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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di NOVEMBRE 2019

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aggiornamento al 06.11.2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 06.11.2019

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ATTI AMMINISTRATIVI:
distinzione tra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante.

In materia di ambiente-ecologia:

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti succedutisi nel tempo non sussiste un rapporto di consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale è infatti nel senso che in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso della successione cronologica di atti di pianificazione generale, anche quando il piano successivo si ponga come mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come detto, comporta l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo.
---------------
Va richiamata la distinzione -assolutamente netta nei diversi arresti giurisprudenziali che hanno affrontato la questione- tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
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5. Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti della Regione Sardegna succedutisi nel tempo non sussiste un rapporto di consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale, richiamato dall’appellante, è infatti nel senso che in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso della successione cronologica di atti di pianificazione generale, anche quando il piano successivo si ponga come mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come detto, comporta l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo.
5.1. Nemmeno giova all’appellante sostenere che il Piano approvato nel 2016 sarebbe un atto di conferma del precedente.
Va in proposito richiamata la distinzione -assolutamente netta nei diversi arresti giurisprudenziali che hanno affrontato la questione- tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 14.04.2014, n. 1805; id., 12.02.2015, n. 758; id., 29.02.2016, n. 812; id, 12.10.2016, n. 4214, nonché, da ultimo, in tema di successione di strumenti di pianificazione generale, Cons. Stato, IV, 27.01.2017, n. 357).
Peraltro, nel caso di specie, più che una conferma di precedenti previsioni di Piano si è avuta la rinnovata approvazione, a seguito di apposita nuova istruttoria, di previsioni soltanto conformi, cioè coincidenti, con le precedenti.
La loro sopravvivenza all’eventuale annullamento di queste ultime rende improcedibile l’appello per sopravvenuta carenza di interesse (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.04.2018 n. 2172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

In materia di appalti:

APPALTILa giurisprudenza amministrativa, in presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, distingue tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l’intensità del rapporto di conseguenzialità tra l’atto presupposto e l’atto successivo, con riconoscimento dell’effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all’atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
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   - né la caducazione dell’Avviso Pubblico del 3 agosto potrebbe determinarsi per effetto di un’eventuale annullamento da parte del Tar della predetta delibera n. 7/2018 (impugnata col ricorso originario); la giurisprudenza amministrativa, difatti, in presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, distingue <<tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito. Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l’intensità del rapporto di conseguenzialità tra l’atto presupposto e l’atto successivo, con riconoscimento dell’effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all’atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243)>> (Consiglio di Stato, V, 10.04.2018, n. 2168): quello del 3 agosto, appunto, era un bando dotato di una propria autonomia (come emerge dal suo contenuto, prima richiamato nei suoi aspetti principali), nel quale la delibera n. 7/2018 veniva appena, e solo nei suoi ‘estremi’, citata, sicché certamente lo stesso non era ad essa ricollegato da un rapporto immediato, diretto e necessario, tale da rappresentarne, senza necessità di nuove valutazioni sugli interessi in gioco, una conseguenza ineluttabile (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 18.07.2019 n. 1307 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Per giurisprudenza consolidata, "in presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante, solo per la prima ammettendosi che l’annullamento dell’atto presupposto si estenda automaticamente a quello consequenziale, anche ove quest’ultimo non sia stato tempestivamente impugnato.
Quanto alla concreta individuazione della predetta tipologia di effetti, è pacifico che si debba valutare l’intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell’effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo appunto al coinvolgimento di soggetti terzi”.
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In data 14.04.2018 il Comune di Celano provvedeva all'avvio del procedimento per i lavori di aggiudicazione dei lavori del progetto di riqualificazione urbana, sociale e culturale delle aree degradate rioni Muricelle Stazione, Tribuna e Vaschette con la pubblicazione sul sito del Comune di tutta la documentazione progettuale degli interventi previsti.
In data 08.05.2018, i ricorrenti presentavano offerta in nome e per conto della costituenda RTI - TO. SRL (Capogruppo/mandataria) e della ABS Co.In. srl (Mandante).
Con Determina n. 446 del 17.07.2018 il Comune approvava i verbali di gara e formulava la proposta di aggiudicazione in favore del raggruppamento ricorrente.
In data 03.10.2018, con nota Prot. n. 17617, il Comune di Celano comunicava l'annullamento in autotutela delle gare in oggetto ai sensi dell'art 21-octies L.241/1990 "in quanto nelle lettere di invito erano presenti vizi insanabili”.
Avverso questo provvedimento insorge l’odierna ricorrente chiedendone l’annullamento.
Si è costituito il Comune di Celano resistendo al ricorso e chiedendone la reiezione.
Alla pubblica udienza del 06.02.2019 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Il ricorso è improcedibile considerato che le ricorrenti hanno omesso di impugnare la delibera di G.C. n. 217 del 13.10.2018 di presa d’atto del predetto intervento in autotutela e di invito a procedere con la nuova gara, nonché la determina n. 682 del 14.12.2018 con cui si dà formale avvio alla procedura di gara sulla scorta di nuovi presupposti e condizioni coerenti con la disposta autotutela e le relative ragioni a sostegno.
A nulla rileva la considerazione, svolta con memoria, secondo la quale i provvedimenti successivi, e in particolare l’avviso pubblico, prot. n. 785, del 17.01.2019 con cui il Comune ha indetto le operazioni di sorteggio degli operatori economici da invitare alla nuova procedura negoziata, sarebbero da considerarsi affetti da invalidità caducante.
Invero, per giurisprudenza consolidata, "in presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante, solo per la prima ammettendosi che l’annullamento dell’atto presupposto si estenda automaticamente a quello consequenziale, anche ove quest’ultimo non sia stato tempestivamente impugnato. Quanto alla concreta individuazione della predetta tipologia di effetti, è pacifico che si debba valutare l’intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell’effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo appunto al coinvolgimento di soggetti terzi” (Cons. Stato, Sez. IV, 13.06.2013 n. 3272; Sez. VI, 27.11.2012 n. 1418). Breve nota a sentenza Cons. Stato, Sez., V, 20.01.2015, n. 163.
Nel caso di specie l’avviso pubblico in parola si fonda espressamente sulla determina n. 682 del 14.12.2018, per come integrata con successiva determina n. 17/2019, ovverosia su due atti diversi e autonomi rispetto a quello oggetto del presente gravame e che, come detto, risultano non impugnati dalle ricorrenti.
Ne consegue l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse nella parte in cui si impugna il provvedimento in autotutela assunto dal Comune resistente (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 23.03.2019 n. 167 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La natura giuridica di atto provvisorio ad effetti instabili, tipica dell’aggiudicazione provvisoria, spiega la non tutelabilità processuale di quest’ultima ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della l. n. 241 del 1990: la sua revoca (ovvero, la sua mancata conferma) non è infatti qualificabile alla stregua di un esercizio del potere di autotutela, tale cioè da richiedere un raffronto tra l'interesse pubblico e quello privato sacrificato, non essendo prospettabile alcun affidamento del destinatario, dal momento che l'aggiudicazione provvisoria non è l'atto conclusivo del procedimento.
Se la decisione di non giungere alla naturale conclusione della gara interviene nella fase dell'aggiudicazione provvisoria –fase nella quale non si è determinato alcun affidamento qualificato neppure in capo all'aggiudicatario provvisorio (titolare, al più, di una mera aspettativa di fatto)– del pari non sorge alcun obbligo in capo alla stazione appaltante di procedere alla notifiche degli avvisi di avvio del procedimento, né all'aggiudicatario provvisorio né a terzi.
Fino a quando non sia intervenuta l'aggiudicazione definitiva rientra nel potere discrezionale dell'amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara.

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Per quanto il provvedimento impugnato si limiti a revocare l’aggiudicazione provvisoria pronunciata in sede di gara con il verbale della commissione giudicatrice, è evidente che esso abbia effetto caducante sull’intera procedura.
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10.1. – La pacifica giurisprudenza (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. V, 09.11.2018, n. 6323) afferma che la natura giuridica di atto provvisorio ad effetti instabili, tipica dell’aggiudicazione provvisoria, spiega la non tutelabilità processuale di quest’ultima ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della l. n. 241 del 1990 (cfr. anche ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 20.08.2013, n. 4183): la sua revoca (ovvero, la sua mancata conferma) non è infatti qualificabile alla stregua di un esercizio del potere di autotutela, tale cioè da richiedere un raffronto tra l'interesse pubblico e quello privato sacrificato, non essendo prospettabile alcun affidamento del destinatario, dal momento che l'aggiudicazione provvisoria non è l'atto conclusivo del procedimento.
