’amministrazione, vengono individuati i
soggetti incaricati di svolgere le attività che, in base all’articolo 113
del Codice dei contratti pubblici, danno luogo alle incentivazioni ivi
previste, in relazione ai singoli appalti di lavori, servizi e forniture.
In presenza di accantonamenti già effettuati nelle more di approvazione del
regolamento, l’impegno di spesa dovrà essere assunto, a partire dalla data
di entrata in vigore del regolamento, anche per attività svolte in
precedenza, con l’unico limite di quelle relative ad appalti che si siano
già conclusi prima dell’adozione del regolamento stesso (Cdc Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57).
Con il recente
decreto 01.08.2019 è stato recentemente aggiornato, tra l’altro,
il Principio contabile applicato n. 4/2, e chiarite le corrette modalità di
iscrizione in bilancio degli incentivi di che trattasi.
Il Principio, nel ribadire come gli impegni di spesa riguardanti gli
incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 del d.lgs. 50 del
2016, compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, debbano essere
assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori,
servizi e forniture cui si riferiscono -nel titolo II della spesa ove si
tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture- chiarisce
che l’impegno deve essere registrato con imputazione
all’esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al
fondo delle risorse stanziate in bilancio e tempestivamente emesso il
relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al Titolo terzo
delle entrate, tipologia 500 “Rimborsi e altre entrate correnti”,
categoria 3059900 “Altre entrate correnti n.a.c.”, voce del piano dei
conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il personale (art. 113
del d.lgs. 50/2016).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata
anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per
la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti
per il trattamento accessorio e premiale del personale.
La copertura di tale spesa è costituita dall’accertamento di entrata di cui
al periodo precedente, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio
impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa
(Corte dei Conti, Sez. controllo veneto,
parere
07.11.2019 n. 319). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: In
tema di incentivi tecnici di cui all’art. 113 del D.Lgs. 50/2016, ai sensi
dell’art. 167, comma 4, lett. c), del medesimo Codice, non è possibile
rinvenire, nel comma 5-bis dell’art. 113, il fondamento del legittimo
riconoscimento dell’incentivo tecnico ai contratti di concessione, come
forma di sostegno finanziario da parte della Stazione appaltante concedente.
In primis per la mancanza del requisito della “identità” del capitolo, non
essendovi, nel caso di concessione, normalmente, costi di gestione a carico
della stazione appaltante, sicché non sarebbe i rinvenibile la situazione
evidenziata nel disposto normativo del richiamato comma.
In secondo luogo, in quanto l’art. 167 ha lo scopo di assicurare che nella
determinazione dell’importo da mettere a base di gara la S.A. tenga conto,
anche, delle forme di “vantaggio economico” comunque intese che si intende
riconoscere all’aggiudicatario, al fine di assicurare effettività al
principio della libera concorrenza ed ai corollari della non discriminazione
e trasparenza nelle procedure di gara.
Infine, si ritiene che la presenza di forme di “ragionevole e proporzionata”
contribuzione economica in favore del concessionario non avvicinano il
contratto di concessione a quello d’appalto fino al punto di traslare il
rischio operativo dal privato alla P.A.. La diversa natura fra i due
Istituti rende inapplicabili alla concessione le norme di cui all’art. 113
in tema di incentivi tecnici.
-----------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Trecate (No), dopo
aver richiamato la disciplina relativa agli incentivi tecnici e l’evoluzione
giurisprudenziale di questa Corte culminata nella pronuncia nomofilattica
della Sezione delle Autonomie (deliberazione
25.06.2019 n. 15), ha chiesto a questa Sezione di
esprimere “un’interpretazione in merito alla possibilità di prevedere la
contabilizzazione degli incentivi in tutti i casi in cui, in correlazione ad
un contratto di concessione, sia stato istituito un capitolo di spesa, quale
costo iscritto a bilancio e correlato alla gestione del contratto medesimo
ai sensi dell’art. 167, comma 4, lett. c), del D.Lgs. 50 del 2016 e s.m.i..
In caso di risposta affermativa, al fine di introdurre a regime tale
previsione nel vigente regolamento comunale, di chiarire se a tali
fattispecie contrattuali debbano essere applicati i criteri ed i principi
enucleati dall’ANAC nelle Linee guida n. 3 paragrafo 10.2, approvate con
Deliberazione n. 1096 del 26.10.2016 e richiamati dalla stessa Deliberazione
della Sezione delle Autonomie n. 15 del 2019 dinanzi citata”.
...
La richiesta in esame attiene sostanzialmente all’esatta perimetrazione
dell’ambito di applicazione dell’art. 113 del D.Lgs. 50 del 2016 e ss.mm.ii..
In particolare il Comune istante chiede se può ammettersi il riconoscimento
del cd. incentivo tecnico, quale trattamento salariale accessorio in favore
di alcune categorie di dipendenti che svolgono le funzioni tecniche
descritte dalla medesima norma, anche all’ipotesi particolare delle
concessioni nel caso in cui l’ordinario schema negoziale che prevede la
remunerazione del concessionario esclusivamente a carico dell’utenza sia
integrato dalla previsione di “pagamenti o qualsiasi vantaggio
finanziario conferito al concessionario, in qualsivoglia forma,
dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore o da altre
amministrazioni pubbliche, incluse le compensazioni per l'assolvimento di un
obbligo di servizio pubblico e le sovvenzioni pubbliche di investimento”
(cfr. art. 167, comma 4, lettera c).
La soluzione del quesito proposto non può che muovere dalla recentissima
pronuncia nomofilattica della Sezione delle Autonomie. Con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15, la
Sezione de qua ha chiarito che “(..) per ritenere applicabile anche ai
contratti di concessione gli incentivi per lo svolgimento di funzioni
tecniche si dovrebbe operare uno sforzo ermeneutico estensivo ed analogico
tale da riscrivere, di fatto, il contenuto dell’art. 113 del d.lgs. n.
50/2016, che, come si è visto, è calibrato sui contratti di appalto (ai
quali espressamente si riferisce) e non tiene conto di quelle sostanziali
differenze che caratterizzano i contratti di concessione. Operazione,
questa, che appare travalicare la competenza di chi è chiamato ad
interpretare ed applicare le norme”.
Tale indirizzo ermeneutico è basato su considerazioni di ordine sistematico
e testuale che, ad avviso di questa Sezione regionale, non possono essere
superate dalle circostanze rappresentate dal Comune istante.
In particolare, si osserva, dal punto di vista sistematico, che il vigente
codice dei contratti pubblici, in armonia con il diritto comunitario, ha
compiutamente disciplinato i contratti di concessione chiarendone le
differenze rispetto a quelli di appalto. [1: DIRETTIVA 2014/23/UE, combinato
disposto dei considerando 18 e 68 della direttiva del parlamento Europeo e
del Consiglio: “La caratteristica principale di una concessione, ossia il
diritto di gestire un lavoro o un servizio, implica sempre il trasferimento
al concessionario di un rischio operativo di natura economica che comporta
la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati e i
costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi aggiudicati in
condizioni operative normali, e dove il concessionario assume responsabilità
e rischi tradizionalmente assunti dalle amministrazioni aggiudicatrici e
dagli enti aggiudicatori e rientranti di norma nell’ambito di competenza di
queste ultime”.]
Una prima differenza la si rinviene in punto di “oggetto” del
contratto. Nelle definizioni di cui all’art. 3 del D.lgs. 50/2016, infatti,
gli appalti pubblici hanno ad oggetto lavori, servizi o forniture, mentre le
concessioni possono riguardare solo lavori o servizi. Un’ulteriore ed
essenziale differenza risiede nell’allocazione del rischio di gestione.
Mentre ai sensi dell’art. 3, lett. ii), del Codice è previsto che il
corrispettivo sia a carico della pubblica amministrazione beneficiaria della
prestazione dedotta nel contratto d’appalto, nel caso della concessione,
definita all’art. 3, lett. uu) e vv), al contrario, il carattere
dell’onerosità è soddisfatto dalla previsione del diritto del concessionario
di gestire l’opera o il servizio oggetto del contratto. Di guisa che l’alea
del contratto, rappresentata dal cd. rischio operativo, ossia il rischio
legato alla gestione dei lavori e dei servizi sul lato della domanda o
dell’offerta, incomba sul concessionario (cfr. art. 3, lett. zz) D.lgs.
50/2016).
L’art. 165 del Codice è chiaro nell’affermare che nel caso della concessione
“la maggior parte dei ricavi di gestione del concessionario proviene
dalla vendita dei servizi resi al mercato. Tali contratti comportano il
trasferimento al concessionario del rischio operativo definito dall'articolo
3, comma 1, lettera zz), riferito alla possibilità che, in condizioni
operative normali, le variazioni relative ai costi e ai ricavi oggetto della
concessione incidano sull'equilibrio del piano economico finanziario”.
L’incertezza per il concessionario di recuperare dall’utenza le spese e gli
investimenti effettuati in esecuzione del contratto rappresenta, quindi, la
causa giustificativa tipizzante della concessione pubblica da cui,
conseguentemente, scaturiscono ulteriori elementi di differenziazione
dall’appalto quali la natura ontologicamente plurisoggettiva e la struttura
naturalmente trilaterale.
Secondo il consolidato orientamento della Giurisprudenza comunitaria ed
amministrativa (cfr. Corte Giust., III, 10.03.2011, n. C- 274/2009; Corte
Giust., II, 10.11.2011, n. C-348/10; Cons. St., V, 18.12.2015, n. 5745;
Cons. St., VI, 04.09.2012, n. 4682; Cons. St., Ad. Pl., 27.07.2016, n. 22)
la parte di rischio, derivante dal relativo sfruttamento economico
dell’opera o del servizio, trasferita in capo al concessionario deve
implicare una reale e concreta esposizione alle fluttuazioni del mercato
tale per cui ogni potenziale perdita subita non sia puramente teorica e
quindi trascurabile in coerenza con la previsione dell’ultimo capoverso del
comma 1 dell’art. 165 che testualmente dispone: “le variazioni devono
essere, in ogni caso, in grado di incidere significativamente sul valore
attuale netto dell'insieme degli investimenti, dei costi e dei ricavi del
concessionario”.
La componente di “rischio cd. operativo” deve pertanto ricorrere
sempre in concreto, ancorché, eventualmente, ridotta in ragione del
riconoscimento in favore del concessionario di una forma di remunerazione,
compensazione per l'assolvimento di un obbligo di servizio pubblico,
sovvenzione pubblica di investimento e qualsiasi altra forma di vantaggio
finanziario conferito al concessionario dall'amministrazione aggiudicatrice
o da altre amministrazioni pubbliche (cfr. art. 167, comma 2, lett. c).
Tali forme di “sostegno”, se proporzionali alla finalità per cui sono
riconosciute, non trasferiscono il rischio operativo dal concessionario alla
p.a. concedente sicché non valgono a trasformare il contratto di concessione
in appalto. Va da sé che la dosimetria di tali contribuzioni economiche
rappresenta, indiscutibilmente, una valutazione delicata a cui è chiamata la
stazione appaltante al fine di evitare indebiti arricchimenti dell’affidatario.
Il Legislatore pare, a tal riguardo, individuare parametri normativi a cui
ancorare la valutazione della p.a. quando all’art. 165 (rubricato: “rischio
ed equilibrio economico-finanziario nelle concessioni”) comma 2, nel
premettere che “l'equilibrio economico finanziario definito all'articolo
3, comma 1, lettera fff), rappresenta il presupposto per la corretta
allocazione dei rischi di cui al precedente comma 1”, afferma che “ai
soli fini del raggiungimento del predetto equilibrio, in sede di gara
l'amministrazione aggiudicatrice può stabilire anche un prezzo consistente
in un contributo pubblico ovvero nella cessione di beni immobili. Il
contributo, se funzionale al mantenimento dell'equilibrio
economico-finanziario, può essere riconosciuto mediante diritti di godimento
su beni immobili nella disponibilità dell'amministrazione aggiudicatrice la
cui utilizzazione sia strumentale e tecnicamente connessa all'opera affidata
in concessione. In ogni caso, l'eventuale riconoscimento del prezzo, sommato
al valore di eventuali garanzie pubbliche o di ulteriori meccanismi di
finanziamento a carico della pubblica amministrazione, non può essere
superiore al quarantanove per cento del costo dell'investimento complessivo,
comprensivo di eventuali oneri finanziari”.
In considerazione delle peculiari caratteristiche e differenze delle due
tipologie di contratto il Legislatore ha inteso distinguere sotto molteplici
aspetti le discipline a cominciare dalla collocazione in parti diverse del
Codice. Da un punto di vista topografico, la seconda parte del Codice è
dedicata agli appalti e contiene, tra l’altro la norma principale di
riferimento degli incentivi per funzioni tecniche, l’art. 113, nella parte
terza, invece, è inserita la disciplina delle concessioni.
“Tale circostanza”, afferma la Sezione delle Autonomie nella
richiamata deliberazione, “non è priva di rilievo, in quanto quando il
Legislatore ha voluto ha specificatamente richiamato insieme le due
tipologie contrattuali (v., ad es., art. 5, 6, 7, 17, 23, 30, 31), oppure ha
genericamente fatto riferimento all’espressione -contratti pubblici- come
categoria omnicomprensiva (v., ad es. art. 4, principi relativi
all’affidamento di contratti pubblici esclusi)”.
Particolarmente significativa a tal proposito è la lettera dell’art. 164 che
apre la parte terza del codice, dedicata alle concessioni, che al comma 2,
individua le norme dettate in materia di appalto applicabili anche alle
concessioni, ferma la previa verifica di compatibilità: “2. Alle
procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o
di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute
nella parte I e nella parte II, del presente codice, relativamente ai
principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di
affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli
avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai
criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e
agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai
termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e
delle offerte, alle modalità di esecuzione”.
Tale disposizione, ad avviso della Sezione delle Autonomie, non può indurre
a ritenere che anche l’art. 113 sia applicabile ai contratti di concessione
posto il richiamo a specifici e ben determinati aspetti della disciplina
dettata in tema di appalti. Né a sostegno della possibilità di estendere
tout court l’applicabilità degli incentivi tecnici alle concessioni può
richiamarsi l’art. 31 che disciplina congiuntamente, sia per gli appalti che
per le concessioni, la figura del Responsabile Unico del Procedimento.
Tale richiamo, ad avviso della Sezione delle Autonomie non è di per sé
dirimente ed allo stesso modo non appare decisivo il riferimento contenuto
nell’art. 102, il quale, al secondo periodo del comma 6, prevede che il
compenso per l'attività di collaudo debba essere contenuto, per i dipendenti
della stazione appaltante, nell'ambito dell'incentivo di cui all'articolo
113, (...)”. “L’art. 102 in discorso, infatti, pur riferendosi ai
contratti pubblici in generale, pone attenzione a profili che caratterizzano
i contratti per lavori e per forniture di beni e servizi e il rinvio
all’art. 113 va letto in questa prospettiva”.
D’altro canto, il citato art. 113 è calibrato inequivocabilmente sulla
tipologia dei contratti di appalto. Ed invero, come ricostruito dalla
Sezione delle Autonomie:
- “nel comma 1 si stabilisce che gli oneri per gli incentivi in
questione “fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di
lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei
bilanci delle stazioni appaltanti”;
- nel comma 2 si istituisce un fondo “a valere sugli stanziamenti
di cui al comma 1”, e le risorse finanziarie che lo alimentano (nella misura
non superiore al 2%) sono “modulate sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara”;
- nei commi 3 e 5 si fa riferimento all’acquisizione di lavori
servizi e forniture;
- il comma 5-bis, infine, sancisce che “Gli incentivi di cui al
presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i
singoli lavori, servizi e forniture (aggiunta dall'art. 1, comma 526, l.
27.12.2017, n. 205, a decorrere dal 01.01.2018)”.
Come precisato dalla Sezione delle Autonomie con riferimento al sopra
riportato comma 5-bis “i compensi incentivanti per chiara affermazione
del legislatore costituiscono un ‘di cui’ delle spese per contratti appalto
e non vi è alcun elemento ermeneutico che possa far ritenere estensibile le
disposizioni dell’articolo in esame anche alle concessioni, non essendo
normativamente previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai
capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture”.
E’ proprio su tale ultima considerazione che si è appuntata la richiesta di
parere del Comune istante volta a chiarire se, nel caso in cui sia prevista
la contabilizzazione su di un apposito capitolo di spesa delle forme di
compensazione o remunerazione a sostegno del concessionario a carico della
P.A. concedente, siano riconoscibili gli incentivi ex art. 113 venendo in
rilievo l’esistenza di “un capitolo di spesa” su cui è imputato il “costo
iscritto a bilancio e correlato alla gestione del contratto medesimo”.
Questa Sezione regionale, muovendo dalle considerazioni sopra espresse e
dalla
deliberazione 25.06.2019 n. 15 della Sezione delle Autonomie (cfr. anche
Sezione controllo per la Lombardia
parere 18.07.2019 n. 309), ritiene che anche allorquando sia prevista, ai sensi
dell’art. 167, comma 4, lett. c), una forma di sostegno finanziario da parte
della S.A. concedente, non sia possibile rinvenire nel richiamato comma
5-bis il fondamento del legittimo riconoscimento dell’incentivo tecnico ai
contratti di concessione.
In primis per la mancanza del requisito della “identità” del
capitolo, non essendovi, per il caso di concessione, normalmente, costi di
gestione a carico della stazione appaltante sicché non sarebbe integrato il
disposto normativo, di cui al citato comma 5-bis dell’art. 113, a mente del
quale “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In secondo luogo occorre tener conto della ratio dell’art. 167 (rubricato
come: “metodi di calcolo del valore stimato delle concessioni”) più
volte richiamato e nello specifico del comma 4, lett. c). Quest’ultima
disposizione ha il preciso e precipuo scopo di assicurare che nella
determinazione dell’importo da mettere a base di gara la stazione appaltante
tenga conto, anche, delle forme di “vantaggio economico” comunque
intese che si intende riconoscere all’aggiudicatario, al fine di assicurare
effettività al principio della libera concorrenza ed ai corollari della non
discriminazione e trasparenza nelle procedure di gara.
Infine, come già osservato, la presenza di forme di “ragionevole e
proporzionata” contribuzione economica (si pensi ad esempio a
compensazioni attribuite a fronte degli obblighi di pubblico servizio)
riconosciute al concessionario non avvicinano il contratto di concessione a
quello d’appalto al punto tale da far traslare il rischio operativo dal
privato alla Pubblica amministrazione. D’altronde se così fosse, perdendo la
concessione la sua tipica essenza, finirebbe con l’immedesimarsi
nell’appalto, legittimando un’applicazione diretta e non già
un’interpretazione estensiva di tutte le disposizioni di cui alla II parte
del codice, ivi compreso l’art. 113 in tema di incentivi tecnici.
In considerazione di quanto su esposto questa Sezione regionale ritiene che
il principio di diritto enunciato dalla Sezione delle Autonomie trovi piena
applicazione anche nell’ipotesi di un contratto di concessione in cui vi sia
una sorta di “mitigazione” del rischio cd. operativo ma tale da non
determinare un’alterazione del sinallagma e una sostanziale “conversione”
del contratto di concessione in appalto.
La risposta negativa alla suddetta questione pregiudiziale, legata alla
stessa possibilità di riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche in
caso di contratti di concessione in cui sia prevista una forma di
finanziamento a carico della stazione appaltante ai sensi dell’art. 167,
comma 4, lett. c), comporta l’assorbimento del secondo e subordinato quesito
posto dal Comune istante
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere
17.10.2019 n. 110). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Niente
incentivi tecnici se l'affidamento dell'appalto è senza gara.
Non sono dovuti gli incentivi per le funzioni tecniche in caso di
affidamento diretto di lavori, servizi e forniture né qualora il Rup svolga,
com'è usuale, le funzioni di direttore dell'esecuzione.
Lo ha affermato la Corte dei conti del Veneto con la
parere 11.10.2019 n. 301.
I quesiti
Due i quesiti posti in merito alla corretta applicazione della norma sugli
incentivi per funzioni tecniche per appalti relativi a servizi e forniture
di cui all'articolo 113 del codice dei contratti, che impegna ogni
amministrazione aggiudicatrice a destinare a un apposito fondo risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 percento modulate sull'importo dei
lavori, servizi e forniture posti a base di gara per le funzioni tecniche
svolte dai propri dipendenti.
L'80 percento delle risorse è ripartito con le modalità e i criteri previsti
dalla contrattazione decentrata integrativa, sulla base di apposito
regolamento, tra il Rup, i soggetti che svolgono le funzioni tecniche e i
loro collaboratori. Il restante 20 percento è destinato all'acquisto di
beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione.
Col primo quesito si chiede se l'incentivo è subordinato all'esperimento di
una gara o di una procedura comparativa, posto che gli affidamenti di
importo inferiore a 40mila euro possono avvenire in via diretta anche senza
previa consultazione di due o più operatori economici. In questi casi si è
infatti soliti pubblicare una richiesta di manifestazione d'interesse in
base all'articolo 36, comma 2, lettera a), del codice, in esito alla quale
vengono chiesti i preventivi ai soggetti che hanno manifestato l'interesse
e, una volta valutati, si procede all'affidamento. In questi casi, chiede il
sindaco, si configura una procedura comparativa che possa costituire
presupposto per la costituzione del fondo e l'erogazione degli incentivi?
Il secondo quesito riguarda il fatto che l'articolo 113 del Codice subordina
l'attribuzione dell'incentivo alla nomina del direttore dell'esecuzione.
Poiché quel ruolo è svolto spesso dal Rup, si chiede se nel caso di
coincidenza delle funzioni possano essere accantonate le relative risorse e
distribuire l'incentivo.
Gli incentivi
La posizione della sezione Veneto è negativa per entrambi i quesiti. Ha
ricordato innanzi tutto che gli incentivi per funzioni tecniche possono
essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di
lavori, servizi o forniture che siano stati affidati previo espletamento di
una procedura comparativa e, relativamente agli appalti relativi a servizi e
forniture, solo nel caso in cui sia nominato il direttore dell'esecuzione.
Circostanza, quest'ultima, che ricorre soltanto negli appalti di importo
superiore a 500 mila euro ovvero di particolare complessità.
In mancanza di una procedura di gara, il comma 2 dell'articolo 113 non
prevede l'accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa
distribuzione. Consegue che non è possibile riconoscere gli incentivi nei
casi in cui il Codice preveda la possibilità di affidamento diretto. Così
anche nel caso di coincidenza del Rup col direttore dell'esecuzione, posto
che l'applicabilità degli incentivi è contemplata soltanto nel caso quest'ultimo
sia soggetto autonomo e diverso dal primo e l'articolo 111, comma 2, del
codice prevede la coincidenza dei due ruoli in capo al Rup, a meno che non
si tratti di interventi particolarmente complessi sotto il profilo
tecnologico, prestazioni che richiedono l'apporto di una pluralità di
competenze, interventi caratterizzati dall'utilizzo di componenti o di
processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per
quanto riguarda la loro funzionalità, per ragioni concernenti
l'organizzazione interna alla stazione appaltante che impongano il
coinvolgimento di un'unità organizzativa diversa da quella cui afferiscono i
soggetti che hanno curato l'affidamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
11.11.2019). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
ai tecnici senza l’Irap. Ordinanza (non convincente) della Cassazione.
Sull'erogazione degli incentivi per il personale addetto alle attività
tecniche connesse agli appalti non deve gravare l'Irap, anche se il suo
importo deve essere finanziato, e scorporato, dal fondo con cui si
sostengono finanziariamente gli incentivi stessi.
L'ordinanza
13.08.2019 n. 21398
della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, lascia ancora in piedi il
garbuglio relativo all'Irap sugli incentivi tecnici, scatenato da anni a
causa di disposizioni normative contraddittorie. Infatti, il legislatore, a
partire dall'art. 18 della legge 109/1994 (modificato e interpretato
autenticamente più volte), passando per l'art. 92 del dlgs 163/2006, ha
spiegato con chiarezza le sorti dell'Irap, limitandosi a prevedere, nella
norma del 2006 che la somma da mettere a disposizione per l'incentivo debba
essere «comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a
carico dell'amministrazione».
Contraddittorie le letture. Chi ha sostenuto che l'Irap fosse compresa negli
oneri, contro chi, invece, ha osservato che la spesa per previdenza e
assistenza, per legge da ripartire tra datore e lavoratore, sia ben diversa
da quella per imposte che, nel caso dell'Irap, ricade solo sul datore di
lavoro.
La sentenza della Cassazione giunge al termine di una vertenza apertasi
molti anni fa, nel regime ancora della legge 109/1994, cagionata proprio
dall'incertezza interpretativa, mai pienamente fugata dalla
deliberazione 30.06.2010 n. 33
della Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo. Innestandosi su
di essa la Corte d'appello di Brescia sez. lavoro, con
sentenza 12.05.2015 n. 147 (tratta da www.unaep.com), ha affermato
che occorre individuare nell'ambito dei fondi destinati ad essere ripartiti
tra il personale dell'avvocatura la quota da destinare a coprire gli oneri
che gravano sull'ente a titolo di Irap; tale quota, quindi, è compresa nel
fondo, ma va poi accantonata, rendendola indisponibile ai dipendenti.
Il che, spiega sempre la Corte d'appello di Brescia «comporta logicamente
una riduzione delle somme distribuibili tra il personale dell'avvocatura,
nel senso che potrà essere distribuito solo ciò che resta una volta
scorporata la quota del fondo destinata a coprire l'Irap, ma tale logica
conclusione non consente all'amministrazione di considerare il compenso
spettante al lavoratore comprensivo dell'Irap, altrimenti si finisce per
porre a carico del lavoratore l'imposta che è a carico dell'ente».
Questa visione è, di fatto, quella considerata corretta dalla Cassazione.
In sostanza, è vietato il doppio scorporo: l'ente può, anzi deve, finanziare
la quota Irap nell'ambito del finanziamento per l'incentivazione (oggi, nel
massimo, l'80% del 2% degli importi a base di gara, ripartibile tra i
dipendenti interessati) rendendola indisponibile e scorporandola dal fondo;
ma, non può anche trattenere dall'incentivo effettivamente erogato al
singolo dipendente la quota Irap. Una chiave di lettura, tuttavia, non del
tutto convincente e non persuasiva.
Infatti, poiché l'Irap deve gravare solo sul datore di lavoro e visto che il
fondo incentivante è comprensivo solo degli oneri previdenziali ed
assistenziali (come confermato anche dall'articolo 113, comma 3, del dlgs
50/2016), non dovrebbe considerarsi consentito nessuno scorporo dell'Irap:
né quello a valle, su quanto erogato al singolo dipendente; né quello a
monte, sul fondo incentivante. L'Irap dovrebbe ricadere esclusivamente sul
bilancio dell'ente
(articolo ItaliaOggi del 22.11.2019). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: D.lgs.
09.04.2008, n. 81 - Testo coordinato con il D.Lgs. 03.08.2009, n. 106 -
TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO (gennaio 2020
- tratto da www.ispettorato.gov.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Pensionati incaricati di lavoro autonomo nella PA? Ma, lasciamoli
riposare... (25.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI:
Appalti: stazioni appaltanti chiamate dal decreto fiscale a fare da "Agenzia
delle entrate" (22.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La lotta ai furbetti del cartellino? Resta in mutande (21.01.2020
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI:
Province: la mesta fine di una riforma devastante quanto assurda
(21.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA: M.
Lucca,
DIA, trasformazione urbana e (ri)piantumazioni arboree (morte)
(21.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
---------------
La V Sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 17.01.2020 n. 429,
chiarisce i limiti (disapplicazione) di una norma del regolamento edilizio
nel caso di sostituzione di alberi preesistenti con altri dello stesso tipo,
statuendo l’illegittimità dell’ordine di abbattimento (anche per
incompetenza funzionale). (...continua). |
ENTI LOCALI: M.
Lucca,
Erogazione di contributi pubblici, diversa destinazione e danno erariale
(18.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
---------------
Le Sezioni Un. Civ. della Cassazione, con l’ordinanza 07.01.2020, n. 111,
intervengono per consolidare un orientamento che sottopone alla
giurisdizione della Corte dei Conti, quelle condotte illecite di coloro che
utilizzano l’erogazione di fondi pubblici, per scopi diversi da quelli della
loro originaria destinazione. (...continua). |
PATRIMONIO: M.
Lucca,
Questioni sull’affidamento diretto di un bene e responsabilità
(16.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
---------------
L’affidamento diretto di un bene pubblico –senza alcuna procedura
comparativa– costituisce un’aperta violazione ai principi generali della
contrattualistica pubblica che impongono da una parte, la redditività dei
beni (con una conseguente entrata all’erario), dall’altra, una procedura
aperta e trasparente (in piena aderenza alla disciplina comunitaria, deve
intendersi «concorrenza»). (...continua). |
PATRIMONIO: M.
Lucca,
Responsabilità erariale per l’assegnazione in comodato gratuito di beni
pubblici
(21.12.2019 - link a www.mauriziolucca.com).
---------------
Nella gestione dei beni pubblici la regola base può essere riassunta nei
principi elementari e comuni del buon andamento (ex art. 97 Cost. e art. 1
della Legge n. 241/1990), principi dell’evidenza pubblica e della necessaria
utilità che dovrebbe percepire la P.A. nell’assegnare una risorsa pubblica
ad un terzo. (...continua). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Trasparenza: misure burocratiche possono davvero fermare la corruzione?
(17.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sì al compenso dei dipendenti pubblici se componenti esterni di commissioni
di concorso (15.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Trasparenza, ennesima puntata. La trasparenza è un valore, ma anche le
sentenze della Consulta non scherzano (15.01.2020 - link a
https://luigioliveri.blogspot.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Trasparenza. Dati patrimoniali dei dirigenti: quel che il populismo non vuol
capire (14.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: Redditi
e patrimoni dei dirigenti pubblici restano "segreti"? Il travisamento delle
sentenze e delle norme (13.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Trasparenza: obblighi sospesi solo per i dirigenti, non per i politici (13.01.2020
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: M.
Lucca,
Libertà religiosa, pianificazione urbana e interesse pubblico prevalente
(11.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
---------------
La sez. IV del Cons. Stato, con la sentenza 05.12.2019 n. 8328, affronta
gli effetti del mancato adempimento di una convenzione del diritto di
superficie per la realizzazione di un centro religioso islamico, rilevando
la prevalenza dell’interesse al culto rispetto all’inadempimento
convenzionale, ove l’Amministrazione non disponga di una motivazione
rafforzata sul bilanciamento degli interessi al corretto sviluppo
territoriale e quello della libertà di culto. (...continua). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI: M.
Lucca,
Potere di ordinanza, custodia animali e regole di condotta sulle deiezioni
liquide
(08.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
---------------
La Sez. I del TAR Emilia Romagna-Parma, con la sentenza 02.12.2019 n.
282, interviene per stabilire la legittimità di un atto dirigenziale che
impone misure di natura pratica ai proprietari, possessori o detentori a
qualsiasi titolo di cani, anche solo temporaneamente incaricati della loro
custodia o conduzione, in relazione alle loro necessità essenziali di vita
(c.d. deiezioni liquide), prevenendo l’asserito “pregiudizio igienico”. (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dati patrimoniali dei dirigenti pubblici: il buonsenso prevale sul
voyeurismo (03.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI: M.
Lucca,
Giurisdizione del rapporto negoziale con la P.A.
(03.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
---------------
Il TAR Puglia-Bari, con la sentenza 03.01.2020 n. 6, conferma il
perimetro di competenza del Giudice Amministrativo prima della
sottoscrizione del contratto; successivamente opera il Giudice Ordinario
quando la controversia verta sul rapporto negoziale in assenza
dell’esercizio di un potere pubblicistico di stampo autoritativo. (...continua). |
ATTI AMMINISTRATIVI: M.
Lucca,
Istanza congiunta di accesso documentale e generalizzato
(02.01.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
---------------
La Sez. III del TAR Lombardia-Milano, con la sentenza 27.12.2019 n. 2750,
chiarisce i contorni di un’istanza di accesso ai documenti, ben potendo
coesistere –nella richiesta ostensiva– il diritto di accesso civico
generalizzato (ex art. 5, comma 2, del D.lgs. n. 33/2013) e l’accesso
documentale (ex art. 22 della Legge n. 241/1990). (...continua). |
APPALTI: M.
Lucca,
Controversie (e forma) con la P.A. dopo la stipula del contratto
(19.12.2019 - link a www.mauriziolucca.com).
---------------
Le sez. Unite Civili della Corte di Cassazione, con l’ordinanza
13.12.2019 n. 32976, intervengono per riaffermare che le controversie
relative alla fase successiva alla stipulazione del contratto di regola
ricadono nella giurisdizione dell’A.G.O.: la giurisdizione appartiene al
giudice ordinario, cui spetta di conoscere dei diritti e degli obblighi che
derivano dalla stipulazione del contratto con la P.A. (...continua). |
ATTI AMMINISTRATIVI: G.
Bevilacqua,
La dimensione territoriale dell’oblio in uno spazio globale e universale (18.12.2019 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
Abstract: L’interpretazione della dimensione territoriale del
diritto all’oblio on-line genera importanti frizioni nella prassi di
legislatori, autorità garanti della privacy e tribunali nazionali e
internazionali. In seguito a una preliminare analisi della natura giuridica
di questo emergente diritto fondamentale, orienteremo l’indagine sulle
argomentazioni favorevoli e contrarie all’applicazione extraterritoriale
dell’oblio. Per stabilire fino a che punto internet può dimenticare
risulterà poi cruciale chiarire se in base al diritto internazionale
pubblico questo spazio globale e universale può essere soggetto al
tradizionale esercizio dell’autorità statale.
---------------
Sommario: 1. Introduzione. - 2. L’evoluzione del diritto all’oblio
on-line nelle fonti normative e negli sviluppi giurisprudenziali in materia
di vita privata e protezione dei dati personali. - 2.1. Dai principi sulla
qualità delle informazioni della Convenzione n. 108 al diritto
all’autodeterminazione informativa derivante dall’art. 8 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo. - 2.2. Dal frammentato diritto alla
deindicizzazione della Direttiva sul trattamento dei dati personali
all’esplicito diritto all’oblio del Regolamento generale sulla protezione
dei dati. - 3. L’ambito di applicazione territoriale del diritto all’oblio
al bivio tra due opposte direzioni. - 3.1. Le argomentazioni in favore di
una deindicizzazione circoscritta al territorio dell’Ue. - 3.2. La tendenza
a una deindicizzazione extraterritoriale. - 4. Internet, la libertà dei mari
e l’applicazione del diritto in spazi privi di confini. - 5. L’applicazione
extraterritoriale del diritto all’oblio alla luce della prassi in materia di
tutela internazionale dei diritti umani. - 6. Conclusioni. |
ATTI AMMINISTRATIVI: D.
De Rada,
La responsabilità civile in caso di mancato rispetto del GDPR. Privacy by
default, privacy by design e accountability nell’ottica del Diritto Privato
(18.12.2019 - tratto da www.federalismi.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: E.
N. Fragale,
Il reclutamento del personale pubblico: tra tradizione e innovazione (18.12.2019 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premesse; 2. La prima tendenza: dalla politica verso
l’amministrazione ovvero spoils system versus merit system; 3. La regola del
concorso: tra amministrazione formale e amministrazione reale; 4. La seconda
tendenza: verso l’esternalizzazione e la centralizzazione della funzione di
reclutamento; 5. Note conclusive. |
PATRIMONIO: M.
Lucca,
Concessionario uscente, diritto di prelazione e clausole concorsuali
nell’affidamento di beni pubblici
(26.10.2019 - link a www.mauriziolucca.com).
---------------
Il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la sentenza 07.10.2019 n. 2106
conferma l’esigenza cogente, di matrice comunitaria, di procedere agli
affidamenti in concessione di beni pubblici di rilevanza economica solo a
seguito di un procedimento ad evidenza pubblica, ammettendo un “diritto di
prelazione” in capo al precedente gestore, in relazione all’interesse dell’affidatario
uscente di continuare un’attività (didattica) di rilevanza pubblica (ex art.
33 Cost., rientrante nei c.d. diritti di libertà, con il connesso principio
pluralistico della libertà di scuola). (...continua). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
studio art. 45 CCNL.
Domanda
Vorremmo dei chiarimenti sui permessi per diritto allo studio di cui
all’art. 45 del CCNL Funzioni Locali del 21/05/2018.
In particolare, premesso che l’ente al momento non ha provveduto a
regolamentare l’istituto con proprio atto interno, si chiede se tali congedi
possano essere concessi al personale iscritto ad università telematiche e,
in subordine, quale documentazione debba acquisire l’ente al fine di
verificare il rispetto dei requisiti previsti dalla normativa.
Infine, si chiedono chiarimenti in merito ai criteri per la concessione nel
caso in cui, in corso d’anno, il numero di domande ecceda il limite fissato
dalla disposizione contrattuale.
Risposta
L’art. 45 del CCNL 21/05/2018 prevede in merito al diritto allo studio, la
concessione di permessi straordinari retribuiti, nella misura massima di 150
ore annue, concessi per partecipare a corsi destinati al conseguimento di
titoli di studio universitari, post universitari, di scuole di istruzione
primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate
o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di
studio legali o attestati professionali riconosciuti dall’ordinamento
pubblico e per sostenere i relativi esami.
La disposizione in esame ricalca in larga parte quanto già sancito dal
precedente art. 15 del CCNL 14.09.2000, pertanto si ritengono attualmente
vigenti gli orientamenti applicativi forniti già dall’ARAN nonché dal
Dipartimento della Funzione Pubblica.
Ciò posto, per quanto attiene la possibilità di riconoscere detti permessi a
dipendenti iscritti a università telematiche, il Ministero dell’Istruzione,
Università e Ricerca con nota del 20.05.2009 n. 9/207/RET/R, aveva
interpretato in senso favorevole l’utilizzo dei permessi sostenendo che “la
ratio della norma vada nel senso di garantire il diritto allo studio e
quindi le 150 ore debbano essere concesse anche agli studenti delle
università telematiche”.
Tuttavia, al fine di evitare l’uso distorto dell’istituto, il Dipartimento
della Funzione Pubblica, con Circolare n. 12/2011, pur confermando che non
vi sono preclusioni alla fruizione dei permessi studio da parte dei
dipendenti pubblici iscritti alle università telematiche, ha precisato che “la
fruizione risulta subordinata alla presentazione della documentazione
relativa all’iscrizione e agli esami sostenuti, nonché all’attestazione
della partecipazione personale del dipendente alle lezioni. In quest’ultimo
caso i dipendenti iscritti alle università telematiche dovranno certificare
l’avvenuto collegamento all’università telematica durante l’orario di lavoro”.
L’ARAN si è attestata sul predetto orientamento, stabilendo tuttavia che
l’attestato di partecipazione o frequenza assume un rilievo prioritario in
quanto certifica sia la circostanza dell’effettiva presenza alle lezioni sia
quella che le medesime lezioni si svolgono all’interno dell’orario di
lavoro.
A tal fine, l’autocertificazione potrebbe ammettersi nei casi in cui la PA
possa procurarsi direttamente, ex se, la certificazione necessaria;
contrariamente sarà necessaria una attestazione da parte della stessa
università, che certifichi che quel determinato dipendente ha seguito
personalmente, effettivamente e direttamente le lezioni trasmesse in via
telematica.
Per quanto attiene le modalità di concessione dei permessi, posto che si
consiglia all’ente di approvare apposita regolamentazione, si osserva quanto
segue:
1. l’ARAN ritiene non vi siano preclusioni circa la sostituzione di
un dipendente in corso d’anno, purché sia rispettato il tetto delle 150 ore.
Pertanto, se un dipendente termina l’utilizzo a marzo, potrà cedere le ore
residue per l’anno solare ad altro dipendente;
2. ove non sia prevista alcuna regolamentazione, come regola
generale prescritta dall’art. 45, qualora il numero delle domande presentate
dai lavoratori superi il limite massimo del 3% del personale a tempo
indeterminato in servizio all’inizio di ogni anno, l’attribuzione dei
permessi avviene sulla base dei criteri di priorità indicati nei commi 6, 7
e 8 (23.01.2020 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
personale di questo ente pubblico economico (Settore Sanità) chiede quali
siano gli attuali obblighi di pubblicazione degli incarichi, stipendi e
redditi dei dirigenti alla luce delle recenti vicende (interventi Anac,
Corte Costituzionale ecc…)?
La questione relativa agli obblighi di pubblicazione dei dati patrimoniali e
reddituali dei dirigenti (art. 14, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33) ha visto degli
sviluppi particolari che merita riepilogare.
Il D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 all'art. 14, comma 1-ter, dispone "Ciascun
dirigente comunica all'amministrazione presso la quale presta servizio gli
emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, anche in
relazione a quanto previsto dall'articolo 13, comma 1, del decreto-legge
24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n.
89. L'amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare
complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente".
L'autorità anticorruzione (ANAC) è intervenuta a chiarire nel tempo i
contenuti prescrittivi delle disposizioni in materia con:
- Del. 28.12.2016, n. 1310
- Del. 08.03.2017, n. 241
- Del. 12.04.del 2017, n. 382
La questione, attraverso il ricordo di dirigenti del Garante privacy è poi
giunta al vaglio della Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20 "dichiara
l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1-bis, del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il
diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella
parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di
cui all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche
per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo
conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di
indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per
i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)".
A tale pronuncia, non del tutto esaustiva è seguita la Del. 26.06.2019, n.
586 dell’ANAC del la quale ha dato vita a polemiche ed a un nuovo ricorso
(questa volta da parte di dirigenti del settore sanità) che ha portato alla
sua sospensione con il provvedimento del TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent.
21.11.2019, n. 7579.
A questa ordinanza è seguito un nuovo Comunicato 04.12.2019 del Presidente
ANAC circa gli effetti della sentenza e del citato complesso di
disposizioni.
La situazione, che rischiava di creare problemi interpretativi e richieste
di risarcimento di danni ha convinto il Governo ad inserire una disposizione
nel "Decreto Milleproroghe 2020", all'art. 1, comma 7, D.L.
30.12.2019, n. 162 il quale dispone "Fino al 31.12.2020, nelle more
dell'adozione dei provvedimenti di adeguamento alla sentenza della Cort.
Cost. 21.02.2019, n. 20, ai soggetti di cui all'articolo 14, comma 1-bis,
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, non si applicano le misure di cui agli artt. 46 e
47 del medesimo decreto.
Conseguentemente, con regolamento da adottarsi entro il 31.12.2020, ai sensi
dell'articolo 17, comma 1, della legge 23.08.1988, n. 400, su proposta del
Ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro della
giustizia, il Ministro dell'interno, il Ministro dell'economia e delle
finanze, il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale
e il Ministro della difesa, sentito il Garante per la protezione dei dati
personali, sono individuati i dati di cui al comma 1 dell'articolo 14 del
decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che le pubbliche amministrazioni e i
soggetti di cui all'articolo 2-bis, comma 2, del medesimo decreto
legislativo devono pubblicare con riferimento ai titolari amministrativi di
vertice e di incarichi dirigenziali, comunque denominati, ivi comprese le
posizioni organizzative ad essi equiparate, nel rispetto dei seguenti
criteri:
a) graduazione degli obblighi di pubblicazione dei dati di cui al
comma 1, lettere a), b), c), ed e), dell'articolo 14, comma 1, del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, in relazione al rilievo esterno dell'incarico
svolto, al livello di potere gestionale e decisionale esercitato correlato
all'esercizio della funzione dirigenziale;
b) previsione che i dati di cui all'articolo 14, comma 1, lettera
f), del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, siano oggetto esclusivamente
di comunicazione all'amministrazione di appartenenza;
c) individuazione dei dirigenti dell'amministrazione dell'interno,
degli affari esteri e della cooperazione internazionale, delle forze di
polizia, delle forze armate e dell'amministrazione penitenziaria per i quali
non sono pubblicati i dati di cui all'articolo 14 del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33, in ragione del pregiudizio alla sicurezza nazionale
interna ed esterna e all'ordine e sicurezza pubblica, nonché in rapporto ai
compiti svolti per la tutela delle istituzioni democratiche e di difesa
dell'ordine e della sicurezza interna ed esterna" di fatto sospendendo
tutti gli obblighi di pubblicazione relativi.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 14
- Del. 08.03.2017, n. 241 dell’ANAC - Del. 12.04.2017, n. 382 dell’ANAC -
Del. 26.06.2019, n. 586 dell’ANAC - Comunicato 04.12.2019 - D.L. 30.12.2019,
n. 162, art. 1
Riferimenti di giurisprudenza
Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20
Documenti allegati
Del. 28.12.2016, n. 1310
dell’ANAC - TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent. 21.11.2019, n. 7579
(22.01.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI SERVIZI: Verifica
aggiudicatario affidamento servizio assicurativo.
Domanda
Siamo un ente di piccole dimensioni, ed a breve dovremmo bandire una gara
per il servizio di assicurazione obbligatoria per i veicoli del comune.
Come verificare i requisiti di idoneità e di capacità economico-finanziaria
o tecnica-professionale previsti per la partecipazione ad una procedura come
quella che verrà indetta? È possibile utilizzare il requisito del minor
prezzo?
Risposta
Data la complessità della materia assicurativa si consiglia all’ente di
affidarsi ad un broker, per la valutazione e gestione dei rischi attinenti
alla specifica realtà comunale, per l’analisi delle polizze e
predisposizione di adeguati capitolati, per l’assistenza nella redazione
della documentazione di gara, sia con riferimento ai requisiti speciali da
richiedere agli operatori, che nella scelta dei criteri di aggiudicazione.
Servizio, tra l’altro, che non comporta oneri diretti per l’ente pubblico.
Passando nello specifico al quesito, per quanto riguarda la verifica dei
requisiti di idoneità, intesa quale abilitazione all’esercizio dell’attività
assicurativa relativa al ramo di rischio oggetto della procedura, è
possibile accedere al sito dell’IVASS, ed in particolare alla sezione
dedicata agli albi
www.ivass.it/operatori/imprese/albi/index.html.
In merito ai requisiti speciali di capacità economico e/o tecnica, sono
ritenuti di regola, quali elementi significativi nella selezione di un
qualificato operatore economico:
• una data quantificazione di una raccolta premi assicurativi
complessiva nel ramo “RC Autoveicoli” nel precedente triennio finanziario;
• l’esercizio, sempre nel precedente triennio finanziario, di
servizi assicurativi analoghi a quello oggetto della procedura (rischio
appunto RC Auto).
Per accertare la regolarità della dichiarazione resa in sede di gara con
riferimento all’ammontare della raccolta premi [1]
in alternativa alla richiesta all’operatore economico è possibile accedere
al sito di ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici), e
prendere visione della pubblicazione “Premi
del lavoro diretto italiano”.
Il secondo requisito andrà verificato mediante acquisizione d’ufficio di
originale o copia conforme dei certificati rilasciati
dall’amministrazione/ente pubblico contraente, con l’indicazione del tipo di
polizza, effetto e scadenza della polizza e premio annuo lordo, o richiesta
all’operatore aggiudicatario di analoghi documenti nel caso di committente
privato.
Sulla scelta del criterio di aggiudicazione, si ritiene legittimo il minor
prezzo, sia per importi infra 40.000 che superiori, ai sensi dell’art. 36,
co. 9-bis, del codice, non rientrando, la prestazione in oggetto, tra quelle
fattispecie descritte nell’art. 95, co. 3, del d.lgs. 50/2016.
Preme sottolineare l’opportunità di non prevedere l’esclusione automatica
delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore
alla soglia di anomalia individuata ai sensi del comma 2 e ss. dell’art. 97,
del codice, stante l’interesse transfrontaliero che può presentare un
servizio assicurativo.
---------------
[1] La verifica va effettata per gruppo assicurativo di appartenenza
(22.01.2020 - tratto da e link a
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APPALTI: Obblighi
di pubblicità e trasparenza in materia di enti pubblici.
Domanda
L’articolo 22, del d.lgs. 33/2013, detta gli obblighi di pubblicità e
trasparenza che hanno, anche i comuni, in materia di enti pubblici
istituiti, vigilati o finanziati dall’amministrazione medesima.
I tre requisiti citati nella norma devono intendersi in modo cumulativo o
alternativo?
Risposta
Il decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, all’articolo 22, disciplina gli “Obblighi
di pubblicazione dei dati relativi agli enti pubblici vigilati, e agli enti
di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in
società di diritto privato".
L’Albero della Trasparenza – allegato “1” alla delibera ANAC n. 1310 del
28.12.2016 – prevede una specifica sottosezione di Livello 1, nel link
Amministrazione trasparente, denominata “Enti controllati”, dove
adempiere ai seguenti obblighi:
Comma 1
Tutti gli enti devono pubblicare, in formato tabellare aperto:
a) l’elenco degli enti pubblici, comunque denominati, istituiti,
vigilati o finanziati dall’amministrazione medesima, nonché di quelli per i
quali l’amministrazione abbia il potere di nomina degli amministratori
dell’ente, con l’elencazione delle funzioni attribuite e delle attività
svolte in favore dell’amministrazione o delle attività di servizio pubblico
affidate;
b) l’elenco delle società di cui detiene direttamente quote di
partecipazione anche minoritaria indicandone l’entità, con l’indicazione
delle funzioni attribuite e delle attività svolte in favore
dell’amministrazione o delle attività di servizio pubblico affidate;
c) l’elenco degli enti di diritto privato, comunque denominati, in
controllo dell’amministrazione, con l’indicazione delle funzioni attribuite
e delle attività svolte in favore dell’amministrazione o delle attività di
servizio pubblico affidate. Ai fini delle presenti disposizioni sono enti di
diritto privato in controllo pubblico gli enti di diritto privato sottoposti
a controllo da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti
costituiti o vigilati da pubbliche amministrazioni nei quali siano a queste
riconosciuti, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di
nomina dei vertici o dei componenti degli organi;
d) una o più rappresentazioni grafiche che evidenziano i rapporti
tra l’amministrazione e gli enti;
d-bis) i provvedimenti in materia di costituzione di società a
partecipazione pubblica, acquisto di partecipazioni in società già
costituite, gestione delle partecipazioni pubbliche, alienazione di
partecipazioni sociali, quotazione di società a controllo pubblico in
mercati regolamentati e razionalizzazione periodica delle partecipazioni
pubbliche, previsti dal decreto legislativo adottato ai sensi dell’articolo
18 della legge 124/2015.
Comma 2
Per ciascuno degli enti di cui alle lettere da a) a c) del comma 1 sono
pubblicati i dati relativi a:
• ragione sociale;
• misura della eventuale partecipazione dell’amministrazione;
• durata dell’impegno;
• onere complessivo a qualsiasi titolo gravante per l’anno sul
bilancio dell’amministrazione;
• numero dei rappresentanti dell’amministrazione negli organi di
governo;
• trattamento economico complessivo a ciascuno di essi spettante;
• risultati di bilancio degli ultimi tre esercizi finanziari.
Devono essere pubblicati i dati relativi agli incarichi di amministratore
dell’ente e il relativo trattamento economico complessivo.
Comma 3
Nel sito dell’amministrazione deve essere inserito il collegamento (tramite
un apposito link) con i siti istituzionali dei soggetti di cui al comma 1.
Comma 4
Nel caso di mancata o incompleta pubblicazione dei dati relativi agli enti
di cui al comma 1, è vietata l’erogazione in loro favore di somme a
qualsivoglia titolo da parte dell’amministrazione interessata, ad esclusione
dei pagamenti che le amministrazioni sono tenute ad erogare a fronte di
obbligazioni contrattuali per prestazioni svolte in loro favore da parte di
uno degli enti e società indicati nelle categorie di cui al comma 1, lettere
da a) a c).
Comma 6
Le disposizioni dell’articolo 22 non trovano applicazione nei confronti
delle società, partecipate da amministrazioni pubbliche, con azioni quotate
in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione europea, e
loro controllate.
Per gli enti che non provvedono alla pubblicazione dei dati su indicati o li
pubblicano incompleti, l’articolo 47, comma 2, del decreto prevede una
specifica sanzione amministrativa, a carico del responsabile della
pubblicazione consistente nella decurtazione dal 30 al 60 per cento
dell’indennità di risultato ovvero nella decurtazione dal 30 al 60 per cento
dell’indennità accessoria percepita dal responsabile della trasparenza. La
stessa sanzione si applica agli amministratori societari che non comunicano
ai soci pubblici il proprio incarico ed il relativo compenso entro trenta
giorni dal conferimento ovvero, per le indennità di risultato, entro trenta
giorni dal percepimento [1];
Delineato il quadro normativo complessivo in cui ci si muove, venendo alla
questione specifica evidenziata nell’istanza, si risponde al quesito,
specificando che i tre requisiti richiesti dall’art. 22, comma 1, lettera
a), del d.lgs. n. 33/2013, ossia enti pubblici, comunque denominati, “istituiti”,
“vigilati” e “finanziati” dalla amministrazione, sono da
intendersi come alternativi e non cumulativi fra di loro. Ad esempio, i
comuni dovranno provvedere alla pubblicazione dei dati relativi agli enti
pubblici da loro vigilati, anche se gli stessi non risultino finanziati
dalle amministrazioni [2].
Per ciò che concerne, invece, gli obblighi di pubblicità e trasparenza delle
società ed enti in controllo pubblico, occorre fare riferimento all’articolo
2-bis del d.lgs. 33/2013, nel testo introdotto dall’articolo 3, comma 2, del
d.lgs. 97/2016. Con tale disposizione è stato ridisegnato l’ambito
soggettivo di applicazione della disciplina sulla trasparenza, rispetto alla
precedente indicazione normativa, contenuta nell’abrogato articolo 11 del
d.lgs. 33/2013.
I destinatari degli obblighi di trasparenza sono ora ricondotti a tre
categorie di soggetti:
1) pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2 del d.lgs.
165/2000, ivi comprese le autorità portuali nonché le autorità
amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione,
destinatarie dirette della disciplina contenuta nel decreto (art. 2-bis, co.
1);
2) enti pubblici economici, ordini professionali, società in
controllo pubblico, associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato,
sottoposti alla medesima disciplina prevista per le P.A. «in quanto
compatibile» (art. 2-bis, co. 2);
3) società a partecipazione pubblica, associazioni, fondazioni ed
enti di diritto privato soggetti alla medesima disciplina in materia di
trasparenza prevista per le P.A. «in quanto compatibile» e «limitatamente
ai dati e ai documenti inerenti all’attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o dell’Unione europea» (art. 2-bis,
co. 3) [3].
---------------
[1] Comma così sostituito dall’articolo 1, comma 163, della 27.12.2019,
n. 160 (legge di stabilità 2020);
[2] Per ulteriori approfondimento: Linee guida ANAC, delib. n. 1310/2016,
Paragrafo 5.4; FAQ Trasparenza 10.1.
[3] Per gli obblighi di pubblicità e trasparenza delle società ed enti in
controllo pubblico si rinvia alla delib. ANAC n. 1134 dell’08/11/2017,
recante: Nuove linee guida per l’attuazione della normativa in materia di
prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli
enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche
amministrazioni e degli enti pubblici economici (21.01.2020 - tratto da e link a
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ENTI LOCALI - VARI:
Lanterne volanti.
Domanda
Nell’ambito di una cerimonia privata si ha l’intenzione di lanciare le cd “lanterne
volanti”. È consentito? E se sì, sono necessarie delle autorizzazioni?
Risposta
La lanterna volante è un manufatto realizzato con un corpo di carta che
avvolge una struttura rigida al cui interno vi è una fonte di calore. L’aria
calda all’interno del corpo, avendo una densità minore rispetto all’esterno,
fa innalzare la lanterna. Le lanterne in commercio rimangono in volo libero
per circa 10 minuti dopodiché, allo spegnimento della fiamma, ritornano al
suolo.
È evidente che tali oggetti volanti sono potenzialmente pericolosi per due
motivi: possono propagare incendi e possono generare pericolo per l’ambiente
e il traffico aereo.
Per il primo motivo l’accensione di tali manufatti è soggetto alla licenza
di cui art. 57 TULPS, a prescindere dal fatto che l’evento abbia carattere
pubblico o privato.
Per il secondo motivo è necessario inoltrare un’istanza all’autorità
aeroportuale (direzione aeroportuale ENAC – Ente Nazionale Aviazione Civile)
che valuta la compatibilità dell’evento con il traffico aereo. Si rimanda
alla circolare ENAC – serie Air Traffic Management (ATM) del 16.12.2010 e in
particolare all’allegato A) che consiste nel modello da compilare completo
di note e indicazioni tecniche.
Pertanto la licenza di cui art. 57 TULPS deve richiamare il documento “validato”
dell’ENAC. La circolare del Ministero dell’Interno del 06.12.2012 e la nota
della Questura di Modena del 11.02.2013 sono esaustive in questo senso.
Infine, nel caso si debba intervenire –ci si riferisce alle forze di Polizia
locale– e si accerti l’assenza di autorizzazione di cui art. 57 TULPS
comprensiva della relativa valutazione ENAC, risulta d’obbligo, in forza
all’art. 703 del codice penale (accensioni ed esplosioni pericolose),
procedere ai sensi del codice di procedura penale con l’immediata
interruzione dei lanci ed il sequestro delle lanterne ancora a terra.
Si ritiene inoltre doveroso avvisare senza ritardo, anche tramite la locale
Stazione dei Carabinieri, gli organi di sicurezza aerea competente per
territorio (Direzione Aeroportuale/ENAC) (17.01.2020 - tratto da e
link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Aumento orario temporaneo dipendente part-time.
Domanda
È possibile aumentare il tempo del lavoro di un dipendente a part-time per
un determinato periodo?
Risposta
Il quesito pone in rilievo le disposizioni contrattuali in materia di
rapporto di lavoro a tempo parziale, oggi disciplinate dagli articoli 53, 54
e 55 del CCNL 21/05/2018. Richiede inoltre qualche breve considerazione in
merito al rispetto dei vincoli in materia di spesa di personale.
In linea generale, si ritiene possibile l’incremento dell’ampiezza
percentuale di un rapporto di lavoro costituito a part-time, a condizione,
innanzitutto, che vi sia l’accordo del dipendente. In tal caso, occorrerà
rifarsi alle regole contrattuali in materia, ovvero procedere alla stipula
di un nuovo contratto individuale di lavoro; esso dovrà contenere, ai sensi
dell’art. 53, comma 11, del CCNL anzi richiamato, l’indicazione dell’inizio
della nuova articolazione oraria del rapporto, la durata della prestazione
lavorativa, la collocazione/articolazione temporale puntuale dell’orario e,
naturalmente (ai sensi del comma 12, del tutto opportunamente a parere
nostro) la durata del contratto medesimo. Le parti si daranno reciprocamente
atto che, al raggiungimento del predetto termine contrattuale, torneranno a
osservare la disciplina del contratto individuale di lavoro a part-time
originario, costituito a tempo indeterminato.
Sotto il profilo dei vincoli alla spesa di personale, l’incremento dei costi
derivante dall’aumento delle ore lavorative sarà certamente e pienamente
rilevante ai fini del rispetto del limite di cui all’art. 1, comma 557 e
segg., della legge 296/2006 e s.m.i.
Dal punto di vista della capacità assunzionale invece si ritiene, per
giurisprudenza sufficientemente consolidata presso la Corte dei conti, che
il semplice incremento orario di un rapporto di lavoro a part-time, senza il
raggiungimento della consistenza di un rapporto a tempo pieno, non configuri
una nuova assunzione, e non debba pertanto essere accompagnato dall’utilizzo
di facoltà assunzionale, a condizione che non vengano poste in essere
fattispecie potenzialmente elusive della lettera e dello spirito della
norma, ovvero (detto in modo meno ortodosso) che l’incremento non sia tale
da mascherare un full time dietro percentuali di part-time prossime al 100%.
Varie sezioni regionali della Corte dei conti (tra le altre, si apprezzi la
Sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Campania,
deliberazione n. 338/2016/PAR) hanno rimarcato quanto la scelta
dell’individuazione di tale “limite di ragionevolezza” sia del tutto rimessa
all’autonoma valutazione, e conseguente assunzione di responsabilità, da
parte dell’ente.
In ogni caso, in ipotesi di incremento della percentuale di part-time in via
temporanea –con “rientro” del dipendente alla quota originaria
decorso qualche mese– a parere di chi scrive, difficilmente può
concretizzare un utilizzo di facoltà assunzionali, giacché è una scelta, di
fatto, a tempo determinato.
Per completezza, si segnala la possibilità dell’utilizzo di altro strumento
contrattuale, che parrebbe poter rispondere, in alternativa e in modo
probabilmente più lineare, alle esigenze di copertura di una vacanza per un
periodo piuttosto breve: trattasi del lavoro supplementare, regolato
dall’art. 55, commi da 2 a 6, del ridetto CCNL 21/05/2018.
Stabilisce il contratto che, con l’accordo del lavoratore (che potrebbe però
rifiutare la prestazione unicamente per comprovate esigenze lavorative, di
salute o familiari), l’ente possa richiedere al dipendente a part-time la
prestazione di ore di lavoro supplementari (non si tratta, si presti
attenzione, di lavoro straordinario) nel limite del 25% della durata
dell’orario di lavoro contrattualmente stabilito, con riferimento al mese.
Rilevato su base settimanale, tale previsione consentirebbe di richiedere al
dipendente, ad esempio il cui orario sia articolato su 24 ore, fino a 30 ore
complessive, dovendosi semplicemente contenere l’orario giornaliero (giorno
per giorno) entro quello previsto come orario ordinario di lavoro a tempo
pieno del giorno di riferimento (esempio: giornata con orario a tempo pieno
di 6 ore / dipendente a part-time con orario di 4 ore / lavoro supplementare
fino a ulteriori 2 ore).
Il lavoro supplementare è ammesso (comma 3) per specifiche e comprovate
esigenze organizzative o in presenza di particolari situazioni di difficoltà
derivanti da concomitanti assenze di personale non prevedibili e improvvise.
Le ore di lavoro supplementare, entro il limite massimo del 25% suddetto,
sono retribuite al dipendente con un compenso pari alla retribuzione oraria
globale di fatto individuata dall’art. 10, comma 2, lett. d), del CCNL
09/05/2006 (“importo della retribuzione individuale per 12 mensilità cui
si aggiunge il rateo della 13^ mensilità nonché l’importo annuo della
retribuzione variabile e delle indennità contrattuali percepite nel mese o
nell’anno di riferimento, ivi compresa l’indennità di comparto di cui
all’art. 33 del CCNL del 22.01.2004”), maggiorata del 15%, e tali importi
sono posti a carico del fondo per il lavoro straordinario.
Chi scrive ritiene che, attesa la brevissima durata del periodo di
assenza/difficoltà organizzativa, rispetto al quale la scelta della stipula
di un nuovo contratto a part-time incrementato potrebbe apparire forzata
anche in considerazione dell’incertezza in merito all’esatto protrarsi della
stessa, ove l’ente ravvisi compiutamente la sussistenza dei requisiti
contrattuali su richiamati, la soluzione da ultimo analizzata possa
costituire una valida alternativa (16.01.2020 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI:
Informazioni sulle procedure in formato tabellare anno 2020.
Domanda
Sono correttamente adempiute le disposizioni di cui all’art. 1, co. 32,
legge 190/2012 qualora si proceda all’elaborazione nel solo mese di gennaio
della tabella riassuntiva in formato digitale aperto relativamente agli
appalti affidati nell’anno precedente?
Risposta
Si ritiene sia parzialmente adempiuta la disposizione richiamata nel
quesito. Per avere un quadro completo degli adempimenti occorre richiamare
oltre all’art. 1, co. 32, della legge 190/2012 [1],
l’art. 37, co. 1, lett. a), del d.lgs. 33/2013, la Delibera ANAC n. 39 del
20.01.2016 [2],
nonché la Delibera ANAC n. 1310 del 2016 completa di allegati
[3].
L’art. 3 della sopra citata delibera ANAC 39/2016 prevede la pubblicazione e
l’aggiornamento tempestivo sul proprio sito web istituzionale, nella sezione
“Amministrazione trasparente”, sotto-sezione di primo livello “Bandi
di gara e contratti”, delle informazioni indicate nell’art. 1, co. 32,
legge 190/2012, come elencate nella nota a pie di pagina, relative ai
procedimenti di scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture
e servizi, a cui deve associarsi ovviamente il codice CIG di riferimento.
Tali informazioni devono essere riportate in formato tabellare (allegato
alla Delibera ANAC n. 1310/2016).
Il comma due del sopra citato art. 3 stabilisce che entro il 31 gennaio di
ogni anno le Amministrazioni pubblicano in tabelle riassuntive rese
liberamente scaricabili in formato digitale standard aperto, le informazioni
di cui al comma precedente, riferite:
• alle procedure avviate nel corso dell’anno precedente, anche se
in pendenza di aggiudicazione (ad esempio anno 2019). In quest’ultimo caso
verranno riportate le informazioni minime essenziali, quali CIG, struttura
proponente, oggetto del bando e procedura di scelta del contraente. Nelle
successive annualità si procederà all’aggiornamento e integrazione dei dati
mancanti;
• alle procedure in corso di esecuzione nel periodo preso in
considerazione (ad esempio procedure bandite in anni precedenti ma in corso
di esecuzione nell’anno 2019);
• alle procedure i cui contratti nel periodo annuale di riferimento
hanno subito modifiche e/o aggiornamenti (ad esempio i pagamenti effettuati
nell’anno 2019 relativi a contratti derivanti da gare bandite in anni
precedenti).
Nella prassi amministrativa di molti enti, compatibilmente con gli strumenti
informatici a disposizione, si procede alla pubblicazione nella sezione
Amministrazione trasparente di due distinte tabelle. Una prima che riguarda
i dati di cui all’art. 3, co. 1, relativa ai CIG staccati nell’anno di
riferimento, ed una seconda, da trasmettersi ad ANAC, nella quale sono
indicati i CIG presi nell’anno oggetto di comunicazione, nonché riproposti
quelli relativi ai contratti derivanti da gare bandite in anni precedenti ma
in corso di esecuzione, oppure riferiti a contratti modificati o aggiornati
nell’anno di interesse.
Per quanto riguarda la scadenza del 31.01.2020 e alle modalità di
trasmissione del file relativo alle informazioni del 2019, si rinvia alle
nuove modalità pubblicate sul sito dell’ANAC al
seguente link.
---------------
[1] Con riferimento ai procedimenti di cui al comma 16, lettera b), del
presente articolo, le stazioni appaltanti sono in ogni caso tenute a
pubblicare nei propri siti web istituzionali: la struttura proponente;
l’oggetto del bando; l’elenco degli operatori invitati a presentare offerte;
l’aggiudicatario; l’importo di aggiudicazione; i tempi di completamento
dell’opera, servizio o fornitura; l’importo delle somme liquidate. Le
stazioni appaltanti sono tenute altresì a trasmettere le predette
informazioni ogni semestre alla commissione di cui al comma 2. Entro il 31
gennaio di ogni anno, tali informazioni, relativamente all’anno precedente,
sono pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un
formato digitale standard aperto che consenta di analizzare e rielaborare,
anche a fini statistici, i dati informatici. Le amministrazioni trasmettono
in formato digitale tali informazioni all’Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, che le pubblica nel
proprio sito web in una sezione liberamente consultabile da tutti i
cittadini, catalogate in base alla tipologia di stazione appaltante e per
regione.
[2]
pagina web linkata
[3]
pagina web linkata (15.01.2020 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
Personale di questo Comune chiede di conoscere il regime delle graduatorie
dei pubblici concorsi a seguito delle novità normative introdotte dalla
legge di bilancio 2020.
In particolare, esiste ancora il divieto di utilizzo per posti diversi da
quelli messi a concorso per le graduatorie dal 2019?
La legge di bilancio 2020 (L. 27.12.2019, n. 160) ha introdotto delle novità
rispetto alla disciplina limitativa introdotta con la L. 30.12.2018, n. 145.
Il comma 147 dell'art. 1 ha previsto che le amministrazioni possano "utilizzare
le graduatorie dei concorsi pubblici, fatti salvi i periodi di vigenza
inferiori previsti da leggi regionali, nel rispetto dei seguenti limiti:
a) le graduatorie approvate nell'anno 2011 sono utilizzabili fino
al 30.03.2020 previa frequenza obbligatoria, da parte dei soggetti inseriti
nelle graduatorie, di corsi di formazione e aggiornamento organizzati da
ciascuna amministrazione, nel rispetto dei princìpi di trasparenza,
pubblicità ed economicità e utilizzando le risorse disponibili a
legislazione vigente, e previo superamento di un apposito esame-colloquio
diretto a verificarne la perdurante idoneità;
b) le graduatorie approvate negli anni dal 2012 al 2017 sono
utilizzabili fino al 30.09.2020;
c) le graduatorie approvate negli anni 2018 e 2019 sono
utilizzabili entro tre anni dalla loro approvazione".
Il successivo comma ha disposto la abrogazione dei commi da 361 a 362-ter e
il comma 365 dell'art. 1, L. 30.12.2018, n. 145, sono abrogati.
Fra le disposizioni abrogate vi è quella contenente l'inciso per cui le
graduatorie "sono utilizzate esclusivamente per la copertura dei posti
messi a concorso nonché di quelli che si rendono disponibili, entro i limiti
di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando il numero
dei posti banditi e nel rispetto dell'ordine di merito, in conseguenza della
mancata costituzione o dell'avvenuta estinzione del rapporto di lavoro con i
candidati dichiarati vincitori", con cioè determinando il ripristino
delle possibilità di utilizzo delle graduatorie ante riforma.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 27.12.2019, n. 160, art.
1, comma 147 - L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 148 - L. 27.12.2019, n.
160, art. 1, comma 149 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 361 - L.
30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma
362-bis - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362-ter - L. 30.12.2018, n.
145, art. 1, comma 365
(15.01.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quote rosa nelle giunte. Anche negli enti
sotto i 3.000 abitanti. Assessori esterni al consiglio per garantire la
parità di genere
I comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti
sono tenuti al rispetto delle quote rosa nella composizione delle rispettive
giunte?
Il comma 137 della legge n. 56/2014 dispone che «nelle giunte dei comuni
con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere
rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico».
Per quanto concerne i comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti,
occorre tenere conto che ai sensi dell'art. 6, comma 3, del decreto
legislativo n. 267/2000, come modificato dalla legge n. 215/2012, è previsto
che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare
condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza
di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del
comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi
dipendenti.
L'art. 2, comma 1, lett. b), della stessa legge n. 215/2012 ha modificato
l'art. 46, comma 2, del Tuel disponendo che il sindaco ed il presidente
nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del
principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di
entrambi i sessi».
La normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come
modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità
costituzionale al principio della promozione della pari opportunità tra
donne e uomini.
Pertanto si ritiene che per i comuni con popolazione inferiore a 3.000
abitanti debbano trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati
articoli 6, comma 3 e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e
nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari
opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto
legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e
dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non
hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a
rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di
pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali.
Per quanto concerne la possibilità di pervenire alla nomina di assessori
esterni, si richiama quanto osservato dalla scrivente amministrazione con
circolare n. 6508 del 24.04.2014, nella quale gli enti locali sono stati
invitati a valutare l'opportunità di procedere alle modifiche statutarie
funzionali alla piena attuazione del principio di parità di genere
introducendo la possibilità di ricorrere alla nomina di assessori privi
dello status di consigliere comunale.
In proposito, risulta che, ai sensi dello statuto del comune che ha
prospettato la questione, è prevista la possibilità di nominare gli
assessori «anche al di fuori dei componenti del Consiglio fra i cittadini in
possesso dei requisiti di compatibilità ed eleggibilità alla carica di
Consigliere comunale». Pertanto, il sindaco dell'ente potrebbe valutare la
possibilità di applicare tale disposizione statutaria al fine di conformare
la composizione della giunta alle previsioni legislative.
Si fa presente, a tale riguardo, che il Tar Abruzzo, con sentenza n. 105 del
2019, ha ritenuto fondato il ricorso avverso un provvedimento di nomina
della giunta in quanto non sarebbe stata effettuata «la necessaria
attività istruttoria volta ad acquisire la disponibilità alla nomina di
persone di sesso femminile anche tra cittadini al di fuori dei componenti
dell'organo consiliare» (articolo ItaliaOggi del
10.01.2020). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità del sindaco.
Nei confronti del sindaco, il cui fratello risulta
appaltatore di lavori di manutenzione di un immobile comunale, si configura
la causa di incompatibilità di cui all’art. 61, comma 1-bis, del D.Lgs.
267/2000 secondo cui “non possono ricoprire la carica di sindaco o di
presidente di provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero
parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive
amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali o
provinciali o in qualunque modo loro fideiussore".
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di una causa di
incompatibilità per il sindaco atteso che suo fratello, titolare di una
ditta individuale, è risultato aggiudicatario di una gara indetta dall’Ente
per l’esecuzione di lavori di manutenzione di un fabbricato di proprietà
comunale.
Con riferimento al quesito posto viene in rilievo la norma di cui
all’articolo 61, comma 1-bis, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
ai sensi della quale: “Non possono ricoprire la carica di sindaco o di
presidente di provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero
parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive
amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali o
provinciali o in qualunque modo loro fideiussore”.
Il Ministero dell’Interno, in un proprio parere
[1], ha rilevato che: “Solo
per coloro che intendono ricoprire la carica di sindaco o di presidente
della provincia, è prevista un'ipotesi d'incompatibilità, specificamente
loro dettata dall'art. 61, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 267/2000, che
impedisce di ricoprire le due cariche a coloro che hanno ascendenti o
discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle
rispettive amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi
comunali. La previsione si aggiunge a quella comune di cui all'art. 63,
comma 1, n. 2, del T.U.O.E.L. e colpisce i citati amministratori anche in
assenza di un vantaggio diretto o indiretto che possa essere imputato loro
personalmente, ma rimanga esclusivo del parente che gestisce l'appalto o il
servizio, a maggior salvaguardia del principio d'imparzialità dell'azione
amministrativa e per porre al riparo coloro che svolgono una pubblica
funzione dal sospetto di essere influenzati da interessi confliggenti con
quelli del comune”
[2].
Attesa la chiarezza del dettato letterale della disposizione in esame, si
ritiene che si configuri l’indicata causa di incompatibilità per il sindaco
il cui fratello (parente in linea collaterale di secondo grado) risulta
appaltatore di lavori di manutenzione di un immobile comunale. Tale
conclusione rimane ferma indipendentemente dalle modalità di svolgimento
della gara, alla quale il fratello poteva, com’è avvenuto, regolarmente
partecipare e prescinde, altresì, dalla considerazione che l’applicazione di
una norma siffatta potrebbe creare, di fatto, seri disagi e difficoltà nel
reperimento di imprese che svolgano determinati lavori o servizi in realtà
comunali dalle ridotte dimensioni demografiche e connotate da una peculiare
posizione geografica.
Per completezza espositiva si ricorda che il comma 1-bis dell’articolo 61 TUEL è stato aggiunto dall’articolo 7, comma 1, lett. b-bis), n. 3), del
decreto legge 29.03.2004, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.05.2004, n. 140, a seguito della dichiarazione di
incostituzionalità, avvenuta con sentenza 31.10.2000, n. 450,
dell’articolo 61, n. 2, TUEL nella parte in cui prevedeva la medesima
fattispecie quale causa generatrice di ineleggibilità alla carica di
sindaco
[3].
---------------
[1] Ministero dell’Interno, parere del 25.05.2010.
[2] Prosegue l’indicato parere rilevando che: “Per tutti gli altri
amministratori non è posta invece analoga disposizione, per cui la
possibilità di conflitto fra gli interessi del consigliere e quelli del
Comune non può essere presunta dall'esistenza di un rapporto di parentela
con l'amministratore di un'impresa che opera in servizi o appalti dell'Ente,
ma va accertata adeguatamente”.
[3] La Corte costituzionale, in altri termini, aveva cancellato
dall’ordinamento una previsione legislativa che aveva finito per considerare
più grave il fatto che il candidato alla carica di sindaco avesse un
rapporto di parentela o affinità con un appaltatore (e, quindi, causa di
ineleggibilità, ex articolo 61, n. 2, TUEL testo precedente) rispetto a
quello di essere egli stesso appaltatore in proprio di lavori o servizi
comunali (e, quindi, causa di incompatibilità, ex articolo 63, comma 1, num.
2, TUEL).
Nel rispetto di quanto deciso dalla Corte Costituzionale è successivamente
intervenuto il decreto legge 80/2004 che ha aggiunto, come sopra già
riportato, il comma 1-bis dopo il comma 1 dell’articolo 61 del D.Lgs.
267/2000 (09.01.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Richiesta di fatturato e obbligo di motivazione.
Domanda
Nel programma biennale delle forniture e servizi, la nostra stazione
appaltante ha previsto l’avvio di una serie di servizi nell’annualità 2020.
I RUP stanno predisponendo gli atti di gara ed in assenza di specifiche
indicazioni ci si interroga sul fatturato che può essere richiesto agli
appaltatori. E’ possibile avere una generale ricognizione in merito?
Risposta
In tema di richiesta di un fatturato specifico (al fine della dimostrazione
dei requisiti di affidabilità economica e finanziaria) dispone il comma 4
dell’articolo 83 del codice dei contratti, nel caso di specie la lettera a)
in cui si prevede che le stazioni appaltanti, nel bando di gara, possono
richiedere che “gli operatori economici abbiano un fatturato minimo
annuo, compreso un determinato fatturato minimo nel settore di attività
oggetto dell’appalto”.
La disciplina sul tema è completata dal successivo quinto comma in cui
–primo periodo (limitando l’analisi)- chiarisce che “Il fatturato minimo
annuo (…) non può comunque superare il doppio del valore stimato
dell’appalto, calcolato in relazione al periodo di riferimento dello stesso,
salvo in circostanze adeguatamente motivate relative ai rischi specifici
connessi alla natura dei servizi e forniture, oggetto di affidamento. La
stazione appaltante, ove richieda un fatturato minimo annuo, ne indica le
ragioni nei documenti di gara”.
Dalla disposizione ultima riportata emerge che sul RUP grava un doppio onere
motivazionale, il primo nel caso in cui venga indicato un fatturato minimo
annuo, il secondo –ben più intenso– nel caso in cui il fatturato richiesto
superi il doppio del valore stimato dell’appalto.
Alla luce di quanto, il primo suggerimento, ovvio, è che si rispettino le
indicazioni cogenti del dettato normativo e che il fatturato richiesto non
superi mai il doppio del valore dell’appalto salvo che insistano
oggettivamente motivazioni specifiche. Ciò appare ovvio perché, francamente,
appare anche difficile trovare motivazioni –che, si ripete, devono essere
esplicitate nel bando di gara– che giustifichino la richiesta di un
fatturato “eccessivo”.
In tema si può anche richiamare il recente intervento dell’ANAC espresso con
il parere n. 1046/2019.
Anche l’autorità anticorruzione ribadisce che in base al chiaro dettato
normativo, pur vero che le stazioni appaltanti “possono richiedere, a
dimostrazione della solidità economico-finanziaria degli operatori, un
importo di fatturato minimo annuo e di fatturato minimo specifico non
superiore al doppio dell’importo posto a base di gara” ma “va
sottolineato”, prosegue la deliberazione “che, in ogni caso, detta
richiesta deve essere sempre accompagnata da una specifica motivazione”.
Inoltre “nell’ipotesi in cui l’importo richiesto superi il doppio
dell’importo posto a base di gara", come previsto dalla norma e chiarito
dal Consiglio di Stato, è necessario che siano fornite “motivazioni
relative a rischi specifici connessi alla natura dei servizi e forniture,
oggetto di affidamento” (Cons. Stat., sez. III, 19.01.2018, n. 357).
Nel caso trattato dall’autorità anticorruzione dette motivazioni erano del
tutto generiche e sono apparse limitative della libera concorrenza,
pertanto, nel parere il procedimento avviato dalla stazione appaltante è
stato considerato non conforme al dettato normativo.
A nulla, tra l’altro, è valso il richiamo –da parte della stazione
appaltante interessata– che il fatturato richiesto facesse riferimento non a
servizi identici ma a servizi analoghi (a dimostrare la volontà di non
limitare la concorrenza). Queste “aperture” non esonerano il RUP dal
chiarire, fin dall’avvio della procedura, la motivazione che induce a
richiedere un fatturato superiore al doppio rispetto al valore della base
d’asta (08.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Misure da adottare nel caso di indagini penali a carico di propri dipendenti.
Domanda
Il dirigente dell’ufficio contratti e un dipendente dello stesso ufficio
sono indagati rispettivamente per abuso d’ufficio e corruzione. Vorrei saper
cosa deve fare l’Amministrazione e, in particolare, il Responsabile della
Prevenzione della Corruzione
Risposta
Premesso che il verificarsi di un episodio di malamministrazione
potenzialmente configurabile come fatto penalmente rilevante, impone al RPCT
una riflessione di carattere generale circa l’adeguatezza delle misure di
prevenzione della corruzione nell’area a rischio “contratti”, la
prima valutazione che l’Amministrazione si trova a compiere è quella
relativa all’opportunità/obbligo di procedere al trasferimento del
dipendente ad altro incarico.
Si tratta della misura cosiddetta della rotazione straordinaria. È bene
chiarire, innanzitutto, che si sta parlando di una misura preventiva,
cautelare e non sanzionatoria. Il dipendente su cui grava il sospetto di una
condotta di natura corruttiva viene rimosso dall’ufficio in cui presta
l’attività, al fine di prevenire il danno all’immagine di imparzialità
dell’Amministrazione.
Per capire se sussista un obbligo di provvedere in tal senso o se, invece,
si tratti di una misura facoltativa, occorre analizzare la normativa (art.
3, comma 1, della legge 27.03.2001, n. 97 e art. 16, c. 1, lettera l-quater
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165) e le indicazioni ANAC, contenute
nella delibera n. 215 del 26.03.2019.
Inoltre, occorre compiere i necessari distinguo in ragione sia del diverso
inquadramento dei dipendenti che della natura dei delitti di cui sono
indagati.
L’art. 3, comma 1, della legge 97/2001, disciplina il trasferimento del
dipendente per il quale è disposto il giudizio per alcuni dei delitti
previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater
e 320 del codice penale.
Per come è formulata la disposizione “… lo trasferisce ad ufficio
diverso…” la misura è da intendersi come obbligatoria, al momento in cui
il dipendente è rinviato a giudizio per uno dei reati indicati, tra i quali
è contemplata la corruzione ma non l’abuso d’ufficio.
L’art. 16, comma 1, lettera l-quater, del d.lgs. 165/2001, contempla, tra i
compiti e i poteri dei dirigenti generali, il monitoraggio “delle
attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte
nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la
rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o
disciplinari per condotte di natura corruttiva”.
Tale disposizione è evidentemente meno precisa, sia in ordine alla natura
del reato di cui è sospettato il dipendente che al momento del procedimento
penale in cui occorre intervenire.
Nell’aggiornamento al PNA del 2018 [1],
l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) interpretava la norma in maniera
restrittiva sul piano del momento rilevante per applicare la rotazione
straordinaria, individuandolo nella richiesta di rinvio a giudizio formulata
dal pubblico ministero al termine delle indagini preliminari.
Successivamente, con la delibera n. 215 del 26.03.2019, l’ambito di
applicazione della rotazione straordinaria si è esteso, anticipando il
momento dell’adozione della misura cautelare a quello in cui il soggetto
viene iscritto nel registro delle notizie di reato, di cui all’art. 355
c.p.p. sulla considerazione che il termine “procedimento penale”
comprende, anche, la fase delle indagini preliminari.
In merito alla nozione di “condotta di natura corruttiva” invece, l’ANAC
precisa nella citata delibera i reati per i quali la misura è obbligatoria
(esempio: corruzione), distinguendoli dagli altri delitti contro la P.A.
(abuso d’ufficio) per i quali è, evidentemente, facoltativa.
È necessario, pertanto, che non appena l’Amministrazione venga a conoscenza
di indagini penali a carico di un dipendente, acquisisca le informazioni
utili a valutare se e come applicare la rotazione straordinaria.
Nella valutazione si deve tener conto della gravità delle imputazioni e
dello stato degli accertamenti compiuti dall’autorità giudiziaria. In ogni
caso, ciò che l’ANAC raccomanda è di adottare comunque un provvedimento in
cui si dia conto dell’applicazione o meno della misura e di motivarlo
adeguatamente.
Con riferimento al caso proposto, pertanto, si potrebbero fare valutazioni
diverse in relazione alla tipologia di reato di cui sono sospettati (abuso
d’ufficio e corruzione) e tenere conto della fase del procedimento penale.
Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione (RPCT) deve, inoltre,
segnalare la questione al Responsabile dell’Ufficio Procedimenti
disciplinari (UPD), al quale spetta l’avvio del procedimento disciplinare,
con l’eventuale sospensione, in attesa della definizione del procedimento
penale, secondo le disposizioni previste, da ultimo, nell’articolo 62 del
CCNL Funzioni locale del 21.05.2018.
In ragione della prosecuzione del procedimento, dell’eventuale rinvio a
giudizio e dell’esito del processo penale, la valutazione in merito alle
misure da adottare dovrà essere ripetuta. Inoltre per il dirigente occorre
valutare, nel caso di sentenza di condanna, le conseguenze in termini di
inconferibilità, ai sensi dell’art. 3, del decreto legislativo 08.04.2013,
n. 39.
----------------
[1] Delibera ANAC n. 1074 del 13/11/2018 (07.01.2020 - tratto
da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Paletti alle registrazioni.
Non esiste un diritto a filmare le sedute. Il presidente del consiglio
valuta caso per caso. Necessario un regolamento.
È
possibile registrare e diffondere le immagini delle sedute di consiglio
comunale pur in assenza di apposita previsione regolamentare, riconoscendo
poteri autorizzativi al presidente del consiglio?
Il vigente ordinamento conferisce al consiglio comunale autonomia funzionale
e organizzativa (art. 38, comma 3, Tuel) entro la quale si riconduce la
potestà di regolare, con apposite norme, ogni aspetto attinente al
funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del
dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici
di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale che da
parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che
assistono alla sedute pubbliche.
In questo quadro di riferimento, norme interne possono regolare, pertanto,
nell'ambito della disciplina dello svolgimento delle adunanze, anche la
registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi; ciò sia
per gli uffici di supporto alla verbalizzazione (art. 97, comma 4, lett. a)
del decreto legislativo n. 267/2000), che per i consiglieri e i cittadini che
assistono alla seduta; lo stesso regolamento può riservare
all'amministrazione il compito di registrare le sedute con mezzi audiovisivi
escludendo da tale possibilità altri soggetti.
La pubblicità delle sedute non implica, infatti, la facoltà di registrazione
ma la libera presenza di chi abbia interesse ad assistervi (v. sentenza
della Corte di cassazione, sez. I, n. 5128/2001 ove si afferma la
legittimità di un regolamento consiliare che vieta di introdurre nella sala
del consiglio apparecchi di riproduzione audiovisiva, se non previa
autorizzazione).
La giurisprudenza (in particolare, la sentenza n. 826 del 16/03/2010 del Tar
per il Veneto) afferma che in assenza di un'apposita disciplina
regolamentare adottata dall'ente, non possono essere garantiti i diritti
previsti dal codice sul trattamento dei dati personali di cui al dlgs 196
del 2003 e successive modifiche, non essendo consentito al
sindaco-presidente estemporanei assensi, alla videoregistrazione.
È stato ritenuto, invece, immediatamente concedibile da parte del presidente
del consiglio comunale, nei confronti di emittenti televisive nazionali e
locali l'autorizzazione a riprendere, in via non sistematica, gratuitamente
e senza diritti di esclusiva, talune brevi fasi delle sedute del consiglio
comunale in quanto da tale autorizzazione non conseguono obblighi di sorta
per l'amministrazione comunale quale «titolare» o «responsabile» del
trattamento dei personali.
Non sussiste, quindi, un autonomo e indiscriminato diritto a procedere alla
registrazione che consenta di superare gli eventuali divieti posti
dall'amministrazione.
Sulla materia, anche il Garante per la protezione dei dati personali con
nota del 23.04.2003 ha ritenuto che l'amministrazione comunale possa,
con apposita norma regolamentare, porre delle condizioni e dei limiti alle
riprese ed alla diffusione televisiva delle riunioni del consiglio comunale,
prevedendo, in quella sede, l'onere di informare preventivamente i presenti
nell'aula consiliare dell'esistenza delle telecamere e della successiva
diffusione delle immagini, ovvero il divieto di divulgare informazioni sullo
stato di salute, nonché le ipotesi in cui eventualmente limitare le riprese
per assicurare la riservatezza dei soggetti presenti o oggetto del
dibattito.
Con precedenti pareri, questo ministero aveva ritenuto la possibilità per il
presidente del consiglio di regolare e valutare la registrazione caso per
caso, seppur in assenza di espressa previsione regolamentare, nell'esercizio
dei già richiamati poteri di «direzione dei lavori e delle attività del
consiglio», di cui all'art. 39, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000
in stretta correlazione alle esigenze di ordinato svolgimento dell'attività
consiliare ed in relazione all'oggetto dei lavori previsti all'ordine del
giorno.
Tuttavia alla luce anche degli orientamenti giurisprudenziali e del Garante
per la protezione dei dati personali, si ritiene, invece, opportuno un
approfondimento della problematica che non può non condurre alla necessità
della previa adozione di norme regolamentari entro le quali il Presidente
può esercitare le proprie prerogative (articolo ItaliaOggi del 03.01.2020). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Pubblicazione provvedimenti attributivi vantaggi economici su
“Amministrazione trasparente”.
Il D.Lgs. n. 33/2013 prevede, per finalità di
trasparenza, l’obbligo di pubblicazione nella sezione “Amministrazione
trasparente” degli atti di concessione di vantaggi economici di qualunque
genere erogati in favore di soggetti pubblici o privati di importo superiore
a mille euro.
Sotto il profilo dei rapporti tra trasparenza e privacy, il D.Lgs. n.
33/2013 rappresenta la base giuridica per la diffusione di dati necessari
per compiti di interesse pubblico o connessi all’esercizio di pubblici
poteri, la quale, secondo la normativa in materia di tutela dei dati
personali, può essere solo la legge ovvero, nei casi previsti dalla legge,
il regolamento (art. 6, Regolamento (UE) n. 679/2016; art. 2-ter, D.Lgs. n.
196/2003, come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018).
Peraltro, la presenza di un obbligo di legge, che imponga la pubblicazione
sui siti web per finalità di trasparenza, non esime dal rispetto dei
principi generali applicabili al trattamento dei dati personali, contenuti
nell’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016, che, in particolare, esprime
il principio di minimizzazione dei dati - rilevante in ordine
all’individuazione dei dati da diffondere - secondo cui i dati personali
devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto
alle finalità per le quali sono trattati.
Il Comune chiede un parere in ordine alla pubblicità da dare ai
provvedimenti di concessione di vantaggi economici a privati, non correlati
–specifica– ad uno stato di disagio economico-sociale. In particolare, il
Comune chiede quali dati vadano pubblicati, avuto riguardo alla normativa in
tema di trasparenza e privacy, e con quali mezzi dare pubblicità.
L’art. 12, c. 1, L. n. 241/1990, prevede che “La concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati
sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni
procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e
delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”
[1].
Con riferimento a detta norma, la giurisprudenza ha più volte affermato che
qualsiasi genere di sovvenzione, contributo o sussidio a soggetti privati o
pubblici deve essere preceduto dalla predeterminazione e dalla pubblicazione
da parte delle pp.aa. procedenti dei criteri e delle modalità cui le stesse
si dovranno attenere, al fine di soddisfare le esigenze di trasparenza e di
imparzialità dell’azione amministrativa, nell’assegnare vantaggi economici
ai soggetti amministrati
[2].
Un tanto premesso e venendo agli aspetti rilevati dall’Ente, si esprimono
alcune considerazioni in relazione agli obblighi di pubblicazione previsti
dal D.Lgs. n. 33/2013 per i provvedimenti di concessione di vantaggi
economici, di cui all’art. 12, L. n. 241/1990, e a come gli stessi debbano
rapportarsi con la normativa in materia di protezione dei dati personali
delle persone fisiche, di cui al Regolamento (UE) n. 679/2016.
In particolare, l’art. 26, c. 2, del D.Lgs. n. 33/2013 stabilisce l’obbligo
di pubblicazione degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi,
sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere erogati
in favore di soggetti pubblici o privati di importo superiore a mille euro.
Il successivo art. 27 stabilisce le informazioni che devono essere
pubblicate, tra cui: il nome del soggetto beneficiario, l’importo del
vantaggio, il titolo giuridico dell’attribuzione, la modalità seguita per
l’individuazione del beneficiario (comma 1). Dette informazioni sono
riportate nell’ambito della sezione “Amministrazione trasparente” (comma 2)
[3].
Pertanto, in relazione al quesito dell’ente circa la modalità di
pubblicazione dei provvedimenti di cui si tratta, si osserva che per
espressa previsione di legge, gli obblighi di pubblicazione relativi ai
provvedimenti di attribuzione di vantaggi economici sono adempiuti
attraverso il sito istituzionale della p.a., nella sezione “Amministrazione
trasparente”
[4].
Naturalmente –in relazione alla tematica dei rapporti tra trasparenza e
privacy– per gli obblighi di pubblicazione nei siti istituzionali della p.a.
previsti dalla normativa vigente per finalità di trasparenza vale il
principio per cui la pubblicazione deve avvenire nel rispetto dei limiti
alla trasparenza posti dalle norme sulla protezione dei dati personali delle
persone fisiche, di cui al Regolamento (UE) n. 679/2016.
Per meglio chiarire, va fatta una necessaria premessa: l’art. 6 (Liceità del
trattamento), par. 3, del Regolamento comunitario, prevede che la base su
cui si fonda il trattamento dei dati necessari per l’esecuzione di un
compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri
deve essere stabilita dal diritto dell’Unione o dal diritto dello Stato
membro cui è soggetto il titolare del trattamento.
In attuazione di tale previsione, il legislatore italiano, con l’art. 2-ter
[5], c. 1, del D.Lgs. n. 196/2003 (inserito dal D.Lgs. n. 101/2018),
introducendo le “disposizioni più specifiche per adeguare l'applicazione
delle norme” del regolamento (art. 6, par. 2, Regolamento comunitario),
ha stabilito che la base giuridica prevista per il trattamento di dati
necessari per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso
all’esercizio di pubblici poteri possa essere solo la legge ovvero, nei casi
previsti dalla legge, il regolamento (c. 1).
Inoltre, il medesimo art. 2-ter, tra le modalità di trattamento, ha definito
diffusione “il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati,
in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o
consultazione”.
Il complesso delle disposizioni del D.Lgs. n. 33/2013 che impongono obblighi
di pubblicazione costituisce la base giuridica per la diffusione di dati
personali per compiti di interesse pubblico o connessi all’esercizio di
pubblici poteri.
Peraltro, la presenza di un obbligo di legge, che imponga la pubblicazione
sui siti web per finalità di trasparenza, non esime dal rispetto dei
principi generali applicabili al trattamento dei dati personali, oggi
contenuti nell’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016
[6].
In particolare, viene in considerazione il principio di minimizzazione dei
dati, di cui all’art. 5, par. 1, lett. c), secondo il quale i dati personali
devono essere “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario
rispetto alle finalità per le quali sono trattati”
[7], e che rileva in
ordine all’individuazione dei dati da diffondere
[8].
A tal proposito e in relazione alla domanda del Comune su quali dati vadano
pubblicati, il Garante della privacy ha affermato che non risulta
giustificato diffondere, tra l’altro, dati quali, ad esempio, l’indirizzo di
abitazione o la residenza, il codice fiscale di persone fisiche, le
coordinate bancarie dove sono accreditati i contributi o i benefici
economici (codici IBAN), la ripartizione degli assegnatari secondo le fasce
dell’indicatore della situazione economica equivalente-Isee, l’indicazione
di analitiche situazioni reddituali, di condizioni di bisogno o di peculiari
situazioni abitative
[9].
Con specifico riferimento all’operatività dell’obbligo di pubblicazione di
cui agli artt. 26 e 27, D.Lgs. n. 33/2013, il Garante ha affermato che detta
normativa prevede la pubblicazione obbligatoria dei soli nominativi dei
soggetti destinatari di un contributo di natura economica superiore a mille
euro
[10]. Di conseguenza, vanno oscurati i dati identificativi eccedenti,
che non è giustificato diffondere, indicati sopra.
Infine –pur preso atto della precisazione dell’Ente sulla non afferenza dei
provvedimenti di cui si tratta a situazioni di disagio economico e/o sociale
dei destinatari– si richiama comunque l’attenzione sulle indicazioni del
Garante secondo cui, qualora siano state formate graduatorie di ordine di
priorità degli aventi diritto sulla base del reddito, andranno oscurati
dagli elenchi pubblicati i dati personali dei soggetti la cui collocazione
(nei primi posti) potrebbe rivelare situazioni di disagio economico
[11].
---------------
[1] L’art. 26, c. 1, D.Lgs. n. 33/2013, impone la pubblicazione degli atti
con i quali sono determinati, ai sensi dell’art. 12, L. n. 241/1990, i
criteri e le modalità cui le amministrazioni devono attenersi per la
corresponsione di vantaggi economici.
[2] Cfr. Cons. St., sez. V, 23.03.2015, n. 1552; si veda anche: TAR Lazio
Roma, sez. II-quater, 13.01.2017, n. 622, secondo cui i principi in materia
di sovvenzioni pubbliche posti dall’art. 12, L. n. 241/1990, implicano il
rispetto della par condicio tra i possibili destinatari; TAR Liguria Genova,
sez. II, 15.02.2012, n. 293, secondo cui la pubblicazione, oltre a
soddisfare esigenze di trasparenza ed imparzialità, offre saldo appiglio
normativo per ritenere immediatamente impugnabili i criteri in forza dei
quali l’amministrazione ripartisce le risorse.
[3] Il comma 4 dell’art. 26 del D.Lgs. n. 33/2013 esclude la pubblicazione
dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti
di concessione dei benefici economici, qualora gli atti e i documenti da
pubblicare siano idonei a disvelare informazioni relative allo stato di
salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli
interessati.
Su questo aspetto –che l’Ente precisa non interessare il caso di specie– si
rinvia alla lettura della nota di questo Servizio
prot. n. 3221/2019.
[4] Ai sensi dell’art. 9, D.Lgs. n. 33/2013, ai fini della piena
accessibilità delle informazioni pubblicate, nella home page dei siti
istituzionali è collocata un’apposita sezione denominata “Amministrazione
trasparente”, al cui interno sono contenuti i dati, le informazioni e i
documenti pubblicati ai sensi della normativa vigente.
[5] Rubricato “Base giuridica per il trattamento di dati personali
effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso
all’esercizio di pubblici poteri”.
[6] Cfr. Andrea d’Agostino, Luca R. Barlassina, Vincenzo Colarocco,
Commentario al Regolamento UE 2016/679 e al Codice della privacy aggiornato,
TopLegal Academy, 2019, p. 76.
[7] Sul piano dell’ordinamento interno, è espressione del principio di
minimizzazione l’art. 7-bis del D.Lgs. n. 33/2013, il quale, in tema di
pubblicazione di dati personali nella sezione “Amministrazione trasparente”
di siti delle amministrazioni pubbliche, prevede al c. 4, che “Nei casi in
cui norme di legge o di regolamento prevedano la pubblicazione di atti o
documenti, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non
intelligibili i dati personali non pertinenti o, se sensibili o giudiziari,
non indispensabili rispetto alle specifiche finalità di trasparenza della
pubblicazione”.
In materia di tutela dei dati personali, assume altresì rilievo il principio
di limitazione della conservazione, correlato, come quello della
minimizzazione, alle finalità del trattamento (cfr. Andrea d’Agostino, Luca
R. Barlassina, Vincenzo Colarocco, op. cit., pp. 58 e 77).
In proposito, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione,
sentenza del 13.05.2014, n. 131, ha rilevato che l’illiceità del trattamento
“può derivare non soltanto dal fatto che tali dati siano inesatti, ma anche
segnatamente dal fatto che essi siano inadeguati, non pertinenti o eccessivi
in rapporto alle finalità del trattamento, che non siano aggiornati, oppure
che siano conservati per un arco di tempo superiore a quello necessario” (v.
in particolare i punti 92 e seguenti).
Questi principi sono stati ribaditi dalla Corte costituzionale, sentenza
21.02.2019, n. 20, la quale ha affermato che i principi di derivazione
europea “sanciscono l’obbligo, per la legislazione nazionale, di rispettare
i criteri di necessità, proporzionalità, finalità, pertinenza e non
eccedenza nel trattamento dei dati personali, pur al cospetto dell’esigenza
di garantire, fino al punto tollerabile, la pubblicità dei dati in possesso
della pubblica amministrazione”.
[8] Andrea d’Agostino, Luca R. Barlassina, Vincenzo Colarocco, op. cit., p.
77.
[9] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento
15.05.2014, n. 243, recante: “Linee guida in materia di trattamento di dati
personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato
per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da
altri enti obbligati”, parte I, par. 9.e.
[10] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento
18.05.2016, n. 228. In quella sede il Garante ha inoltre precisato che va
esclusa –in ogni caso– la diffusione di dati indentificativi (di tutti i
dati identificativi, compreso il nome, n.d.r.) delle persone destinatarie
dei contributi da cui è possibile ricavare informazioni relative alla
situazione di disagio economico (e allo stato di salute).
[11] Cfr. provvedimento del Garante n. 228/2016 cit. (23.12.2019 -
link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI:
Contributo ad un Comitato di Iniziative Locali.
La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed
ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere
a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione
da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai
rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni
stesse devono attenersi.
Ogni “elargizione” di denaro pubblico deve essere, infatti, ricondotta a
rigore e trasparenza procedurale e l’amministrazione agente non può
considerarsi, quindi, operante in piena e assoluta libertà dovendo
rispettare i canoni costituzionali di uguaglianza e i principi stabiliti
negli atti fondamentali dell’ente.
Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di concedere un
contributo straordinario ad un Comitato Iniziative Locali che ha
organizzato, in collaborazione con altre realtà locali, la “festa
dell’Avvento”.
Più in particolare l’Ente riferisce dell’esistenza di una mozione della
minoranza consiliare che propone all’amministrazione comunale di «concedere
un contributo straordinario al CIL (quale Capofila) di € 400,00 per
l’organizzazione della tradizionale giornata “Festa dell’Avvento” in data 08.12.2019», precisando, altresì, “che ciò avvenga
straordinariamente
[1]
(e se tecnicamente possibile) d’Ufficio in deroga alla
procedura del Regolamento sopra citato
[2]”.
Il Comune rileva che l’importo proposto coinciderebbe con la somma versata
dal Comitato per il pagamento della tassa per l’occupazione di spazi ed aree
pubbliche (TOSAP). Si precisa, al riguardo, nella mozione che “tra le voci
di spesa maggiormente impattanti per gli Organizzatori c’è il pagamento a
favore del Comune di XX della Tassa di Occupazione del Suolo Pubblico che
ammonta a € 400,00 circa”.
Da ultimo si chiede, altresì, se, atteso che il Presidente del Comitato in
riferimento è coniuge di un consigliere comunale, si configuri per quest’ultimo
un obbligo di astensione dal partecipare a eventuali sedute consiliari che
riguardassero la fattispecie in oggetto.
Quanto al fatto che l’importo proposto quale entità del contributo
“corrisponda” a quello versato dal Comitato a titolo di TOSAP si rileva come
non sia possibile collegare giuridicamente le due somme trattandosi di
importi afferenti a due titoli giuridici differenti e non “compensabili” tra
loro.
In altri termini, fermo l’avvenuto versamento della tassa per l’occupazione
di spazi ed aree pubbliche, per quanto concerne la possibilità per il Comune
di concedere un contributo per l’iniziativa in oggetto risulta necessario
valutare la normativa di riferimento.
Al riguardo si osserva che la legge 07.08.1990, n. 241
[3]
all’articolo 12
(Provvedimenti attributivi di vantaggi economici) prevede che: “1. La
concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e
l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti
pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle
amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti,
dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1
deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al
medesimo comma 1”.
Il Comune si è dotato di un proprio Regolamento per la concessione di
contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale ad
associazioni, enti, altre istituzioni
[4]
il quale, prevede un procedimento
ad istanza di parte che necessita di una domanda “sottoscritta dal
presidente o dal legale rappresentante dell’ente”
[5]: la richiesta di
contributo, pertanto, pare non poter essere concessa d’ufficio
dall’Amministrazione comunale.
Si consideri, al riguardo, che, come rilevato dalla Corte dei Conti, «il
legislatore ha circondato tale materia di particolari cautele e garanzie procedimentali: ogni “elargizione” di denaro pubblico deve esser infatti
ricondotta a rigore e trasparenza procedurale e l’amministrazione agente non
può considerarsi, quindi, operante in piena e assoluta libertà e, nel caso
specifico, deve rispettare i canoni costituzionali di uguaglianza e i
principi stabiliti negli atti fondamentali dell’Ente»
[6].
Ancora la giurisprudenza contabile ha affermato che: “Le attività di
soggetti terzi possono essere sostenute da un ente locale, laddove
rappresentino una modalità alternativa e mediata di erogazione del servizio
pubblico, siano svolte nell'interesse della comunità e siano ritenute utili
per la stessa -in attuazione, quindi, dell'art. 118 Cost.- fermo restando
lo scrupoloso rispetto delle forme di trasparenza e d'imparzialità, queste
ultime presidiate dalla disciplina ex art. 12, L. n. 241 del 1990 e all'art.
26, D.Lgs. n. 33 del 2013”
[7].
Per completezza espositiva si segnala che il Comitato potrebbe valutare se
vi sia la possibilità di ottenere in altro modo contributi o sovvenzioni a
supporto dell’attività svolta. Al riguardo si rileva che la legge regionale
03.05.2019, n. 7 recante “Misure per la valorizzazione e la promozione
delle sagre e feste locali e delle fiere tradizionali”, all’articolo 4,
prevede che: “1. Al fine di valorizzare e sostenere manifestazioni ed
eventi pubblici e/o di pubblico spettacolo, organizzati da Comuni, Enti
privati, Fondazioni e Associazioni senza fini di lucro, Pro Loco e
Parrocchie, da tenersi in luoghi chiusi o all'aperto, la Regione istituisce
un fondo per l'abbattimento delle spese sostenute dai soggetti organizzatori
per lo svolgimento dell'evento finanziato e finalizzate:
a) all'assistenza tecnica necessaria per la presentazione della
documentazione richiesta dalla legge;
b) all'acquisto di attrezzature o materiali necessari a garantire
le normative in materia di sicurezza e salute;
c) all'acquisto di allestimenti;
d) all'acquisizione di servizi o al noleggio di allestimenti
necessari a garantire le normative in materia di sicurezza e salute ovvero
la copertura di oneri assicurativi.
2. Per le finalità di cui al comma 1, la Regione riconosce in favore dei
soggetti organizzatori un contributo annuo fino ad un importo massimo di
3.000 euro, indipendentemente dal numero di eventi o manifestazioni da essi
organizzati nel corso dell'anno.
3. Il contributo di cui al presente articolo è concesso anche in favore
degli eventi e delle manifestazioni di cui all'articolo 2.
4. Per l'erogazione dei contributi di cui al presente articolo, la struttura
competente è quella in materia di Autonomie locali e sicurezza”.
Come specificato sul sito internet della Regione Friuli Venezia Giulia
[8]
“la domanda di contributo deve essere presentata a posteriori, quindi per
eventi già realizzati. La concessione del contributo è disposta secondo
l'ordine cronologico di presentazione delle domande medesime”.
Sarà cura del Comitato, nel caso intenda valutare la possibilità di
ottenimento di un contributo per l’attività svolta, assumere ogni altra
informazione necessaria ai fini della presentazione della domanda nel
rispetto delle condizioni richieste dalla legge e dall’Avviso pubblicato sul
sito istituzionale della Regione Friuli Venezia Giulia cui si rinvia
[9].
Con riferimento all’ultima questione posta, relativa alla sussistenza o meno
di un obbligo di astensione per il consigliere comunale che è coniuge del
Presidente del Comitato dal prendere parte alla discussione ed alla
votazione di delibere vertenti sulla fattispecie in riferimento, si ritiene
che, qualora il consiglio comunale si pronunciasse sulla questione in
essere, verrebbe in rilievo il disposto di cui all’articolo 78, comma 2, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale recita: “Gli
amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, devono astenersi dal
prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo
di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere
generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e
specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado”.
Come rilevato dalla giurisprudenza, «l'obbligo di astensione per
incompatibilità del consigliere comunale, [è] espressione del principio
generale di imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni
Pubblica Amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora
che la propria azione»
[10]. Ancora, si è affermato che: «L'obbligo di
astensione degli amministratori locali costituisce principio di carattere
generale ex art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti locali), che
non ammette deroghe o eccezioni, ricorrendo ogni qualvolta sussista una
correlazione diretta fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della
deliberazione, anche se la votazione potrebbe non avere altro apprezzabile
esito e la scelta fosse in concreto la più utile e opportuna per l'interesse
pubblico.»
[11]
Alla base della scelta legislativa che impone l’obbligo di astensione per le
deliberazioni riguardanti questioni per le quali potrebbe esservi un
interesse personale degli amministratori o dei loro parenti o affini sino al
quarto grado (tra cui rientrerebbe il coniuge) “non è la sfiducia sulle
capacità del singolo consigliere di saper decidere anche contro il proprio
personale interesse, ma piuttosto la convinzione che il soggetto, al quale è
affidata la cura di un interesse pubblico, deve essere posto in condizione
di operare senza condizionamenti di sorta, realizzabili evidentemente anche
attraverso la mera presenza dell’interessato nell’aula del Consiglio”
[12].
---------------
[1] Si precisa che, secondo quanto contenuto nel Regolamento per la
concessione di contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale
ad associazioni, enti, altre istituzioni dell’Ente il concetto di
straordinarietà è riferito alla possibilità di concedere contributi per
iniziative intraprese da soggetti ulteriori rispetto alle associazioni
locali, in deroga ai requisiti di ammissibilità di cui all’articolo 4 del
regolamento medesimo oppure, in altra accezione, alle domande di contributo
“per manifestazioni e iniziative di particolare rilevanza, che hanno
carattere straordinario e non ricorrente”.
Il contributo in oggetto non rientra in nessuna delle due tipologie sopra
descritte: non nella prima atteso che il Comitato organizzatore dell’evento
possiede, a quanto risulta, i requisiti di cui all’articolo 4, primo comma,
n. 1 del regolamento comunale; non nella seconda trattandosi di un
contributo ricorrente: nella mozione si legge, infatti, che «nella giornata
dell’8 dicembre, com’è ormai consolidata tradizione da qualche anno, il CIL
[…], con la collaborazione del […] hanno organizzato la “Festa
dell’Avvento”».
[2] Trattasi, come specificato, del Regolamento per la concessione di
contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale ad
associazioni, enti, altre istituzioni.
[3] Recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi”.
[4] Sia per attività ordinarie che per singole iniziative.
[5] Articolo 7, primo comma, del Regolamento per la concessione di
contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale ad
associazioni, enti, altre istituzioni.
[6] Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere n.
260 del 20.04.2016.
[7] Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
deliberazione n. 146 del 17.04.2019.
[8] Si rinvia al
seguente link relativo a “Contributi per il sostentamento delle
spese di assistenza tecnica e acquisizione di servizi (art. 4 l.r. 7/2019).
[9] Si veda il link indicato in nota 8.
[10] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.09.2014, n. 4806.
[11] TAR Calabria, Reggio Calabria, sentenza del 09.01.2014, n. 18.
[12] TAR Toscana, Sez. I, sentenza del 06.06.2007, n. 830 (20.12.2019
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SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Progressioni economiche orizzontali / In data
31.12.2018, un ente ha sottoscritto il contratto integrativo, prevedendo
l’attivazione della progressione economica orizzontale con decorrenza
01.06.2018.
Alla luce di quanto previsto dall’art. 16, comma 7, del CCNL delle Funzioni
locali tale decorrenza può ritenersi corretta, anche se il procedimento per
l’attribuzione delle progressioni economiche orizzontali, con l’approvazione
della relativa graduatoria, si è concluso nel 2019?
Come espressamente stabilito dall’art. 16, comma 7, del CCNL delle Funzioni
Locali del 21.05.2018, l’attribuzione della progressione economica
orizzontale non può avere decorrenza anteriore al 1° gennaio dell’anno nel
quale viene sottoscritto il contratto integrativo che prevede l’attivazione
dell’istituto, con la previsione delle necessarie risorse finanziarie.
Conseguentemente, se il contratto integrativo che prevede le nuove
progressioni economiche è stato sottoscritto definitivamente, presso l’ente,
comunque nel 2018, le stesse non avrebbero potuto avere decorrenza
antecedente al 01.01.2018 (ma avrebbero potuto avere anche una diversa data
del 2018, successiva al 1° gennaio, che le parti avranno ritenuto opportuno
a tal fine prevedere).
Se, pertanto, nel caso concreto sottoposto, il contratto integrativo
dell’ente è stato sottoscritto in data 31.12.2018, e sulla base degli
accordi in esso contenuti, la decorrenza delle progressioni orizzontali è
stata fissata alla data del 01.06.2018, tale disciplina può ritenersi
coerente con le previsioni del citato art. 16, comma 7, del CCNL del
21.05.2018.
Per completezza, informativa, si ricorda che le posizioni economiche “nuove”
D7, C6, B8 e A6, previste dalla Tabella C allegata al CCNL del 21.05.2018,
non possono avere comunque decorrenza anteriore all’01.04.2018, dato che
esse sono state istituite dalla contrattazione collettiva nazionale solo da
tale data (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 69 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Responsabilità disciplinare / Un dipendente è
stato sospeso dal servizio in via cautelare, ai sensi dell’art. 5, comma 2,
del CCNL dell’11.04.2018. Successivamente, essendo stato lo stesso assolto
con la formula “perché il fatto non sussiste”, il provvedimento è stato
revocato.
Sulla base delle previsioni dell’art. 60, comma 8, del CCNL delle Funzioni
Locali, come deve essere correttamente computato il conguaglio ivi previsto?
In particolare è dovuta anche la retribuzione di posizione in quanto il
dipendente era titolare di posizione organizzativa al momento della
sospensione oppure questa rientra tra le indennità connesse alla presenza in
servizio e, quindi, non deve essere riconosciuta?
In relazione a tale problematica, l’avviso della scrivente Agenzia è nel
senso che la retribuzione di posizione, nella particolare fattispecie
prospettata, debba essere riconosciuta al dipendente interessato.
In proposito, infatti, si osserva che:
a) l’art. 61, comma 8, del CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018 dispone “Nel caso di sentenza penale definitiva di assoluzione
o di proscioglimento, pronunciata con la formula “il fatto non sussiste” o
“l’imputato non lo ha commesso” oppure “non costituisce illecito penale” o
altra formulazione analoga, quanto corrisposto, durante il periodo di
sospensione cautelare, a titolo di indennità, verrà conguagliato con quanto
dovuto al dipendente se fosse rimasto in servizio, escluse le indennità o i
compensi connessi alla presenza in servizio, o a prestazioni di carattere
straordinario...“;
b) dal confronto della suddetta clausola contrattuale con la
precedente disciplina dell’art. 5, comma 9, del CCNL del Comparto delle
Regioni e delle Autonomie Locali dell’11.04.2008 non può non rilevarsi la
mancata reiterazione nel testo della prima del riferimento anche “…ai
compensi comunque collegati…..agli incarichi…”;
c) si tratta di un aspetto importante perché proprio tale
riferimento espresso consentiva di escludere dal conguaglio la retribuzione
di posizione dei titolari di posizione organizzativa;
d) pertanto, in mancanza di tale indicazione formale, non si
ritiene più possibile non riconoscere al dipendente la retribuzione di
posizione; infatti, tale particolare compenso, in considerazione della sua
natura e delle sue caratteristiche legittimanti non può essere ricondotto
tra le indennità connesse alla presenza in servizio che, ai sensi dell’art.
60, comma 8, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, sono escluse dal
conguaglio ivi previsto (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 68 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Ferie e festività / Un dipendente, già in
servizio presso l’ente con inquadramento in un profilo della categoria B,
con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica
B3, è successivamente assunto, presso lo stesso ente, a seguito di
scorrimento di graduatoria di procedura concorsuale, con inquadramento nella
categoria C.
Le ferie residue, maturate nell’anno e non fruite da dipendente quando era
inquadrato nel profilo B, con trattamento stipendiale iniziale
corrispondente alla posizione economica B3, possono essere conservate anche
a seguito della nuova collocazione nella categoria C, in quanto maturate
nella stessa amministrazione?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile
precisare quanto segue:
a) nella fattispecie prospettata, a seguito dell’assunzione
conseguente allo scorrimento della graduatoria vigente di un concorso
pubblico precedentemente da voi bandito, il lavoratore di cui si tratta
instaura con l’Ente un nuovo rapporto di lavoro, diverso per natura e
contenuti, da quello di cui precedentemente era titolare con lo stesso Ente;
b) pertanto, essendosi estinto il precedente rapporto di lavoro,
con il conseguente venir meno, quindi, anche di tutte le situazioni
soggettive che in esso trovavano il proprio fondamento, le ferie maturate e
non fruite nell’ambito di questo non possono essere trasportate e fruite
nell’ambito del nuovo rapporto di lavoro;
c) la trasposizione delle ferie maturate e non fruite presso il
vostro sarebbe stato possibile solo nel caso di un processo di mobilità, ai
sensi dell’art. 30 del D.Lgs. n. 165/2001;
d) infatti, in questa ipotesi, non vi è costituzione di un nuovo
rapporto di lavoro, ma la continuazione del precedente rapporto, con i
medesimi contenuti e caratteristiche, con un nuovo datore di lavoro;
e) l’art. 5, comma 8, della legge n. 135/2012 ha disposto il divieto di
monetizzazione delle ferie non godute dei pubblici dipendenti, salvo i
limitati casi in cui questa possa ritenersi ancora possibile sulla base
delle citate previsioni legislative e delle indicazioni fornite dal
Dipartimento della Funzione Pubblica con le note n. 32937 del 06.08.2012 e
n. 40033 dell’08.10.2012.
In tal senso, si richiamano anche alcune recenti indicazioni contrattuali:
1) la disposizione dell’art. 28, comma 11, del CCNL delle Funzioni
Locali del 21.05.2018, secondo la quale: “11. Le ferie maturate e non
godute per esigenze di servizio sono monetizzabili solo all’atto della
cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti delle vigenti norme di legge
delle relative disposizioni applicative.”;
2) la Dichiarazione congiunta n. 1, allegata al medesimo CCNL del
21.05.2018, che espressamente recita: “In relazione a quanto previsto
dall’art. 28, comma 11, le parti si danno reciprocamente atto che, in base
alle circolari applicative emanate in relazione all’art. 5, comma 8, del
D.L. n. 95 convertito nella legge n. 135 del 2012 (MEF-Dip. Ragioneria
Generale Stato prot. 77389 del 14.09.2012 e prot. 94806 del 09.11.2012-Dip.
Funzione Pubblica prot.32937 del 06.08.2012 e prot. 40033 dell’08.10.2012),
all’atto della cessazione del servizio le ferie non fruite sono
monetizzabili solo nei casi in cui l’impossibilità di fruire delle ferie non
è imputabile o riconducibile al dipendente come nelle ipotesi di decesso,
malattia e infortunio, risoluzione del rapporto di lavoro per inidoneità
fisica permanente e assoluta, congedo obbligatorio per maternità o paternità"
(orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 67 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Malattia
/ Un dipendente era in ferie dal 3 al 13 settembre.
In data 13 ha svolto una terapia salvavita presso la struttura ospedaliera,
che ha rilasciato apposita certificazione con la indicazione a penna
“terapia salvavita”.
In tale fattispecie il citato giorno 13 deve essere considerato come giorno
di ferie oppure deve essere ricondotto alle previsioni dell’art. 37 del CCNL
delle Funzioni Locali del 21.05.2018?
In materia, si ritiene opportuno evidenziare che, ai fini dell’interruzione
del godimento delle ferie, l’art. 28, comma 16, del CCNL delle Funzioni
Locali del 21.05.2018, richiede espressamente che intervenga una malattia o
di durata superiore a 3 giorni (quindi almeno 4) o che abbia comportato il
ricovero ospedaliero.
Pertanto, in coerenza con tale disciplina, nel caso in esame, l’effetto
interruttivo potrebbe ritenersi ammissibile solo ove siano presenti tali
presupposti e, quindi, si sia trattato di un giorno di effettivo svolgimento
della terapia salvavita in regime di ricovero ospedaliero, in conformità
alle previsioni dell’art. 37 del medesimo CCNL del 21.05.2018 (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 66 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuova disciplina delle posizioni organizzative /
I compensi previsti dall’art. 1, comma 1091, della legge n. 145/2018
(compensi derivanti dagli accertamenti IMU e TARI) possono essere erogati
anche ai titolari di posizione organizzativa in aggiunta alla retribuzione
di posizione e di risultato?
Relativamente alla particolare
problematica esposta, si ritiene utile precisare quanto segue:
a) l’art. 67, comma 3, lett. c), del CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018 espressamente stabilisce che, all’interno del Fondo, le risorse
variabili possono essere incrementate con quelle derivanti da disposizioni
di legge che prevedano specifici trattamenti economici in favore del
personale, da utilizzarsi secondo quanto previsto dalle medesime
disposizioni di legge;
b) ad avviso della scrivente Agenzia, in tale ampia e generale
indicazione possono essere riportati anche le risorse di cui all’art. 1,
comma 1091, della legge n. 145/2018; infatti, sembrano sussistere entrambi i
presupposti richiesti dalla clausola contrattuale: si tratta di risorse
rinvenienti da specifiche disposizioni di legge ed, in base alle stesse,
sono espressamente finalizzate anche al trattamento economico accessorio del
personale, secondo le quantità e le modalità ivi previste (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 65 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Orario di lavoro / Un dipendente, con
un’articolazione oraria su sei giorni settimanali ed il riposo coincidente
con la domenica, nel caso effettui una prestazione lavorativa di sei ore nel
giorno del riposo settimanale, può rinunziare a fruire del riposo
compensativo sostituendolo con forme di monetizzazione?
Un dipendente che in una giornata non lavorativa effettui una prestazione di
lavoro straordinario che verrà liquidata come tale, ha diritto a percepire
anche l’indennità di condizioni di lavoro?
In materia, si ritiene utile precisare quanto segue:
problematica n. 1
In ordine alla portata contenutistica dell’art. 24, comma 1, del CCNL del
14.09.2000, l’Aran nei propri orientamenti ha sempre precisato che:
a) dal punto di vista del trattamento economico, al lavoratore che
presta lavoro nel giorno del riposo settimanale spetta solo un compenso
aggiuntivo pari ad una maggiorazione del 50% della retribuzione oraria di
cui all’art. 52, comma 2, lett. b), del CCNL del 14.09.2000, come sostituito
dall’art. 10 del CCNL del 09.05.2006, commisurato alle ore di lavoro
effettivamente prestate (pertanto, ad esempio, fatto 100 il valore della
retribuzione oraria di cui all’art. 10, comma 2, lett. b), del CCNL del
09.05.2006, l’importo del compenso dovuto al lavoratore sarà pari a 50 - e
non a 150 per ogni ora di lavoro prestato);
b) al lavoratore spetta, sulla base della medesima disciplina
contrattuale, anche un riposo compensativo di durata esattamente
corrispondente a quella della prestazione lavorativa effettivamente resa
(dichiarazione congiunta n. 13 allegata al CCNL del 05.10.2001).
Le suddette ore dovranno essere portate in detrazione alla durata ordinaria
della settimana in cui il lavoratore fruirà del riposo compensativo. L’ente,
necessariamente ed anche tempestivamente, deve provvedere sempre a far
fruire questi riposi al personale interessato entro i termini
contrattualmente stabiliti.
In proposito si deve ricordare che si tratta di un riposo volto a consentire
al lavoratore di godere di quello settimanale, espressamente garantito dalla
legge come diritto soggettivo, dallo stesso precedentemente non fruito per
ragioni di servizio. Proprio, per tale aspetto, si esclude che lo stesso o
anche solo parte di esso possa essere oggetto di rinunzia da parte del
lavoratore e, quindi, anche che lo stesso possa essere sostituito con forme
di monetizzazione.
problematica n. 2
Relativamente a tale aspetto, si evidenzia che l’art. 24, comma 4, del CCNL
del 14.09.2000 prevede espressamente che lo specifico compenso previsto per
il lavoro reso nel giorno del riposo settimanale è pienamente cumulabile con
ogni altro trattamento accessorio collegato alla prestazione.
Si tratta di un trattamento di maggior favore che viene riconosciuto,
formalmente e chiaramente, solo al dipendente che, eccezionalmente, viene
chiamato a rendere la prestazione lavorativa nel giorno del riposo
settimanale e che, conseguentemente in mancanza di indicazioni in tal senso,
è insuscettibile di estensione, anche in via analogica, altre ipotesi
ugualmente considerate dalla disciplina dell’art. 24: attività lavorativa
prestata in via eccezionale in giornata festiva infrasettimanale (comma 2);
attività lavorativa prestata, in via eccezionale, in giornata feriale non
lavorativa (il sabato), in presenza di una articolazione dell'orario di
lavoro settimanale su cinque giorni (comma 3) (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 64 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Aspettative / Sulla base di un accordo tra ente e
lavoratore, in deroga alle previsioni degli artt. 39 e 42 del CCNL delle
Funzioni Locali del 21.05.2018, è possibile concedere un’ulteriore
aspettativa per motivi familiari e personali a dipendente che ha già fruito,
al medesimo titolo, di un periodo di nove mesi prima che siano trascorsi tre
anni?
Anche ove la fruizione dell’ulteriore aspettativa porterebbe al superamento
della concessione massima di 12 mesi nell’arco del triennio e non
rispetterebbe i sei mesi di servizio attivo tra i due periodi di
aspettativa?
Relativamente alla particolari problematiche esposte, si ritiene utile
precisare quanto segue;
a) sulla base delle precise indicazioni dell’art. 39, comma 1, del
CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, la durata complessiva del periodo
di aspettativa per motivi personali non può essere superiore a dodici mesi
in un triennio;
b) la suddetta aspettativa, nei termini quantitativi previsti può
essere fruita frazionatamente (art. 39, comma 2, del CCNL del 21.05.2018);
c) ove la fruizione dell’ulteriore periodo di aspettativa nel
triennio, portasse al superamento del vincolo temporale dei 12 mesi nel
triennio, essa non potrebbe in alcun modo essere concessa; si tratta di una
disciplina specifica che non ammette deroghe né unilaterali da parte del
datore di lavoro, né consensuali, sulla base di un accordo con il
lavoratore;
d) ove, invece, la fruizione dell’ulteriore periodo di aspettativa
non comporti il superamento di tale limite temporale dei 12 mesi, allora
essa potrà essere concessa;
e) si ricorda che, comunque, in base alla disciplina contrattuale,
l’aspettativa può essere concessa solo previa autonoma valutazione della
stessa con le esigenze organizzative o di servizio dell’ente;
f) la possibilità di concedere l’ulteriore periodo di aspettativa
(ove non comporti il superamento del tetto dei 12 mesi nel triennio) è
comunque subordinata anche al divieto di cumulo sancito dall’art. 42, comma
1, del medesimo CCNL del 21.05.2018, secondo il quale: “1. Il dipendente,
rientrato in servizio, non può usufruire continuativamente di due periodi di
aspettativa, anche richiesti per motivi diversi, se tra essi non
intercorrano almeno quattro mesi di servizio attivo”; per servizio
attivo si intende solo la effettiva attività lavorativa;
g) in relazione a tale ultimo aspetto, tuttavia, giova ricordare
che nei propri orientamenti applicativi, pubblicati anche sul proprio sito
istituzionale, la scrivente Agenzia, nella vigenza dei precedenti artt. 11 e
14 del CCNL del 14.09.2000 ha avuto modo di evidenziare che: “nel nuovo
contesto privatizzato, salvo che non si tratti di disposizioni assolutamente
inderogabili in quanto rappresentano la tutela minimale da garantire al
lavoratore nel corso di svolgimento del rapporto, gli eventuali
comportamenti del datore di lavoro pubblico difformi rispetto alle
prescrizioni contrattuali non possono essere valutati in termini di
legittimità o di illegittimità, come avveniva nel precedente assetto
pubblicistico. Ciò vale soprattutto nel caso in cui vengono in
considerazione istituti che possono considerarsi disponibili da parte del
datore di lavoro, in quanto la relativa disciplina contrattuale è stata
finalizzata alla tutela precisa del suo interesse, come nel caso in esame.
Pertanto, ove l’ente, autonomamente valuti conforme al suo interesse
organizzativo concedere l’aspettativa di cui si tratta anche in mancanza del
servizio attivo richiesto dall’art. 14 del CCNL del 14.09.2000, può anche
ammettere, assumendosi ogni responsabilità, il dipendente al beneficio,
senza che il citato art. 14 possa costituire un ostacolo assolutamente
insuperabile. Infatti, l’unico soggetto che potrebbe ricevere un danno dalla
violazione della clausola contrattuale è lo stesso soggetto che concede il
beneficio al lavoratore. Tuttavia, è opportuno che comportamenti che l’ente
intende adottare in materia siano attentamente valutati anche nelle loro
conseguenze. Infatti, l’ente, rinunciando a far valere la disciplina
relativa al cumulo delle aspettative, ben difficilmente potrebbe
giustificare il ricorso a strumenti organizzativi diversi quali il contratto
a termine o il lavoro interinale sulla base delle esigenze operative
determinate dall’assenza del dipendente. Inoltre occorre considerare che
l’art. 14, disciplinando un particolare aspetto del rapporto di lavoro, ha
inteso anche dettare una regola unica e uniforme, a garanzia della
trasparenza ed imparzialità dei comportamenti datoriali nei confronti di
tutti i lavoratori. Pertanto, eventuali deroghe alla regola generale
potrebbero determinare richieste emulative da parte di tutti i dipendenti
eventualmente interessati, anche con riferimento a forme di aspettative
diverse da quelle riconducibili all’art. 13. In tal caso, comportamenti non
omogenei del datore di lavoro potrebbero essere fatti valere in sede di
contenzioso sotto il profilo della violazione di principi di non
discriminazione ed imparzialità.”.
Si tratta di indicazioni che, seppure formulate, come detto nella vigenza
della disciplina degli art. 11 e 14 del CCNL del 14.09.2000, possono
ritenersi ancora validi in quanto la nuova regolamentazione della materia
riproduce, sostanzialmente, quella precedente;
h) pertanto, conclusivamente, si può dire che il periodo massimo di
12 mesi nel triennio non è assolutamente modificabile, mentre sulla
disciplina del cumulo possono ritenersi possibili spazi di flessibilità, nei
termini descritti alla precedente lett. g) (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 63 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Aspettative / Nell’ambito del nuovo CCNL delle
Funzioni Locali del 21.05.2018 sono previste giornate di permesso retribuito
per il dipendente comunale in caso di nascita di un figlio o si deve fare
riferimento ai permessi previsti dall’art. 32 del citato CCNL del
21.05.2018?
Se le 18 ore dell’art. 32 del CCNL del 21.05.2018 sono già state utilizzate
nell’anno, sono previsti altri permessi oppure si deve fare riferimento a
qualche altra norma specifica per la genitorialità?
In materia, si richiama
l’attenzione sulla previsione dell’art. 32 del CCNL delle Funzioni Locali
del 21.05.2018, che riconosce al datore di lavoro pubblico la possibilità di
concedere ai dipendenti, in relazione a ciascun anno solare, 18 ore di
permesso retribuito “….per particolari motivi personali o familiari”.
Nell’ampia e generica causale giustificativa dei permessi di cui si tratta
(i particolari motivi personali o familiari) potrebbe certamente essere
ricompresa anche la particolare fattispecie da Voi segnalata.
Ove ciò non sia possibile, perché i permessi sono già stati già
integralmente utilizzati, il dipendente potrebbe avvalersi, ove lo reputi
opportuno, solo dell’aspettativa per motivi familiari e personali, di cui
all’art. 39 del medesimo CCNL del 21.05.2018, dato che la stessa può essere
fruita anche frazionatamente.
La disciplina contrattuale non prevede altre forme di possibile assenza
utilizzabili nella particolare fattispecie prospettata.
In ordine al diverso aspetto dell’esistenza di norme di legge che consentano
l’assenza dal lavoro per nascita figli, indicazioni, eventualmente, potranno
essere richieste al Dipartimento della Funzione Pubblica, istituzionalmente
competente per l’interpretazione delle disposizioni legislative concernenti
il rapporto di lavoro pubblico (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 62 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche
od esami diagnostici / Un dipendente chiede di
assentarsi per l’intera giornata, utilizzando cumulativamente i permessi
orari per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od
esami diagnostiche, di cui all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del
21.50.2018.
Ove dall’attestazione presentata si evinca che la prestazione abbia avuto
una durata limitata e che anche cumulata con quella dei tempi di percorrenza
non copra completamente l’orario di lavoro giornaliere cui il dipendente era
tenuto nella giornata di assenza, come devono essere valutate e giustificate
le ore non ricomprese nell’attestazione e nei tempi di percorrenza?
L’art. 35, comma 9, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
espressamente, dispone che l’assenza per la fruizione dei permessi orari per
l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici deve essere giustificata mediante attestazione di presenza,
recante informazioni anche in ordine all’orario delle visite, terapie, ecc.,
rilasciata dal medico o dal personale amministrativo della struttura che le
hanno effettuate.
Nella domanda, evidentemente, il dipendente indicherà anche la prevista
durata del permesso di cui intende fruire.
Pertanto, sulla base della disciplina contrattuale, non può non ritenersi
sussistente una relazione tra la durata visita, terapia ecc. e le ore di
permesso fruito, al fine di consentire una applicazione dell’istituto
coerente con le finalità perseguite con lo stesso (pur prendendo atto della
opportunità di ammettere margini di flessibilità per tenere conto, ad
esempio, di quei fattori di variabilità connessi ai tempi di percorrenza,
che potrebbero risentire di fattori esterni o accidentali, come traffico,
mezzo utilizzato, imprevisti di altro tipo ecc.).
Pur se l’art. 35, comma 5, del CCNL del 21.05.2018 prevede la possibilità di
fruire anche cumulativamente dei permessi orari di cui al comma 1 per la
durata dell’intera giornata lavorativa (con incidenza sul monte ore
computata con riferimento all'orario di lavoro che avremmo dovuto osservare
per tale giornata), ai fini di una valutazione complessiva della situazione
determinatasi per la corretta applicazione dell’istituto, non sembra possa
prescindersi, comunque, dalle risultanze delle attestazioni di presenza e
degli orari ivi indicati, sia pure tenendo conto di quei margini di
flessibilità di cui si è detto.
Ove emergano significative discrepanze orarie, ad avviso della scrivente
Agenzia, l’ente potrebbe, comunque, valutare, secondo principi generali di
correttezza e buona fede, di richiede specifici chiarimenti al dipendente (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 61 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Malattia
/ Un dipendente, cessato dal servizio per dimissioni
da altra amministrazione e assunto da un nuovo ente, presso il nuovo datore
di lavoro, ha diritto a usufruire di 18 mesi di malattia per causa di
servizio senza sommare le precedenti assenze a tale titolo già intervenute
nell’ambito del precedente rapporto di lavoro?
I 18 mesi di malattia per causa di servizio spettano una sola volta durante
l’attività lavorativa del dipendente?
Al dipendente titolare di posizione organizzativa durante il periodo di
malattia a causa di servizio, spetta la retribuzione di posizione?
Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene utile
precisare quanto segue:
a) se un dipendente, già in servizio presso altro ente o
amministrazione, anche di diverso comparto, è assunta successivamente da
altra amministrazione, tramite concorso o altro strumento selettivo previsto
dalla vigente legislazione in materia, le assenze per malattia intervenute
nel primo rapporto di lavoro non possono essere computate nell’ambito del
secondo, trattandosi di due autonomi e distinti rapporti di lavoro.
Pertanto, anche in questa fattispecie, con l’estinzione del primo rapporto
di lavoro, come sopra già detto, vengono meno tutte quelle situazioni
soggettive che in quel rapporto trovavano il proprio fondamento.
Conseguentemente, il periodo di comporto delle malattie imputabili a causa
di servizio presso il nuovo ente ricomincia ex novo;
b) diversamente accade solo nel caso della mobilità.
Infatti, in base alle previsioni dell’art. 30 del D.Lgs. n. 165/2001, in
tutti i casi di mobilità di personale tra enti o amministrazioni, non vi è
costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, ma la continuazione del
precedente rapporto, con i medesimi contenuti e caratteristiche, con un
nuovo datore di lavoro.
Quindi, a seguito dell’assegnazione al nuovo ente, non si costituisce nuovo
rapporto, ma più semplicemente quello intercorrente con l’ente di precedente
appartenenza prosegue, con i medesimi contenuti e caratteristiche, con il
nuovo datore di lavoro.
Conseguentemente, proprio perché si tratta della prosecuzione del precedente
rapporto di lavoro, il nuovo datore di lavoro, ai fini dell’amministrazione
del rapporto, relativamente ai vari istituti concernenti le diverse forme di
assenze dal lavoro (aspettative, ferie, malattia, ecc.), potrà tenere conto,
ai fini del rispetto delle regole e degli eventuali limiti quantitativi
stabiliti dalla disciplina contrattuale, anche di quelle già fruite per il
medesimo titolo presso l’amministrazione di originaria appartenenza;
c) la risposta al punto 2 della vostra nota è negativa.
In proposito, si evidenzia che il meccanismo applicativo della disciplina
delle assenze dal servizio per infortunio sul lavoro e malattie dovute a
causa di servizio, di cui all’art. 38 del CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018 (come precedentemente nella vigenza dell’art. 22 del CCNL del
06/07/1995), in analogia a quanto espressamente previsto dall’art. 36 stesso
CCNL per le assenze per malattia, per il personale che ancora se ne può
avvalere, non è statico ma dinamico, sia nello scorrimento del triennio
preso a riferimento sia, evidentemente, nella considerazione dei periodi di
assenza da considerare;
d) in base all'art. 38, comma 4, del CCNL del 21.05.2018, in caso
di assenza dovuta ad infortunio sul lavoro o a malattia riconosciuta
dipendente da causa di servizio, il dipendente ha diritto alla conservazione
del posto fino alla guarigione clinica e, comunque, non oltre il periodo
previsto dall'art. 36, commi 1 e 2.
In tale periodo al dipendente spetta l’intera retribuzione di cui all’art.
36, comma 10, lett. a), del medesimo CCNL, comprensiva del trattamento
accessorio ivi previsto come determinato nella tabella n. 1 allegata al CCNL
del 06.07.1995.
Pertanto, il periodo di comporto per le assenze dovute ad infortunio è un
unico periodo di 36 mesi, durante il quale il lavoratore ha diritto alla
conservazione del posto e alla retribuzione in misura intera;
e) in mancanza di una diversa regolamentazione (come evidenziato in
precedenti orientamenti applicativi, spetta all’autonoma potestà
regolamentare degli enti la determinazione della disciplina di dettaglio
delle posizioni organizzative, con particolare riferimento alle ipotesi di
assenza del responsabile delle stesse), il dipendente incaricato di una
posizione organizzativa conserva la titolarità della stessa anche nei casi
di assenza per malattia, anche di lunga durata, e, in relazione a tale
incarico ed alla durata dello stesso, il corrispondente diritto a percepire
la retribuzione di posizione;
f) infatti, l’art. 36, comma 10, lett. a), del CCNL del 21.05.2018,
espressamente stabilisce che al lavoratore deve essere riconosciuta “l’intera
retribuzione fissa mensile ivi comprese le indennità fisse e ricorrenti…”
ed in tale ambito certamente rientra anche la retribuzione di posizione di
posizione dei titolari di posizione organizzativa, in quanto entrambe le
caratteristiche della fissità e della continuità qualificano tale
particolare voce retributiva (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 60 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuova disciplina delle posizioni organizzative /
Quali sono le corrette modalità applicative dell’art. 17, comma 6, del CCNL
delle Funzioni Locali del 21.05.2018 per la determinazione della
retribuzione di posizione da riconoscere al dipendente che, già titolare di
posizione organizzativa presso l’ente di appartenenza, sia utilizzato a
tempo parziale ed incaricato di altra posizione organizzativa presso altro
ente o presso servizi in convenzione o presso una unione di comuni, secondo
la disciplina degli art. 14 e 13 del CCNL del 22.01.2004?
La disciplina dell’art. 17, comma 6, del CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018, in connessione le precedenti e vigenti disposizioni degli 14 e
13 del CCNL del 22.01.2004, ai fini della sua attuazione, richiede che:
a) un dipendente di un ente sia utilizzato a tempo parziale presso
altro ente o presso un servizio in convenzione; in base al citato art.
14,comma 1, la convenzione di utilizzo a tempo parziale, deve disciplinare
in particolare: la durata del periodo di utilizzazione, il tempo di lavoro
(nell’ambito dell’orario d’obbligo complessivo normalmente di 36 ore
settimanali) e la relativa articolazione tra i due enti, la ripartizione
degli oneri e i conseguenti adempimenti reciproci, ogni altro aspetto
ritenuto utile per una corretta gestione del rapporto di lavoro;
b) l’affidamento al suddetto dipendente utilizzato a tempo parziale
presso altro ente, già titolare di posizione organizzativa presso l’ente di
appartenenza di una posizione organizzativa, di altra posizione
organizzativa presso l’ente utilizzatore o presso il servizio in
convenzione;
c) deve determinarsi, quindi, una situazione di contestuale
titolarità in capo al medesimo dipendente di due diverse e distinte
posizioni organizzative, una presso l’ente di appartenenza e l’altra presso
l’ente che lo utilizza a tempo parziale o presso il servizio in convenzione;
Spetta al datore di lavoro pubblico, nell’ambito della sua autonoma
responsabilità gestionale, la valutazione della effettiva sussistenza di
tali presupposti.
Ove questi, siano presenti, si potrà dare luogo all’applicazione della
disciplina del citato art. 17, comma 6, del CCNL del 21.05.2018, che,
ribadendo quanto già previsto dai richiamati artt. 14 e 13 del CCNL del
22.01.2004, dispone che:
a) l’ente di appartenenza continua a corrispondere la retribuzione
di posizione e di risultato secondo i criteri dallo stesso stabiliti,
riproporzionate in base alla intervenuta riduzione della prestazione
lavorativa e con onere a proprio carico;
b) l’Unione, l’ente, o il servizio in convenzione presso il quale è
stato disposto l’utilizzo a tempo parziale corrispondono, le retribuzioni di
posizione e di risultato in base alla graduazione della posizione attribuita
e dei criteri presso gli stessi stabiliti, con riproporzionamento in base
alla ridotta prestazione lavorativa;
c) al fine di compensare effettivamente la maggiore gravosità
connessa alla titolarità di due posizioni organizzative e lo svolgimento
delle prestazioni in diverse sedi di lavoro, i soggetti di cui si è detto
(Unione, Ente utilizzatore e servizio in convenzione) possono altresì
corrispondere, una maggiorazione della retribuzione di posizione attribuita
ai sensi del precedente alinea, di importo non superiore al 30% della
stessa, con oneri a proprio carico;
d) quindi, solo l’ente utilizzatore a tempo parziale, il servizio
in convenzione e l’unione di comuni, che si avvalgono del lavoratore di
altro ente, si assumono l’onere della maggiorazione fino al 30% della
retribuzione di posizione, considerata nel suo valore pieno, prevista dalla
disciplina contrattuale;
e) l’importo della retribuzione di posizione, determinato tenendo
conto anche della eventuale maggiorazione dell’art. 17, comma 6, ultimo
alinea, del CCNL del 21.05.2018, deve essere, comunque, poi riproporzionato
in relazione alla durata prevista della prestazione lavorativa presso l’ente
utilizzatore a tempo parziale, il servizio in convenzione e l’unione di
comuni;
f) gli oneri della eventuale maggiorazione della retribuzione
riconosciuta dall’ente utilizzatore a tempo parziale, dal servizio in
convenzione e dall’unione di comuni sono posti a carico di questi;
g) in coerenza con la ratio dell’istituto e con gli orientamenti
applicativi già formulati in materia, il riproporzionamento deve essere
effettuato in relazione al numero delle ore che il dipendente effettivamente
è chiamato a rendere presso l’ente di appartenenza e presso l’utilizzatore a
tempo parziale, il servizio in convenzione e l’unione di comuni;
h) per effetto della nuova disciplina, tenuto conto anche delle
regole in materia di valori della retribuzione di posizione recate dall’art.
15 del CCNL del 21.05.2018, è venuto meno anche il precedente tetto di €
16.000, previsto dai precedenti artt. 13 e 14 del CCNL del 22.01.2004 per le
ipotesi considerate;
i) un esempio, potrà chiarire la disciplina:
Ente datore di lavoro:
Valore posizione organizzativa intero: € 11.300,00
Valore posizione riproporzionato in relazione al tempo di lavoro
presso lo stesso: € 5.650,00
Ente utilizzatore a tempo parziale, Unione o Servizio in
convenzione:
Valore posizione organizzativa intero: € 11.300,00
Valore eventuale incremento del 30% (valore massimo): € 3.390,00
Valore posizione organizzativa intero con l’incremento del 30%: €
14.690,00
Valore posizione riproporzionato in relazione al tempo di lavoro
presso lo stesso: € 7.345,00
Si coglie l’occasione per evidenziare che anche la disciplina dell’art. 14,
comma 5, del CCNL del 22.01.2004, nella parte relativa alla quantificazione
della retribuzione di risultato, nel caso di incarico di posizione
organizzativa conferito al medesimo dipendente presso l’ente di appartenenza
e presso altro ente che lo utilizzi a tempo parziale o nell’ambito dei
servizi in convenzione (da un minimo del 10% ad un massimo del 30% della
retribuzione disposizione in godimento), non è più applicabile a seguito
dell’introduzione delle nuove disposizioni in materia di retribuzione di
risultato delle posizioni organizzative contenute nell’art. 15, comma 4, del
CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018.
Infatti, nell’ambito della nuova disciplina, analogamente a quanto avviene
per la retribuzione di risultato della dirigenza, è previsto solo che al
finanziamento della retribuzione di risultato deve essere destinata una
quota non inferiore al 15% del complessivo ammontare delle risorse
finalizzate all’erogazione della retribuzione di posizione e di risultato di
tutte le posizione organizzative previste dall’ordinamento dell’ente.
Gli enti definiscono, poi, autonomamente, in sede di contrattazione
integrativa, i criteri generali per la determinazione della retribuzione di
risultato delle diverse posizioni organizzative, nell’ambito delle risorse a
tal fine effettivamente disponibili. A seguito di tale nuova
regolamentazione, deve ritenersi integralmente e definitivamente
disapplicata la precedente disciplina della retribuzione di risultato delle
posizioni organizzative contenuta nell’art. 10, comma 3, del CCNL del
31.03.1999, che rappresentava la cornice di riferimento anche del sopra
citato art. 14, comma 5, del CCNL del 21.05.2004.
Pertanto, anche nel caso di un dipendente di un ente utilizzato a tempo
parziale presso altro ente o presso un servizio in convenzione o presso una
Unione di comuni, con contestuale conferimento della titolarità di due
distinte posizioni organizzative, come sopra detto, la disciplina
applicabile per la retribuzione di risultato deve essere individuata nelle
previsioni dell’art. 15, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018 (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 59 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Previdenza complementare /
E’ obbligatorio per l’ente destinare una quota dei proventi
contravvenzionali, di cui all’art. 208, comma 4, lett. c), e 5 del D.Lgs. n.
285/1992, al finanziamento di forme di previdenza integrativa?
L’art. 56-quater del CCNL del 21.05.2018 delle Funzioni Locali individua,
espressamente, alle lettere a), b) e c), del comma 1 dello stesso, le
possibili modalità di utilizzo dei proventi della sanzioni amministrative
derivanti dalla violazione del codice della strada.
Tale disciplina contrattuale, tuttavia, si muove, sempre all’interno della
cornice regolativa dell’art. 208 del D.lgs. n. 285/1992.
Infatti, il citato art. 56-quater, comma 1, del CCNL del 21.05.2018 dispone
che: “I proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie riscossi dagli
enti, nella quota da questi determinata ai sensi dell’art. 208, commi 4
lett. c), e 5 del D.Lgs. n. 285/1992 sono destinati, in coerenza con le
previsioni legislative,….”.
Pertanto, come evidenziato dalla clausola contrattuale, in coerenza e nel
rispetto delle disposizioni del citato art. 208, commi 4, lett. c), e 5 del
D.Lgs. n. 285/1992, spetta sempre e solo all’ente la concreta individuazione
delle possibili finalità di utilizzo delle risorse di cui si tratta, tra
quelle indicate nella legge e l’ammontare delle risorse per ciascuna
fissata.
In proposito, infatti, si richiama la espressa previsione dell’art. 208,
comma 5, del D.Lgs. n. 285/1992, secondo la quale: “Gli enti di cui al
secondo periodo del comma 1 determinano annualmente, con delibera della
giunta, le quote da destinare alle finalità di cui al comma 4. Resta facoltà
dell'ente destinare in tutto o in parte la restante quota del 50 per cento
dei proventi alle finalità di cui al citato comma 4.” (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 58 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche
od esami diagnostici / I permessi per
l’effettuazione di esami prenatali devono considerarsi rientranti tra quelli
di cui all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 oppure, in
quanto previsti da specifiche disposizioni di legge, siano da considerare
distinti e, quindi, aggiuntivi a questi ultimi?
In materia, si ritiene opportuno precisare che i permessi retribuiti per
accertamenti prenatali, previsti dall’art. 14 del D.Lgs. n. 151/2001,
rappresentano una autonoma e specifica forma di tutela che il legislatore ha
inteso apprestare per le lavoratrici madri.
Pertanto, essi, proprio perché regolati direttamente dalla legge per la loro
peculiare finalità, non possono in alcun modo essere ricondotti all’interno
delle previsioni dell’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
che, concernono la diversa fattispecie dei permessi per l’espletamento di
visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici.
Si tratta, quindi, come già evidenziato nella vigenza della precedente
disciplina dell’art. 19 del CCNL del 06.07.1995, sempre di permessi
ulteriori ed aggiuntivi rispetto a quelli di fonte negoziale.
Infatti, poiché la disciplina dell’art. 14 del D.Lgs. n. 151/2001 è
direttamente ed immediatamente applicabile a tutti i lavoratori, pubblici e
privati, ai fini del riconoscimento loro riconoscimento alle lavoratrici del
settore pubblico non v’è alcun bisogno di una specifica clausola
contrattuale, essendo sufficiente la generale previsione dell’art. 2, comma
2, del D.Lgs. n. 165/2001.
Inoltre, si richiama l’attenzione sulle previsioni dell’art. 33, comma 4,
del medesimo CCNL del 21.05.2018, riconosce il diritto del dipendente alla
fruizione, ove ne ricorrano le condizioni, di tutte le altre tipologie di
permesso retribuito previste da norme di legge. Si tratta di una previsione
di portata generale, anche se nella clausola contrattuale, l’attenzione, a
titolo certamente esemplificativo e non esaustivo, è posta espressamente
solo su alcune particolari tipologie legali di permesso (permessi per
donatori di midollo; permessi e congedi dell’art. 4, comma 1, della legge n.
53/2000) (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 57 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Altri compensi ed indennità / Le attività
connesse a indagini statistiche e censimenti, legittimanti l’erogazione dei
compensi ISTAT, devono essere effettuate all’interno dell’orario di lavoro
oppure al di fuori o, ancora, in parte all’interno ed in parte al di fuori
dell’orario di lavoro?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene opportuno
evidenziare che l’art. 70-ter, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018 espressamente prevede che i compensi ISTAT sono finalizzati a “….remunerare
prestazioni connesse a indagini statistiche periodiche e censimenti
permanenti, rese al di fuori dell’ordinario orario di lavoro” (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 56 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Aspettative / L’aspettativa prevista dall’art. 18
della legge n. 183/2010 è da considerarsi aggiuntiva a quelle previste dal
CCNL delle funzioni Locali del 21/05/2018, in particolare a quella prevista
dall’art. 39 del suddetto CCNL?
In ordine a tale problematica, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso
che la particolare aspettativa prevista dall’art. 18 della legge n.
183/2010, per sua particolare natura, per i suoi specifici contenuti e per
le sue finalità, rappresenta una autonoma tipologia di aspettativa del tutto
diversa e distinta da quella per motivi familiari e personali, disciplinata
dall’art.39 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 55 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuova indennità per specifiche responsabilità /
Quali sono le condizioni legittimanti il riconoscimento al messo
notificatore dell’indennità di cui all’art. 70-quinquies, lett. d), del CCNL
del 21.05.2018?
In materia, si ritiene utile precisare che l’art. 70-quinquies, comma 2, del
CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, sostanzialmente ripetendo le
previsioni del precedente art. 36, comma 2, del CCNL del 22.01.2004, ha
inteso solo valorizzare l’eventuale funzione aggiuntiva di “ufficiale
giudiziario” che potrebbe essere affidata ad un lavoratore con profilo
di messo notificatore.
Il compenso in esame, quindi, era ed è finalizzato a remunerare solo le
specifiche responsabilità del messo comunale cui siano state, formalmente,
conferite le funzioni di ufficiale giudiziario. Se tale conferimento manca,
l’indennità di cui si tratta non può essere riconosciuta.
Per le modalità di conferimento di tali funzioni, trattandosi di materia non
regolata dalla contrattazione collettiva, si consiglia di acquisire il
parere del Dipartimento della Funzione Pubblica, istituzionalmente
competente per l’interpretazione delle disposizioni di legge concernenti il
rapporto di lavoro pubblico (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 54 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Costituzione del rapporto di lavoro /
Un dipendente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato di un
ente, vincitore di concorso per consigliere di prefettura, che, già
nominato, deve iniziare il corso di formazione di cui all’art. 5 del D.Lgs.
n. 139/2000, con la previsione di un periodo di prova di un anno, può
avvalersi della particolare disciplina dell’art. 20, comma 10, del CCNL
delle Funzioni Locali del 21.05.2018?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile
precisare quanto segue:
a) l’art. 20, comma 10, del CCNL del 21.05.2018 delle Funzioni
Locali prevede, come è noto, la conservazione del posto senza retribuzione
presso l’ente di provenienza al dipendente, a tempo indeterminato, che sia
vincitore di concorso presso un altro ente o amministrazione, per un arco
temporale corrispondente pari alla durata del periodo di prova stabilita dal
CCNL applicato presso l’ente o amministrazione di destinazione;
b) il comma 12 del medesimo articolo precisa, inoltre, che il
suddetto diritto alla conservazione del posto si applica anche al dipendente
in prova proveniente da un ente di diverso comparto il cui CCNL preveda
analoga disciplina;
c) come nella vigenza del precedente art. 14-bis, comma 9, del CCNL
del 06.07.1995, i cui contenuti sono stati sostanzialmente riprodotti
nell’art. 20, comma 10, del CCNL del 21.05.2018, questa ultima previsione
deve ritenersi applicabile solo nei confronti di dipendenti di
amministrazioni pubbliche, di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n.
165/2001, appartenenti comunque ad uno specifico comparto di contrattazione
rientrante nella competenza dell’ARAN, che abbia previsto, nella propria
disciplina negoziale, un’analoga regolamentazione;
d) pertanto, la disciplina di cui si tratta non può trovare
applicazione:
1) nel caso di coinvolgimento di personale
dipendente al quale non si applicano i CCNL sottoscritti in sede ARAN;
2) anche in caso di provenienza da altro comparto
di contrattazione collettiva, ove manchi quella condizione di reciprocità di
cui si è detto, nel senso che non esista, nell’ambito della contrattazione
collettiva di questo diverso comparto, una clausola di contenuto analogo che
riconosca ai dipendenti vincitori di concorso in altro comparto di
contrattazione, il diritto alla conservazione del posto nell’ente di
provenienza, per la durata del periodo di prova.
Alla luce delle suesposte considerazioni si esclude che, nel caso
prospettato, possa trovare applicazione la disciplina del citato art. 20,
comma 10, del CCNL del 21.05.2018, dato che il personale della carriera
prefettizia, ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. n. 165/2001, rientra tra i
dipendenti delle amministrazioni ancora assoggettate a regime pubblicistico
per gli aspetti concernenti il trattamento giuridico ed economico del
proprio personale (orientamento
applicativo 20.12.2019 CFL 53 - link a www.aranagenzia.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Individuazione
del destinatario delle ordinanze contingibili e urgenti.
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Ordinanze contingibili e urgenti – Destinatari – Individuazione.
In materia di ordinanze contingibili e urgenti ex
art. 54, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, con riguardo all’individuazione del
destinatario dell’ordine di eseguire i lavori indispensabili per eliminare
il pericolo, presupposto indispensabile è la disponibilità del bene in capo
a tale soggetto, che costituisce condizione logica e materiale
indispensabile per l’esecuzione dell’ordine impartito (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che in presenza di una conclamata
condizione di pericolo per l’incolumità pubblica, per la legittimità
dell’ordine è sufficiente che il Comune provveda ad individuarne i
destinatari in base alla situazione di fatto che si presenta nell’immediato,
indipendentemente da ogni laboriosa e puntuale ripartizione, di fronte a più
soggetti eventualmente obbligati, dei rispettivi oneri di concorso
all’eliminazione dell’accertata situazione di pericolo.
Il fatto che l’ordine di esecuzione dei lavori è legittimamente indirizzato
al soggetto nella condizione di eliminare la situazione di pericolo lascia
impregiudicata, perché estranea alla funzione del provvedimento contingibile
e urgente, la diversa e successiva questione dell’accollo economico dei
costi dell’intervento in capo ai soggetti responsabili
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 22.01.2020 n. 536 -
commento tratto da e link a ww.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
1. - E’ appellata la sentenza con la quale il giudice di primo grado ha
accolto il ricorso proposto avverso l’ordinanza sindacale con cui
l’amministratore del condominio in epigrafe era stato diffidato ad eseguire
tutte le opere di assicurazione strettamente necessarie ad eliminare lo
stato di pericolo derivante dal “distacco d’intonaco dalla scala di
collegamento tra le rampe che formano Via del Parco Grifeo, accosto al
civico 30/M con caduta sul sottostante terrazzino …, con accesso da Via del
Parco Grifeo n. 30/M”.
2. - Il TAR ha respinto l’eccezione di difetto di legittimazione
dell’amministratore del condominio ricorrente per non essere stato
autorizzato ad agire in giudizio con regolare delibera dell’assemblea
condominiale, rilevando, in senso contrario, che egli era stato autorizzato
alla lite giudiziaria con delibera condominiale del 19.06.2008.
Nel merito, ha accolto l’unico motivo di censura proposto, nei limiti del
difetto di istruttoria e di motivazione, “in mancanza da parte del Comune di
adeguata dimostrazione della proprietà condominiale della scala di
collegamento ritenuta versare in stato di pericoloso dissesto, quale
presupposto necessario e sufficiente per imporre al Condominio ed al suo
amministratore, gli obblighi di messa in sicurezza della scala predetta”
(pag. 11 della sentenza appellata).
...
5. – Col secondo motivo di appello il Comune ripropone, in termini critici,
le questioni relative alla sufficienza dell’istruttoria condotta, in
relazione al fatto che il giudice di primo grado, riscontrando che nessuno
degli argomenti addotti dalle parti risultava decisivo per stabilire se la
proprietà delle scale fosse condominiale o comunale, ha annullato il
provvedimento impugnato per una pretesa carenza di istruttoria, assumendo
che lo stesso dovesse essere preceduto da un rigoroso accertamento della
proprietà della scala di collegamento ritenuta versare in stato di
pericoloso dissesto.