Se la decisione di non giungere alla naturale conclusione della gara interviene nella fase dell'aggiudicazione provvisoria –fase nella quale non si è determinato alcun affidamento qualificato neppure in capo all'aggiudicatario provvisorio (titolare, al più, di una mera aspettativa di fatto)– del pari non sorge alcun obbligo in capo alla stazione appaltante di procedere alla notifiche degli avvisi di avvio del procedimento, né all'aggiudicatario provvisorio né a terzi (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 18.07.2012, n. 4189).
Fino a quando non sia intervenuta l'aggiudicazione definitiva rientra nel potere discrezionale dell'amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara (Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2013, n. 2418; in termini, Cons. Stato, Sez. IV, 12.01.2016, n. 67).
10.2. – Nel caso in esame è accaduto che, nelle more della gara, sia sopravvenuto tra i componenti del raggruppamento aggiudicatario un inconciliabile contrasto tra le società mandanti, che reclamano l’esclusione della mandataria capogruppo, e quest’ultima, che afferma di comporre ancora a pieno titolo il raggruppamento aggiudicatario.
Tale dato fattuale, che è logicamente presupposto all’interrogativo giuridico circa la legittimità della modifica soggettiva in senso riduttivo del raggruppamento, è stato ben evidenziato dall’amministrazione intimata nella comunicazione di avvio del procedimento, poi richiamata nel provvedimento di revoca.
Nessuno dei motivi articolati nei due ricorsi ha colpito tale profilo motivazionale del provvedimento impugnato, il quale è da solo sufficiente a giustificare la revoca dell’aggiudicazione provvisoria.
Infatti, la forte conflittualità, testimoniata anche dal fatto che capogruppo e mandanti abbiano agito separatamente in giudizio, articolando motivi di ricorso in parte non coincidenti, è sufficiente a sconsigliare la prosecuzione della gara e l’affidamento dell’appalto.
10.3. – Va poi precisato che, per quanto il provvedimento impugnato si limiti a revocare l’aggiudicazione provvisoria pronunciata in sede di gara con il verbale della commissione giudicatrice del 05.02.2015, è evidente che esso abbia effetto caducante sull’intera procedura, cosicché non sussiste il vizio di incompetenza dedotto dalle mandanti ricorrenti, né rimangono efficaci i provvedimenti dirigenziali di approvazione dell’aggiudicazione provvisoria (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 20.02.2019 n. 340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'annullamento del provvedimento di nomina della commissione di gara sostanzia l'effetto caducante sugli atti della gara medesima.
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- rilevato preliminarmente che con sentenza n. 79/2019, deliberata alla medesima camera di consiglio e pubblicata il 14.01.2019, resa sul ricorso n. 716/2018, è stato annullato il provvedimento di nomina della commissione della gara per cui è causa, con effetto caducante sugli atti della gara medesima;
- considerato che tale evenienza processuale determina la sopravvenuta carenza d’interesse a coltivare il ricorso in esame, posto che lo stesso è rivolto contro provvedimenti ormai annullati all’esito di diverso giudizio;
- ritenuto che tale circostanza imponga al Collegio di dichiarare improcedibile il ricorso in esame, ed il connesso ricorso incidentale, per sopravvenuta carenza d’interesse, e che sussistono le condizioni di legge per disporre la compensazione fra le parti delle spese del giudizi, avuto riguardo alla peculiarità della fattispecie (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 21.01.2019 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Un radicale effetto caducante degli atti dell’intera gara può configurarsi nei casi nei quali i motivi di annullamento ineriscano all’illegittima composizione della commissione di gara o alla sua inidoneità tecnica, oppure a una condotta della commissione gravemente lesiva dei doveri di imparzialità o che denotino un atteggiamento di prevenzione nei confronti di uno o più concorrenti e/o di favoreggiamento di altri, ipotesi tutte accomunate dall’immanenza del vizio all’assetto soggettivo dell’organo collegiale e/o all’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) connotante l’operato dei suoi componenti, in quanto tali ostative alla rinnovazione della fase di valutazione delle offerte tecniche dinnanzi alla stessa commissione di gara.
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2.4 La fattispecie in esame appare viceversa assimilabile alla vicenda affrontata dal TAR Brescia, sez. II – 26/03/2014 n. 306, che non risulta appellata, avente per oggetto l’interpretazione dell’art. 84, comma 4, del D.Lgs. 163/2006 (Codice dei contratti previgente), per cui “I Commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
Ha statuito questo Tribunale che “la disciplina è certamente orientata a garantire l’imparzialità dei membri del plesso di gara attraverso una puntuale separazione dei ruoli, e tuttavia la violazione della prescrizione non ha inciso sulla parità di trattamento né ha lasciato trasparire un atteggiamento di favore (o di disfavore) nei confronti di uno o più concorrenti. L’interesse pubblico perseguito dalla disposizione del Codice dei contratti è il massimo livello di imparzialità, con la rigorosa distinzione tra chi ha effettuato gli studi sull’appalto da esperire ed elaborato le regole della competizione e coloro che sono chiamati ad applicarle nel caso concreto. In buona sostanza l’inosservanza della doverosa separazione delle funzioni, seppur illegittima, non provoca una perturbazione del processo decisionale a danno (o a vantaggio) di una singola (o di alcune) imprese in competizione.
Ebbene, è evidente a questo punto che alcun vulnus è arrecato al leale confronto tra imprese nel caso di rinnovo delle operazioni con la semplice sostituzione del componente afflitto da causa di incompatibilità e susseguente ripresa della procedura dallo stadio “depurato” dal vizio. Detta conclusione è avvalorata dalla circostanza che la predetta situazione ostativa non investe il Presidente della Commissione, ammettendo il legislatore che la conoscenza e l’elaborazione degli atti di gara non refluiscono sulla par condicio dei concorrenti, come nel caso –del tutto diverso– di gravi situazioni di collusione con una o più imprese concorrenti, che imporrebbero la radicale revisione del procedimento inquinato.
Un più radicale effetto caducante degli atti dell’intera gara potrebbe, invece, configurarsi nei casi –diversi da quello sub iudice– nei quali i motivi di annullamento ineriscano all’illegittima composizione della commissione di gara o alla sua inidoneità tecnica, oppure a una condotta della commissione gravemente lesiva dei doveri di imparzialità o che denotino un atteggiamento di prevenzione nei confronti di uno o più concorrenti e/o di favoreggiamento di altri, ipotesi tutte accomunate dall’immanenza del vizio all’assetto soggettivo dell’organo collegiale e/o all’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) connotante l’operato dei suoi componenti, in quanto tali ostative alla rinnovazione della fase di valutazione delle offerte tecniche dinnanzi alla stessa commissione di gara
” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.01.2019 n. 32 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: All'annullamento del disciplinare di gara consegue l'effetto caducante di tutti gli atti della procedura, non potendo questo Tribunale intervenire a riscriverne surrettiziamente alcune parti.
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4. Dall’accoglimento delle censure di cui al punto precedente discende, al contrario, la necessità di scrutinare i motivi di doglianza avanzati dalla Si.He. s.r.l. con il ricorso incidentale.
L’originaria controinteressata, declinando le medesime censure in relazione ai parametri di valutazione 1c, 1e, 1g, 1f e 3a, lamenta che, ove dovesse essere ritenuta fondata la tesi prospettata da Roche in relazione all’interpretazione di ciascuno dei suddetti parametri valutativi, si perverrebbe ad un’interpretazione della lex specialis contrastante con gli artt. 4, 59, 60 e 68 del d.lgs. n. 50 del 2016, nonché dei principi di proporzionalità, concorrenzialità e non discriminazione fra operatori del mercato.
Tali censure sono fondate con specifico riferimento al citato parametro 1e che richiede che lo strumento fornito sia dotato di calibrazione automatica tramite “chip code”, escludendo in tal modo, secondo l’interpretazione sopra accolta, la possibilità di positiva valutazione da parte della Commissione di soluzioni tecnologiche alternative.
Come osservato dalla controinteressata e confermato negli scritti difensivi dalla stessa Ro.Di. s.p.a., quest’ultima è l’unico produttore a fornire sul mercato strumenti che impiegano il sistema con chip code.
Tale criterio è, dunque, da ritenersi illegittimo, in quanto non consente di valorizzare modalità di lettura alternative e similari, in violazione dell’art. 68 d.lgs. n. 50 del 2016. La citata disposizione, dopo aver previsto al comma 4, che “[l]e specifiche tecniche consentono pari accesso degli operatori economici alla procedura di aggiudicazione e non devono comportare direttamente o indirettamente ostacoli ingiustificati all'apertura degli appalti pubblici alla concorrenza”, stabilisce che “[s]alvo che siano giustificate dall'oggetto dell'appalto, le specifiche tecniche non possono menzionare una fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare caratteristico dei prodotti o dei servizi forniti da un operatore economico specifico, né far riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un'origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti. Tale menzione o riferimento sono tuttavia consentiti, in via eccezionale, nel caso in cui una descrizione sufficientemente precisa e intelligibile dell'oggetto dell'appalto non sia possibile applicando il comma 5. In tal caso la menzione o il riferimento sono accompagnati dall'espressione «o equivalente»”.