Il motivo di appello è fondato.
In materia di ordinanze contingibili e urgenti ex art. 54, d.lgs. n.
267/2000, con riguardo all’individuazione del destinatario dell’ordine di
eseguire i lavori indispensabili per eliminare il pericolo, presupposto
indispensabile è la disponibilità del bene in capo a tale soggetto, che
costituisce condizione logica e materiale indispensabile per l’esecuzione
dell’ordine impartito (cfr. TAR Sardegna, sez. I,
03.10.2018, n. 817; id., sez. II, 05.06.2017, n. 375; TAR Liguria, sez. I, 19.04.2013,
n. 702; TAR Lazio, sez. II ter, 17.10.2016, n. 10344).
Pertanto, in presenza di una conclamata condizione di pericolo per
l’incolumità pubblica, per la legittimità dell’ordine è sufficiente che il
Comune provveda ad individuarne i destinatari in base alla situazione di
fatto che si presenta nell’immediato, indipendentemente da ogni laboriosa e
puntuale ripartizione, di fronte a più soggetti eventualmente obbligati, dei
rispettivi oneri di concorso all’eliminazione dell’accertata situazione di
pericolo (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 12.11.2008, n. 5310;
TAR Sicilia, Catania, sez. I, 20.12.2001, n. 2493; TAR Campania,
Napoli, 03.02.2004 n. 166).
Il fatto che l’ordine di esecuzione dei lavori è legittimamente indirizzato
al soggetto nella condizione di eliminare la situazione di pericolo lascia
impregiudicata, perché estranea alla funzione del provvedimento contingibile
e urgente, la diversa e successiva questione dell’accollo economico dei
costi dell’intervento in capo ai soggetti responsabili.
Pertanto, l’Amministrazione comunale appellante non era tenuta a
un’approfondita istruttoria in ordine alla proprietà del bene, essendo
sufficiente che ne fosse accertata la disponibilità in capo al condominio.
Non essendo contestato che il condominio avesse la disponibilità e l’uso
della rampa di scale in questione, il motivo di appello va, di conseguenza,
accolto.
6. – Per queste ragioni, in conclusione, l’appello deve essere accolto e per
l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinto il ricorso di primo
grado. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO – Avventori di una discoteca –
Provvedimento comunale – Prescrizioni in ordine al
contenimento del rumore antropico – Adozione delle cautele
ordinarie.
L’Amministrazione comunale ben può
rammentare, in un proprio provvedimento, il dovere di
contenimento del rumore, nei limiti di quanto possa
rientrare nelle facoltà proprie del gestore di una
discoteca, venendo in rilievo un interesse generale,
strettamente connesso alla salute pubblica e alla vivibilità
generale degli abitati e dei luoghi.
Non è infatti in discussione alcun obbligo di contenimento
di rumorosità esterna indefinita o comunque aliena rispetto
alle attività o alle appartenenze della struttura della
discoteca in questione (nemo ad impossibilia tenetur), bensì
l’esigenza concreta di non causare, con comportamenti
gestori inappropriati, l’amplificazione della rumorosità,
causata dagli avventori anche nel transito, in ingresso o in
uscita, in ore notturne, nella discoteca.
Il provvedimento, in altri termini, può legittimamente
sollecitare l’adozione, in conformità al dettato normativo,
delle cautele ordinarie, volte a contenere con diligenza il
cd. rumore antropico, causato dagli avventori, in
particolare nelle ore notturne, relativamente al locale e
alle sue pertinenze (TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 21.01.2020 n. 27 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
APPALTI – Informativa antimafia – Soggetti legittimati alla
richiesta – Rapporti tra privati – Esclusione – Vuoto
normativo – Art. 83, c. 1, d.lgs. n. 159/2011.
L’art. 83, c. 1, del d.lgs. n. 159/2011
ha individuato i soggetti che devono acquisire la
documentazione antimafia di cui all’art. 84 prima di
stipulare, approvare o autorizzare i contratti e
subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture
pubblici, ovvero prima di rilasciare o consentire i
provvedimenti indicati nel precedente art. 67.
Si tratta delle Pubbliche amministrazioni e degli enti
pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti,
gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente
pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo
Stato o da altro ente pubblico nonché i concessionari di
lavori o di servizi pubblici. A tali soggetti si aggiungono,
in virtù del successivo comma 2, i contraenti generali
previsti dal Codice dei contratti pubblici. Trattasi,
dunque, di soli soggetti pubblici.
Aggiungasi che tale documentazione può essere utilizzata
solo nei rapporti tra una Pubblica amministrazione ed il
privato e non, nei rapporti tra privati. Il vuoto normativo
non può certo essere colmato da un Protocollo della
legalità, stipulato tra il Ministero dell’interno e
Confindustria, trattandosi di un atto stipulato tra due
soggetti, che finirebbe per estendere ad un soggetto terzo,
estraneo a tale rapporto, effetti inibitori (o, secondo
l’Adunanza plenaria, addirittura “incapacitanti”), che la
legge ha espressamente voluto applicare ai soli casi in cui
il privato in odore di mafia contragga con una parte
pubblica.
(Nella specie, la richiesta di rilasciare una comunicazione
antimafia, rivolta alla Prefettura, era stata effettuata da
Confindustria, associazione privata, per la conclusione di
contratti di rilevanza solo privatistica, in alcun modo
connessi all’uso di poteri, procedimenti o risorse
pubbliche) (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 20.01.2019 n. 452 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: La
normativa vigente non consente l’utilizzo della documentazione antimafia nei
rapporti tra privati.
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Informativa antimafia – Rapporti tra privati – Esclusione.
L’impresa colpita da interdittiva antimafia può
stipulare contratti con i privati, essendo i limiti introdotti dell’art. 89,
comma 2, d.lgs. 06.09.2011, n. 159 applicabili solo quando il privato entra
in rapporto con l’Amministrazione (1).
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(1) In punto di fatto
nella specie l’informativa era stata resa a seguito di una richiesta di
informazioni proveniente da Confindustria Venezia, nell’ambito di un
Protocollo di legalità, per la conclusione di contratti di rilevanza
privatistica
La Sezione ha premesso che il comma 1 dell’art. 83, d.lgs. 06.09.2011, n.
159 ha individuato i soggetti che devono acquisire la documentazione
antimafia di cui all'art. 84 prima di stipulare, approvare o autorizzare i
contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture pubblici,
ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nel
precedente art. 67. Si tratta delle Pubbliche amministrazioni e gli enti
pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, gli enti e le
aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese
comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché i
concessionari di lavori o di servizi pubblici. A tali soggetti si
aggiungono, in virtù del successivo comma 2, i contraenti generali previsti
dal Codice dei contratti pubblici.
Si tratta dunque di soggetti pubblici. Nel caso all’esame del Collegio,
invece, la richiesta alla Prefettura di comunicazione antimafia è stata
avanzata da Confindustria Venezia, quindi da un soggetto di indubbia natura
privata.
Quanto all’utilizzabilità dell’informativa nei rapporti tra privati la
Sezione ha chiarito che l’art. 89, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 ha
previsto il potere del Perfetto che interviene quando il privato entra in
rapporto con l’Amministrazione. Ed è la legge a conferire un siffatto potere
di verifica al Prefetto.
Diverso è invece il caso di rapporti tra privati, in relazione ai quali la
normativa antimafia nulla prevede.
Tale vuoto normativo non può certo essere colmato, nella specie, dal
Protocollo della legalità e dal suo Atto aggiuntivo, entrambi stipulati tra
il Ministero dell’interno e Confindustria. Si tratta, infatti, di un atto
stipulato tra due soggetti, che finirebbe per estendere ad un soggetto
terzo, estraneo a tale rapporto, effetti inibitori (o, secondo l'Adunanza
plenaria, addirittura "incapacitanti"), che la legge ha espressamente
voluto applicare ai soli casi in cui il privato in odore di mafia contragga
con una parte pubblica.
Prova di tale voluntas legis è proprio nella modifica del comma 1
dell’art. 87, d.lgs. n. 159 del 2011 che, prima della novella introdotta
dall’art. 4, d.lgs. 15.11.2012, n. 218, prevedeva espressamente la
possibilità che a chiedere la comunicazione antimafia fosse un soggetto
privato.
Ciò chiarito, la Sezione ha però rappresentato che il d.lgs. n. 218 del 2012
sembra aver aperto una breccia nella trama intessuta dal Codice delle leggi
antimafia, il cui complesso di norme mira ad isolare le imprese vicine agli
ambienti della criminalità organizzata, togliendo loro la linfa data dai
guadagni, con l’esclusione dal settore economico pubblico, in particolare
nella contrattualistica, e dai finanziamenti pubblici.
Occorre dunque interrogarsi –e nulla più che un interrogativo “aperto”
può provenire da questo Giudice– se per rafforzare il disegno del
Legislatore, con una sapiente disciplina antimafia che sta portando in modo
tangibile i suoi risultati - non possano, le Istituzioni a ciò preposte,
valutare il ritorno alla originaria formulazione del Codice Antimafia, nel
senso che l’informazione antimafia possa essere richiesta anche da un
soggetto privato ed anche per rapporti esclusivamente tra privati.
Soltanto un tale intervento potrebbe, in vicende come quella oggi in esame,
permettere l’applicabilità generalizzata della documentazione antimafia, che
non a caso questo Consiglio ritiene pietra angolare del sistema normativo
antimafia (Cons. St., sez. III, 05.09.2019, n. 6105), in presenza di una
serie di elementi sintomatici dai quali evincere l’influenza, anche
indiretta (art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011), delle organizzazioni
mafiose sull’attività di impresa, nella duplice veste della c.d. contiguità
soggiacente o della c.d. contiguità compiacente. In tal modo si riuscirebbe
–chiudendo gli spazi che oggi esistono– da un lato ad emarginare
completamente tali soggetti rendendoli vulnerabili nel loro effettivo punto
di forza e, dall’altro, lasciare il mercato economico agli operatori
che svolgono l’attività affidandosi esclusivamente al proprio lavoro nel
rispetto delle regole.
L’interrogativo che la Sezione ha posto si fonda sulla considerazione che le
condotte infiltrative mafiose nel tessuto economico non solo sono un
pericolo per la sicurezza pubblica e per l’economia legale, ma anzitutto e
soprattutto un attentato al valore personalistico (art. 2 Cost.) e, cioè,
quel “fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la
dignità e il valore della persona” (v., per tutte, Corte cost.
07.12.2017, n. 258), anche in ambito economico, e rinnegato in radice dalla
mafia, che ne fa invece un valore negoziabile nel “patto di affari”
stipulato con l’impresa, nel nome di un comune o convergente interesse
economico, a danno dello Stato.
E, su questo terreno, non vi è dubbio che il devastante impatto della
infiltrazione mafiosa si manifesta nei rapporti tra privati come in quelli
tra privati e P.A.. Sempre, infatti, chi contratta e collabora con la mafia,
per convenienza o connivenza, non è soggetto, ma solo oggetto di
contrattazione (Cons. St., sez. III, 30.01.2019, n. 758).
Se un vero e più profondo fondamento, allora, si vuole generalmente
rinvenire nella legislazione antimafia e, particolarmente, nell’istituto
dell’informazione antimafia, esso davvero riposa, come accennato, nella
dignità della persona, principio supremo del nostro ordinamento, il quale –e
non a caso– opera come limite alla stessa attività di impresa, ai sensi
dell’art. 41, comma 2, Cost., laddove la disposizione costituzionale prevede
che l’iniziativa economica privata, libera, “non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale o –secondo un clima assiologico di tipo
ascendente– in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana”.
L’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco,
la libertà di impresa, da un lato, e, dall’altro, la tutela dei fondamentali
beni che presidiano il principio di legalità sostanziale, secondo la logica
della prevenzione, potrebbe allora essere valutata dal Legislatore allo
scopo di restituire compiutezza piena ad un aspetto del Codice su cui certo
non può intervenire il Giudice in via interpretativa
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.01.2020 n. 452 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza <<la figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica
cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva,
ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la
successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e
utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine
violato. Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro
soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino
dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui
le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure
ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera
alienazione da parte di colui che le ha realizzate”>>.
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1. I due ricorsi sono fondati con riferimento alla mancata prova
della responsabilità del ricorrente nella realizzazione degli abusi (primo e
terzo motivo del ricorso introduttivo e primo e terzo motivo del ricorso per
motivi aggiunti).
L’art. 31, c. 2, del DPR 380/2001 stabilisce che “Il dirigente o il responsabile
del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in
assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con
variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al
proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi
del comma 3”.
Secondo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.10.2015
n. 4880) <<la figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica
cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva,
ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la
successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e
utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine
violato. Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro
soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino
dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui
le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure
ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera
alienazione da parte di colui che le ha realizzate”>>
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.01.2020 n. 120 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: I
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti
gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni.
La giurisprudenza è univoca nel ritenere che “i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti
gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni,
ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che
spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale”.
Sicché, va riaffermato il
principio sulla base del quale l’istanza di accesso del consigliere comunale
non può essere sorretta dalla sola allegazione della carica ricoperta ma
deve, altresì, essere riconnessa ad un concreto esercizio delle prerogative
consiliari pervenendo, quindi, al rigetto in ragione della mancata
allegazione di un effettivo interesse all’accesso.
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In data 10.09.2019 il ricorrente, Consigliere comunale del Comune di
Fabbrico, avanzava richiesta di accesso ex artt. 43, comma 2, del d.Lgs. n.
267/2000 e 22 della L. n. 2421/1990, riferita alla “copia della comparsa
di costituzione e risposta depositata dal difensore del Comune di Fabbrico
avv. Pa.Mi. nel procedimento giurisdizionale per risarcimento danno attivato
avanti al tribunale civile di Reggio Emilia dal -OMISSIS- contro il Comune
di Fabbrico” (vicenda che coinvolge l’Amministrazione relativamente
all’esecuzione dei lavori di adeguamento sismico e ristrutturazione del
Palazzetto dello Sport comunale).
Con atto del 07.10.2019, il Comune negava l’accesso ritenendo esclusa, anche
per i Consiglieri comunali, l’operatività dell’istituto dell’accesso agli
atti giudiziari.
Con nota del 10 ottobre successivo il ricorrente reiterava la propria
richiesta e, in assenza di ulteriori riscontri, con il ricorso introduttivo
del presente giudizio, impugnava il diniego intervenuto.
Il Comune, con atto del 12.11.2019, in esito alla richiesta da ultimo
presentata dal ricorrente, adottava un nuovo diniego esplicitando più
estesamente le ragioni per le quali gli atti richiesti non potevano
costituire oggetto di ostensione.
Il ricorrente impugnava il reiterato diniego con motivi aggiunti affermando,
sostanzialmente, la piena accessibilità dell’atto richiesto e la
contraddittorietà dell’agire amministrativo stante il precedente
accoglimento di una analoga istanza di accesso riferita all’atto di
citazione introduttivo del giudizio civile in questione.
Il Comune si costituiva in giudizio confutando le avverse doglianze ed
affermando la legittimità de proprio diniego.
All’esito della camera di consiglio del 15.01.2020, la causa veniva decisa.
Deve in premessa evidenziarsi che l’art. 43, comma 2, del D.Lgs. n. 267/2000
prevede che “i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di
ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti
al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Circa lo specifico tema, la giurisprudenza è univoca nel ritenere che “i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti
gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni,
ciò anche al fine di permettere di valutare - con piena cognizione - la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che
spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale” (TAR
Sicilia, Palermo, Sez. I, 09.01.2015, n. 77).
Il Regolamento comunale per l’esercizio del diritto di accesso del Comune di
Fabbrico, disciplina l’accesso documentale dei Consiglieri Comunali all’art.
39.
Ai sensi del comma 3 del citato articolo, “i consiglieri comunali hanno
diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle istituzioni,
aziende ed enti dallo stesso dipendenti, tutte le notizie e le informazioni
in loro possesso, al fine di tutelare, in via generale, i diritti derivanti
dalla propria posizione di consigliere comunale e già in particolare, di
consentire la piena conoscenza di elementi informazioni utili
all’espletamento del mandato”.
Lo stesso comma specifica ulteriormente che “i consiglieri hanno diritto:
… b) di ottenere copie degli atti e dei documenti necessari per l’esercizio
del loro mandato”.
Il successivo comma 4 dispone che “il consigliere non è tenuto a
dimostrare l’esistenza di un interesse giuridicamente rilevante, ma è
sufficiente che dichiari che le notizie e le informazioni sono richieste per
l’espletamento del mandato”.
L’unico limite all’esercizio del diritto in questione posto dalla fonte
regolamentare in esame, è contemplato nel comma 11 laddove si afferma che “l’accesso
dei consiglieri comunali è vietato esclusivamente nelle eseguenti
fattispecie: a) richieste assolutamente generiche, meramente emulative,
pretestuose o paralizzanti l’attività amministrativa indirizzata a controlli
generali di tutta l’attività dell’Amministrazione per un determinato arco di
tempo”.
Chiarito nei su esposti termini il contesto normativo e giurisprudenziale di
riferimento deve rilevarsi che l’istanza di accesso presentata dal
ricorrente era motivata sul presupposto dell’utilità della documentazione
richiesta in vista della trattazione consiliare di questioni che, in
ipotesi, avrebbero potuto incidere, sotto il profilo finanziario, sulla
corretta tenuta del bilancio dell’Ente.
L’Amministrazione, rifacendosi ai contenuti della decisione del Consiglio di
Stato n. 12/2019 (riassunta e ripetutamente richiamata), negava l’accesso
rilevando l’insufficienza della sola qualità di Consigliere comunale, a
consentire un indiscriminato accesso agli atti essendo, altresì, necessario
“che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di
questioni proprie dell’Assemblea consiliare”.
Ne deriverebbe, secondo l’Amministrazione, che l’istituto dell’accesso del
Consigliere comunale sarebbe garantito “solo se funzionale all’attività
del Consiglio comunale, rilevando di converso che tale estensione del
diritto non può andare oltre agli argomenti all’o.d.g. (quelli dell’art. 42
del TUEL)” (diniego impugnato).
Il ricorso è fondato.
Preliminarmente deve rilevarsi l’inconferenza della richiamata pronunzia del
Consiglio di Stato in quanto in detta sede il giudice di appello,
riaffermava il principio sulla base del quale l’istanza di accesso del
consigliere comunale non può essere sorretta dalla sola allegazione della
carica ricoperta ma deve, altresì, essere riconnessa ad un concreto
esercizio delle prerogative consiliari pervenendo, quindi, al rigetto
dell’appello, in ragione della mancata allegazione di un effettivo interesse
all’accesso.
L’odierna fattispecie differisce da quella esaminata in detta sede avendo il
ricorrente allegato, ed essendo documentata, l’attinenza della richiesta
allo svolgimento delle attività assembleari.
Deve in primis evidenziarsi che, con atto del 20.09.2019,
protocollato il giorno successivo, due Consiglieri del gruppo consiliare di
opposizione (capeggiato dal ricorrente) richiedevano la convocazione del
Consiglio comunale includendo nelle questioni all’ordine del giorno: “1.
Lo stato di fatto delle opere di adeguamento sismico e ristrutturazione del
Palazzetto dello Sport di Fabbrico; 2. Lo stato di fatto della vertenza
legale con l’impresa appaltatrice …”.
La conoscenza dell’atto oggetto della richiesta di ostensione era, pertanto,
“utile” (nei sensi di cui al richiamato art. 42 del TUEL) in vista
della discussione assembleare di profili riferiti alla vicenda della
ristrutturazione del Palazzetto dello Sport, al centro della disputa (e del
giudizio civile) in atto fra il Comune e l’appaltatore incaricato delle
relative lavorazioni.
Nel caso di specie, quindi, sotto un primo profilo, sussiste il requisito
della funzionalità dell’accesso all’esercizio delle attività consiliari,
richiesta dalla disciplina normativa nazionale; sotto altro profilo non
ricorre il carattere emulativo, pretestuoso e paralizzante che, ai sensi
delle illustrate disposizioni regolamentari interne, inibiscono l’esercizio
dell’accesso.
La determinazione impugnata, infine, è ulteriormente viziata per
contraddittorietà avendo l’Amministrazione (in precedenza e con riferimento
alla medesima vicenda giudiziaria), accolto l’istanza di accesso avente ad
oggetto l’atto di citazione dell’appaltatore con il quale veniva instaurato
il giudizio risarcitorio in atto
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 20.01.2020 n. 16 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: L’Adunanza
plenaria pronuncia sulla cessazione dell’illecito permanente
dell’occupazione senza titolo per effetto della rinuncia abdicativa.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione - Senza titolo –
Illecito permanente – Cessazione per rinuncia abdicativa – Esclusione.
Per le fattispecie rientranti nell’ambito di
applicazione dell’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 la rinuncia abdicativa
del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica
amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla
forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente
dell’occupazione senza titolo (1)
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(1) Ha chiarito
l’Alto consesso che nel contesto dell’orientamento affermativo
dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa quale strumento alternativo di
tutela del privato leso dall’occupazione illegittima in funzione della
domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà,
non è mai stata fornita una soluzione certa e univoca in ordine
all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del
diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante obbligata al
risarcimento dei danni.
In particolare, in tale contesto, l’effetto acquisitivo in capo
all’amministrazione occupante non può essere ricondotto all’art. 827 Cod.
civ., il quale prevede l’acquisto –a titolo originario e non iure
successionis, come nella diversa fattispecie disciplinata dall’art. 586
Cod. civ.– dei beni vacanti da parte dello Stato (segnatamente, al suo
patrimonio disponibile; v., su tale ultimo punto, Cass. civ., 14.04.1966, n.
942).
Pur in tesi non attribuendo all’art. 827 Cod. civ. una portata meramente
transitoria collegata all’entrata in vigore del Codice civile –volta, cioè,
a disciplinare la sola situazione giuridica dei beni che, in ragione di
discipline pregresse, a tale momento siano stati privi di proprietario–, la
sua applicazione alle vicende espropriative quale quella all’esame giammai
consentirebbe di sprigionare l’effetto dell’acquisto della proprietà del
bene (che, peraltro, secondo le previsioni dell’art. 42-bis d.P.R. n.
327/2001, dovrebbe avvenire al patrimonio indisponibile) in capo
all’amministrazione occupante diversa dallo Stato, ma ne determinerebbe
l’acquisto al patrimonio disponibile di quest’ultimo (o, nelle Regioni a
statuto speciale della Sardegna, della Sicilia e del Trentino-Alto Adige, al
patrimonio delle rispettive Regioni, in forza degli articoli 14, 34 e 67 dei
rispettivi statuti speciali), con la conseguenza che l’ente occupante, pur
ad avvenuto versamento della somma liquidata a titolo risarcitorio, non ne
diverrebbe proprietario.
Né a risolvere lo iato tra effetto abdicativo della rinuncia ed effetto
acquisitivo in capo all’amministrazione occupante, determinato
dall’applicazione dell’art. 827 Cod. civ., appare idonea la tesi, per cui la
rinuncia alla titolarità del bene dovrebbe ritenersi risolutivamente
condizionata all’inadempimento dell’amministrazione occupante all’obbligo di
corrispondere il controvalore monetario liquidato dal giudice al momento
della definizione della controversia, sicché la rinuncia, interinalmente
efficace, consoliderebbe i propri effetti al momento dell’effettivo ed
integrale versamento del risarcimento da parte dell’amministrazione
occupante; secondo tale tesi, il relativo provvedimento di liquidazione
escluderebbe in via definitiva la verificazione dell’evento (appunto
l’inadempimento) dedotto in condizione e sarebbe soggetto a trascrizione ai
sensi del combinato disposto degli artt. 2643 n. 5) e 2645 Cod. civ. «anche
al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di
proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di
rinuncia» (v., in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 07.11.2016, n. 4636).
Infatti, la tesi si scontra con il rilievo che la trascrizione assolve alla
funzione dell’opponibilità a terzi degli atti dispositivi di diritti reali,
ma non ne integra la validità o l’efficacia né può assurgere a elemento
costitutivo della fattispecie traslativa o acquisitiva, con la conseguenza
che, in mancanza di idoneo titolo d’acquisto in capo all’amministrazione
occupante, l’ordine di trascrizione in favore di quest’ultima resterebbe
privo di base legale.
Neppure appare possibile l’applicazione analogica di altre fattispecie di
acquisto a titolo originario per fatti ‘occupatori’ disciplinate dal
Codice civile, quali gli artt. 923, 940 o 942 Cod. civ., in quanto si
incorrerebbe nella violazione del principio di legalità delle fattispecie
ablative, sancito dalla Costituzione e dalla CEDU.
Ad analoga obiezione si espongono i tentativi di ricostruire in via pretoria
fattispecie traslative complesse, mediate da eventuali sentenze costitutive,
atteso il principio di tassatività delle sentenze costitutive di effetti
traslativi o acquisitivi di diritti reali, né offrendo l’art. 34, comma 1,
lettera e), Cod. proc. amm. una sufficiente base legale per pronunce di
siffatto tenore.
Né, infine, appare configurabile un’ipotesi di formazione tacita di un
accordo traslativo tra parte privata e pubblica amministrazione –ad es.,
ipotizzando un atto di consenso del privato coessenziale alla dismissione
della proprietà e la non opposizione all’acquisto da parte
dell’amministrazione–, attesa la necessità della forma scritta ad
substantiam per i contratti traslativi della proprietà immobiliare,
tanto più se parte contrattuale è una pubblica amministrazione.
In secondo luogo, s’impone il rilievo che l’evento della perdita della
proprietà è un elemento costitutivo del fatto illecito produttivo del danno.
Aderendo alla tesi della rinuncia abdicativa, l’evento dannoso (perdita
della proprietà) verrebbe cagionato dallo stesso danneggiato, in contrasto
con i principi che presiedono all’illecito aquiliano, che esigono un
rapporto di causalità diretta tra evento dannoso e comportamento del
soggetto responsabile, nella specie invece interrotto dalla rinuncia dello
stesso danneggiato, la quale soltanto –secondo la tesi all’esame– determina
l’effetto della perdita.
Né tale rilievo appare superabile con l’obiezione per cui il proprietario
verrebbe ‘costretto’ ad abdicare in quanto con l’occupazione gli sarebbe
rimasto un bene totalmente privo di utilità, sicché sarebbe l’irreversibile
trasformazione del fondo da parte dell’amministrazione ad averne causato la
perdita: infatti, per un verso, in caso di contestazione s’imporrebbe la
necessità di (spesso complessi) accertamenti giudiziari sul grado di
trasformazione del fondo idoneo a giustificare l’atto abdicativo, dall’esito
per definizione incerto, con la conseguente introduzione, sotto diversa
veste, dell’acquisizione giudiziaria già prevista nel pregresso art. 43
d.P.R. n. 327/2001 ed espunta dall’ordinamento per le criticità che la
connotavano, e, per altro verso, attraverso la riconduzione causale della
perdita del bene alla sua occupazione e trasformazione sine titulo da
parte dell’amministrazione si (re)introdurrebbe una forma di espropriazione
indiretta in contrasto con i canoni della CEDU.
Se, invece, la determinazione circa la rinuncia abdicativa fosse rimessa
alla libera e insindacabile (sotto il profilo causale) scelta del
proprietario –come sotteso alla tesi della sua ammissibilità, quale
espressione della libera autodeterminazione del proprietario in ordine al
diritto di proprietà sul bene leso dall’occupazione illegittima–,
l’applicazione di tale strumento negoziale alle vicende delle occupazioni
illegittime contrasterebbe con i richiamati principi civilistici in tema di
illecito aquiliano.
Da ultimo, si osserva che la disciplina del procedimento espropriativo
speciale ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 regola, in modo tipico, esaustivo
e tassativo, il procedimento di (ri)composizione del contrasto tra
l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale cui è
preordinata l’acquisizione del bene alla mano pubblica comportante la
cessazione dell’illecito permanente. L’operatività dell’istituto postula,
sul piano logico-giuridico, che la formale titolarità della proprietà
risulti ancora in capo al privato (e non sia venuta meno, in tesi, con
l’eventuale rinuncia implicita nella proposizione della domanda risarcitoria):
infatti, l’adozione dell’atto, unitamente alla liquidazione dell’indennizzo,
rappresenta il necessario presupposto per il trasferimento del diritto di
proprietà in favore dell’amministrazione.
Una volta disciplinata dal legislatore in modo compiuto ed esauriente, la
procedura ablativa speciale –presupponente l’occupazione illegittima e la
correlativa modificazione del bene da parte dell’amministrazione (in sé
prive di riflessi in ordine alla titolarità del bene)– ‘tipizza’ i
poteri dell’amministrazione e ‘conforma’ la facoltà di
autodeterminazione del proprietario in ordine alla sorte del bene rimasto di
sua proprietà.
Per quanto riguarda l’amministrazione, essa è titolare di una funzione, a
carattere doveroso nell’an, consistente nella scelta tra la
restituzione del bene previa rimessione in pristino e acquisizione ai sensi
dell’articolo 42-bis; non quindi una mera facoltà di scelta (o di non
scegliere) tra opzioni possibili, ma doveroso esercizio di un potere che
potrà avere come esito o la restituzione al privato o l’acquisizione alla
mano pubblica del bene. Alternative entrambe finalizzate a porre fine allo
stato di illegalità in cui versa la situazione presupposta dalla norma.
Quanto al privato –e corrispondentemente all’alternativa posta in termini
funzionali all’amministrazione–, la sua facoltà di autodeterminazione resta
conformata (sul piano legislativo, ex art. 42, secondo e terzo comma, Cost.)
nel senso che al medesimo è attribuita la potestà di compulsare la pubblica
amministrazione, attraverso una correlativa istanza/diffida, all’esercizio
del potere/dovere di porre comunque termine alla situazione di illecito
permanente costituita dall’occupazione senza titolo e ricondurla a legalità
secondo la seguente alternativa:
- o adottando il provvedimento di acquisizione sulla base degli
stringenti criteri motivazionali delineati dal comma 4 dell’art. 42-bis,
verso la corresponsione dell’indennizzo parametrato ai criteri stabiliti nel
precedente comma 1;
- oppure, in mancanza dell’acquisizione, disponendo la restituzione
del bene previa rimessione allo stato pristino (con salvezza, in entrambe le
ipotesi, del diritto al risarcimento dei danni per il periodo
dell’occupazione illegittima e degli eventuali danni ulteriori).
Altre soluzioni, che potevano trovare una spiegazione in presenza di una
lacuna legislativa, non sono ipotizzabili, in quanto resterebbe irrisolta la
definizione di una base legale certa per l’effetto traslativo della
proprietà. Di conseguenza, all’interprete non è consentito più (se mai lo
sia stato) di ricorrere all’analogia iuris per integrare la
fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia
espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore,
attraverso il ricorso ad un istituto di natura prettamente privatistica, al
dichiarato fine di aggiungere un ulteriore strumento di tutela del privato,
limitativo e derogatorio all’istituto dell’art. 42-bis.
Siffatta operazione ermeneutica –oltre a non essere necessaria sotto il
profilo della garanzia della effettività della tutela del proprietario leso,
in quanto sussistono idonei mezzi coercitivi affinché l’amministrazione
occupante provveda a compiere la scelta tra acquisizione o restituzione–
comporta, invero, uno stravolgimento dell’assetto d’interessi sotteso e (ri)composto
(d)alla particolare procedura ablativa disciplinata dal citato articolo di
legge; affida la decisione sulla sorte del bene ad un atto eventuale e
unilaterale del proprietario, cui si finirebbe per attribuire una sorta di
diritto potestativo direttamente ricadente nella sfera giuridica
dell’amministrazione; e si risolve, in definitiva, nell’inammissibile
introduzione praeter legem di una nuova fattispecie
ablativa/traslativa (peraltro, lasciando irrisolta la questione fondamentale
circa il titulus e il modus adquirendi della proprietà del
bene in capo all’ente occupante), la cui disciplina è, invece, riservata
alla legge e informata alla tassatività e tipicità dei poteri ablatori e
delle relative procedure.
Concludendo sul punto, preminenti esigenze di sicurezza giuridica,
implicanti la prevedibilità, per tutti i soggetti coinvolti (compresa la
parte pubblica), della fattispecie ablativa/acquisitiva, non possono che
escludere la rilevanza dell’atto unilaterale di rinuncia abdicativa alla
proprietà dell’immobile, ai fini della cessazione dell’illecito permanente
costituito dall’occupazione sine titulo del bene di proprietà privata
e della riconduzione della situazione di fatto a legalità.
Come sopra ripetutamente accennato, l’ordinamento processuale amministrativo
appresta uno strumentario processuale efficace per reagire all’eventuale
inerzia della pubblica amministrazione con l’azione ex artt. 31 e 117 Cod.
proc. amm., oppure, a seconda della fase in cui pende il processo e del tipo
di azione esercitata, attraverso l’assegnazione, nella sentenza cognitoria,
di un termine per provvedere in ordine all’acquisizione o (in caso di non
acquisizione) alla restituzione del bene illegittimamente occupato, ai sensi
dell’art. 34, comma 1, lettera b), Cod. proc. amm., con eventuale
contestuale nomina di un commissario ad acta a norma dell’art. 34,
comma 1, lett. e), Cod. proc. amm. per il caso di persistente inottemperanza
all’ordine di provvedere (al fine, appunto, di ricondurre la situazione di
occupazione illegittima nell’alveo della legalità attraverso l’esercizio del
correlativo potere, di natura vincolata nell’an e discrezionale nel
quomodo).
In particolare, l’iniziativa procedimentale e il successivo giudizio sul
silenzio costituiscono mezzi con cui il proprietario del bene occupato può
far valere l’interesse ad ottenere un ristoro pecuniario in luogo della
restituzione del bene, che, per le ragioni sopra esposte, non può più
trovare tutela attraverso il meccanismo della rinuncia abdicativa (che
rimetterebbe alla determinazione unilaterale del privato la decisione sulla
sorte del bene, al contempo lasciando irrisolta la vicenda acquisitiva).
Viene, con ciò, offerta al privato una tutela celere, concentrata e
definitiva dell’interesse leso, senza necessità di ricorrere alla
costruzione della rinuncia abdicativa. Ricorso, per quanto si è detto, non
più consentito in assenza di una lacuna legislativa e anzi in presenza di
una disciplina volta a fornire una base legale specifica, certa e
prevedibile, all’effetto ablativo della proprietà.
Il carattere assorbente della risposta al quesito precedente rende non
rilevante il quesito sub § 16.(ii), che comunque rafforza le criticità della
teoria della rinuncia abdicativa.
In primo luogo, la proposizione di una domanda risarcitoria del pregiudizio
sofferto rispetto a un bene, attraverso la richiesta di una somma
corrispondente al controvalore del bene, nulla esprime realmente in ordine
alla volontà di preservarne, o meno, la titolarità.
Infatti, siffatta domanda non è né logicamente né giuridicamente
incompatibile con la volontà di permanere titolare del diritto di proprietà,
potendo anche il danno da perdita del godimento del bene, in vista della sua
proiezione tendenziale all’infinito in ragione di una prospettata radicale e
irreversibile trasformazione del bene, finire per equivalere al valore di
scambio, sicché la mera richiesta di un risarcimento del danno commisurato
al valore del bene appare del tutto neutra sotto il profilo della volontà di
rinunciare, o meno, alla proprietà.
Considerata la rilevanza degli effetti dell’atto abdicativo, comportante la
perdita del diritto di proprietà su un bene immobile, non appare
ammissibile, per ragioni di certezza del traffico giuridico immobiliare,
ancorare l’effetto a manifestazioni di volontà enucleabili da atti
processuali a contenuto non univoco, in violazione dei principi di
accessibilità, precisione e prevedibilità cui deve essere improntata la
disciplina delle procedure ablative nonché lo stesso regime giuridico di
circolazione dei beni, per di più immobili.
In secondo luogo, occorre rilevare che l’atto di rinuncia al diritto di
proprietà su beni immobili è soggetto alla forma scritta ad substantiam
ai sensi dell’art. 1350, n. 5), Cod. civ., per cui vanno redatti per
iscritto «gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti»
(nei quali rientra anche il diritto di proprietà).
Ebbene, anche in ipotesi aderendo all’orientamento giurisprudenziale e
dottrinario che ritiene ammissibile una manifestazione tacita di volontà nel
contesto di un atto per la cui validità è richiesta la forma scritta –con la
motivazione che una forma vincolata non significa che la volontà debba
essere espressa, essendo sufficiente che la stessa vi sia contenuta, anche
in forma tacita, ma in modo da rilevare, per quanto qui interessa, una
volontà incompatibile con il mantenimento del diritto di proprietà–, l’atto
formale contenente la volontà tacita di rinuncia deve, in ogni caso,
assumere la forma scritta ad substantiam (scrittura privata o atto
pubblico), ossia essere munita della sottoscrizione personale della parte,
autenticata o comunque riconosciuta nelle forme di legge.
Tratterebbesi di requisito formale da vagliare caso per caso attraverso
l’esame degli atti processuali di parte in tesi suscettibili di essere
interpretati quali atti contenenti una volontà abdicativa.
Nel caso concreto sub iudice, né l’atto per motivi aggiunti del
31.10.2007 né quello successivo notificato il 24.05.2013 –con cui erano
state veicolate le domande di risarcimento per equivalente rapportate al
valore venale del bene (oltre ai danni da perdita del godimento per
occupazione illegittima)– recano la sottoscrizione personale delle parti, né
risulta conferita al difensore una procura speciale a disporre del diritto
di proprietà attraverso un’eventuale rinuncia abdicativa.
Pertanto, anche sotto i profili sopra esaminati, la teoria della rinuncia
abdicativa all’atto della sua applicazione pratica appaleserebbe una serie
di criticità
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 20.01.2020 n. 4 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
combinato disposto dell’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47 e dell’art. 32,
comma 27, lett. d), del dl n. 269 del 2003, convertito con modificazioni
dalla legge 24.11.2003, n. 326, in base a un consolidato orientamento
giurisprudenziale, comporta che un abuso commesso su un bene sottoposto a
vincolo di inedificabilità, sia esso di natura relativa o assoluta, non può
essere condonato quando ricorrono, contemporaneamente le seguenti
condizioni:
a) l’imposizione del vincolo di inedificabilità prima della
esecuzione delle opere;
b) la realizzazione delle stesse in assenza o difformità dal titolo
edilizio;
c) la non conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici (nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, sia
esso assoluto o relativo, è cioè consentita la sanatoria dei soli abusi
formali).
---------------
Sempre con riguardo agli abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo
paesaggistico, va precisato che il condono previsto dall’art. 32 del dl n.
269 del 2003 è applicabile esclusivamente agli interventi di minore
rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del citato decreto
(restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo
parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non
sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai
precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è
sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti.
---------------
Ritenuto in diritto che:
- la sentenza di primo grado deve essere confermata;
- il combinato disposto dell’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47 e
dell’art. 32, comma 27, lettera d), del decreto-legge n. 269 del 2003,
convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326, in base a un
consolidato orientamento giurisprudenziale (ex plurimis, Consiglio di
Stato, Sez. VI, 28.10.2019, n. 7341; Sez. VI , 17.09.2019, n. 6182; Sez. IV,
29.03.2017, n. 1434; sez. IV, 21.02.2017, n. 813; Sez. VI, 02.08.2016 n.
3487; Sez. IV, sentenza 17.09.2013, n. 4587), comporta che un abuso commesso
su un bene sottoposto a vincolo di inedificabilità, sia esso di natura
relativa o assoluta, non può essere condonato quando ricorrono,
contemporaneamente le seguenti condizioni:
a) l’imposizione del vincolo di inedificabilità prima della esecuzione delle
opere;
b) la realizzazione delle stesse in assenza o difformità dal titolo
edilizio;
c) la non conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici (nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, sia esso
assoluto o relativo, è cioè consentita la sanatoria dei soli abusi formali);
- sempre con riguardo agli abusi edilizi commessi in aree
sottoposte a vincolo paesaggistico, va precisato che il condono previsto
dall’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 è applicabile esclusivamente
agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6
dell'allegato 1 del citato decreto (restauro, risanamento conservativo e
manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell'Autorità
preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili
di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del
medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità
relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti (in tal senso anche la giurisprudenza penale:
cfr., ex plurimis, Cassazione penale sez. III, 20.05.2016, n. 40676;
peraltro, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 150 del 2009, ha
dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 32, comma 26, lettera a), del decreto-legge n. 269
del 2003 nella parte in cui prevede la condonabilità limitata ai soli abusi
minori nelle zone sottoposte a vincolo di cui all'art. 32 della legge n. 47
del 1985);
- su queste basi, sono evidenti le ragioni ostative alla
concessione della sanatoria, dal momento che, come risulta dagli atti di
causa:
i) l’abuso realizzato dall’appellante è un
manufatto residenziale di due piani, qualificabile come “nuova
costruzione”;
ii) il terreno su cui insiste il manufatto è sottoposto
a vincolo paesistico in virtù di un provvedimento specifico emanato
dall’Autorità competente (il più volte citato decreto ministeriale del
02.04.1954) e non già ex lege; ne consegue che le norme citate
dall’appellante (art. 142, comma 2, lettera a, del d.lgs. n. 42 del 2004, e
art. 4, della legge della Regione Lazio n. 24 del 1998) sono inconferenti
riferendosi le stesse alle sole aree tutelate per legge (peraltro, secondo
quanto dedotto dal Comune, senza specifica contestazione di controparte,
l’area di proprietà non è delimitata nel PRG del Comune di Frascati come “zona
territoriale omogenea B ai sensi del D.M. 02.04.1968, n. 1444” ma
sarebbe, invece, classificato, ai sensi del D.M. 1444/1968, come zona
territoriale di tipo C, come da delibera C.C. n. 161/1978);
iii) l’opera realizzata non è conforme agli
strumenti urbanistici del Comune di Frascati in quanto in contrasto con
l’art. 35 NTA del PRG
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.01.2020 n. 425 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Diritto
a godere le ferie e perdita delle ferie non godute.
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Pubblico impiego privatizzato – Ferie – Godimento – Mancata volontaria
fruizione – Conseguenza – Perdita delle ferie.
Il lavoratore che volontariamente non gode delle
ferie maturate le perde (1)
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(1) Come emerge dalla giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria
(causa C-696/16 emessa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia il
06.11.2018) la regula juris nella materia del godimento delle ferie
da parte del lavoratore è quello per cui, per un verso, il diritto di
ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un
principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al
quale non si può derogare, trovando il proprio fondamento nell’art. 31,
paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ed ha
il medesimo valore giuridico, dei Trattati ai sensi dell’art 6 paragrafo 1
TUE: la ratio dell’esercizio dello stesso è quella di consentire al
lavoratore di riposarsi dall’esecuzione dei compiti attribuiti godendo così
di un periodo di relax e svago.
Per altro verso, il datore di lavoro ha l’onere di assicurarsi
concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in
condizione di godere delle ferie annuali retribuite invitandolo, se
necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo –in modo
accurato e in tempo utile– del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie
andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di
riporto autorizzato.
Tuttavia, in un equilibrato contemperamento di principi ed istanze
assiologiche di pari rango, il rispetto di tale onere derivante dall’art. 7
della direttiva 2003/88 non può estendersi fino al punto di costringere
quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente la
fruizione delle ferie annuali retribuite.
Egli deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere delle
stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza necessaria
affinché essi potessero effettivamente di esercitare tale diritto.
L’assetto ora descritto non collide con il principio costituzionale dell’irrinunciabilità
delle ferie, in quanto garantisce, comunque, un equilibrato rispetto delle
esigenze organizzative dell’amministrazione e di quelle di riposo del
lavoratore.
Il presupposto imprescindibile per la perdita della possibilità di godimento
delle ferie al di là di una determinata scadenza temporale è che il
lavoratore non ne abbia goduto liberamente e consapevolmente. La
giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito, nel ritenere non
fondata questione di legittimità costituzionale del d.l. n. 95 del 2012,
art. 5, comma 8, conv., con mod. dalla l. n. 135 del 2012 (che prevede, tra
l'altro: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche
di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione..., sono
obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti
e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti
economici sostitutivi"), che il legislatore correla il divieto di
corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento
delle ferie (sentenza n. 95 del 2016).
Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina statale in questione
come interpretata dalla prassi amministrativa e dalla magistratura
contabile, è nel senso di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le
vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la
volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro.
Ha chiarito la Corte costituzionale che tale interpretazione, che si pone
nel solco della giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. II, 15.04.2019,
n. 2246) e della Corte di cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie,
come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma 3), dalle citate
fonti internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del
lavoro h. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e
resa esecutiva con l. 10.04.1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31,
comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea,
proclamata a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.09.2007;
direttiva 23.11.1993, n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti
dell'organizzazione dell'orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n.
2003/88/CE, che interviene a codificare la materia)
(TAR Valle d’Aosta,
sentenza 17.01.2020 n. 1 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e che debba essere
respinto per le seguenti ragioni.
Come emerge dalla giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria (causa C-696/16
emessa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia il 06.11.2018) la
regula juris della materia de qua è quello per cui, per un
verso, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve
essere considerato un principio particolarmente importante del diritto
sociale dell’Unione, al quale non si può derogare, trovando il proprio
fondamento nell’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, ed ha il medesimo valore giuridico, dei Trattati ai
sensi dell’art 6 paragrafo 1 TUE: la ratio dell’esercizio dello stesso è
quella di consentire al lavoratore di riposarsi dall’esecuzione dei compiti
attribuiti godendo così di un periodo di relax e svago.
Per altro verso, il datore di lavoro ha l’onere di assicurarsi
concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in
condizione di godere delle ferie annuali retribuite invitandolo, se
necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo –in modo
accurato e in tempo utile– del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie
andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di
riporto autorizzato. Tuttavia, in un equilibrato contemperamento di principi
ed istanze assiologiche di pari rango, il rispetto di tale onere derivante
dall’art. 7 della direttiva 2003/88 non può estendersi fino al punto di
costringere quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare
effettivamente la fruizione delle ferie annuali retribuite.
Egli deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere delle
stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza necessaria
affinché essi potessero effettivamente di esercitare tale diritto.
Ciò posto nel caso di specie, come si evince con chiarezza dai documenti
prodotti dalle parti, la direzione ha invitato la sig.ra Cr. a
programmare nel più breve tempo possibile la fruizione dei periodi di
congedo ordinario degli anni 2018 e 2019. Tale invito non è stato però
accettato dalla ricorrente che ha avanzato la pretesa di fruire anche del
periodo di congedo maturato per gli anni 2015, 2016 e 2017.
Tale pretesa si rivela però del tutto priva di fondamento. Come si deduce,
infatti, dall’art. 9 del Nuovo Accordo Quadro Nazionale, pubblicato sulla
G.U. n. 100 del 02.05.2018, il congedo ordinario va programmato e fruito
nell’anno solare di riferimento, salvo indifferibili esigenze di servizio
che non ne rendano possibile la completa fruizione o per motivate esigenze
di carattere personale e, limitatamente a queste ultime, compatibilmente con
le esigenze di servizio. In tal caso, la parte residua deve essere fruita
entro i successivi 12 mesi, fino all’entrata in vigore del Nuovo Accordo
Quadro Nazionale (G.U. n. 100 del 02.05.2018), ed entro i successivi 18 mesi
per il periodo successivo all’entrata in vigore del predetto accordo.
Nel caso in esame non risulta esser stata presentata da parte
dell’interessata al direttore di istituto, nei termini di legge e secondo le
puntuali modalità ivi indicate, alcuna istanza di congedo ordinario né
documentazione comprovante anche l’impossibilità oggettiva di godere dei
predetti benefici
Pertanto non è possibile giustificarne la mancata fruizione, né per motivate
esigenze di servizio e né tanto meno per obbiettive esigenze personali.
Sul punto giova ricordare come, anche in base a recenti arresti della
giurisprudenza amministrativa sia di primo grado (TAR Campania–Napoli, sez.
I, sentenza n. 1609 del 16.03.2019; TAR Calabria–Reggio Calabria, sentenza
n. 264 del 15.05.2018; TAR Puglia-Lecce, sez. II, sentenza n. 431 del
14.03.2018) che d’appello (Cons. Stato, Sez. II, Sent. 2246 del 15.04.2019;
parere definitivo, Sezione 1, n. 2756/2016), l’assetto ora descritto non
collide con il principio costituzionale dell’irrinunciabilità delle ferie,
in quanto garantisce, comunque, un equilibrato rispetto delle esigenze
organizzative dell’amministrazione e di quelle di riposo del lavoratore.
Il presupposto imprescindibile per la perdita della possibilità di godimento
delle ferie al di là di una determinata scadenza temporale è che il
lavoratore non ne abbia goduto liberamente e consapevolmente.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito, nel ritenere non
fondata questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 95 del 2012,
art. 5, comma 8, conv., con mod. dalla L. n. 135 del 2012 (che prevede, tra
l'altro: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche
di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione..., sono
obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti
e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti
economici sostitutivi"), che il legislatore correla il divieto di
corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento
delle ferie (sentenza n. 95 del 2016).
Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina statale in questione
come interpretata dalla prassi amministrativa e dalla magistratura
contabile, è nel senso di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le
vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la
volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro.
Ha chiarito la Corte costituzionale che tale interpretazione, che si pone
nel solco della giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. II,
Sent. 2246 del 15.04.2019; parere definitivo, Sezione 1, n. 2756/2016) e
della Corte di cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie, come
garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma 3), dalle citate fonti
internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro h.
132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa
esecutiva con L. 10.04.1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31, comma 2,
della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza
il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.12.2007; direttiva 23.11.1993,
n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell'organizzazione
dell'orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n. 2003/88/CE, che
interviene a codificare la materia).
Ne consegue l’infondatezza delle articolate censure del ricorso che va
pertanto respinto. |
URBANISTICA: Quanto
agli aspetti di istruttoria e di motivazione che rendono legittimo l’atto di
pianificazione, il Collegio ritiene di dover ribadire quanto già
affermato di recente.
Invero, “Per quanto concerne la motivazione dell’atto, ... le scelte di
pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia discrezionalità e
costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità,
salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità e,
in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le
decisioni dell’amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree
non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere
dai criteri generali –di ordine tecnico discrezionale- seguiti
nell’impostazione del piano stesso.
In particolare, la richiamata decisione dell’Adunanza Plenaria 22.12.1999,
n. 24, ha posto in rilievo che per l’interesse correlato ad una precedente
previsione urbanistica che consenta un utilizzo dell’area in modo più
proficuo vale il principio generale della non necessità di motivazione
ulteriore rispetto a quelle che si possono evincere dai criteri di ordine
tecnico-urbanistico, seguiti per la redazione del progetto di strumento.
In questo caso, infatti, viene in considerazione una aspettativa generica
del privato alla non reformatio in peius delle destinazioni di zona
edificabili, cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di
pianificazione urbanistica, ed analoga a quella di ogni proprietario di aree
che aspira ad una utilizzazione più proficua dell’immobile.
La Sezione, peraltro, ha già avuto modo di enunciare i seguenti principi in
materia di pianificazione urbanistica, che il Collegio condivide e che
possono essere applicati anche in sede di decisione della presente
controversia, ancorché questa sia inerente ad un piano sovracomunale:
- le scelte di pianificazione urbanistica costituiscono esercizio
di ampia discrezionalità da parte dell’amministrazione e le stesse,
nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono
censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta
illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (nei
sensi precisati dalla giurisprudenza), onde evitare un indebito
“sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”;
- l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del
territorio non è funzionale solo (alle) ... diverse tipologie di
edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici,
opifici industriali e artigianali, etc.), ma è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che
trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti;
- l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di
adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le previsioni
incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime
aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione
dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”;
- le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno
puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la
pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora
incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come,
mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree
determinate del PRG, per le quali quest’ultimo prevedeva diversa
destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei
privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta
per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che
provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In
questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola
area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente
locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di
sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con
il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona
precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre,
di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa
modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una
nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati
contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute;
- la motivazione delle scelte urbanistiche, sufficientemente
espressa in via generale, è desumibile sia dai documenti di accompagnamento
all’atto di pianificazione urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle
scelte effettuate dall’amministrazione comunale".
---------------
13.5. Allo stesso modo, le considerazioni innanzi espresse sorreggono il
rigetto dei motivi dell’appello Ti. (sub lett. a1) e b1) dell’esposizione in
fatto) e dell’appello K. (sub lett. b4) e d4).
Inoltre, il Collegio ritiene di dover ribadire, quanto agli aspetti di
istruttoria e di motivazione che rendono legittimo l’atto di pianificazione,
quanto già affermato con la citata sentenza di questa Sezione n. 6484/2018
(e dall’ulteriore giurisprudenza ivi richiamata): “Per quanto concerne la
motivazione dell’atto, ... le scelte di pianificazione urbanistica sono
caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono apprezzamento di
merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate
da errori di fatto o da abnormi illogicità e, in occasione della formazione
di uno strumento urbanistico generale, le decisioni dell’amministrazione
riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita
motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di
ordine tecnico discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso (cfr.
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 22.12.1999, n. 24 nonché, ex
multis, Cons. Stato, IV, 28.06.2018, n. 3987).
In particolare, la richiamata decisione dell’Adunanza Plenaria 22.12.1999,
n. 24, ha posto in rilievo che per l’interesse correlato ad una precedente
previsione urbanistica che consenta un utilizzo dell’area in modo più
proficuo vale il principio generale della non necessità di motivazione
ulteriore rispetto a quelle che si possono evincere dai criteri di ordine
tecnico-urbanistico, seguiti per la redazione del progetto di strumento.
In questo caso, infatti, viene in considerazione una aspettativa generica
del privato alla non reformatio in peius delle destinazioni di zona
edificabili, cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di
pianificazione urbanistica, ed analoga a quella di ogni proprietario di aree
che aspira ad una utilizzazione più proficua dell’immobile.
La Sezione, peraltro, ha già avuto modo di enunciare i seguenti principi in
materia di pianificazione urbanistica, che il Collegio condivide e che
possono essere applicati anche in sede di decisione della presente
controversia, ancorché questa sia inerente ad un piano sovracomunale (cfr.
Cons. Stato, IV, 11.10.2017, n. 4707):
- le scelte di pianificazione urbanistica costituiscono esercizio
di ampia discrezionalità da parte dell’amministrazione e le stesse,
nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono
censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta
illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (nei
sensi precisati dalla giurisprudenza), onde evitare un indebito
“sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”;
- l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del
territorio non è funzionale solo (alle) ... diverse tipologie di
edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici,
opifici industriali e artigianali, etc.), ma è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che
trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012, n. 2710);
- l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di
adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le previsioni
incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime
aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione
dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 03.11.2008, n. 5478);
- le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno
puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la
pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora
incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come,
mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree
determinate del PRG, per le quali quest’ultimo prevedeva diversa
destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei
privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta
per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che
provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In
questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola
area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente
locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di
sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con
il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona
precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre,
di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa
modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una
nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati
contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 25.05.2016, n. 2221; Id, 08.06.2011, n. 3497);
- la motivazione delle scelte urbanistiche, sufficientemente
espressa in via generale, è desumibile sia dai documenti di accompagnamento
all’atto di pianificazione urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle
scelte effettuate dall’amministrazione comunale (Cons. Stato, sez. IV,
26.03.2014, n. 1459)”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.01.2020 n. 379 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sanatoria per così dire “ordinaria”, ossia quella disciplinata
all’epoca dei fatti di causa dall’anzidetto art. 13 della l. n. 47 del 1985
e, attualmente, dall’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001
(e che in tal senso si distingue quindi da quella “straordinaria”,
viceversa applicabile entro ben definiti spazi temporali per effetto delle
disposizioni speciali introdotte in prosieguo di tempo dall’art. 31 e ss.
della l. n. 47 del 1985, dall’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 e
dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni in l.
24.11.2003, n. 326) costituisce lo strumento tipico per
ordinariamente ricondurre alla legalità gli abusi edilizi, e la sua
utilizzazione non può che essere consentita a chiunque abbia edificato
sine titulo, anche a prescindere dalla pregressa sua mancata
impugnazione di provvedimenti di diniego a costruire l’opera abusiva, purché
ovviamente seguitino a sussistere al riguardo le condizioni inderogabilmente
chieste dalla disciplina medesima, ossia
- sotto il profilo sostanziale la
c.d. “doppia conformità” (e cioè la rispondenza di quanto edificato alla
strumentazione urbanistica vigente sia al momento della presentazione della
domanda di sanatoria, sia al momento della realizzazione dell’abuso nonché
- sotto il profilo procedimentale -e per quanto qui segnatamente
interessa, anche con riguardo a quanto testualmente disposto sia dal
predetto art. 13 della l. n. 47 del 1985, sia, ora, dall’art. 36 del t.u.
approvato con d.P.R. n. 380 del 2001- la non ancora intervenuta irrogazione
delle sanzioni amministrative previste per la realizzazione dell’abuso.
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3.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.
3.2. La sentenza resa dal giudice di primo grado va innanzitutto confermata
nel capo in cui è respinta l’eccezione di inammissibilità sollevata dal
Comune in ordine all’impugnazione proposta avverso il provvedimento n.
-OMISSIS- recante il diniego dell’accertamento di conformità del ballatoio,
richiesto a’ sensi dell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, a quel tempo
vigente e ad oggi sostituito dall’omologa disciplina contenuta nell’art. 36
del t.u. approvato con d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Invero mediante la propria prospettazione l’Amministrazione comunale
sostiene un principio alquanto paradossale, ossia che se è in passato
intervenuto un provvedimento di diniego di costruire un determinato
manufatto e se tale atto non è stato impugnato, risulterebbe tout court
precluso l’accertamento di conformità per chi successivamente, e malgrado il
diniego, abbia realizzato abusivamente lo stesso manufatto.
La sanatoria per così dire “ordinaria”, ossia quella disciplinata
all’epoca dei fatti di causa dall’anzidetto art. 13 della l. n. 47 del 1985
e, attualmente, dall’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001
(e che in tal senso si distingue quindi da quella “straordinaria”,
viceversa applicabile entro ben definiti spazi temporali per effetto delle
disposizioni speciali introdotte in prosieguo di tempo dall’art. 31 e ss.
della l. n. 47 del 1985, dall’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 e
dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni in l.
24.11.2003, n. 326) costituisce, infatti, lo strumento tipico per
ordinariamente ricondurre alla legalità gli abusi edilizi, e la sua
utilizzazione non può che essere consentita a chiunque abbia edificato
sine titulo, anche a prescindere dalla pregressa sua mancata
impugnazione di provvedimenti di diniego a costruire l’opera abusiva, purché
ovviamente seguitino a sussistere al riguardo le condizioni inderogabilmente
chieste dalla disciplina medesima, ossia sotto il profilo sostanziale la
c.d. “doppia conformità” (e cioè la rispondenza di quanto edificato
alla strumentazione urbanistica vigente sia al momento della presentazione
della domanda di sanatoria, sia al momento della realizzazione dell’abuso:
cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. II, 13.06.2019, n.
3958) nonché sotto il profilo procedimentale -e per quanto qui segnatamente
interessa, anche con riguardo a quanto testualmente disposto sia dal
predetto art. 13 della l. n. 47 del 1985, sia, ora, dall’art. 36 del t.u.
approvato con d.P.R. n. 380 del 2001- la non ancora intervenuta irrogazione
delle sanzioni amministrative previste per la realizzazione dell’abuso;
condizione, quest’ultima, sicuramente sussistente nel caso di specie e che
pertanto abilita la parte interessata a proporre l’istanza che in ogni caso
obbliga l’Amministrazione comunale a esprimersi verificando la sussistenza
dell’anzidetta “doppia conformità”, nonché l’osservanza di tutte le
altre ulteriori disposizioni applicabili in proposito (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 14.01.2020 n. 355 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Tutela
degli immobili di interesse storico e architettonico e applicazione delle
norme per l'abbattimento delle barriere architettoniche.
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Edilizia – Barriere architettoniche – Opere volte alla loro eliminazione
– Immobili di interesse storico e architettonico - Diniego – Condizione.
Ai sensi dell’art. 4, l. 09.01.1989, n. 13,
l’amministrazione può negare l’autorizzazione per realizzare opere edilizie
volte all’abbattimento di barriere architettoniche in immobili di interesse
storico e architettonico nella sola ipotesi in cui le opere in questione
arrechino grave e serio pregiudizio all’intero fabbricato (1).
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(1) Ha ricordato la Sezione che la speciale disciplina di favore
contenuta nella l. 09.01.1989, n. 13 si applica anche a beneficio di persone
anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e proprie,
soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie (Cass. civ., sez.
II, 28.03.2017, n. 7938).
Tale legge infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente
orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone
affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall’intera
collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella
costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli
preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente
dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone
disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali (Corte
cost. 10.05.1999, n. 167, e Cass. civ., sez. II, 25.10.2012, n. 18334) e non
già di accordare diritti personali ed intrasmissibili a titolo di
concessione alla persona disabile in quanto tale (cfr. sul punto Cass. civ.,
sez. II, 26.02.2016, n. 3858).
In conseguenza di ciò, per le disposizioni contenute nella testé citata l.
n. 13 del 1989 si impone “un’interpretazione estensiva, nel senso appena
visto” (Cons.
St., sez. VI, 18.10.2017, n. 4824).
Va rimarcato inoltre che, in particolare, secondo l’art. 4 della legge
stessa, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche
previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a migliorare le
condizioni di vita delle persone svantaggiate nel senso descritto, si
possono effettuare anche su beni sottoposti a vincolo come beni culturali, e
la relativa autorizzazione, come previsto dal comma 4 di tale articolo, “può
essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio
pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi quindi al comma 5 che “il
diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della
serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui
l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente
prospettate dall'interessato”.
Si è in tal modo introdotto nell’ordinamento, in ordine ai peculiari valori
presidiati dalla legge in esame (tra l’altro non soltanto inerenti all’art.
32 Cost., ma anche di rilievo internazionale, in quanto stabiliti dalla
Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti per le persone con disabilità
adottata dall’Assemblea Generale con risoluzione n. 61/106 del 13.12.2006 e
ratificata con l. 03.03.2009, n. 18) un onere di motivazione particolarmente
intenso, e ciò in quanto l’interesse alla protezione della persona
svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico,
a sua volta promanante dall’art. 9 Cost., soltanto in casi eccezionali (Cons.
St., sez. VI, 18.10.2017, n. 4824; id. 07.03.2016, n. 705; id.
28.12.2015, n. 5845; id.
12.02.2014, n. 682)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 14.01.2020 n. 355 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
3.3. Venendo ora al merito di causa, a ragione il giudice di primo grado ha
accolto i due ricorsi proposti dal condominio.
Va opportunamente premesso in proposito che, come anche affermato ad esempio
da Cass. civ., Sez. II, 28.03.2017, n. 7938, la speciale disciplina di
favore contenuta nella l. 09.01.1989, n. 13, si applica anche a beneficio di
persone anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e
proprie, soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie.
Tale legge infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente
orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone
affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall’intera
collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella
costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli
preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente
dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone
disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali (così Corte
Cost., 10.05.1999, n. 167, e Cass. civ., Sez. II, 25.10.2012, n. 18334) e
non già di accordare diritti personali ed intrasmissibili a titolo di
concessione alla persona disabile in quanto tale (cfr. sul punto Cass. civ.,
Sez. II, 26.02.2016, n. 3858).
In conseguenza di ciò, per le disposizioni contenute nella testé citata l.
n. 13 del 1989 si impone “un’interpretazione estensiva, nel senso appena
visto” (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI,
18.10.2017, n. 4824).
Va rimarcato inoltre che, in particolare, secondo l’art. 4 della legge
stessa, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche
previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a migliorare le
condizioni di vita delle persone svantaggiate nel senso descritto, si
possono effettuare anche su beni sottoposti a vincolo come beni culturali, e
la relativa autorizzazione, come previsto dal comma 4 di tale articolo, “può
essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio
pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi quindi al comma 5 che “il
diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della
serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui
l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente
prospettate dall'interessato”.
Si è in tal modo introdotto nell’ordinamento, in ordine ai peculiari valori
presidiati dalla legge in esame (tra l’altro non soltanto inerenti all’art.
32 Cost., ma anche di rilievo internazionale, in quanto stabiliti dalla
Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti per le persone con disabilità
adottata dall’Assemblea Generale con risoluzione n. 61/106 del 13.12.2006 e
ratificata con l. 03.03.2009, n. 18) un onere di motivazione particolarmente
intenso, e ciò in quanto l’interesse alla protezione della persona
svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico,
a sua volta promanante dall’art. 9 Cost., soltanto in casi eccezionali
(così, puntualmente, la già citata sentenza di Cons. Stato, Sez. VI, n. 4824
del 2017; nonché id., 07.03.2016, n. 705, 28.12.2015, n. 5845, e 12.02.2014,
n. 682).
Del tutto fondatamente, pertanto, il giudice di primo grado ha evidenziato
che nel caso di specie il sopradescritto e alquanto rigoroso onere
motivazionale non è stato adempiuto, posto che:
1) nel parere del 28.01.1999, la Commissione edilizia integrata si
è limitata ad affermare, in via del tutto generica, che mediante la
realizzazione dei due ballatoi “si configurerebbe un’ulteriore
alterazione della facciata laterale dello stabile”;
2) nel precedente parere del 21.10.1996, la stessa Commissione
aveva espresso parere negativo senza peraltro esprimersi in ordine
all’asserito pregiudizio per l’estetica della facciata dello stabile,
limitandosi unicamente a prospettare la soluzione alternativa
dell’installazione di un “opportuno mezzo meccanico posto all’interno”;
3) in modo ancor più breviloquente la Soprintendenza per i Beni
architettonici e artistici di Napoli, nella propria nota del 30.05.1997, ha
aderito alla già di per sé carente motivazione espressa dalla Commissione
edilizia integrata limitandosi ad affermare che la stessa era comunque
congruente rispetto ad una “migliore tutela del sito”.
Puntualmente il giudice di primo grado ha colto l’intrinseco difetto
motivazionale di tutti e tre tali atti rispetto all’anzidetto precetto di
legge, posto che in nessuno di essi è stato enunciato un qualsivoglia
riferimento a quanto esplicitamente e puntualmente chiesto dalla
disposizione di legge, ossia –giova ribadire- la compiuta enunciazione della
“natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto
al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le
alternative eventualmente prospettate dall'interessato”; né in tutti e
tre tali atti sono contenuti rilievi in ordine alla criticità, rilevata dal
condominio, della proposta installazione del mezzo meccanico rispetto alla
presenza delle volte a botte e a crociera presenti all’interno dello stesso
stabile e parimenti assoggettate a tutela.
Risulta ben evidente, quindi, che tali innegabili carenze che si riscontrano
nelle pronunce da parte dei soggetti competenti ad esprimersi sotto il
profilo della compatibilità del progetto con il vincolo insistente
sull’immobile dispiegano i propri effetti vizianti sul provvedimento di
diniego dell’accertamento di conformità il quale, a sua volta, non può che
refluire altrettanto negativamente sulla susseguente ingiunzione a demolire
susseguentemente emanata dallo stesso Comune, parimenti impugnata dal
condominio e che risulta pertanto illegittima in via derivata rispetto al
presupposto provvedimento di diniego: il tutto, con conseguente assorbimento
di ogni altra censura dedotta e salvi e riservati restando gli ulteriori
provvedimenti che l’Amministrazione comunale adotterà nella riedizione
dell’azione amministrativa di propria competenza.
Invero soltanto nel corso di causa, segnatamente nel primo grado di
giudizio, la difesa del Comune aveva fatto cenno ad un’interlocuzione
intervenuta nelle vie brevi in sede di istruttoria della pratica, nel corso
della quale l’amministrazione comunale avrebbe rappresentato al condominio
che “il mezzo meccanico suggerito era da installarsi lungo la parete del
rampante perché in tal modo non avrebbe interferito con le volte a botte ed
a crociera della stessa”.
Tale circostanza, tuttavia, non trova un qualsivoglia riscontro negli atti
dei procedimenti da cui è scaturita la presente causa, e può quindi essere
-al più- ricondotta ad un’ipotesi di integrazione postuma della motivazione
del provvedimento impugnato nella susseguente sede di contraddittorio
giudiziale: fattispecie, questa che -come è ben noto- risulta comunque ex
se illegittima (cfr. sul punto, tra le più recenti, Cons. Stato, Sez.
III, 18.06.2019, n. 4119). |
APPALTI: Non
può assurgere a motivo di esclusione in termini di grave illecito
professionale una irregolarità fiscale da tempo superata e, comunque, non
avente più attuale rilevanza.
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Il thema decidendum è costituito dalla considerazione degli effetti -in
termini sanzionatori- della omessa dichiarazione in quanto tale circa
l’annotazione nel casellario informatico dell'ANAC.
Occorre richiamare a riguardo la giurisprudenza secondo cui, anche alla luce
dell’attuale testo dell’art. 80, comma 5, “i c.d. obblighi informativi, in
particolare quelli di cui alla lettera c-bis) ed alla lettera f-bis), sono
posti a carico dell’operatore economico per consentire alla stazione
appaltante un’adeguata e ponderata valutazione sull’affidabilità e
sull’integrità del medesimo” .
Come rilevato dal Collegio in sede cautelare, “sussiste in capo alla
stazione appaltante un potere di apprezzamento discrezionale in ordine alla
sussistenza dei requisiti di “integrità o affidabilità” dei concorrenti, e
che, pertanto, al fine di rendere possibile il corretto esercizio di tale
potere, questi ultimi sono tenuti a dichiarare qualunque circostanza che
possa ragionevolmente avere influenza sul processo valutativo demandato
all’amministrazione”.
Tuttavia, occorre, altresì, rilevare che l’orientamento che impone agli
operatori economici di portare a conoscenza della stazione appaltante tutte
le informazioni relative alle proprie vicende professionali, anche non
costituenti cause tipizzate di esclusione, è stato oggetto di
interpretazione evolutiva.
Sono, infatti, stati individuati limiti di operatività di un siffatto
generalizzato obbligo dichiarativo, “dato che l’ampia interpretazione
anzidetta, come osservato in un condivisibile recente arresto
giurisprudenziale, “potrebbe rilevarsi eccessivamente onerosa per gli
operatori economici imponendo loro di ripercorrere a beneficio della
stazione appaltante vicende professionali ampiamente datate o, comunque, del
tutto insignificanti nel contesto della vita professionale di una impresa””.
La giurisprudenza più recente si è orientata nel ritenere che “la mancata
ostensione di un pregresso illecito è rilevante -a fini espulsivi- non già
in sé, bensì in funzione dell’apprezzamento della stazione appaltante, il
quale va a sua volta eseguito in considerazione anzitutto della consistenza
del fatto omesso”.
---------------
Secondo la giurisprudenza che si è di recente sempre più consolidata,
“Eventuali esclusioni da precedenti procedure di gara, per quanto siano
state accertate dal giudice amministrativo, assumono pertanto rilevanza solo
se e fino a quando risultino iscritte nel Casellario, per gli effetti e con
le modalità previste nell'art. 80, comma 12, del D.Lgs. n. 50 del 2016,
qualora l'ANAC ritenga che emerga il dolo o la colpa grave dell'impresa
interessata, in considerazione dell'importanza e della gravità dei fatti”.
Tenuto conto dell’evoluzione giurisprudenziale registratasi sulla questione
degli oneri di dichiarazione degli operatori economici partecipanti ad una
gara, il Collegio ritiene che assumono rilievo e siano idonei a fondare
l’adozione di provvedimenti sanzionatori o espulsivi dalla procedura di gara
solo i casi di mancata dichiarazione di precedenti esclusioni da analoghe
gare disposte per omessa o falsa attestazione circa l’iscrizione nel
casellario informatico, ai sensi e per gli effetti dei cui ai commi 5 e 12
dell’art. 80 d.lgs. 50/2016.
---------------
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato in termini generali:
- che “in riferimento all’omessa dichiarazione dell’esclusione da
una precedente gara d’appalto, per potersi ritenere integrata l’ipotesi di
omissione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della
procedura di selezione (art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016,
nella formulazione anteriore alle modifiche di cui al d.l. n. 135 del 2018)
“è necessario che le informazioni di cui si lamenta la mancata segnalazione
risultino, comunque, dal Casellario informatico dell’Anac, in quanto solo
rispetto a tali notizie potrebbe porsi un onere dichiarativo ai fini della
partecipazione alle procedure di affidamento (…)”;
- e ancora che “la preclusione alla partecipazione alle gare per
effetto della produzione di false dichiarazioni o falsa documentazione resti
confinata alle due ipotesi tipiche: a) dell’esclusione dalla medesima gara
nel cui ambito tale produzione è avvenuta; b) dall’esclusione da ulteriori e
successive gare (ma soltanto nel caso in cui sia intervenuta l’iscrizione
dell’impresa nel casellario informatico tenuto dall’Osservatorio dell’ANAC,
nelle ipotesi e con i limiti di cui all’art. 80, comma 5, lett. f-ter), e
comma 12.
Resta, invece, preclusa alle stazioni appaltanti la possibilità di valutare
autonomamente ai fini escludenti la condotta di un concorrente il quale
abbia reso false e/o omissive dichiarazioni nell’ambito di una precedente
gara e non sia stato iscritto nell’indicata casellario” .
---------------
7. Ai fini di più completa comprensione delle questioni ritenute rilevanti
per la decisione occorre chiarire che:
7a) non è in discussione, nel caso in esame, il principio, peraltro
ribadito dal Consiglio proprio con riferimento alla vicenda (gara per
l’affidamento del servizio di “refezione scolastica” nel Comune di Marcianise) che ha riguardato la ricorrente, secondo cui non può assurgere a
motivo di esclusione in termini di grave illecito professionale una
irregolarità fiscale da tempo superata e, comunque, non avente più attuale
rilevanza (Cons. Stato, 597/2019, cit.; in termini Sez. V, 27.09.2019, n. 6490; Sez. III,
02.04.2019, n. 2183);
7b) come ribadito dalla difesa della civica amministrazione nella
memoria depositata il 06.12.2019, quel che è stato ritenuto
determinante ai fini dell’esclusione è la mancata dichiarazione, sia nella
domanda di partecipazione che nell’apposito spazio riservato del DGUE, di
essere stata la ricorrente destinataria di un’annotazione nel casellario
informatico, il cui inserimento era stato disposto dall’Anac con la Delibera
n. 1154 del 12.12.2018.
7c) riconosciuta allora l’irrilevanza, ai fini espulsivi, del fatto
sotteso al procedimento avviato dall’Anac, il thema decidendum è costituito
dalla considerazione degli effetti -in termini sanzionatori, come avvenuto
nel caso di specie- della omessa dichiarazione in quanto tale circa
l’annotazione nel casellario informatico, disposta dalla Delibera n. 1154.
7.1. - Occorre richiamare a riguardo la giurisprudenza secondo cui, anche
alla luce dell’attuale testo dell’art. 80, comma 5, “i c.d. obblighi
informativi, in particolare quelli di cui alla lettera c-bis) ed alla
lettera f-bis), sono posti a carico dell’operatore economico per
consentire alla stazione appaltante un’adeguata e ponderata valutazione
sull’affidabilità e sull’integrità del medesimo (cfr. Cons. Stato, V, 04.02.2019, n. 827; V, 16.11.2018, n. 6461; V,
03.09.2018, n.
5142; V, 17.07.2017, n. 3493; V, 05.07.2017, n. 3288)” (Cons. Stato,
sez. V, sent. 5171 del 22.07.2019).
Come rilevato dal Collegio in sede cautelare, “sussiste in capo alla
stazione appaltante un potere di apprezzamento discrezionale in ordine alla
sussistenza dei requisiti di “integrità o affidabilità” dei concorrenti, e
che, pertanto, al fine di rendere possibile il corretto esercizio di tale
potere, questi ultimi sono tenuti a dichiarare qualunque circostanza che
possa ragionevolmente avere influenza sul processo valutativo demandato
all’amministrazione (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 15.04.2019, n.
2430; 12.03.2019, n. 1649; id. 24.09.2018, n. 5500; TAR Lazio,
sez. I, sent. 4729/2019 richiamate anche nel verbale n. 4 del 12.09.2019 con
cui la Commissione ha formulato proposta di esclusione)”.
Tuttavia, occorre, altresì, rilevare che l’orientamento che impone agli
operatori economici di portare a conoscenza della stazione appaltante tutte
le informazioni relative alle proprie vicende professionali, anche non
costituenti cause tipizzate di esclusione (cfr. Cons. Stato, V, 11.06.2018, n. 3592; id., V, 25.07.2018, n. 4532; id., V, 19.11.2018, n.
6530; id. III, 29.11.2018, n. 6787 ed altre), è stato oggetto di
interpretazione evolutiva.
Sono, infatti, stati individuati limiti di operatività di un siffatto
generalizzato obbligo dichiarativo, “dato che l’ampia interpretazione
anzidetta, come osservato in un condivisibile recente arresto
giurisprudenziale, “potrebbe rilevarsi eccessivamente onerosa per gli
operatori economici imponendo loro di ripercorrere a beneficio della
stazione appaltante vicende professionali ampiamente datate o, comunque, del
tutto insignificanti nel contesto della vita professionale di una
impresa” (così Cons. Stato, V, 03.09.2018, n. 5142)” (Cons Stato, n.
5171/2019, cit.).
La giurisprudenza più recente si è orientata nel ritenere che “la mancata
ostensione di un pregresso illecito è rilevante -a fini espulsivi- non già
in sé, bensì in funzione dell’apprezzamento della stazione appaltante, il
quale va a sua volta eseguito in considerazione anzitutto della consistenza
del fatto omesso” (ex multis, Cons. Stato, sez. V, sent. 8480 del
13.12.2019; Cons. Stato, Sez. V, 15.04.2019, n. 2430; 12.03.2019, n.
1649; id. 24.09.2018, n. 5500; TAR Lazio, sez. I, sent. 4729/2019,
queste ultime richiamate anche nel verbale n. 4 del 12.09.2019 con cui la
Commissione ha formulato proposta di esclusione).
7.2. - È allora necessario, nel caso in esame, esaminare quanto disposto
dalla Delibera Anac n. 1154 del 12/12/2018.
Risulta dagli atti che l’oggetto della nota di trasmissione della
Deliberazione in questione è il “procedimento sanzionatorio per l’iscrizione
nel casellario informatico di annotazione interdittiva, ai sensi dell’art.
80, comma 12, d.lgs. 50/2016 e per l’applicazione della sanzione pecuniaria
prevista dall’art. 213, comma 13, del Codice”.
La nota espressamente trasmette copia della delibera n. 1154 del 12.12.2018,
con la quale è stata disposta, “oltre all’archiviazione del procedimento,
l’annotazione non interdittiva nel casellario informatico degli operatori
economici”.
L’Anac, dunque, archivia il procedimento sanzionatorio avviato ai sensi
dell’art. 80, comma 12, d.lgs. 50/2016 e per l’applicazione della sanzione
pecuniaria prevista dall’art. 213, comma 13, del Codice, ed inserisce nel
casellario informatico contratti pubblici una annotazione “non interdittiva”,
riferita alle esclusioni dell’operatore economico da due gare aventi ad
oggetto il servizio di refezione scolastica. Giova in proposito rimarcare
che una delle due esclusioni è stata oggetto annullamento da parte del
giudice in appello (Cons. Stato, sent. 597/2019 più volte menzionata), in
data successiva alla delibera.
Ebbene, secondo la giurisprudenza che si è di recente sempre più
consolidata, richiamata anche da parte ricorrente, “Eventuali esclusioni da
precedenti procedure di gara, per quanto siano state accertate dal giudice
amministrativo, assumono pertanto rilevanza solo se e fino a quando
risultino iscritte nel Casellario, per gli effetti e con le modalità
previste nell'art. 80, comma 12, del D.Lgs. n. 50 del 2016, qualora l'ANAC
ritenga che emerga il dolo o la colpa grave dell'impresa interessata, in
considerazione dell'importanza e della gravità dei fatti” (cfr. Cons. Stato
Sez. V, 27/09/2019, n. 6490).
7.3. - È per questo che all’esito dell’approfondimento del merito del
ricorso, e tenuto conto dell’evoluzione giurisprudenziale registratasi sulla
questione degli oneri di dichiarazione degli operatori economici
partecipanti ad una gara, il Collegio ritiene che assumono rilievo e siano
idonei a fondare l’adozione di provvedimenti sanzionatori o espulsivi dalla
procedura di gara, solo i casi di mancata dichiarazione di precedenti
esclusioni da analoghe gare disposte per omessa o falsa attestazione circa
l’iscrizione nel casellario informatico, ai sensi e per gli effetti dei cui
ai commi 5 e 12 dell’art. 80 d.lgs. 50/2016.
7.4 – Per quanto sopra esposto e ricostruito, le doglianze della ricorrente
meritano favorevole apprezzamento, in base alle seguenti dirimenti
considerazioni:
7.I) il fatto che aveva portato alle precedenti esclusioni della ricorrente
da gare analoghe non è stato ritenuto rilevante (in tal senso Cons. Stato
sent. 597/2019 ”i) la produzione di false dichiarazioni relative alla
regolarità fiscale si era prodotta nell’ambito di una precedente gara di
appalto (e nell’ambito di tale gara aveva correttamente determinato
l’esclusione dell’appellante); ii) l’appellante non era stata tuttavia
iscritta in conseguenza di ciò nel casellario informativo dell’ANAC (ragione
per cui non sussisteva nei suoi confronti la preclusione alla partecipazione
di cui all’articolo 80, comma 12); iii) l’appellante aveva oltretutto
rimosso nelle more lo stato di irregolarità fiscale, ragione per cui al
momento della presentazione della domanda di partecipazione alla successiva
gara non sussisteva nei suoi confronti una preclusione in tal senso; iv) nei
confronti dell’impresa non sussisteva l’onere di dichiarare la pregressa
esclusione (i.e.: l’onere di rappresentare una circostanza che, quand’anche
conosciuta dalla stazione appaltante, non avrebbe comunque potuto condurre
all’esclusione dalla gara)";
7.II) la relativa omessa comunicazione non è stata ritenuta rilevante
neanche ai fini sanzionatori dall’Anac, che ha archiviato il procedimento
con la Delibera n. 1154; difettano, pertanto, senz’altro i presupposti
dell’illecito in relazione alla corrispondente omissione, nella prospettiva
della omessa o falsa dichiarazione, in quanto l’annotazione Anac non ha
natura sanzionatoria, essendosi il relativo procedimento concluso, come
visto, con un’archiviazione.
L’annotazione in questione, dunque, è diversa
dall’iscrizione dell’impresa nel casellario informatico tenuto
dall’Osservatorio, disposta nei casi in cui ANAC eserciti il potere
sanzionatorio di cui agli artt. 80, comma 12, e 213, comma 13, d.lgs. n. 50
del 2016;
7.III) la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato in termini
generali che “in riferimento all’omessa dichiarazione dell’esclusione da una
precedente gara d’appalto, per potersi ritenere integrata l’ipotesi di
omissione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della
procedura di selezione (art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016,
nella formulazione anteriore alle modifiche di cui al d.l. n. 135 del 2018)
“è necessario che le informazioni di cui si lamenta la mancata segnalazione
risultino, comunque, dal Casellario informatico dell’Anac, in quanto solo
rispetto a tali notizie potrebbe porsi un onere dichiarativo ai fini della
partecipazione alle procedure di affidamento (…) (così Cons. Stato, V, n.
2063/2018 e id., III, n. 4266/2018 cit.)” (Cons. Stato, V, n. 6576/2018, cit.;
nello stesso senso, oltre ai precedenti richiamati dalla citata sentenza,
cfr. Cons. Stato, V, 03.09.2018, n. 5136; 04.07.2017, n. 3257 e
3258; contra, v. Cons. Stato, n. 5171/2019, cit., cui segue tuttavia Cons.
Stato, V, 27.09.2019, n. 6490, che si uniforma al precedente
orientamento)” (Cons. Stato sent. 8480/2019, cit); e ancora che “la
preclusione alla partecipazione alle gare per effetto della produzione di
false dichiarazioni o falsa documentazione resti confinata alle due ipotesi
tipiche: a) dell’esclusione dalla medesima gara nel cui ambito tale
produzione è avvenuta; b) dall’esclusione da ulteriori e successive gare (ma
soltanto nel caso in cui sia intervenuta l’iscrizione dell’impresa nel
casellario informatico tenuto dall’Osservatorio dell’ANAC, nelle ipotesi e
con i limiti di cui all’art. 80, comma 5, lett. f-ter), e comma 12.
7.9.5. Resta, invece, preclusa alle stazioni appaltanti la possibilità di
valutare autonomamente ai fini escludenti la condotta di un concorrente il
quale abbia reso false e/o omissive dichiarazioni nell’ambito di una
precedente gara e non sia stato iscritto nell’indicata casellario” (Cons.
Stato, sez. V, sent. 6490/2019);
7.IV) in conformità a quanto in questa sede rilevato si è pronunciato, da
ultimo, questo TAR su analogo caso, relativo a procedura di gara
aggiudicata alla ricorrente, in cui la controinteressata ha proposto ricorso
lamentando la mancata esclusione della Gl.Se. in considerazione
della falsa dichiarazione riferita proprio alla medesima annotazione sul
casellario informatico dell’ANAC di cui alla Delibera 1154/2018 (TAR
Napoli, sez. II sent. 5884 dell’11.12.2019 nella quale, dopo il richiamo
alle sentenza n. 597/2019, in cui il “Giudice di appello –pur dando atto
all’interno della Sezione V di diversi orientamenti culminati
rispettivamente in decisioni nn. 5365 e 3592/2018- ha riformato pronunce del
TAR Campania (nn. 2495/2018, 1146/2018 e 902/2017) statuendo che una
precedente esclusione per irregolarità fiscale priva di rilevanza attuale
non può assurgere a motivo di esclusione in termini di grave illecito
professionale, anche perché l’art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016 riconosce
efficacia escludente alla partecipazione alla gara solamente sino al momento
in cui il concorrente non provveda alla regolarizzazione della propria
posizione od ottenga la rateizzazione del debito tributario; ragionando in
termini contrari, si determinerebbe una indefinita protrazione di efficacia
“a strascico” delle violazioni relative all’obbligo di pagamento di debiti
per imposte e tasse”; si è stabilito che “l’ANAC con deliberazione n. 1154
del 12/12/2018 ha disposto nei confronti dell’odierna controinteressata
l’archiviazione dei profili sanzionatori e chiarito che l’annotazione non
costituisce motivo di automatica esclusione dalle gare”).
8. - Per tutto quanto esposto, il ricorso è accolto per la parte relativa
alla domanda di annullamento degli atti impugnati
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 14.01.2019 n. 168 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI:
Ai fini risarcitori, non è sufficiente il presupposto costituito
dall’illegittimità della procedura, occorrendo dedurre e provare che il
provvedimento amministrativo illegittimo abbia impedito di conseguire il
bene della vita ad esso sotteso.
Inoltre, come chiarito dalla ormai consolidata giurisprudenza, condivisa dal
Collegio, nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo
opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la
valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., è ammessa
soltanto in presenza di situazione di impossibilità –o di estrema
difficoltà– di una precisa prova sull’ammontare del danno (A.P. n. 2 del
2017).
---------------
Nel caso di specie, ricorrente ha
avanzato la propria pretesa senza fornire una prova concreta e rigorosa del
danno.
Ebbene, come sopra rilevato, alla totale carenza probatoria non può supplire
l’attività valutativa del giudice che non può essere di certo destinata ad
esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti alla
base delle proprie richieste.
Tali considerazioni devono essere svolte con riguardo alle varie voci di
danno indicate dalla ricorrente, non senza sottolineare che le spese di
partecipazione alla procedura rimangono comunque un costo a carico
dell’operatore economico anche in caso di aggiudicazione dell’affidamento.
---------------
9. - Parte ricorrente ha presentato anche domanda di risarcimento del danno
subito in conseguenza della disposta esclusione.
10. - La pretesa non può trovare favorevole apprezzamento.
Ai fini risarcitori, non è, infatti, sufficiente il presupposto costituito
dall’illegittimità della procedura, occorrendo dedurre e provare che il
provvedimento amministrativo illegittimo abbia impedito di conseguire il
bene della vita ad esso sotteso (ex multis: Cons. Stato, Ad. plen., 03.12.2008, n. 13; III, 23.01.2015, n. 302; IV,
04.07.2017, n.
3255, 06.02.2017, n. 489; V, 17.07.2017, n. 3505, 06.03.2017, n.
1037, 15.11.2016, n. 4718, 23.08.2016, n. 3674, 10.02.2015,
n. 675, 14.10.2014, n. 5115; VI, 30.11.2016, n. 5042).
Inoltre, come chiarito dalla ormai consolidata giurisprudenza, condivisa dal
Collegio, nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo
opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la
valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., è ammessa
soltanto in presenza di situazione di impossibilità –o di estrema
difficoltà– di una precisa prova sull’ammontare del danno (A.P. n. 2 del
2017).
10.1 - Nel caso in esame va rilevato, innanzitutto, che, l’esito della
domanda impugnatoria incide in senso determinante sulla pretesa di parte
ricorrente, in considerazione del ristoro che consegue al dovere
dell’amministrazione di ottemperare agli obblighi conformativi derivanti
dalla presente decisione, attesa la dichiarata disponibilità di parte
ricorrente all’immediato subentro nell’esecuzione del servizio oggetto della
procedura di gara.
Inoltre, non può essere trascurata la circostanza per cui la ricorrente ha
avanzato la propria pretesa senza fornire una prova concreta e rigorosa del
danno.
Ebbene, come sopra rilevato, alla totale carenza probatoria non può supplire
l’attività valutativa del giudice che non può essere di certo destinata ad
esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti alla
base delle proprie richieste.
10.2. - Tali considerazioni devono essere svolte con riguardo alle varie
voci di danno indicate dalla ricorrente, non senza sottolineare che le spese
di partecipazione alla procedura rimangono comunque un costo a carico
dell’operatore economico anche in caso di aggiudicazione dell’affidamento
(ex multis: Cons. Stato, III, 30.04.2015, n. 1839; IV, 14.03.2016, n.
992; V, 26.07.2017, n. 3679, 24.07.2017, n. 3650, 31.10.2016,
n. 4562, 16.08.2016, n. 3634; VI, 17.02.2017, n. 731).
11. – In conclusione, la domanda di annullamento deve essere accolta, mentre
quella risarcitoria deve essere respinta
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 14.01.2019 n. 168 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso
spese legali. Il mancato avvio del procedimento disciplinare non esclude,
per il dipendente assolto, la mancanza del conflitto di interessi per il
rimborso delle spese legali.
Il Consiglio di Stato, dopo aver ricostruito i principi fondamentali per il
rimborso delle spese legali al dipendente assolto in una causa penale, ha
negato il rimborso in presenza dell'assoluzione dai reati di calunnia,
omissione o rifiuto di atti di ufficio, non potendo escludere nel caso
concreto la loro riconducibilità ad esigenze di servizio, non trovando
immediata e diretta riferibilità nella volontà dell'Ente di appartenenza.
Anzi, il non adempimento da parte del dipendente di un suo dovere di
ufficio, pur considerando lo stesso non rilevante ai fini penali, non lo
pone al di fuori di un possibile conflitto di interessi con la propria
amministrazione, a nulla rilevando la mancata attivazione del procedimento
disciplinare.
---------------
8. Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato e vada, pertanto,
respinto.
9. Nell’odierno giudizio viene in questione la spettanza del rimborso delle
spese legali sostenute dal pubblico dipendente, ai sensi dell’art. 18, co.
1, del D.L. n. 67 del 1997, come convertito nella legge n. 135 del 1997, che
testualmente dispone: “Le spese legali relative a giudizi per
responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di
dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti
connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi
istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro
responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei
limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato. Le Amministrazioni
interessate, sentita l’Avvocatura dello Stato, possono concedere
anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza
definitiva che accerti la responsabilità”.
9.1. Sui presupposti che indefettibilmente devono essere presenti affinché
il pubblico dipendente possa invocare l’applicazione del citato art. 18 è
attualmente ravvisabile una convergenza di posizioni nella giurisprudenza
amministrativa.
9.2. Come recentemente chiarito anche dalla sentenza n. 8137/2019 di questa
Sezione, la norma subordina la spettanza del beneficio ad una duplice
circostanza:
a) l’esistenza di un giudizio, promosso nei confronti del (e non
anche dal) dipendente, conclusosi con un provvedimento che abbia
definitivamente escluso la sua responsabilità;
b) la sussistenza di un nesso tra gli atti e i fatti ascritti al
dipendente e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi
istituzionali.
9.3. In ordine alla prima circostanza, è necessario che la pronuncia
giurisdizionale abbia accertato l’assenza di responsabilità ed un tale
presupposto può ritenersi sussistente anche laddove sia stato applicato
l’art. 530, comma 2, del c.p.p. (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n.
8137; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Ad. Gen., 29.11.2012, n. 20/2013; Sez.
IV, 21.01.2011, n. 1713); dovendosi invece negare l’applicazione dell’art.
18 quando il proscioglimento sia conseguenza di cause diverse, quali
l’estinzione del reato, l’intervenuta prescrizione, oppure quando sia stato
disposto per ragioni processuali, quali la mancanza delle condizioni di
promovibilità o di procedibilità dell’azione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
28.11.2019, n. 8137; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. VI, 2005, n. 2041).
9.4. Ulteriore presupposto cui l’art. 18 ricollega il riconoscimento del
rimborso delle spese legali è che il dipendente abbia agito in nome, per
conto ed anche nell’interesse dell’Amministrazione; solo in tal caso,
infatti, è possibile ravvisare il nesso di immedesimazione organica in
ordine ai fatti o agli atti oggetto del giudizio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
28.11.2019, n. 8137).
9.5. Al riguardo è stato ulteriormente precisato che tale presupposto
sussiste solo ove gli atti o i fatti compiuti dall’interessato siano
riconducibili, in un rapporto di stretta dipendenza, con l’adempimento dei
propri obblighi, ossia con l’esercizio diligente della funzione pubblica;
occorrendo, altresì, che sia ravvisabile l’esistenza di un nesso di
strumentalità tra il compimento dell’atto o del fatto e l’adempimento del
dovere, non potendo il dipendente assolvere ai propri compiti, se non
tenendo quella determinata condotta (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2013,
n. 1190).
9.6. Peraltro, occorre porre in rilievo come la ricostruzione dell’esatta
portata dei requisiti indefettibili, ai quali l’art. 18 subordina il
rimborso delle spese legali, sia condivisa dalla giurisprudenza della Corte
di Cassazione, in ordine ai rapporti di impiego pubblico contrattualizzato.
9.7. La Cassazione, dando vita ad un orientamento ermeneutico consolidato,
ha affermato l’esigenza che il giudizio, cui la richiesta di rimborso
inerisce, riguardi procedimenti giudiziari strettamente connessi
all’adempimento dei compiti istituzionali. Ed infatti, lo specifico
interesse che deve necessariamente sussistere affinché l’Amministrazione
possa essere chiamata a tenere indenne dalle spese legali il proprio
dipendente, imputato in un procedimento penale, consiste nella circostanza
che l’attività sia riferibile all’Ente di appartenenza, ponendosi in un
rapporto di stretta connessione con il fine pubblico (cfr. Cass.,
29.01.2019, n. 2475; Cass., 06.08.2018, n. 20561; Cass. Lav., 06.07.2018 n.
17874; Cass., 05.02.2016 n. 2366; Cass. Lav, 03.02.2014, n. 2297)
9.8. Risulta pertanto evidente come il rimborso delle spese legali
rappresenti un meccanismo volto ad imputare al titolare dell’interesse
sostanziale le conseguenze dell’operato di chi abbia agito per suo conto; ne
deriva che un siffatto meccanismo di imputazione può operare solo in quanto
siano ravvisabili quel rapporto di stretta dipendenza, nonché quel nesso di
strumentalità tra l’adempimento del doveri istituzionali e il compimento
dell’atto, di cui si è detto in precedenza.
Una diversa conclusione condurrebbe a riconoscere la spettanza del beneficio
in ogni ipotesi di reato proprio, anche laddove il fatto addebitato esuli
dai doveri istituzionali, senza che possa ravvisarsi un collegamento,
diretto e di tipo oggettivo, con l’interesse dell’Amministrazione (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 05.04.2017, n. 1568).
9.9. Alla luce delle accennate coordinate ermeneutiche consegue
ulteriormente che la condotta del dipendente, consistente in atti o in
comportamenti, deve essere espressione della volontà dell’Amministrazione di
appartenenza e a questa riferibile, in quanto finalizzata al corretto
adempimento dei suoi fini istituzionali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
28.11.2019, n. 8137).
Sussistendo tali condizioni, il principio di immedesimazione organica
consente, mediante la creazione del rapporto d’ufficio, l’imputazione in
capo all’Amministrazione dell’intera attività, quindi anche degli effetti,
scaturenti dai comportamenti posti in essere dal titolare dell’organo.
9.10. La giurisprudenza ha infine chiarito come la natura eccezionale della
disposizione in esame ne imponga una stretta interpretazione, dovendo
concludersi per la non spettanza del beneficio nel caso in cui l’atto o il
comportamento:
a) non abbiano trovato origine nell’esecuzione dei compiti
istituzionali, ma abbiano avuto luogo ‘in occasione’ dello
svolgimento della pubblica funzione, senza che possa ravvisarsi la
necessaria riferibilità all’Amministrazione di appartenenza (cfr. Cass. civ.,
Sez. I, 31.01.2019, n. 3026; Sez. lav., 06.07.2018, n. 17874; Sez. lav.,
03.02.2014, n. 2297; Sez. lav., 30.11.2011, n. 25379; Sez. lav., 10.03.2011,
n. 5718; Cons. Stato, Sez. V, 05.05.2016, n. 1816; Sez. III, 2013, n. 4849;
Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190);
b) costituiscano violazione dei doveri d’ufficio (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 07.06.2018, n. 3427);
c) possano condurre ad un conflitto con gli interessi
dell’Amministrazione di appartenenza, cioè quando, pur in assenza di
responsabilità penale, sussistano i presupposti per la configurazione di un
illecito disciplinare e l’attivazione del relativo procedimento (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 27.08.2018, n. 2055; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. IV,
2013, n. 1190; Sez. IV, 2012, n. 423).
9.11. La necessità che la disposizione sia oggetto di stretta
interpretazione è del resto ricavabile dalla ratio che il legislatore
ha inteso imprimere all’istituto del rimborso delle spese legali.
Lo scopo della norma è quello di sollevare i funzionari pubblici dal timore
di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento del servizio,
nell’intento di impedire ‘che il dipendente statale tema di fare il
proprio dovere’ (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137). Il
fine avuto di mira dal normatore consiste quindi nel tenere indenni i
soggetti che abbiano agito in nome, per conto e nell’interesse
dell’Amministrazione dalle spese legali sostenute per difendersi dalle
accuse di responsabilità, poi rivelatesi infondate.
9.12. Al conseguimento di un siffatto scopo non basta una connessione con il
fatto di reato, di tipo soggettivo ed indiretto, come accadrebbe se lo
svolgimento dell’attività costituisse una mera occasione per il compimento
dell’atto o del comportamento; è necessario, invece, che sussista uno
specifico nesso causale che consenta di affermare la stretta riconducibilità
del fatto contestato all’espletamento del dovere d’ufficio, pena la
dilatazione del perimetro applicativo della norma oltre i confini delineati
dal legislatore.
10. Ricostruita la ragione ispiratrice della predetta disciplina, ne
consegue come del tutto inconferente si riveli il richiamo, operato
nell’atto di appello, agli artt. 11 e 12 del D.P.R. n. 461/2001 sulla
riconducibilità a cause di servizio di lesioni, infermità o aggravamenti di
lesioni o infermità preesistenti, riscontrate in capo al dipendente
appartenente ad amministrazioni pubbliche.
10.1. La ricorrente ha infatti esposto di aver ottenuto con determinazione
dirigenziale n. 1489/D del 27.10.2014 il riconoscimento della dipendenza da
fatti di servizio della patologia riscontrata, nella specie reazione ansioso
depressiva. Ha quindi lamentato la circostanza secondo cui l’Amministrazione
avrebbe aderito al parere espresso dal Comitato di Verifica sulle Cause di
Servizio in ordine al riconoscimento della valenza patogenetica del servizio
prestato, salvo discostarsene successivamente e senza che venisse resa
un’adeguata motivazione nell’ambito del procedimento sull’istanza di
rimborso delle spese legali.
10.2. A giudizio dell’appellante sia l’Amministrazione di appartenenza, che
il Tar avrebbero operato una riedizione illegittima del riconoscimento del
nesso causale effettuato dall’organo tecnico preposto, stravolgendolo
implicitamente.
10.3. Siffatta ricostruzione non coglie nel segno. È infatti da respingere
la tesi, da ultimo ribadita nella memoria di replica prodotta
dall’appellante, secondo cui il parere del C.V.C.S., seppur relativo ad un
diverso procedimento, dovrebbe essere assunto quale indice rivelatore della
presenza del nesso causale anche in altri giudizi, in ragione della natura
vincolata ed insindacabile della valutazione compiuta dal Comitato, siccome
connotata da certezza o da alto grado di credibilità logica e razionale.
10.4. A tale tesi non è possibile accedere proprio alla luce della ratio
ispiratrice dell’istituto del rimborso delle spese legali. Eterogenei,
infatti, sono i criteri che informano le relative discipline e differenti
devono essere i principi che presiedono alle rispettive valutazioni.
10.5. Dal riconoscimento degli eventi di servizio prestato, quali fattori
concausali efficienti sull’insorgenza o l’aggravamento dell’affezione, non
può automaticamente e meccanicamente desumersi un accertamento, differente
per natura e per oggetto, circa la stretta riconducibilità dell’atto o del
fatto ai doveri istituzionali dell’Ente di appartenenza. Ed invero, i fatti
addebitati al dipendente potrebbero, come nel caso di specie, esulare
dall’esercizio della funzione, per rinvenire nell’attività lavorativa solo
l’occasione del loro verificarsi.
10.6. Nel caso all’esame del Collegio, infatti, le condotte che hanno
portato alla contestazione dei reati di calunnia, omissione o rifiuto di
atti d’ufficio, seppur riconosciute come non rilevanti penalmente, non sono
in ogni caso riconducibili ad esigenze di servizio, non trovando immediata e
diretta riferibilità nella volontà dell’Ente di appartenenza. Anzi,
l’astenersi dal porsi alla guida di un mezzo militare non può che rendere
ipotizzabile in capo all’interessata una violazione dei doveri d’ufficio, se
si consideri che la stessa era munita di apposita patente di guida militare.
Ne deriva l’impossibilità di ravvisare un nesso tra l’agire della Sig.ra
-OMISSIS- e la volontà dell’Amministrazione, in ragione del dissolvimento
del rapporto di immedesimazione organica.
10.7. Né ha pregio l’eccezione sollevata dall’appellante in ordine al
riconoscimento di un conflitto di interesse tra Amministrazione e
dipendente. Si legge nell’atto di appello che il predetto conflitto potrebbe
ritenersi sussistente solo ove l’Amministrazione avviasse un procedimento
disciplinare nei confronti del proprio dipendente e procedesse
all’irrogazione di una sanzione, nonostante l’intervenuta assoluzione in
sede penale.
Orbene, la circostanza dell’assoluzione, così come la mancata instaurazione
di un procedimento disciplinare non ha alcuna rilevanza. Il conflitto
d’interesse può infatti rilevare ex se, indipendentemente dall’esito
del giudizio penale (cfr. Cass. Lav., 03.02.2014, n. 2297).
E l’assoluzione, giova ulteriormente precisare, non ha alcuna incidenza in
ordine al giudizio sulla non riconducibilità all’Amministrazione del fatto
addebitato (cfr. Cass. 05.02.2016, n. 2366).
Ne consegue che per ravvisare un conflitto con gli interessi
dell’Amministrazione ed escludere la spettanza del beneficio è sufficiente
che sussistano i presupposti per la configurazione dell’illecito
disciplinare e per l’attivazione del relativo procedimento (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 27.08.2018, n. 2055; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. IV,
2013, n. 1190; Sez. IV, 2012, n. 423).
11. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e, per l’effetto, va
confermata la sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.01.2020 n. 281 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Alla
Corte di Giustizia la mancanza della fase del contraddittorio prima
dell’emissione dell’informativa antimafia interdittiva.
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Informativa antimafia – Comunicazione di avvio del procedimento -
Esclusione – Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
E’ rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea la questione se gli artt. 91, 92 e 93, d.lgs. 06.09.2011, n. 159,
nella parte in cui non prevedono il contraddittorio endoprocedimentale in
favore del soggetto nei cui riguardi l’Amministrazione si propone di
rilasciare una informativa antimafia interdittiva, siano compatibili con il
principio del contraddittorio ex art. 7, l. 07.08.1990, m. 241, così come
ricostruito e riconosciuto quale principio di diritto dell’Unione (1).
---------------
(1) La Sezione non condivide l’assunto della natura cautelare
dell’informativa antimafia interdittiva, poiché non si tratta di misura
provvisoria e strumentale, adottata in vista di un provvedimento che
definisca, con caratteristiche di stabilità e inoppugnabilità, il rapporto
giuridico controverso, bensì di atto conclusivo del procedimento
amministrativo avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del
rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel
tempo, se non addirittura permanenti, indelebili e inemendabili, se si
considera che alla citata interdittiva antimafia segue il ritiro di un
titolo pubblico o il recesso o la risoluzione contrattuale, nonché la
sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore che, da quel
momento e per sempre, non possono rientrare nel circuito economico dei
rapporti con la P.A. dal quale sono stati estromessi.
L’informazione antimafia interdittiva non fa pertanto parte dei
provvedimenti interinali e cautelari in relazione ai quali il legislatore
nazionale consente di escludere, in via generale, l’applicazione della
partecipazione al procedimento amministrativo (art. 7, l. 07.08.1990, n.
241).
La stessa partecipazione al procedimento amministrativo, garantita
attraverso l’ascolto delle ragioni del destinatario del provvedimento
interdittivo antimafia, non ha controindicazioni perché il soggetto nei cui
riguardi opera la misura non ha alcuna possibilità di mettere in atto
strategie elusive o condotte ostruzionistiche con l’intento di sottrarsi al
provvedimento conclusivo.
Ha aggiunto il Tar che il procedimento amministrativo che culmina nel
rilascio della informazione antimafia interdittiva, pur in presenza di
considerevoli effetti negativi nella sfera giuridica del destinatario, non
prevede alcuna forma di contraddittorio con il destinatario medesimo, se non
nella ipotesi disciplinata dall’art. 93, d.lgs. n. 159 del 2011, in cui “Il
prefetto emette, entro quindici giorni dall’acquisizione della relazione del
gruppo interforze, l’informazione interdittiva, previa eventuale audizione
dell’interessato secondo le modalità individuate dal successivo comma 7”.
Anche nel caso ora esaminato, si tratta di audizione con finalità
istruttoria la quale consente un contraddittorio meramente eventuale, non di
garanzia effettiva di partecipazione al procedimento, atteso che
l’eventualità che il contraddittorio si instauri è discrezionalmente
valutata dall’Autorità prefettizia che procede, in base alle proprie
esigenze istruttorie.
La garanzia partecipativa assume speciale rilievo e importanza nel
procedimento in esame in relazione ad almeno tre circostanze:
1) le valutazioni del Prefetto possono fondarsi su una serie di
elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (ex art. 84,
comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011; si pensi ai cosiddetti delitti-spia),
mentre altri elementi fattuali, cosiddetti “a condotta libera”, sono
lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’Autorità
amministrativa, che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai
sensi dell’art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di
condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle
organizzazioni criminali ovvero anche solo da elementi da cui risulti che
l’attività di impresa «possa, anche in modo indiretto, agevolare le
attività criminose o esserne in qualche modo condizionata» (Cons.
Stato, sez. III, 30.01.2019, n. 758);
2) tale ultima ipotesi di “condizionamento indiretto”
dell’impresa da parte della mafia comprende un numero di casi davvero molto
significativo e appare di difficile distinzione rispetto a quella dei casi
di imprese che subiscono le pressioni mafiose, essendone le vittime;
3) il Giudice amministrativo chiamato a valutare la gravità del
quadro indiziario posto a base della valutazione prefettizia, in ordine al
pericolo di infiltrazione mafiosa, possiede un sindacato giurisdizionale
estrinseco sull'esercizio del potere prefettizio, la qual cosa comporta un
pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consentendo di sindacare
l'esistenza o meno di questi fatti, ma non possiede un vero e proprio
sindacato ab intrinseco che vada oltre l’apprezzamento della
ragionevolezza e della proporzionalità della prognosi inferenziale che
l'Autorità amministrativa trae da quei fatti (cfr., ex multis:
Cons. Stato, sez. III, 05.09.2019, n. 6105; id.
30.01.2019, n. 758); ne discende che il contraddittorio tra il
Prefetto e l’impresa nella fase procedimentale assume un’importanza davvero
rilevante ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa la
quale potrebbe offrire al Prefetto prove e argomenti convincenti per
ottenere un’informazione liberatoria, pur in presenza di elementi o indizi
sfavorevoli, mentre è più difficile che il Giudice amministrativo
sostituisca il proprio convincimento a quello dell’Autorità, una volta che
quest’ultima abbia adottato l’interdittiva antimafia.
Il Tar ha infine ricordato che il diritto dell’Unione riconosce la
sussistenza di un principio del contraddittorio di carattere
endoprocedimentale, da far valere al di fuori del diritto di difesa nel
processo giurisdizionale e da intendere nel senso che “ogni qualvolta
l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un
atto ad esso lesivo, i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente
sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare
utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali
l’Amministrazione intende fondare la sua decisione; il principio del
contraddittorio endoprocedimentale è enunciato in maniera precisa, in quanto
sono chiariti con sufficienza gli elementi che ne fanno parte e in maniera
incondizionata, trattandosi di principio capace di autoaffermarsi nei
rapporti del cittadino con l’Amministrazione; il principio del
contraddittorio, quale espressione fondamentale di civiltà giuridica
europea, appartiene, oltretutto, al catalogo dei principi generali del
Diritto dell’Unione in base all’art. 6, par. 3 del Trattato sull’Unione
Europea, a mente del quale “i diritti fondamentali garantiti dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi
generali”
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
ordinanza
13.01.2020 n. 28 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela delle aree sottoposte
a vincoli paesaggisti-ambientali – Interventi non
esternamente visibili – Rilevanza delle opere interrate –
Principio di offensività – Fattispecie – Artt. 3, 10, 22,
37, 44, 95 d.P.R. n. 380/2001 – Art. 131, 181 d.lgs. n.
42/2004.
In tema di tutela delle aree sottoposte
a vincolo, ai fini della configurabilità del reato
paesaggistico, non assume alcun rilievo l’assenza di una
possibile incidenza sul bene sotto l’aspetto attinente al
suo mero valore estetico, dovendosi invece tener conto del
rilievo attribuito dal legislatore alla interazione tra
elementi ambientali ed antropici che caratterizza il
paesaggio nella più ampia accezione ricavabile dalla
disciplina di settore, con la conseguenza che anche
interventi non esternamente visibili, quali quelli
interrati, possono determinare una alterazione
dell’originario assetto dei luoghi suscettibile di
valutazione in sede penale.
Fattispecie, intervento edilizio consistente nell’esecuzione
di opere, in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed alla
disciplina per le costruzioni in zone sismiche, in assenza
di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica,
nonché senza preventivo avviso scritto al competente ufficio
tecnico regionale.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Aree sottoposte a vincolo
paesaggistico – Interventi “precari”, opere
facilmente rimovibili e immobili interrati – Pericolo per il
bene protetto – Causazione di un danno – Necessità –
Esclusione – Possibile pregiudizio al bene tutelato e
incidenza della condotta.
In tema di abusi paesaggistici, quando
il giudice abbia accertato, con logica ed adeguata
motivazione, che l’intervento abbia posto in pericolo
l’interesse protetto, il principio di offensività opera in
relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad
arrecare pregiudizio al bene tutelato, in quanto la natura
di reato di pericolo della violazione non richiede la
causazione di un danno e la incidenza della condotta
medesima sull’assetto del territorio non viene meno neppure
qualora venga attestata, dall’amministrazione competente, la
compatibilità paesaggistica dell’intervento eseguito.
Sulla base di tale principio si è pertanto ritenuta la
sussistenza del reato anche con riferimento agli interventi
“precari” o ad opere facilmente rimovibili e, agli immobili
interrati.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Interventi in zone vincolate
– Incidenza del principio di offensività – Natura di reato
di pericolo presunto od astratto – Mancanza di danno
ambientale – Ininfluenza – Valutazione della offensività
della condotta.
L’incidenza del c.d. principio di
offensività, secondo la quale anche per i reati ascritti
alla categoria di quelli formali e di pericolo, presunto od
astratto, è sempre devoluto al sindacato del giudice penale
l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della
singola condotta, dal momento che, ove questa sia
assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene
giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della
fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di
reato impossibile, ex art. 49 cod. pen..
Precisando, che il principio di offensività deve essere
considerato non tanto sulla base di un concreto
apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per
l’attitudine della condotta a porre in pericolo il bene
protetto. Pertanto, ai fini della valutazione della
offensività della condotta, da eventuali valutazioni postume
di compatibilità paesaggistica delle opere abusivamente
realizzate, escludendone ogni efficacia.
Osservando, nella specie, che il reato si perfeziona con il
porre in essere interventi in zone vincolate senza il
controllo e la autorizzazione amministrativa
indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, si
è ritenuto irrilevante, ai fini del perfezionamento della
fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle
autorità competenti alla tutela del vincolo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2020 n. 370 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Regime dei titoli abilitativi edilizi – Suddivisione
dell’attività edificatoria finale in singole opere –
Elusione normativa – L’opera deve essere considerata
unitariamente nel suo complesso.
In materia urbanistica, il regime dei
titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso
la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle
singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente
suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate
per la loro più modesta incisività sull’assetto
territoriale.
L’opera deve essere infatti considerata unitariamente nel
suo complesso, senza che sia consentito scindere e
considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò
ancor più nel caso di interventi su preesistente opera
abusiva.
...
Art. 10 del d.P.R. 380/2001 – Natura meramente
esemplificativa – Specifiche disposizioni regionali
integrative – Validità – Aumento del c.d. carico
urbanistico.
In materia edilizia, l’art. 10 del
d.P.R. 380/2001 non costituisce un elenco chiuso, elenco la
cui natura è meramente esemplificativa, potendo essere
integrato da specifiche disposizioni regionali.
Sono pertanto soggetti a permesso di costruire, sulla base
di quanto disposto dal T.U.E., tutti gli interventi che,
indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono
sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una
trasformazione in via permanente del suolo inedificato.
Tale tipologia di intervento deve essere dunque computata ai
fini volumetrici, perché, detto calcolo deve essere
effettuato, salvo che non viga un’espressa disposizione
contraria, con riferimento all’opera in ogni suo elemento,
ivi compresi gli ambienti seminterrati ed interrati
funzionalmente asserviti, poiché nel concetto di costruzione
rientra ogni intervento edilizio che abbia rilevanza
urbanistica, in quanto incide sull’assetto del territorio ed
aumenta il c.d. carico urbanistico e tali sono pure i piani
interrati cioè sottostanti al livello stradale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2020 n. 370 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Presupposti
per la disapplicazione del Regolamento.
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Regolamenti - Disapplicazione - Presupposti - Individuazione.
La disapplicazione, da parte del giudice
amministrativo, della norma secondaria di regolamento ai fini della
decisione sulla legittimità del provvedimento amministrativo impugnato è uno
strumento per la risoluzione delle antinomie tra fonti del diritto che trova
fondamento nel principio della graduazione della forza delle diverse fonti
normative tutte astrattamente applicabili e, pertanto, presuppone che il
precetto contenuto nella norma regolamentare si ponga in contrasto diretto
con quello contenuto in altra fonte di grado superiore (1).
---------------
(1)
Cons. St., sez. VI, 05.01.2015, n. 1.
Quando l’atto impugnato si riflette con esiti opposti (conformità/difformità
rispetto al parametro normativo) in disposizioni di forza differente che
siano l’una di norma primaria e l’altra di norma secondaria, il giudice che
è chiamato a giudicare della legittimità di un provvedimento conforme al
regolamento ma in contrasto con la norma primaria, o viceversa, deve dare
prevalenza a quest’ultima, in ragione della gerarchia delle fonti.
Tutto ciò presuppone un’effettiva antinomia tra fonti rispetto alla
posizione della regola iuris che costituisce il parametro di
valutazione della legittimità del provvedimento amministrativo impugnato e
non un contrasto qualsiasi tra la legge ed il regolamento, per cui quest’ultimo
possa essere illegittimo sotto un altro e diverso profilo (come può essere
nel caso di disposizioni regolamentari che vadano soltanto praeter legem:
Cons. St., sez. VI, 29.05.2008, n. 2536; ovvero in quello
dell’attribuzione della competenza funzionale tra diverse amministrazioni:
Cons. St., sez. VI, n. 1 del 2015 cit.), nel quale ultimo caso si
verte, invece, di un vizio dell’atto normativo regolamentare al cui rilievo
è funzionale l’ordinario sistema impugnatorio (Cons.
St., sez. VI, n. 1 del 2015 cit.;
sez. V, 03.02.2015, n. 515).
Non ricorre un conflitto fra disposizioni di rango diverso che debba essere
risolto attraverso la disapplicazione della disposizione regolamentare
antinomica rispetto alla normativa primaria qualora il contrasto tra
disposizione primaria e disposizione secondaria non riguardi il precetto
normativo a monte del provvedimento impugnato, ma il sistema delle
competenze (nel caso di specie si discuteva della possibilità per il
regolamento edilizio di un comune, munito di piano regolatore, di attribuire
alla commissione edilizia la funzione di adottare pareri anche in merito al
valore architettonico, al decoro e all’ambientazione delle opere nonostante
ciò, in tesi, non sarebbe stato consentito dall’art. 33 della legge
urbanistica) (Consiglio di Stato,
Sez. II,
sentenza 09.01.2020 n. 219 - commento tratto da e link
a www.giustizia-amministrariva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
controversie relative all'an e al quantum delle somme dovute a titolo di oblazione e
di oneri concessori riguardano diritti soggettivi rispetto ai quali non è
configurabile il vizio di difetto di motivazione nella considerazione che le
operazioni di concreta quantificazione dei suddetti oneri si esauriscono in
una mera operazione materiale.
---------------
È indubbio che il momento rilevante ai fini della determinazione del
contributo di costruzione non può che essere quello di rilascio del permesso
di costruire.
Giova sottolineare che la giurisprudenza in materia ha anche di recente
ribadito che l'obbligazione di corrispondere il contributo nasce nel momento
in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre aver
riguardo per la determinazione dell'entità del contributo.
---------------
6.2. Occorre quindi esaminare il primo motivo di
gravame con cui il Comune contesta la contraddittorietà della statuizione
del Tar laddove, ritenuto di aderire all'orientamento giurisprudenziale
secondo cui il vizio di motivazione non è configurabile nelle controversie
concernenti il quantum e l'an del contributo di costruzione, ha poi
annullato l’atto per difetto di motivazione.
Il Collegio condivide l’impostazione ribadita dall’appellante, e avallata
dallo stesso giudice di prime cure, secondo cui le controversie relative
all'an e al quantum delle somme dovute a titolo di oblazione e
di oneri concessori riguardano diritti soggettivi rispetto ai quali non è
configurabile il vizio di difetto di motivazione nella considerazione che le
operazioni di concreta quantificazione dei suddetti oneri si esauriscono in
una mera operazione materiale.
Pur tuttavia, ciò non vale di per sé a porre in discussione la correttezza
della statuizione del Tar laddove afferma che ai sensi dell'articolo 16
d.p.r. 380 del 2001 le determinazioni e l'ordine di pagamento dovrebbero
essere effettuati nel permesso di costruire rispetto al quale la proroga è
circostanza meramente eventuale per cui sarebbe stato indispensabile che il
Comune avesse chiarito la ragione per la quale ha rinviato le suddette
operazioni alla proroga del titolo edilizio.
A ben vedere, tale affermazione ha ad oggetto, non già la qualificazione
giuridica della situazione sottesa alla richiesta di determinazione degli
oneri di costruzione, ma la legittimità del provvedimento di proroga del
permesso di costruire nel quale si determini e quantifichi per la prima
volta l’obbligazione di pagamento relativa all’intervento assentito,
determinazione che alla luce del dato testuale di cui al citato articolo 16
non pare potersi ammettere.
Ed invero, al comma 1 è stabilito che il rilascio del permesso di costruire
comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli
oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione; al comma 2 che la
quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al
Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire; al comma 3 che la
quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto
del rilascio, è corrisposta in corso d’opera.
È indubbio che il momento rilevante ai fini della determinazione del
contributo di costruzione non può che essere quello di rilascio del permesso
di costruire.
Giova sottolineare che la giurisprudenza in materia ha anche
di recente ribadito che l'obbligazione di corrispondere il contributo nasce
nel momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che
occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo (Cons.
Stato, sez. IV, n. 3009/2014; id., sez. IV, n. 1475/2018)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 09.01.2020 n. 190 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1.- Edilizia ed Urbanistica – Strumenti di pianificazione generale –
caratteristiche.
2.- Edilizia ed Urbanistica – strumenti urbanistici – adozione –
onere motivazionale – carattere generale – va affermato.
3.- Edilizia ed Urbanistica – strumenti urbanistici – singole aree
– destinazione – onere motivazionale – contenuto.
4.- Processo amministrativo – scelte pianificatorie – sindacabilità
del G.A. – limiti.
1. Il disegno urbanistico espresso da
uno strumento di pianificazione generale, o da una sua variante costituisce
estrinsecazione di potere pianificatorio connotato da ampia discrezionalità
che rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti all’organizzazione
edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo
quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico;
tali scelte non sono nemmeno condizionate dalla pregressa indicazione, nel
precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e
più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico
o una sua variante.
2. L’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di
adozione di strumenti urbanistici, anche sovracomunali, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che
sorreggono le scelte effettuate, potendo la motivazione desumersi anche dai
documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica e, più
in generale, dagli atti del procedimento.
3. In occasione della formazione di uno strumento urbanistico
generale, le decisioni dell’amministrazione riguardo alla destinazione di
singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si
può evincere dai criteri generali –di ordine tecnico discrezionale– seguiti
nell’impostazione del piano stesso.
4. Le scelte di pianificazione urbanistica in quanto caratterizzate
da ampia discrezionalità costituiscono apprezzamento di merito sottratto al
sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o
da abnormi illogicità (massima free tratta da www.giustamm.it).
---------------
7. Per la soluzione del caso presente occorre ricordare l’insegnamento
giurisprudenziale (recente ma, al tempo stesso, coerente con orientamenti in
materia ormai consolidati) secondo il quale:
- “il disegno urbanistico espresso da uno strumento di
pianificazione generale, o da una sua variante costituisce estrinsecazione
di potere pianificatorio connotato da ampia discrezionalità che rispecchia
non soltanto scelte strettamente inerenti all’organizzazione edilizia del
territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle
possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico; tali scelte non
sono nemmeno condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano
regolatore, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli
rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua
variante” (CdS, IV, 25.06.2019, n. 4343);
- “le scelte di pianificazione urbanistica sono caratterizzate
da ampia discrezionalità e costituiscono apprezzamento di merito sottratto
al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o da abnormi illogicità e, in occasione della formazione di uno
strumento urbanistico generale, le decisioni dell’amministrazione riguardo
alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione,
oltre quella che si può evincere dai criteri generali –di ordine tecnico
discrezionale– seguiti nell’impostazione del piano stesso” (CdS, IV,
02.09.2019, n. 6050; II, 04.09.2019, n. 6086);
- “l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede
di adozione di strumenti urbanistici, anche sovracomunali, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che
sorreggono le scelte effettuate, potendo la motivazione desumersi anche dai
documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica e, più
in generale, dagli atti del procedimento” (CdS, IV, 02.09.2019, n. 6052)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 08.01.2020 n. 153 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
consolidati principi giurisprudenziali, il dies a quo ai fini della
decorrenza del termine di impugnazione dei titoli edilizi va individuato nel
momento in cui il soggetto, che assume di esser leso dai menzionati titoli,
ha acquisito con certezza piena conoscenza degli stessi.
E, proprio da ultimo, la quarta Sezione del Consiglio di Stato, nel
richiamare tali principi sulla verifica della piena conoscenza dei titoli
edilizi, ha in particolare chiarito quanto segue:
a) ove si contesti l’an dell’edificazione, l’inizio dei lavori
segna il dies a quo per la tempestiva proposizione del ricorso;
b) ove si contesti invece il quomodo dell’edificazione, la piena
conoscenza del provvedimento si intende ordinariamente acquisita al
completamento dei lavori, salvo che non sia data prova di una conoscenza
anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso.
In estrema sintesi il giudice di appello ha sancito -ai fini della
decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire da parte
di terzi- che la percezione dell’effetto lesivo si atteggi diversamente a
seconda che si contesti l’illegittimità del titolo per il solo fatto che
esso sia stato rilasciato ovvero che se ne contesti il contenuto specifico.
---------------
2.1.- Con una prima eccezione, il sig. -OMISSIS- ha sostenuto l’irricevibilità
del ricorso per esser stato il gravame proposto soltanto il -OMISSIS- 2012,
trascorsi ben oltre sessanta giorni dall’apposizione del cartello di
cantiere esposto in data -OMISSIS-; cartello da cui sarebbe derivata la
percezione dell’asserita portata lesiva dell’intervento.
L’eccezione non può trovare accoglimento.
Per consolidati principi giurisprudenziali, il dies a quo ai fini
della decorrenza del termine di impugnazione dei titoli edilizi va
individuato nel momento in cui il soggetto, che assume di esser leso dai
menzionati titoli, ha acquisito con certezza piena conoscenza degli stessi (ex
multis: C.d.S., IV, n. 3075 del 2018; Sez. IV, n. 5675 del 2017; Sez. IV,
n. 4701 del 2016; Sez. IV, n. 1135 del 2016).
E, proprio da ultimo, la quarta Sezione del Consiglio di Stato, nel
richiamare tali principi sulla verifica della piena conoscenza dei titoli
edilizi, ha in particolare chiarito quanto segue:
a) ove si contesti l’an dell’edificazione, l’inizio dei
lavori segna il dies a quo per la tempestiva proposizione del
ricorso;
b) ove si contesti invece il quomodo dell’edificazione, la
piena conoscenza del provvedimento si intende ordinariamente acquisita al
completamento dei lavori, salvo che non sia data prova di una conoscenza
anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso.
In estrema sintesi il giudice di appello ha sancito -ai fini della
decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire da parte
di terzi- che la percezione dell’effetto lesivo si atteggi diversamente a
seconda che si contesti l’illegittimità del titolo per il solo fatto che
esso sia stato rilasciato ovvero che se ne contesti il contenuto specifico
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 08.01.2020 n. 18 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Contratto
di avvalimento e teoria della cd. causa concreta.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento - Esperienze
professionali pertinenti – Limiti.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Contratto tipico –
Teoria della cd. causa concreta – Applicabilità.
●
L'esercizio dell’avvalimento può essere limitato, in circostanze
particolari, tenuto conto dell'oggetto dell'appalto in questione e delle
finalità dello stesso; in particolare, ciò può avvenire quando le capacità
di cui dispone un soggetto terzo, e che sono necessarie all'esecuzione di
detto appalto, non siano trasmissibili al candidato o all'offerente, di modo
che quest'ultimo può avvalersi di dette capacità solo se il soggetto terzo
partecipa direttamente e personalmente all'esecuzione di tale appalto (1).
●
Il contratto di avvalimento che trova una sua compiuta
definizione nell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016 deve ritenersi “tipico”;
l’autonomia contrattuale è condizionata dagli obiettivi fissati dalla norma
che le parti contrattuali devono perseguire all’atto della stipula del
contratto di avvalimento; da ciò consegue che lo schema contrattuale
definito dalla norma contenuta nell’art. 89, d.lgs. n. 50 del 2016 non può
essere in alcun modo alterato; è necessario, infatti, che attraverso il
contenuto specifico del contratto di avvalimento prescritto dal Codice dei
contratti pubblici, si offra alla Stazione appaltante una garanzia di
solidità del concorrente oltre che di corretta esecuzione dell’appalto ed in
determinati casi, anche di un particolare standard di qualità
dell’esecuzione dello stesso; ai fini della valutazione della causa in
concreto, il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva
realizzabilità della causa concreta, da intendersi come obiettivo specifico
perseguito dal procedimento.
---------------
(1) Corte giust. Comm. Ue 07.04.2016, C-324/14.
La tesi in oggetto è fatta propria dal più recente orientamento del
Consiglio di Stato (sentenza n. 2019 del 2191); il giudice di appello,
pronunciandosi in una fattispecie avente ad oggetto un appalto di servizio
mensa, ha ritenuto anche la necessaria esperienza pregressa elemento
prescritto “per eseguire l’appalto con un adeguato standard di qualità”
(secondo la lettera dell’art. 83, comma 6, del Codice dei Contratti
pubblici).
Inoltre ha rimarcato che “Né la nozione di “esperienze professionali
pertinenti” può essere riferibile solo a prestazioni che richiedono
l’impiego di capacità non trasmissibili, come avviene negli appalti aventi
ad oggetto servizi intellettuali o prestazioni infungibili: in disparte la
considerazione per cui anche il servizio oggetto dell’appalto in questione
richiede competenze professionali specialistiche e l’impiego di figure
professionali qualificate, la lettera della norma e soprattutto la ratio
dell’istituto non autorizzano affatto una siffatta opzione ermeneutica.
Se, infatti, gli operatori economici possono soddisfare la richiesta
relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario,
tecnico e professionale necessari a partecipare ad una procedura di gara
“avvalendosi delle capacità di altri soggetti”, ovvero mediante il
trasferimento delle risorse e dei mezzi di cui l’ausiliata sia carente,
l’ipotesi contemplata dal secondo capoverso dell’articolo 89 contiene una
disciplina più stringente e rigorosa, stabilendo che per i criteri relativi
alle indicazioni dei titoli di studio e professionali o esperienze
professionali pertinenti “tuttavia” (i.e. in deroga al regime ordinario) gli
operatori possano avvalersi della capacità di altri soggetti “solo” se (i.e.
a condizione che) questi ultimi eseguano direttamente i lavori o i servizi
per cui tali capacità sono richiesti (senza operare alcuna distinzione in
base alla natura intellettuale o materiale del servizio da espletarsi)".
Ha rilevato nella fattispecie il Giudice di appello che: ”con il
contratto di avvalimento in esame si è, infatti, convenuto tra le parti
l’obbligo dell’ausiliaria di mettere a disposizione, in relazione
all’esecuzione dell’appalto, le proprie risorse e il proprio apparato
organizzativo, e precisamente:
a) i propri manuali tecnico/operativi, le proprie procedure
operative, istruzioni operative, schede di registrazione- report inerenti
l’organizzazione e conduzione di servizi di ristorazione, i propri
protocolli di formazione e addestramento del personale, nonché il know how
maturato in tali settori mediante la consegna di tutta la predetta
documentazione sopracitata e la previsione di giornate di affiancamento;
b) l’interfacciarsi di figure professionali dell’ausiliaria (il
Responsabile della produzione, il Responsabile degli acquisti, il
Responsabile dell’amministrazione del personale e delle relazioni sindacali)
con le corrispondenti figure professionali già presenti all’interno
dell’organizzazione dell’ausiliata, al fine di trasferire il proprio know
how mediante la previsione di giornate di affiancamento.”
Conclusivamente, nel caso di specie, il contratto di avvalimento aveva ad
oggetto il prestito del requisito di “esperienza pregressa”, dal che
discendeva la necessità dell’impegno dell’ausiliaria ad assumere un ruolo
esecutivo nello svolgimento del servizio, e non solo a trasmettere all’ausiliata
il Know how e la struttura organizzativa dall’esterno.”
(2) Quanto alla teoria della causa concreta della causa in concreto
e la giurisprudenza della Terza sezione civile della Corte di Cassazione.
Osserva in proposito il Collegio che va fatto ricorso alla teorica della
causa in concreto del contratto, elaborata dalla Terza sezione civile della
corte di Cassazione, a partire dalla sentenza del 2006 n. 10490, che ha
inaugurato un nuovo corso nella valutazione dell’elemento causale del
contratto.
Da tempo la giurisprudenza della Corte di Cassazione ed in particolare la
Terza sezione civile è giunta ad un progressivo abbandono della tradizionale
teorica della causa come funzione economico sociale del contratto, ovvero
cosiddetta causa in senso astratto, per approdare ad un’interpretazione
della causa come funzione economico individuale, superando una visione di
carattere puramente oggettivistico.
Si è infatti rilevato che nella prospettiva dello Stato autoritario in cui
vide luce il codice del 1942, la concezione pubblicistica della causa come
funzione economico sociale, inserita in un’ottica tesa a controllare anche
le relazioni contrattuali tra privati, identificando causa e tipo ,escludeva
la possibilità di esistenza di un contratto tipico con causa illecita.
Una siffatta impostazione di stampo estremo oggettivistico ha comportato
critiche sin dalla dottrina che si è sviluppata nel clima post
costituzionale, ove si proponeva una maggiore attenzione alla funzione
concreta della singola e specifica negoziazione.
Tuttavia, tranne alcune isolate pronunce in giurisprudenza, la consapevole e
matura adesione alla teoria della causa concreta è stata inaugurata solo
dopo molto tempo, e segnatamente dalla storica sentenza della Cassazione
Terza sezione civile n. 10490 del 2006, che ha ammesso la possibilità di
nullità di un contratto tipico per mancanza di causa concreta. In tal sede
si è affermata la nullità per difetto di causa del contratto tipico di
consulenza delineato dall’articolo 2222 c.c., stipulato da un soggetto in
favore di una società, attività a cui tuttavia lo stesso era tenuto in
adempimento dei propri doveri di amministratore della stessa, e per la quale
percepiva il relativo compenso.
La Suprema Corte ha dunque rilevato che di fatto in concreto lo scambio di
quella attività di consulenza a titolo oneroso, essendovi il soggetto già
tenuto ad altro titolo, era priva di causa, facendo leva proprio sulla causa
intesa come “fattispecie causale concreta“, che discende da una “serrata
critica della teoria della predeterminazione causale del negozio“.
Secondo la teorica fatta propria dalla corte di Cassazione la causa in
concreto è “sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è
diretto a realizzare (aldilà del modello, benché tipico, adoperato). Sintesi
(e dunque ragioni concrete) della dinamica contrattuale, si badi e non anche
della volontà delle parti. Causa dunque ancora iscritta nell’orbita della
dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del
singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo
stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione
sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari
tipi contrattuali, si volga al fine di cogliere l’uso che di ciascuno di
essi hanno inteso con i contraenti adottando quella determinata, specifica
(a suo modo unica) convenzione negoziale“.
Tali coordinate ermeneutiche non comportano un ritorno alla concezione
soggettiva della causa, per la evidente la necessità di sottolineare
l’interesse sociale che il singolo contratto intende perseguire,
segnatamente l’insieme degli interessi rilevanti nel complesso
dell’operazione economica, con il ripudio della causa del contratto come
strumento di controllo della sua utilità sociale, facendosi invece valere la
stessa quale elemento di verifica degli interessi reali che il contratto è
diretto a realizzare.
A riprendere significativamente tale concetto la S.C. è intervenuta con una
serie di pronunce merito alla responsabilità da vacanza rovinata (Cassazione
terza sezione civile 24.07.2007 n. 16315), ove si è data piena cittadinanza
alla finalità nel contratto dello scopo concreto stabilendo che “la
finalità turistica o “scopo di piacere “....non è un motivo irrilevante ma
si sostanza nell’interesse che lo stesso è funzionalmente rivolto a
soddisfare, connotandone la causa concreta e determinando perciò
l’essenzialità di tutte le attività e dei servizi strumentali alla
realizzazione del preminente scopo vacanziero“ (fattispecie in cui è
stata dichiarata la nullità di un contratto di cd. pacchetto turistico per
due settimane all’estero in presenza di un’epidemia in atto nel luogo di
destinazione; in tal senso altresì Cassazione sezione terza 20.12.2007 n.
26958).
Ancora successivamente la Terza sezione civile (sentenza 20.03.2012 n. 4372)
individua come essenziale l’offerta di tutte le prestazioni contenute nel
pacchetto di viaggio (nella specie esaminando la possibilità di effettuare
immersioni subacquee rivelatasi impraticabile durante il periodo del
soggiorno del turista in quel luogo), così avendo modo di ribadire che la
causa non può più essere intesa in senso astratto, svincolata dalla singola
fattispecie contrattuale e si identifica nella funzione economico
individuale del singolo specifico negozio.
In tal modo si è progressivamente abbandonata la teoria della causa come
funzione economico sociale del contratto, con notevoli riflessi anche sui
principi costituzionali che danno rilievo all’interesse concretamente
perseguito dalle parti ovvero alla cosiddetta ragione pratica dell’affare,
calandosi nell’attuale contesto socio economico e nella realtà delle
contrattazioni tra privati, spesso tale da coinvolgere anche più generali
principi di buona fede ed affidamento.
La Suprema Corte ha successivamente accolto la nozione di causa concreta
anche al di là dei contratti di viaggio turistico (cfr. Cass. n. 24769 del
2008 che ha affermato la nullità di contratto di locazione di un fondo
sottoposto a vincolo di destinazione ad uso boschivo in quanto ne prevedeva
l’utilizzazione in spregio al vincolo stesso e quindi un contrasto della
causa concreta del contratto con le norme di legge).
Egualmente la pronuncia della Cassazione Sezioni unite n. 26972 del 2008,
intervenendo sul significativo aspetto della categoria del danno
esistenziale, ha affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile
quando il contratto sia rivolto alla tutela di interessi non patrimoniali,
la cui individuazione deve essere condotta accertando la causa concreta del
negozio nel senso chiarito dalla storica Cassazione sezione terza n. 10490
del 2006.
Ancora più recentemente in tema di mutuo di scopo (Cassazione sezione I
ordinanza n. 26770 del 2019), si è rilevato che l’utilizzo delle somme
erogate per finalità diverse da quelle previste nel contratto (nella specie
per ripianamento di pregressa esposizione anziché per l’acquisto di un
immobile) comporti la deviazione della causa concreta rispetto a quella
specificamente convenuta con conseguente nullità del contratto. La finalità
cui l’attribuzione delle somme era preordinata entra dunque nella causa
concreta del contratto, per cui l’oggettiva deviazione dallo scopo determina
la carenza di causa concreta del contratto, nonostante sia stato adoperato
un contratto tipico (in termini altresì Sez. 1, n. 15929/2018).
Il principio è stato poi affermato dalle Sez. U, n. 22437/2018, nel
contratto di assicurazione per la responsabilità civile con clausole “claims
made”. Tale decisione -dopo aver premesso che il modello “claims made”
si colloca ormai nell’area della tipicità legale, rifluendo nell’alveo
proprio dell’esercizio dell’attività assicurativa- ha ritenuto tuttavia
necessario che la clausola “on claims made basis”, con la quale il
pagamento dell’indennizzo è subordinato al fatto che il sinistro venga
denunciato nel periodo di efficacia del contratto, «rispetti, anzitutto,
i “limiti imposti dalla legge”, secondo quella che suole definirsi “causa in
concreto” del negozio».
In tal senso, hanno precisato le Sezioni Unite, l’indagine è volta ad
accertare l’adeguatezza del contratto agli interessi concreti delle parti.
Sul punto la sentenza osserva che l’analisi del sinallagma del contratto
assicurativo costituisce un adeguato strumento per verificare se ne sia
stata realizzata la funzione pratica di assicurazione dallo specifico
pregiudizio, e ciò al fine non di sindacare l’equilibrio economico delle
prestazioni (profilo rimesso esclusivamente all’autonomia contrattuale), ma
di indagare se lo scopo pratico del negozio presenti un arbitrario
squilibrio tra rischio assicurato e premio, poiché nel contratto di
assicurazioni contro i danni la corrispettività si fonda su una relazione
oggettiva e coerente fra rischio assicurato e premio.
Particolarmente significativa, per le implicazioni sotto certi aspetti
parametrabili al contratto di avvalimento, in quanto diretto a produrre
peculiari effetti anche verso terzi, si presenta la recente pronuncia in
tema di concordato preventivo (Cassazione civ. sezione I, 08.02.2019 n.
3863) che indica la causa concreta come l’obiettivo specifico perseguito dal
procedimento, priva di un contenuto fisso e predeterminabile e dipendente
essenzialmente dal tipo di proposta formulata.
In tal sede la S.C. ha rilevato come sia essenziale verificare se il
contratto sia idoneo ad espletare una funzione commisurata agli interessi
che le parti perseguono; tale controllo, operato dal giudice sul regolamento
degli interessi voluto dalle parti, ha essenzialmente ad oggetto il
rispetto, da parte dei contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale,
del principio di conformità all’utilità sociale dell’iniziativa economica
privata di cui all’art. 41 Cost..
La valutazione di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c., in altri termini,
non si esaurisce in una verifica di liceità della causa, ma investe il
risultato perseguito con il contratto, del quale deve accertare la
conformità ai principi di solidarietà e parità che l’ordinamento pone a
fondamento dei rapporti privati (cfr., anche Cassazione civile sezione unite
23.01.2000 n. 13521, che ha affermato a fronte della proposta di concordato
preventivo, come il controllo del giudice si spinge alla verifica
dell’effettiva realizzabilità della causa concreta del procedimento,
dipendente dal tipo di proposta formulata, finalizzata da un lato al
superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e dall’altro
all’assicurazione di un soddisfacimento dei creditori, nonché Cassazione
civile 18.08.2011 n. 17360, 12.11.2009 n. 22941). L’inserimento dunque nel
giudizio di fattibilità del concordato preventivo della categoria della
causa in concreto comporta la mancanza di tutela prestata dall’ordinamento
al negozio stipulato qualora se ne riscontri la mancanza.
Conclusivamente, la Corte di Cassazione, attraverso un filo ininterrotto di
pronunce, afferma come la causa in concreto può essere assente in contratti
formalmente riconducibili a figure tipiche, ma che non sono in grado di
realizzare gli interessi previsti dal tipo legale
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 51 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
veranda realizzata su un terrazzo e/o su un balcone facenti parte di un
immobile principale, essendo materialmente incorporata all’immobile
principale di cui costituisce parte integrante e zona di ampliamento
volumetrico, non può essere ricondotta alla nozione di pertinenza urbanisticamente rilevante, la quale, invece, postula
indefettibilmente l’individualità fisica e strutturale del manufatto
destinato a servizio od ornamento di quello principale, con conseguente
assoggettabilità dell’intervento al regime del permesso di costruire ed al
corrispondente sistema sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n.
380/2001.
Invero, è principio consolidato che l’opera pertinenziale è collegata alla
costruzione preesistente in termini non di integrazione ma di asservimento,
per cui deve renderne più agevole e funzionale l’uso, ma non deve divenire
parte essenziale della costruzione stessa, come avvenuto nel caso di specie.
Ad ogni modo, il Collegio ritiene che il manufatto in questione, in sé
considerato ed indipendentemente dalla denegata qualificazione di
pertinenza, sia stato correttamente inquadrato quale nuova costruzione
soggetta al trattamento sanzionatorio contemplato dal succitato art. 31,
poiché la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un
immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello
stesso, mentre nel caso di specie è stata aggiunta alla precedente unità
abitativa una nuova struttura verandata di due vani, adibita a cucina e
servizio igienico, con conseguente creazione non solo di un non trascurabile
aumento di volume ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto
diversi da quelli dell’edificio originario.
Invero, pur consentendo l’art.
10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di qualificare come interventi
di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti
modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti,
tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra
le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo
configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma
siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo
preesistente.
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5. La veranda realizzata su un terrazzo e/o su un balcone facenti
parte di un immobile principale, essendo materialmente incorporata
all’immobile principale di cui costituisce parte integrante e zona di
ampliamento volumetrico, non può essere ricondotta alla nozione di
pertinenza urbanisticamente rilevante, la quale, invece, postula
indefettibilmente l’individualità fisica e strutturale del manufatto
destinato a servizio od ornamento di quello principale, con conseguente
assoggettabilità dell’intervento al regime del permesso di costruire ed al
corrispondente sistema sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n.
380/2001.
Invero, è principio consolidato che l’opera pertinenziale è
collegata alla costruzione preesistente in termini non di integrazione ma di
asservimento, per cui deve renderne più agevole e funzionale l’uso, ma non
deve divenire parte essenziale della costruzione stessa, come avvenuto nel
caso di specie (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.05.2013 n. 2678;
Cass. Pen., Sez. III, 08.04.2015 n. 20544; TAR Liguria, Sez. I, 13.02.2014 n. 269; TAR Campania Napoli, Sez. VIII,
07.02.2014 n.
883; TAR Trentino Alto Adige Trento, Sez. I, 11.02.2012 n. 264; TAR
Campania Napoli, Sez. IV, 16.12.2011 n. 5912).
5.1 Ad ogni modo, il Collegio ritiene che il manufatto in questione, in sé
considerato ed indipendentemente dalla denegata qualificazione di
pertinenza, sia stato correttamente inquadrato quale nuova costruzione
soggetta al trattamento sanzionatorio contemplato dal succitato art. 31,
poiché la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un
immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello
stesso, mentre nel caso di specie è stata aggiunta alla precedente unità
abitativa una nuova struttura verandata di due vani, adibita a cucina e
servizio igienico, con conseguente creazione non solo di un non trascurabile
aumento di volume ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto
diversi da quelli dell’edificio originario.
Invero, pur consentendo l’art.
10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di qualificare come interventi
di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti
modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti,
tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra
le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo
configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma
siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo
preesistente (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. II, 09.01.2017 n. 189; TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, 25.02.2010 n. 1613)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione
insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il
meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso
di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che
l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di
terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente
pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire:
tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio
della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa
rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri.
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando
l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia,
appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non
interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per
violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n.
380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua.
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8. Rimangono da esaminare le ulteriori censure, formulate nei motivi
aggiunti, con cui il ricorrente mira ad infirmare l’ordinanza acquisitiva
nella parte in cui ha disposto l’acquisizione gratuita di quota parte
dell’area del cortile di pertinenza del fabbricato.
Con una prima doglianza, dedotta in via principale, parte ricorrente
denuncia che tale porzione di area è stata indebitamente acquisita pur
appartenendo in comunione ai comproprietari del fabbricato, con conseguente
violazione del principio di tutela della proprietà privata di cui all’art.
42 della Costituzione e dello stesso art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che
impediscono che la misura repressiva in questione possa incidere su beni
appartenenti ad altri soggetti totalmente estranei all’abuso.
La censura è fondata e merita accoglimento.
Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione
insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il
meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso
di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che
l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di
terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente
pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire:
tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio
della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa
rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri (cfr.
Cass. Civ. Sez. III, 04.06.2013 n. 14022; TAR Lazio Roma, Sez. II, 08.10.2018 n. 9799).
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando
l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia,
appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non
interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per
violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n.
380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua.
Restano assorbite le rimanenti censure qui non esaminate, articolate dal
ricorrente in via meramente subordinata
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Edilizia ed Urbanistica - trasformazione tendenzialmente permanente e
ontologicamente modificativa dello stato fisico dei luoghi - nuova
costruzione - è tale.
2. Edilizia ed
Urbanistica - nuova opera - trasformazione urbanistica del territorio -
opera in itinere - è integrata.
1. La nozione di nuova costruzione è
ravvisabile in presenza di opere che attuino trasformazione del tessuto
urbanistico ed edilizio, la quale consiste in un dato oggettivo che ha
riguardo alla trasformazione tendenzialmente permanente e ontologicamente
modificativa dello stato fisico dei luoghi, prescindendo dalla natura e
tipologia delle opere mediante le quali tale modificazione sia stata attuata
e, dunque, addirittura anche se esse non consistano in opere murarie,
essendo realizzate in metallo, in laminati in plastica, in legno od altro
materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze
non precarie del costruttore.
2. La trasformazione urbanistica del territorio si avvera non solo
a fronte di un’opera nuova ed autonoma ma anche allorquando l’opera si
presenta in itinere, quale che sia lo stato del suo avanzamento e la
percentuale del suo completamento, per modo che, al fine di ritenere
integrata la trasformazione urbanistica del territorio, a nulla rileva che,
nella specie, il manufatto si presenta incompleto, solo con i quattro muri
perimetrali senza solaio di copertura e realizzato con pilastri in cemento
armato e blocchi portanti in lapilcemento (massima free tratta da www.giustamm.it).
---------------
Ciò posto, nel merito, con la prima censura si deduce la
violazione dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001, oltre all’eccesso di potere
(per presupposti erronei e contraddittorietà), risultando l’ordinanza
impugnata fondata su presupposti erronei, perché:
- nell'atto impugnato si rileva l'assenza di permesso a costruire
in merito a manufatto di "circa mq. 137,00 x h mt. 3,00" realizzato
sull'area di proprietà dei ricorrenti, del quale se ne ingiunge la
demolizione ai sensi dell’art. 31 (L) del DPR 380/01 (“Interventi
eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali”) senza tener conto che il provvedimento
repressivo di cui all'art. 31 è applicabile solo relativamente alla
realizzazione di opere nuove ed autonome, eseguite in assenza di permesso o
in totale difformità, ovvero nei confronti di interventi sul costruito di
entità tale da superare i limiti della "trasformazione" delle
strutture preesistenti;
- nella specie la P.A. ha, invero, disposto la demolizione,
attivando i propri poteri repressivi ex art. 31 D.P.R. 380/2001, in
relazione ad opere -che non possono considerarsi nuove e autonome- in quanto
non tali da incidere sul tessuto urbanistico preesistente, in proposito, la
giurisprudenza avendo rilevato che, a norma degli artt. 31 e 32. t.u. delle
disposizioni in materia edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2011 n. 380,
gli interventi edilizi in totale difformità dalla concessione, sanzionabili
con l'ordine di demolizione, sono quelli che comportano la realizzazione di
un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche,
plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso,
ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e
tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica
rilevanza ed autonomamente utilizzabile;
- nel complesso, dunque, gli interventi realizzati non
costituiscono, come assume una "costruzione ex novo", in quanto
corrispondenti esclusivamente a muri perimetrali, peraltro in assenza di
solaio di copertura, rilevandosi, con la conseguenza che, nella fattispecie,
non possa applicarsi l'art. 31 del DPR 380/2001, richiamato nell'atto
oggetto di gravame, avendo la P.A. attivato i propri poteri repressivi ex
art 31 DPR 380/2001, in relazione ad opere che mancano di assoluta autonomia
funzionale rispetto alla struttura in cui sono inserite;
- secondo la richiamata giurisprudenza, la difformità totale dalla
concessione è configurabile rispetto a quella approvata soltanto quando la
diversità concerne l'intero edificio e sia accompagnato da trasformazioni
tipologiche e plano-volumetriche di tale entità da costituire stravolgimento
complessivo all'originario progetto non più riferibile all'immobile
realizzato; inoltre, al fine di ritenere configurata l'ipotesi di difformità
totale di un manufatto dal permesso di costruire, nell'ipotesi di
realizzazione di volumi oltre í limiti indicati nel progetto, e per la quale
i volumi realizzati devono costituire un organismo edilizio o una parte di
esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile;
- ne consegue che gli atti impugnati risultano illegittimi, in
quanto non è in alcun modo applicabile il provvedimento repressivo adottato
ex art. 31 D.P.R. 380/2001, sproporzionato, inoltre, in eccesso rispetto
all'entità del presunto ed indimostrato abuso.
Osserva il Collegio che parte ricorrente prospetta un’erronea lettura ed
interpretazione dell’art. 31, d.P.R. 380/2001 sostenendo che le opere
realizzate in assenza di permesso di costruire sanzionate con la
demolizione, ai sensi della predetta disposizione sono unicamente le opere
nuove e funzionalmente autonome, le uniche suscettibili di apportare carico
urbanistico, mentre, nella specie, il Comune avrebbe attivato i propri
poteri repressivi ex art. 31 citato, in relazione ad interventi che non
costituiscono, come assume una "costruzione ex novo", in quanto
corrispondenti esclusivamente a muri perimetrali, peraltro in assenza di
solaio di copertura, come tali, opere che mancano di assoluta autonomia
funzionale rispetto alla struttura in cui sono inserite.
In contrario va, però, rilevato che per gli interventi di nuova costruzione
ai sensi del precedente art. 3, co. 1, lett. e), per i quali il successivo
articolo 10 richiede il rilascio del permesso di costruire devono intendersi
non solo quelli che creano (dal nulla) un’opera (volumi e superfici) prima
del tutto inesistente, ma anche quelli che, allo stato, sono in via di
realizzazione e potranno pervenire al completamento dell’opera soltanto
attraverso l’eventuale e futuro completamento di elementi strutturali
preesistenti, ovvero il riempimento di spazi vuoti preesistenti.
Invero il citato articolo 3, co. 1, lett. e), offre una nozione molto ampia
degli ”interventi di nuova costruzione” definiti come quelli che
attuano una “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”,
tra i quali, comunque, sono ricompresi, alla lettera e.1); “la
costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero
l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente, fermo
restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6)”.
Secondo la giurisprudenza di questa Sezione: <<La nozione di nuova
costruzione è ravvisabile in presenza di opere che attuino trasformazione
del tessuto urbanistico ed edilizio, la quale consiste in un dato oggettivo
che ha riguardo alla trasformazione tendenzialmente permanente e
ontologicamente modificativa dello stato fisico dei luoghi, prescindendo
dalla natura e tipologia delle opere mediante le quali tale modificazione
sia stata attuata e, dunque, addirittura anche se esse non consistano in
opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati in plastica, in
legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a
soddisfare esigenze non precarie del costruttore>> (TAR Campania, sez.
III, 20.02.2018, n. 1093).
Ne deriva che la trasformazione urbanistica del territorio si avvera non
solo a fronte di un’opera nuova ed autonoma ma anche allorquando l’opera si
presenta in itinere, quale che sia lo stato del suo avanzamento e la
percentuale del suo completamento, per modo che, al fine di ritenere
integrata la “trasformazione urbanistica del territorio”, a nulla
rileva che, nella specie, il manufatto “si presenta incompleto, solo con
i quattro muri perimetrali senza solaio di copertura e realizzato con
pilastri in cemento armato e blocchi portanti in lapilcemento”.
Inoltre, l’art. 31, nel prevedere al comma 2 la sanzione demolitoria in
relazione agli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in
totale difformità ovvero con variazioni essenziali, individua tre distinte
di fattispecie illecite tra gli “interventi di nuova costruzione” ex
art. 31, co. 1, lett. e), d.P.R. 380/2001, tutte accomunate dalla medesima
sanzione.
Nella fattispecie -contrariamente a quanto dedotto- in assenza di un neanche
ipotetico permesso di costruire, non si tratta, né di intervento in totale
difformità, (dal titolo), né con variazioni, ma realizzato puramente e
semplicemente in assenza di titolo che, nel caso di specie è individuare nel
permesso di costruire richiesto dall’art. 10, d.P.R. 380/2001 in relazione
ad “un manufatto di rilevante dimensione" (“circa 137,00 mq con altezza di
mt 3,00”.
Ne consegue che il richiamo a precedenti giurisprudenziali, a più riprese,
operato dal ricorrente a fattispecie di edificazione in difformità del
titolo abilitativo appare del tutto inconferente atteso che nel caso di
specie non v’è alcun titolo abilitativo edilizio (né pregresso, né a
sanatoria) preesistente di riferimento cui rapportare la presunta, dedotta
difformità
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 43 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
La destinazione a verde agricolo di una zona del territorio
comunale, contenuta in uno strumento urbanistico, impedisce l'insediamento
abitativo residenziale, ma non preclude l'istallazione di opere pubbliche,
quale un impianto idroelettrico.
---------------
Con la seconda censura si deduce la violazione dell’art. 3, L.
241/1990 per difetto di motivazione, oltre all’erroneità dei presupposti e
la manifesta illogicità, risultando l’ordinanza emessa fondata su ulteriori
presupposti erronei, perché:
- il Comune di Somma Vesuviana assume lamenta altresì che l'abuso
in questione ricade in zona "agricola" rispetto al PRG vigente,
laddove -alla stregua della giurisprudenza richiamata- una tale destinazione
a verde agricolo di un suolo non implica necessariamente che la stessa
soddisfi in modo diretto ed immediato interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell'ordinato governo del territorio, quale la
necessità di mantenere un equilibrato rapporto tra le aree libere ed
edificate o industriali, con la conseguenza che la zonizzazione agricola
assume un carattere residuale, salvo l'espressa prescrizione dello strumento
urbanistico all'utilizzo produttivo agricolo in via esclusiva;
- il Comune di Somma Vesuviana, attraverso l'atto gravato, non ha
tenuto conto della sentenza 117/2015 con cui la Corte Costituzionale ha
sancito la legittimità della Legge Regionale 16/2014, alla stregua della
quale, nelle zone sottoposte a vincoli che non comportano l'inedificabilità
assoluta, il titolo edilizio in sanatoria possa essere rilasciato ed, allo
stesso tempo, ha previsto gli interventi per l'adeguamento antisismico e l'efficientamento
energetico degli immobili nella zona rossa del Vesuvio;
- sul vincolo di inedificabilità la Consulta ribadisce la validità
della ratio espressa dall'art. 33 della L. 47/1985, ovvero non è consentita
alcuna sanabilità soltanto se vincolo inedificabile a carattere assoluto e
non anche nella diversa ipotesi di un vincolo di inedificabilità relativa,
ossia di un vincolo superabile mediante un giudizio a posteriori di
compatibilità paesaggistica, per modo che può agevolmente sostenersi la
compatibilità dell'intervento in oggetto con legge regionale 16/2004;
- invero, il condono edilizio previsto dall'art. 32 del d.l. n. 269
del 2003 (cono. con modd. in l. 326/2003) è applicabile agli interventi
edilizi anche se eseguiti in area vincolata in assenza dì titolo abitativo e
di autorizzazione paesaggistica, purché si tratti di interventi di minore
rilevanza previo parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del
vincolo;
- dunque, in alcune zone ritenute a rischio Vesuvio potranno
inoltre essere praticati incrementi volumetrici, purché gli interventi
effettuati nella cosiddetta "zona rossa" siano finalizzati al
risparmio energetico degli edifici o alla stabilità antisismica, come nel
caso di specie.
La censura -che può scomporsi in due profili- non è fondata.
Si premette che l’impugnato ordine di demolizione è stato emanato dopo aver
accertato che “l’abuso ricade in zona “E” agricola, in area soggetta ai
seguenti vincoli. Decreto L. vo n. 42/2004, con dichiarazione di interesse
pubblico con D.M. 26.10.1961, emanato ai sensi dell’art. 2 della legge 1497
del 1939, ai vincoli di cui alla L.R. n. 21/2003 (norme urbanistiche per i
comuni rientranti nelle zone a rischio vulcanico dell’area vesuviana) e che
l’intero territorio è stato dichiarato sismico (S9)”.