Le specifiche tecniche, salvo casi particolari, non possono menzionare un procedimento particolare caratteristico dei prodotti forniti da un operatore economico specifico, salvo prevedere la ammissibilità di soluzioni funzionalmente equivalenti. La legge di gara, pertanto, non prevedendo la possibilità per la Commissione di valutare prodotti aventi caratteristiche equivalenti ha introdotto limiti agli operatori in contrasto con la citata norma che, in attuazione del principio comunitario della massima concorrenza, è finalizzata a che la ponderata e fruttuosa scelta del miglior contraente non debba comportare ostacoli non giustificati da reali esigenze tecniche.
Dalla rilevata illegittimità discende la necessità di annullamento del disciplinare di gara, con conseguente effetto caducante di tutti gli atti della procedura, non potendo questo Tribunale intervenire a riscriverne surrettiziamente alcune parti (cfr. C.d.S., sez. V, 23.11.2018, n. 6639)
(TAR Umbria, sentenza 14.01.2019 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'annullamento del bando sostanzia effetto caducante di tutti gli atti della procedura, cui consegue l’obbligo per l’Amministrazione resistente di integrale riedizione della gara.
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In definitiva pertanto, in accoglimento del primo motivo di ricorso, deve essere annullato il bando con conseguente effetto caducante di tutti gli atti della procedura, cui consegue l’obbligo per l’Amministrazione resistente di integrale riedizione della gara nel rispetto dei principi sopra evidenziati, con assorbimento di tutte le ulteriori censure proposte non espressamente esaminate, comprese quelle contenute nei motivi aggiunti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 02.01.2019 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’effetto caducante degli atti dell'intera gara si configura solamente nel caso in cui i motivi di annullamento siano relativi all'illegittima composizione della Commissione di gara o alla sua non idoneità tecnica, oppure alla condotta della Commissione seriamente lesiva dei doveri di imparzialità o che denotino un atteggiamento di prevenzione nei confronti di uno o più concorrenti o di favoreggiamento di altri, condizioni che non risultano però integrate, nel caso di specie.
In ogni caso, va detto, si tratterebbe di annullamento dell’aggiudicazione definitiva.
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Neppure è condivisibile la dedotta contraddizione del principio di cui all’art. 84, comma 12, del d.lgs. n. 163 del 2006, disposizione che prevede l’obbligo di riconvocazione della Commissione di gara non certo nell’ipotesi in cui la stazione appaltante decida di non approvare l’aggiudicazione provvisoria in favore della prima graduata, ma solamente laddove si sia provveduto a disporre il “rinnovo del procedimento di gara a seguito di annullamento dell'aggiudicazione o di annullamento dell'esclusione di taluno dei concorrenti”.
Va ribadito, al riguardo (ex multis, Cons. Stato, VI, 04.09.2014, n. 4514), che l’effetto caducante degli atti dell'intera gara –presupposto di applicabilità della norma richiamata da parte appellante– si configura solamente nel diverso caso in cui i motivi di annullamento siano relativi all'illegittima composizione della Commissione di gara o alla sua non idoneità tecnica, oppure alla condotta della Commissione seriamente lesiva dei doveri di imparzialità o che denotino un atteggiamento di prevenzione nei confronti di uno o più concorrenti o di favoreggiamento di altri, condizioni che non risultano però integrate, nel caso di specie.
In ogni caso, va detto, si tratterebbe di annullamento dell’aggiudicazione definitiva (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.10.2018 n. 5863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: La Sezione rammenta il principio in virtù del quale, per ben distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante, occorre valutare «… l'intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi”…».
Ad avviso della Sezione, la controversia in esame, se ha ad oggetto un livello di progettazione sì preliminare, ma contenente, in parte, effetti tipici del livello progettuale successivo, delinea un caso d’invalidità caducante, onde l’eventuale travolgimento dell’atto presupposto (l’approvazione del preliminare), farebbe venir meno subito e necessariamente quello definitivo, privato di quei contenuti (gli effetti edilizi e paesaggistici) cristallizzati al livello progettuale precedente e non rinnovati, se non in senso meramente confermativo, nel successivo livello.
La tesi di fondo della sentenza di rimessione è che, nell'ambito della serie procedimentale degli atti per l’approvazione del citato progetto preliminare dell’opera, vi sia stata quella perturbazione dell'iter procedimentale tale da far assumere a tal progetto, sia pur in parte, caratteristiche proprie della progettazione definitiva. In tal caso, la relativa statuizione sarebbe capace d’incidere in via immediata e diretta sui beni dei proprietari privati viciniori al sito d’allocazione dell’opera e, quindi, da esser lesive nei loro confronti. Da ciò discenderebbe l’impugnabilità e, al contempo, l’interesse degli odierni appellanti a far constare in via d’azione l'illegittimità di tal progetto preliminare, altrimenti non autonomamente impugnabile.
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... per la riforma della sentenza breve del TAR Liguria, sez. I, n. 585/2013, resa tra le parti sull’approvazione del progetto preliminare, nonché per la localizzazione e la realizzazione di un impianto di depurazione in Rapallo, loc. Ronco;
...
 4. – Questo Consiglio (IV sez.), con la sentenza parziale n. 2122 del 05.04.2018, ha anzitutto riunito i due citati appelli. Quindi ha disatteso l’eccezione, sollevata dalle parti resistenti, d’improcedibilità dell’appello per sopravvenuta carenza d’interesse, a seguito della medio tempore intervenuta approvazione del progetto definitivo del depuratore, disposta con la determina comunale n. 680 del 10.07.2014. Giova precisare che anche tal provvedimento è stato impugnato dinanzi al TAR Liguria da parte degli odierni appellanti, in una con i nuovi atti di approvazione progettuale. In quella sede sono state riproposte le medesime censure già spese contro gli atti oggetto dell’odierno gravame e, con iterazione dell’impugnazione, pure avverso questi ultimi, in quanto atti presupposti.
4.1. – Sul punto, la Sezione remittente ha precisato, per un verso e al di là della normativa ratione temporis applicabile —giacché la disciplina dell’attività di progettazione è di fatto immutata e continua ad articolarsi, sotto il profilo procedimentale, nei tre successivi livelli di progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva) con progressivo approfondimento tecnico—, che il sistema è congegnato in modo che le scelte della fase progettuale precedente condizionino quelle della fase successiva sotto i profili sia della legittimità che del merito.
Per altro e connesso verso, ciascun progetto è presupposto dal precedente, tant’è che è consentita l’omissione d’uno dei primi due livelli di progettazione, ma solo se il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso e ne siano garantiti i requisiti di legge. Pertanto, ove si dovessero rivelare fondati i gravami esperiti contro il progetto preliminare, in virtù di tal nesso procedimentale, l’annullamento determinerà effetti caducanti a valle, ossia sulla approvazione del progetto definitivo, poiché verrà a mancare –sul piano logico-giuridico– il livello progettuale presupposto, solo il quale può consentire il perfezionamento della fattispecie.
La Sezione rammenta al riguardo il principio (cfr. Cons. St., VI, 27.11.2012 n. 5986; ma più di recente cfr. id., V, 10.04.2018 n. 2168) in virtù del quale, per ben distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante, occorre valutare «… l'intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi”…».
Ad avviso della Sezione, la controversia in esame, se ha ad oggetto un livello di progettazione sì preliminare, ma contenente, in parte, effetti tipici del livello progettuale successivo, delinea un caso d’invalidità caducante, onde l’eventuale travolgimento dell’atto presupposto (l’approvazione del preliminare), farebbe venir meno subito e necessariamente quello definitivo, privato di quei contenuti (gli effetti edilizi e paesaggistici) cristallizzati al livello progettuale precedente e non rinnovati, se non in senso meramente confermativo, nel successivo livello.
La tesi di fondo della sentenza di rimessione è che, nell'ambito della serie procedimentale degli atti per l’approvazione del citato progetto preliminare dell’opera, vi sia stata quella perturbazione dell'iter procedimentale tale da far assumere a tal progetto, sia pur in parte, caratteristiche proprie della progettazione definitiva. In tal caso, la relativa statuizione sarebbe capace d’incidere in via immediata e diretta sui beni dei proprietari privati viciniori al sito d’allocazione dell’opera e, quindi, da esser lesive nei loro confronti. Da ciò discenderebbe l’impugnabilità e, al contempo, l’interesse degli odierni appellanti a far constare in via d’azione l'illegittimità di tal progetto preliminare, altrimenti non autonomamente impugnabile (cfr., per tutti questi passaggi argomentativi, Cons. St., II, 14.04.2011 n. 2367, citato in sentenza; nonché id., 02.09.2014 n. 5035) (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 28.09.2018 n. 15 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Quando sussiste un vizio di legittimità dell’atto presupposto tale da incidere sull’atto presupponente, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi (invalidità derivata ad effetto caducante), ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
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Secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale (cfr., Cons. Stato, 2611/2015), quando sussiste un vizio di legittimità dell’atto presupposto tale da incidere sull’atto presupponente, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi (invalidità derivata ad effetto caducante), ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi” (cfr., tra le tante: C.d.S., Sez. V, 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272, e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986; VI, 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Nel caso di specie, il provvedimento sopravvenuto, non essendo inevitabile conseguenza del primo e non collocandosi nella medesima sequenza procedimentale, è stato autonomamente gravato dalla ricorrente con i proposti motivi aggiunti, sicché, stante la sua illegittimità derivata, se ne può dichiarare l’annullamento, con il conseguente obbligo dell’amministrazione resistente di concludere il procedimento di gara e determinarsi in ordine all'aggiudicazione dell'appalto alla odierna ricorrente, con salvezza di nuovi e motivati provvedimenti (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 05.06.2018 n. 884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Illegittimità della lex specialis ed effetti nei confronti del provvedimento conclusivo della stessa.
L'’ipotetica illegittimità della lex specialis di gara non ha efficacia automaticamente caducante e, dunque, non determina l’automatica illegittimità del provvedimento applicativo conclusivo della stessa, come l’esclusione dalla procedura, ma ha mera efficacia viziante per illegittimità derivata.
Ne consegue che l’atto applicativo, per perdere efficacia, deve essere autonomamente impugnato, appunto deducendo l’illegittimità derivante da quella della lex specialis di gara, restando, altrimenti, pienamente efficace
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Il ricorso principale è improcedibile, mentre il ricorso per motivi aggiunti è inammissibile, come eccepito dalle controparti.
Ed invero, con riferimento al primo, la società ricorrente, dopo avere impugnato con il ricorso principale la lex specialis di gara, ha partecipato alla procedura concorsuale ma è stata dalla stessa esclusa per il mancato raggiungimento della soglia di sbarramento di 36 punti prevista per il punteggio tecnico.
La gara è stata, poi, aggiudicata alla Pi. S.r.l.
Be.Di. ha, però, proceduto ad impugnare con ricorso per motivi aggiunti la sola aggiudicazione e non anche la sua esclusione dalla gara.
Ne consegue l’improcedibilità del ricorso principale proposto avverso la lex specialis di gara per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto, pur nel caso di accoglimento del ricorso, resterebbe comunque efficace la sua esclusione dalla gara.
In proposito è stato, invero, affermato dalla giurisprudenza amministrativa che
l’ipotetica illegittimità della lex specialis di gara non ha efficacia automaticamente caducante e, dunque, non determina l’automatica illegittimità del provvedimento applicativo conclusivo della stessa, come l’esclusione dalla procedura, ma ha mera efficacia viziante per illegittimità derivata. Ne consegue che l’atto applicativo, per perdere efficacia, deve essere autonomamente impugnato, appunto deducendo l’illegittimità derivante da quella della lex specialis di gara, restando, altrimenti, pienamente efficace (cfr. Cons. Stato, sez. III, 18.06.2015, n. 3126; sez. V, 05.11.2014, n. 5463; Tar Basilicata, 12.12.1989, n. 528).
Il ricorso principale è, dunque, improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 11.05.2018 n. 1257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’annullamento del disciplinare di gara comporta la caducazione dell’intera procedura.
La riedizione della gara, in esito all’annullamento della lex specialis, risulta in astratto circostanza certamente idonea a restituire alla parte appellante l’opportunità di ottenere il bene della vita conteso, così da configurare in capo alla stessa ricorrente una aspettativa di tipo “strumentale”, positivamente apprezzabile, in termini di attualità e concretezza, ai fini del favorevole scrutinio di ammissibilità della domanda.
Sulla tematica in esame questa Sezione ha già osservato che:
   - allorché le censure proposte sono dirette ad ottenere l'annullamento dell'intera procedura e non il conseguimento di una immediata collocazione utile nella graduatoria impugnata, non sussiste in capo al deducente l'onere di fornire alcuna prova di resistenza;
   - ciò è tanto più vero nella ipotesi in cui oggetto di censura è lo stesso assetto di regole disciplinari sulla cui base si è svolta la selezione, in particolare laddove dette regole rendano scarsamente intelligibili (e quindi non criticabili) gli esiti del confronto competitivo;
   -
l’utilitas che in ipotesi siffatte la parte ricorrente in giudizio può ritrarre è quella, già evidenziata, della rinnovazione della gara, interesse strumentale che la Corte di Giustizia UE riconosce, nelle controversie relative all'aggiudicazione di appalti pubblici, come meritevole di tutela per esigenze di effettività.
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1.4. Fugato ogni dubbio sull’asserito carattere inedito della domanda, occorre aggiungere, sotto il profilo della sussistenza di un valido interesse ad agire posto a suo fondamento, che la riedizione della gara, in esito all’annullamento della lex specialis, risulta in astratto circostanza certamente idonea a restituire alla parte appellante l’opportunità di ottenere il bene della vita conteso, così da configurare in capo alla stessa ricorrente una aspettativa di tipo “strumentale”, positivamente apprezzabile, in termini di attualità e concretezza, ai fini del favorevole scrutinio di ammissibilità della domanda.
1.5. Sulla tematica in esame questa Sezione ha già osservato che:
   - allorché le censure proposte sono dirette ad ottenere l'annullamento dell'intera procedura e non il conseguimento di una immediata collocazione utile nella graduatoria impugnata, non sussiste in capo al deducente l'onere di fornire alcuna prova di resistenza (si vedano, in tal senso, Cons. Stato, sez. III, 02.03.2018, n. 1312 e 05.03.2018, n. 1335; Id., sez. VI, 01.04.2016, n. 1288);
   - ciò è tanto più vero nella ipotesi in cui oggetto di censura è lo stesso assetto di regole disciplinari sulla cui base si è svolta la selezione, in particolare laddove dette regole rendano scarsamente intelligibili (e quindi non criticabili) gli esiti del confronto competitivo;
   - l’utilitas che in ipotesi siffatte la parte ricorrente in giudizio può ritrarre è quella, già evidenziata, della rinnovazione della gara, interesse strumentale che la Corte di Giustizia UE riconosce, nelle controversie relative all'aggiudicazione di appalti pubblici, come meritevole di tutela per esigenze di effettività (cfr. sentenza Puligienica, Corte di giustizia Ue, grande sezione, 05.04.2016, C-689/2013).
1.6. Resta da aggiungere che una prova di resistenza sugli esiti alternativi della gara –nei termini evocati dalle parti resistenti e condivisi dal Tar– risulterebbe esigibile nell’ipotesi in cui l’accoglimento dell’impugnativa prefigurasse un annullamento parziale della gara e una rinnovazione della stessa mediante rivalutazione delle offerte già formulate. A fronte di un siffatto svolgimento del giudizio, sarebbe certamente onere della parte ricorrente dimostrare il proprio interesse all’azione, allegando elementi attestanti un plausibile esito a sé favorevole delle successiva fase valutativa delle offerte.
Diverso è il caso in cui l’accoglimento del ricorso abbia un effetto di radicale caducazione della gara, tale da rendere del tutto imprevedibili gli scenari della futura e rinnovata competizione: in una tale evenienza, la prova di resistenza risulterebbe vana se riferita alla vecchia gara, e del tutto astratta e congetturale se rapportata ad una nuova procedura della quale si ignorano i contenuti minimi di riferimento.
1.7. Va altresì respinta l’eccezione di tardività dell’impugnativa, argomentata sulla base dell’assunto per cui ogni contestazione inerente le regole della procedura (o la composizione della Commissione) dovrebbe essere fatte valere attraverso l’impugnazione immediata della lex specialis.
Sul punto è sufficiente osservare che il caso in esame esula dalla casistica in relazione alla quale è stato elaborato il criterio della diretta e immediata impugnabilità del bando (per una illustrazione della portata del principio si veda Cons. St., sez. III, ordinanza 07.11.2017, n. 5138).
1.8. Appurata l’ammissibilità della censura, nel merito della stessa è decisivo sottolineare come il disciplinare, pur ripartendo il punteggio in relazione alle diverse tipologie di prodotti, non abbia assegnato alcuno specifico peso ponderale alle caratteristiche tecniche (melius, “indicatori” di qualità) sulla cui base andava condotto il confronto delle offerte.
L’elencazione (contenuta nel disciplinare) degli aspetti tecnici su cui concentrare l’attenzione non è infatti accompagnata da alcuna informazione in ordine a come valorizzare i singoli “indicatori” di qualità e all’incidenza (numerica o di altro tipo) da conferire loro. Né tale indicazione è ricavabile dal capitolato o dal documento “Protocollo Prove”.