Relativamente al primo dei profili considerati i ricorrenti censurano
il presupposto che l’abuso in questione ricade in zona “agricola”
rispetto al P.R.G. vigente, sostenendo che la destinazione a verde agricolo
di un suolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo
diretto ed immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le
esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di
mantenere un equilibrato rapporto tra le aree libere ed edificate o
industriali.
La destinazione agricola assume un carattere residuale, salvo l’espressa
prescrizione dello strumento urbanistico all’utilizzo produttivo agricolo in
via esclusiva.
Ne consegue indimostrata la compatibilità dell’intervento con la
strumentazione urbanistica vigente.
In contrario si osserva che, anche a prescindere dai vincoli derivanti della
inesistenza dell’opera abusiva nella c.d. zona rossa che precludono già a
priori ogni possibilità di edificazione a scopo abitativo, la destinazione a
verde agricola contenuta nello strumento urbanistico vale proprio a sventare
la possibilità di utilizzazione dell’area a scopo di edilizia residenziale,
mentre la compatibilità con altre possibilità di utilizzazione della zona
agricola sarebbe da esaminare caso per caso.
Si aderisce, pertanto al consolidato e risalente indirizzo giurisprudenziale
per i quali: <<La destinazione a verde agricolo di una zona del
territorio comunale, contenuta in uno strumento urbanistico, impedisce
l'insediamento abitativo residenziale, ma non preclude l'istallazione di
opere pubbliche, quale un impianto idroelettrico>> (ex multis:
Consiglio di Stato sez. IV, 27/09/1989, n. 642)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 43 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo
la giurisprudenza, i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non
abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un
ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico
richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico,
nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un
permesso di costruire.
---------------
Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di provvedimenti
tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime,
hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di
titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza
che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente
preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Secondo la giurisprudenza: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato
il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere
preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi
dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del
soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto
della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve
essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non
richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse
pubblico, che è in re ipsa ... non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell’atto>>.
Inoltre, il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli
elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse
ricevuto la comunicazione.
---------------
Per costante giurisprudenza, i provvedimenti di repressione degli abusi
edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di
margini discrezionali.
Pertanto, ai fini dell’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la
mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che consentono
l’individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della
corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
In proposito, secondo condivisa giurisprudenza, l'esercizio del potere
repressivo delle opere edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio
mediante l'applicazione della misura ripristinatoria può ritenersi
sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso,
accertato con atti facenti fede fino a querela di falso e dalla quale
risulta la descrizione dell’abuso, esplicitante in dettaglio la natura e
consistenza delle opere abusive riscontrate, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
---------------
Il secondo profilo di censura è inammissibile e, comunque, infondato.
Sotto tale profilo si osserva che parte ricorrente articola la censura
sull’implicito presupposto che il permesso di costruire la cui mancanza (o,
secondo l’erronea prospettazione dei ricorrenti la difformità dallo stesso)
viene contestata dal Comune, che, in base a tale presupposto ritiene di
dover irrogare la sanzione demolitoria prevista dall’art. 31 del d.P.R.
380/2001 è non soltanto quello consueto ed ordinario che viene richiesto
prima della realizzazione dell’intervento, ma anche quello che, dopo la
realizzazione di quest’ultimo, viene richiesto a sanatoria avvalendosi, in
ogni caso a certe condizioni ed entro limiti ben precisi, del primo (L.
47/1985) e del secondo (L. 724/1994) condono, al fine di recuperare alla
legalità l’opera abusiva.
Tuttavia, nel caso di specie, non consta che sia stata presentata da parte
ricorrente alcuna istanza del tipo su indicato, per modo che ogni
affermazione, al riguardo, non potrà che risultare generica, ipotetica ed
aleatoria.
D’altronde, contrariamente a quanto asserito dai ricorrenti, il Comune,
nell’ordinanza impugnata non oppone l’insuscettibilità di sanatoria delle
opere edilizia ad uso residenziale realizzate nella c.d. zona rossa,
limitandosi unicamente ad individuare e descrivere i vincoli afferenti a
siffatta zona e, secondo la giurisprudenza, i provvedimenti repressivi di
abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione,
bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un
adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e
di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa
l'insussistenza di un permesso di costruire (cfr. TAR Campania, Napoli, sez.
III, 22/10/2015, n. 4968).
...
Con la terza censura si deduce la violazione degli artt. 7 e ss. L.
241/1990, attesa la violazione dei principi del giusto procedimento di
legge, per non essere stati gli atti impugnati preceduti dalla doverosa
comunicazione di avvio del procedimento ai destinatari dello stesso onde
garantire la loro partecipazione allo stesso, in ragione non solo delle
esigenze difensive proprie del giusto procedimento, ma anche per garantire,
in funzione collaborativa, la massima trasparenza ed efficienza nell’azione
dei pubblici poteri.
Riguardo alla lamentata omessa comunicazione dell’avviso del procedimento
culminato con l’impugnata ordinanza del comune di Somma Vesuviana,
l’orientamento giurisprudenziale in argomento è pressoché costante e
consolidato, rilevandosi che: <<Gli atti di repressione degli abusi
edilizi, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito
di accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del
carattere abusivo delle medesime, hanno natura urgente e strettamente
vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non
sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non
devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del
procedimento>> (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233;
TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); secondo la giurisprudenza: <<Gli
atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia
nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di
avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e
non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di
demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante
la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania,
Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR
Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383)
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli
elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse
ricevuto la comunicazione (cfr. C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737); in
ogni caso, alla stregua di quanto si è andato esponendo, il contenuto
dispositivo dell’impugnata ordinanza non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato, con la conseguente irrilevanza dei vizi di
procedura rilevato da parte ricorrente, ai sensi dell’art. 21-octies della
L. n. 241 del 1990.
Con la quarta censura si deduce la violazione dell’art. 3, L.
241/1990, nonché l’illogicità manifesta, dovendo i procedimenti
amministrativi, ai sensi del rubricato art 3 essere idonei a perseguire la
miglior realizzazione dell'interesse pubblico nel rispetto dei diritti e
degli interessi legittimi dei soggetti coinvolti nell'attività
amministrativa e l'obbligo di motivazione può ritenersi adeguatamente
assolto quando la stessa emerga agevolmente dalla valutazione complessiva
dell'atto.
La censura non è fondata.
Riguardo al lamentato deficit motivazionale da cui l’ordinanza impugnata
sarebbe affetta, per costante giurisprudenza, anche di questa Sezione, dalla
quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, i provvedimenti di
repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere
essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali. Pertanto, ai fini
dell’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la mera enunciazione
dei presupposti di fatto e di diritto che consentono l’individuazione della
fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura
sanzionatoria prevista dalla legge (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III,
22/08/2016, n. 4088).
In proposito, secondo condivisa giurisprudenza e contrariamente a quanto
dedotto dal ricorrente, l'esercizio del potere repressivo delle opere
edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio mediante l'applicazione
della misura ripristinatoria può ritenersi sufficientemente motivato per
effetto della stessa descrizione dell'abuso (Cfr. TAR Napoli, (Campania),
sez. VI, 03/08/2016, n. 4017), accertato con atti facenti fede fino a
querela di falso e dalla quale risulta la descrizione dell’abuso,
esplicitante in dettaglio la natura e consistenza delle opere abusive
riscontrate, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare
la spedizione della misura sanzionatoria (Cfr. TAR Napoli, (Campania), sez.
VI, 03/08/2016, n. 4017 e C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
Infine, del tutto inconferente si presenta il riferimento alla natura di “provvedimento
contingibile”, ravvisato nell’impugnata ordinanza, attesa che questa è
stata emanata nell’esercizio degli ordinari poteri di vigilanza e controllo,
spettanti, anche in funzione della repressione degli eventuali abusi
commessi sul proprio territorio, spettanti all’Ente comunale, quale
ordinaria Autorità urbanistica
In definitiva, il ricorso è infondato e va, quindi, respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 43 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in
quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra,
rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del
permesso di costruire.
In giurisprudenza si ritiene che <<Il cambio di destinazione d'uso da
cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una
categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i
quali è necessario il rilascio del permesso di costruire>>.
Anche la Cassazione penale ha stabilito che per il mutamento di destinazione
d'uso da cantina ad abitazione è necessario il permesso di costruire: <<In
tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa
categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le
modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il
cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una
stessa categoria omogenea. (Fattispecie relativa a sequestro preventivo di
locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione,
con conseguente passaggio dalla categoria d'uso non residenziale alla
diversa categoria residenziale>>.
---------------
La censura è complessivamente infondata.
Premette il Collegio che le due contestazioni mosse con l’impugnata
ordinanza, sì come inerenti alle opere interne al fabbricato di proprietà
dei ricorrenti, destinato a loro residenza - unitamente ai corrispondenti
profili di censura, vanno lette ed esaminate congiuntamente.
In particolare con il rilievo n. 1 si contesta la “trasformazione
dell’intero piano terra da cantinato a residenziale”, mentre con quello
n. 2 “il frazionamento dell’unità abitativa posta al piano primo, in n. 3
unità residenziali”.
Parte ricorrente deduce che entrambi gli interventi non necessitavano del
previo rilascio del permesso di costruire, ma di una segnalazione
certificata di attività la cui mancanza è sanzionabile (non con la sanzione
demolitoria ex art. 31, d.P.R. 380/2001, ma) con la mera sanzione
pecuniaria.
A supportare la loro tesi sostengono che “la destinazione prevalente del
fabbricato di proprietà dei ricorrenti, è quella residenziale, ovvero la
destinazione sub a) del comma 1 dell’art. 23-ter d.P.R. 380/2001",
atteso che “il fabbricato in questione si compone di un piano
seminterrato e di un piano rialzato ed i ricorrente hanno provveduto a
destinare a residenza anche il piano seminterrato”.
Ma tale presupposto -quanto meno con specifico riferimento alle unità
immobiliari oggetto di contestazione- non è affatto pacifico tra le parti,
né dimostrato dai ricorrenti.
Invero, quanto al rilievo n. 1 inerente alla “trasformazione dell’intero
piano terra”, ciò che si contesta è proprio il mutamento di destinazione
fra categorie funzionalmente autonome e non omogenee (“da cantinato a
residenziale”), mentre il richiamo alla “categoria prevalente”
può valere unicamente con riferimento ad una variazione che si mantenga
nell’ambito della medesima categoria urbanistica.
In giurisprudenza si ritiene che <<Il cambio di destinazione d'uso da
cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una
categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i
quali è necessario il rilascio del permesso di costruire>> (TAR Genova,
(Liguria) sez. I, 26/07/2017, n. 682).
Anche la Cassazione penale ha stabilito che per il mutamento di destinazione
d'uso da cantina ad abitazione è necessario il permesso di costruire: <<In
tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa
categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le
modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il
cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una
stessa categoria omogenea. (Fattispecie relativa a sequestro preventivo di
locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione,
con conseguente passaggio dalla categoria d'uso non residenziale alla
diversa categoria residenziale>> (Cassazione penale sez. III,
05/04/2016, n. 26455).
Per quanto attiene alla contestazione di cui al n. 2 (“frazionamento
dell’unità abitativa posta al piano prima, in n. 3 unità residenziali”),
per la quale i ricorrenti riferiscono di un <<frazionamento del piano
rialzato “già destinato a residenza” in tre unità residenziali>>, va
rilevato quanto segue.
Lo stesso provvedimento impugnato dà atto del pregresso uso abitativo del
piano rialzato, come da permesso di costruire, per cui è fondato il richiamo
alla nuova formulazione dell’articolo 3, lettera b), del D.P.R. 380/2001,
come integrato con le aggiunte di cui al d.l. 12.09.2014, convertito in L.
11.11.2014 n. 164 -dal cui contenuto testuale si evince che è stata ampliata
la nozione di manutenzione straordinaria, comprendendovi tutti quegli
interventi di conservazione dell'edilizia esistente, ivi compresi anche
quegli interventi che portano all'accorpamento o al frazionamento interni
alle unità immobiliari- presuppone che alle operazioni da ultimo indicate
non si accompagni alcun cambio di destinazione.
Invero la suddetta modifica normativa, entrata in vigore il 13.09.2014, ha
esteso la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria
ricomprendendovi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento
delle unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportanti la
variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico
urbanistico, ma a condizione che non sia modificata la volumetria
complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione d'uso.
Il
disposto del nuovo art. 3-ter d.P.R. n. 380 del 2001 (introdotto dalla legge
di conversione del predetto d.l., ossia dalla l. 11.11.2014, n. 164), che,
sul punto, chiarisce come «costituisce mutamento rilevante della
destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola
unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata
dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione,
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati, ad una diversa categoria
funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis)
turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale) commerciale) rurale».
Ne consegue che nella fattispecie in esame in cui lo stesso provvedimento
impugnato assume la destinazione abitativa dell’unità immobiliare
interessata dal frazionamento, devono ritenersi sussistenti i presupposti
necessari per l’applicazione della normativa invocata dai ricorrenti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Si
rileva con la giurisprudenza dominante che la realizzazione di una piscina
non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in
quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è
solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova
costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa
ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum,
costituito dal permesso di costruire.
Inoltre, per la piscina installata
parzialmente fuori terra, fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un
metro, la giurisprudenza ha statuito quanto segue: <<La
piscina fuori terra non può essere considerata come struttura di natura
accessoria e come tale riconducibile alle ipotesi di attività edilizia
libera ex art. 6, T.U. n. 380/2001 lett. a) o meglio tra gli interventi
aventi natura pertinenziale realizzabili mediante SCIA e non necessitanti
del permesso di costruire ex art. 10, T.U. n. 380/2001>>.
---------------
E ‘altresì da escludere che la suddetta piscina possa assolvere ad una
funzione di semplice decoro o arredo, sì da potersi qualificare “pertinenza
urbanistica”.
A tale conclusione si perviene non tanto per le dimensioni della piscina,
quanto per il contesto, particolarmente attrezzato (“area posta od ovest
del fabbricato e delimitata sui lati nord, sud ed ovest da muro avente
un’altezza di circa ml. 2.20 e posta a quota superiore di circa m. 1,
accessibile mediante una piccola rampa scale scoperta”) in cui essa
insiste e va ad inserirsi, area che appare appositamente allestita (“area
pavimentata di mq. 100”) in funzione della struttura .
A ciò va soggiunto che la nozione “urbanistica” di pertinenza è
nozione molto più ristretta di quella dettata da diritto civile, non
potendo, in particolare, considerarsi pertinenze quelle opere che non sono
coessenziali al bene principale, e che, per loro natura , hanno un’autonoma
rilevanza funzionale ed economica, con la conseguenza che: <<La qualifica
di pertinenza è applicabile solo ad opere di modesta entità, accessorie
rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di
vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria
autonomia rispetto all’opera c.d. principale e non siano coessenziali alla
stessa, tale cioè che non ne risulta possibile alcuna diversa utilizzazione
economica>>.
---------------
Quanto alla pavimentazione dell’area adiacente alla piscina, di essa non può
operarsene una considerazione atomistica, isolata ed a se stante,
partecipando del medesimo regime giuridico (nella specie di abusività),
mutuato dalla res principale, formando con essa un quadro unitario ed
inscindibile (per un’applicazione TAR Napoli, (Campania) sez. III,
20/02/2018, n. 1093, nel quale si evidenzia che gli interventi edilizi vanno
considerati nel loro complesso per stabilire se hanno determinato
trasformazione del territorio o aumento de carico urbanistico).
La valutazione urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di
interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli stessi onde
apprezzarne la rilevanza sotto il profilo urbanistico e la conseguente loro
iscrizione alla relativa categoria edilizia (manutenzione, restauro e
risanamento conservativo, ristrutturazione ovvero nuova costruzione) ai fini
dell'individuazione del titolo autorizzatorio al cui regime sono
assoggettati. Ai fini della ricognizione del regime giuridico e della
categoria edilizia cui vanno ricondotti gli abusi edilizi non possono
formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere
apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico
urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza.
---------------
Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza impugnata
(“Pavimentazione ulteriore area esterna (realizzazione di un area circa
mq. 110 completamente piastrellata e delimitata sui lati nord/est da muretto
in di altezza media di circa cm 80, la stessa area è accessibile da rampa
scala scoperta posta sul versante est e da altra rampa scala posta sul
versante nord, entrambe realizzate in muratura”), è sufficiente il
richiamo alla giurisprudenza che si condivide, per la quale: <<L'intervento
edilizio, consistente nella pavimentazione di tutta l'area di pertinenza
dell'intero stabile con cemento nonché la contestuale realizzazione di una
scala e di una parte di pavimentazione in cotto, integrano trasformazione
urbanistica ed edilizia, tendenzialmente permanente ed alterazione
dell'assetto del territorio da qualificare correttamente come intervento di
nuova costruzione in ossequio al disposto dell'art. 3, comma 1, lett. e),
d.P.R. n. 380 del 2001, e conseguentemente subordinato a permesso di
costruire in forza dell'art. 10, comma 1, lett. a) dello stesso decreto>>.
A ciò aggiungasi che l’ulteriore
area pertinenziale esterna è destinata (oltre che a giardino ed alla
fruizione del tempo libero, anche) alla adibizione a parcheggio e, secondo,
recentissima, condivisa giurisprudenza <<Il permesso di costruire è
necessario anche per la realizzazione di parcheggi, in quanto la
sistemazione di un'area a parcheggio aumenta il carico urbanistico>>.
---------------
Infine, in ordine alla necessità del permesso di costruire negli interventi
contemplati con la censura in esame, dirimente è la considerazione in via
prioritaria dei vincoli paesaggistici che interessano la zona di afferenza
dell’abuso (come desumibile dal richiamo nell’ordinanza al D.Lgs.
22/01/2004, n. 42, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) che impongono,
in assenza di adeguato titolo abilitativo, anche sotto il profilo
paesaggistico, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
In proposito, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza
del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate,
affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso:
<<a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per
realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di
costruire), ciò che rileva, al fine dell’irrogazione della sanzione
ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona
vincolata ed in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo
paesaggistico, che urbanistico>>.
---------------
Con la seconda censura, in relazione alle opere esterne realizzata
nell'area di pertinenza dell'immobile residenziale, relativamente alla
piscina, si deduce la violazione degli artt. 3 e 31 del d.P.R. 380/2001,
oltre all’eccesso di potere (per istruttoria erronea ed insufficiente,
difetto dei presupposti, errore di fatto, motivazione illogica ed
insufficiente, illogicità manifesta), al riguardo in particolare:
A - in relazione alla piscina, essa sarebbe di modestissima dimensioni, di
tipo prefabbricato ed è stata installata parzialmente fuori terra,
fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un metro.
Sostengono, in argomento, i ricorrenti, richiamando la giurisprudenza del
Consiglio di Stato, che, ai sensi dell'art. 7, secondo comma, lett. a) «opere
costituenti pertinenze od impianti tecnici al servizio di edifici già
esistenti», è rilevante che sussista un rapporto pertinenziale tra un
edificio preesistente e l'opera da realizzare e tale rapporto sia oggettivo
nel senso che la consistenza dell'opera deve essere tale da non alterare in
modo significativo l'assetto del territorio e deve inquadrarsi nei limiti di
un rapporto adeguato e non esorbitante rispetto alle esigenze di un
effettivo uso normale del soggetto che risiede nell'edificio principale.
Nel caso in esame, la piscina prefabbricata, di dimensioni normali, annessa
ad un fabbricato ad uso residenziale sito in zona agricola, ha certamente
natura obiettiva di pertinenza, e costituisce un manufatto adeguato all'uso
effettivo e quotidiano del proprietario dell'immobile principale.
Inoltre l’installazione di una piscina prefabbricata di modeste dimensioni
non integra violazione degli indici di copertura che riguardano interventi
edilizi, né degli standard, atteso che non aumentano il carico urbanistico
della zona, rilevando solo in termini ili sistemazione esterna del terreno,
e che i vani per impianti tecnologici sono comunque consentiti.
Infine, secondo la giurisprudenza, la installazione di una piscina, avente
le caratteristiche di quella descritta, non sarebbe soggetta al previo
rilascio del permesso di costruire, la cui mancanza non sarebbe, dunque,
sanzionabile con la demolizione, ai sensi dell’art. 31, D.P.R. 380/2001,
difettando i presupposti di fatto e di diritto per la sua applicazione.
B - In relazione alle altre opere realizzate nell'area esterna pertinenziale,
ovvero la pavimentazione di alcune parti del giardino (in particolare al
contorno della piscina e in un'altra area destinata al tempo libero,
l'allungamento del viale di accesso, lo spiazzo ad uso parcheggio), trattasi
di interventi insuscettibili di aumentare il carico urbanistico o di
determinare una rilevante trasformazione fisica e funzionale del territorio,
stante la intrinseca pertinenzialità funzionale di tali superfici esterne
rispetto all'edificio principale.
Infatti, rappresentano i ricorrenti che la pavimentazione esterna fu
effettuata al solo fine della messa in sicurezza delle aree scoperte, per
destinarla in parte alla permanenza delle persone per godere del tempo
libero, ed in altra parte, a parcheggio privato di autovetture, per modo che
l'area non ha perduto i suoi connotati di spazio pertinenziale al servizio
esclusivo del fabbricato principale ad uso residenziale.
Inoltre, anche per tale intervento, va dedotta la violazione della normativa
urbanistica di riferimento e segnatamente dell'articolo 6 D.P.R. 380/2001,
come modificato dal D.L. 25.03.2010 n. 40, conv. in Legge n. 73/2010, atteso
che, alla stregua di siffatta normativa, costituiscono attività edilizia
libera la pavimentazione delle aree esterne di pertinenza degli edifici
(peraltro già prevista in progetto), le aree ludiche senza fine di lucro e
gli elementi di arredo de le aree di sosta apposti nelle aree pertinenziali
degli edifici, per modo che, anche in tal caso non può che rilevarsi
l'illegittimità dell'ordinanza comunale per difetto dei presupposti previsti
dal più volte citato articolo 31 T.U. Edilizia.
La censura, sotto entrambi i profili sub A e B) considerati è infondata.
Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza (“piscina
anch'essa abusiva, di forma ovale dalla lunghezza di circa ml. 8,40 ed una
larghezza media di circa m 1.4, contornata da un area pavimentata di circa
mq. 100”), si rileva con la giurisprudenza dominante che la
realizzazione di una piscina non può essere attratta alla categoria
urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente
complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo
svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad
una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa
ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire (TAR Salerno, (Campania)
sez. II, 18/04/2019, n. 642).
Inoltre, come asserito dai medesimi ricorrenti la piscina è stata installata
parzialmente fuori terra, fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un
metro, circostanza per la quale, secondo condivisa giurisprudenza: <<La
piscina fuori terra non può essere considerata come struttura di natura
accessoria e come tale riconducibile alle ipotesi di attività edilizia
libera ex art. 6, T.U. n. 380/2001 lett. a) o meglio tra gli interventi
aventi natura pertinenziale realizzabili mediante SCIA e non necessitanti
del permesso di costruire ex art. 10, T.U. n. 380/2001>> (TAR Napoli,
(Campania) sez. VI, 07/06/2019, n. 3103).
E ‘altresì da escludere che la suddetta piscina possa assolvere ad una
funzione di semplice decoro o arredo, sì da potersi qualificare “pertinenza
urbanistica”.
A tale conclusione si perviene non tanto per le dimensioni della piscina,
quanto per il contesto, particolarmente attrezzato (“area posta od ovest
del fabbricato e delimitata sui lati nord, sud ed ovest da muro avente
un’altezza di circa ml. 2.20 e posta a quota superiore di circa m. 1,
accessibile mediante una piccola rampa scale scoperta”) in cui essa
insiste e va ad inserirsi, area che appare appositamente allestita (“area
pavimentata di mq. 100”) in funzione della struttura .
A ciò va soggiunto che la nozione “urbanistica” di pertinenza è
nozione molto più ristretta di quella dettata da diritto civile, non
potendo, in particolare, considerarsi pertinenze quelle opere che non sono
coessenziali al bene principale, e che, per loro natura , hanno un’autonoma
rilevanza funzionale ed economica, con la conseguenza che: <<La qualifica
di pertinenza è applicabile solo ad opere di modesta entità, accessorie
rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di
vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria
autonomia rispetto all’opera c.d. principale e non siano coessenziali alla
stessa, tale cioè che non ne risulta possibile alcuna diversa utilizzazione
economica>> (TAR Campania, sez. VII, 27.11.2017, n. 5564).
Quanto alla pavimentazione dell’area adiacente alla piscina, di essa non può
operarsene una considerazione atomistica, isolata ed a se stante,
partecipando del medesimo regime giuridico (nella specie di abusività),
mutuato dalla res principale, formando con essa un quadro unitario ed
inscindibile (per un’applicazione TAR Napoli (Campania) sez. III,
20/02/2018, n. 1093, nel quale si evidenzia che gli interventi edilizi vanno
considerati nel loro complesso per stabilire se hanno determinato
trasformazione del territorio o aumento de carico urbanistico).
La valutazione urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di
interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli stessi onde
apprezzarne la rilevanza sotto il profilo urbanistico e la conseguente loro
iscrizione alla relativa categoria edilizia (manutenzione, restauro e
risanamento conservativo, ristrutturazione ovvero nuova costruzione) ai fini
dell'individuazione del titolo autorizzatorio al cui regime sono
assoggettati. Ai fini della ricognizione del regime giuridico e della
categoria edilizia cui vanno ricondotti gli abusi edilizi non possono
formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere
apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico
urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza.
Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza impugnata
(“Pavimentazione ulteriore area esterna (realizzazione di un area circa
mq. 110 completamente piastrellata e delimitata sui lati nord/est da muretto
in di altezza media di circa cm 80, la stessa area è accessibile da rampa
scala scoperta posta sul versante est e da altra rampa scala posta sul
versante nord, entrambe realizzate in muratura”), è sufficiente il
richiamo alla giurisprudenza che si condivide, per la quale: <<L'intervento
edilizio, consistente nella pavimentazione di tutta l'area di pertinenza
dell'intero stabile con cemento nonché la contestuale realizzazione di una
scala e di una parte di pavimentazione in cotto, integrano trasformazione
urbanistica ed edilizia, tendenzialmente permanente ed alterazione
dell'assetto del territorio da qualificare correttamente come intervento di
nuova costruzione in ossequio al disposto dell'art. 3, comma 1, lett. e),
d.P.R. n. 380 del 2001, e conseguentemente subordinato a permesso di
costruire in forza dell'art. 10, comma 1, lett. a) dello stesso decreto>>
(TAR Napoli, (Campania) sez. III, 20/02/2018, n. 1093).
A ciò aggiungasi che -come asserito dai medesimi ricorrenti- l’ulteriore
area pertinenziale esterna è destinata (oltre che a giardino ed alla
fruizione del tempo libero, anche) alla adibizione a parcheggio e, secondo,
recentissima, condivisa giurisprudenza <<Il permesso di costruire è
necessario anche per la realizzazione di parcheggi, in quanto la
sistemazione di un'area a parcheggio aumenta il carico urbanistico>> (C.
di S., sez. II, 01.07.2019, n. 4475).
Infine, in ordine alla necessità del permesso di costruire negli interventi
contemplati con la censura in esame, dirimente è la considerazione in via
prioritaria dei vincoli paesaggistico che interessano la zona di afferenza
dell’abuso (come desumibile dal richiamo nell’ordinanza al D.Lgs.
22/01/2004, n. 42, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) che impongono,
in assenza di adeguato titolo abilitativo, anche sotto il profilo
paesaggistico, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
In proposito, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza
del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate,
affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso
(cfr. la sentenza della Sez. VI di questo Tribunale del 26/03/2015 n. 1815):
<<a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per
realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di
costruire), ciò che rileva, al fine dell’irrogazione della sanzione
ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona
vincolata ed in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo
paesaggistico, che urbanistico>>
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
rilevanti dimensioni della tettoia realizzata ed i materiali a tal fine
utilizzati (“tettoia in travi e tavolato in legno
lamellare di mq. 45 posta in aderenza al prospetto ovest del fabbricato”)
conducono ad escludere che essa possa ritenersi sottratta al regime del
permesso di costruire ex art. 10 d.P.R. 380/2001.
Questa Sezione ha già avuto modo di rilevare in generale
che: <<Anche la realizzazione di una tettoia è soggetta al permesso di
costruire, in quanto essa incide sull’assetto edilizio preesistente;
incisione particolarmente significativa ove -come nella fattispecie- la
tettoia insiste su un territorio vincolato. La realizzazione di una tettoia,
nella misura in cui realizza l’inserimento di nuovi elementi e impianti,
resta subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell’art.
10, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 380/2001 laddove comporti, come nella
fattispecie, una modifica della sagoma e del prospetto del fabbricato cui
inerisce>>.
Altre sentenze si soffermano sulla giustificazione di tale impostazione,
escludendo che possano considerarsi elementi accidentali dell’intera
struttura e rilevando che: <<La realizzazione di una tettoia, anche se in
aderenza ad un muro preesistente, non può essere considerata un intervento
di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera b), del
d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non consiste nella rinnovazione o nella
sostituzione di un elemento architettonico, ma nell'aggiunta di un elemento
strutturale dell'edificio, con modifica del prospetto. La sua costruzione,
pertanto, necessita del previo rilascio di permesso di costruire>>.
Fermo restando la correttezza di tale impostazione, la giurisprudenza
soggiunge che dette strutture possono ritenersi liberamente edificabili solo
qualora la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente
e riconoscibile la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da
agenti atmosferici, e quando, per la loro consistenza, possano ritenersi
assorbite, ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà,
nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono.
---------------
In relazione alla tettoia, con la terza censura è dedotta la violazione
degli artt. 3, 10 e 31 del d.P.R.380/2001, oltre all’eccesso di potere (per
difetto di istruttoria, motivazione illogica ed insufficiente, illogicità
manifesta), atteso che la tettoia rientrerebbe nell'ambito delle opere
pertinenziali ai sensi dell'articolo 3 lett. e.6), del D.P.R. 380/2001, non
essendo autonomamente utilizzabile in quanto posta ad esclusivo servizio
dell'immobile principale, senza creazione di alcun volume o superficie
utile, né, trattandosi di modestissima opera, è idonea ad aumentare il
carico urbanistico della zona.
L’ordine di idee di parte ricorrente non merita condivisione.
In argomento questa Sezione ha già avuto modo di rilevare in generale che:
<<Anche la realizzazione di una tettoia è soggetta al permesso di
costruire, in quanto essa incide sull’assetto edilizio preesistente;
incisione particolarmente significativa ove -come nella fattispecie- la
tettoia insiste su un territorio vincolato. La realizzazione di una tettoia,
nella misura in cui realizza l’inserimento di nuovi elementi e impianti,
resta subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell’art.
10, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 380/2001 laddove comporti, come nella
fattispecie, una modifica della sagoma e del prospetto del fabbricato cui
inerisce>> (TAR Napoli, sez. III, 10.01.2014, n. 142; TAR Napoli, sez.
II, 12.07.2013, n. 3647).
Altre sentenze si soffermano sulla giustificazione di tale impostazione,
escludendo che possano considerarsi elementi accidentali dell’intera
struttura e rilevando che: <<La realizzazione di una tettoia, anche se in
aderenza ad un muro preesistente, non può essere considerata un intervento
di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera b), del
d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non consiste nella rinnovazione o nella
sostituzione di un elemento architettonico, ma nell'aggiunta di un elemento
strutturale dell'edificio, con modifica del prospetto. La sua costruzione,
pertanto, necessita del previo rilascio di permesso di costruire>>
(Consiglio di Stato, sez. VI, 26/01/2015, n. 319).
Fermo restando la correttezza di tale impostazione, la giurisprudenza
soggiunge che dette strutture possono ritenersi liberamente edificabili solo
qualora la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente
e riconoscibile la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da
agenti atmosferici, e quando, per la loro consistenza, possano ritenersi
assorbite, ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà,
nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono (cfr. TAR
Campania, Napoli, sezione III, 25.07.2011 n. 3947).
Nel caso di specie, le rilevanti dimensioni della tettoia realizzata ed i
materiali a tal fine utilizzati (“tettoia in travi e tavolato in legno
lamellare di mq. 45 posta in aderenza al prospetto ovest del fabbricato”)
conducono ad escludere che essa possa ritenersi sottratta al regime del
permesso di costruire ex art. 10, d.P.R. 380/2001, per rientrare fra gli
interventi assoggettati a segnalazione certificata di inizio attività o,
addirittura, nella libera attività edilizia ai sensi del precedente art. 6.
In definitiva, nella sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per
ingiungere la sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 31 D.P.R. 380/2001,
il ricorso si appalesa infondato e va, quindi, respinto, ad eccezione di
quanto rilevato per il frazionamento del piano rialzato
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Per
l’emanazione dell'ordine di rimozione dei rifiuti ex art. 192, comma 3,
d.lgs. n. 152 del 2006, è necessario in primo luogo che sussista la colpa
specifica, e non già presunta o di posizione, del proprietario non autore
materiale delle condotte di abbandono dei rifiuti.
Pertanto, la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti previsti
dall'art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 necessita di un serio accertamento
della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato
su presunzioni e nei limiti della esigibilità ove si ravvisi il titolo
colposo di tale responsabilità, non potendosi configurare, in assenza di una
apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del diritto europeo,
una responsabilità del proprietario da posizione.
---------------
La sig.ra Le Pe. La., ha impugnato, con richiesta di sospensione,
l’ordinanza contingibile ed urgente n. 3 del 15.01.2019 emanata dal Sindaco
del Comune di Tiriolo con cui le si è ordinata la rimozione dei rifiuti
abbandonati su sua proprietà, pena la rimozione “di ufficio in danno”,
e la conseguente determinazione del costo dell’intervento deducendone
l’illegittimità per eccesso di potere per travisamento ed erronea
valutazione dei fatti, difetto di istruttoria ed ingiustizia manifesta per
difetto di sopralluogo con il proprietario e di riscontro di sua colpa per
come previsto dall’art. 192 d.lgs. 152/2006.
In particolare, ha dedotto che i materiali abbandonati non si trovano
proprio terreno, bensì sulla adiacente via comunale.
L’ente locale, cui il ricorso è stato ritualmente notificato, non si è
ritualmente costituito ed ha provveduto a depositare relazione e documenti
per contrastare le deduzioni ricorsuali.
L’istanza cautelare è stata accolta con ordinanza n. 196/2019, non
impugnata.
Nella fase del merito l’ente resistente ha documentato l’intervenuta
rimozione dei rifiuti.
All’udienza pubblica del 18.12.2019 la causa, all’esito della trattazione, è
stata trattenuta in decisione.
2. Coglie nel segno il secondo motivo di ricorso ove si lamenta
l’eccesso di potere e la violazione dell’art. 192 TUAmb.
Infatti, per l’emanazione dell'ordine di rimozione dei rifiuti ex art. 192,
comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, è necessario in primo luogo che sussista la
colpa specifica, e non già presunta o di posizione, del proprietario non
autore materiale delle condotte di abbandono dei rifiuti (cfr. da ultimo
Cons. Stato, IV, 07.06.2018, n. 3430).
Pertanto, la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti previsti
dall'art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 necessita di un serio accertamento
della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato
su presunzioni e nei limiti della esigibilità ove si ravvisi il titolo
colposo di tale responsabilità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3672 del 2017;
sez. V, n. 1089 del 2017; sez. IV, n. 1301 del 2016; sez. V, n. 933 del
2015), non potendosi configurare, in assenza di una apposita previsione di
legge nazionale, alla stregua del diritto europeo, una responsabilità del
proprietario da posizione (cfr. da ultimo Corte giust. UE, sez. II,
13.07.2017, C-129/2016; sez. III, 04.03.2015, n. 534; Cons. Stato, Ad. plen.,
nn. 21 e 25 del 2013).
Nella specie è incontestato e riscontrabile negli atti prodotti che il
sopralluogo sul terreno sia avvenuto da tecnici comunali in assenza della
proprietaria ricorrente.
In conclusione, il ricorso va accolto con annullamento dell’ordinanza
contingibile e dell’atto conseguenziale di determinazione del costo di
rimozione
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 07.01.2020 n. 5 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Se
sussiste una discrasia tra parte normativa e parte grafica delle
prescrizioni di Piano regolatore generale, si applica la regula iuris per
cui occorre dare prevalenza alla prima.
---------------
1. Con ricorso dinanzi al Tar Lombardia (R.G. n. 2987/2012), l’odierno
appellato impugnava la deliberazione di Consiglio comunale n. 55 del
28.09.2012, mediante la quale il Comune di Carugate ha approvato la proposta
di deliberazione avente ad oggetto la correzione di errori materiali e
rettifiche degli atti del P.G.T., ai sensi dell’art. 13, comma 14-bis, della
legge regionale n. 12 del 2005.
2. Il Tar, con la sentenza n. 1167 del 25.05.2017, ha accolto il ricorso e
ha compensato le spese di giudizio tra le parti.
Secondo il Tribunale, in
particolare il Comune ha variato le previsioni contenute nello strumento
urbanistico comunale utilizzando la procedura di correzione di errori
materiali ex art. 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del 2005 in
assenza dei relativi presupposti.
Si è infatti provveduto a variare la
classificazione della zona in cui è situata l’area di proprietà del
ricorrente da zona B (“ambito di completamento, di espansione recente in via
di saturazione”), come previsto dalla precedente deliberazione n. 21 del
2010 (poi rettificata con deliberazione n. 11 del 2011), in zona C1 (“zone
residenziali soggette a piani attuativi di recente approvazione ed in corso
di esecuzione”), in assenza di un evidente e manifesto errore materiale in
tal senso.
3. Il Comune di Carugate ha proposto appello, per ottenere la riforma della
sentenza impugnata e il conseguente rigetto integrale del ricorso
originario. In particolare, l’appellante ha sostenuto le seguenti censure in
tal modo rubricate:
...
5. L’appello è fondato e deve pertanto essere accolto, con conseguente
riforma della sentenza impugnata.
...
7.1. I due motivi di appello devono essere esaminati congiuntamente in
ragione del rapporto di stretta connessione tra loro, fondandosi entrambi
sulla questione di merito della sussistenza dell’errore materiale (oggetto
di correzione nella delibera impugnata) derivante dalla non corrispondenza
tra la parte scritta e la parte grafica delle previsioni di P.G.T.
7.1.2. La specifica censura risulta fondata.
Attesa la fondatezza dell’appello nel merito, il Collegio può quindi
prescindere dall’esame dell’eccezione di inammissibilità del ricorso di
primo grado ex art. 35, comma 1, lett. b, c.p.a., per difetto di interesse.
7.2. Il Collegio rileva in primo luogo che il menzionato art. 13, comma
14-bis, l.r. Lombardia n. 12/2005, prevede, esclusivamente per l’ipotesi
della correzione dell’errore materiale, una disciplina semplificata di
approvazione, che deroga al procedimento ordinario di approvazione delle
varianti agli strumenti di pianificazione urbanistica e non reca le
correlate garanzie partecipative.
Come ha già rilevato questo Consiglio (cfr. Sez. IV, 24.12.2019, n.
8799), la sussistenza del presupposto dell’errore materiale risulta pertanto
imprescindibile per l’applicazione della procedura agevolata.
7.3. Al riguardo, va rilevato che, ai sensi dell’art. 24 delle Norme di
Attuazione del Piano delle regole (“zona C1 - Zone residenziali soggette a
piani attuativi di recente approvazione ed in corso di esecuzione”): “1.
Il PGT prende atto della esistenza di una serie di piani attuativi già
adottati ed in corso di attuazione, relativi sia ad ambiti di zone C del PRG
previgente, sia ad ambiti di zone di recupero. 2. Tali ambiti vengono
identificati unitariamente come zone C1 ancorché caratterizzati da
discipline autonome e differenti tra loro in attuazione delle previsioni del
previgente PRG. 3. Le indicazioni planimetriche e le Norme Tecniche di
Attuazione dei Piani Esecutivi già adottati ed in corso di esecuzione, di
cui al comma precedente, sono fatte salve e formano parte integrante delle
presenti norme. 4. Esse trovano applicazione fino allo scadere del termine
di efficacia del piano attuativo a cui si riferiscono. 5. Allo scadere del
termine di cui al comma precedente, essi perdono efficacia, e i relativi
ambiti sono assoggettati ad una disciplina di conservazione dell'esistente,
senza possibilità di ulteriori edificazioni. 6. La destinazione d'uso
prevalente è quella residenziale. E' ammessa, al piano terra degli edifici,
la destinazione per attività commerciali di vicinato”.
Ne consegue che, alla stregua della parte normativa delle previsioni di
P.G.T., gli ambiti considerati dai piani attuativi già adottati ed in corso
di esecuzione, sia quelli compresi nella zona C sia quelli di recupero, sono
identificati unitariamente come zone C1 e vengono assoggettati, allo scadere
del termine di efficacia dei piani stessi, ad una disciplina di
conservazione dell’esistente, senza possibilità di ulteriori edificazioni.
7.4. Ciò premesso, in primo luogo non risulta sostenibile quanto dedotto
dall’appellato in ordine alla inapplicabilità alla fattispecie in esame
della norme di attuazione del Piano delle regole, in ragione del fatto che
il Piano PP9 sarebbe stato del tutto concluso in epoca precedente l’entrata
in vigore di tali norme, come dimostrato dalla delibera di Giunta comunale
n. 210 del 17.11.2009 (avente ad oggetto “presa d’atto fine lavori
piano particolareggiato PP9 sito in Via C. Battisti - approvazione
certificato di regolare esecuzione - presa in consegna”) con cui è stato
approvato il certificato di regolare esecuzione delle opere di
urbanizzazione, in ottemperanza alla convenzione urbanistica stipulata in
data 20.01.2006 per l’attuazione di tale piano.
7.4.1. Invero, come rilevato, il citato art. 24 delle norme di attuazione
del Piano delle regole fa riferimento ai “piani attuativi già adottati e in
corso di attuazione”, così come, in maniera sostanzialmente conforme, l’art.
3 delle medesime norme fa riferimento ai “piani attuativi già approvati e
vigenti alla data di adozione del presente PGT”.
Del resto, il citato certificato non è di per sé idoneo ad escludere che il
Piano, già adottato alla data di adozione del nuovo P.G.T., fosse in quel
momento ancora in corso di attuazione, non apportando elementi dimostrativi
in ordine alla integrale attuazione delle previsioni edificatorie del PP9.
In senso contrario, come correttamente dedotto dal Comune appellante, va
infatti considerato che la invocata deliberazione G.C. n. 210/2009 concerne
solo l’ultimazione delle opere di urbanizzazione, per l’esecuzione delle
quali era previsto lo specifico termine di 36 mesi dall’approvazione del
piano, almeno per quanto riguarda la transitabilità delle strade.
Al contrario, la convenzione relativa al piano presenta una durata
decennale, come confermato -stando a quanto riferito dal Comune e non
contestato dall’appellato- dalla successiva presentazione di titoli
abilitativi per varianti in corso d’opera per immobili all’interno del PP9,
tra cui una d.i.a. del 2010 dello stesso appellato per opere di varianti in
corso d’opera a sanatoria.
7.4.2. Non essendo pertanto dimostrata né la piena attuazione di tutte le
previsioni edificatorie del PP9 né la scadenza del termine decennale di
efficacia della relativa convenzione, risulta che il piano particolareggiato
era ancora in corso di esecuzione al momento dell’entrata in vigore del
nuovo P.G.T., con la conseguenza che agli ambiti da esso considerati
risultano applicabili le disposizioni delle Norme di Attuazione del Piano
delle regole.
7.5. Ciò detto, considerata l’applicabilità del citato art. 24, appare
sostenibile che con l’impugnata delibera si sia voluto correggere la
discrasia tra quanto previsto dalla norma e quanto riportato nella parte
grafica; discrasia che, pertanto, risulta essere stata correttamente
qualificata dal Comune alla stregua di un “errore materiale”.
Invero, la divergenza tra la parte scritta e la parte grafica delle
previsioni di P.G.T. in relazione alla classificazione delle aree dei piani
considerati si palesa quale errore che emerge in maniera manifesta ed
immediata dalla documentazione del piano, a prescindere da qualunque
attività interpretativa, atteso che:
a) l’ambito in esame secondo la previsione “scritta” del citato art. 24
delle norme di attuazione del Piano delle Regole è stato classificato come
zona C1 (“zone residenziali soggette a piani attuativi di recente
approvazione ed in corso di esecuzione”), mentre dalla parte grafica di cui
alla tavola n. 9 viene individuato come zona B (“ambito di completamento, di
espansione recente in via di saturazione”);
b) per la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, se sussiste
una discrasia tra parte normativa e parte grafica delle prescrizioni di
Piano regolatore generale, si applica la regula iuris per cui occorre dare
prevalenza alla prima (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. II, 26.08.2019,
n. 5876; sez. IV, 13.01.2015, n. 49; sez. IV, 16.06.2015, n. 2998;
sez. IV, 13.07.2010, n. 4542; sez. IV, 15.12.1981, n. 1089);
c) non emerge la volontà del Comune di voler esercitare nuovamente il
proprio potere discrezionale di individuazione della destinazione
urbanistica dell’area in esame, in quanto la medesima variazione di
azzonamento, volta a rettificare l’errore, è stata disposta non solo con
riferimento al citato PP9, ma anche in relazione ad altri sette piani
attuativi previsti nel PRG pre-vigente (PL A, PL C, PL D, PL E, PL F, PP 12
e PP 15), in tal modo dando dimostrazione della portata generale della
delibera;
d) del resto, a differenza di quanto sostenuto dall’appellato, a fronte
della presenza di una chiara previsione normativa non può dirsi che nella
fattispecie si sia formato un affidamento incolpevole del proprietario sull’edificabilità
delle aree interessate dalla censurata riclassificazione urbanistica,
nonostante la rettifica sia intervenuta dopo due anni dall’approvazione del
P.G.T..
8. In conclusione, in ragione di quanto esposto, l’appello deve essere
accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere
respinto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.01.2020 n. 62 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di
condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di
quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso
siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del
provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare,
senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza
discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui
esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa
Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi
dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine
di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001
per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali
<<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985)
configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio
serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i
richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si
forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a
carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge,
anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione
dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della
domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli
abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune,
preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non
determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero
invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato
di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché
perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato
l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine
e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito,
l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in
nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte
dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di
sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma
senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la
conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida
riprendendo piena efficacia.
---------------
Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di
condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di
quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso
siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del
provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare,
senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza
discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui
esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa
Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi
dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine
di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001
per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali
richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per
le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n.
47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale
del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi
inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di
conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con
conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine
processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla
data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la
presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva
all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione
dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del
territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia
sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma
provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non
esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione
previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di
diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di
impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di
demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una
riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>
(TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014,
n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in
proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla
rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun
provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che
-però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di
demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al
superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò
consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d.
sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta
effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di abusi
edilizi l’ordine di demolizione è e resta comunque un atto vincolato il
quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di
un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di
fatto.
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta di
recente a rilevare che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non
priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto:
<<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1,
lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il
decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione,
configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili
dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il decorso del tempo>>.
In sostanza, la decisione della Plenaria superando l’orientamento
giurisprudenziale che richiedeva un onere motivazionale particolarmente
rafforzato nel caso di esercizio del potere sanzionatorio di un abuso
edilizio a distanza di tempo dalla sua realizzazione ritiene che l'ordinanza
di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza
alcuna particolare motivazione (se non quella relativa all'accertata
abusività dell'opera) indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla
commissione dell'abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo
affidamento in capo al responsabile dell'abuso.
Successivamente all’emanazione della citata sentenza dell’Adunanza Plenaria
l’orientamento è stato ribadito da Cons. Stato, IV, 28.02.2017 n. 908,
evidenziando che: <<La repressione degli abusi edilizi è espressione di
attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di
prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche
a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Invero,
l'illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva
nel tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso
è in re ipsa. L'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è
necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza
della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio>>.
---------------
Con la terza censura si
deduce l’eccesso di potere (per erroneità del presupposto di fatto
determinato da insufficiente istruttoria e difetto di motivazione) in quanto
la circostanza per la quale l'opera in oggetto esiste da circa dieci anni
rende applicabile il cd. principio di affidamento del privato, in base al
quale, il decorso di un lungo periodo di tempo dalla realizzazione
dell'opera, legittima i ricorrenti a ritenere di vantare un diritto assoluto
alla detenzione dello stesso, per modo che il Comune potrebbe disporre la
demolizione di dette opere solo in caso di prevalenza dell'interesse
pubblico sull'interesse privato, tale da rendere necessario un tale
provvedimento.
Con l’ausilio della giurisprudenza richiamata i ricorrenti sostengono che,
nel caso in cui, dato il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione
dell'abuso e per il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta
alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento del privato,
sussisterebbe a carico della P.A: un onere di congrua e puntuale motivazione
che indichi, avuto riguardo anche alla vetustà, all'entità ed alla tipologia
dell'abuso, il pubblico interesse idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.
La censura non coglie nel segno.
Posto che l’abuso in discussione circa l’epoca di sua realizzazione risulta
non databile, nulla al riguardo, i ricorrenti avendo provato, decisivo è il
rilievo che, in materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è e resta
comunque un atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tanto meno una motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può
legittimare in via di fatto (Cfr. ex multis, TAR Napoli Campania,
sez. IV, n. 3614/2016; TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480;
TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770).
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta di
recente a rilevare che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non
priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto:
<<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1,
lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il
decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione,
configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili
dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il decorso del tempo>> (Consiglio di Stato ad. plen.,
17/10/2017, n. 9).
In sostanza, la decisione della Plenaria superando l’orientamento
giurisprudenziale che richiedeva un onere motivazionale particolarmente
rafforzato nel caso di esercizio del potere sanzionatorio di un abuso
edilizio a distanza di tempo dalla sua realizzazione ritiene che l'ordinanza
di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza
alcuna particolare motivazione (se non quella relativa all'accertata
abusività dell'opera) indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla
commissione dell'abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo
affidamento in capo al responsabile dell'abuso.
Successivamente all’emanazione della citata sentenza dell’Adunanza Plenaria
l’orientamento è stato ribadito da Cons. Stato, IV, 28.02.2017 n. 908,
evidenziando che: <<La repressione degli abusi edilizi è espressione di
attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di
prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche
a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Invero,
l'illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva
nel tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso
è in re ipsa. L'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è
necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza
della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio>>
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in
quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra,
rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del
permesso di costruire.
La circostanza che, nella licenza edilizia, il piano
cantinato non abbia alcuna indicazione in ordine alla destinazione d’uso non
può fare presumere, proprio per le caratteristiche intrinseche del relativo
locale, un uso abitativo dello stesso.
Sul punto si osserva che, laddove il cantinato assuma un carattere di
pertinenza rispetto all’unità principale ad uso abitativo la sua funzione
non può che essere servente dell’appartamento, giammai autonoma quale unità
abitativa del tutto distinta da quella principale.
Non a caso, nella classificazione a fini di rendita fiscale, i cantinati –a
differenza delle abitazioni– rientrano nella categoria catastale C,
sottocategoria C/2, quali locali di deposito, proprio in considerazione
della loro funzione servente dell’unità abitativa e quindi fondamentalmente
diversa da quest’ultima.
Da ciò consegue anche che non è applicabile l’invocato art. 23-ter d.p.r.
380/2001, in quanto il passaggio da cantinato a locale abitabile rientra
nell’ambito del cambiamento della destinazione d’uso urbanisticamente
rilevante, considerata la totale diversità delle modalità di utilizzo di una
cantina rispetto ad un appartamento e l’evidente aggravio del carico
urbanistico complessivo sul territorio comunale.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il cambio di
destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta
il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli
interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di
costruire.
---------------
2.3.- Circa il cambio di destinazione d’uso non sono condivisibili le tesi
di parte ricorrente.
La circostanza che nella licenza edilizia, il piano cantinato non abbia
alcuna indicazione in ordine alla destinazione d’uso non può fare presumere,
proprio per le caratteristiche intrinseche del relativo locale, un uso
abitativo dello stesso.
Tra l’altro, è la stessa parte ricorrente a riconoscerlo nel punto in cui
sostiene, benché incidentalmente, che il cantinato riveste una funzione
pertinenziale dell’appartamento.
Sul punto si osserva che, laddove il cantinato assuma un carattere di
pertinenza rispetto all’unità principale ad uso abitativo –aspetto che il
Collegio non nega ma anzi sul quale conviene- la sua funzione non può che
essere servente dell’appartamento, giammai autonoma quale unità abitativa
del tutto distinta da quella principale.
Non a caso, nella classificazione a fini di rendita fiscale, i cantinati –a
differenza delle abitazioni– rientrano nella categoria catastale C,
sottocategoria C/2, quali locali di deposito, proprio in considerazione
della loro funzione servente dell’unità abitativa e quindi fondamentalmente
diversa da quest’ultima.
2.4.- Da ciò consegue anche che non è applicabile l’invocato art. 23-ter
d.p.r. 380/2001, in quanto il passaggio da cantinato a locale abitabile
rientra nell’ambito del cambiamento della destinazione d’uso
urbanisticamente rilevante, considerata la totale diversità delle modalità
di utilizzo di una cantina rispetto ad un appartamento e l’evidente aggravio
del carico urbanistico complessivo sul territorio comunale.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il cambio di
destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta
il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli
interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di
costruire (cfr. Tar Genova, sez. I, 26.07.2017, n. 682).
2.5.- L’elemento dell’altezza non appare rilevante, almeno nei termini
invocati dai ricorrenti.
Ed invero, costoro non contestano che l’altezza effettiva del piano
interrato sia difforme da quella indicata nel grafico di prospetto, pari a
metri 3,00, ma che questa, sin dall’origine, sia sempre stata pari a metri
2,10.
Ebbene, anche laddove l’altezza non sia mai variata e quella riportata nel
grafico sia frutto di errore (materiale) e quindi fuorviante, è del tutto
evidente che, a questo punto, l’unità, per ricevere destinazione abitativa,
non risponderebbe in alcun modo ai requisiti minimi di altezza utile,
fissata in metri 2,70 -riducibili a m 2.40 per i corridoi, i disimpegni in
genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli- come indicato in via
inderogabile dal D.M. del 05.07.1975, contenente le “Modificazioni alle
istruzioni ministeriali 20.06.1896 relativamente all'altezza minima ed ai
requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione”
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 31 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
insegna costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso di tempo
trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei
provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli
abusi edilizi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa il
permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire;
questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di
tutela in costanza di una situazione di fatto abusiva e giuridicamente
illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto del solo
trascorrere del tempo.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo,
non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile
anche a notevole intervallo temporale dall'abuso edilizio, costituendo atto
dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti.
Come tra l’altro sottolineato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di stato,
l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera
q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133, e secondo cui “la mancata o
tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le
responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance
individuale, nonché di responsabilità disciplinare e
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”- il
decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione,
configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per
l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso.
---------------
3.- Non fondata è la seconda censura.
Come insegna altrettanto costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso
di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e
l'adozione dei provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di
contrasto degli abusi edilizi né impone un più stringente obbligo
motivazionale circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse
pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un
affidamento degno di tutela in costanza di una situazione di fatto abusiva e
giuridicamente illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto
del solo trascorrere del tempo.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo,
non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile
anche a notevole intervallo temporale dall'abuso edilizio, costituendo atto
dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti (Cons. Stato,
sez. VI, 03.10.2017, n. 4580).
Come tra l’altro sottolineato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di stato
(17.10.2017, n. 9), l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto
dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133, e secondo
cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio,
fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione
della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”-
il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione,
configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per
l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 31 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’atto
endoprocedimentale non è, di regola, impugnabile se non unitamente all’atto
che conclude il procedimento amministrativo.
Nel caso di specie, trattandosi di di un mero atto
endoprocedimentale la natura provvedimentale è esclusa dall’assenza di
idoneità ad incidere in modo definitivo sulla posizione soggettiva del
ricorrente. E deve pure escludersi che esso ponga in essere un arresto
procedimentale di qualunque genere.
Sul punto, è sufficiente richiamare i principi di recente affermati, in
materia, dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “in tema di
procedimento amministrativo, il provvedimento finale a rilevanza esterna è
impugnabile quale atto direttamente e immediatamente lesivo, mentre non
sussiste l'interesse ad impugnare un atto privo di effetti immediati e
diretti in quanto meramente endoprocedimentale”, ove in particolare si è
precisato che “la regola secondo cui l'atto endoprocedimentale non è
autonomamente impugnabile -la lesione della sfera giuridica dell'interessato
provenendo in tal caso solo dall'atto conclusivo del procedimento
amministrativo- trova eccezione solo nei casi in cui dall'atto
procedimentale consegua un effetto preclusivo del successivo sviluppo del
procedimento e, quindi, solo in caso di:
a) atti di natura vincolanti (pareri o proposte) idonei come tali
ad esprimere un indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva;
b) atti interlocutori, idonei ad arrecare un arresto procedimentale
capace di frustrare l'aspirazione dell'istante ad un celere soddisfacimento
dell'interesse pretensivo prospettato;
c) atti soprassessori, i quali rinviano ad un evento futuro ed
incerto nell'an e nel quando il predetto soddisfacimento e, quindi,
determinano un arresto procedimentale a tempo indeterminato.
Ciò posto e considerato altresì che l'interesse ad impugnare va accertato
con riferimento al concreto ed attuale pregiudizio che l'atto arreca
all'interesse sostanziale dedotto in giudizio e non già con riguardo alla
possibile futura incidenza dell'atto sulla sfera giuridica del ricorrente,
si osserva che, nello specifico, è la stessa natura del provvedimento
impugnato (…) ad escludere che l'atto in questione possa considerarsi
espressivo di una volontà dell'amministrazione con efficacia immediatamente
lesiva e depone, invece, nel senso di un atto meramente interinale, privo di
effetti "diretti", che si inserisce nell'istruttoria senza peraltro
condizionarne l'esito (…)”.
Tale indirizzo trova sostanziale rispondenza nell’orientamento del Consiglio
di Stato, che, a partire dalla nota decisione dell’Adunanza plenaria n. 8
del 10.07.1986, ha delineato i contorni del c.d. “arresto procedimentale”,
ponendo l’accento sull’effetto preclusivo derivante da un atto prodromico
che, da un lato, frustra l’aspirazione alla realizzazione
dell’interesse pretensivo provocando un’interruzione, virtualmente
definitiva, del normale svolgimento del procedimento amministrativo, e,
dall’altro, assumendo natura “esterna”, incide immediatamente sulla
situazione giuridica del richiedente.
L’arresto procedimentale assume, quindi, una duplice valenza, che può
ricondursi, volendo individuare un comune elemento caratterizzante, a una
particolare efficacia, normalmente preclusiva, dell'atto prodromico rispetto
alla propria funzione endoprocedimentale e agli effetti normalmente prodotti
dal provvedimento conclusivo del procedimento.
Nel tempo la giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente specificato che
non è autonomamente impugnabile un atto prodromico che non possa essere
considerato come un diniego esplicito, né come un provvedimento dotato di
autonoma capacità lesiva, in quanto inidoneo, in ragione della sua natura
meramente interlocutoria, a determinare un arresto procedimentale.
Deve, dunque, concludersi nel senso che l’atto endoprocedimentale non è, di
regola, impugnabile se non unitamente all’atto che conclude il procedimento
amministrativo.
---------------
E' consolidato il principio per cui “Ai sensi degli artt. 14-bis, 14-ter e
14-quater, l. 07.08.1990, n. 241, l’atto conclusivo dei lavori della
conferenza di servizi si concreta in un atto istruttorio endoprocedimentale
a contenuto consultivo, perché l’atto conclusivo del procedimento è il
provvedimento finale a rilevanza esterna con cui l’Amministrazione c.d.
“procedente” decide a seguito di una valutazione complessiva, ed è contro di
esso, in quanto atto direttamente e immediatamente lesivo, che deve
dirigersi l’impugnazione, e ciò perché gli altri atti o hanno carattere
meramente endoprocedimentale o non risultano impugnabili, se non unitamente
al provvedimento conclusivo, in quanto non immediatamente lesivi”.
---------------
Come noto, l’art. 7 l 241/1990 esonera la P.A. procedente dalla
comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 10-bis della
medesima legge quando “sussistano ragioni di impedimento derivanti da
particolari esigenze di celerità del procedimento”.
A ciò si aggiunga che, in ogni caso, l’art. 21-octies della norma sul
procedimento amministrativo espressamente esclude l’annullabilità del
provvedimento per omissione della comunicazione in esame “qualora
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Tuttavia, quanto alla consistenza dell’onere probatorio posto a carico
dell’Amministrazione, l’orientamento prevalente in giurisprudenza, dal quale
questo Collegio non ha ragione di discostarsi, è quello per cui “onde
evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, quale sarebbe quella
consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del
privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento, risulta preferibile
interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi
a dolersi dell’omessa comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno
indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo
che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione, la P.A. sarà
gravata del ben più consistente onere di dimostrare che anche ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento
non sarebbe mutato. Ne consegue che, ove il ricorrente si limiti a dedurre
la mancata comunicazione di avvio per contestare la legittimità del
provvedimento adottato dall’Amministrazione, senza nemmeno allegare le
circostanze che intendeva sottoporre alla stessa, il motivo di cui si
lamenta comunicazione deve ritenersi inammissibile”.
---------------
Per consolidata giurisprudenza amministrativa, “l'annullamento d'ufficio che
intervenga entro breve tempo dall'adozione del provvedimento annullabile,
quando le situazioni giuridiche coinvolte non si siano consolidate, è
soggetto a un obbligo di motivazione attenuato.
Si tratta di un provvedimento ad alto contenuto discrezionale, con il quale
l'Amministrazione persegue la tutela dell'interesse pubblico nella sua
dinamicità temporale, né tanto meno, in siffatta ipotesi, è richiesta la
comparazione con l’interesse privato sacrificato, “posto che in presenza di
tale circostanza l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto illegittimo
può considerarsi in re ipsa”.
---------------
Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene il ricorso inammissibile per carenza
di interesse e, in ogni caso, infondato nel merito.
Sul piano argomentativo e motivazionale, i motivi di gravame di cui al
ricorso introduttivo sono suscettivi di trattazione unitaria, facendo tutti
leva sul medesimo ordine di argomentazioni di massima.
In primo luogo, è fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso
formulata dal Comune di Manfredonia.
Invero, come emerge dalla ricostruzione in fatto, la società En. S.p.A.
impugnava il provvedimento di annullamento d’ufficio dalla Direzione
Generale presso il M.I.B.A.C., reso nel corso della sessione conferenziale e
giustificato dall’esigenza di acquisire puntuali integrazioni documentali in
ordine alle opere in progetto indispensabili per il successivo sviluppo
procedimentale, stante l’introduzione del nuovo P.P.T.R. della Regione
Puglia.
Risulta evidente che di tale atto non è in alcun modo predicabile la natura
provvedimentale o di arresto procedimentale idonea a radicare l’interesse
all’impugnazione.
Essendo invero un mero atto endoprocedimentale, la natura provvedimentale,
in particolare, è esclusa dall’assenza di idoneità ad incidere in modo
definitivo sulla posizione soggettiva del ricorrente.
Deve pure escludersi che esso ponga in essere un arresto procedimentale di
qualunque genere.
Sul punto, sarà sufficiente richiamare i principi di recente affermati, in
materia, dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “in tema di
procedimento amministrativo, il provvedimento finale a rilevanza esterna è
impugnabile quale atto direttamente e immediatamente lesivo, mentre non
sussiste l'interesse ad impugnare un atto privo di effetti immediati e
diretti in quanto meramente endoprocedimentale” (cfr. Cass., Sez. UU,
Sentenza 19.04.2016, n. 7702), ove in particolare si è precisato che “la
regola secondo cui l'atto endoprocedimentale non è autonomamente impugnabile
-la lesione della sfera giuridica dell'interessato provenendo in tal caso
solo dall'atto conclusivo del procedimento amministrativo- trova eccezione
solo nei casi in cui dall'atto procedimentale consegua un effetto preclusivo
del successivo sviluppo del procedimento e, quindi, solo in caso di:
a) atti di natura vincolanti (pareri o proposte) idonei come tali
ad esprimere un indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva;
b) atti interlocutori, idonei ad arrecare un arresto procedimentale
capace di frustrare l'aspirazione dell'istante ad un celere soddisfacimento
dell'interesse pretensivo prospettato;
c) atti soprassessori, i quali rinviano ad un evento futuro ed
incerto nell'an e nel quando il predetto soddisfacimento e, quindi,
determinano un arresto procedimentale a tempo indeterminato (cfr. ex multis,
Cons. Stato, 28.03.2012, n. 1829).
Ciò posto e considerato altresì che l'interesse ad impugnare va accertato
con riferimento al concreto ed attuale pregiudizio che l'atto arreca
all'interesse sostanziale dedotto in giudizio e non già con riguardo alla
possibile futura incidenza dell'atto sulla sfera giuridica del ricorrente,
si osserva che, nello specifico, è la stessa natura del provvedimento
impugnato (…) ad escludere che l'atto in questione possa considerarsi
espressivo di una volontà dell'amministrazione con efficacia immediatamente
lesiva e depone, invece, nel senso di un atto meramente interinale, privo di
effetti "diretti", che si inserisce nell'istruttoria senza peraltro
condizionarne l'esito (…)”.
Tale indirizzo trova sostanziale rispondenza nell’orientamento del Consiglio
di Stato, che, a partire dalla nota decisione dell’Adunanza plenaria n. 8
del 10.07.1986, ha delineato i contorni del c.d. “arresto procedimentale”,
ponendo l’accento sull’effetto preclusivo derivante da un atto prodromico
che, da un lato, frustra l’aspirazione alla realizzazione
dell’interesse pretensivo provocando un’interruzione, virtualmente
definitiva, del normale svolgimento del procedimento amministrativo, e,
dall’altro, assumendo natura “esterna”, incide immediatamente
sulla situazione giuridica del richiedente.
L’arresto procedimentale assume, quindi, una duplice valenza, che può
ricondursi, volendo individuare un comune elemento caratterizzante, a una
particolare efficacia, normalmente preclusiva, dell'atto prodromico rispetto
alla propria funzione endoprocedimentale e agli effetti normalmente prodotti
dal provvedimento conclusivo del procedimento.
Nel tempo la giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente specificato che
non è autonomamente impugnabile un atto prodromico che non possa essere
considerato come un diniego esplicito, né come un provvedimento dotato di
autonoma capacità lesiva, in quanto inidoneo, in ragione della sua natura
meramente interlocutoria, a determinare un arresto procedimentale (Cons.
Stato, 27.05.2014, n. 2742; Cons. Stato, Sez. V, 03.05.2012, n. 2530).
Deve, dunque, concludersi nel senso che l’atto endoprocedimentale non è, di
regola, impugnabile se non unitamente all’atto che conclude il procedimento
amministrativo.
Come visto supra, le relative eccezioni sono costituite dagli atti di
natura vincolata idonei a determinare in via inderogabile il contenuto
dell’atto conclusivo del procedimento, ovvero dagli atti interlocutori che
comportino un arresto procedimentale (Cons. Stato, 13.02.2017, n. 602): la
natura eccezionale di tale impugnabilità consiglia una rigorosa
interpretazione dell’atto amministrativo, pur sempre da svolgersi
nell’ambito dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt. 1362 c.c. e s.s. (Cons.
Stato, 09.10.2015, n. 4648; id., 27.11.2014, n. 5877).
Nel caso di specie, il Collegio ritiene che l’atto impugnato, stante il suo
carattere evidentemente interlocutorio, non rechi in sé alcuna autonoma
idoneità lesiva della posizione giuridica della ricorrente, in quanto non
determina di per sé alcun autonomo effetto preclusivo del successivo
sviluppo procedimentale, poiché reso nell’ambito della conferenza di servizi
indetta dal M.I.S.E. ai fini del rilascio dell’Autorizzazione Unica, per la
quale gli artt. 14-ter e s.s. della L. n. 241/1990 prevedono, come è noto,
specifiche modalità di superamento del dissenso espresso dalle
Amministrazioni coinvolte, ove tale dissenso si ritenga di dover superare.
In siffatto contesto, invero, è consolidato il principio per cui “Ai
sensi degli artt. 14-bis, 14-ter e 14-quater, l. 07.08.1990, n. 241, l’atto
conclusivo dei lavori della conferenza di servizi si concreta in un atto
istruttorio endoprocedimentale a contenuto consultivo, perché l’atto
conclusivo del procedimento è il provvedimento finale a rilevanza esterna
con cui l’Amministrazione c.d. “procedente” decide a seguito di una
valutazione complessiva, ed è contro di esso, in quanto atto direttamente e
immediatamente lesivo, che deve dirigersi l’impugnazione, e ciò perché gli
altri atti o hanno carattere meramente endoprocedimentale o non risultano
impugnabili, se non unitamente al provvedimento conclusivo, in quanto non
immediatamente lesivi” (cfr. TAR Torino, Piemonte, sez. I, 28.11.2018,
n. 1314, TAR Lazio, Latina, sez. I, 06.06.2018, n. 312; Consiglio di Stato,
sez. IV, 10.04.2014, n. 178).
Di conseguenza, ove pure, per ipotesi, la Soprintendenza dovesse esprimere
-a seguito del prescritto approfondimento istruttorio- parere
definitivamente sfavorevole alla realizzazione dell’impianto progettato
dalla società En., ciò non sarebbe di per sé sufficiente a precludere la
positiva conclusione della conferenza di servizi in corso.
Né, tanto meno, nella fattispecie de qua è dato riscontrare un “blocco
procedimentale”, così come sostenuto da parte ricorrente, trattandosi di
un semplice differimento del termine di conclusione del procedimento per
ritenute esigenze di approfondimento istruttorio.
Ne deriva, dunque, l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse
all’azione, non vantando, la società in epigrafe, alcuna concreta
possibilità di perseguire il bene della vita richiesto attraverso l’odierno
giudizio, in corrispondenza ad una lesione diretta ed attuale dell’interesse
protetto, a norma dell'art. 100 c.p.c..
Ad abundantiam il ricorso è da ritenersi, altresì, infondato nel
merito.
Con primo motivo di doglianza, la società ricorrente censura l’illegittima
omissione, ad opera dell’Amministrazione procedente, della formale
comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 10-bis della legge
n. 241/1990, la quale avrebbe precluso alla società attrice la possibilità
di fornire il proprio contributo documentale a sostegno della compatibilità
ambientale dell’impianto in questione.
Tale rilievo non è, tuttavia, suscettibile di positivo apprezzamento.
Come noto, infatti, l’art. 7 del disposto normativo richiamato esonera la
P.A. procedente dalla comunicazione anzidetta quando “sussistano ragioni
di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del
procedimento”, esigenze ravvisabili nel caso di specie, in cui il celere
esercizio del potere di annullamento in autotutela ad opera della Direzione
Generale presso il M.I.B.A.C., risulta giustificato dalla necessità di
salvaguardare un interesse pubblico superiore, in virtù del potere di
controllo sugli atti del proprio ufficio alla stessa attribuito dall’art.
17, comma 1, lettera d), del D.lgs. n. 165/2001.
A ciò si aggiunga che, in ogni caso, l’art. 21-octies della norma sul
procedimento amministrativo espressamente esclude l’annullabilità del
provvedimento per omissione della comunicazione in esame “qualora
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Tuttavia, quanto alla consistenza dell’onere probatorio posto a carico
dell’Amministrazione, l’orientamento prevalente in giurisprudenza, dal quale
questo Collegio non ha ragione di discostarsi, è quello per cui “onde
evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, quale sarebbe quella
consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del
privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento, risulta preferibile
interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi
a dolersi dell’omessa comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno
indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo
che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione, la P.A. sarà
gravata del ben più consistente onere di dimostrare che anche ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento
non sarebbe mutato. Ne consegue che, ove il ricorrente si limiti a dedurre
la mancata comunicazione di avvio per contestare la legittimità del
provvedimento adottato dall’Amministrazione, senza nemmeno allegare le
circostanze che intendeva sottoporre alla stessa, il motivo di cui si
lamenta comunicazione deve ritenersi inammissibile” (cfr. TAR Veneto,
Venezia, Sez. III, 12.04.2018, n. 391).
Ne deriva, dunque, l’infondatezza di tale censura anche alla luce
dell’omessa allegazione, da parte della società in epigrafe, dei presunti
elementi che, qualora tempestivamente sottoposti al vaglio della P.A.
procedente, avrebbero potuto determinare un differente esito
dell’istruttoria.
Da ultimo, non coglie nel segno il profilo di asserita illegittimità
dell’impugnato provvedimento di annullamento in autotutela per carenza dei
presupposti di cui all’art. 21-nonies, posto che lo stesso risulta
adeguatamente motivato in ordine al pubblico e prevalente interesse sotteso
al disposto annullamento e che il legittimo affidamento del privato risulta
adeguatamente tutelato mediante il celere esercizio di tale potere, il cui
termine ragionevole è fissato dalla legge in diciotto mesi.
Invero, per consolidata giurisprudenza amministrativa, “l'annullamento
d'ufficio che intervenga entro breve tempo dall'adozione del provvedimento
annullabile, quando le situazioni giuridiche coinvolte non si siano
consolidate, è soggetto a un obbligo di motivazione attenuato. Si tratta di
un provvedimento ad alto contenuto discrezionale, con il quale
l'Amministrazione persegue la tutela dell'interesse pubblico nella sua
dinamicità temporale” (cfr. TAR Roma, Lazio, sez. III, 21/12/2018, n.
12485), né tanto meno, in siffatta ipotesi, è richiesta la comparazione con
l’interesse privato sacrificato, “posto che in presenza di tale
circostanza l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto illegittimo può
considerarsi in re ipsa” (cfr. TAR Venezia, Veneto, sez. I, 07/01/2019,
n. 22).
In conclusione, l’accoglimento dell’eccezione preliminare di rito supra
esaminata è di per sé idoneo e sufficiente a supportare la declaratoria di
inammissibilità del ricorso in epigrafe, di per sé comunque, altresì,
infondato nel merito.
Quanto al resto, le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a
norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di
corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla
giurisprudenza costante, tra le tante, per le affermazioni più risalenti,
Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti,
Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663; sez. I, 27.12.2013 n. 28663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal
Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei
a supportare una conclusione di tipo diverso
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 03.01.2020 n. 5 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI:
1.- Appalti Pubblici – bando di gara suddivisa in più lotti – carattere
unitario della selezione – non sussiste.
In termini generali, e salvo le specificità di
ciascun caso concreto, va affermato che il bando di una gara suddivisa in
lotti costituisce un atto ad oggetto plurimo e determina l'indizione non di
un'unica gara, ma di tante gare, per ognuna delle quali vi è un'autonoma
procedura, che si conclude con un'aggiudicazione.
La scelta legislativa di cui all’art. 120, comma 11-bis, c.p.a. costituisce
il corollario obbligato di tale premessa: se, infatti, non si ponesse un
problema di pluralità di atti (o di atti plurimi), neppure dovrebbe porsi la
questione del ricorso plurimo, in quanto l’atto sarebbe unico e
risponderebbe alla regola generale del processo amministrativo impugnatorio
in forza della quale il ricorso deve avere ad oggetto un solo provvedimento
e i vizi-motivi si debbono correlare strettamente a questo.
Invece, proprio in considerazione della sussistenza di una pluralità di
provvedimenti, è stato codificato un orientamento -già consolidato della
giurisprudenza del giudice amministrativo-, attraverso il summenzionato
l'art. 120, comma 11-bis, c.p.a., secondo cui l'ammissibilità del ricorso
cumulativo degli atti di gara pubblica resta subordinata all'articolazione,
nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (ad
esempio il bando, il disciplinare di gara, la composizione della Commissione
giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte
tecniche ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese
affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti
aggiudicazioni.
Ne consegue che, nel caso di gara a più lotti, le concorrenti partecipino al
solo o ai soli lotti per i quali presentino l’offerta: posto che il
perimetro della partecipazione delinea l’ambito della legittimazione deve
ritenersi inammissibile il ricorso volto a contestare segmenti procedurali
non riguardanti i lotti interessati dall’offerta presentata (massima free tratta da www.giustamm.it).
---------------
SENTENZA
13.1. Prioritariamente il Collegio esamina la censura dell’appellante
Mo., controinteressata in primo grado, di erronea, illogica e
contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha
rigettato l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo per una
pluralità di lotti per violazione dell’art. 120, comma 11-bis, c.p.a., anche
perché il TAR avrebbe omesso di considerare che la ricorrente in primo grado
non ha presentato domanda per i lotti 2, 4 e 6 e, in relazione ai restanti
lotti, 1, 3 e 5, la posizione della medesima è sub iudice.
Così facendo Mo. ha giustapposto due eccezioni di diverso tenore, relative
all’asserita violazione dell’art. 120, comma 11-bis, c.p.a. e alla carenza
di legittimazione di K. in riferimento alle gare relative ai lotti per i
quali non risulta essere candidata.
13.2. Il Collegio ritiene che debba essere prioritariamente esaminata la
censura relativa alla (parziale) carenza di legittimazione di K. in ragione
della radicalità del vizio (Ad. Plen. 5 del 2015), attinente alla
sussistenza della condizione di ammissibilità della legittimazione a
ricorrere.
La censura deve essere accolta.
Sulla scorta di una consolidata giurisprudenza, richiamata, fra l’altro,
nell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2018, la legittimazione a impugnare gli atti
di gara è ancorata, salvo le poche eccezioni individuate dalla
giurisprudenza, che non ricorrono nella presente controversia, alla
partecipazione alla gara.
L’applicazione della suddetta regola al caso controverso richiede di
valutare preliminarmente come si concretizza la nozione di partecipazione
alla gara in relazione a una procedura selettiva articolata in più lotti. Si
tratta, cioè, di verificare se la suddivisione in lotti determina una
moltiplicazione delle procedure o se la gara permane unitaria.
In termini generali, e salvo le specificità di ciascun caso concreto, la
giurisprudenza amministrativa ha affermato che il bando di una gara
suddivisa in lotti costituisce un atto ad oggetto plurimo e determina
l'indizione non di un'unica gara, ma di tante gare, per ognuna delle quali
vi è un'autonoma procedura, che si conclude con un'aggiudicazione (Cons. St.,
sez. III, 15.05.2018, n. 2892).
La scelta legislativa di cui all’art. 120, comma 11-bis, c.p.a. costituisce
il corollario obbligato di tale premessa. Se, infatti, non si ponesse un
problema di pluralità di atti (o di atti plurimi), neppure dovrebbe porsi la
questione del ricorso plurimo, in quanto l’atto sarebbe unico e
risponderebbe alla regola generale del processo amministrativo impugnatorio
in forza della quale il ricorso deve avere ad oggetto un solo provvedimento
e i vizi-motivi si debbono correlare strettamente a questo.
Invece, proprio in considerazione della sussistenza di una pluralità di
provvedimenti, è stato codificato un orientamento già consolidato della
giurisprudenza del giudice amministrativo (Cons. St., sez. III, 04.02.2016,
n. 449) attraverso l'art. 120, comma 11-bis, c.p.a., secondo cui
l'ammissibilità del ricorso cumulativo degli atti di gara pubblica resta
subordinata all'articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare
segmenti procedurali comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara,
la composizione della Commissione giudicatrice, la determinazione di criteri
di valutazione delle offerte tecniche ecc.) alle differenti e successive
fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a
caducare le pertinenti aggiudicazioni (Cons. St., sez. III, 03.07.2019, n.
4569).
In ragione di quanto argomentato appena sopra il Collegio ritiene che, nel
caso di gara a più lotti, le concorrenti partecipino al solo o ai soli lotti
per i quali presentano l’offerta.