Ne deriva che la sola lettura delle griglie valutative elaborate dalla Commissione non consente di comprendere sotto quale specifico profilo tecnico un prodotto sia stato ritenuto preferibile o meno rispetto agli altri (cfr., in termini, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 05.07.2016, n. 193).
Più chiaramente, l'espressione, da parte della commissione, del giudizio tecnico mediante la mera indicazione numerica per il singolo prodotto, senza nulla specificare quanto ai sottoelementi –in mancanza di una compiuta individuazione, in termini di rispettivo peso, di tutti criteri valutativi specificati- da un lato non consente di giustificare l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica e, dall'altro, impedisce una effettiva ricostruzione dell'iter logico seguito nella verifica delle offerte dal punto di vista tecnico.
In tal modo, risulta violata la logica comparativa che sovraintende la modalità del confronto a coppie, il quale nel caso di specie si è quindi risolto nell’affermare apoditticamente la superiorità di un prodotto sull’altro, senza alcuna intellegibile specificazione delle ragioni e delle caratteristiche tecniche che hanno determinato tale giudizio di preferenza.
Del resto, per costante giurisprudenza nel confronto a coppie la motivazione può ritenersi insita nei punteggi, purché il bando contenga a monte criteri di valutazione sufficientemente dettagliati che consentano di risalire con immediatezza dalla ponderazione numerica alla valutazione ad essa sottesa.
1.9. Il profilo di criticità segnalato dalla parte appellante e oggetto del primo motivo di appello attiene alla lex specialis e come tale integra “un vizio a monte della procedura”.
Ne consegue che l’annullamento del disciplinare comporta la caducazione dell’intera procedura, che dovrà essere rinnovata dalla stazione appaltante, nell’osservanza dei rilievi qui svolti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 16.04.2018 n. 2258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale, in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
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6. Col terzo motivo l’appellante impugna la dichiarazione di inammissibilità per carenza di interesse del ricorso introduttivo avverso la delibera di Giunta n. 136/15, reputata dal primo giudice atto di indirizzo politico.
Col quarto motivo impugna la dichiarazione di inammissibilità dei primi motivi aggiunti avverso diversi atti comunali, reputati non lesivi della posizione giuridica della ricorrente.
6.1. Entrambi i motivi sono improcedibili per carenza di interesse, in quanto anche se fossero accolti, resterebbero validi ed efficaci -in conseguenza del mancato accoglimento dei primi due motivi d’appello- la deliberazione del Consiglio Comunale n. 27/16 e gli atti allegati e successivi, con i quali il Comune di Basiglio ha affidato alla società in house S.A.S.O.M. S.r.l. la gestione del servizio rivendicata dall’appellante.
E’ qui sufficiente richiamare il consolidato insegnamento giurisprudenziale, per il quale in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso della successione tra l’atto di competenza della Giunta Comunale (oggetto del terzo motivo) e l’atto adottato dal Consiglio Comunale (oggetto dei primi due motivi), previo esperimento di istruttoria e previa approvazione della relazione di cui all’art. 34, comma 20, d.l. n. 179 del 2012; a maggior ragione, è da escludere tra gli atti impugnati con i primi motivi aggiunti, riguardanti sostanzialmente la proroga della gestione nei confronti di A.M.S.A., in attesa dell’affidamento del servizio a società in house, e gli atti impugnati con i secondi motivi aggiunti, concernenti tale ultimo affidamento, oramai incontrovertibile.
In conclusione, l’appello va respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.04.2018 n. 2168 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il rapporto tra l’invalidità dell’atto presupposto (il bando di gara) e l’atto consequenziale (il provvedimento di aggiudicazione) si specifica nel senso della produzione di un vizio autonomo di quest’ultimo, da impugnare a sua volta mediante azione di annullamento proposta con motivi aggiunti.
Invero, “Essendo tardiva l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, ossia del provvedimento finale che conferisce l’utilitas all'aggiudicatario, le doglianze avverso il bando di gara o l'atto di esclusione diventano improcedibili, non essendovi più interesse al loro annullamento, in quanto non potrebbe esservi diverso esito del procedimento concorsuale”.
Altresì, il rapporto di conseguenzialità immediata e diretta tra atto a monte (bando di gara) e atto a valle (aggiudicazione definitiva) sussiste solo ove non siano da compiere nuove ed ulteriori valutazioni di interessi e non già allorquando, come nel caso di specie, il provvedimento finale sia frutto anche di valutazioni operate nella fase procedimentale successiva all’adozione dell’atto presupposto: ipotesi, d’altronde, tipica delle procedure di affidamento di contratti pubblici.
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In ordine alla necessità di impugnare il provvedimento di aggiudicazione definitiva intervenuto in un momento successivo rispetto all’iniziale impugnazione proposta avverso il bando di gara, si registrano due diversi orientamenti.
Secondo un primo indirizzo, detta necessità non sorge ove l’impugnazione originaria sia diretta contro una clausola del bando che non si estenda anche a singoli atti preliminari all’aggiudicazione (quale, ad esempio, un provvedimento di esclusione dalla procedura), giacché il vizio, afferendo ad una norma generale, avrebbe un effetto caducante anche nei riguardi del conseguenziale provvedimento di aggiudicazione definitiva (v. Consiglio di Stato, V, n. 617/2017).
La mancata impugnazione di quest’ultimo, in sostanza, non comporterebbe l’improcedibilità del ricorso ogniqualvolta il bene della vita perseguito dall’interessato consista proprio nella possibilità stessa di risultare affidatario diretto della procedura –indipendentemente dall’esito della medesima– ponendosi, l’aggiudicazione definitiva, in un rapporto di conseguenzialità diretta ed immediata rispetto agli atti iniziali della gara, data l’assenza di nuove ed ulteriori valutazioni compiute dall’Amministrazione (v. Consiglio di Stato, V, n. 1828/2013).
Secondo un diverso orientamento, invece, il rapporto tra l’invalidità dell’atto presupposto (il bando di gara) e l’atto consequenziale (il provvedimento di aggiudicazione) si specifica nel senso della produzione di un vizio autonomo di quest’ultimo, da impugnare a sua volta mediante azione di annullamento proposta con motivi aggiunti (cfr. Consiglio di Stato, n. 663/2015, secondo cui “Ne deriva che, essendo tardiva l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, ossia del provvedimento finale che conferisce l’utilitas all'aggiudicatario, le doglianze avverso il bando di gara o l'atto di esclusione diventano improcedibili, non essendovi più interesse al loro annullamento, in quanto non potrebbe esservi diverso esito del procedimento concorsuale”; cfr., nello stesso senso, Consiglio di Stato, IV, n. 1769/2015).
Il Collegio ritiene di aderire a tale ultimo indirizzo, dovendosi considerare che il rapporto di conseguenzialità immediata e diretta tra atto a monte (bando di gara) e atto a valle (aggiudicazione definitiva) sussista solo ove non siano da compiere nuove ed ulteriori valutazioni di interessi e non già allorquando, come nel caso di specie, il provvedimento finale sia frutto anche di valutazioni operate nella fase procedimentale successiva all’adozione dell’atto presupposto: ipotesi, d’altronde, tipica delle procedure di affidamento di contratti pubblici (cfr. TAR Sardegna, Cagliari, I, n. 510/2014; TAR Lombardia, Milano, n. 2643/2014).
4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 09.04.2018 n. 3895 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, la giurisprudenza distingue tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma resta efficace ove non ritualmente impugnato.
La prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente.
Discende dai principi ora richiamati che il rapporto di presupposizione necessaria, cui va ricondotta la figura della invalidità derivata con effetto caducante (e non viziante) sull’atto a valle (che, cioè, si sprigiona a prescindere dall’impugnazione di quest’ultimo), è ravvisabile nelle sole ipotesi in cui gli atti appartengano ad una medesima fattispecie procedimentale, o in cui l’atto precedente sia presupposto unico e indefettibile dell’atto successivo nel senso di costituirne un presupposto di esistenza.
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Il ricorso è inammissibile per carenza di interesse.
La ricorrente ha impugnato la nota con la quale l’ASP di Catania ha comunicato il rigetto della sua istanza di rielaborazione degli atti di gara, ma non ha impugnato il bando di gara pubblicato il 27.03.2017 e gli atti allo stesso allegati, disciplinare e capitolato tecnico.
Ora, l’equivoco di fondo da cui muove la prospettazione di parte ricorrente è quello di ritenere che l’eventuale annullamento della nota di diniego quivi impugnata avrebbe un effetto automaticamente caducante nei confronti della procedura di gara indetta dall’ASP, alla quale ha interesse Ra.Ca.Se., ma alla quale la società ricorrente è rimasta completamente estranea, non avendovi partecipato, e non avendo impugnato le clausole del bando ritenute escludenti, o comunque ostative alla sua partecipazione.