Posto che il perimetro della partecipazione delinea l’ambito della
legittimazione (Ad. Plen. n. 9 del 2014) deve ritenersi inammissibile il
ricorso volto a contestare segmenti procedurali non riguardanti i lotti
interessati dall’offerta presentata.
Del resto, neppure si comprende di quale interesse potrebbe essere portatore
colui che pretende di far annullare un atto che nega un bene della vita che
costui non manifesta di voler conseguire, non partecipando alla procedura
finalizzata a ottenerlo (ordinanza CGA n. 325 del 2019, richiamata in fatto)
(CGARS,
sentenza 03.01.2020 n. 2 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
Collegio intende dare continuità all’indirizzo giurisprudenziale in forza del quale:
- la nozione di controinteressato all'accesso è data dall'art. 22, comma 1,
lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, per il quale sono ‘controinteressati’
‘tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla
natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero
compromesso il loro diritto alla riservatezza’; il che avviene quando vi sia
un soggetto titolare di un diritto alla riservatezza dei dati racchiusi nel
documento;
- l’Amministrazione deve valutare l'esistenza di controinteressati ai sensi
dell'art. 3 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184, per il quale, “fermo quanto
previsto dall'articolo 5, la pubblica amministrazione cui è indirizzata la
richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui
all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare
comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con
avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano
consentito tale forma di comunicazione”;
- se, nel procedimento avviato dall'istanza di accesso ai documenti,
l'Amministrazione individua un controinteressato, a quel soggetto dovrà
essere notificato l'eventuale ricorso proposto dall'istante avverso il
rifiuto all'accesso adottato dall'amministrazione (ovvero avverso il
silenzio); per converso, nel caso in cui l'Amministrazione non abbia in sede
procedimentale individuato alcun controinteressato, l'istante non sarà
onerato a notificare il ricorso, a pena di sua inammissibilità, ad alcun
controinteressato;
- qualora l'amministrazione, in sede procedimentale, non ravvisi posizioni
di controinteresse rispetto alla domanda di accesso e, dunque, l'istante non
sia tenuto a notificare il ricorso ad altri oltre all'Amministrazione, il
giudice adito deve valutare comunque, anche d'ufficio, l'esistenza di
controinteressati e imporre la notifica del ricorso di primo grado ai fini
dell’integrazione del contraddittorio;
- dall'art. 3, comma 1, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 emerge che, in
sede giurisdizionale, non può essere dichiarato inammissibile il ricorso per
l'accesso, per mancata notifica al controinteressato, quando
l’Amministrazione, in sede procedimentale, non abbia consentito la
partecipazione di altri soggetti suscettibili di essere pregiudicati
dall'accoglimento dell’istanza di accesso, che acquisterebbero la qualifica
di controinteressati nel caso di impugnazione del conseguente diniego: in
tali ipotesi -ove ravvisi posizioni di controinteresse – il giudice adito è
tenuto a imporre la notifica del ricorso di primo grado alla parte
controinteressata, al fine di integrare il relativo contraddittorio
processuale.
---------------
In via generalizzata, la parte controinteressata viene individuata nel
soggetto, individuato o facilmente individuabile sulla base del
provvedimento impugnato, titolare di un interesse eguale e contrario a
quello azionato dal ricorrente principale –e, quindi, di un interesse al
mantenimento della situazione esistente, messa in forse dal ricorso, fonte
di una posizione qualificata meritevole di tutela conservativa- suscettibile
di essere pregiudicato dall’eventuale emissione di una sentenza di
accoglimento del ricorso.
Come osservato, con riferimento alla materia dell’accesso ai documenti
amministrativi deve, in particolare, ritenersi ‘controinteressato’ colui che
vedrebbe compromesso il proprio diritto alla riservatezza dall’ostensione
del documento richiesto.
Trattasi di nozione ricavabile:
- dall’art. 22, comma 1, lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, secondo cui i controinteressati devono individuarsi in tutti i soggetti, individuati o
facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che
dall’esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza;
- dall’art. 5-bis D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 che, in materia di accesso
civico, prevede tra gli interessi qualificati, in funzione ostativa
all’accesso, la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza
della corrispondenza, nonché gli interessi economici e commerciali del
singolo, suscettibili di essere pregiudicati dall’ostensione del documento
oggetto di accesso;
- dall’art. 53, comma 5, lett. a), D.Lgs. n. 50/2016 che, in materia di
appalti pubblici, accorda tutela alle informazioni fornite nell’ambito
dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo
motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o
commerciali.
A prescindere dai rapporti intercorrenti fra le esigenze di trasparenza
amministrativa e di tutela giuridica degli istanti, sottese all’istanza di
accesso, e le esigenze di tutela della riservatezza, poste a garanzia della
posizione del controinteressato –variamente ricostruibili a seconda del
regime giuridico di accesso concretamente rilevante– in ogni caso, deve riconoscersi una
posizione di controinteresse in capo a colui che, in quanto titolare di dati
personali ovvero di segreti commerciali o tecnici suscettibili di essere
disvelati dall’ostensione del documento richiesto, dall’accoglimento
dell’istanza di accesso subirebbe un pregiudizio nella propria sfera
giuridica, sub specie di diritto alla riservatezza di dati racchiusi nel
relativo documento.
Trattasi, pertanto, di posizione qualificata e differenziata, in quanto, da
un lato, presa in considerazione dal legislatore nel regolare la materia
dell’accesso ai documenti amministrativi, dall’altro, imputabile ad un
soggetto direttamente inciso dall’azione amministrativa, titolare di una
situazione giuridica soggettiva attiva (diritto alla riservatezza) correlata
allo specifico documento oggetto di accesso.
---------------
1. In via pregiudiziale, attenendo alla corretta instaurazione del
contraddittorio processuale -presupposto di validità del giudizio,
necessario per poter esaminare il merito della controversia– occorre
pronunciare sul capo di sentenza con cui il Tar, escludendo che il Ci.
rivestisse la qualità di contoininteressato, ha (implicitamente) ritenuto
ammissibile il ricorso di prime cure: trattasi di statuizione censurata sia
dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca con il primo
motivo di appello, sia dal Ci. con il primo motivo di opposizione di
terzo, valevole altresì come atto di intervento ex art. 109, comma 2, c.p.a.
In subiecta materia, anche ai sensi dell’art. 88, comma 2, lettera d), del
codice del processo amministrativo, il Collegio intende dare continuità
all’indirizzo giurisprudenziale (cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV,
04.0.2019, n. 6719), in forza del quale:
- la nozione di controinteressato all'accesso è data dall'art. 22, comma 1,
lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, per il quale sono ‘controinteressati’
‘tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla
natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero
compromesso il loro diritto alla riservatezza’; il che avviene quando vi sia
un soggetto titolare di un diritto alla riservatezza dei dati racchiusi nel
documento;
- l’Amministrazione deve valutare l'esistenza di controinteressati ai sensi
dell'art. 3 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184, per il quale, “fermo quanto
previsto dall'articolo 5, la pubblica amministrazione cui è indirizzata la
richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui
all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare
comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con
avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano
consentito tale forma di comunicazione”;
- se, nel procedimento avviato dall'istanza di accesso ai documenti,
l'Amministrazione individua un controinteressato, a quel soggetto dovrà
essere notificato l'eventuale ricorso proposto dall'istante avverso il
rifiuto all'accesso adottato dall'amministrazione (ovvero avverso il
silenzio); per converso, nel caso in cui l'Amministrazione non abbia in sede
procedimentale individuato alcun controinteressato, l'istante non sarà
onerato a notificare il ricorso, a pena di sua inammissibilità, ad alcun
controinteressato;
- qualora l'amministrazione, in sede procedimentale, non ravvisi posizioni
di controinteresse rispetto alla domanda di accesso e, dunque, l'istante non
sia tenuto a notificare il ricorso ad altri oltre all'Amministrazione, il
giudice adito deve valutare comunque, anche d'ufficio, l'esistenza di
controinteressati e imporre la notifica del ricorso di primo grado ai fini
dell’integrazione del contraddittorio;
- dall'art. 3, comma 1, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 emerge che, in
sede giurisdizionale, non può essere dichiarato inammissibile il ricorso per
l'accesso, per mancata notifica al controinteressato, quando
l’Amministrazione, in sede procedimentale, non abbia consentito la
partecipazione di altri soggetti suscettibili di essere pregiudicati
dall'accoglimento dell’istanza di accesso, che acquisterebbero la qualifica
di controinteressati nel caso di impugnazione del conseguente diniego: in
tali ipotesi -ove ravvisi posizioni di controinteresse – il giudice adito è
tenuto a imporre la notifica del ricorso di primo grado alla parte
controinteressata, al fine di integrare il relativo contraddittorio
processuale.
Alla stregua di tali coordinate ermeneutiche, preliminarmente, occorre
verificare se nella specie sia corretta la decisione del Tar di non ritenere
il Ci. parte controinteressata nel presente giudizio; in caso di
riscontrata erroneità della relativa statuizione, sarà necessario verificare
se l’omessa evocazione in primo grado del Ci. abbia comportato
l’inammissibilità del ricorso, come dedotto dal Miur e dal Ci., ovvero
abbia determinato la violazione del contraddittorio processuale, fattispecie
rilevante ai fini della rimessione della causa al primo giudice ai sensi
dell’art. 105 c.p.a.
2. Con riferimento al primo profilo di indagine, il Collegio ritiene che il
Ci. sia da considerare parte controinteressata in relazione al ricorso ex
art. 116 c.p.a. proposto in prime cure.
In via generalizzata, la parte controinteressata viene individuata nel
soggetto, individuato o facilmente individuabile sulla base del
provvedimento impugnato, titolare di un interesse eguale e contrario a
quello azionato dal ricorrente principale –e, quindi, di un interesse al
mantenimento della situazione esistente, messa in forse dal ricorso, fonte
di una posizione qualificata meritevole di tutela conservativa-
suscettibile di essere pregiudicato dall’eventuale emissione di una sentenza
di accoglimento del ricorso (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 06.06.2019,
n. 3911).
Come osservato, con riferimento alla materia dell’accesso ai documenti
amministrativi deve, in particolare, ritenersi ‘controinteressato’ colui che
vedrebbe compromesso il proprio diritto alla riservatezza dall’ostensione
del documento richiesto.
Trattasi di nozione ricavabile:
- dall’art. 22, comma 1, lett. c), l. 07.08.1990, n. 241, secondo cui i controinteressati devono individuarsi in tutti i soggetti, individuati o
facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che
dall’esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza;
- dall’art. 5-bis D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 che, in materia di accesso
civico, prevede tra gli interessi qualificati, in funzione ostativa
all’accesso, la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza
della corrispondenza, nonché gli interessi economici e commerciali del
singolo, suscettibili di essere pregiudicati dall’ostensione del documento
oggetto di accesso;
- dall’art. 53, comma 5, lett. a), D.Lgs. n. 50/2016 che, in materia di
appalti pubblici, accorda tutela alle informazioni fornite nell’ambito
dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo
motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o
commerciali.
A prescindere dai rapporti intercorrenti fra le esigenze di trasparenza
amministrativa e di tutela giuridica degli istanti, sottese all’istanza di
accesso, e le esigenze di tutela della riservatezza, poste a garanzia della
posizione del controinteressato –variamente ricostruibili a seconda del
regime giuridico di accesso concretamente rilevante (nella specie, la parte
appellata ha comunque fatto riferimento, in primo grado, sia all’accesso
documentale ex art. 22 e ss. L. n. 241/1990, sia all’accesso civico ex art. 5
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33)– in ogni caso, deve riconoscersi una
posizione di controinteresse in capo a colui che, in quanto titolare di dati
personali ovvero di segreti commerciali o tecnici suscettibili di essere
disvelati dall’ostensione del documento richiesto, dall’accoglimento
dell’istanza di accesso subirebbe un pregiudizio nella propria sfera
giuridica, sub specie di diritto alla riservatezza di dati racchiusi nel
relativo documento.
Trattasi, pertanto, di posizione qualificata e differenziata, in quanto, da
un lato, presa in considerazione dal legislatore nel regolare la materia
dell’accesso ai documenti amministrativi, dall’altro, imputabile ad un
soggetto direttamente inciso dall’azione amministrativa, titolare di una
situazione giuridica soggettiva attiva (diritto alla riservatezza) correlata
allo specifico documento oggetto di accesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.01.2020 n. 30 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI:
Richiesta, nel procedimento di verifica di
anomalia, di fatture e non di preventivi a
giustificazione dei prezzi offerti.
Il TAR Milano ritiene
non irragionevole la scelta della stazione
appaltante, nell’ambito del procedimento di
verifica dell’anomalia dell’offerta, a
fronte dei rilevanti scostamenti tra i
prezzi offerti dal concorrente rispetto a
quelli di mercato, di non ritenere
sufficiente la loro giustificazione mediante
“preventivi” e, pertanto, di mere proposte
contrattuali provenienti da terzi, in luogo
di “fatture” e, dunque, di documenti che
comprovino l’avvenuta esecuzione di un
contratto a determinate condizioni,
rispondendo questa scelta all’esigenza di
tutelare la stazione appaltante da offerte
eccessivamente basse senza risultare
discriminatoria, in quanto riferita a
materiali di uso comune e facilmente
reperibili
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 02.01.2020 n. 9 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
I) In via preliminare, il Collegio dà atto
che, in sede di verifica di anomalia, la
Commissione ha rilevato che per alcune voci
di prezzo la ricorrente ha indicato costi
che presentano scostamenti significativi
rispetto a quelli dei materiali/attrezzature
che compongono le lavorazioni poste a base
di gara, richiedendo conseguentemente “la
presentazione di recenti fatture di acquisto
quietanziate, da cui risulti il costo
dichiarato per le quantità necessarie e
similari a quelle poste a base di gara, a
garanzia della qualità, congruità ed
affidabilità dell’offerta” (verbale n. 1 del
21.2.2019).
A fronte della mancata presentazione delle
richieste fatture, la Commissione ha
pertanto ritenuto non giustificati i valori
indicati nell’offerta della ricorrente, che
è stata conseguentemente giudicata anomala,
in particolare, rispetto ai costi indicati
per i materiali, per un importo di €
75.642,38 (v. verbale n. 2 del 20.03.2019).
II) Secondo la ricorrente, l’operato della
stazione appaltante sarebbe tuttavia
illegittimo, per aver preteso la produzione
di fatture di acquisto quietanziate, e per
non aver accettato, in loro mancanza,
preventivi dei fornitori.
Ritiene il Collegio che il ricorso vada
respinto atteso che, come già evidenziato in
sede cautelare, nell’ambito del limitato
sindacato giurisdizionale esercitabile dal
g.a. in materia di anomalia dell’offerta, la
richiesta di giustificare talune voci
mediante la produzione di fatture non sia
irragionevole, in quanto finalizzata alla
necessità di verificare l’effettiva
reperibilità sul mercato di taluni
materiali, alle condizioni particolarmente
favorevoli allegate dalla ricorrente, né
particolarmente gravosa, alla luce del loro
ampio utilizzo e diffusione sul mercato (ad
es. ghiaia).
Sulla questione il Collegio si è peraltro
già pronunciato in più occasioni, in cui,
malgrado le inevitabili peculiarità delle
relative fattispecie, evidenziate dalla
ricorrente nella propria memoria finale, gli
istanti deducevano l’illegittimità della
richiesta del Comune di Milano, di
giustificare la propria offerta mediante la
produzione di fatture (TAR Lombardia,
Milano, Sez. I, 16.12.2015 n. 2672, 12.05.2017
n. 1095) analogamente a quanto ha luogo nel
presente giudizio.
III) Malgrado la ricorrente deduca che “la
giurisprudenza ritiene pacificamente
ammissibile la produzione di preventivi a
giustificazione di talune voci di costo
dell’offerta”, come del resto dalla stessa
correttamente osservato, l’oggetto del
presente giudizio è “la legittimità della
decisione della p.a. di richiedere
necessariamente ed esclusivamente le
fatture” (v. pag. 3 memoria finale), e non
invece la legittimità di un giudizio di
anomalia fondato sulla produzione di
preventivi, ciò che, in taluni casi, e
nell’ambito della sua discrezionalità, una
stazione appaltante può certamente
consentire.
Come già evidenziato, il sindacato del g.a.
sulle valutazioni amministrative
caratterizzate da discrezionalità tecnica è
di tipo “debole”, e pertanto circoscritto ai
soli casi di manifesta e macroscopica
erroneità, irragionevolezza o arbitrarietà,
ovvero di motivazione fondata su palese e
manifesto travisamento dei fatti, laddove
siano sintomatiche di un uso della
discrezionalità tecnica distorto e contrario
ai principi di efficacia, economicità e buon
andamento, in presenza del quale, soltanto,
è consentito l'intervento caducatorio
dell'autorità giurisdizionale (TAR Lazio,
Roma, Sez. III, 03.12.2018, n. 11691).
Nel caso di specie, a fronte dei rilevanti
scostamenti tra i prezzi offerti dalla
ricorrente rispetto a quelli di mercato, la
scelta del Comune di non ritenere
sufficiente la loro giustificazione mediante
“preventivi”, e pertanto, di mere proposte
contrattuali provenienti da terzi, in luogo
di “fatture”, e dunque di documenti che
comprovino l’avvenuta esecuzione di un
contratto a determinate condizioni, non è
certamente irragionevole, rispondendo
infatti all’esigenza di tutelare la stazione
appaltante da offerte eccessivamente basse,
né discriminatoria, in quanto riferita a
materiali di uso comune e facilmente
reperibili.
IV) Infine, evidenzia il Collegio che la lex
specialis si limitava a prevedere che “le
giustificazioni e i relativi documenti a
corredo (fatture, preventivi, ecc.),
dovranno essere presentate su supporto
informatico”, con ciò prescrivendo le
relative modalità di documentazione, senza
invece vincolare la stazione appaltante ad
un giudizio di equipollenza tra le due
forme.
In conclusione, il ricorso va pertanto
respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Non occorre il permesso di costruire per la costruzione di box di ricovero
per cani randagi. Inoltre, la recinzione può essere considerata costruzione
-e come tale subordinata al previo rilascio di titolo abilitativo- solo nei
casi in cui sia stabilmente infissa al suolo.
Nel caso di specie trattasi della realizzazione, senza
titolo edilizio, di "recinti realizzati con rete metallica a
maglie larghe fissata a supporti verticali in legno di castagno stagionato
infissi semplicemente al suolo per circa 40/50 cm, senza l’utilizzo di malta
o calcestruzzo cementizio, e che affiorano a giorno per una altezza pari a
circa mt 2.20, sormontati in parte da lamiere sandwich ed in parte da
vegetazione rampicante, al fine di proteggere gli animali dalla calura
estiva e dagli eventi meteorici, senza pavimentazioni rigide o impermeabili
sul piano di campagna, risultando l’intera area costituita da terreno
vegetale secondo l’originario stato dei luoghi”.
Le peculiari caratteristiche costruttive dei recinti contestati, come
descritte, sono tali da configurarli come entità precarie, amovibili, prive
di impatto paesaggistico, e volumetrico.
Ne deriva che non risulta adeguatamente considerata dall’amministrazione
comunale la natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione,
rivolta alla cura e ricovero di animali randagi ed abbandonati, attraverso
la realizzazione di manufatti di precaria installazione e di facile
asportazione, e non è sufficientemente motivata la ritenuta necessità del
titolo abilitativo, richiesto per costruzioni stabili e con ingombro
volumetrico.
Corrobora tale configurazione la mancanza di una sostanziale modifica del
suolo, atteso che, secondo le attestazioni della perizia di parte in atti,
il piano di campagna non risulta alterato da pavimentazioni rigide o
impermeabili, risultando per l’intera area costituito da terreno vegetale .
In proposito la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire che una recinzione
può essere considerata costruzione e come tale subordinata al previo
rilascio di titolo abilitativo, solo nei casi in cui sia stabilmente infissa
al suolo.
Ed ancora: “La recinzione
metallica (nella specie: di alcuni box per il ricovero dei cani) non è
qualificabile come costruzione, in quanto non sviluppa volumetrie e non
determina un ingombro paragonabile a quello delle costruzioni in muratura.
Essa non soggiace, pertanto, alla normativa sulle distanze tra edifici, la
quale si riferisce, in relazione all'interesse tutelato, ad opere che, per
la loro consistenza, abbiano l'idoneità a creare intercapedini
pregiudizievoli alla sicurezza ed alla salubrità del godimento della
proprietà fondiaria”.
Ne consegue che la sanzione demolitoria inflitta dall’amministrazione
comunale non risulta sorretta da motivazione idonea che ne giustifichi la
adeguatezza e proporzionalità rispetto alla precarietà, ed assenza di
volumetria edilizia urbanisticamente rilevante in relazione alle
caratteristiche costruttive .
Neppure è stata motivata la necessità, nella fattispecie in esame, del nulla
osta paesaggistico, trattandosi di recinzioni costituite da una rete
metallica e da paletti di legno infissi nel terreno, di natura precaria e di
consistenza e di dimensioni ridotte, aventi la funzione di dividere i cani
randagi, senza l’intervento di opere murarie, in quanto si tratta di opere
prive di apprezzabile impatto ambientale.
Né può ritenersi a priori la incompatibilità delle opere con la destinazione
urbanistica di zona, nella specie agricola. Invero, la destinazione agricola
di una zona comporta che la stessa non può essere destinata ad insediamento
abitativo residenziale, ma non preclude l’istallazione di opere quali nella
specie, un ricovero e/o rifugio per cani randagi, per il quale la venga
ubicato in aperta campagna e, quindi, in zona agricola, salvo che il piano
regolatore generale non preveda apposite localizzazioni.
La destinazione a zona agricola di un'area non impone un obbligo specifico
di utilizzazione effettiva in tal senso, avendo lo scopo di evitare
insediamenti residenziali; essa, pertanto, non costituisce ostacolo
all'installazione di opere che non riguardino tale tipologia edilizia e che,
per contro, siano incompatibili con zone abitate e da realizzare
necessariamente in aperta campagna (nella specie, un canile municipale).
Conclusivamente, il gravato atto risulta viziato per difetto di istruttoria
e di motivazione, non avendo l’amministrazione intimata adeguatamente
valutato l’entità e della tipologia dell'abuso contestato, e per l’effetto
va annullato.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento n. 61 del 07/06/2016 di sospensione
lavori e ripristino dello stato dei luoghi spedito a fronte della
realizzazione di un canile in un’area agricola, realizzato con box in legno
per il ricovero di cani randagi su circa 600 m² di superficie.
...
Parte ricorrente, nella spiegata qualità, insorge avverso il provvedimento
di sospensione lavori e ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi
spedito a fronte della realizzazione di un canile in un’area agricola,
realizzato con box in legno per il ricovero di cani randagi su circa 600 m²
di superficie, privi di titolo autorizzativo e privi di autorizzazione
paesaggistica.
Assume che non sono opere edilizie rilevanti in termine di superficie e
volumi, in quanto finalizzate ai soccorsi ed all’assistenza di cani randagi
e nega nello specifico che si tratti di box in legno affermando che sono
solo recinzioni metalliche senza alcun ingombro, di colore neutro, non
chiusi e circoscrivono una superficie di terreno tra pali di castagno
stagionato infissi in terra, coperti con lamiere di colore neutro ad
un’altezza di circa 2,20 m, ricoperti da vegetazione rampicante per
riparare i cani dalla calura estiva. In quanto opere precarie, prive di
impatto paesaggistico e facilmente rimovibili, non potrebbero essere oggetto
della disposta misura sanzionatoria.
In subordine, trattandosi al più di opere soggette a DIA, sarebbe stata
applicabile la semplice sanzione pecuniaria.
...
Il presente ricorso verte sulla legittimità dell’ordine di demolizione
spedito nei confronti della ricorrente a fronte della realizzazione di opere
su un fondo agricolo, specificamente trentadue box in legno per ricovero di
cani randagi su una superficie di circa 600 mq., contestati a seguito di
rapporto dalla Polizia municipale del 22.09.2014, prot. P-61-14.
Non è contestato che la ricorrente è una Associazione di Volontariato
E.I.P.A. Onlus – Ente Italiano Protezione Animali – Sezione Napoli – senza
scopi di lucro. La stessa, ispirandosi ai principi di solidarietà sociale,
si prefigge una serie di obiettivi tra cui: a) sostenere le persone che,
nella gestione di propri animali o accudendo quelli senza proprietario,
vengono a trovarsi in difficoltà; b) operare concretamente in difesa degli
animali e dei loro diritti; c) sensibilizzare l’opinione pubblica e
promuovere una cultura del rispetto che riconosca gli animali come soggetti
di diritto.
La stessa deduce che, al fine di perseguire i propri obiettivi associativi,
in data 19.08.2014 stipulava con il Sig. Io.Sa.Pa., nella
qualità di proprietario, un contratto di affitto avente ad oggetto una
porzione, di circa are 35,00, del fondo rustico di are 49,11, sito in Via
... snc, convenendo la durata in anni nove, decorrente dal
01.09.2014, e che sullo stesso realizzava una serie di opere finalizzate al
soccorso ed all’assistenza, a cura di volontari ed a titolo gratuito, di
cani randagi, abbandonati o maltrattati, nel territorio del circondario di
Somma Vesuviana.
Dette opere sono state tuttavia sanzionate dalla intimata amministrazione
comunale, ravvisandovi violazioni edilizie e paesaggistiche.
Assume parte ricorrente con un’unica articolata censura che le stesse non
costituisco un’entità edilizia, necessitante di titolo abilitativo,
trattandosi di semplici recinzioni metalliche, non qualificabili come ‘box/costruzioni’
in legno, atteso che non sviluppano alcuna volumetria e non determinano un
ingombro paragonabile a quello delle costruzioni in senso proprio, allegando
foto e relazione tecnica di parte.
Osserva il Collegio che, pur essendo stata respinta la domanda cautelare
con ordinanza in data 08.11.2016, nella presente sede di merito sono venuti
in rilievo elementi tali da indurre ad una differente valutazione delle
opere, a seguito di una più approfondita disamina del materiale probatorio
offerto da parte ricorrente, non avendo l’amministrazione intimata fornito
ulteriori apporti oltre ai riscontri emergenti dall’atto impugnato, in
quanto non costituita in giudizio.
Occorre invero esaminare la consistenza e caratteristiche delle opere
contestate, per valutare se le stesse possano determinare trasformazione del
territorio sia a fini urbanistici che paesistico–ambientali anche in virtù
del vincolo di cui al d.lgs. 22.1.2004 n. 42 gravante sull’area in questione
con dichiarazione di notevole interesse pubblico operata con D.M. 26.01.1961.
Al riguardo il verbale di accertamento, pur dando atto che si tratta di
strutture per il ricovero di cani randagi, descrive le stesse come 32 box in
legno, su una superficie di circa mq. 600,00, adoperando un termine che in
sé caratterizza strutture chiuse e volumetricamente rilevanti.
Per contro, facendo riferimento a quanto risultante dalla perizia di parte
in atti con allegata documentazione fotografica, emerge che quanto eseguito
consiste in recinzioni metalliche, non propriamente ‘box/costruzioni’ in
legno, atteso che non sviluppano alcuna volumetria e non determinano un
ingombro paragonabile a quello delle costruzioni in senso proprio, anche in
considerazione della loro funzione .
La descrizione contenuta nei provvedimenti gravati, in cui si parla di «n.
32 box realizzati in legno» non è corredata da ulteriori elementi
descrittivi, né da documentazione fotografica, e sotto tale aspetto, per la
sua genericità, non appare idonea a contrastare le risultanze della
relazione tecnica di parte ricorrente redatta dall’ing. Fr.Ro.
del 07.10.2016, ove si descrivono compiutamente le caratteristiche
costruttive, come recinzioni metalliche sorrette tra pali di castagno
stagionato infissi nella terra per circa 40/50 cm, facilmente rimovibili, e
quindi precarie.
Attesta in particolare la perizia che non risulta
utilizzata né malta né calcestruzzo cementizio, ma solo una rete metallica a
maglie larghe di colore neutro sorretta da paletti in legno infissi nella
terra.
Si precisa trattarsi di: "recinti realizzati con rete metallica a
maglie larghe fissata a supporti verticali in legno di castagno stagionato
infissi semplicemente al suolo per circa 40/50 cm, senza l’utilizzo di malta
o calcestruzzo cementizio, e che affiorano a giorno per una altezza pari a
circa mt 2.20, sormontati in parte da lamiere sandwich ed in parte da
vegetazione rampicante, al fine di proteggere gli animali dalla calura
estiva e dagli eventi meteorici, senza pavimentazioni rigide o impermeabili
sul piano di campagna, risultando l’intera area costituita da terreno
vegetale secondo l’originario stato dei luoghi, così come si evince dalla
documentazione”.
Le peculiari caratteristiche costruttive dei recinti contestati, come
descritte, sono tali da configurarli come entità precarie, amovibili, prive
di impatto paesaggistico, e volumetrico.
Ne deriva che non risulta adeguatamente considerata dall’amministrazione
comunale la natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione,
rivolta alla cura e ricovero di animali randagi ed abbandonati, attraverso
la realizzazione di manufatti di precaria installazione e di facile
asportazione, e non è sufficientemente motivata la ritenuta necessità del
titolo abilitativo, richiesto per costruzioni stabili e con ingombro
volumetrico.
Corrobora tale configurazione la mancanza di una sostanziale modifica del
suolo, atteso che, secondo le attestazioni della perizia di parte in atti,
il piano di campagna non risulta alterato da pavimentazioni rigide o
impermeabili, risultando per l’intera area costituito da terreno vegetale.
In proposito la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire che una recinzione
può essere considerata costruzione e come tale subordinata al previo
rilascio di titolo abilitativo, solo nei casi in cui sia stabilmente infissa
al suolo (Cfr. Cons. Stato, sez. II, 08.01.1989, n. 1396; Tar Piemonte,
Torino, sez. II, 07.11.2014, n. 1764).
Ed ancora: “La recinzione
metallica (nella specie: di alcuni box per il ricovero dei cani) non è
qualificabile come costruzione, in quanto non sviluppa volumetrie e non
determina un ingombro paragonabile a quello delle costruzioni in muratura.
Essa non soggiace, pertanto, alla normativa sulle distanze tra edifici, la
quale si riferisce, in relazione all'interesse tutelato, ad opere che, per
la loro consistenza, abbiano l'idoneità a creare intercapedini
pregiudizievoli alla sicurezza ed alla salubrità del godimento della
proprietà fondiaria” (Cfr. Cass. Civile sentenza n. 5956/1996 e Tribunale
Amministrativo Regionale Puglia-Lecce, Sezione 3, Sentenza 14.11.2012, n. 1881).
Ne consegue che la sanzione demolitoria inflitta dall’amministrazione
comunale non risulta sorretta da motivazione idonea che ne giustifichi la
adeguatezza e proporzionalità rispetto alla precarietà, ed assenza di
volumetria edilizia urbanisticamente rilevante in relazione alle
caratteristiche costruttive.
Neppure è stata motivata la necessità, nella fattispecie in esame, del nulla
osta paesaggistico, trattandosi di recinzioni costituite da una rete
metallica e da paletti di legno infissi nel terreno, di natura precaria e di
consistenza e di dimensioni ridotte, aventi la funzione di dividere i cani
randagi, senza l’intervento di opere murarie, in quanto si tratta di opere
prive di apprezzabile impatto ambientale (Cfr. Tar Piemonte I, 15.02.2010 n. 950; TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
08.05.2007, n. 4821; Tar
Lazio Roma, sentenza 27.05.2013, n. 5276).
Né può ritenersi a priori la incompatibilità delle opere con la destinazione
urbanistica di zona, nella specie agricola. Invero, la destinazione agricola
di una zona comporta che la stessa non può essere destinata ad insediamento
abitativo residenziale, ma non preclude l’istallazione di opere quali nella
specie, un ricovero e/o rifugio per cani randagi, per il quale la venga
ubicato in aperta campagna e, quindi, in zona agricola, salvo che il piano
regolatore generale non preveda apposite localizzazioni (Cfr. Tar Napoli,
Sez. II, 09.11.2006/21.11.2006, n. 10065).
La destinazione a zona agricola di un'area non impone un obbligo specifico
di utilizzazione effettiva in tal senso, avendo lo scopo di evitare
insediamenti residenziali; essa, pertanto, non costituisce ostacolo
all'installazione di opere che non riguardino tale tipologia edilizia e che,
per contro, siano incompatibili con zone abitate e da realizzare
necessariamente in aperta campagna (nella specie, un canile municipale - TAR
Campania-Napoli, Sezione III Sentenza 13.04.2011, n. 2135).
Conclusivamente, il gravato atto risulta viziato per difetto di istruttoria
e di motivazione, non avendo l’amministrazione intimata adeguatamente
valutato l’entità e della tipologia dell'abuso contestato, e per l’effetto
va annullato
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 02.01.2020 n. 4 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
possibilità di esonero dal pagamento del contributo di costruzione indicata
dall'art. 17 dpr 380/2001 individua tra le varie ipotesi anche quella della
esistenza di un “interesse generale” (comma 3, lettera c) che richiede la concorrenza
di due requisiti:
- uno di carattere oggettivo, attinente al carattere
pubblico o di interesse generale delle opere da realizzare, e
- uno di
carattere soggettivo, in quanto le opere devono essere eseguite da un
ente istituzionalmente competente o da privati che abbiano un legame
istituzionale con l’azione dell’Amministrazione volti alla cura di interessi
pubblici.
Non è dunque la sola destinazione che soggettivamente s’intende dare
alla struttura sufficiente ai fini di beneficiare dell’esonero dal costo di
costruzione, ma la circostanza che oggettivamente la stessa abbia natura di
interesse generale, ipotesi che può rinvenirsi quando l’opera non possa,
neppure in astratto, avere una destinazione diversa da quella pubblica.
L'esenzione prevista dal citato art. 17 necessita, infatti, che l'opera, per
la quale si chiede l'esenzione del pagamento degli oneri di urbanizzazione,
sia, per le sue oggettive caratteristiche, esclusivamente finalizzata ad un
utilizzo a tempo indeterminato dell'intera collettività; ciò in quanto il
pagamento degli oneri concessori, essendo finalizzato alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione necessarie al corretto assetto del territorio,
costituisce un principio generale dell'ordinamento le cui eccezioni sono di
stretta interpretazione.
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13.5. La possibilità di esonero indicata dal successivo art. 17,
che individua tra le varie ipotesi anche quella della esistenza di un
“interesse generale” (comma 3, lettera c), richiede infatti la concorrenza
di due requisiti: uno di carattere oggettivo, attinente al carattere
pubblico o di interesse generale delle opere da realizzare, ed uno di
carattere soggettivo, in quanto le opere devono essere eseguite da un ente
istituzionalmente competente o da privati che abbiano un legame
istituzionale con l’azione dell’Amministrazione volti alla cura di interessi
pubblici (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 5942/2018).
13.6. Non è dunque la sola destinazione che soggettivamente s’intende dare
alla struttura sufficiente ai fini di beneficiare dell’esonero dal costo di
costruzione, ma la circostanza che oggettivamente la stessa abbia natura di
interesse generale, ipotesi che può rinvenirsi quando l’opera non possa,
neppure in astratto, avere una destinazione diversa da quella pubblica.
L'esenzione prevista dal citato art. 17 necessita infatti che l'opera, per
la quale si chiede l'esenzione del pagamento degli oneri di urbanizzazione,
sia, per le sue oggettive caratteristiche, esclusivamente finalizzata ad un
utilizzo a tempo indeterminato dell'intera collettività; ciò in quanto il
pagamento degli oneri concessori, essendo finalizzato alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione necessarie al corretto assetto del territorio,
costituisce un principio generale dell'ordinamento le cui eccezioni sono di
stretta interpretazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2394/2016)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.01.2020 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Risalenza
del tempo dei fatti sui quali si fonda l’interdittiva antimafia.
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Informativa antimafia – Presupposti –Fatti risalenti nel tempo –
Irrilevanza ex se.
I fatti sui quali si fonda l’interdittiva antimafia
possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre
un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile
l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata
(1).
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(1) Ha chiarito la Sezione (21.01.2019,
n. 515), che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non
implica la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di
infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in
un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale
istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenza’
dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa,
occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il
loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa
dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della
mafiosità.
Con riferimento poi alla presenza, all’interno della società, di soggetti
vicini agli ambienti della mala, è sufficiente ricordare che proprio in
relazione ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori,
direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati,
organici, contigui alle associazioni mafiose la Sezione (07.02.2018,
n. 820) ha affermato che l’Amministrazione può dare loro rilievo
laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre
caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più
probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una
regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei
detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere
influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da
un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto.
Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno
della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di
comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di
copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza
può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in
contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia
anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la
complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si
articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’,
sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia
attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del
‘capofamiglia’ e dell’associazione.
Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente
esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi
economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato
luogo a condanne in sede penale) e peculiari realtà locali, ben potendo
l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza –su
un’area più o meno estesa– del controllo di una ‘famiglia’ e del
sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 02.01.2020 n. 2 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
1. Oggetto del gravame è l’interdittiva antimafia, emessa, in data 16.03.2018, dalla Prefettura della Provincia di Crotone a carico della
-OMISSIS- (d’ora in poi, -OMISSIS-) a seguito delle risultanze istruttorie
riportate nell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva ex art. 292 c.p.p., emessa in data 28.12.2017 dal Gip del Tribunale ordinario di
Catanzaro, nell’ambito del procedimento penale scaturito in esito
all’operazione di Polizia giudiziaria denominata “-OMISSIS-”, che ha
coinvolto una pluralità di indagati, tra cui anche la società -OMISSIS-.
Il Tar Catanzaro, dinanzi al quale la società aveva impugnato l’interdittiva,
ha accolto il ricorso sul rilievo che dalle verifiche fatte svolgere alla
Guardia di finanza non emerge il connotato di univocità agli elementi
indiziari ricavati, in ordine alla soggezione all’ingerenza criminale, dai
provvedimenti emessi in sede penale, con la conseguenza che, se è vero che
il giudice amministrativo non può certo sostituire la propria valutazione a
quelle operate, nell’ambito del procedimento penale, dall’Autorità
giudiziaria competente, altrettanto vero è che il giudice amministrativo
deve assicurare alla società ricorrente il diritto fondamentale alla difesa,
e dunque non può omettere di considerare quei dati fattuali allegati dal
soggetto colpito da informazione interdittiva per dimostrare l’insussistenza
del condizionamento mafioso.
In altri termini il giudice di primo grado, richiamati correttamente i
principi che sono alla base del sistema preventivo dell’interdittiva, ha
concluso nel senso che alla luce degli esiti delle Guardia di finanza
mancavano, nella specie, anche i meri indizi, questi sì necessari per far
scattare la misura di prevenzione.
Il Collegio non condivide le conclusioni del primo giudice. Non ritiene
infatti di poter escludere il tentativo di infiltrazione nella società
appellata, che emerge dalle indagini del Gip del Tribunale ordinario di
Catanzaro, nell’ambito del procedimento penale scaturito in esito
all’operazione di Polizia giudiziaria denominata “-OMISSIS-” e riportate
nell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva ex art. 292 c.p.p.,
emessa in data 28.12.2017. L’avversa conclusione del Tar poggia,
infatti, sul diverso esito delle indagini che lo stesso aveva affidato alla
Guardia di finanza, di durata e profondità necessariamente più limitata.
Dalle indagini penali è emerso, infatti, che la società appellata è tra
quelle che hanno beneficiato dei favori del Sindaco del Comune di -OMISSIS-
che, pur non essendo inserito stabilmente nella struttura organizzativa del
sodalizio della ndragheta locale della famiglia -OMISSIS-, con la pressione
o, comunque, l’approvazione delle cosche dominanti sul territorio, “poneva
in essere tutta una serie di atti procedimentali al fine di far appaltare
lavori a ditte controllate e/o indicate dalla stessa cosca e/o dai suoi
fiancheggiatori e/o provvedendo, attraverso atti amministrativi e contabili,
quali fittizi mandati di pagamento, ad assegnare a membri della famiglia …
delle somme di denaro destinate apparentemente a ditte che svolgono servizi
per l’Ente …”. Tra queste ditte, appunto, era compresa anche la società
appellata, come risulta dalla lettura dell’ordinanza del Gip del Tribunale
ordinario di Catanzaro del 28.12.2017.
Aggiungasi che, come emerge dagli stessi atti di causa, il legale
rappresentante della società appellata –alla quale sono stati affidati nel
Comune gli appalti di pulizia dei locali comunali, di mensa scolastica ed il
trasporto scolastico– è -OMISSIS- di soggetto nei cui confronti è stata
svolta attività estorsiva alla quale, da quanto è dato leggere
dall’ordinanza del Gip, avrebbe ceduto.
2. Tutti gli elementi fattuali sopra descritti sono sufficienti a supportare
l’informativa impugnata dinanzi al Tar Catanzaro, alla luce dei consolidati
principi che governano tale materia, ben conosciuti dal giudice di primo
grado che, pur avendoli correttamente richiamati, non ne ha fatto corretto
uso.
E’ noto, infatti che l’informazione antimafia implica una valutazione
discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di
infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi
dell’impresa. Tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento
induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello
di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento
finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su
prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di
verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da
far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione
mafiosa.
Ha aggiunto la Sezione (-OMISSIS- del 2019) che lo stesso legislatore –art.
84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011– ha riconosciuto quale elemento
fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di
infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi
delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione
mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono
nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della
prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa
scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma
anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente
immaginari o aleatori.
Ha ancora chiarito la Sezione (05.09.2019, -OMISSIS-) che la legge
italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia
all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso,
inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non
costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità
amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il
giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su
elementi “tipizzati” (quelli dell'art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f), d.lgs. n. 159 del 2011), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in
volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione
mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere
prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea,
anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso,
tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico
primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico,
di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di
prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.
L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in
questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da
autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del
resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi
tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato,
fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della
singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia
adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante
per la stessa autorità amministrativa.
Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e
buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di
legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando
compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento
amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando
“tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno
del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità,
concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di
inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una
struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità
criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie
per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza
personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la
Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 04.01.2018, n. 111).
Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del
quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al
pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del
potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo,
consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che
devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la
ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che
l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che,
necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non
sanzionatoria, della misura in esame.
Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del
provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem
agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto
divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della
discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare
l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro
arbitrio.
La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo
confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso
di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche
atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di
perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od
obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio,
in questa materia, deve arrestarsi (Cons. St., sez. III, 30.01.2019,
-OMISSIS-).
E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico
il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve
arrestarsi.
Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai
quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare
qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome
di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la
sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per
usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella
sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere il passo con
il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legittimità sostanziale.
Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale,
il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte
europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché «il
presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una
“condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti,
anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di
vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una
sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del
processo penale» (Cass. pen., sez. II, 09.07.2018, n. 30974).
Al delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione di questo Consiglio
di Stato non osta nemmeno, come sostiene l’appellante, l’orientamento
assunto dalla Corte costituzionale nelle recenti sentenze n. 24 del 27.02.2019 e n. 195 del 24.07.2019, orientamento di cui, per la sua
importanza sistematica anche nella materia della documentazione antimafia,
occorre dare qui conto.
Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza n. 24
del 2019, infatti, allorché si versi al di fuori della materia penale, non
può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle
condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto
costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta
anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza
costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate
dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da
un certo grado di imprecisione».
Essenziale –nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale
(v., ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione quinta,
sentenza 26.11.2011, Gochev c. Bulgaria; Corte europea dei diritti
dell’uomo, sezione prima, sentenza 04.06.2002, Olivieiria c. Paesi Bassi;
Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 20.05.2010, Lelas c. Croazia)– è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale
sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure
limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere
l’applicazione della misura stessa.
In tale direzione la verifica della legittimità dell’informativa deve essere
effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti
che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e
probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della
criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale
del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza,
evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e
che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di
qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del
ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18.04.2018, n. 2343).
Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare
l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di
elementi sintomatico-presuntivi dai quali –secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale– sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte
della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno
considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi
acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III,
18.04.2018, n. 2343).
Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un
diverso procedimento logico, va del resto qui ricordato, ma la (minore)
forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva,
l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul
piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi
intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme,
ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più
appropriata, la c.d. probabilità cruciale» (Cons. St., sez. III, 26.09.2017, n. 4483).
3. Ciò chiarito, con riferimento alla pregressa presenza, all’interno della
società appellata, del signor -OMISSIS- -OMISSIS-, -OMISSIS- del legale
rappresentante -OMISSIS- -OMISSIS-, è sufficiente ricordare che proprio in
relazione ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori,
direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati,
organici, contigui alle associazioni mafiose la Sezione (07.02.2018, n.
820) ha affermato che l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale
rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete,
lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa
abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di
fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le
decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche
indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla
mafia mediante il contatto con il proprio congiunto.
Nei contesti sociali,
in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può
verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere
legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di
soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla
considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi
costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per
la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione
della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello
particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’
mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può
subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione.
Hanno
dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo,
ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il
coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne
in sede penale) e peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione
evidenziare come sia stata accertata l’esistenza –su un’area più o meno
estesa– del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento
dei suoi componenti.
Nel caso all’esame del Collegio il -OMISSIS- del legale rappresentante della
società appellata -già titolare della stessa, ceduta al -OMISSIS- (il
-OMISSIS- 2008) quando questi non aveva ancora raggiunto la maggiore età, ma
ancora gestore di fatto- in data antecedente al 1998, quando era
amministratore della società, sarebbe stato vittima di un’estorsione alla
quale, da quanto emerge dall’ordinanza del Gip di Catanzaro, avrebbe ceduto,
essendosi recato presso la filiale della -OMISSIS- dopo aver parlato con
-OMISSIS-, condannata a 15 anni e 4 mesi nell’ambito dell’operazione di
polizia -OMISSIS-.
Giova a tale proposito ricordare che alcune operazioni
societarie possono disvelare un’attitudine elusiva della normativa antimafia
ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con la
pregressa gestione subendone, anche inconsapevolmente, i tentativi di
ingerenza (Cons. St., sez. III, 27.11.2018, n. 6707; 07.03.2013, n.
1386).
Ancora priva di giuridico peso la circostanza che il fatto estorsivo che ha
colpito il -OMISSIS- del legale rappresentante della società appellata
risale al 1998.
E’, infatti, sufficiente sul punto richiamare il principio secondo cui i
fatti sui quali si fonda tale misura di prevenzione possono anche essere
risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario
complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un
condizionamento da parte della criminalità organizzata.
Come chiarito dalla
Sezione (21.01.2019, n. 515), il mero decorso del tempo, di per sé
solo, non implica, cioè, la perdita del requisito dell’attualità del
tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende
descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime
quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza
della ‘risalenza’ dei dati considerati ai fini della rimozione della
disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti
nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo
irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita
definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.
Diversamente da quanto assume il giudice di primo grado, non può sottacersi
il fatto che due dipendenti della società appellata siano legati da vincoli
parentali a componenti alla cosca. Ove pure gli stessi fossero stati assunti
con la cd. clausola sociale, non è offerto neanche un principio di prova del
tentativo di non addivenire a tali assunzioni né rileva il fatto che gli
stessi occupassero bassi profili, essendo uno autista e l’altro addetto alle
pulizie. Indipendentemente, infatti, dalle mansioni ricoperte, un dipendente
di società legato alla malavita può costituire un ponte tra questa e la
società per la quale lavora.
Rileva ancora il Collegio che non assume portata determinante la
circostanza, non chiarita nella sua materialità, se vi sia stato o meno
l’effettivo pagamento, da parte del Comune di -OMISSIS-, di un importo pari
a € 3.000,00, risultando comunque dalle intercettazioni che la stessa
società compulsava i competenti uffici comunali per provvedere al relativo
mandato di pagamento.
4. In conclusione, correttamente il coacervo di elementi è stato ritenuto
dal Prefetto di Crotone sufficiente ad evidenziare il pericolo di contiguità
con la mafia, con un giudizio peraltro connotato da ampia discrezionalità di
apprezzamento, con conseguente sindacabilità in sede giurisdizionale delle
conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta
illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato
del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia
rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a
base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001).
Tale valutazione
costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza
costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo
solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei
fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010).
4. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione,
essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112
c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati,
infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e,
comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
5. In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello deve essere accolto e
va, dunque, riformata la sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez.
I, -OMISSIS- del 20.03.2019, che ha accolto il ricorso di primo grado. |
EDILIZIA PRIVATA:
EDILIZIA – INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO – Allocazione di
una stazione radio base all’interno di un’area lottizzata –
Non rappresenta inadempimento, da parte del Comune, della
convenzione di lottizzazione.
L’allocazione all’interno di un’area
lottizzata di una stazione radio base non rappresenta un
inadempimento, da parte dell’Ente territoriale, della
convenzione di lottizzazione, seppure essa destinasse a
giardino tutte le aree non soggette a edificazione, a opere
di urbanizzazione primaria, a standard urbanistici. L’art.
86, comma 3, d.lgs. 01.08.2003 n. 259, norma di carattere
imperativo, ha equiparato le infrastrutture di reti
pubbliche di comunicazioni alle opere di urbanizzazione
primaria, evidenziando il principio della necessaria
capillarità della localizzazione di detti impianti
(cfr. TAR Lazio–Latina 30.01.2015, n. 114).
L’assimilazione delle infrastrutture di
reti pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione
primaria e la considerazione che gli impianti in questione e
le opere accessorie occorrenti per la loro funzionalità
rivestano carattere di pubblica utilità, postulano la
possibilità che gli stessi siano ubicati in qualsiasi parte
del territorio comunale, essendo compatibili con tutte le
destinazioni urbanistiche
(TAR Lombardia–Brescia, Sez. II, 15.02.2018, n. 188) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 31.12.2019 n. 2174 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Rilevanza
ai fini espulsivi della mancata ostensione di un pregresso illecito.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara –
Pregresso illecito professionale anteriore al triennio – Omessa
dichiarazione – Art. 80, commi 5 e 10, d.lgs. n. 50 del 2016 – Obbligo
dichiarativo – Non sussiste
Dalla piana esegesi dell’art. 80, commi 5 e 10,
d.lgs. n. 50 del 2016, nel testo vigente ratione temporis (gennaio-febbraio
2019), si evince che la risoluzione per inadempimento del contratto (e
comunque la commissione di gravi illeciti professionali) assumono rilevanza
ai fini della ammissione (e costituiscono quindi oggetto dell’obbligo
dichiarativo) per un periodo di tempo non superiore a tre anni dalla data
dell’accertamento definitivo; in mancanza di ulteriori indicazioni
normative, la data dell’accertamento definitivo deve intendersi quella in
cui è stato adottato il provvedimento amministrativo che ha accertato la
violazione degli obblighi contrattuali ed ha quindi contestato la
risoluzione in danno, e ciò a prescindere dalla eventuale impugnazione dello
stesso provvedimento e dalla pendenza del relativo giudizio (1).
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(1) Ha aggiunto il Tar che in tal senso è dirimente l’art. 57,
comma 7, della direttiva 2014/24/UE, dotata di efficacia diretta e verticale
nell’ordinamento interno, nella parte in cui stabilisce che, nell’ipotesi in
esame, il periodo di esclusione non deve superare i tre anni dalla “data
del fatto”, ciò che evidentemente non consente di attribuire rilevanza
ai fini della decorrenza del termine ad accadimenti successivi
all’accertamento dell’inadempimento da parte dell’amministrazione.
Il Tar ha chiarito che nel concreto caso di specie, la questione della
collocazione temporale dell’illecito professionale assume una rilevanza
centrale ed assorbente, nei termini appresso indicati.
Le disposizioni di cui all’art. 80, commi 5 e 10, d.gs. n. 50 del 2016 hanno
subito ripetute modifiche nel corso del tempo e pertanto sussiste l’esigenza
di individuare le norme applicabili alla fattispecie oggetto del giudizio.
Nel caso di specie devono trovare applicazione, ratione temporis, le
norme di cui al comma 5 dell’art. 80 d.lgs. 60/2016, nel testo introdotto
dall'articolo 5, comma 1, del d.l. 14.12.2018, n. 135, nonché al comma 10
dello stesso articolo, nel testo modificato dall'articolo 49, comma 1,
lettera f), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56, entrambe vigenti nel periodo
compreso tra la data di pubblicazione del bando della procedura concorsuale
(11.01.2019) ed il termine di scadenza per la presentazione delle offerte
(fissato al 22.02.2019).
Sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che “il
riferimento alla definitività dell'accertamento” contenuto nella norma
di cui all’art. 80, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella versione
risultante all'esito delle modifiche apportate con il d.lgs. n. 56 del 2017
deve essere interpretato nel senso che “il termine decorre da quando è
stato adottato l'atto definitivo, cioè di conclusione del procedimento di
risoluzione” (Cons.
St., sez. V, 06.05.2019, n. 2895).
Il Tar ha osservato per inciso che la norma oggi vigente, e cioè il comma
10-bis, aggiunto dall'articolo 1, comma 20, lettera o), numero 5), d.l..
18.04.2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla l. 14.06.2019, n. 55,
contiene prescrizioni sostanzialmente diverse, dal momento che prende
espressamente in considerazione soltanto il caso in cui sia stato adottato
un “provvedimento di esclusione” e stabilisce che, in caso di
contestazione in giudizio del provvedimento amministrativo, il termine
triennale decorre dalla data del passaggio in giudicato della relativa
sentenza, ciò che vale indubbiamente ad aggravare la posizione del
dichiarante che abbia inteso insorgere in giudizio, in termini che non
appaiono compatibili con la prescrizione di chiusura di cui l’art. 57, comma
7, della direttiva 2014/24/UE, che, come si è detto, non consente di
attribuire rilevanza all’illecito dopo tre anni dalla data del fatto, a
prescindere dalla eventuale contestazione giudiziale del provvedimento
amministrativo (TAR Molise,
sentenza 31.12.2019 n. 483 -
commento tratto da e ink a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. Il ricorso è infondato.
7.1. Con il primo motivo parte ricorrente ha lamentato che
l’aggiudicatario, avendo omesso di dichiarare la risoluzione contrattuale
disposta dal Comune di Minori con delibera n. 35 del 21.05.2012, avrebbe
falsamente attestato il possesso del requisito generale di partecipazione
previsto dall’art. 80, co. 5 lett. c), d.lgs. n. 50/2016, con conseguente
violazione della lett. f)-bis del medesimo comma, che sanziona con
l’esclusione gli operatori che abbiano prodotto «nella procedura di gara
in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni
non veritiere».
A sostegno della censura il Consorzio Ar. ha segnalato che la medesima
questione ha già costituito oggetto di delibazione, in relazione ad altra
procedura concorsuale, da parte del TAR Napoli che, con sentenza n.
2885/2019, ha ritenuto l’illegittimità dell’ammissione del Consorzio Re.
alla gara per violazione dell’art. 80, co. 5 lett. c), d.lgs. n. 50/2016, in
ragione della omessa dichiarazione della risoluzione contrattuale disposta
dal Comune di Minori, precisando altresì che la contestazione giudiziale
dell’inadempimento (dinanzi al Tribunale di Salerno) non elide l’obbligo
dichiarativo.
7.2. Al riguardo, occorre innanzi tutto osservare che parte ricorrente ha
formulato la censura in esame con esclusivo riferimento alle disposizioni di
cui all’art. 80, co. 5, lett. c) ed f)-bis, del d.lgs. n. 50/2016, omettendo
di considerare che la prescrizione sanzionatoria individuata dal combinato
disposto di tali norme è ulteriormente precisata dal comma 10 dello stesso
articolo 80 che, nel testo vigente ratione temporis, limita
espressamente, sotto il profilo temporale, il perimetro degli illeciti
professionali rilevanti ai fini della partecipazione e quindi, in ultima
analisi, vale a conformare l’oggetto dell’obbligo dichiarativo.
La predetta questione non ha assunto specifica rilevanza neanche nel
percorso motivazionale articolato nella pronuncia del TAR Campania, e
comunque non è stata delibata nel corpo motivazionale della sentenza.
Invece, nel concreto caso di specie, la questione della collocazione
temporale dell’illecito professionale assume una rilevanza centrale ed
assorbente, nei termini appresso indicati.
7.3. Le disposizioni di cui all’art. 80, commi 5 e 10, del d.gs. 50/2016
hanno subito ripetute modifiche nel corso del tempo e pertanto sussiste
l’esigenza di individuare le norme applicabili alla fattispecie oggetto del
presente giudizio.
Nel caso di specie devono trovare applicazione, ratione temporis, le
norme di cui al comma 5 dell’art. 80 d.lgs. 60/2016, nel testo introdotto
dall'articolo 5, comma 1, del d.l. 14.12.2018, n. 135, nonché al comma 10
dello stesso articolo, nel testo modificato dall'articolo 49, comma 1,
lettera f), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56, entrambe vigenti nel periodo
compreso tra la data di pubblicazione del bando della procedura concorsuale
(11.01.2019) ed il termine di scadenza per la presentazione delle offerte
(fissato al 22.02.2019).
Le predette disposizioni stabiliscono che:
- “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla
procedura d'appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni,
anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105,
comma 6, qualora: … omissis … c) la stazione appaltante dimostri con mezzi
adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità;
c-bis) l'operatore economico abbia tentato di influenzare indebitamente il
processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni
riservate a fini di proprio vantaggio oppure abbia fornito, anche per
negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le
decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione, ovvero abbia
omesso le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della
procedura di selezione; c-ter) l'operatore economico abbia dimostrato
significative o persistenti carenze nell'esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione
per inadempimento ovvero la condanna al risarcimento del danno o altre
sanzioni comparabili; su tali circostanze la stazione appaltante motiva
anche con riferimento al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità
della stessa; … omissis …” (art. 80, co. 5);
- “Se la sentenza di condanna definitiva non fissa la durata
della pena accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica
amministrazione, ovvero non sia intervenuta riabilitazione, tale durata è
pari a cinque anni, salvo che la pena principale sia di durata inferiore, e
in tale caso è pari alla durata della pena principale e a tre anni,
decorrenti dalla data del suo accertamento definitivo, nei casi di cui ai
commi 4 e 5 ove non sia intervenuta sentenza di condanna” (art. 80, co.
10).
7.4. Dalla piana esegesi del combinato disposto di tali norme si evince che
la risoluzione per inadempimento del contratto (e comunque la commissione di
gravi illeciti professionali) assumono rilevanza ai fini della ammissione (e
costituiscono quindi oggetto dell’obbligo dichiarativo) per un periodo di
tempo non superiore a tre anni dalla data dell’accertamento definitivo.
In mancanza di ulteriori indicazioni normative, la data dell’accertamento
definitivo deve intendersi quella in cui è stato adottato il provvedimento
amministrativo che ha accertato la violazione degli obblighi contrattuali ed
ha quindi contestato la risoluzione in danno, e ciò a prescindere dalla
eventuale impugnazione dello stesso provvedimento e dalla pendenza del
relativo giudizio.
In tal senso è dirimente l’art. 57, co. 7, della direttiva 2014/24/UE,
dotata di efficacia diretta e verticale nell’ordinamento interno, nella
parte in cui stabilisce che, nell’ipotesi in esame, il periodo di esclusione
non deve superare i tre anni dalla “data del fatto”, ciò che
evidentemente non consente di attribuire rilevanza ai fini della decorrenza
del termine ad accadimenti successivi all’accertamento dell’inadempimento da
parte dell’amministrazione.
Sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che “il
riferimento alla definitività dell'accertamento” contenuto nella norma
di cui all’”art. 80, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella versione
risultante all'esito delle modifiche apportate con il d.lgs. n. 56 del 2017”
deve essere interpreto nel senso che “il termine decorre da quando è stato
adottato l'atto definitivo, cioè di conclusione del procedimento di
risoluzione” (Cons. Stato, Sez. V, 06.05.2019 n. 2895).
7.5. Per inciso, si osserva che la norma oggi vigente, e cioè il comma
10-bis, aggiunto dall'articolo 1, comma 20, lettera o), numero 5), del D.L.
18.04.2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla Legge 14.06.2019, n.
55, contiene prescrizioni sostanzialmente diverse, dal momento che prende
espressamente in considerazione soltanto il caso in cui sia stato adottato
un “provvedimento di esclusione” e stabilisce che, in caso di
contestazione in giudizio del provvedimento amministrativo, il termine
triennale decorre dalla data del passaggio in giudicato della relativa
sentenza, ciò che vale indubbiamente ad aggravare la posizione del
dichiarante che abbia inteso insorgere in giudizio, in termini che non
appaiono compatibili con la prescrizione di chiusura di cui l’art. 57, co.
7, della direttiva 2014/24/UE, che, come si è detto, non consente di
attribuire rilevanza all’illecito dopo tre anni dalla data del fatto, a
prescindere dalla eventuale contestazione giudiziale del provvedimento
amministrativo recante la relativa contestazione.
7.6. Nel concreto caso di specie il provvedimento di risoluzione cui fa
riferimento parte ricorrente è stato adottato dal Comune di Minori in data
21.05.2012, sicché al momento della pubblicazione del bando il termine
triennale di rilevanza del fatto, nei termini stabiliti dalla normativa
vigente ratione temporis, era già ampiamente decorso, la qual cosa
esclude che l’aggiudicatario avesse l’obbligo di farvi menzione ai fini
della partecipazione alla procedura concorsuale: “la mancata ostensione
di un pregresso illecito è rilevante –a fini espulsivi– non già in sé, bensì
in funzione dell’apprezzamento della stazione appaltante, il quale va a sua
volta eseguito in considerazione anzitutto della consistenza del fatto
omesso … Il non aver comunicato una pregressa risoluzione anteriore al
triennio, in sé priva d’attitudine espulsiva, non determina infatti una
condotta falsa o inveritiera…” (Cons. Stato, Sez. V, 13.12.2019 n.
8480). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
decadenza dal beneficio ottenuto mediante la falsa dichiarazione non è
automatica.
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Procedimento amministrativo – Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà
– Sussistenza eventuali pendenze fiscali – Dichiarazione falsa – Art. 75,
d.P.R. n. 445 del 2000 – Conseguenza – Decadenza del beneficio – Automatismo
sanzionatorio – Esclusione
In sede di applicazione dell’art. 75, d.P.R. n. 445
del 2000, l’Amministrazione procedente deve valutare caso per caso tutti gli
elementi emersi nel corso del procedimento affinché la sanzione prevista
dalla legge, e cioè la perdita dei benefici conseguiti per effetto della
falsa dichiarazione, non sia irragionevolmente applicata nelle ipotesi di
mere irregolarità nella dichiarazione (1).
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(1) Il Tar ha richiamato l’art. 75 (“Decadenza dai benefici”),
d.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di documentazione amministrativa”) il quale
dispone che “fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, qualora dal
controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto
della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente
conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non
veritiera”.
Il Tar ha ritenuto che ad una rigorosa interpretazione delle norme dettate
in materia di c.d autocertificazione, che comporterebbe l’automatica
decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non residuando alcun
margine di discrezionalità alle PP.AA., vada preferita una lettura
costituzionalmente orientata, volta cioè a valorizzare, oltre il dato
meramente formale, anche la sostanza della dichiarazione e del suo
contenuto.
Conformemente al più recente orientamento della giurisprudenza
amministrativa, teso a considerare il contenuto effettivo dell’attestazione
in presenza di vizi meramente formali (Cons.
Stato sez. V, 17.01.2018 n. 257 e
23.01.2018, n. 418), quel che si ritiene di dover valorizzare
sono le peculiari circostanze di volta in volta emerse nel caso concreto,
alla luce delle quali poter valutare, nella specie, se si tratti di una vera
e propria falsità o, piuttosto, di una mera irregolarità nella dichiarazione
resa alla P.a..
Il Tar ha chiarito che secondo questa interpretazione, e proprio con
riferimento all’esistenza di pendenze fiscali non dichiarate al momento
della istanza di rinnovo del rilascio del patentino, si è opportunamente
rilevato come, per la decadenza dal beneficio, non sarebbe determinante il
profilo formale della falsità della dichiarazione bensì quello sostanziale
costituito dalla mancanza del requisito falsamente dichiarato:
l’Amministrazione, quindi, sarebbe tenuta a valutare compiutamente la
portata e l’attualità delle pendenze fiscali sussistenti al momento della
istanza (Tar
Palermo, sez. I, 29.10.2018, n. 2190).
Il tutto conformemente ai principi di ragionevolezza e proporzionalità che
pure devono ispirare l’azione amministrativa e che portano ad escludere ogni
automatismo sanzionatorio nell’applicazione dell’art. 75, d.P.R. n. 445 del
2000.
Il Tar ha rilevato che, nel caso in esame, l’Amministrazione resistente ha
del tutto omesso questa valutazione del caso concreto essendosi limitata ad
applicare automaticamente l’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000. All’opposto,
nel corso del procedimento, erano emerse circostanze tali da far ritenere
meritevole di accoglimento l’istanza di rinnovo del patentino presentata
dalla ricorrente, consistenti nella esiguità dell’importo ab origine
dovuto al fisco, nel fatto che lo stesso fosse relativo ad una attività
commerciale cessata nell’anno 2010 e nel fatto che il debito fiscale era
stato estinto prima ancora della adozione dei provvedimenti impugnati
(TAR Molise,
sentenza 28.12.2019 n. 478 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
Ciò premesso, il Collegio ritiene che le censure prospettate dal ricorrente
meritino di essere condivise.
Ed invero, l’articolo 75 (“Decadenza dai benefici”) del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di documentazione amministrativa”) dispone che “fermo restando
quanto previsto dall’articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo
71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il
dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento
emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. Ciò vuol dire che la
dichiarazione “non veritiera”, al di là dei profili penali, ove ricorrano i
presupposti del reato di falso, nell’ambito della disciplina dettata dal D.p.r. n. 445/2000, preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo
cui era indirizzata la dichiarazione o comporta la decadenza dall’utilitas
conseguita per effetto del mendacio.
Si è in merito ritenuto, quindi, che, “in tale contesto normativo, in cui la
“dichiarazione falsa o non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza
l’elemento soggettivo ovvero il dolo o la colpa del dichiarante” (Consiglio
di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse,
verrebbe meno la ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione
amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del
dichiarante” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 27.04.2012, n. 2447): sicché ogni eventuale ulteriore circostanza, “senz’altro rilevante in sede
penale, in quanto ostativa alla configurazione del falso ideologico, attesa
la mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non
coartata di compiere il fatto e della consapevolezza di agire contro il
dovere giuridico di dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del 2000, in cui il mendacio rileva quale inidoneità della
dichiarazione allo scopo cui è diretto” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013).
Ritiene, tuttavia, il Collegio che a tale rigorosa interpretazione vada
preferita una lettura costituzionalmente orientata delle norme dettate in
materia di c.d. autocertificazione, volta cioè a valorizzare, oltre il dato
meramente formale, anche la sostanza della dichiarazione e del suo
contenuto.
Conformemente al più recente orientamento della giurisprudenza
amministrativa, infatti, teso a considerare il contenuto effettivo
dell’attestazione in presenza di vizi meramente formali (Cons. Stato sez. V,
17.01.2018 n. 257 e 23.01.2018, n. 418), quel che si ritiene di
dover valorizzare sono le peculiari circostanze di volta in volta emerse nel
caso concreto, alla luce delle quali poter valutare, nella specie, se si
tratti di una vera e propria falsità o, piuttosto, di una mera irregolarità
nella dichiarazione resa alla P.a..
Secondo questa interpretazione, infatti, e proprio con riferimento
all’esistenza di pendenze fiscali non dichiarate al momento della istanza di
rinnovo del rilascio del patentino, si è opportunamente rilevato come, per
la decadenza dal beneficio, non sarebbe determinante il profilo formale
della falsità della dichiarazione bensì quello sostanziale costituito dalla
mancanza del requisito falsamente dichiarato: l’Amministrazione, quindi,
sarebbe tenuta a valutare compiutamente la portata e l’attualità delle
pendenze fiscali sussistenti al momento della istanza (Tar Palermo, sez. I,
29.10.2018, n. 2190).
Ed ancora, la Corte Costituzionale, pur dichiarando inammissibile la
questione di illegittimità costituzionale sollevata, nella specie, dal
Giudice a quo per non avere questo esaminato, la sussistenza o meno di una
vera e propria pendenza fiscale definitivamente accertata come prevista
dagli artt. 7 e 8 del D.m. 21.02.2013 n. 38 (Regolamento recante
disciplina della distribuzione e vendita dei prodotti da fumo), ha
implicitamente confermato la tesi secondo cui la decadenza dal beneficio
ottenuto mediante la falsa dichiarazione non possa conseguire in via
automatica ma possa essere disposta solo dopo una valutazione casistica da
parte della P.a di tutte le circostanze rilevanti nel caso concreto (Corte
Costituzionale, sentenza 24.07.2019, n. 199).
In tal senso, si è, quindi, esclusa la sussistenza di una vera e propria
“pendenza fiscale”, come prevista dal combinato disposto di cui agli art. 7
e 8 del d.m. n. 38/2013, nelle ipotesi di un debito tributario di scarsa
entità, non idoneo, come tale ed alla luce della normativa tributaria, a
superare la soglia minima di rilevanza fiscale prevista nel nostro
ordinamento (Tar Potenza, 07.01.2019, n. 31).
Si ravvisa, in sostanza, l’esigenza che l’Amministrazione procedente valuti
caso per caso tutti gli elementi emersi nel corso del procedimento affinché
la sanzione prevista dalla legge, e cioè la perdita dei benefici conseguiti
per effetto della falsa dichiarazione, non sia irragionevolmente applicata
nelle ipotesi di mere irregolarità nella dichiarazione.
Il tutto conformemente ai principi di ragionevolezza e proporzionalità che
pure devono ispirare l’azione amministrativa e che portano ad escludere ogni
automatismo sanzionatorio nell’applicazione dell’art. 75 del DPR n. 445/2000
(si veda anche ordinanza del TAR Lecce, sez. III, 24.10.2018, n. 1544). |
APPALTI: Utile
esiguo in offerta e verifica della congruità
attraverso un giudizio comparativo.
L'utile esiguo è
ammissibile, potendo comunque costituire un
elemento favorevole per l’impresa in termini
di prestigio, specialmente se è avvenuta
l’aggiudicazione e la buona riuscita di un
appalto importante.
La verifica di congruità di un’offerta
sospetta di anomalia non può essere
effettuata attraverso un giudizio
comparativo che coinvolga altre offerte,
perché va condotta con esclusivo riguardo
agli elementi costitutivi dell’offerta
analizzata e alla capacità dell’impresa
-tenuto conto della propria organizzazione
aziendale e, se del caso, della comprovata
esistenza di particolari condizioni
favorevoli esterne- di eseguire le
prestazioni contrattuali al prezzo proposto,
essendo ben possibile che un ribasso
sostenibile per un concorrente non lo sia
per un altro, per cui il raffronto fra
offerte differenti non è indicativo al fine
di dimostrare la congruità di una di esse
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.12.2019 n. 2739 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2.3. Con il primo motivo aggiunto la
ricorrente lamenta che alcune voci
dell’offerta tecnica di Du.Se.
S.r.l. (relative alle attrezzature, ai
prodotti, alle qualifiche professionali, ai
mezzi impiegati nell’esecuzione della
commessa) non troverebbero copertura
nell’offerta economica.
Secondo la prospettazione attorea questi costi, ove
considerati, renderebbero incapiente e,
dunque, inaffidabile l’offerta della
controinteressata, poiché ridurrebbero
(anzi, supererebbero del tutto) l’utile –asseritamente troppo esiguo- atteso
dall’esecuzione della commessa (circa
100.000 euro annui).
2.3.1. La tesi non persuade.
Al riguardo, è sufficiente rilevare che:
- secondo consolidata giurisprudenza
l’utile, ancorché esiguo, è ammissibile,
potendo comunque costituire un elemento
favorevole per l’impresa in termini di
prestigio, specialmente se è avvenuta
l’aggiudicazione e la buona riuscita di un
appalto importante (ex multis, C.d.S., Sez.
V, n. 4978/2017);
- la verifica di congruità di un’offerta
sospetta di anomalia non può essere
effettuata attraverso un giudizio
comparativo che coinvolga altre offerte,
perché va condotta con esclusivo riguardo
agli elementi costitutivi dell’offerta
analizzata ed alla capacità dell’impresa -tenuto conto della propria organizzazione
aziendale e, se del caso, della comprovata
esistenza di particolari condizioni
favorevoli esterne- di eseguire le
prestazioni contrattuali al prezzo proposto,
essendo ben possibile che un ribasso
sostenibile per un concorrente non lo sia
per un altro, per cui il raffronto fra
offerte differenti non è indicativo al fine
di dimostrare la congruità di una di esse (C.d.S.,
Sez. V, n. 607/2017; n. 3271/2016; n.
4694/2007; Id., Sez. IV, n. 5945/2002); |
EDILIZIA PRIVATA: La sanzione della perdita
della proprietà per inottemperanza all'ordine di remissione in pristino, pur
se definita come una conseguenza di diritto dall'art. 31, comma 3, d.P.R. n.
380/2001, richiede, in ogni caso, un provvedimento amministrativo che
definisca l'oggetto dell'acquisizione al patrimonio comunale attraverso la
quantificazione e la perimetrazione dell'area sottratta al privato.
E’,
pertanto, obbligo specifico dell’Amministrazione quello di “esplicitare le
modalità del calcolo (in relazione ai richiamati parametri urbanistici in
astratto applicabili per la realizzazione di opere analoghe a quelle
abusivamente realizzate) con cui l’ufficio tecnico dell’ente locale perviene
alla individuazione di tale area ulteriore”, indicando nell’atto di
acquisizione, “la classificazione urbanistica ed il relativo regime per
l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi sviluppare (in base agli indici
di fabbricabilità, territoriale o fondiaria, conseguentemente applicabili)
il calcolo della superficie occorrente per la realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive, disponendone comunque l’acquisizione -laddove
dovesse risultare una superficie superiore- nel limite massimo del decuplo
dell’area di sedime”.
Infatti, “la circostanza che il legislatore non abbia predeterminato
l'ulteriore area acquisibile, ma si sia limitato a prevedere che tale area
non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie
utile abusivamente costruita, si giustifica per il fatto che l'ulteriore
acquisto sia funzionale e strumentale rispetto all'acquisto del bene abusivo
e della relativa area di sedime. In altri termini -non potendosi ritenere
che la determinazione dell'ulteriore area acquisibile sia affidata al puro
arbitrio dell'Amministrazione- la circostanza che sia stata predeterminata
solo la superficie massima di tale area (comunque non superiore a dieci
volte quella abusivamente costruita) può spiegarsi solo ipotizzando che
l'ulteriore acquisto sia necessario al fine di consentire l'uso pubblico del
bene abusivo acquisito al patrimonio comunale. Ne consegue che il nesso
funzionale tra i due acquisti implica che l'Amministrazione sia tenuta a
specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che rendono
necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione
l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione”.
---------------
12.1. Osserva il Collegio come l’acquisizione dell’area di sedime
della strada risulta corrispondente al manufatto con conseguente
infondatezza delle censure articolate in parte qua.
12.2. Un diverso discorso vale per la c.d. “area pertinenziale”.
Come
correttamente evidenziato dal Consiglio di Stato, “la sanzione della perdita
della proprietà per inottemperanza all'ordine di remissione in pristino, pur
se definita come una conseguenza di diritto dall'art. 31, comma 3, d.P.R. n.
380/2001, richiede, in ogni caso, un provvedimento amministrativo che
definisca l'oggetto dell'acquisizione al patrimonio comunale attraverso la
quantificazione e la perimetrazione dell'area sottratta al privato” (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
E’,
pertanto, obbligo specifico dell’Amministrazione quello di “esplicitare le
modalità del calcolo (in relazione ai richiamati parametri urbanistici in
astratto applicabili per la realizzazione di opere analoghe a quelle
abusivamente realizzate) con cui l’ufficio tecnico dell’ente locale perviene
alla individuazione di tale area ulteriore” (TAR per il Lazio – sede di
Roma, sez. II-quater, 30.08.2018, n. 9103), indicando nell’atto di
acquisizione, “la classificazione urbanistica ed il relativo regime per
l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi sviluppare (in base agli indici
di fabbricabilità, territoriale o fondiaria, conseguentemente applicabili)
il calcolo della superficie occorrente per la realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive, disponendone comunque l’acquisizione -laddove
dovesse risultare una superficie superiore- nel limite massimo del decuplo
dell’area di sedime” (Consiglio di Stato, sez. VI, 05.04.2013, n. 1881).
Infatti, “la circostanza che il legislatore non abbia predeterminato
l'ulteriore area acquisibile, ma si sia limitato a prevedere che tale area
non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie
utile abusivamente costruita, si giustifica per il fatto che l'ulteriore
acquisto sia funzionale e strumentale rispetto all'acquisto del bene abusivo
e della relativa area di sedime. In altri termini -non potendosi ritenere
che la determinazione dell'ulteriore area acquisibile sia affidata al puro
arbitrio dell'Amministrazione- la circostanza che sia stata predeterminata
solo la superficie massima di tale area (comunque non superiore a dieci
volte quella abusivamente costruita) può spiegarsi solo ipotizzando che
l'ulteriore acquisto sia necessario al fine di consentire l'uso pubblico del
bene abusivo acquisito al patrimonio comunale. Ne consegue che il nesso
funzionale tra i due acquisti implica che l'Amministrazione sia tenuta a
specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che rendono
necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione
l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione” (Consiglio di Stato,
sez. IV, 05.04.2013, n. 1881: TAR per la Lombardia – sede di Milano,
sez. II, 25.03.2019, n. 646).
12.3. Nel caso di specie il provvedimento impugnato non risulta, quindi,
conforme alla previsione di cui all’articolo 31 del D.P.R. n. 380 del 2001
non essendo ivi evidenziate le ragioni che, in relazione allo specifico
parametro normativo (ed alle necessità indicate in tale proposizione
normativa) giustificano l’acquisizione della superficie degli interi mappali
nn. 3649 e 3651 (pur nell’avvenuta rettifica, attraverso l’espunzione dei
mappali 3650 e 3652).
Né rileva, come spiegato, il riferimento al limite
massimo dettato dalla previsione di cui all’articolo 31 del D.P.R. n. 380
del 2001 che, come spiegato dal Consiglio di Stato, “configura un limite
all’acquisizione, ma non anche l’elemento fondamentale che deve essere
tenuto presente per determinare l’area da acquisire”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.12.2019 n. 2735 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Istanza
diretta a sollecitare il potere di
autotutela.
Per consolidata
giurisprudenza, l’amministrazione non abbia
l’obbligo di pronunciarsi in maniera
esplicita su un’istanza diretta a
sollecitare l’esercizio del potere di
autotutela (che costituisce una
manifestazione tipica della discrezionalità
amministrativa, di cui è titolare in via
esclusiva l’amministrazione per la tutela
dell’interesse pubblico) e come il potere di
autotutela sia incoercibile dall’esterno
attraverso l’istituto del
silenzio–inadempimento ai sensi dell’art.
117 c.p.a..
Ciò posto in linea di principio, va tuttavia
dato atto di come la stessa giurisprudenza,
a parziale temperamento del succitato
rigoroso orientamento, abbia riconosciuto
che, fermo restando il carattere
discrezionale dell’autotutela, il riesame da
parte dell’amministrazione, quale fase ad
essa prodromica, possa ritenersi in taluni
casi (e non solo in relazione ad atti
vincolati) doveroso; se, infatti, non può
legittimarsi un uso distorto e strumentale
della richiesta di riesame che investa
situazioni già valutate
dall’amministrazione, sì da rimettere in
discussione rapporti già definititi e
provvedimenti rimasti inoppugnati (con
pregiudizio per il principio di certezza
dell’azione amministrativa), nondimeno il
concreto esercizio del potere di autotutela
è pur sempre vincolato all’attuazione delle
finalità per cui esso è attribuito dalla
legge del perseguimento, secondo le migliori
modalità, dell’interesse pubblico, nella
comparazione con i differenti interessi
coinvolti nella vicenda oggetto di
valutazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 23.12.2019 n. 2725 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
5.1) Preliminarmente, osserva il Collegio
come, per consolidata giurisprudenza,
l’amministrazione non abbia l’obbligo di
pronunciarsi in maniera esplicita su un
istanza diretta a sollecitare l’esercizio
del potere di autotutela (che costituisce
una manifestazione tipica della
discrezionalità amministrativa, di cui è
titolare in via esclusiva l’amministrazione
per la tutela dell’interesse pubblico) e
come il potere di autotutela sia
incoercibile dall’esterno attraverso
l’istituto del silenzio–inadempimento ai
sensi dell’art. 117 c.p.a. (cfr. ex
multis, Cons. di Stato, V, 04.05.2015,
n. 2237; Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014,
n. 4309; 07.07.2014, n. 3426; 24.09.2013, n.
4714; Sez. IV, 22.01.2013, n. 355; sez. V,
03.10.2012, n. 5199; sez. VI, 09.07.2013, n.
3634).
Ciò posto in linea di principio, va tuttavia
dato atto di come la stessa giurisprudenza,
a parziale temperamento del succitato
rigoroso orientamento, abbia riconosciuto
che, «fermo restando il carattere
discrezionale dell’autotutela, il riesame da
parte dell’amministrazione, quale fase ad
essa prodromica, possa ritenersi in taluni
casi (e non solo in relazione ad atti
vincolati) doveroso» [cfr. Cons. Stato,
sez. V, 29.05.2019, n. 3576, per cui: «Se,
infatti, non può legittimarsi un uso
distorto e strumentale della richiesta di
riesame che investa situazioni già valutate
dall’amministrazione sì da rimettere in
discussione rapporti già definititi e
provvedimenti rimasti inoppugnati (con
pregiudizio per il principio di certezza
dell’azione amministrativa), nondimeno il
concreto esercizio del potere di autotutela
è pur sempre vincolato all’attuazione delle
finalità per cui esso è attribuito dalla
legge (del perseguimento, secondo le
migliori modalità, dell’interesse pubblico,
nella comparazione con i differenti
interessi coinvolti nella vicenda oggetto di
valutazione)»]. |
APPALTI SERVIZI: Qualificazione, requisiti dell'Ati e quota dei lavori.
Assenza e scostamento esclude da gara
L'assenza
di un requisito di qualificazione in misura corrispondente alla quota dei
lavori, cui si è impegnata una delle imprese costituenti il raggruppamento
temporaneo (Ati) in sede di presentazione dell'offerta determina
l'esclusione dell'intero raggruppamento, anche se lo scostamento sia minimo
ed anche nel caso in cui il raggruppamento nel suo insieme (ovvero un'altra
delle imprese del medesimo) sia in possesso del requisito di qualificazione
sufficiente all'esecuzione dell'intera quota di lavori.
È
quanto ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
18.12.2019 n. 8540 in merito ad una procedura di affidamento
riguardante «servizi a quantità indeterminata di pitturazione e trattamento
dei ponti di volo, ponti coperti e scoperti» di unità della Marina militare
che, preliminarmente, i giudici riconducono alla nozione di appalto di
lavori e in particolare alla categoria dei lavori di manutenzione ordinaria
«visto che un servizio non è un opus, ma è un'attività propria del terziario
non diretta alla produzione o alla fornitura di beni, e svolta per
soddisfare bisogni di singoli oppure di collettività che attengono ad
esigenze diverse e che è di suo ripetibile nel tempo, a differenza di un
lavoro che si esaurisce una tantum nel suo compimento ed è oggettivamente
tangibile nella sua realizzazione».
Ciò premesso, la questione principale
atteneva alla legittimità o meno della partecipazione di un raggruppamento
temporaneo in cui un mandante non possedeva un requisito speciale (fatturato
specifico) nella misura corrispondente alla quota dei lavori, cui si è
impegnata una delle imprese costituenti il raggruppamento temporaneo in sede
di presentazione dell'offerta. Per il collegio giudicante (che richiama
l'adunanza plenaria n. 6 del 27.03.2019, pronunciatasi «in applicazione
dell'articolo 92, comma 2, del dpr 207/2010») in questi casi scatta
l'esclusione dell'intero raggruppamento.
A nulla vale che lo scostamento
minimo e che il raggruppamento nel suo insieme (ovvero un'altra delle
imprese del medesimo) sia in possesso del requisito di qualificazione
sufficiente all'esecuzione dell'intera quota di lavori. La mancata copertura
dei requisiti rispetto alla quota di lavori da eseguire è motivo di
esclusione (articolo ItaliaOggi del 03.01.2020). |
APPALTI: Principio
di tassatività delle clausole escludenti.
Il TAR Milano precisa,
con riferimento al principio di tassatività
delle clausole escludenti, che se è vero che
la sanzione della nullità implica
l’automatica inefficacia delle previsioni
del bando, disapplicabili direttamente dalla
stazione appaltante senza necessità di
attendere l’eventuale annullamento
giurisdizionale, per la prevalente
giurisprudenza, però, la disposizione in
ordine alla tassatività delle clausole
escludenti –in precedenza prevista dall’art.
46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006–
non può essere interpretata in modo avulso
dal contesto normativo di riferimento, sì da
doversene individuarne la ratio nella
necessità di ridurre gli oneri formali
gravanti sulle imprese partecipanti a
procedure di affidamento, quando questi non
siano strettamente necessari a raggiungere
gli obiettivi perseguiti attraverso gli
schemi dell’evidenza pubblica.
E' quindi da condividere, per il TAR,
l’orientamento giurisprudenziale per il
quale la sanzione della nullità testuale è
riferita esclusivamente alle ragioni di
esclusione incentrate sulle forme con cui la
dichiarazione negoziale viene esternata, in
quanto aspetti formali e documentali che, in
assenza di una specifica previsione di
nullità, potrebbero essere regolarizzati
attraverso l’istituto del soccorso
istruttorio.
Il “principio di tassatività delle cause di
esclusione” e la conseguente nullità ex lege,
invece, non riguardano i profili sostanziali
o qualitativi dell’offerta –come, ad
esempio, la base d’asta–, in sé
insuscettibili di regolarizzazione postuma
giacché l’amministrazione si troverebbe
altrimenti a comparare proposte tra loro non
omogenee, violando i principi basilari che
presiedono lo svolgimento delle procedure
competitive.
Del resto, come pure è stato rilevato in
giurisprudenza, la disposizione di cui
all’art. 83, comma 8, del d.lgs. 50 del 2016
va letta in continuità ermeneutica con la
norma di cui all’art. 46, comma 1-bis, del
d.lgs. n. 163 del 2006, restando quindi
pienamente valido, anche nell’attuale regime
normativo, il principio secondo cui la
sanzione della nullità testuale è
preordinata a privare di rilievo giuridico
tutte le ragioni di esclusione dalle gare
incentrate non già sulla qualità della
dichiarazione, quanto piuttosto sulle forme
con cui questa viene esternata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.12.2019 n. 2693 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Ritenuto:
- che la controversia ha ad oggetto la riammissione della
controinteressata alla gara e la conseguente
aggiudicazione della fornitura in suo
favore, all’esito di determinazioni assunte
dall’ente appaltante in sede di autotutela;
- che si tratta di stabilire, in particolare, se la formulazione di
un’offerta economica “in aumento” per una
sola delle prestazioni ricomprese
nell’appalto da aggiudicare imponesse,
secondo la normativa di gara, l’automatica
espulsione del concorrente che se ne era
reso autore –anche quando ciò non si
traduceva in un superamento della soglia di
spesa pubblica complessiva ancorata alla
base d’asta relativa all’intero “lotto”–, e
se, in questo caso, le corrispondenti
prescrizioni fossero disapplicabili dalla
stazione appaltante in quanto “nulle” per
contrasto con il principio di tassatività
delle cause di esclusione, ai sensi
dell’art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50 del
2016;
- che, in via preliminare, appare privo di pregio l’assunto di
parte resistente in forza del quale, stante
il tenore letterale della lex specialis
della gara, al superamento della base d’asta
relativa al servizio di “assistenza tecnica
full risk per sonde” non avrebbe dovuto
corrispondere un provvedimento di
esclusione, per essere la sanzione espulsiva
espressamente comminata dal Capitolato
tecnico solo con riferimento al servizio di
“assistenza full risk per ecografo”; non v’è
dubbio, infatti, come nell’economia della
procedura di scelta del contraente privato
il Bando, il Disciplinare di gara e il
Capitolato tecnico assolvano ciascuno una
propria ed autonoma funzione –il primo
fissando le regole della gara, il secondo
disciplinando il procedimento di gara in
senso stretto e il terzo integrando
eventualmente le disposizioni del bando (v.
TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 13.07.2017 n. 1793)–, e costituendo tutti insieme
i documenti, in un rapporto di eterointegrazione, la
lex specialis della
gara;
- che, ciò posto, nonostante l’apparente diversa formulazione del
Capitolato tecnico (il cui art. 4.2 si
limita a stabilire che “… Il costo del
servizio a triennio non può essere superiore
al valore di Base d’Asta per le sonde di cui
alla configurazione base …”, senza al
contempo esplicitamente prevedere
l’esclusione del concorrente che vi
contravvenga), il fatto che un inderogabile
divieto di offerte in aumento operasse non
solo con riferimento all’offerta
complessiva, ma anche in relazione ai
singoli prezzi unitari delle prestazioni che
compongono l’appalto, emerge in modo chiaro
e non equivoco dal tenore letterale
dell’art. 22 del Disciplinare di gara, alla
stregua del quale “… Saranno, altresì,
esclusi dalla procedura i concorrenti che
presentino:… - offerte che presentino prezzi
superiori alla base d’asta unitaria del/i
lotto/i cui si partecipa… - offerte con
prezzo complessivo offerto superiore alla
base d’asta complessiva ...” (pag. 65 e 66,
doc. n. 4 - fascicolo di parte ricorrente);
- che non è dato riscontrare, nel caso di specie, quel margine di
“obiettiva incertezza” sulla portata della
clausola che, nei limiti, avrebbe consentito
all’Amministrazione di discostarsi in via
interpretativa dalle norme di gara, dovendo
invece essere sottolineato il carattere
vincolante che la disposizione assumeva non
solo nei confronti dei concorrenti ma anche
della stazione appaltante, notoriamente
soggetta, in applicazione dell’art. 97 Cost.,
al principio generale del c.d. autovincolo;
segnatamente la giurisprudenza è pressoché
unanime nell’affermare come le previsioni
della lex specialis della gara costituiscano
un vincolo per l’amministrazione che le ha
predisposte, in capo alla quale non sussiste
alcun margine di discrezionalità circa la
loro concreta attuazione, sicché le singole
clausole, finanche quando illegittime, non
possono essere disapplicate né dal giudice
né dalla stessa stazione appaltante, salvo
naturalmente l’esercizio del potere di
autotutela (sulla vincolatività della lex
specialis v. Consiglio di Stato, Sez. IV,
08.05.2019, n. 2991; Consiglio di Stato, Sez. V, 14.12.2018, n. 7057; Consiglio
di Stato, Sez. V, 22.11.2017, n. 5428;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 15.09.2015, n. 4302);
- che, in applicazione di siffatti assunti, di fronte ad una
prescrizione vincolante e con formulazione
chiara come quella del caso in esame, non
v’è dubbio che in capo alla stazione
appaltante sussistesse un obbligo
conformativo con riferimento all’esclusione
della concorrente Es. S.p.A., con
conseguente illegittimità
dell’aggiudicazione oggetto della presente
controversia; non di meno, infatti, nella
pacifica vigenza del principio, la
giurisprudenza amministrativa ha
ulteriormente identificato
nell’illegittimità delle successive
determinazioni la conseguenza giuridica
della violazione dell’autovincolo (v.
Consiglio di Stato, Sez. III, 30.10.2019, n. 7446; Consiglio di Stato, Sez. V,
17.07.2017, n. 3502);
- che neppure coglie nel segno l’ulteriore assunto di parte
resistente in forza del quale la clausola
espulsiva prevista dalla normativa di gara
violerebbe il principio della tassatività
delle cause di esclusione ed incorrerebbe
perciò nella nullità testuale di cui
all’art. 83, comma 8, del d.lgs. 50 del
2016; se è vero, in effetti, che la sanzione
della nullità implica l’automatica
inefficacia delle previsioni del bando,
disapplicabili direttamente dalla stazione
appaltante senza necessità di attendere
l’eventuale annullamento giurisdizionale (in
tal senso v. Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.09.2017, n. 4350), per la prevalente
giurisprudenza, però, la disposizione in
ordine alla tassatività delle clausole
escludenti –in precedenza prevista
dall’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163
del 2006– non può essere interpretata in
modo avulso dal contesto normativo di
riferimento, sì da doversene individuarne la
ratio nella necessità di “ridurre gli oneri
formali gravanti sulle imprese partecipanti
a procedure di affidamento, quando questi
non siano strettamente necessari a
raggiungere gli obiettivi perseguiti
attraverso gli schemi dell’evidenza
pubblica” (in tal senso Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4350/2017 cit.; Consiglio di
Stato, Sez. V, 23.09.2015, n. 4460;
e, da ultimo, a proposito del principio per
cui la declaratoria di nullità per
violazione del principio di tassatività
delle cause di esclusione si riferisce solo
a clausole del bando che impongono
adempimenti formali v. Consiglio di Stato,
Sez. V, 23.08.2019, n. 5828);
- che è da condividere, quindi, l’orientamento giurisprudenziale
per il quale la sanzione della nullità
testuale è riferita esclusivamente alle
ragioni di esclusione incentrate sulle forme
con cui la dichiarazione negoziale viene
esternata, in quanto aspetti formali e
documentali che, in assenza di una specifica
previsione di nullità, potrebbero essere
regolarizzati attraverso l’istituto del
soccorso istruttorio; il “principio di tassatività delle cause di esclusione” e la
conseguente nullità ex lege, invece, non
riguardano i profili sostanziali o
qualitativi dell’offerta –come, ad esempio,
la base d’asta–, in sé insuscettibili di
regolarizzazione postuma giacché
l’amministrazione si troverebbe altrimenti a
comparare proposte tra loro non omogenee,
violando i principi basilari che presiedono
lo svolgimento delle procedure competitive
(in tal senso v. TAR Toscana, Sez. III, 27.02.2018, n. 316, conf. da Cons. Stato,
III, 25/07/2018 n. 4546/2018);
- che, del resto, come pure è stato rilevato (TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 02.10.2018, n. 5766), la
disposizione di cui all’art. 83, comma 8,
del d.lgs. 50 del 2016 va letta in
continuità ermeneutica con la norma di cui
all’art. 46 comma 1-bis, del d.lgs. n. 163
del 2006, restando quindi pienamente valido,
anche nell’attuale regime normativo, il
principio secondo cui la sanzione della
nullità testuale è preordinata a privare di
rilievo giuridico tutte le ragioni di
esclusione dalle gare incentrate non già
sulla qualità della dichiarazione, quanto
piuttosto sulle forme con cui questa viene
esternata; |
APPALTI: Potere
di rettifica di errori materiali o di refusi
in una offerta per una gara d’appalto.
Le offerte, intese come
atto negoziale, devono essere interpretate
al fine di ricercare l’effettiva volontà
dell’impresa partecipante alla gara,
superandone le eventuali ambiguità, a
condizione di giungere ad esiti certi circa
la portata dell’impegno negoziale assunto;
tale attività interpretativa può, quindi,
anche consistere nell’individuazione e nella
rettifica di eventuali errori di
scritturazione o di calcolo, a condizione,
però, che alla rettifica si possa pervenire
con ragionevole certezza e, comunque, senza
attingere a fonti di conoscenza estranee
all’offerta o a dichiarazioni integrative o
rettificative dell’offerente.
Va, allora, ribadita la legittimità del
potere di rettifica di errori materiali o
refusi da circoscrivere nelle ipotesi in cui
l’effettiva volontà negoziale è stata
comunque espressa nell’offerta e risulta
palese che la dichiarazione discordante non
è voluta, ma è frutto di un errore ostativo,
da rettificare in applicazione dei principi
civilistici contenuti negli artt. 1430-1433
cod. civ.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 17.12.2019 n. 2684 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Il ricorso è fondato.
Come questa Sezione ha già avuto modo di
affermare, «le offerte, intese come atto
negoziale, devono essere interpretate al
fine di ricercare l’effettiva volontà
dell’impresa partecipante alla gara,
superandone le eventuali ambiguità, a
condizione di giungere ad esiti certi circa
la portata dell’impegno negoziale assunto (cfr.,
ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2015, n. 2082; id., Sez. III, 22.10.2014, n. 5196).
Tale attività interpretativa
può, quindi, anche consistere
nell’individuazione e nella rettifica di
eventuali errori di scritturazione o di
calcolo, a condizione, però, che alla
rettifica si possa pervenire con ragionevole
certezza e, comunque, senza attingere a
fonti di conoscenza estranee all’offerta o a
dichiarazioni integrative o rettificative
dell’offerente (cfr. Cons. Stato, Sez. III,
28.05.2014, n. 1487; id., Sez. VI, 13.02.2013, n. 889; id., Sez. III, 22.08.2012, n. 4592).
Va, allora, ribadita
la legittimità del potere di “rettifica di
errori materiali o refusi” (su cui, fra le
altre, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 25.02.2014, n. 9), da circoscrivere nelle
ipotesi in cui l’effettiva volontà negoziale
è stata comunque espressa nell’offerta e
risulta palese che la dichiarazione
discordante non è voluta, ma è frutto di un
errore ostativo, da rettificare in
applicazione dei principi civilistici
contenuti negli artt. 1430-1433 cod. civ. (cfr.
diffusamente sul tema, da ultimo, TAR
Lazio, Roma, II sez., sentenza 04.05.2016
n. 5060, che si sofferma anche sulle
differenze fra l’errore ostativo,
emendabile, e l’errore-vizio, disciplinato
dagli articoli 1427 e ss. cod. civ., che,
incidendo sul processo di formazione della
volontà negoziale, si colloca al di fuori
del potere di rettifica)» (così, sentenza n.
1554/2016). |
EDILIZIA PRIVATA: L’abuso
di cui all’art. 37, comma 1, dpr 380/2001 riguarda gli interventi eseguiti
in assenza della presentazione di una segnalazione di inizio attività non
conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della
realizzazione dell’intervento, posto che la fattispecie di cui al comma
4 riguarda invece gli interventi conformi alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al
momento della presentazione della domanda.
---------------
La giurisprudenza ha ormai chiarito che la sanatoria giurisprudenziale,
secondo cui sarebbe sufficiente la conformità alla disciplina urbanistica
vigente al momento della presentazione della domanda, deve considerarsi
normativamente superata e recessiva rispetto al chiaro disposto normativo e
ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva trasformazione del
territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in
presenza dei presupposti della doppia conformità espressamente delineati
dall'art. 36, e 37, comma 4, del DPR 06.06.2001, n. 380.
---------------
Con il primo motivo la ricorrente sostiene che il Comune avrebbe
dovuto applicare la sanzione per abuso formale di cui all’art. 37, comma 4,
del DPR 06.06.2001, n. 380, e non per l’abuso consistito nella realizzazione
di lavori consistenti in opere di manutenzione straordinaria eseguiti senza
la presentazione della segnalazione di inizio attività.
La censura non può essere accolta, perché gli interventi edilizi
abusivamente realizzati funzionali alla modifica della destinazione d’uso
erano stati eseguiti prima della deliberazione del Consiglio comunale
necessaria al rilascio del titolo edilizio e alla modifica di destinazione
d’uso, senza che fosse stata presentata alcuna segnalazione di inizio
attività.
Ne consegue che correttamente il Comune ha ascritto l’abuso alla categoria
di cui all’art. 37, comma 1, che riguarda gli interventi eseguiti in assenza
della presentazione di una segnalazione di inizio attività non conformi alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione
dell’intervento, posto che la fattispecie di cui al comma 4 riguarda invece
gli interventi conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia
al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della
presentazione della domanda.
La tesi della ricorrente secondo cui dovrebbe essere applicata la sanzione
di cui all’art. 37, comma 4, perché l’intervento deve considerarsi conforme
allo strumento urbanistico vigente al momento della presentazione della
domanda non può essere accolta.
Infatti sul punto va osservato che la giurisprudenza (ex pluribus cfr.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 11.09.2018, n. 5319; id, 24.04.2018, n. 2496;
id 20.02.2018, n. 1087) ha ormai chiarito che la sanatoria
giurisprudenziale, secondo cui sarebbe sufficiente la conformità alla
disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda,
deve considerarsi normativamente superata e recessiva rispetto al chiaro
disposto normativo e ai principi connessi al perseguimento dell'abusiva
trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è
ottenibile soltanto in presenza dei presupposti della doppia conformità
espressamente delineati dall'art. 36, e 37, comma 4, del DPR 06.06.2001, n.
380.
La censura con la quale la ricorrente sostiene che avrebbe dovuto essere
applicata la sanzione di cui all’art. 37, comma 4, in luogo di quella di cui
all’art. 37, comma 1, deve pertanto essere respinta.
Dalla documentazione versata in atti emerge tuttavia un evidente difetto di
istruttoria e di motivazione perché, come dedotto dalla parte ricorrente,
non è chiaro da quali fonti il Comune abbia tratto il dato di un valore
unitario di € 2.800 al mq come valore finale, e risulta illogico e
contraddittorio che un medesimo abuso edilizio venga qualificato dal Comune
come ascrivibile alle fattispecie di cui agli artt. 37, comma 1, relativo ad
interventi assoggettati alla presentazione di una segnalazione di inizio
attività non conforme agli strumenti urbanistici e 36 relativo ad interventi
assoggettati al rilascio di un permesso di costruire e conformi agli
strumenti urbanistici, così come si rivelano parimenti fondate le censure di
cui al secondo motivo del ricorso introduttivo, così come integrate
dalle ulteriori deduzioni proposte con i motivi aggiunti seguiti alla
produzione documentale del Comune, con il quale la ricorrente contesta il
calcolo del valore dell’immobile prima e dopo l’abuso edilizio commesso.
Infatti, come dedotto nel ricorso, deve ritenersi illegittima
l'indiscriminata ed immotivata applicazione del valore massimo, così come
applicata dal Comune in base alla deliberazione della Giunta Comunale n. 55
dell'11.03.2009 (cfr. Tar Toscana, Sez. III, 23.07.2012, n. 1351), e di ciò
dovrà tener conto il Comune in sede di riedizione dell’attività
amministrativa; e dovrà altresì considerare che se effettivamente, come
dedotto dal ricorrente nella relazione tecnica depositata in giudizio il
20.12.2018, che sul punto non ha ricevuto repliche da parte del Comune,
fosse dimostrato un incremento di valore dell’immobile perché il valore
unitario a metro quadro degli immobili destinati a grandi magazzini (con
destinazione commerciale) è maggiore di quelli destinati a banca (con
destinazione terziaria), non dovrà tenersi conto dello stesso e dovrà essere
applicata la sanzione in misura minima (cfr. Tar Friuli Venezia Giulia, Sez.
I, 10.10.2013, n. 458)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 17.12.2019 n. 1376 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non è condivisibile l’assunto secondo cui
l’amministrazione comunale non disporrebbe del potere di inibire l’intervento
comunicato con CILA nel caso in cui esso rientri tra quelli previsti
dall’art. 6-bis D.P.R. 380/2001 ma risulti in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia vigente.
L’art. 6-bis, infatti, nel far “salve le
prescrizioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente”, non esclude l’assoggettabilità
dell’intervento al generale potere di vigilanza posto in capo al Comune
dall’art. 27 DPR 380/2001, mentre la sanzione pecuniaria è prevista solo nel
caso in cui l’unica violazione riscontrata sia la mancata comunicazione di
inizio lavori.
La CILA, infatti, è un istituto di semplificazione che -a
differenza di quanto si prevede per la SCIA e il permesso di costruire-
esclude l’assoggettamento degli interventi che ne costituiscono oggetto al
controllo sistematico da parte dell’amministrazione, ma non deroga al
potere-dovere del Comune di vigilare sul rispetto della normativa urbanistico-edilizia e di inibirne le violazioni.
Nel caso in cui
l’amministrazione rilevi, autonomamente o perché sollecitata da terzi, che
l’attività oggetto di CILA è in contrasto con la disciplina
urbanistico-edilizia ha il dovere di porre in essere i provvedimenti
inibitori previsti nell’ambito della propria attività di vigilanza.
---------------
FATTO
La società Fi.It. s.r.l. il 23.12.2016 ha concesso in
locazione alla società Va.Im. s.r.l. (che, a sua volta l’ha
concessa in sublocazione a Va. s.r.l.) un capannone industriale
collocato in zona D5 “zona per attività produttive di riqualificazione
urbana” del Comune di Lozzo Atesino.
Prima che l’immobile fosse locato, la Fi. vi svolgeva attività di
stampaggio, molto rumorosa, cessata nel 2013. Afferma il ricorrente che, in
ragione del disturbo che tale attività provocava agli abitanti della zona,
il capannone è stato individuato dallo strumento urbanistico comunale tra
quelli ove si svolge un’“attività produttiva da trasferire”, la cui
disciplina è dettata dall’art. 1.6 delle n.t.o.
La società Va. ha affittato il capannone per utilizzarlo come a
magazzino a servizio dell’attività conserviera svolta da altra società
appartenente al medesimo gruppo, il cui stabilimento si trova a poca
distanza.
Per realizzare tale destinazione, la Va.Im. ha presentato,
l’11.01.2017, una CILA per modificare la destinazione d’uso e ripartire
diversamente gli spazi interni.
Il 16.01.2017 il Comune ha inviato alla società una comunicazione di motivi
ostativi all’accoglimento dell’istanza, ai sensi dell’art. 10-bis, l.
241/1990 e, successivamente, dopo aver acquisito le osservazioni della
società ricorrente, il 24.02.2017, ha ordinato alla Va.Im. ed alla società Fi.It. di non svolgere l’intervento
comunicato con la c.i.l.a..
Il provvedimento inibitorio reca una duplice motivazione:
- le modifiche interne si riferiscono ad un immobile parzialmente abusivo
per cui pende un’istanza di sanatoria;
- “il riutilizzo dell’immobile per attività di magazzino contrasta con gli artt. 1.6. e 6.9 del vigente p.r.g. in quanto si configura come nuovo
insediamento dopo l’avvenuta cessazione dell’attività della società Fi.”.
In data 10.03.2017, il ricorrente, per ovviare al primo rilievo, ha
presentato una nuova CILA, con cui ha circoscritto l’ambito spaziale delle
modifiche interne in modo da lasciare fuori la parte oggetto dell’istanza di
sanatoria.
Il Comune ha adottato l’ordinanza n. 17 del 30.05.2017, recante l’ordine
di non effettuare l’intervento oggetto della C.I.L.A. presentata dalla
società Fi.It. s.r.l. in data 10.03.2017 per le stesse ragioni
sottese all’analogo provvedimento relativo alla CILA del 11.01.2017.
Anche questa ordinanza è impugnata, con motivi aggiunti identici a quelli
formulati con il ricorso originario.
Si è costituito il Comune di Lozzo Atesino, controdeducendo nel merito.
All’udienza del 18.07.2019 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Le censure contenute nel ricorso originario e nel ricorso per motivi
aggiunti, benché riferiti a provvedimenti diversi, appaiono in parte
sovrapponibili e possono, pertanto, essere trattate congiuntamente, salvi i
diversi effetti che ne derivano in relazione ai singoli provvedimenti
impugnati.
2. Il primo motivo del ricorso originario, identico al primo mezzo del
ricorso per motivi aggiunti, lamenta l’illegittimità del provvedimento
inibitorio adottato dall’Amministrazione, perché perplesso:
- non individuando il fondamento normativo del potere esercitato;
- non essendo riconducibile ai poteri di cui l’amministrazione dispone a
fronte di un intervento soggetto al regime della CILA (solo sanzionatorio e
non inibitorio);
- non essendo riconducibile a quelli relativi agli interventi soggetti a
SCIA, mancando le valutazioni relative alla sussistenza dei presupposti di
cui all’art. 21-nonies;
- non essendo riconducibile a quelli relativi all’art. 31 DPR 380/2001,
essendo gli interventi non soggetti a permesso di costruire.
Le censure non sono fondate.
Non è condivisibile l’assunto secondo cui
l’amministrazione non disporrebbe del potere di inibire l’intervento
comunicato con CILA nel caso in cui esso rientri tra quelli previsti
dall’art. 6-bis D.P.R. 380/2001, ma risulti in contrasto con la disciplina
urbanistico-edilizia vigente.
L’art. 6-bis, infatti, nel far “salve le
prescrizioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente”, non esclude l’assoggettabilità
dell’intervento al generale potere di vigilanza posto in capo al Comune
dall’art. 27 DPR 380/2001, mentre la sanzione pecuniaria è prevista solo nel
caso in cui l’unica violazione riscontrata sia la mancata comunicazione di
inizio lavori.
La CILA, infatti, è un istituto di semplificazione che -a
differenza di quanto si prevede per la SCIA e il permesso di costruire-
esclude l’assoggettamento degli interventi che ne costituiscono oggetto al
controllo sistematico da parte dell’amministrazione, ma non deroga al
potere-dovere del Comune di vigilare sul rispetto della normativa urbanistico-edilizia e di inibirne le violazioni.
Nel caso in cui
l’amministrazione rilevi, autonomamente o perché sollecitata da terzi, che
l’attività oggetto di CILA è in contrasto con la disciplina
urbanistico-edilizia ha il dovere di porre in essere i provvedimenti
inibitori previsti nell’ambito della propria attività di vigilanza (TAR
Calabria 29/11/2018 n. 2052, TAR Catania 16/07/2018 n. 1497)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 16.12.2019 n. 1368 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il prevalente orientamento, formatosi in particolare
con riguardo agli interventi di manutenzione di immobili abusivi per i quali
sia pendente un’istanza di condono, essi non sarebbero di regola
ammissibili, poiché gli interventi su manufatti abusivi “ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori
abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali
sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione".
Il medesimo orientamento giurisprudenziale, tuttavia, li ammette, purché
essi siano autorizzati ai sensi dell’art. 35 L. n. 47 del 1985, essendo tale
procedura preordinata sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato
dei luoghi che ad evitare “postumi (tentativi di) disconoscimenti della
circostanza che, come previsto dalla legge, l'esecuzione delle opere, pur se
autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena
consapevolezza che sebbene interventi di natura eminentemente conservativa
possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio
carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato, si
dovrà demolire anche le migliorie apportate.”.
Dai principi enucleati dalla giurisprudenza sopra riportata, pur se riferita
ad una normativa speciale, può evincersi che l’insegnamento tradizionale
alla stregua del quale non possono essere autorizzati lavori su manufatti
abusivi, ripetendo i primi le medesime caratteristiche di illiceità dei
secondi, è riconducibile ad una duplice esigenza: da un lato, evitare
l’aggravamento della complessiva difformità dell’immobile abusivo rispetto
alla disciplina urbanistico-edilizia, con conseguente approfondimento del
pregiudizio recato all’interesse all’ordinato assetto del territorio,
dall’altro, evitare che attraverso l’autorizzazione di nuove opere destinate
ad innestarsi su quelle abusive, possa ingenerarsi una situazione di
incertezza su quali siano le opere legittimamente realizzate e quali siano,
invece, da demolire.
Laddove tale duplice rischio non sussista, come nel caso in cui l’abuso sia
limitato ad una parte fisicamente individuabile del bene e le opere di
manutenzione concernano una parte strutturalmente estranea a quella abusiva,
l’intervento di manutenzione non può ritenersi per ciò solo illegittimo.
Una differente soluzione -che impedisse sempre e comunque interventi di
manutenzione su un immobile solo perché in parte abusivo– introdurrebbe una
limitazione non prevista dalla legge alle facoltà di godimento del bene
oggetto del diritto di proprietà, estesa anche alla parte non abusiva e che
sarebbe ingiustificata ove le opere siano preordinate all’utilizzo del bene
secondo una destinazione legittima.
S’introdurrebbe, in altre parole, uno statuto peculiare del bene anche in
parte abusivo che –oltre alle facoltà di disposizione, espressamente escluse
dalla Legge– limiterebbe anche quelle di mero godimento.
---------------
3. La disamina del secondo motivo del ricorso introduttivo e del secondo
mezzo del ricorso per motivi aggiunti impone di affrontare la questione
relativa all’ammissibilità di interventi di manutenzione su immobili
parzialmente abusivi che siano fatti oggetto di istanza di sanatoria.
Secondo il prevalente orientamento in materia, formatosi, in particolare,
con riguardo agli interventi di manutenzione di immobili abusivi per i quali
sia pendente un’istanza di condono, essi non sarebbero di regola
ammissibili, poiché gli interventi su manufatti abusivi “ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori
abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali
sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione” (cfr. ex multis TAR sez. VII -
Napoli, 27/09/2018, n. 5656, TAR sez. VI - Napoli, 20/02/2017, n. 1009
TAR sez. VII - Napoli, 24/12/2018, n. 7322).
Il medesimo orientamento giurisprudenziale, tuttavia, li ammette, purché
essi siano autorizzati ai sensi dell’art. 35 L. n. 47 del 1985, essendo tale
procedura preordinata sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato
dei luoghi che ad evitare “postumi (tentativi di) disconoscimenti della
circostanza che, come previsto dalla legge, l'esecuzione delle opere, pur se
autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena
consapevolezza che sebbene interventi di natura eminentemente conservativa
possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio
carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato, si
dovrà demolire anche le migliorie apportate.”.
Dai principi enucleati dalla giurisprudenza sopra riportata, pur se riferita
ad una normativa speciale, può evincersi che l’insegnamento tradizionale
alla stregua del quale non possono essere autorizzati lavori su manufatti
abusivi, ripetendo i primi le medesime caratteristiche di illiceità dei
secondi, è riconducibile ad una duplice esigenza: da un lato, evitare
l’aggravamento della complessiva difformità dell’immobile abusivo rispetto
alla disciplina urbanistico-edilizia, con conseguente approfondimento del
pregiudizio recato all’interesse all’ordinato assetto del territorio,
dall’altro, evitare che attraverso l’autorizzazione di nuove opere destinate
ad innestarsi su quelle abusive, possa ingenerarsi una situazione di
incertezza su quali siano le opere legittimamente realizzate e quali siano,
invece, da demolire.
Laddove tale duplice rischio non sussista, come nel caso in cui l’abuso sia
limitato ad una parte fisicamente individuabile del bene e le opere di
manutenzione concernano una parte strutturalmente estranea a quella abusiva,
l’intervento di manutenzione non può ritenersi per ciò solo illegittimo.
Una differente soluzione -che impedisse sempre e comunque interventi di
manutenzione su un immobile solo perché in parte abusivo– introdurrebbe una
limitazione non prevista dalla legge alle facoltà di godimento del bene
oggetto del diritto di proprietà, estesa anche alla parte non abusiva e che
sarebbe ingiustificata ove le opere siano preordinate all’utilizzo del bene
secondo una destinazione legittima.
S’introdurrebbe, in altre parole, uno statuto peculiare del bene anche in
parte abusivo che –oltre alle facoltà di disposizione, espressamente escluse
dalla Legge– limiterebbe anche quelle di mero godimento
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 16.12.2019 n. 1368 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI FORNITURE: Campione
privo del marchio CE.
La necessità di
garantire la concorrenza impone alle
stazioni appaltanti di non escludere tutte
quelle offerte che hanno ad oggetto prodotti
con caratteristiche tali da soddisfare le
specifiche tecniche richieste.
Ai sensi delle disposizioni di cui all’art.
68 del d.lgs. 50/2016, il riferimento negli
atti di gara a specifiche certificazioni
tecniche non consente alla stazione
appaltante di escludere un concorrente
respingendo un’offerta se questa possiede
una certificazione equivalente e se il
concorrente dimostra che il prodotto offerto
ha caratteristiche tecniche perfettamente
corrispondenti allo specifico standard
richiesto.
Dato tale principio risulterebbe abnorme far
discendere l’esclusione dell’offerta dal
fatto che, incontestato che il prodotto
offerto possiede tutte le caratteristiche
richieste (e dichiarate nell’offerta),
quello fornito per la “verifica in vivo”
risulti privo esclusivamente del marchio CE,
di cui la ditta concorrente garantisce la
presenza nel prodotto che sarà fornito
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.12.2019 n. 1055 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Configurabilità del reato di gestione abusiva di
rifiuti – Natura non occasionale del trasporto – Elementi
significativi – Condotta integrante il reato ex art. 256
T.U.A. – Natura di reato istantaneo – Artt. 256 e 318-bis
d.lgs. 152/2006 – Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato
di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, la condotta
in esso sanzionata è riferibile a chiunque svolga, in
assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività
rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli
208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto,
anche di fatto o in modo secondario o consequenziale
all’esercizio di una attività primaria diversa, che
richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi
indicati e che non sia caratterizzata da assoluta
occasionalità.
Occasionalità, da escludersi in ragione dell’esistenza di
una minima organizzazione dell’attività, del quantitativo
dei rifiuti gestiti, della predisposizione di un veicolo
adeguato e funzionale al loro trasporto, dello svolgimento
in più occasioni delle operazioni preliminari di raccolta,
raggruppamento e cernita dei soli metalli, della successiva
vendita e del fine di profitto perseguito dall’imputato
(Sez. 3, n. 5716 del 07/01/2016, P.M. in proc. lsoardi).
Inoltre, nel caso dell’art. 256, comma 1,
d.lgs. 152/2006, trattandosi di reato istantaneo, è
sufficiente anche una sola condotta integrante una delle
ipotesi alternative previste dalla norma, potendosi tuttavia
escludere l’occasionalità della condotta da dati
significativi, quali l’ingente quantità di rifiuti,
denotanti lo svolgimento di un’attività implicante un
“minimum” di organizzazione necessaria alla preliminare
raccolta e cernita dei materiali
(Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016, P.M. in proc. Revello).
Sicché, oltre agli elementi significativi
precedentemente indicati per individuare la natura non
occasionale dell’attività di trasporto, vanno considerati,
anche alternativamente, altri dati univocamente sintomatici,
quali, ad esempio, la provenienza del rifiuto da una
determinata attività imprenditoriale esercitata da colui che
effettua o dispone l’abusiva gestione, la eterogeneità dei
rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del
rifiuto quando risultino indicative di precedenti attività
preliminari, quali prelievo, raggruppamento, cernita,
deposito (Sez. 3,
n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).
...
RIFIUTI – Illecita gestione – Trasporto non autorizzato di
rifiuti – Sentenza di condanna – Confisca obbligatoria del
mezzo.
Il trasporto di rifiuti rientra tra le
attività di gestione, come espressamente previsto dall’art.
183, lett. n), d.lgs. 1526 e la sua effettuazione in assenza
di valido titolo abilitativo configura un’ipotesi di
illecita gestione, sanzionata dall’art. 256 d.lgs. 152/2006.
Sicché, alla sentenza di condanna per tale reato (o a quella
emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.) consegue,
come stabilito dall’art. 259, ultimo comma, d.lgs. 152/2006,
la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto.
...
RIFIUTI – Art. 318-bis e applicabilità della speciale
procedura estintiva – Effetti – Requisito della
insussistenza del danno o pericolo concreto – Procedibilità
dell’azione penale.
L’art. 318-bis, limita l’applicazione
della procedura alle ipotesi contravvenzionali in materia
ambientale previste dal d.lgs. 152/2006 che non abbiano
cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle
risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette.
Si tratta, dunque, di casi di minore rilievo.
Tale procedura non è affatto obbligatoria, sicché, la
disciplina di cui agli artt. 318-bis e ss. d.lgs. 152/2006
trova, inoltre, un ulteriore limite nella condizione,
espressamente imposta, della insussistenza del danno o
pericolo concreto, ribadendo che gli art. 318-bis e ss.
d.lgs. 152/2006 non stabiliscono che l’organo di vigilanza o
la polizia giudiziaria impartiscano obbligatoriamente una
prescrizione per consentire al contravventore l’estinzione
del reato e l’eventuale mancato espletamento della procedura
di estinzione non comporta l’improcedibilità dell’azione
penale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.12.2019 n. 49718 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Gli
strumenti di pianificazione comunale non possono essere utilizzati per
limitare la libertà di culto.
La Corte costituzionale dichiara incostituzionali le disposizioni della
legge regionale della Lombardia che subordinano, da un lato, la
realizzazione di edifici di culto alla previa approvazione di specifici
strumenti di piano (PAR: piano per le attrezzature religiose); dall’altro
lato, la approvazione del medesimo PAR alla contestuale approvazione del
piano urbanistico generale di livello comunale.
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Regione – Lombardia – Edifici di culto – Localizzazione e dimensionamento
– Piano comunale delle attrezzature religiose – Necessità – Funzione di
pianificazione urbanistica comunale – Limiti – Incostituzionalità.
La Corte costituzionale, con riguardo alle questioni
sollevate –per violazione degli artt. 2, 3 e 19 Cost.– in merito
all’articolo 72, commi 1, 2 e 5, della legge regionale della Lombardia
11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate
dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 03.02.2015, n. 2,
dichiara:
inammissibile la questione relativa al comma 1, secondo cui la
possibilità di edificare luoghi di culto è limitata alle sole zone ed aree a
ciò specificamente dedicate dal piano per le attrezzature religiose (PAR);
fondata la questione relativa al comma 2, il quale afferma
l’impossibilità di edificare luoghi di culto in assenza di PAR;
fondata la questione relativa al comma 5 ove si afferma che,
decorsi 18 mesi dalla entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015,
il piano per le attrezzature religiose (PAR) può essere adottato solo
unitamente ad un nuovo piano regolatore comunale oppure ad una specifica
variante di quest’ultimo (1).
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(1) I. – Con la
sentenza in rassegna la Corte costituzionale dichiara illegittime le
disposizioni di cui all’art. 72, commi 2 e 5, l.r. Lombardia 11.03.2005, n.
12 (“Legge per il governo del territorio”), come modificata sul punto
dalla l.r. 03.02.2015, n. 2.
Tali disposizioni prevedono in particolare che: gli edifici di culto possono
essere realizzati soltanto in presenza di uno specifico piano di settore
(piano per le attrezzature religiose, PAR); quest’ultimo strumento di piano
può essere adottato, una volta trascorsi 18 mesi dalla entrata in vigore
della citata legge regionale del 2015, soltanto contestualmente allo
strumento urbanistico generale del comune.
Una simile disposizione, secondo la Corte, si pone in contrasto con le norme
costituzionali in tema di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di libertà religiosa
(art. 19 Cost.).
II. – La sottesa vicenda normativa e processuale può essere così
sintetizzata:
a) due associazioni culturali, entrambe aventi ad
oggetto il mantenimento e la valorizzazione delle tradizioni culturali
islamiche, chiedevano di poter realizzare, nel territorio di due comuni
lombardi, alcuni complessi immobiliari destinati ad attività di culto. Nel
primo caso, il comune interessato rigettava la suddetta richiesta a causa
della mancata approvazione, secondo quanto previsto dalla normativa
regionale in materia, del piano per le attività religiose (PAR). Nel secondo
caso, il comune interpellato faceva presente che il PAR non poteva essere
approvato in assenza di un nuovo piano regolatore o di una sua variante;
b) tali dinieghi formavano oggetto di ricorso davanti al Tar per la
Lombardia che, con
sentenza non definitiva 03.08.2018, n. 1939 (oggetto della
News US, in data 15.10.2018) e
sentenza non definitiva 08.10.2018, n. 2227 (oggetto della
News US, in data 15.10.2018, ed alle quali News si rinvia per
ogni ulteriore approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), sollevava
q.l.c. del menzionato articolo 72, commi 1, 2 e 5, per contrasto con gli
articoli 2, 3 e 19 della Costituzione;
c) le disposizioni di cui sopra prevedevano, più in particolare:
c1) la possibilità di edificare luoghi di culto soltanto nelle zone e nelle
aree a ciò specificamente dedicate dal piano per le attrezzature religiose,
c.d. PAR (art. 72, comma 1);
c2) l’impossibilità di edificare luoghi di culto in assenza di PAR (art. 72,
comma 2);
c3) decorsi 18 mesi dalla entrata in vigore della legge, la possibilità di
adottare il piano per le attrezzature religiose (PAR) solo contestualmente
ad un nuovo piano regolatore comunale oppure ad una specifica variante di
quest’ultimo (art. 72, comma 5);
III. – Questi gli esiti del giudizio davanti alla Corte costituzionale:
d) la questione relativa al comma 1 è stata innanzitutto dichiarata
inammissibile atteso che alcun piano per le attrezzature religiose (PAR) è
stato approvato nei due casi rispettivamente prospettati;
e) la questione relativa al comma 2 (impossibilità di edificare luoghi di
culto in assenza di PAR) è stata invece ritenuta fondata per le ragioni di
seguito sintetizzate:
e1) la libertà religiosa, specificamente garantita dall’art. 19 Cost., è un
diritto inviolabile con valenza sia positiva (le amministrazioni competenti
debbono mettere a disposizione adeguati spazi pubblici per le relative
attività religiose) sia negativa (le stesse autorità non debbono frapporre
ingiustificati ostacoli all’esercizio del culto stesso);
e2) la tutela di una simile libertà non può dipendere dalla consistenza
sociale e dalla entità della presenza sul territorio dei soggetti
interessati all’esercizio del culto;
e3) in questa stessa direzione, sono state a loro tempo dichiarate
incostituzionali talune norme che prevedevano determinati vantaggi (id
est: benefici economici) soltanto in favore di quelle confessioni
religiose che avevano stipulato intese con lo Stato italiano ai sensi
dell’art. 8, terzo comma, Cost. Parimenti incostituzionali sono state
dichiarate quelle norme che prevedevano determinati oneri (es.
videosorveglianza negli edifici di culto) soltanto a carico di confessioni
che non avevano stipulato simili intese;
e4) le regioni possono dunque sì intervenire, in tema di edilizia di culto,
ma a condizione di disciplinare soltanto aspetti legati al governo del
territorio e senza in alcun modo compromettere o addirittura ostacolare la
libertà di religione;
e5) tanto premesso il predetto comma 2 è stato pertanto ritenuto
costituzionalmente illegittimo dal momento che:
il
carattere assoluto di una simile previsione (impossibilità di realizzare
qualsivoglia attrezzatura religiosa in assenza di PAR) impedisce di
distinguere i singoli interventi in funzione della loro dimensione e del
loro impatto sul carico urbanistico (piccole sale di preghiera privata sono
infatti considerate alla stessa stregua di una moschea di notevoli
proporzioni);
si crea un
ingiustificato regime differenziato tra attrezzature religiose (soggette a
PAR) ed altri impianti di interesse generale (es. scuole, ospedali,
palestre, etc.) i quali non sono sottoposti alle stesse limitazioni di
carattere pianificatorio;
f) anche il comma 5 (con cui si afferma che, decorsi 18 mesi dalla entrata
in vigore della legge regionale in esame, il piano per le attrezzature
religiose può essere adottato soltanto unitamente ad un nuovo piano
regolatore generale oppure ad una sua variante) è stato reputato
costituzionalmente illegittimo dal momento che:
f1) gli strumenti urbanistici in generale (piano regolatore o sue varianti)
sono riservate al potere ampiamente discrezionale della amministrazione
comunale sia per quanto riguarda l’an, sia per quanto attiene al
quando;
f2) ciò vorrebbe dire che la approvazione del PAR sarebbe conseguentemente
ancorata ad una tempistica del tutto incerta ed aleatoria;
f3) di qui un ulteriore profilo di forte compressione della libertà
religiosa, di cui all’art. 19 Cost., che potrebbe in questo modo essere non
solo ostacolata ma persino negata.
IV. – Si segnala per completezza quanto segue:
g) sul principio di laicità dello Stato si veda, tra le altre:
g1) Corte cost. 20.11.2000, n. 508 (in Foro it., 2002, I, 985; Critica del
diritto, 2000, 531, con nota di D’AMATO; Quaderni dir. e politica
ecclesiastica, 2002, 1141, con note di CASUSCELLI e IANNACCONE), che ha
dichiarato incostituzionale l’art. 402 c.p. nella parte in cui prevedeva il
reato di vilipendio della religione dello Stato;
g2) Corte cost. 14.11.1997, n. 329 (in Foro it., 1998, I, 26, con nota di
FIANDACA; Giur. it., 1998, 987, con nota di FONTANA; Giur. costit., 1997,
3335, con nota di RIMOLI; Dir. eccles., 1998, II, 3, con nota di PALOMBO;
Cass. pen., 1998, 1575, con nota di CHIZZONITI), che ha dichiarato
incostituzionale l’art. 404, primo comma, c.p., nella parte in cui prevedeva
la pena della reclusione da uno a tre anni, anziché la pena diminuita
prevista dall’art. 406 c.p.;
g3) Corte cost., 08.10.1996, n. 334 (in Cons. Stato, 1996, II, 1641; Arch.
civ., 1996, 1241; Nuovo dir., 1996, 971, con nota di SFORZA e NUNZIATA; Foro
it., 1997, I, 25, con nota di VERDE), secondo cui: “Gli art. 2, 3 e 19
cost. garantiscono come diritto la libertà di coscienza in relazione
all'esperienza religiosa, diritto rappresentante, sotto il profilo
giuridico-costituzionale, un aspetto della dignità della persona umana,
riconosciuta e dichiarata inviolabile dall'art. 2, e spettante ugualmente ai
credenti e ai non credenti, con la conseguenza, valida per gli uni e per gli
altri, tenuto conto del connesso principio di laicità o non confessionalità
dello stato, che in nessun caso il compimento di atti appartenenti alla
sfera della religione può essere oggetto di prescrizioni obbligatorie
derivanti dall'ordinamento giuridico, anche come mezzi a fini statali,
indipendentemente dall'irrilevante circostanza che il loro contenuto sia
conforme, estraneo o contrastante rispetto alla coscienza religiosa
individuale; pertanto, sono incostituzionali, rispetto ai suddetti
parametri, sia l'art. 238, 2º comma, c.p.c., nella parte in cui la formula
del giuramento decisorio deferito da una delle parti all'altra indica la
consapevolezza che l'assunzione della responsabilità affrontata avviene
«davanti a Dio», sia, ai sensi dell'art. 27 d.p.r. 11.03.1953 n. 87, l'art.
238, 1º comma, stesso codice, nella parte in cui stabilisce che il giudice
deve ammonire il giurante sull'importanza anche «religiosa» del giuramento,
risultandone un inammissibile collegamento fra l'obbligo religioso, con il
vincolo nel relativo ambito, da un lato, ed il fine probatorio proprio
dell'ordinamento processuale statale, dall'altro”.
La Corte ha inoltre affermato che: “Pur essendo venuto meno un contesto
culturale unitario che attribuisca al giuramento un condiviso significato
religioso e pur scontando il connesso affievolimento del valore relativo,
l'ordinamento, allorché i cittadini siano chiamati a svolgere funzioni di
particolare rilievo collettivo, può continuare ad utilizzare il giuramento,
per il mantenersi di un suo significato etico-individuale (che aggiunge un
sovrappiù di gravità e negatività dello spergiuro, rispetto al mancamento di
una semplice promessa), in riferimento al suo collegamento con i valori da
ciascuno considerati, nel profondo della coscienza, come più impegnativi e
degni di osservanza; ma proprio in questa ottica, esaltante il contenuto
della libertà individuale di coscienza, la dichiarazione di
incostituzionalità del giuramento deferito da una parte all'altra a norma
dell'art. 238 c.p.c., nella parte in cui si riferisce alla responsabilità
che si assume «davanti a Dio» deve estendersi anche al rinvio alla
responsabilità «davanti agli uomini», nella duplice considerazione che la
mancata eliminazione di detto richiamo potrebbe sancire il riconoscimento di
una «religione dell'umanità» e che la conservazione di un solo valore
potrebbe implicitamente escludere ogni altro, con violazione della libertà
di coscienza di quei cittadini credenti, per i quali, del tutto
legittimamente, il giuramento ha un significato religioso”;
g4) Corte cost., 18.10.1995, n. 440 (in Cons. Stato, 1995, II, 1714; Ammin.
it., 1995, 1811; Foro it., 1996, I, 30, con nota di COLAIANNI), secondo cui:
“L'art. 724, 1º comma, c.p., nella parte in cui punisce la bestemmia
contro i simboli o le persone venerati nella religione cattolica, già
religione di stato (e fermo il divieto penale della bestemmia contro la
divinità in genere), viola gli art. 3 e 8 cost., in quanto contrastante con
il principio di generalità di tutela del sentimento religioso, bene comune a
tutte le fedi presenti nella comunità nazionale e rispetto al quale è
irrilevante il criterio del numero degli osservanti”;
g5) Corte cost., 12.04.1989, n. 203 (in Foro it., 1989, I, 1333, con nota di
COLAIANNI; Arch. civ., 1989, 471; Corriere giur., 1989, 639, con nota di
FERRARI; Ammin. it., 1989, 1035; Cons. Stato, 1989, II, 537; Giust. civ.,
1989, I, 1277; Riv. giur. scuola, 1989, 405; Riv. amm., 1989, 945; Nomos,
1989, fasc. 1, 185; Vita not., 1988, 1108), secondo cui: “È infondata,
nei sensi di cui in motivazione (ove si rileva che l’insegnamento della
religione cattolica è facoltativo e per quanti decidano di non avvalersene
l’alternativa è uno stato di non-obbligo), la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, n. 2, l. 25.03.1985 n. 121 e del punto 5, lett.
b, n. 2, del protocollo addizionale, in riferimento agli art. 2, 3 e 19
Cost.”;
h) sulla competenza regionale in materia di edilizia di culto si veda:
h1) Corte cost., 07.04.2017, n.
67 (in Foro it., 2017, I, 1451; Giur. costit., 2017, 662, con nota di RIMOLI),
secondo cui:
“è
incostituzionale l'art. 2 l.reg. Veneto 12.04.2016 n. 12, nella parte in
cui, nell'introdurre nella l.reg. 23.04.2004 n. 11 l'art. 31-ter, al suo 3º
comma, dispone che nella convenzione può essere previsto l'impegno ad
utilizzare la lingua italiana per tutte le attività, svolte nelle
attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano
strettamente connesse alle pratiche rituali di culto”.
La Corte dichiara dunque incostituzionale la norma regionale per la parte in
cui prevede la possibilità di impegnare le autorità a richiedere l’utilizzo
della lingua italiana per le attività svolte nelle attrezzature di interesse
comune per servizi religiosi. Il giudice costituzionale rileva infatti come
la legislazione regionale in materia di edilizia di culto trovi la sua
ragione nella esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico
dei centri abitativi, per cui risulta «palesemente irragionevole», in
quanto incongruo e «del tutto eccentrico» rispetto alla finalità perseguita,
il prescritto impegno ad utilizzare la lingua italiana;
“è infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 2 l.reg. Veneto 12.04.2016 n. 12, nella
parte in cui introduce nella l.reg. 23.04.2004 n. 11 l'art. 31-bis, che
riconosce alla regione ed ai comuni veneti, ciascuno nell'esercizio delle
rispettive competenze, il compito di individuare i criteri e le modalità per
la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi
da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia
di culto della chiesa cattolica, delle confessioni religiose, i cui rapporti
con lo stato siano disciplinati ai sensi dell'art. 8, 3º comma, cost. e
delle altre confessioni religiose, in riferimento agli art. 3, 8 e 19 cost.”.
La Corte esclude il contrasto con il principio di laicità dello Stato e con
il divieto di discriminazione fra le diverse confessioni religiose
attraverso una lettura «costituzionalmente conforme» della normativa
regionale impugnata, rilevando come eventuali illegittime applicazioni della
normativa, non discendenti immediatamente dal testo della legge, potranno
essere censurate, caso per caso, nelle opportune sedi giurisdizionali;
h2) Corte cost., 24.03.2016, n. 63 (in Foro it., 2017, I, 1451; Regioni,
2016, 598, con nota di GUAZZAROTTI; Giur. it., 2016, 1070, con nota di TUCCI;
Riv. neldiritto, 2016, 780, con nota di SANSONE; Giur. costit., 2016, 616,
con note di RIMOLI, CROCE), secondo cui, tra l’altro:
“è incostituzionale l'art. 70, comma 2-bis, lett. a) e b), e 2-quater,
l.reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12, introdotto dall'art. 1, 1º comma, lett.
b), l.reg. Lombardia 3 febbraio 2015 n. 2, nella parte in cui, per la
realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi
religiosi, distingue tre ordini di destinatari e stabilisce specifici
requisiti per le confessioni «senza intesa», la cui valutazione è
obbligatoriamente rimessa al vaglio preventivo, ancorché non vincolante, di
una consulta regionale, da istituirsi e nominarsi con provvedimento della
giunta regionale”;
“è incostituzionale l’art. 72, 4° e 7° comma, lett. e), l. reg.
Lombardia 11.03.2005 n. 12, introdotto dall’art. 1, 1° comma, lett. c),
l.reg. Lombardia 03.02.2015 n. 2, nella parte in cui prevede che, nel corso
del procedimento per la predisposizione del «piano delle attrezzature
religiose», vengano acquisiti i pareri di organizzazioni, comitati di
cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine, oltre agli
uffici provinciali di questura e prefettura, al fine di valutare possibili
profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali,
nonché, per ciascun edificio di culto, la realizzazione di un impianto di
videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti,
che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della
polizia locale o forze dell’ordine”;
“è infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 70, 2º comma ter, ultimo periodo,
l.reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12, introdotto dall'art. 1, 1º comma, lett.
b), l.reg. Lombardia 03.02.2015 n. 2, nella parte in cui prevede che gli
enti delle confessioni religiose diverse dalla chiesa cattolica devono
stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato e che
tali convenzioni devono prevedere espressamente la possibilità della
risoluzione o della revoca, in caso di accertamento da parte del comune di
attività non previste nella convenzione, in riferimento all'art. 19 cost.”;
“è infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 72, 7º comma, lett. g), l.reg.
Lombardia 11.03.2005 n. 12, introdotto dall'art. 1, 1º comma, lett. c),
l.reg. Lombardia 03.02.2015 n. 2, nella parte in cui prevede che il piano
delle attrezzature religiose garantisca la congruità architettonica e
dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche generali
e peculiari del paesaggio lombardo, così come individuate nel piano
territoriale regionale (Ptr), in riferimento agli art. 3, 8 e 19 cost.”;
“è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli art. 3, 8, 19 e
117, 2º comma, lett. c), cost., l'art. 70, 2º comma bis, limitatamente alle
parole «che presentano i seguenti requisiti» e lett. a) e b), e 2º comma
quater, l.reg. Lombardia 11.03.2005 n. 12 (introdotti dall'art. 1, 1º comma,
lett. b), l.reg. 03.02.2015 n. 2), in quanto impongono alle sole confessioni
religiose non firmatarie di intese con lo stato requisiti differenziati e
più stringenti per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature
destinate a servizi religiosi”;
il principio costituzionale di laicità dello Stato in regime di pluralismo
confessionale e culturale deve essere inteso nel senso che il libero
esercizio del culto è da ritenersi aspetto essenziale della libertà di
religione e, quindi, l’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e
condizione essenziale per il pubblico esercizio del medesimo, ricade nella
garanzia dell’art. 19 Cost.;
“nella Costituzione italiana ciascun diritto fondamentale, compresa la
libertà di religione, è predicato unitamente al suo limite; sicché non v’è
dubbio che le pratiche di culto, se contrarie al ‘buon costume’, ricadano
fuori dalla garanzia costituzionale di cui all’art. 19 Cost.; né si contesta
che, qualora gli appartenenti a una confessione si organizzino in modo
incompatibile ‘con l’ordinamento giuridico italiano’, essi non possano
appellarsi alla protezione di cui all’art. 8, 2° comma, Cost. Tutti i
diritti costituzionalmente protetti sono soggetti al bilanciamento
necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli
interessi costituzionali in gioco, di modo che nessuno di essi fruisca di
una tutela assoluta e illimitata e possa, così, farsi ‘tiranno’. Tra gli
interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare
la tutela della libertà di culto —nel rigoroso rispetto dei canoni di
stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra— sono senz’altro da
annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla
pacifica convivenza”;
h3) Corte cost., 16.07.2002, n. 346 (in Foro it., 2002, I, 2935; Giur. it.,
2002, 2245, con nota di COLELLA), secondo cui: “E’ incostituzionale
l'art. 1 l.reg. Lombardia 09.05.1992 n. 20, nella parte in cui condiziona
l'erogazione dei contributi a favore delle confessioni religiose al
requisito dell'avere queste stipulato un'intesa con lo Stato, ai sensi
dell'art. 8, 3º comma, Cost.”.
Si trattava, nella specie, di contributi erogati proprio per la
realizzazione di edifici di culto. La Corte ha in particolare ribadito che
lo strumento delle intese di cui all’art. 8, 3° comma, Cost., vale per gli
aspetti che si ricollegano alla specificità delle singole confessioni o che
richiedono deroghe al diritto comune, mentre non possono divenire una
condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire delle
libertà di organizzazione e di azione, libertà garantite dall’art. 8, 1° e
2° comma, Cost., né per usufruire di norme di favore riguardanti le
confessioni religiose medesime;
h4) ancora in tema di
costruzione di edifici di culto si veda Corte cost., 27.04.1993, n. 195 (in
Foro it., 1994, I, 2986, con nota di COLAIANNI; Giur. costit., 1993, 2151
con nota di ACCIAI, DI COSIMO; Giur. it., 1994, I, 97, con nota di COLELLA;
Regioni, 1994, 276, con nota di PIVA; Nuove autonomie, 1993, fasc. 2, 106,
con nota di CORSO), che ha dichiarato incostituzionale l’art. 1 l.r. Abruzzo
16.03.1988, n. 29, nella parte in cui si limitava l’accesso ai contributi
per la realizzazione degli edifici di culto alla chiesa cattolica e alle
altre confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati
ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.;
i) sui poteri comunali urbanistici in relazione agli edifici di culto si
veda Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2019, n. 8328, che, sempre con riferimento
ad un comune lombardo, ha dichiarato illegittima la risoluzione di una
convenzione urbanistica -preordinata alla costruzione di un edificio da
adibire a Centro di cultura islamico- disposta dall’autorità comunale in
mancanza di una preventiva valutazione che abbia dato mostra di aver
bilanciato la gravità dell'inadempimento all'obbligo di pagare una certa
somma per opere di urbanizzazione con la finalità della convenzione di
garantire il libero esercizio del culto.
Il Consiglio di Stato ha, in particolare, richiamato quel dato orientamento
della Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 63 del 2016, cit.) secondo cui,
a fronte di comportamenti abnormi dei titolari di autorizzazioni edilizie
(nella specie si trattava del mancato versamento di 320 mila euro a titolo
di oneri concessori), è ammessa la possibilità di risoluzione o di revoca
della presupposta convenzione, fermo restando che deve trattarsi di rimedi
estremi da attivare soltanto in assenza di alternative meno severe;
j) più in particolare, sul divieto di discriminazione fra i differenti culti
e sul raggiungimento o meno dell’intesa con lo Stato in relazione alla
libertà di religione, si veda Corte cost. 10.03.2016, n. 52 (in Foro it.,
2016, I, 1940, con note di ROMBOLI, AMOROSO e TRAVI, e in Giur. costit.,
2016, 537, con note di CARLASSARE e CROCE), che ha ritenuto non spettare
alla Corte di cassazione affermare la sindacabilità in sede giurisdizionale
della delibera con cui il Consiglio dei ministri ha negato all’unione degli
atei e degli agnostici razionalisti l’apertura delle trattative per la
stipulazione dell’intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost.
Nel caso di specie la Corte ha in particolare ritenuto che spetta al
Consiglio dei ministri valutare l’opportunità di avviare trattative con una
determinata associazione, al fine di addivenire, in esito ad esse, alla
elaborazione bilaterale di una speciale disciplina dei reciproci rapporti.
Di tale decisione il governo può essere chiamato a rispondere politicamente
di fronte al parlamento, ma non in sede giudiziaria. Qualora l’atto
governativo, di diniego all’avvio delle trattative, contenga altresì la
negazione della qualifica di «confessione religiosa» all’associazione
richiedente, questa parte della decisione potrà invece formare oggetto di
controllo giudiziario, nelle forme processuali consentite dall’ordinamento,
allo scopo di sindacare la suddetta mancata qualificazione di «confessione
religiosa»
(Corte Costituzionale,
sentenza 05.12.2019 n. 254 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi – Esecutore materiale di opere abusive –
Responsabilità a titolo di colpa – Configurabilità – Oneri
dell’imprenditore che noleggia mezzo e manovratore –
Verifica e responsabilità della liceità dell’opera –
Configurabilità – Art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001,
Artt. 142 e 181 d.lgs. n. 42/2004.
In tema di reati edilizi, l’esecutore
dei lavori edilizi ha il dovere di controllare
preliminarmente che siano state richieste e rilasciate le
prescritte autorizzazioni, rispondendo a titolo di dolo del
reato di cui all’art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in
caso di inizio delle opere nonostante l’accertamento
negativo, e a titolo di colpa nell’ipotesi in cui tale
accertamento venga omesso
(Sez. 3, n. 16802 del 08/04/2015, Carafa e altro).
Per cui, è onere dell’imprenditore, che
noleggia mezzo e manovratore, la verifica della liceità
dell’opera che la sua organizzazione aziendale contribuirà a
realizzare, ancorché sotto le direttive del proprietario
dell’area.
Se dunque la responsabilità, a norma dell’art. 44 d.P.R. n.
380/2001, è ravvisata financo nell’operato dei meri
esecutori materiali, nell’ambito della verifica
dell’esistenza del titolo autorizzativo, a maggior ragione
non può esimersi da un’elementare attività informativa
l’imprenditore specializzato che consente l’uso di proprie
attrezzature e di proprio personale, pena l’illiceità dello
stesso rivendicato contratto stipulato.
...
Opere abusive – Noleggio dei mezzi meccanici – Operato dei
meri esecutori materiali – Responsabilità del noleggiatore –
Concorso nel reato per colpa – Verifica dei provvedimenti
abilitanti – Necessità – Natura di reati comuni – BENI
CULTURALI ED AMBIENTALI – Zona sottoposta a vincolo
paesaggistico – Ampliamento abusivo di un piazzale con
sbancamento – Fattispecie.
In materia urbanistica, e specificamente
di lavori di costruzione edilizia in assenza del relativo
permesso, gli esecutori materiali dei lavori, che prestano
la loro attività alle dipendenze del costruttore, possono
concorrere, per colpa, nella commissione dell’illecito per
il caso di mancanza del permesso di costruire, se non
adempiono all’onere di accertare l’intervenuto rilascio del
provvedimento abilitante.
Del pari, è stato così ribadito che le contravvenzioni
edilizie previste dall’art. 44, d.P.R. n. 380/2001 devono
essere qualificate come reati comuni e possono dunque essere
commesse da qualsiasi soggetto (fatta eccezione per le
condotte di inottemperanza all’ordine di sospensione dei
lavori, per quelle ascrivibili esclusivamente al direttore
dei lavori, nonché per alcune fattispecie riconducibili alla
lettera a) della norma in quanto riferibili a specifici
destinatari).
Fattispecie: conferma della condanna del noleggiatore dei
mezzi meccanici utilizzati dal costruttore per la
realizzazione dell’ampliamento abusivo di un piazzale in
zona sottoposta a vincolo paesaggistico, con sbancamento di
una porzione di versante della collina adiacente (Corte
di Cassazione,Sez. III penale,
sentenza 03.12.2019 n. 49022 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione struttura sportiva in zona agricola (campi di
calcetto e manufatto seminterrato) – Interventi su aree non
destinate ad attività sportiva senza creazione di volumetria
– Trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio –
Permesso di costruire – Necessità – Artt. 22, 23, 37, 44, 83
e 95 del dpr n. 380/2001.
In materia urbanistica, la realizzazione
di un impianto sportivo in zona agricola (come nella specie,
due campi di calcetto e manufatto seminterrato di circa 115
metri quadrati fuoriuscente dal livello stradale per circa
1,10 metri) integra la violazione dell’art. 44 lett. b),
d.P.R. 06.06.2001 n. 380, atteso che la disposizione di cui
all’art. 4, legge n. 493 del 1993 (ai sensi della quale gli
interventi su aree destinate ad attività sportiva senza
creazione di volumetria sono subordinati alla semplice
denuncia di inizio attività) trova applicazione su aree già
destinate ad attività sportive
(Sez. 3, n. 12920 del 17/02/2016; Sez. 3, n. 19521 del
04/04/2013, Cacciato; Sez. 3, n. 8414 del 14/01/2005, Forleo).
L’art. 3, lett. e.1), del p.P.R. n.
380/2001 indica tra gli interventi di nuova costruzione
anche i manufatti fuori terra ed interrati quindi, anche la
realizzazione di un immobile, in tutto o in parte interrato,
rientra tra gli interventi di trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio per i quali è necessario il permesso
di costruire, trattandosi di opere in relazione al quale
l’autorità amministrativa deve svolgere il proprio controllo
sul rispetto delle norme urbanistiche ed edilizie, anche
tecniche, finalizzato ad assicurare il regolare assetto e
sviluppo del territorio
(Sez. 3, n. 24464 del 10/05/2007) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.12.2019 n. 49021 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Legge
regionale sul piano casa e recupero dei
volumi mediante mutamento di destinazione
d’uso.
La L.R. 4/2012 non
subordina il recupero di volumi o l’utilizzo
di superfici e volumi esistenti alla
concreta esecuzione di opere edilizie.
La legislazione sul piano casa consente sia
il recupero dell’esistente (quid pluris) sia
l’ampliamento (quid novi), per cui non
appaiono sussistere ostacoli, sul piano
normativo, a che il recupero avvenga
attraverso il mutamento di destinazione, che
consente l’utilizzo di superfici un tempo
non rilevanti ai fini della slp
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.12.2019 n. 2565 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1. Et. s.p.a. chiede l’annullamento dei
provvedimenti indicati in epigrafe con i
quali il comune di Milano nega il permesso
di costruire richiesto dalla Società in data
22.10.2013 e volto al recupero per uso
terziario, ai sensi e per gli effetti della
previsione di cui all’articolo 3 della L.r.
n. 4/2012, di due distinti spazi
dell’immobile di proprietà della ricorrente,
non compresi nella s.l.p. assentita e
consistenti: a) in un loggiato posto al
piano terra di mq 22,21; b) in locali comuni
ubicati al piano 4° già destinati ad area
“fitness” con vincolo per atto notarile del
13.10.2009.
2. L’Amministrazione comunale nega il
permesso di costruire evidenziando la non
assentibilità dell’intervento in ragione
della mancata esecuzione di opere
(sostanziandosi il recupero nella mera
rimozione degli effetti derivanti dall’atto
unilaterale d’obbligo) e della non
conformità dell’immobile ai parametri
urbanistici che discenderebbe dalla
concessione del permesso richiesto.
3. La ricorrente articola due motivi di
ricorso deducendo, in primo luogo,
l’illegittimità del diniego per violazione
delle previsioni di cui agli articoli 3
della L.r. n. 4 del 2012 e 2 della L.r. n.
13 del 2009, nonché l’eccesso di potere
“nelle sue diverse figure sintomatiche”.
In
secondo luogo, la Società deduce la
contrarietà del diniego alla previsione di
cui all’articolo 20, comma 4, del D.P.R. n.
380 del 2001 e 1 della L. n. 241 del 1990.
Lamenta, inoltre, la violazione dei principi
di efficacia ed efficienza dell’attività
amministrativa e la lesione del principio di
leale collaborazione tra cittadino e
Pubblica Amministrazione.
4. Si costituisce in giudizio il comune di
Milano in data 07.11.2014 chiedendo di
dichiarare il ricorso inammissibile o,
comunque, infondato.
5. In vista dell’udienza pubblica del 27.11.2019 il comune di Milano deposita
memoria difensiva finale con la quale
evidenzia la legittimità dell’operato
dell’Ufficio. In data 06.11.2019, la
ricorrente deposita memoria di replica con
la quale insiste nei motivi di ricorso
richiamando, all’uopo, precedenti
giurisprudenziali sulle questioni
all’attenzione del Collegio.
6. All’udienza pubblica del 27.11.2019
la causa è trattenuta in decisione.
7. Il ricorso è fondato.
8. Incentrando la disamina sull’aspetto
decisivo del giudizio (come focalizzato
anche dalle memorie delle parti depositate
in vista dell’udienza di trattazione del
merito della causa), si osserva come il
Comune neghi il permesso richiesto stante il
ritenuto contrasto con “il disposto della L.R. 4/12 in quanto il recupero dei locali
fitness [è] realizzato senza alcun
intervento edilizio, previa revoca dell’atto
di destinazione già trascritto nei registri
immobiliari”.
Infatti, secondo il comune di
Milano, “il recupero della slp previsto nel
progetto non si [concretizza]
nell’esecuzione di interventi edilizi, bensì
in una semplice operazione giuridica
consistente nella revoca del precedente
vincolo di destinazione a locali fitness dei
locali posti al quarto piano dello stabile”.
In tal modo, inoltre, “la revoca dell’atto
di vincolo di superfici in tutto e per tutto
abitabili ne comporta la trasformazione in
superfici realizzate in difformità dal
titolo edilizio originario, in quanto
eccedente l’indice di edificabilità indicato
nello strumento urbanistico allora vigente”
con conseguente impossibilità di “avvalersi
delle misure incentivanti del cd. Piano Casa
in conformità al disposto dell’art. 5.3.,
lett. c), della L.r. 13/2009”.
9. Osserva il Collegio come la Sezione si
esprima in relazione ad una fattispecie
omologa a quella in esame affermando che:
“la lettura delle norme in materia (vale a
dire le già ricordate LR 13/2009 e 4/2012),
non porta a rinvenire un divieto come quello
indicato dal Comune, né la legislazione
subordina il recupero di volumi o l’utilizzo
di superfici e volumi esistenti alla
concreta esecuzione di opere edilizie.
L’interpretazione propugnata
dall’Amministrazione appare
ingiustificatamente restrittiva, a fronte
della chiara lettera della norma, che
consente in ogni modo l’utilizzo di
superfici e volumi esistenti. […] Lo
scrivente Tribunale, del resto, nella
sentenza della sezione II n. 85/2011
[ammette] che la legislazione sul piano casa
consente sia il recupero dell’esistente
(quid pluris) sia l’ampliamento (quid novi),
per cui non appaiono sussistere ostacoli,
sul piano normativo, a che il recupero
avvenga attraverso il mutamento di
destinazione, che consente l’utilizzo di
superfici un tempo non rilevanti ai fini
della slp” (TAR per la Lombardia – sede
di Milano, sez. II, 01.07.2015, n. 1512).
10. Tali principi sono condivisi dal
Collegio e sono, pertanto, applicati anche
con riferimento alla fattispecie in esame.
Ne discende l’illegittimità del
provvedimento impugnato nella parte in cui
nega il titolo edilizio richiesto ritenendo
non sussistenti i presupposti legali per
assentirlo.
11. In secondo luogo, l’Amministrazione
evidenzia come l’intervento risulterebbe
contrario alle previsioni di cui
all’articolo 5, comma 3, lettera c), della
L.r. n. 13/2009 che vieta l’applicazione
delle disposizioni “con riferimento agli
edifici realizzati in assenza di titolo o in
totale difformità, anche condonati”.
La tesi
non convince atteso che, come evidenziato
dalla Società ricorrente, “il recupero
funzionale dell’area fitness avviene con il
contestuale concorso di due elementi tra
loro conseguenziali: il primo è dato
dall’esistenza della disciplina delle leggi
regionali n. 4/2012 e 13/2009 che consentono
la trasformazione, anche senza opere, di
locali privi delle caratteristiche di fatto
e/o di diritto per essere considerati
nell’ambito della s.l.p. dell’edificio; il
secondo [è] rappresentato da quell’attività
volta a far acquisire ai predetti locali le
caratteristiche di abitabilità sul
presupposto dell’applicabilità della
disciplina sul “Piano Casa” nell’ambito
delle quali deve essere compreso il ritiro
dell’atto di vincolo quale condizione alla
piena operatività della nuova funzione”.
In
sostanza, non si tratta, quindi, di
applicare la normativa ad un abuso ma di
recuperare, per il tramite della normativa
del c.d. Piano casa, gli spazi interni
dell’edificio.
12. In definitiva il ricorso deve essere
accolto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Nozione
di bosco.
Un bosco rappresenta un
sistema vivente complesso insediato in modo
tale da essere in grado di autorigenerarsi,
così dissipando del tutto l’idea che per
bosco debba intendersi l’insieme monocultura
di alberi destinati, ad esempio, alla
produzione di legname; la nozione di bosco
non è in alcun modo riducibile a quella di
un insieme di alberi.
Del resto, una
differente nozione sarebbe non solo
incompatibile con il dato esperenziale, ma
non consentirebbe la tutela di tutti gli
altri interessi pubblici, che motivano il
divieto di antropizzazione di detti
territori; si pensi alla tutela della fauna
selvatica che evidentemente necessita per la
sua vita non solo di aree interamente
boscate, ma anche di radure
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.12.2019 n. 8242 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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6. L’appello è fondato e merita di essere
accolto. Prima di scendere nel dettaglio
dell’esame delle singole doglianze è bene,
però, chiarire la nozione di: “bosco”.
L’art. 10, comma 3, l.r. Lazio, n. 24/1998,
stabilisce che: “Si considerano boschi:
a) i terreni di superficie non inferiore a 5.000 metri quadrati
coperti da vegetazione forestale arborea e/o
arbustiva, a qualunque stadio di età, di
origine naturale o artificiale, costituente
a maturità un soprassuolo continuo con grado
di copertura delle chiome non inferiore al
50 per cento;
b) i castagneti da frutto, di superficie non inferiore a 5 mila
metri quadrati, di origine naturale o
artificiale, costituente a maturità un
soprassuolo continuo con grado di copertura
delle chiome non inferiore al 50 per cento;
c) gli appezzamenti arborati isolati di qualunque superficie,
situati ad una distanza, misurata fra i
margini più vicini, non superiore a 20 metri
dai boschi di cui alla lettera a) e con
densità di copertura delle chiome a maturità
non inferiore al 20 per cento della
superficie boscata”.
Dalla detta
definizione, come anche dall’analisi del
successivo comma 8 dello stesso articolo si
evince che la radura non è un luogo diverso
dal bosco, ben potendo essere quest’ultimo
dalla presenza di porzioni di area coperte
da alberature e porzioni di area sprovviste
delle stesse. Tanto che il citato comma 8
stabilisce che la realizzazione di
attrezzature e servizi strumentali allo
svolgimento di attività didattiche e di
promozioni dei valori
naturalistico-ambientali deve essere
localizzata nelle radure prive di
alberature.
In questo senso milita anche la normativa
nazionale. Infatti, l’art. 4, comma 1, lett.
e), d.lgs. n. 34/2018, che reitera la
disposizione contenuta nell’abrogato art. 2,
comma 3, lett. c), d.lgs. 227/2001, assimila
a bosco: “e) le radure e tutte le altre
superfici di estensione inferiore a 2.000
metri quadrati che interrompono la
continuità del bosco, non riconosciute come
prati o pascoli permanenti o come prati o
pascoli arborati;”. Del resto, una
differente nozione sarebbe non solo
incompatibile con il dato esperenziale, ma
non consentirebbe la tutela di tutti gli
altri interessi pubblici, che motivano il
divieto di antropizzazione di detti
territori. Si pensi alla tutela della fauna
selvatica, che evidentemente necessita per
la sua vita non solo di aree interamente
boscate, ma anche di radure.