L’assunto è completamente privo di fondatezza, poiché nel caso di specie manca qualsiasi rapporto di presupposizione tra l’atto quivi impugnato ed il procedimento di gara, rapporto di presupposizione che è indispensabile perché si possa configurare, a certe condizioni, un effetto caducante che a partire dall’atto presupposto viziato possa riflettersi e travolgere automaticamente tutta l’attività successiva, strettamente consequenziale all’atto presupposto a monte.
Come è noto, infatti, in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, la giurisprudenza distingue tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma resta efficace ove non ritualmente impugnato; la prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente (Consiglio di Stato, sez. VI, 20.03.2018, n. 1777; TAR Napoli, sez. II, 03.04.2018, n. 2083).
Discende dai principi ora richiamati che il rapporto di presupposizione necessaria, cui va ricondotta la figura della invalidità derivata con effetto caducante (e non viziante) sull’atto a valle (che, cioè, si sprigiona a prescindere dall’impugnazione di quest’ultimo), è ravvisabile nelle sole ipotesi in cui gli atti appartengano ad una medesima fattispecie procedimentale, o in cui l’atto precedente sia presupposto unico e indefettibile dell’atto successivo nel senso di costituirne un presupposto di esistenza (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 06.04.2018 n. 713 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: La disciplina dell’attività di progettazione è rimasta, nella sostanza, pressoché immutata, giacché la stessa si articolava e, tuttora, si articola, sul piano della sequenza procedimentale, in tre successivi livelli di progressivo approfondimento tecnico: il progetto preliminare, il progetto definitivo e il progetto esecutivo.
Il sistema è congegnato dal legislatore in modo che le scelte operate nella fase precedente condizionino quelle della fase successiva, sotto i profili sia della legittimità che del merito. Il nesso procedimentale che avvince le progettazioni è, infatti, di natura funzionale, mirando a realizzare un approfondimento di tipo tecnico che assicuri:
   a) la qualità dell'opera e la rispondenza alle finalità relative;
   b) la conformità alle norme ambientali e urbanistiche;
   c) il soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario.
L’esistenza del nesso di presupposizione tra i livelli progettuali trova conferma anche nell’ultimo periodo del comma 2 del medesimo art. 93 cit., giacché è positivamente stabilito che “E' consentita altresì l'omissione di uno dei primi due livelli di progettazione purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso e siano garantiti i requisiti di cui al comma 1, lettere a), b) e c)”.
Ciò posto, è evidente allora che, qualora si dovessero rivelare fondati i gravami esperiti avverso l’approvazione del progetto preliminare, in virtù del descritto nesso procedimentale, si produrrebbero effetti caducanti a valle, sull’approvazione del progetto definitivo, venendo a mancare –sul piano logico-giuridico– il livello progettuale presupposto che, solo, può consentire il perfezionamento della fattispecie.
Per giurisprudenza consolidata, nell’operare il distinguo fra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante, occorre valutare “l'intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi”.
La fattispecie ricorre esemplarmente nel caso di specie, ove il livello di progettazione approvato, oggetto di impugnazione, contiene –in parte– gli effetti tipici del livello successivo progettuale, sicché ove, in ipotesi, venisse a cadere l’atto presupposto (l’approvazione del preliminare), cadrebbe necessariamente quello definitivo, privato di quei contenuti (gli effetti edilizi e paesaggistici) cristallizzati al livello progettuale precedente e non rinnovati, se non in senso meramente confermativo, nel successivo livello.
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9. In ordine logico-giuridico, va esaminata con priorità l’eccezione, sollevata dalle parti resistenti, di improcedibilità del giudizio di appello per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione perché –si sostiene– medio tempore è stato approvato il progetto definitivo del depuratore con la determinazione comunale n. 680 del 10.07.2014, anch’essa impugnata dinanzi al Tar ligure, con riproposizione, da parte degli odierni appellanti, nei confronti dei nuovi atti di approvazione progettuale, delle medesime censure spese avverso quelli oggetto dell’odierno gravame, nonché, con reiterazione dell’impugnazione, anche avverso questi ultimi, in quanto atti presupposti.
9.1. L’eccezione è destituita di fondamento.
9.1.1. Va premesso, in termini generali, che l’attività di progettazione relativa alla fattispecie controversa è regolata, ratione temporis, dalle previsioni contenute nell’art. 93, comma 4, del D.lgs. n. 163/2006. L’art. 256 di questo stesso decreto ha, infatti, disposto l’espressa abrogazione, con decorrenza 01.07.2006, ai sensi di quanto previsto dal successivo art. 257, della norma per l’innanzi vigente, contenuta all’art. 16, della legge n. 109/1994. Oggi, invece, la fattispecie trova la sua disciplina nell’art. 23 del D.lgs. 18.04.2016, n. 50, avendo quest’ultimo, all’art. 217, comma 1, lettera e), previsto l’espressa abrogazione dell’art. 93 cit..
9.1.2. In disparte il profilo dell’individuazione della norma temporalmente applicabile, è da osservare che la disciplina dell’attività di progettazione è rimasta, nella sostanza, pressoché immutata, giacché la stessa si articolava e, tuttora, si articola, sul piano della sequenza procedimentale, in tre successivi livelli di progressivo approfondimento tecnico: il progetto preliminare, il progetto definitivo e il progetto esecutivo.
9.1.3. Il sistema è congegnato dal legislatore in modo che le scelte operate nella fase precedente condizionino quelle della fase successiva, sotto i profili sia della legittimità che del merito. Il nesso procedimentale che avvince le progettazioni è, infatti, di natura funzionale, mirando a realizzare un approfondimento di tipo tecnico che assicuri:
   a) la qualità dell'opera e la rispondenza alle finalità relative;
   b) la conformità alle norme ambientali e urbanistiche;
   c) il soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario.
9.1.4. L’esistenza del nesso di presupposizione tra i livelli progettuali trova conferma anche nell’ultimo periodo del comma 2 del medesimo art. 93 cit., giacché è positivamente stabilito che “E' consentita altresì l'omissione di uno dei primi due livelli di progettazione purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso e siano garantiti i requisiti di cui al comma 1, lettere a), b) e c)”.
9.1.5. Ciò posto, è evidente allora che, qualora si dovessero rivelare fondati i gravami esperiti avverso l’approvazione del progetto preliminare, in virtù del descritto nesso procedimentale, si produrrebbero effetti caducanti a valle, sull’approvazione del progetto definitivo, venendo a mancare –sul piano logico-giuridico– il livello progettuale presupposto che, solo, può consentire il perfezionamento della fattispecie.
9.1.6. Per giurisprudenza consolidata, nell’operare il distinguo fra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante, occorre valutare “l'intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi” (Consiglio di Stato, sez. VI, 27.11.2012, n. 5986).
9.1.7. La fattispecie ricorre esemplarmente nel caso di specie, ove il livello di progettazione approvato, oggetto di impugnazione, contiene –in parte– gli effetti tipici del livello successivo progettuale, sicché ove, in ipotesi, venisse a cadere l’atto presupposto (l’approvazione del preliminare), cadrebbe necessariamente quello definitivo, privato di quei contenuti (gli effetti edilizi e paesaggistici) cristallizzati al livello progettuale precedente e non rinnovati, se non in senso meramente confermativo, nel successivo livello.
9.1.7.1. La circostanza è, peraltro, avvalorata dalla (ri)proposizione delle censure nel nuovo giudizio dinanzi al Tar, avverso gli atti della progettazione definitiva, le quali non fanno altro che reiterare quelle già spese avverso gli atti della progettazione preliminare, mentre –di converso– la riproposizione dell’impugnazione avverso questi ultimi, in quanto atti presupposti, appare esperita in modo meramente tuzioristico, per evitare di incorrere in decadenze di sorta.
9.1.8. Né la mancanza del livello progettuale potrebbe essere supplita nella sede giurisdizionale, essendo il sindacato di questo giudice limitato al vaglio di legittimità degli atti impugnati e circoscritto alle censure prospettate dai ricorrenti.
La valutazione della sufficienza e dell’idoneità, a norma dell’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 93 cit., del secondo livello progettuale (quello definitivo), ad assorbire quello (preliminare), non svolto o annullato in sede giurisdizionale, spetta –infatti- alla sola pubblica amministrazione.
Ad una pronuncia giurisdizionale in tal senso osterebbe, in ogni caso, il disposto di cui all’art. 34, comma 2, c.p.a., essendo inibito al giudice di pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati.
9.1.9. Pertanto, contrariamente all’avviso manifestato dalle parti resistenti, sussiste il pieno interesse delle parti appellanti a vedere scrutinati gli appelli, anche in ragione delle importanti ricadute, sul piano processuale, avverso gli atti da ultimo impugnati in primo grado, per quanto appena esposto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.04.2018 n. 2122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'impugnazione del bando di gara diventa improcedibile nel caso di mancata contestazione del provvedimento di aggiudicazione in ragione del carattere inoppugnabile di quest'ultimo.
È vero che ove il ricorrente contesti la possibilità stessa della gara (e non il suo esito) vi sarebbe una consequenzialità immediata e diretta tra gli atti di inizio della gara e l'aggiudicazione, talché l'annullamento del bando produrrebbe effetti caducatori anche nei confronti dell'aggiudicazione, ma è altrettanto vero che, anche in questo caso, il ricorrente avrebbe l'onere di evocare in giudizio l'aggiudicatario (che, sia pure dopo l'impugnazione del bando, ha assunto la qualifica di controinteressato), a pena di improcedibilità del gravame.
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Il ricorso va dichiarato improcedibile, risultando fondata l’eccezione di parte resistente.
Le parti dibattono, in primo luogo, in ordine agli effetti della mancata impugnazione dell’aggiudicazione in caso di impugnazione del bando.
Ben conosce il Collegio i diversi orientamenti esistenti sul punto, in realtà solo apparentemente confliggenti, risultando dirimente, in realtà, ai fini del vaglio della questione prospettata, la circostanza che il ricorrente contesti o meno la possibilità stessa della gara (e non il suo esito).
Sul punto, il Collegio aderisce alla giurisprudenza che ritiene che “L'impugnazione del bando di gara diventa improcedibile nel caso di mancata contestazione del provvedimento di aggiudicazione in ragione del carattere inoppugnabile di quest'ultimo. È vero che ove il ricorrente contesti la possibilità stessa della gara (e non il suo esito) vi sarebbe una consequenzialità immediata e diretta tra gli atti di inizio della gara e l'aggiudicazione, talché l'annullamento del bando produrrebbe effetti caducatori anche nei confronti dell'aggiudicazione, ma è altrettanto vero che, anche in questo caso, il ricorrente avrebbe l'onere di evocare in giudizio l'aggiudicatario (che, sia pure dopo l'impugnazione del bando, ha assunto la qualifica di controinteressato), a pena di improcedibilità del gravame" (TAR Firenze, (Toscana), sez. I, 24/02/2015, n. 291; in termini TAR Milano, (Lombardia), sez. I, 05/11/2014, n. 2643, non appellata; Consiglio di Stato, sez. V, 11/07/2008, n. 3433; Consiglio di Stato, sez. VI, 17/05/2006, n. 2846) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 08.03.2018 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Nel caso in cui il ricorrente contesta non l'esito della gara, ma la possibilità stessa della gara, in quanto il bene della vita da lui perseguito attiene alla possibilità di risultare affidatario diretto dell'appalto, il rapporto tra gli atti di inizio della gara ritualmente impugnati e l'aggiudicazione definitiva si pone nel senso di un rapporto di conseguenzialità immediata, diretta e necessaria.
In sostanza l'atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono da compiere nuove e ulteriori valutazioni discrezionali in merito alla scelta di affidare il servizio mediante gara pubblica, con la conseguenza che non occorre impugnare gli atti di aggiudicazione ove siano impugnati quelli di indizione del procedimento di gara, in quanto l'annullamento del bando di gara travolge il provvedimento di aggiudicazione, sicché la mancata impugnazione di quest'ultima non determina l'improcedibilità del ricorso.
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Il ricorso va dichiarato improcedibile, risultando fondata l’eccezione di parte resistente.
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Invero, la giurisprudenza citata dalla ricorrente riguarda più propriamente l’ipotesi in cui si reclami l’affidamento diretto (“Nel caso in cui il ricorrente contesta non l'esito della gara, ma la possibilità stessa della gara, in quanto il bene della vita da lui perseguito attiene alla possibilità di risultare affidatario diretto dell'appalto, il rapporto tra gli atti di inizio della gara ritualmente impugnati e l'aggiudicazione definitiva si pone nel senso di un rapporto di conseguenzialità immediata, diretta e necessaria; in sostanza l'atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono da compiere nuove e ulteriori valutazioni discrezionali in merito alla scelta di affidare il servizio mediante gara pubblica, con la conseguenza che non occorre impugnare gli atti di aggiudicazione ove siano impugnati quelli di indizione del procedimento di gara, in quanto l'annullamento del bando di gara travolge il provvedimento di aggiudicazione, sicché la mancata impugnazione di quest'ultima non determina l'improcedibilità del ricorso.” Consiglio di Stato, sez. V, 27/03/2013, n. 1828) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 08.03.2018 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'annullamento del bando di gara travolge tutti gli ulteriori atti successivamente adottati.
L’annullamento del bando di gara comporta il travolgimento, per automatica caducazione, in conformità alla condivisibile giurisprudenza prevalente, degli atti procedimentali successivi fino alla aggiudicazione definitiva della concessione, con la conseguente inefficacia del contratto.
Il Consiglio di Stato ha affermato che l’invalidità promanante dall’inosservanza delle regole sulla pubblicazione della normativa di gara è di tale gravità, da prevalere logicamente rispetto ad ogni altra censura.
Riverberando i suoi effetti caducanti su tutti gli atti della procedura, detta illegittimità può essere, quindi, dedotta nei confronti di qualunque snodo procedurale, a partire dal verbale della prima seduta della commissione di gara, senza che si prospetti alcuna necessità di attendere la conclusione della procedura.
Altra sentenza del Consiglio di Stato ha chiarito che:
   a) in un procedimento competitivo di scelta del contraente, la caducazione derivativa dell’esclusione e dell’aggiudicazione è un effetto riflesso del nesso di presupposizione e di consequenzialità immediata, diretta e necessaria, tra il bando –annullato- e questi stessi atti: nel senso che questi, come elementi successivi del procedimento complesso, rappresentano o (l’aggiudicazione) il complemento funzionale di quello precedente, o (l’esclusione) l’acclaramento di un impedimento del complemento funzionale. Tra questi atti e il bando esiste una relazione di necessità logica, per cui i secondi non hanno utilità se non come risposte al primo. Senza il bando, non possono esservi né esclusione né aggiudicazione.
   b) sicché la rimozione del primo non può che comportare –per questo nesso– la sottrazione ai secondi del titolo legittimante, sia riguardo all’utilità pratica (la qualificazione della risposta a un invito che non c’è più) che, più radicalmente, riguardo alla giustificazione dell’esercizio del potere (per ogni altro ipotetico effetto).
   c) si usa ravvisare il fondamento della cd. caducazione automatica nelle esigenze di economia processuale, e non solo a tutela delle posizioni del ricorrente. È infatti inutilmente gravoso, antieconomico e non rispondente alle finalità di buona amministrazione, dover procedere a ulteriori impugnazioni quando la sorte dei provvedimenti che li riguarderebbero è già segnata dall’annullamento di quello che vi aveva dato causa.
A queste esigenze, sulla stessa linea si può aggiungere –ed è il caso di specie, per via della particolarità dell’eccesso di decisioni che presenta– la funzione di prevenzione dell’eventuale conflitto logico di giudicati e di coerenza complessiva delle qualificazioni compiute dell’ordinamento: esigenza con cui contrasterebbe la presenza di un secondo giudicato che supponesse persistere utilità per atti che quella stessa utilità hanno invece ormai decisamente perso per effetto della rimozione del loro presupposto.

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Tanto premesso, poiché è stato annullato il bando di gara, tale annullamento travolge tutti gli ulteriori atti successivamente adottati.
In particolare, l’annullamento del bando di gara comporta il travolgimento, per automatica caducazione, in conformità alla condivisibile giurisprudenza prevalente (Cons. Stato, sez. V, 08.03.2006, n. 1208; id., 28.03.2008, n. 1342, ed ivi ulteriore giurisprudenza conforme), degli atti procedimentali successivi fino alla aggiudicazione definitiva della concessione, con la conseguente inefficacia del contratto.
Il Consiglio di Stato (cfr., V, n. 1208/2006) ha affermato che l’invalidità promanante dall’inosservanza delle regole sulla pubblicazione della normativa di gara è di tale gravità, da prevalere logicamente rispetto ad ogni altra censura.
Riverberando i suoi effetti caducanti su tutti gli atti della procedura, detta illegittimità può essere, quindi, dedotta nei confronti di qualunque snodo procedurale, a partire dal verbale della prima seduta della commissione di gara, senza che si prospetti alcuna necessità di attendere la conclusione della procedura.