A conforto dell’analisi testuale del dato
normativo di riferimento deve aggiungersi
l’analisi della giurisprudenza di questo
Consiglio (cfr. da ultimo, Cons. St, Sez. IV,
04.03.2019, n. 1462) che nell’interpretare
l’art. 142, d.lgs. n. 42/2004, ha chiarito
che un bosco rappresenta un sistema vivente
complesso insediato in modo tale da essere
in grado di autorigenerarsi, così dissipando
del tutto l’idea che per bosco debba
intendersi l’insieme monocultura di alberi
destinati, ad esempio, alla produzione di
legname.
Ma anche della giurisprudenza della
Corte costituzionale (cfr. Corte cost., n.
201/2018), che rammenta come l’art. 149,
d.lgs. 42/2004, abbia escluso dall’ambito di
applicazione dell’autorizzazione
paesaggistica proprio le attività, quali il
taglio colturale rappresentano opere di
manutenzione della aree boscate. Ciò a
riprova del fatto che la nozione di bosco
non è in alcun modo riducibile a quella di
un insieme di alberi. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Abbandono di rifiuti da parte di terzi –
Proprietario del terreno – Inconfigurabilità in forma
omissiva il reato – Responsabilità e limiti – Concorso nel
reato – Compimento di atti – Art. 255, 256, d.lgs. n.
152/2006.
In materia di rifiuti, non è
configurabile in forma omissiva il reato di cui all’art.
256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti
del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano
abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato,
anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei
rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in
presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell’evento lesivo, che il
proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.11.2019 n. 48403 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Potestà
regolamentare in materia di fanghi di
depurazione.
E' sottratta ai Comuni
ogni potestà regolamentare in materia di
disciplina dell’attività di spandimento dei
fanghi di depurazione in agricoltura,
essendo la stessa attribuita dal legislatore
statale alla competenza regionale, che non
l'ha delegata agli enti locali
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 28.11.2019 n. 2537 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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FATTO
Con il regolamento impugnato, il Comune
resistente, che non si è costituito in
giudizio, ha disciplinato lo “spandimento
di liquami” sul proprio territorio,
introducendo all’art. 13 in particolare le
seguenti prescrizioni:
- divieto di spandimento di fanghi di depurazione ad una distanza
inferiore a 500 metri dall’abitato;
- divieto di spandimento di fanghi di depurazione ad una distanza
inferiore a 500 metri dalle aree di rispetto
dei pozzi di captazione idrica ad uso
potabile;
- divieto di spandimento di fanghi di depurazione nelle aree in cui
le falde idriche interessano lo strato
superficiale del suolo e comunque ove il
massimo livello della superficie libera
della falda idrica disti meno di 1,50 m. dal
piano di campagna.
Le ricorrenti, società attive nel recupero
dei fanghi provenienti da impianti di
depurazione, contestano le suindicate
prescrizioni, in quanto adottate senza avere
previamente svolto una specifica attività
istruttoria, e contrastanti poi palesemente,
da un lato, con la disciplina
nazionale (D.lgs. 99/1992) e regionale (DGR
2031/2014, DGR 5269/2016) che regola gli
spandimenti di fanghi in agricoltura e,
dall’altro, con la normativa comunitaria
(Direttiva 86/278/CE) e nazionale (d.lgs.
152/2006) che favoriscono l’utilizzazione
agronomica dei fanghi di depurazione come
modalità maggiormente sostenibile di
recupero di siffatti rifiuti, ritenendo
infine l’insussistenza di plausibili ragioni
tecniche che giustifichino l’adozione di
siffatti divieti e limitazioni.
DIRITTO
Il Collegio ritiene di poter definire il
giudizio con sentenza in forma semplificata,
ai sensi dell’art. 74 c.p.a., mediante
richiamo a precedenti conformi.
Con censura avente carattere assorbente la
ricorrente sostiene che i comuni non
avrebbero potestà regolamentare in materia
di disciplina dell’attività di spandimento
dei fanghi di depurazione in agricoltura,
competenza che l’art. 6 del d.lgs. n. 99 del
1992 attribuisce in via esclusiva alle
regioni.
Il motivo è fondato atteso che, per
giurisprudenza unanime, deve considerarsi
sottratta ai Comuni ogni potestà
regolamentare in materia di fanghi
biologici, essendo la stessa attribuita dal
legislatore statale alla competenza
regionale, che non l'ha delegata agli enti
locali (TAR Lombardia, Milano, Sez. III,
17.04.2019 n. 861, 29.05.2015 n. 1280, C.S.,
Sez. V, 15.10.2010, n. 7528, TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 04.04.2012, n. 1006). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di opere abusive su aree demaniali – DIRITTO
DEMANIALE – Sequestrabilità delle aree demaniali – Artt. 7 e
44 d.P.R. 380/2001 – Art. 181 d.lgs. 42/2004
Non essendovi alcuna preclusione al
sequestro di aree demaniali sulle quali siano state
realizzate opere abusive, posto che un tale sequestro non
incide sulla naturale e intangibile destinazione dei beni
del demanio necessario, ma colpisce le porzioni di quei beni
che, a causa della illiceità della loro realizzazione, hanno
assunto anch’essi carattere di illiceità, carattere che ne
consente il sequestro, onde evitare la protrazione o
l’aggravamento delle conseguenze del reato, salve le
questioni relative alla individuazione dell’avente diritto
alla eventuale restituzione di tali beni (per effetto
dell’accessione dell’opera al suolo) e alla loro
confiscabilità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.11.2019 n. 47829 - link a www.ambientediritto.it). |
LAVORI PUBBLICI:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Opere realizzate da pubbliche
amministrazioni (Comuni, Province e altri Enti) –
Realizzazione in difformità alle previsioni degli strumenti
urbanistici – Obbligo di conformarsi alle disposizioni
urbanistiche vigenti e ai relativi controlli – Alternative
al permesso di costruire – Atti equipollenti e progetto
conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie –
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Procedura di validazione del
progetto – Effetti dell’esito non favorevole della
Conferenza di Servizi – Inapplicabilità dell’istituto del
silenzio assenso alla Conferenza di Servizi – Artt. 14,
14-bis et 14-quater l. 241/1990 – Giurisprudenza.
Anche le opere realizzate dai Comuni
sono soggette all’obbligo di conformarsi alle disposizioni
urbanistiche vigenti e ai relativi controlli, salvo restando
che, per effetto dell’art. 7 del d.P.R. n. 380 del 2001 e
della contestuale abrogazione del d.l. n. 398 del 1993 e
successive modifiche, per dette opere non è richiesto il
previo rilascio del permesso di costruire, cui deve
ritenersi equipollente la delibera del consiglio o della
giunta comunale accompagnata da un progetto riscontrato
conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie
(v. Sez. 3, n. 18900 del 02/04/2008, Vinci; nello stesso
senso Sez. 3, n. 40115 del 22/05/2012, Massa, secondo cui
integra il reato previsto dall’art. 44 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 la realizzazione di opere da parte dei
comuni in difformità dalle previsioni degli strumenti
urbanistici, anche nel caso in cui sia stata perfezionata la
procedura di validazione del progetto, di cui all’art. 7 del
d.P.R. n. 380 del 2001, che è sostitutiva del permesso di
costruire; conf. Sez. 3, n. 27298 del 10/05/2019, Blandina).
Nel caso in esame il Tribunale ha rilevato
la illegittimità delle opere a causa dell’esito non
favorevole della Conferenza di Servizi, necessaria per
l’accertamento di conformità urbanistica, non sostituibile
dal silenzio assenso, non contemplato dagli artt. 14, 14-bis
et 14-quater l. 241/1990, che disciplinano il funzionamento
della Conferenza di Servizi.
Si tratta di rilievi corretti, sia quanto alla necessità del
titolo abilitativo, sia quanto alla inapplicabilità
dell’istituto del silenzio assenso, non applicabile alla
Conferenza di Servizi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.11.2019 n. 47829 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva – Concorso nel reato nella forma
negoziale e materiale- Consapevolezza dell’agente –
Allegazione dell’atto di trasferimento e certificato di
destinazione urbanistica dell’area interessata – Obbligo –
Omissione – Effetti – Nullità – Artt. 30, 44, 64, 65, 71,
72, 93 e 94, d.P.R. n. 380/2001.
In tema di lottizzazione abusiva, la
consapevolezza, in capo all’agente, dell’abusività della
lottizzazione di terreni si trae dal fatto di dover
allegare, per legge, all’atto di trasferimento, il
certificato di destinazione urbanistica che contiene tutte
le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’area interessata.
L’art. 30, comma secondo, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380,
infatti, prescrivendo a pena di nullità l’allegazione del
certificato di destinazione urbanistica a tutti gli atti di
trasferimento o di costituzione o scioglimento di diritti
reali relativi a terreni, contenente tutte le prescrizioni
urbanistiche che riguardano l’area cui si riferisce, rende
estremamente difficile per il venditore una negoziazione
inconsapevole, atteso che il mancato rilascio, nel termine
prescritto di giorni trenta dalla richiesta, del citato
certificato, comporta la sua sostituzione con una
dichiarazione dell’alienante stesso attestante la
destinazione urbanistica dei terreni secondo gli strumenti
urbanistici vigenti.
...
Confisca delle aree abusivamente lottizzate – Principio di
proporzionalità – Corretta estensione della confisca –
Terreni non direttamente interessati dall’attività
lottizzatoria – Esclusione – Verifiche del giudice del
merito – Adeguata e specifica motivazione – Giurisprudenza
Corte EDU – Convenzione dei diritti dell’uomo – Salvaguardia
dell’interesse generale.
La confisca riguarda tutte le aree
abusivamente lottizzate, indipendentemente dalla presenza o
meno di volumi, mentre tale misura ablativa non potrebbe mai
riguardare aree completamente estranee all’attività
lottizzatoria abusiva.
Sicché, prevale l’esigenza di un giusto equilibrio tra
l’ingerenza sul diritto del singolo e le esigenze di
salvaguardia dell’interesse generale, considerando conformi
ai principi della Convenzione dei diritti dell’uomo, pur
tenendo conto della specificità dei singoli casi sottoposti
alla sua attenzione, interventi radicali e definitivi quali
la demolizione di singoli edifici realizzati in spregio alle
previsioni della pianificazione urbanistica, effettuando
tale apprezzamento attraverso un’analisi globale dei vari
interessi, anche mediante la verifica del comportamento
tenuto dalle parti, dei mezzi utilizzati dallo stato, dalle
modalità di attuazione del provvedimento, specie per quanto
riguarda l’obbligo delle autorità di agire in modo
tempestivo, corretto e coerente.
Pertanto, la misura ablativa non rispetta sicuramente i
criteri di proporzionalità se applicata a terreni che non
sono direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e
che il giudice del merito può senz’altro individuare,
limitando la misura alle sole aree abusivamente lottizzate,
venendo assicurate agli interessati, per le diverse ipotesi,
anche in sede di esecuzione, le garanzie del
contraddittorio, restando la confisca e la conseguente
perdita della proprietà una misura residuale, assunta dal
giudice penale sempre che non sia già intervenuta l’autorità
amministrativa e soggetta ai diversi esiti.
La valutazione del rispetto del criterio di proporzionalità
importa un accertamento del fatto che deve essere svolto dal
giudice del merito, non rientrando nell’ambito della
cognizione del Giudice di legittimità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.11.2019 n. 47094 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La contestazione degli
oneri di urbanizzazione, qualora non vengano
dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi
di determinazione degli oneri presupposti di
quello impugnato, attengono a posizioni di
diritto soggettivo azionabili innanzi al
Giudice amministrativo in sede di
giurisdizione esclusiva nel termine di
prescrizione, e a prescindere
dall’impugnazione del relativo atto di
imposizione.
Ciò in quanto gli
atti con i quali, in applicazione dei
criteri legislativi e regolamentari
stabiliti, l’amministrazione comunale
quantifica le somme dovute e le pone a
carico del titolare, sia a titolo di
oblazione che a titolo di contributo, hanno
natura di atti paritetici. Fatta quindi
eccezione per le impugnative degli atti
regolamentari con i quali le Regioni e i
Consigli comunali stabiliscono i criteri
generali per la determinazione del
contributo, tutte le altre controversie
relative all’an e al quantum delle somme
dovute a tali titoli, riservate dalla legge
alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, riguardano diritti
soggettivi delle parti in relazione ai quali
l’amministrazione è sfornita di potestà autoritativa,
dovendo compiere un’attività di mero
accertamento in base ai parametri normativi
prefissati.
Ne consegue, pertanto, il diritto per i
soggetti interessati di contestare, mediante
azione di accertamento, l’erroneità della
imposizione operata dall’Amministrazione
secondo i criteri fissati in via normativa o
regolamentare, indipendentemente dalla
rituale impugnazione degli atti emanati, i
quali si risolvono in definitiva in mere
operazioni materiali o di calcolo.
---------------
8. Con una seconda eccezione il Comune
deduce l’inammissibilità della domanda di
annullamento della nota comunale trattandosi
di vertenza relativa ad un rapporto
obbligatorio. L’eccezione è infondata atteso
che, nell’economia complessiva delle domande
svolte, la richiesta di annullamento è
effettuata per mero scrupolo difensivo e non
distrae dal fulcro della controversia che
risiede nell’accertamento dell’eventuale
debenza delle somme richieste dal Comune.
Infatti, secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, la contestazione degli
oneri di urbanizzazione, qualora non vengano
dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri
presupposti di quello impugnato, attengono a
posizioni di diritto soggettivo azionabili
innanzi al Giudice amministrativo in sede di
giurisdizione esclusiva nel termine di
prescrizione, e a prescindere
dall’impugnazione del relativo atto di
imposizione (cfr., ex multis, Consiglio di
Stato, sez. V, 27.09.2004, n. 6281, Id.,
sez. V, 09.02.2001, n. 584, Id., sez. V,
21.04.2006, n. 2258).
Ciò in quanto gli
atti con i quali, in applicazione dei
criteri legislativi e regolamentari
stabiliti, l’amministrazione comunale
quantifica le somme dovute e le pone a
carico del titolare, sia a titolo di
oblazione che a titolo di contributo, hanno
natura di atti paritetici. Fatta quindi
eccezione per le impugnative degli atti
regolamentari con i quali le Regioni e i
Consigli comunali stabiliscono i criteri
generali per la determinazione del
contributo, tutte le altre controversie
relative all’an e al quantum delle somme
dovute a tali titoli, riservate dalla legge
alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, riguardano diritti
soggettivi delle parti in relazione ai quali
l’amministrazione è sfornita di potestà autoritativa, dovendo compiere un’attività
di mero accertamento in base ai parametri
normativi prefissati (in questi termini:
Consiglio di Stato, sez. V, 22.11.1996, n. 1388; in termini, cfr. anche: TAR
per la Campania – sede di Napoli, sez. III,
17.09.2009, n. 4983; TAR per il
Lazio – sede di Roma, sez. II, 15.11.2006, n. 12461; TAR per la Puglia – sede
di Lecce, sez. III, 13.05.2005, n. 2744).
Ne consegue, pertanto, il diritto per i
soggetti interessati di contestare, mediante
azione di accertamento, l’erroneità della
imposizione operata dall’Amministrazione
secondo i criteri fissati in via normativa o
regolamentare, indipendentemente dalla
rituale impugnazione degli atti emanati, i
quali si risolvono in definitiva in mere
operazioni materiali o di calcolo (TAR
per la Campania, sede di Napoli, sez. III,
17.09.2009, n. 4983)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.11.2019 n. 2392 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Contributo
concessorio per titolo edilizio rilasciato
dopo la scadenza del termine di durata del
piano di lottizzazione.
Osserva il Tribunale
che:
a) il piano di
lottizzazione ha durata decennale, “di
talché decorso infruttuosamente il suddetto
termine lo strumento attuativo perde
efficacia”;
b) non è ipotizzabile
l’ultrattività delle previsioni del Piano di
lottizzazione decennale, in quanto la
prosecuzione degli effetti oltre il detto
termine decennale confligge con la finalità
sottesa alla fissazione del termine de quo
coincidente con l'esigenza di assicurare
effettività e attualità alle previsioni
urbanistiche, non potendo le lottizzazioni
convenzionate condizionare a tempo
indeterminato la pianificazione urbanistica
futura;
c) risulta irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla
scadenza del termine decennale di efficacia
del piano di lottizzazione, la circostanza
che l’impossibilità della mancata attuazione
sia dovuta alla pubblica amministrazione o
al privato lottizzante;
d) il termine di validità
decennale del piano di lottizzazione decorre
dalla data di stipula della relativa
convenzione e ciò si ricollega “al fatto
che, in via normale, all’approvazione del
piano di lottizzazione segue, in tempi
ragionevoli, la stipula della relativa
convenzione”, con la conseguenza che “la
circostanza della mancata stipula della
convenzione non possa ragionevolmente
costituire legittimo motivo per cui il piano
di lottizzazione abbia validità a tempo
indeterminato, sia perché a ciò osta il dato
letterale della disposizione di cui all'art.
16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 relativamente ai piani
particolareggiati, che fa esclusivamente
riferimento al tempo, non maggiore di anni
dieci, entro il quale il piano
particolareggiato dovrà essere attuato, sia
perché deve comunque ritenersi prevalente la
ratio della norma per cui le previsioni di
un piano particolareggiato o di un piano di
lottizzazione devono avere una determinata e
certa durata temporale, con conseguente
scadenza di validità del piano medesimo, al
fine di garantire l'adeguatezza e
rispondenza di tali previsioni agli
interessi pubblici e privati riferiti al
periodo di validità del piano, con la
conseguente e ragionevole necessità che,
dopo un certo periodo di tempo (10 anni), si
debba necessariamente procedere ad una
rivalutazione di tali interessi pubblici e
privati coinvolti nelle scelte urbanistiche
in questione";
e) “il termine
massimo di dieci anni di validità del piano
di lottizzazione, stabilito dall'art. 16,
quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 per i piani particolareggiati, non è
suscettibile di deroga neppure sull'accordo
delle parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di
formazione del piano attuativo”;
f) “la convenzione è per certo un atto
accessorio al Piano di lottizzazione,
deputato alla regolazione dei rapporti tra
il soggetto esecutore delle opere e il
Comune con riferimento agli adempimenti
derivanti dal Piano medesimo, ma che non può
incidere sulla validità massima, prevista in
legge, del sovrastante strumento di
pianificazione secondaria”;
g) secondo la giurisprudenza consolidata “decorso il termine
stabilito per l'esecuzione del piano di
lottizzazione, questo diventa inefficace per
la parte in cui non abbia avuto attuazione,
rimanendo soltanto fermo a tempo
indeterminato l'obbligo di osservare, nella
costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti, gli
allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso”.
Dalla notazione in ultimo effettuata
discende che:
1) le previsioni dello
strumento attuativo che comportano la
concreta e dettagliata conformazione della
proprietà privata rimangono efficaci a tempo
indeterminato e, col decorso del termine (di
dieci anni, per il piano di lottizzazione),
“diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non
abbiano avuto concreta attuazione, nel senso
che non è più consentita la sua ulteriore
esecuzione, salva la possibilità di
ulteriori costruzioni coerenti con le
vigenti previsioni del p.r.g. e con le
prescrizioni del piano attuativo (anche
sugli allineamenti), che solo per questa
parte ha efficacia ultrattiva”;
2) “il termine di
efficacia di 10 anni deve intendersi
riferito all’esecuzione delle previste opere
di urbanizzazione che devono essere
realizzate entro tale termine; viceversa per
la realizzazione delle costruzioni dei
fabbricati trovano applicazione i termini
previsti nei relativi titoli edilizi, fermo
restando che poiché, in generale, il termine
di efficacia dei piani attuativi, compresi i
piani di lottizzazione, è di 10 anni, i
titoli edilizi andranno richiesti e ottenuti
entro tale termine, dato che, una volta che
esso sia decorso, il piano decade per la
parte rimasta inattuata rimanendo soltanto
fermo a tempo indeterminato l'obbligo di
osservare nella costruzione di nuovi edifici
e nella modificazione di quelli esistenti
gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso”;
3) le conseguenze della
scadenza dell'efficacia del piano di
lottizzazione si esauriscono pertanto
nell'ambito della sola disciplina
urbanistica, non potendo invece incidere
sulla validità ed efficacia delle
obbligazioni assunte dai soggetti attuatori
degli interventi.
---------------
Il TAR Milano, in
relazione all’ipotesi in cui
l’amministrazione abbia rilasciato il titolo
edilizio dopo anni dalla maturata scadenza
del termine di durata del piano di
lottizzazione e della relativa convenzione,
chiarisce che:
a) una volta scaduto il termine di efficacia della convenzione, il
Comune non può in ogni caso ritenersi
vincolato a riconoscere agli esborsi
sostenuti dallo stesso lottizzante per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione
carattere integralmente sostitutivo rispetto
al contributo concessorio;
b) deve tenersi presente che le opere previste dalla convenzione di
lottizzazione siano strettamente correlate
alle esigenze di urbanizzazione dell'area,
come stimate al tempo della stipula della
convenzione, e in relazione al quadro
complessivo della disciplina urbanistica a
quel tempo vigente, sicché decorso il
termine decennale di efficacia della
lottizzazione convenzionata, si impone
unicamente, secondo i principi, e in assenza
di una diversa disciplina di dettaglio, il
rispetto degli allineamenti e delle
prescrizioni di zona stabilite dal piano di
lottizzazione, in applicazione dell'articolo
17 della legge n. 1150 del 1942;
c) non può ritenersi pregiudicata la potestà dell'Amministrazione,
una volta scaduta la convenzione
urbanistica, di riconsiderare il fabbisogno
di opere di urbanizzazione e di dare
applicazione agli eventuali nuovi importi
stabiliti per la quantificazione del
contributo concessorio;
d) l'eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di
urbanizzazione eseguite a spese del
lottizzante carattere integralmente
satisfattivo dell'obbligazione relativa al
contributo concessorio non può vincolare
l'Ente oltre il termine di durata della
convenzione urbanistica.
---------------
9. Entrando in medias res, osserva il
Collegio come il punto centrale della
controversia consista nella verifica delle
conseguenze derivante dalla scadenza del
piano di lottizzazione in assenza di
esecuzione entro il termine decennale.
9.1. Sul punto, sono utilmente richiamabili
i principi affermati dalla sentenza del
Tribunale n. 2001/2018 resa inter partes e
relativa alla medesima convenzione in esame.
Osserva il Tribunale che:
a) il piano di
lottizzazione ha durata decennale, “di
talché decorso infruttuosamente il suddetto
termine lo strumento attuativo perde
efficacia” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.01.2003, n. 200; Id., Sez. IV, 27.04.2015, n. 2109);
b) non è ipotizzabile
l’ultrattività delle previsioni del Piano di
lottizzazione decennale, in quanto la
prosecuzione degli effetti oltre il detto
termine decennale confligge con la finalità
sottesa alla fissazione del termine de quo
coincidente con l'esigenza di assicurare
effettività e attualità alle previsioni
urbanistiche, non potendo le lottizzazioni
convenzionate condizionare a tempo
indeterminato la pianificazione urbanistica
futura (Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.11.2010 n. 8384);
c) risulta
irrilevante, ai fini delle conseguenze
connesse alla scadenza del termine decennale
di efficacia del piano di lottizzazione, la
circostanza che l’impossibilità della
mancata attuazione sia dovuta alla pubblica
amministrazione o al privato lottizzante
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.08.2011
n. 4761);
d) il termine di validità
decennale del piano di lottizzazione decorre
dalla data di stipula della relativa
convenzione e ciò si ricollega “al fatto
che, in via normale, all’approvazione del
piano di lottizzazione segue, in tempi
ragionevoli, la stipula della relativa
convenzione”, con la conseguenza che “la
circostanza della mancata stipula della
convenzione non possa ragionevolmente
costituire legittimo motivo per cui il piano
di lottizzazione abbia validità a tempo
indeterminato, sia perché a ciò osta il dato
letterale della disposizione di cui all'art.
16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 relativamente ai piani
particolareggiati, che fa esclusivamente
riferimento al tempo, non maggiore di anni
dieci, entro il quale il piano
particolareggiato dovrà essere attuato, sia
perché deve comunque ritenersi prevalente la
ratio della norma per cui le previsioni di
un piano particolareggiato o di un piano di
lottizzazione devono avere una determinata e
certa durata temporale, con conseguente
scadenza di validità del piano medesimo, al
fine di garantire l'adeguatezza e
rispondenza di tali previsioni agli
interessi pubblici e privati riferiti al
periodo di validità del piano, con la
conseguente e ragionevole necessità che,
dopo un certo periodo di tempo (10 anni), si
debba necessariamente procedere ad una
rivalutazione di tali interessi pubblici e
privati coinvolti nelle scelte urbanistiche
in questione” (TAR per la Sardegna, sez. II, 18.01.2018, n. 24);
e) “il termine
massimo di dieci anni di validità del piano
di lottizzazione, stabilito dall'art. 16,
quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 per i piani particolareggiati, non è
suscettibile di deroga neppure sull'accordo
delle parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di
formazione del piano attuativo” (Consiglio
di Stato, Sez. IV, 11.03.2003 n. 1315);
f) “la convenzione è per certo un atto
accessorio al Piano di lottizzazione,
deputato alla regolazione dei rapporti tra
il soggetto esecutore delle opere e il
Comune con riferimento agli adempimenti
derivanti dal Piano medesimo, ma che non può
incidere sulla validità massima, prevista in
legge, del sovrastante strumento di
pianificazione secondaria” (TAR per la
Lombardia – sede di Milano, sez. II, 17.08.2018, n. 2001);
g) secondo la
giurisprudenza consolidata (cfr. TAR per
il Lazio – sede di Roma, Sez. II, 01.04.2015, n. 4920; Consiglio di Stato, Sez. V,
30.04.2009, n. 2768) “decorso il termine
stabilito per l'esecuzione del piano di
lottizzazione, questo diventa inefficace per
la parte in cui non abbia avuto attuazione,
rimanendo soltanto fermo a tempo
indeterminato l'obbligo di osservare, nella
costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti, gli
allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso”.
9.2. Dalla notazione in ultimo effettuata
discende che:
a) le previsioni dello
strumento attuativo che comportano la
concreta e dettagliata conformazione della
proprietà privata rimangono efficaci a tempo
indeterminato e, col decorso del termine (di
dieci anni, per il piano di lottizzazione),
“diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non
abbiano avuto concreta attuazione, nel senso
che non è più consentita la sua ulteriore
esecuzione, salva la possibilità di
ulteriori costruzioni coerenti con le
vigenti previsioni del p.r.g. e con le
prescrizioni del piano attuativo (anche
sugli allineamenti), che solo per questa
parte ha efficacia ultrattiva” (TAR per
l’Abruzzo – sede di L'Aquila, sez. I, 20.11.2014, n. 810);
b) “il termine di
efficacia di 10 anni deve intendersi
riferito all’esecuzione delle previste opere
di urbanizzazione che devono essere
realizzate entro tale termine; viceversa per
la realizzazione delle costruzioni dei
fabbricati trovano applicazione i termini
previsti nei relativi titoli edilizi, fermo
restando che poiché, in generale, il termine
di efficacia dei piani attuativi, compresi i
piani di lottizzazione, è di 10 anni, i
titoli edilizi andranno richiesti e ottenuti
entro tale termine, dato che, una volta che
esso sia decorso, il piano decade per la
parte rimasta inattuata rimanendo soltanto
fermo a tempo indeterminato l'obbligo di
osservare nella costruzione di nuovi edifici
e nella modificazione di quelli esistenti
gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso” (cfr. TAR per
il Lazio – sede di Latina, sez. I, 26.04.2018, n. 226);
c) le conseguenze della
scadenza dell'efficacia del piano di
lottizzazione si esauriscono pertanto
nell'ambito della sola disciplina
urbanistica, non potendo invece incidere
sulla validità ed efficacia delle
obbligazioni assunte dai soggetti attuatori
degli interventi (cfr., in particolare,
TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II,
01.04.2015, n. 4920).
9.3. Inoltre, in relazione all’ipotesi,
ricorrente anche nel caso di specie, in cui
l’amministrazione abbia rilasciato il titolo
edilizio dopo anni dalla maturata scadenza
del termine di durata del piano di
lottizzazione e della relativa convenzione,
questo Tribunale chiarisce che:
a) una volta
scaduto il termine di efficacia della
convenzione, il Comune non può in ogni caso
ritenersi vincolato a riconoscere agli
esborsi sostenuti dallo stesso lottizzante
per l’esecuzione delle opere di
urbanizzazione carattere integralmente
sostitutivo rispetto al contributo concessorio;
b) deve tenersi presente che le
opere previste dalla convenzione di
lottizzazione siano strettamente correlate
alle esigenze di urbanizzazione dell'area,
come stimate al tempo della stipula della
convenzione, e in relazione al quadro
complessivo della disciplina urbanistica a
quel tempo vigente, sicché decorso il
termine decennale di efficacia della
lottizzazione convenzionata, si impone
unicamente, secondo i principi, e in assenza
di una diversa disciplina di dettaglio, il
rispetto degli allineamenti e delle
prescrizioni di zona stabilite dal piano di
lottizzazione, in applicazione dell'articolo
17 della legge n. 1150 del 1942 (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.10.2009, n. 6661);
c) non può ritenersi
pregiudicata la potestà
dell'Amministrazione, una volta scaduta la
convenzione urbanistica, di riconsiderare il
fabbisogno di opere di urbanizzazione e di
dare applicazione agli eventuali nuovi
importi stabiliti per la quantificazione del
contributo concessorio;
d) “ne deriva che
l'eventuale impegno del Comune a riconoscere
alle opere di urbanizzazione eseguite a
spese del lottizzante carattere
integralmente satisfattivo dell'obbligazione
relativa al contributo concessorio non può
vincolare l'Ente oltre il termine di durata
della convenzione urbanistica” (TAR per
la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 29.02.2016, n. 406).
9.4. Declinando la messe di principi esposti
al caso di specie, deve osservarsi che il
piano di lottizzazione e la relativa
convenzione risalgono al 04.12.1990,
con conseguente scadenza della disciplina pianificatoria di secondo grado in data 05.12.2000. Né risultano in atti proroghe
per l’attuazione del Piano non potendosi
conferire rilevanza alla delibera del
Consiglio comunale n. 6 del 24.01.2002
che approva una variante di completamento
del piano di lottizzazione a cui non fa,
tuttavia, seguito la stipulazione della
convenzione di lottizzazione.
9.5. Pertanto, alla data del rilascio del
permesso di costruire, il piano di
lottizzazione del 1990 è, da tempo, scaduto
e di conseguenza non è ipotizzabile alcuno
scomputo degli oneri correlati a tale titolo
edilizio in ragione delle previsioni
contenute in un piano di lottizzazione da
anni inefficace. Di conseguenza, deve
ritenersi fondata la pretesa comunale di
ottenere il pagamento degli oneri relativi
al permesso di costruire n. 16 del 28.04.2010.
Inoltre, come accertato anche dalla
sentenza n. 2001/2018 del Tribunale, il
comune di Sumirago accertata il mancato
completamento delle opere di urbanizzazione
previste dal piano del 1990 e l’idoneità di
quelle eseguite rilasciando, pertanto,
successivi permessi di costruire. Al momento
della corresponsione degli oneri correlati
al permesso, le opere di urbanizzazione non
sono, quindi, completate con conseguente
sussistenza di un inadempimento dei
lottizzanti rispetto all’obbligo assunto e
al tempo di doverosa realizzazione della
prestazione. Il completamento di tali opere
avviene in epoca successiva alla scadenza
del piano come risulta dalla determinazione
n. 320 del 28.11.2016. Prestazione,
comunque, ancora dovuta atteso che, come
evidenzia la giurisprudenza, la scadenza
dell’efficacia del piano di lottizzazione
incide sulla sola disciplina urbanistica,
“non potendo invece incidere sulla validità
ed efficacia delle obbligazioni assunte dai
soggetti attuatori degli interventi” (cfr.
TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II,
01.04.2015, n. 4920).
Né una diversa
conclusione può inferirsi dalla
determinazione n. 320 del 2016 seppure
affermi di “dare esecuzione alla delibera di
Consiglio comunale n. 15 del 19.03.1990
di approvazione del PL acquisendo le opere
di urbanizzazione eseguite dai lottizzanti
in conformità alla convenzione urbanistica”,
“non può ritenersi una conseguenza degli
effetti del piano del 1990, perché ormai
definitivamente scaduto” (TAR per la
Lombardia – sede di Milano, sez. II, 17.08.2018, n. 2001).
La determinazione
assume, piuttosto, valenza in ordine allo
svincolo delle fideiussioni rilasciate e
che, invero, sarebbero state escutibili
“stante la mancata attuazione del piano,
compresa l’esecuzione delle opere di
urbanizzazione, entro il termine decennale”
(TAR per la Lombardia – sede di Milano,
sez. II, 17.08.2018, n. 2001). D’altra
parte la determinazione in esame non è
certamente atto idoneo a determinare la
reviviscenza di un piano scaduto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.11.2019 n. 2392 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il giudizio sull’anomalia delle offerte presentate nelle gare pubbliche di
appalto, oltre ad avere natura globale e sintetica sulla serietà delle
stesse nel loro complesso, è ampiamente discrezionale e sindacabile solo in
caso di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, con la
conseguenza che il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della
Pubblica Amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed
adeguatezza dell’istruttoria, ma non procedere ad una autonoma verifica
della congruità dell’offerta e delle singole voci, con conseguente invasione
della sfera propria della Pubblica Amministrazione.
Tale giudizio mira,
nello specifico, ad accertare in concreto che la proposta economica risulti
nel suo complesso attendibile in relazione alla corretta esecuzione
dell’appalto, né le singole operazioni valutative ad esse sottostanti
possono essere sostituite e ripetute in sede giurisdizionale.
Anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a
dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella
discrezionalità tecnica della Pubblica Amministrazione, con la conseguenza
che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti
errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di
fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma
restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della
Pubblica Amministrazione.
La giurisprudenza ha, pertanto, affermato che le valutazioni compiute dalla
Stazione Appaltante, in sede di verifica dell'anomalia delle offerte,
costituiscono espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale,
insindacabile in sede giurisdizionale, salva l'ipotesi in cui dette
valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su un'insufficiente
motivazione o su errori di fatto.
---------------
Deve innanzitutto rammentarsi che, secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di discostarsi, il giudizio
sull'anomalia delle offerte presentate nelle gare pubbliche di appalto,
oltre ad avere natura globale e sintetica sulla serietà delle stesse nel
loro complesso, è ampiamente discrezionale e sindacabile solo in caso di
manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, con la conseguenza
che il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della Pubblica
Amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed
adeguatezza dell'istruttoria, ma non procedere ad una autonoma verifica
della congruità dell'offerta e delle singole voci, con conseguente invasione
della sfera propria della Pubblica Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 14.06.2017, n. 2900; 26.11.2018, n. 6689; 17.05.2018, n.
2953; 24.08.2018, n. 5047; Sez. III, 18.09.2018, n. 5444).
Tale giudizio, dunque, mira, nello specifico, ad accertare in concreto che
la proposta economica risulti nel suo complesso attendibile in relazione
alla corretta esecuzione dell'appalto (Cons. Stato, Sez. VI, 15.09.2017, n. 4350), né le singole operazioni valutative ad esse sottostanti
possono essere sostituite e ripetute in sede giurisdizionale (TAR
Campania-Napoli, Sez. I, 03.07.2017, n. 3577; in senso analogo, TAR
Lazio-Roma, Sez. II, 07.08.2017, n. 9240).
Anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a
dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella
discrezionalità tecnica della Pubblica Amministrazione, con la conseguenza
che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti
errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di
fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma
restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della
Pubblica Amministrazione (cfr.: Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2017, n.
5387).
La giurisprudenza ha, pertanto, affermato che le valutazioni compiute dalla
Stazione Appaltante, in sede di verifica dell'anomalia delle offerte,
costituiscono espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale,
insindacabile in sede giurisdizionale, salva l'ipotesi in cui dette
valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su un'insufficiente
motivazione o su errori di fatto (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 25.10.2019 n. 1839 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI:
Negli appalti a corpo -in cui la somma complessiva
offerta copre l'esecuzione di tutte le prestazioni contrattuali- l'elenco
prezzi analitico risulta irrilevante.
---------------
2.4.- Tanto chiarito, le contestazioni sollevate dall’impresa ricorrente non
valgono ad inficiare, nei limiti in cui è ammissibile il sindacato
giurisdizionale, la logicità e la congruenza della valutazione operata dalla
stazione appaltante.
Invero, diversamente da quanto sostenuto dalla parte ricorrente, ai fini del
positivo superamento del giudizio ex art. 97 dlgs. 50/2016, non era
richiesto all’aggiudicataria di giustificare la sua offerta mediante una
puntuale analisi dei prezzi concorrenti a determinare l’importo nella misura
ribassata.
La gara di che trattasi, infatti, era da aggiudicare a "corpo". In siffatta
tipologia di appalti il corrispettivo è determinato in una somma fissa e
invariabile derivante dal ribasso offerto sull'importo a base d'asta.
Elemento essenziale della proposta economica è, quindi, il solo importo
finale offerto, mentre i prezzi unitari indicati nel c.d. elenco prezzi,
tratti dai listini ufficiali (che possono essere oggetto di negoziazione o
di sconti sulla base di svariate circostanze), hanno un valore meramente
indicativo delle voci di costo che hanno concorso a formare il detto importo
finale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.09.2018, n. 5161; Cons. Stato, V,
03.04.2018, n. 2057).
Ne consegue che le indicazioni contenute nel c.d. elenco-prezzi sono
destinate a restare fuori dal contenuto essenziale dell'offerta e quindi del
contratto da stipulare, non assumendo rilevanza neppure ai fini della
valutazione della dedotta anomali. Ciò, peraltro, trova conferma nell'art.
59, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il quale (riproducendo l'analoga
norma contenuta nell'art. 53, comma 4, d.lgs. 12.04.2016, n. 163)
stabilisce che: "per le prestazioni a corpo il prezzo convenuto non può
variare in aumento o in diminuzione, secondo la qualità e la quantità
effettiva dei lavori eseguiti" (cfr., in relazione all'analoga previsione
del previgente Codice dei contratti pubblici, Cons. Stato, VI, 04.01.2016, n. 15).
In definitiva, pertanto, negli appalti a corpo -in cui la somma complessiva
offerta copre l'esecuzione di tutte le prestazioni contrattuali- l'elenco
prezzi analitico risulta irrilevante (Cons. Stato, V, 03.04.2018, n.
2057; Cons. Stato, VI, 04.01.2016, n. 15; Cons. Stato, VI, 04.08.2009, n. 4903; Cons. Stato, IV, 26.02.2015,
n. 963) (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 25.10.2019 n. 1839 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI:
Le
contestazioni avverso il giudizio di anomalia, tese ad evidenziare
l'insostenibilità dell'offerta dell'aggiudicataria, devono essere supportate
da elementi probatori.
Deve applicarsi, difatti, in questa materia, il principio per cui per
contestare un esito positivo della verifica dell'eventuale anomalia
dell'offerta va fornita una prova fondata su elementi concreti accompagnati
da conteggi analitici e non da generiche considerazioni circa l'implausibilità
del calcolo di alcuni fattori dell'offerta.
---------------
2.5.- Parimenti, le ulteriori contestazioni mosse avverso il giudizio di
anomalia, tese ad evidenziare l'insostenibilità dell'offerta
dell'aggiudicataria, non sono supportate da alcun elemento probatorio.
Deve applicarsi, difatti, in questa materia, il principio per cui per
contestare un esito positivo della verifica dell'eventuale anomalia
dell'offerta va fornita una prova fondata su elementi concreti accompagnati
da conteggi analitici e non da generiche considerazioni circa l'implausibilità
del calcolo di alcuni fattori dell'offerta (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis,
09.01.2018, n. 138) (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 25.10.2019 n. 1839 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
27 dpr 380/2001 incardina in capo all’amministrazione comunale il potere
repressivo degli abusi edilizi in zona vincolata, anche a prescindere dal
titolo occorrente.
Invero, è stato affermato: “a prescindere dal
titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento
edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva è
il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380
del 2001 deve essere sanzionato. Detto articolo riconosce, infatti,
all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su
tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di
provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone
vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di
ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato. E
ciò mediante l’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di
discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da
esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con DIA, prive di
autorizzazione paesaggistica”.
---------------
2.1.- Infondato è il primo motivo.
Il provvedimento impugnato è stato emesso ai sensi sia dell’art. 27 sia
dell’art. 31 d.p.r. 380/2001.
Per il profilo urbanistico, il riferimento all’art. 31 si giustifica con la
circostanza che il ricorrente ha realizzato opere rilevanti in zona “E” ad
originaria destinazione agricola, secondo il vigente PRG, consistenti nella
realizzazione di due tettoie di non trascurabili dimensioni, delle quali una
risulta essere anche chiusa ai tre lati, con creazione di volume oltre che
di superficie aggiuntiva utile; senza trascurare le altre opere, quali lo
scavo di terreno per collegare lo spiazzo antistante i manufatti con il
confine sud, le quali hanno inciso sul preesistente assetto del territorio.
2.2.- Trattandosi di “interventi di nuova costruzione” ai sensi dell’art. 3,
comma 1, lett. e.1), d.p.r. 380/2001, sarebbe stato necessario acquisire
preventivamente il permesso di costruire, di cui all’art. 10 d.p.r.
380/2001, assente nel caso specifico. Ne consegue che la sanzione della
demolizione è quella appropriata, posto che l’art. 31 d.p.r. 380/2001
intende colpire proprio gli interventi eseguiti, tra gli altri, in assenza
di permesso di costruire.
2.3.- In ogni caso, l’amministrazione ha fatto riferimento anche all’art. 27
d.p.r. 380/2001, in considerazione della sussistenza dei diversi vincoli di
carattere paesistico-ambientale esistenti sull’area interessata dagli abusi
edilizi.
Le opere contestate, infatti, sono state realizzate in area soggetta ai
seguenti vincoli:
- paesaggistico, con dichiarazione di notevole interesse pubblico come da
d.m. 26.10.1961, emanato ai sensi dell’art. 2 L n. 1497/1939,
sostituito dal vigente d.lgs. 42/2004;
- urbanistico ambientale applicabili ai comuni –tra i quali Somma Vesuviana- rientranti nelle zone ad altro rischio vulcanico dell’area vesuviana di
cui alla legge regionale n. 21/2003,
- sismico (con grado di classificazione di rischio: S9), come da D.M. del 07.03.1981, classificazione confermata con delibera di giunta regionale n.
5447 del 07.11.2002.
Al riguardo, l’art. 27 menzionato incardina in capo all’amministrazione
comunale il potere repressivo degli abusi edilizi in zona vincolata, anche a
prescindere dal titolo occorrente (cfr., per tutte, le sentenze di questa
Sezione: 24.10.2017 n. 4966, 08.01.2016, n. 17; nonché di questo
TAR, sez. VI, 26.03.2015, n. 1815, secondo cui: “a prescindere dal
titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento
edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva è
il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380
del 2001 deve essere sanzionato. Detto articolo riconosce, infatti,
all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su
tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di
provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone
vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di
ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato. E
ciò mediante l’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di
discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da
esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con DIA, prive di
autorizzazione paesaggistica”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.10.2019 n. 4718 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione generale di “pertinenza” sul piano urbanistico-edilizio
assume caratteri specifici e di certo meno ampi rispetto a quella
civilistica ricavabile dall’art. 817 c.c., data la peculiarità della materia
e la differente finalità pubblica posta a base della relativa normativa.
Per questo, il concetto di pertinenza urbanistica non consente di per sé la
realizzazione di opere soltanto perché destinate al servizio di un bene
qualificato come principale.
La pertinenza urbanistica è, dunque, configurabile quando vi sia un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella
principale, cioè un legame che non consenta altro che la destinazione del
bene accessorio, di modesta consistenza, esclusivamente ad un uso
pertinenziale durevole, sempre che l’opera secondaria non comporti alcun
maggiore carico urbanistico.
---------------
Nel caso di specie risultano
realizzate due tettoie, di cui una chiusa, comportanti significativi
incrementi in termini di volume e di superficie utile, rilevanti sul piano
urbanistico.
I manufatti in questione, pertanto, lungi dal potere essere derubricati alla
nozione di pertinenza costituiscono nuove costruzioni soggette a permesso di
costruire, come peraltro la stessa ordinanza impugnata esplicitamente
chiarisce, avendo inciso in modo permanente e non precario sull’assetto
edilizio del territorio, con conseguente assoggettamento alla sanzione di
tipo demolitorio, di cui all’art. 31 d.p.r. 380/2001.
E ciò anche a prescindere da ogni ulteriore considerazione, oltre
quelle già illustrate, in merito alla realizzazione dei manufatti in
questione senza la preventiva autorizzazione paesaggistica, di cui all’art.
146 d.lgs. 42/2004, in zona soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale.
Si osserva al riguardo che, anche in caso di opere pertinenziali ovvero di
interventi minori di restauro e risanamento conservativo, l’esistenza, com’è
nella fattispecie in esame, di vincoli di tutela paesaggistico–ambientale,
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, esclude comunque l’applicabilità della
sanzione pecuniaria anziché di quella demolitoria in caso di realizzazione
degli interventi stessi senza la preventiva autorizzazione.
---------------
3.- Infondato è il
secondo motivo.
3.1.- La nozione generale di “pertinenza” sul piano urbanistico-edilizio
assume caratteri specifici e di certo meno ampi rispetto a quella
civilistica ricavabile dall’art. 817 c.c., data la peculiarità della materia
e la differente finalità pubblica posta a base della relativa normativa.
Per questo, il concetto di pertinenza urbanistica non consente di per sé la
realizzazione di opere soltanto perché destinate al servizio di un bene
qualificato come principale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.05.2010, n.
3127).
La pertinenza urbanistica è, dunque, configurabile quando vi sia un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella
principale, cioè un legame che non consenta altro che la destinazione del
bene accessorio, di modesta consistenza, esclusivamente ad un uso
pertinenziale durevole, sempre che l’opera secondaria non comporti alcun
maggiore carico urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.01.2015, n.
406; Id., 05.01.2015, n. 13).
Nel caso di specie, al contrario, come sopra esposto in fatto, risultano
realizzate due tettoie, di cui una chiusa, comportanti significativi
incrementi in termini di volume e di superficie utile, rilevanti sul piano
urbanistico.
I manufatti in questione, pertanto, lungi dal potere essere derubricati alla
nozione di pertinenza costituiscono nuove costruzioni soggette a permesso di
costruire, come peraltro la stessa ordinanza impugnata esplicitamente
chiarisce, avendo inciso in modo permanente e non precario sull’assetto
edilizio del territorio, con conseguente assoggettamento alla sanzione di
tipo demolitorio, di cui all’art. 31 d.p.r. 380/2001 (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. II, 14.03.2017, n. 1490; sulla carenza del requisito di
pertinenza della tettoia, cfr. anche, recente, questa Sezione 21.09.2019, n. 4530).
3.2.- E ciò anche a prescindere da ogni ulteriore considerazione, oltre
quelle già illustrate, in merito alla realizzazione dei manufatti in
questione senza la preventiva autorizzazione paesaggistica, di cui all’art.
146 d.lgs. 42/2004, in zona soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale.
Si osserva al riguardo che, anche in caso di opere pertinenziali ovvero di
interventi minori di restauro e risanamento conservativo, l’esistenza, com’è
nella fattispecie in esame, di vincoli di tutela paesaggistico–ambientale,
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, esclude comunque l’applicabilità della
sanzione pecuniaria anziché di quella demolitoria in caso di realizzazione
degli interventi stessi senza la preventiva autorizzazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.10.2019 n. 4718 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, l'ordinanza
di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato, che scaturisce dal mero
accertamento tecnico in merito alla realizzazione di un intervento edilizio
senza le autorizzazioni previste dalla legge.
Pertanto, l’esercizio doveroso del potere repressivo è sufficientemente
sorretto dalla mera enunciazione dei presupposti di fatto, ossia
l’individuazione delle opere abusive prive di titolo abilitativo, con la
qualificazione delle stesse, e di diritto, consistente nell’indicazione
delle norme di legge e regolamentari che si assumono violate.
L’enunciazione di siffatti presupposti giustifica da sola l’applicazione
della sanzione prevista dalla normativa di legge per il tipo di intervento
abusivo rilevato.
Invero, 'l'ordinanza di
demolizione costituisce atto dovuto e vincolato che, in linea generale, non
necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti
di fatto nonché all'individuazione ed alla qualificazione degli abusi
edilizi. L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori
indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale,
alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione con
l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa
l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della
legalità.
---------------
In materia di abusi edilizi, l’autorità comunale nella fase immediata di
contrasto delle opere abusive rilevate, non è tenuta a verificarne la
legittimità o la sanabilità essendo sufficiente accertare l’assenza di
titolo edilizio a supporto delle stesse.
Ciò si evince in maniera chiara dagli artt. 27 e 31 d.p.r. 380/2001, norme
che obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere
l'abuso, senza alcuna valutazione circa la sanabilità dello stesso, il quale
può rilevare solo nel caso di richiesta di accertamento di conformità di cui
all’art. 36 d.p.r. 380/2001, procedimento eventuale e successivo che, non a
caso, il legislatore rimette all'esclusiva iniziativa della parte
interessata.
---------------
Riguardo all’epoca della realizzazione degli abusi, il lungo lasso di tempo
trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei
provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli
interventi abusivi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa
il permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire;
questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di
tutela in costanza di una situazione giuridicamente illecita, la quale non
può ritenersi legittimata per effetto del mero trascorrere del tempo.
Ne consegue che, l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo,
non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile
anche a notevole intervallo temporale dal compimento dell'abuso edilizio,
costituendo atto dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi
presupposti.
Tra l’altro, l’Adunanza plenaria del Consiglio di stato (17.10.2017, n. 9),
ha rimarcato che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, introdotto dal
comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133 -secondo cui
“la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte
salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della
performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente” il
decorso del tempo dal momento del commesso abuso- non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l’ingiunzione a demolire,
configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per
l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso.
---------------
Secondo consolidata e condivisa giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione,
in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presuppone un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere non assentito delle medesime; la stessa, pertanto, non richiede la
previa comunicazione di avvio del procedimento.
In ogni caso, per effetto della previsione introdotta dall'art. 21-octies L.
n. 241/1990, nei procedimenti preordinati all'emanazione delle ordinanze di
demolizione di opere edilizie abusive, l'asserita violazione dell'obbligo di
comunicarne l'avvio –laddove si ritenesse anche in materia di sanzioni
edilizie dovuta- non ha effetti invalidanti, specie quando emerga che il
contenuto del provvedimento finale non potrebbe essere diverso da quello in
concreto adottato.
---------------
5.- Infondato è il
quarto motivo di ricorso.
5.1- Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa
Sezione, l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato, che
scaturisce dal mero accertamento tecnico in merito alla realizzazione di un
intervento edilizio senza le autorizzazioni previste dalla legge (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 14.12.2016, n. 5262).
Pertanto, l’esercizio doveroso del potere repressivo è sufficientemente
sorretto dalla mera enunciazione dei presupposti di fatto, ossia
l’individuazione delle opere abusive prive di titolo abilitativo, con la
qualificazione delle stesse, e di diritto, consistente nell’indicazione
delle norme di legge e regolamentari che si assumono violate.
L’enunciazione di siffatti presupposti giustifica da sola l’applicazione
della sanzione prevista dalla normativa di legge per il tipo di intervento
abusivo rilevato (cfr., per tutte, di questa Sezione, sentenze 01.03.2019, n. 1162 e
07.11.2017 n. 5212 secondo cui: ''l'ordinanza di
demolizione costituisce atto dovuto e vincolato che, in linea generale, non
necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti
di fatto nonché all'individuazione ed alla qualificazione degli abusi
edilizi. L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori
indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale,
alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione con
l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino
della legalità (ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2017, n.
908; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 21.06.2017, n. 3377)'').
5.2.- Nella fattispecie in discussione, come sopra illustrato nell’esame del
primo motivo di ricorso, i presupposti di diritto dell’ordinanza impugnata
sono puntualmente individuati nell’art. 27 e 31 d.p.r. 380/2001 nonché nel
d.lgs. n. 42/2004.
Quanto ai presupposti di fatto, lo stesso provvedimento, oltre a fare
riferimento per relationem all’informativa di reato per abusivismo edilizio
redatta dai Carabinieri, contiene una puntuale ed esauriente descrizione
delle opere abusive, idonea ad individuarne la consistenza in maniera non
equivoca.
5.3.- Riguardo all’accertamento sul carattere abusivo delle opere
contestate, come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, in materia
di abusi edilizi, l’autorità comunale nella fase immediata di contrasto
delle opere abusive rilevate, non è tenuta a verificarne la legittimità o la
sanabilità essendo sufficiente accertare l’assenza di titolo edilizio a
supporto delle stesse.
Ciò si evince in maniera chiara dagli artt. 27 e 31 d.p.r. 380/2001, norme
che obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere
l'abuso, senza alcuna valutazione circa la sanabilità dello stesso, il quale
può rilevare solo nel caso di richiesta di accertamento di conformità di cui
all’art. 36 d.p.r. 380/2001, procedimento eventuale e successivo che, non a
caso, il legislatore rimette all'esclusiva iniziativa della parte
interessata (cfr. TAR Napoli, sez. IV, 04.12.2018, n. 6966; sez. II,
12.07.2019, n. 3864).
Depone, tra l’altro, in senso sfavorevole al ricorrente la mancanza della
necessaria autorizzazione paesaggistica, di cui all’art. 146 menzionato d.lgs. 42/2004, non potendosi nel caso di specie fare applicazione, per le
ragioni sopra esposte, alle esclusioni di cui al successivo art. 149, posto
che si è al di fuori degli interventi di manutenzione ordinaria,
straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo e
perché, in ogni caso, vi è stata oggettiva alterazione dello stato dei
luoghi e, comunque, aumenti plano-volumetrici.
Ne consegue anche
l’impossibilità di conseguire l’autorizzazione paesaggistica in via postuma,
ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42/2004, norma che, secondo le previsioni di
cui ai commi 4 e 5, la ammette esclusivamente per i lavori: "che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati" o comunque "configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto
del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380".
5.4.- Riguardo all’epoca della realizzazione degli abusi, secondo
altrettanto costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso di tempo
trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei
provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli
interventi abusivi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa
il permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire;
questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di
tutela in costanza di una situazione giuridicamente illecita, la quale non
può ritenersi legittimata per effetto del mero trascorrere del tempo.
Ne consegue che, l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo,
non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile
anche a notevole intervallo temporale dal compimento dell'abuso edilizio,
costituendo atto dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi
presupposti (Cons. Stato, sez. VI, 3 ottobre 2017, n. 4580).
Tra l’altro, l’Adunanza plenaria del Consiglio di stato (17.10.2017, n.
9), ha rimarcato che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, introdotto
dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133 -secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio,
fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione
della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente” il
decorso del tempo dal momento del commesso abuso- non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l’ingiunzione a demolire,
configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per
l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso.
6.- Infondato è il
quinto motivo.
Secondo consolidata e condivisa giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione,
in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presuppone un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere non assentito delle medesime; la stessa, pertanto, non richiede la
previa comunicazione di avvio del procedimento (cfr., ex multis, questa
Sezione, 03.10.2018, n. 5782; 17.09.2018, n. 5510; TAR Liguria,
sez. I, 22.04.2011 n. 666; Cons. Stato, sez. IV, 06.02.2013 n. 666,
06.06.2011 n. 3398; Idem, sez. VI, 02.02.2015 n. 466).
In ogni caso, per effetto della previsione introdotta dall'art. 21-octies L.
n. 241/1990, nei procedimenti preordinati all'emanazione delle ordinanze di
demolizione di opere edilizie abusive, l'asserita violazione dell'obbligo di
comunicarne l'avvio –laddove si ritenesse anche in materia di sanzioni
edilizie dovuta- non ha effetti invalidanti, specie quando emerga che il
contenuto del provvedimento finale non potrebbe essere diverso da quello in
concreto adottato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016 n.
3620; questa Sezione, 26.06.2013 n. 3328; TAR Liguria, sez. I, 22.04.2011 n. 666)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.10.2019 n. 4718 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Indipendentemente da come
sia stata costituita la garanzia provvisoria, occorre sempre l’intervento di
un fideiussore che si impegni al rilascio della cauzione definitiva.
La tesi dell’appellante secondo cui l’impegno del fideiussore a costituire
la garanzia definitiva occorrerebbe solo nel caso in cui la garanzia
provvisoria sia stata rilasciata mediante fideiussione non trova, quindi,
riscontro nelle norme di gara e di legge.
Né la mancata allegazione all’offerta dell’impegno a costituire la garanzia
definitiva può ritenersi sanata dal rilascio di quest’ultima intervenuto a
valle dell’aggiudicazione, trattandosi di adempimento pacificamente
occorrente ai fini della partecipazione alla gara.
Alle esposte considerazioni giova soggiungere che, diversamente da quanto la
stazione appaltante mostra di ritenere, il versamento in contanti della
garanzia provvisoria, non è idoneo a soddisfare le esigenze di tutela a cui
è preordinata la costituzione della garanzia definitiva (ovvero, ex art. 93,
comma 8, del D.Lgs n. 50/2016, la corretta esecuzione del contratto).
Ed invero, ai sensi, dell’art. 93, comma 6, del citato D.Lgs. la garanzia
provvisoria “è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione
del contratto” … Pertanto, una volta stipulato il contratto, la stazione
appaltante non avrebbe più titolo per trattenere la somma versata a titolo
di garanzia provvisoria.
Quest’ultima, inoltre, è pari al due per cento dell’importo a base d’asta,
mentre la definitiva ammonta al dieci per cento del valore economico del
contratto, per cui, comunque, non essendo le due entità corrispondenti, non
ci sarebbe certezza che la somma versata a titolo di garanzia provvisoria
sia sufficiente a coprire quanto dovuto per quella definitiva. …
Al riguardo è sufficiente rilevare che il soccorso istruttorio non è
utilizzabile per sanare l’inosservanza di adempimenti procedimentali o
l’omessa produzione di documenti richiesti ai fini della partecipazione alla
gara.
L’art. 83, comma 9, del D.Lgs. n. 50/2016 limita, infatti, il ricorso
all’istituto in questione alle ipotesi di carenze riguardanti “qualsiasi
elemento formale della domanda.
---------------
Con il primo motivo di ricorso, la Ci. si duole del fatto che,
nella seduta del 13.12.2016, in sede di esame della documentazione
amministrativa della ditta Es.It. la Commissione di gara –rilevata
la mancata dichiarazione di cui all’art. 93, co. 8, del d.lgs. n. 50/2016–
ha concesso alla concorrente il soccorso istruttorio senza penalità, ai
sensi dell’art. 83 del d.lgs. n. 50/2016 (cfr. avviso esito prima seduta di
gara del 13.12.2016: «Ditta Es.It.: ...b) soccorso
istruttorio, senza penalità, per attestazione di cui al punto 14.7 del
disciplinare e dichiarazione “Protocollo di legalità”»).
Il motivo è fondato.
Il soccorso istruttorio è previsto, in via generale, dall’art. 83, co. 9,
del d.lgs. n. 50/2016 (nel testo applicabile ratione temporis): «le carenze
di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso
la procedura di soccorso istruttorio … la stazione appaltante assegna al
concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese,
integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il
contenuto e i soggetti che le devono rendere … Nei casi di irregolarità
formali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non essenziali,
la stazione appaltante ne richiede comunque la regolarizzazione con la
procedura di cui al periodo precedente, ma non applica alcuna sanzione. In
caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è
escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le
carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del
contenuto o del soggetto responsabile della stessa».
Nella disciplina di gara, il soccorso istruttorio era previsto dall’art.
14.22 del disciplinare: «La mancanza, l’incompletezza e ogni altra
irregolarità delle attestazioni, dichiarazioni ed elementi di cui al
paragrafo 14 [ivi incluso, dunque, il documento attestante la cauzione
provvisoria di cui al paragrafo 10 con allegata la dichiarazione di cui
all’art. 93, co. 8, del Codice, concernente l’impegno a rilasciare la
cauzione definitiva, come richiesto dal punto 14.7] potranno essere sanate
ai sensi dell’art. 83, comma 9, del Codice, purché i requisiti dichiarati
siano sussistenti al momento della presentazione della domanda e dietro
pagamento in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria
prevista al paragrafo 6.5 del presente disciplinare.
In caso di mancata sanatoria la Stazione Appaltante procederà all’esclusione
del concorrente dalla procedura di gara».
Al riguardo, il Collegio ritiene che il rimedio non si sarebbe potuto
applicare in caso di mancata dichiarazione di cui all’art. 93, co. 8, del
d.lgs. n. 50/2016 («L’offerta è altresì corredata, a pena di esclusione,
dall’impegno di un fideiussore, anche diverso da quello che ha rilasciato la
garanzia provvisoria, a rilasciare la garanzia fideiussoria per l’esecuzione
del contratto, di cui agli articoli 103 e 104, qualora l’offerente
risultasse affidatario»), trattandosi –non di un requisito in tesi
posseduto e tuttavia non tempestivamente dimostrato, bensì– di una
manifestazione di volontà che, una volta decorso il termine di presentazione
dell’istanza di partecipazione, si rivela definitivamente tardiva e la cui
mancanza è espressamente sanzionata, dalla legge come dalla lex specialis,
con l’esclusione.
Sul punto, il Consiglio di Stato ha affermato che «indipendentemente da come
sia stata costituita la garanzia provvisoria, occorre sempre l’intervento di
un fideiussore che si impegni al rilascio della cauzione definitiva.
La tesi dell’appellante secondo cui l’impegno del fideiussore a costituire
la garanzia definitiva occorrerebbe solo nel caso in cui la garanzia
provvisoria sia stata rilasciata mediante fideiussione non trova, quindi,
riscontro nelle norme di gara e di legge.
Né la mancata allegazione all’offerta dell’impegno a costituire la garanzia
definitiva può ritenersi sanata dal rilascio di quest’ultima intervenuto a
valle dell’aggiudicazione, trattandosi di adempimento pacificamente
occorrente ai fini della partecipazione alla gara.
Alle esposte considerazioni giova soggiungere che, diversamente da quanto la
stazione appaltante mostra di ritenere, il versamento in contanti della
garanzia provvisoria, non è idoneo a soddisfare le esigenze di tutela a cui
è preordinata la costituzione della garanzia definitiva (ovvero, ex art. 93,
comma 8, del D.Lgs. n. 50/2016, la corretta esecuzione del contratto).
Ed invero, ai sensi, dell’art. 93, comma 6, del citato D.Lgs. la garanzia
provvisoria “è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione
del contratto” … Pertanto, una volta stipulato il contratto, la stazione
appaltante non avrebbe più titolo per trattenere la somma versata a titolo
di garanzia provvisoria.
Quest’ultima, inoltre, è pari al due per cento dell’importo a base d’asta,
mentre la definitiva ammonta al dieci per cento del valore economico del
contratto, per cui, comunque, non essendo le due entità corrispondenti, non
ci sarebbe certezza che la somma versata a titolo di garanzia provvisoria
sia sufficiente a coprire quanto dovuto per quella definitiva. …
Al riguardo è sufficiente rilevare che il soccorso istruttorio non è
utilizzabile per sanare l’inosservanza di adempimenti procedimentali o
l’omessa produzione di documenti richiesti ai fini della partecipazione alla
gara.
L’art. 83, comma 9, del D.Lgs. n. 50/2016 limita, infatti, il ricorso
all’istituto in questione alle ipotesi di carenze riguardanti “qualsiasi
elemento formale della domanda”» (sez. V, sent. n. 721/2018).
Ritiene, altresì, il Collegio che l’art. 14.22 del disciplinare –nel
prevedere il soccorso istruttorio, peraltro dietro pagamento della sanzione
pecuniaria– non si ponga in contrasto con la richiamata disciplina
legislativa, laddove coerentemente con la stessa esige che “i requisiti
dichiarati siano sussistenti al momento della presentazione della domanda” (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 30.09.2019 n. 4641 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Cauzione
provvisoria nelle gare: valido solo l’assegno circolare.
Solo l’assegno circolare –e non anche quello bancario– costituisce un
ordinario strumento di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, in tutto e
per tutto equivalente al versamento in contanti delle somme dovute, sicché
in sede di gara per l’aggiudicazione di lavori pubblici, la presentazione
delle cauzioni mediante assegno circolare deve ritenersi ritualmente
effettuata rispetto alla previsione del bando che faccia riferimento al
versamento per numerario o in titoli di Stato o garantiti dallo Stato.
---------------
Con il
secondo motivo, la ricorrente censura l’avvenuta costituzione di
garanzia mediante assegno bancario, in quanto mezzo inidoneo a garantire
l’esistenza della provvista.
Con nota del 21.12.2016, la controinteressata –a seguito
dell’attivazione del soccorso istruttorio per la produzione
dell’attestazione d’impegno a rilasciare cauzione definitiva ai sensi
dell’art. 93, co. 8, del d.lgs. n. 50/2016– ha rappresentato che il fatto
di essersi dovuta avvalere del requisito della capacità finanziaria di
un’impresa ausiliaria «non le ha consentito di ottenere, in fase di
presentazione della propria domanda di partecipazione, polizza fideiussoria
provvisoria con impegno a versare la cauzione definitiva in caso di
aggiudicazione, proprio perché in assenza di redditi pregressi, nessuna
Compagnia assicurativa si è resa disponibile a rilasciarla», sicché ha
proceduto a «versare sin d’ora cauzione definitiva attraverso emissione di
assegno bancario», autorizzando il Comune di Torre Annunziata a incassarlo
in caso di aggiudicazione.
Al riguardo, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che solo l’assegno
circolare –e non anche quello bancario– costituisce un ordinario strumento
di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, in tutto e per tutto equivalente
al versamento in contanti delle somme dovute, sicché «in sede di gara per
l’aggiudicazione di lavori pubblici, la presentazione delle cauzioni
mediante assegno circolare deve ritenersi ritualmente effettuata rispetto
alla previsione del bando che faccia riferimento al versamento per numerario
o in titoli di Stato o garantiti dallo Stato» (Cons. di Stato, V, sent. n.
3398/2013; in termini, Cons. di Stato, V, sent. n. 5554/2015), in quanto
solo l’assegno circolare garantisce al prenditore la percezione del denaro
contante, attesa la sicura solvibilità della banca emittente.
Ciò non si
applica all’assegno bancario, che non è un mezzo idoneo a garantire
l’esistenza della relativa provvista presso la banca obbligata al pagamento
(a nulla valendo la prospettiva, indicata dalla Commissione di gara ma non
comprovata, che l’Ente avrebbe proceduto a incassare l’assegno bancario
presentato dalla ditta concorrente).
A ciò si aggiunga che l’ammontare dell’assegno versato risulta parametrato
all’importo posto a base di gara e non all’«importo contrattuale», in
violazione dell’art. 103, co. 1, del d.lgs. n. 50/2016 (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 30.09.2019 n. 4641 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Per consolidato orientamento, ai fini della validità del contratto di
avvalimento, è necessario che l’impegno assunto dall’ausiliaria non si
limiti a dichiarazioni di carattere meramente “cartolare e astratto”, bensì
consista nella concreta messa a disposizione delle necessarie risorse (e,
ove necessario, dell’apparato organizzativo).
Invero, «è stato condivisibilmente stabilito al riguardo che in
caso di avvalimento cd. di garanzia, avente cioè ad oggetto il requisito di
capacità economica finanziaria, rappresentato dal fatturato sia globale che
specifico, l’indagine circa l’efficacia del contratto allegato al fine di
attestare il possesso dei relativi titoli partecipativi deve essere svolta
in concreto, avuto riguardo, cioè, al tenore testuale dell’atto ed alla sua
idoneità ad assolvere la precipua funzione di garanzia assegnata
all’istituto di cui all’articolo 49 del previgente ‘Codice dei contratti’ –e in seguito dall’articolo 89 del nuovo ‘Codice dei contratti pubblici’–.
E’ stato altresì chiarito che nelle gare pubbliche, allorquando un’impresa
intenda avvalersi, mediante stipula di un c.d. contratto di avvalimento dei
requisiti finanziari di un’altra (c.d. avvalimento di garanzia), la
prestazione oggetto specifico dell’obbligazione è costituita non già dalla
messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria di strutture
organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a garantire con le
proprie complessive risorse economiche, il cui indice è costituito dal
fatturato, l’impresa ausiliata munendola, così, di un requisito che
altrimenti non avrebbe e consentendole di accedere alla gara nel rispetto
delle condizioni poste dal bando».
---------------
Ciò
premesso, in ordine al contratto di avvalimento prodotto
dall’aggiudicataria, la ricorrente muove le censure di genericità e
indeterminatezza.
Il motivo è infondato.
Per consolidato orientamento, ai fini della validità del contratto di
avvalimento, è necessario che l’impegno assunto dall’ausiliaria non si
limiti a dichiarazioni di carattere meramente “cartolare e astratto”, bensì
consista nella concreta messa a disposizione delle necessarie risorse (e,
ove necessario, dell’apparato organizzativo; cfr. Ad. Plen. n. 23/2016;
Cons. di Stato, V, sent. n. 275/2015 e sent. n. 5244/2014).
Con riguardo agli specifici contenuti dell’accordo oggetto di contestazione
e agli impegni ivi contenuti, deve concludersi nel senso della complessiva
conformità del contratto di avvalimento intercorso fra la ditta Es.It. e l’ausiliaria rispetto al pertinente paradigma normativo e
giurisprudenziale: «è stato condivisibilmente stabilito al riguardo che in
caso di avvalimento cd. di garanzia, avente cioè ad oggetto il requisito di
capacità economica finanziaria, rappresentato dal fatturato sia globale che
specifico, l’indagine circa l’efficacia del contratto allegato al fine di
attestare il possesso dei relativi titoli partecipativi deve essere svolta
in concreto, avuto riguardo, cioè, al tenore testuale dell’atto ed alla sua
idoneità ad assolvere la precipua funzione di garanzia assegnata
all’istituto di cui all’articolo 49 del previgente ‘Codice dei contratti’ –e in seguito dall’articolo 89 del nuovo ‘Codice dei contratti pubblici’–
(in tal senso: Cons. Stato, III, 03.05.2017, n. 2022).
E’ stato altresì chiarito che nelle gare pubbliche, allorquando un’impresa
intenda avvalersi, mediante stipula di un c.d. contratto di avvalimento dei
requisiti finanziari di un’altra (c.d. avvalimento di garanzia), la
prestazione oggetto specifico dell’obbligazione è costituita non già dalla
messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria di strutture
organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a garantire con le
proprie complessive risorse economiche, il cui indice è costituito dal
fatturato, l’impresa ausiliata munendola, così, di un requisito che
altrimenti non avrebbe e consentendole di accedere alla gara nel rispetto
delle condizioni poste dal bando (in tal senso: Cons. Stato, V, 15.03.2016,
n. 1032)» (Cons. di Stato, V, sent. n. 187/2018) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 30.09.2019 n. 4641 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
configurabilità della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” è costantemente
esclusa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, trattandosi di
istituto di origine giurisprudenziale, che si pone in contrasto con i
principi di tipicità e legalità dell’azione amministrativa.
Invero, “Non è invocabile la c.d. "sanatoria giurisprudenziale", giacché il
permesso in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 è ottenibile
solo alla condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del
manufatto, sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in
questione, con la "sanatoria giurisprudenziale", un atto atipico con effetti
provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori d'ogni previsione
normativa e che, pertanto, non è ammessa nell'ordinamento positivo,
contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e
dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del
principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da
questo Giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e
l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate”.
---------------
5. La configurabilità della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” è
costantemente esclusa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa,
trattandosi di istituto di origine giurisprudenziale, che si pone in
contrasto con i principi di tipicità e legalità dell’azione amministrativa (Cons.
Stato Sez. VI, 07/09/2018, n. 5274: “Non è invocabile la c.d. "sanatoria
giurisprudenziale", giacché il permesso in sanatoria ex art. 36 del D.P.R.
n. 380 del 2001 è ottenibile solo alla condizione che l'intervento risulti
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia
della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda,
venendo viceversa in questione, con la "sanatoria giurisprudenziale", un
atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si colloca
fuori d'ogni previsione normativa e che, pertanto, non è ammessa
nell'ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità
dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati
dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti
questi, che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la violazione del
principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di
attribuzioni riservate”)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 21.01.2019 n. 65 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza
di demolizione può legittimamente essere emessa nei confronti del
proprietario dell’opera abusiva anche se non responsabile della relativa
esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via
ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del
soggetto interessato.
---------------
A
norma del comma 1 dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, la demolizione è
ingiunta sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario del bene.
Tale ingiunzione, per poter rivestire portata cogente, deve essere assistita
dalla comminatoria della sanzione di cui al successivo comma 3 (ossia
dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio comunale),
applicabile in caso di inottemperanza ad essa.
Trattasi di modulo procedimentale enucleato non solo a supporto della
coattività del precetto ripristinatorio, ma anche a garanzia del
proprietario dell’immobile, al fine di permettergli di assumere tutte le
iniziative necessarie a far valere la propria estraneità all’illecito
edilizio e ad eseguire il precetto anzidetto, e scongiurare, così, futuri ed
eventuali effetti ablatori (solo) preannunciati in sede di ingiunzione e
derivanti dall’inottemperanza all’ordine impartito, la quale, ove a lui non
imputabile, implicherà unicamente, ai sensi dell’art. 31, comma 5, del
d.p.r. n. 380/2001, la demolizione in danno del soggetto responsabile.
Ed invero, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale non può incidere
sulla sfera giuridica del proprietario dell’area di intervento, di cui
emerga in modo inequivocabile la completa estraneità alla realizzazione
dell’opera abusiva e l’impegno profuso per impedirla e rimuoverla.
---------------
2. Il ricorrente sostiene, poi, che non avrebbe potuto essere destinatario
della gravata ordinanza di demolizione n. 34 dell’11.05.2011, avendo
acquistato da terzi l’immobile controverso già nelle condizioni emerse dalla
relazione di accertamento del Settore Abusivismo del Comune di Montesarchio,
prot. n. 151/S.E., del 21.04.2011, e non essendo, quindi, autore degli abusi
contestatigli.
Tale doglianza è priva di pregio.
L'ordinanza di demolizione può, infatti, legittimamente essere emessa nei
confronti del proprietario dell’opera abusiva, anche se non responsabile
della relativa esecuzione, trattandosi –come accennato– di illecito
permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere
dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato (cfr.,
ex multis, TAR Lazio, Latina, 06.08.2009, n. 780; TAR Campania, Napoli,
sez. II, 15.12.2009, n. 8704; sez. IV, 09.04.2010, n. 1890; sez. III,
23.04.2010, n. 2106; sez. IV, 24.05.2010, n. 8343; TAR Sicilia, Palermo,
sez. III, 13.08.2013, n. 1619).
3. Del pari, privo di pregio è l’assunto a tenore del quale lo Sp., non
avendo la materiale disponibilità dell’immobile, concesso in locazione a
terzi, neppure avrebbe potuto essere destinatario della comminatoria di
acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio comunale per il caso
di inottemperanza alla disposta misura repressivo-ripristinatoria.
In proposito, giova rammentare che, a norma del comma 1 dell’art. 31 del
d.p.r. n. 380/2001, la demolizione è ingiunta sia al responsabile dell’abuso
sia al proprietario del bene.
Tale ingiunzione, per poter rivestire portata cogente, deve essere assistita
dalla comminatoria della sanzione di cui al successivo comma 3 (ossia
dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio comunale),
applicabile in caso di inottemperanza ad essa.
Trattasi di modulo procedimentale enucleato non solo a supporto della
coattività del precetto ripristinatorio, ma anche a garanzia del
proprietario dell’immobile, al fine di permettergli di assumere tutte le
iniziative necessarie a far valere la propria estraneità all’illecito
edilizio e ad eseguire il precetto anzidetto, e scongiurare, così, futuri ed
eventuali effetti ablatori (solo) preannunciati in sede di ingiunzione e
derivanti dall’inottemperanza all’ordine impartito, la quale, ove a lui non
imputabile, implicherà unicamente, ai sensi dell’art. 31, comma 5, del
d.p.r. n. 380/2001, la demolizione in danno del soggetto responsabile (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4107; sez. IV, 04.10.2013, n. 4913; TAR
Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 09.06.2008, n. 364; TAR Sardegna,
Cagliari, sez. II, 26.05.2010, n. 1352; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I,
12.04.2012, n. 369; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.01.2011, n. 381; 12.09.2011,
n. 7189).
Ed invero, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale non può incidere
sulla sfera giuridica del proprietario dell’area di intervento, di cui
emerga in modo inequivocabile la completa estraneità alla realizzazione
dell’opera abusiva e l’impegno profuso per impedirla e rimuoverla (cfr. TAR
Campania, Napoli, sez. II, 09.01.2006, n. 117; sez. VI, 24.01.2006, n. 877;
sez. VII, 29.07.2010, n. 17176; sez. II, 20.12.2010, n. 27683; sez. VII,
11.11.2011, n. 5293; 17.09.2012, n. 3879; sez. VIII, 26.04.2013, n. 2180;
sez. VII, 28.08.2013, n. 4141; sez. VIII, 07.11.2013, n. 4964; 09.09.2014,
n. 4799; TAR Lazio, Roma, sez. I, 09.12.2011, n. 9645; TAR Puglia, Bari,
sez. III, 10.05.2013, n. 710).
Del modus operandi nella specie osservato dall’amministrazione
comunale intimata il ricorrente non può, dunque, fondatamente dolersi.
Proprio in virtù di siffatto modus operandi, e cioè in quanto reso
avveduto della ingiunta misura demolitoria, egli potrà, infatti, dimostrare
la sua estraneità all’abuso e il suo attivarsi, con i mezzi concessigli
dall'ordinamento, per evitarlo ed eliminarlo (tra le misure concretanti le ‘attività
idonee’ ad escludere la partecipazione all’illecito edilizio commesso da
terzi è predicata la necessità di un comportamento attivo, da estrinsecarsi
in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del
detentore, onde evitare l'applicazione della norma che, in caso di omessa
rimozione dell’abuso, prevede l’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale, non bastando a tal fine una condotta meramente passiva di adesione
all’azione amministrativa: cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I, 04.04.2012, n.
3103).
E, una volta fornita una simile prova, riuscirà –come accennato– a sottrarsi
all’accertamento di inottemperanza a suo carico ai sensi dell’art. 31, comma
4, del d.p.r. n. 380/2001 ed ai (solo) comminati effetti sanzionatori
acquisitivi
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 04.09.2015 n. 4310 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 184, comma 3, lett. b), del d.lgs. n.
152/2006, i residui delle attività di demolizione sono rifiuti speciali e
che, ai sensi del successivo art. 256, il loro abbandono incontrollato è
sanzionato penalmente.
---------------
7. Destituito di fondamento è, infine, il motivo di gravame incentrato sulla
presunta abnormità degli adempimenti prescritti in sede di ingiunzione di
demolizione e consistenti, segnatamente, nella richiesta attestazione, a
cura di tecnico abilitato, circa lo smaltimento dei rifiuti speciali
prodotti, nonché circa il regolare ripristino dello stato dei luoghi.
Trattasi, all’evidenza, di adempimenti che costituiscono il naturale e
corretto corollario esecutivo del precetto demolitorio, il quale non può
essere attuato con modalità arbitrarie e incontrollate.
In questo, senso, giova rammentare che, ai sensi dell’art. 184, comma 3,
lett. b), del d.lgs. n. 152/2006, i residui delle attività di demolizione
sono rifiuti speciali e che, ai sensi del successivo art. 256, il loro
abbandono incontrollato è sanzionato penalmente (cfr. Cass. pen., sez. III,
17.01.2012, n. 17823, 07.03.2012, n. 37083; 02.10.2014, n. 3202; 09.04.2015,
n. 17126)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 04.09.2015 n. 4310 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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