Altra sentenza del Consiglio di Stato (cfr. n. 1342/2008) ha chiarito che:
   a) in un procedimento competitivo di scelta del contraente, la caducazione derivativa dell’esclusione e dell’aggiudicazione è un effetto riflesso del nesso di presupposizione e di consequenzialità immediata, diretta e necessaria, tra il bando –annullato- e questi stessi atti: nel senso che questi, come elementi successivi del procedimento complesso, rappresentano o (l’aggiudicazione) il complemento funzionale di quello precedente, o (l’esclusione) l’acclaramento di un impedimento del complemento funzionale. Tra questi atti e il bando esiste una relazione di necessità logica, per cui i secondi non hanno utilità se non come risposte al primo. Senza il bando, non possono esservi né esclusione né aggiudicazione.
   b) sicché la rimozione del primo non può che comportare –per questo nesso– la sottrazione ai secondi del titolo legittimante, sia riguardo all’utilità pratica (la qualificazione della risposta a un invito che non c’è più) che, più radicalmente, riguardo alla giustificazione dell’esercizio del potere (per ogni altro ipotetico effetto).
   c) si usa ravvisare il fondamento della cd. caducazione automatica nelle esigenze di economia processuale, e non solo a tutela delle posizioni del ricorrente. È infatti inutilmente gravoso, antieconomico e non rispondente alle finalità di buona amministrazione, dover procedere a ulteriori impugnazioni quando la sorte dei provvedimenti che li riguarderebbero è già segnata dall’annullamento di quello che vi aveva dato causa.
A queste esigenze, sulla stessa linea si può aggiungere –ed è il caso di specie, per via della particolarità dell’eccesso di decisioni che presenta– la funzione di prevenzione dell’eventuale conflitto logico di giudicati e di coerenza complessiva delle qualificazioni compiute dell’ordinamento: esigenza con cui contrasterebbe la presenza di un secondo giudicato che supponesse persistere utilità per atti che quella stessa utilità hanno invece ormai decisamente perso per effetto della rimozione del loro presupposto.
In conclusione, il ricorso è accolto e per l’effetto sono annullati gli atti impugnati (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 02.02.2018 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'interesse finale che un soggetto escluso da una gara pubblica fa valere è quello di assicurarsi il bene della vita cui mira, ossia l'aggiudicazione, mentre la rimozione dell'esclusione costituisce all’uopo un passaggio solo strumentale.
Data la relazione intercorrente fra esclusione e aggiudicazione, di conseguenza, anche quest'ultima deve necessariamente essere impugnata, poiché il difetto d'impugnazione dell'aggiudicazione avrebbe come conseguenza l’inutilità di un’eventuale decisione di annullamento dell'esclusione. Tale decisione, difatti, non varrebbe a rimuovere anche l'aggiudicazione, che sarebbe affetta da un’invalidità ad effetto solo viziante, e non caducante, e perciò non permetterebbe un reinserimento dell'escluso nel flusso della procedura, ormai esaurita ed inoppugnabile.
Il ricorso avverso l'esclusione da una gara diventa, pertanto, improcedibile tutte le volte in cui l'aggiudicazione intervenga, e sia conosciuta, prima della pronunzia sul relativo gravame senza che l'impugnazione sia stata estesa al decisivo nuovo atto.
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Occorre ricordare come la giurisprudenza insegni che in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto debba distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Laddove la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo si ponga nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta dunque la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si collochi, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
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Per quanto concerne gli specifici rapporti intercorrenti tra esclusione e aggiudicazione definitiva di un appalto il Collegio non può che dare atto che la giurisprudenza dominante ha uniformemente escluso che l’aggiudicazione posteriore a un’esclusione riconosciuta in seguito illegittima possa dirsi affetta, per tale ragione, da un’invalidità di tipo caducante, essendosi affermata, al contrario, proprio l’esistenza dell’onere d’impugnazione del quale si è detto.

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5a Un consolidato orientamento giurisprudenziale, invero, attesta l’indefettibile necessità dell’impugnativa dell’aggiudicazione definitiva che sia sopraggiunta al ricorso già proposto contro un’esclusione dalla stessa gara.
Come è stato abbondantemente chiarito, infatti, l'interesse finale che un soggetto escluso da una gara pubblica fa valere è quello di assicurarsi il bene della vita cui mira, ossia l'aggiudicazione, mentre la rimozione dell'esclusione costituisce all’uopo un passaggio solo strumentale.
Data la relazione intercorrente fra esclusione e aggiudicazione, di conseguenza, anche quest'ultima deve necessariamente essere impugnata, poiché il difetto d'impugnazione dell'aggiudicazione avrebbe come conseguenza l’inutilità di un’eventuale decisione di annullamento dell'esclusione. Tale decisione, difatti, non varrebbe a rimuovere anche l'aggiudicazione, che sarebbe affetta da un’invalidità ad effetto solo viziante, e non caducante (cfr. C.d.S., V, 05.12.2014, n. 5986; 25.02.2016, n. 754; 25.05.2017, n. 2458), e perciò non permetterebbe un reinserimento dell'escluso nel flusso della procedura, ormai esaurita ed inoppugnabile (C.d.S., III, 16.03.2012, n. 1091; V, 17.05.2012, n. 2826).
Il ricorso avverso l'esclusione da una gara diventa, pertanto, improcedibile tutte le volte in cui l'aggiudicazione intervenga, e sia conosciuta, prima della pronunzia sul relativo gravame senza che l'impugnazione sia stata estesa al decisivo nuovo atto (C.d.S., V, 19.07.2013, n. 3940; 15.05.2013, n. 2626; 14.12.2011, n. 6539; 18.02.2009, n. 950; 11.07.2008, n. 3433; III, 25.01.2013, n. 481), come si è verificato anche nella fattispecie concreta.
5b La ricorrente obietta all’eccezione oppostale che la nuova aggiudicazione sarebbe stata meramente esecutiva del provvedimento cautelare che era stato ottenuto dall’A.T.I. Sa.Fi.Ne.–Es., circostanza che l’avrebbe dispensata dall’onere della relativa impugnazione.
In contrario è agevole osservare, però, che l’ordinanza cautelare di questo Consiglio n. 320/2017 si limitava a stabilire che la Stazione appaltante dovesse operare il proprio giudizio sull’anomalia dell’offerta di quest’ultima A.T.I. sulla base di una disamina effettiva delle giustificazioni dalla stessa fornite, laddove l’Amministrazione, andando invece ampiamente oltre la soglia dell’esecuzione di tale prescrizione (ossia, lungi dal limitarsi all’esame delle giustificazioni fornite dall’A.T.I. appellata) ha sviluppato la propria azione nel modo seguente: all’esito di una puntuale disamina, dopo aver acquisito anche un parere dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, ha giudicato congrua la sua offerta; ha revocato la precedente aggiudicazione accordata al Co.Um.So. e ne ha emesso una nuova a favore, appunto, della suddetta A.T.I.; ha disposto, infine, la stipula con quest’ultima del relativo contratto finale, che è stato indi effettivamente sottoscritto il 28.08.2017.
Gli atti compiuti dalla Stazione appaltante, senza riserve o condizioni di sorta, dopo la menzionata ordinanza cautelare, non costituivano pertanto delle mere conseguenze delle relative statuizioni giudiziali, bensì esprimevano una nuova effusione di potere amministrativo, svincolata dall’ordinanza cautelare che l’aveva preceduta. L’Amministrazione, in altre parole, spinta evidentemente da ragioni di urgenza e continuità della propria azione, ha tratto spunto dall’esecuzione dell’ordinanza per compiere e portare a effetto delle proprie ulteriori scelte discrezionali, segnatamente decidendo, del tutto autonomamente, di proseguire e concludere il procedimento contrattuale in favore dell’A.T.I. Sa.Fi.Ne.–Es..
Il nuovo e definitivo provvedimento di aggiudicazione assunto dall’Amministrazione non può essere quindi reputato un atto di esecuzione del precedente dictum giudiziale.
Da qui l’onere gravante sull’A.T.I. Do.Ca., rimasto inadempiuto, di farne oggetto di un rituale e tempestivo gravame, e il corollario per cui tale concorrente non può utilmente richiamarsi alla giurisprudenza che un simile onere esclude in presenza di atti amministrativi meramente esecutivi di ordinanze cautelari o sentenze di primo grado ancora sub judice.
5c La ricorrente ha altresì obiettato che la nuova aggiudicazione sarebbe destinata automaticamente a cadere in caso di accoglimento della presente impugnativa, esito che avrebbe su tale atto un asserito effetto caducante, e non semplicemente viziante, in considerazione della sua posizione di prima classificata nella graduatoria di gara.
Occorre allora ricordare come la giurisprudenza insegni che in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto debba distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Laddove la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo si ponga nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta dunque la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si collochi, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: C.d.S., Sez. V, 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272, e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986; VI, 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Ciò posto, per quanto concerne gli specifici rapporti intercorrenti tra esclusione e aggiudicazione definitiva di un appalto il Collegio non può che dare atto che la giurisprudenza dominante, qui richiamata nel precedente paragr. 5a, ha uniformemente escluso che l’aggiudicazione posteriore a un’esclusione riconosciuta in seguito illegittima possa dirsi affetta, per tale ragione, da un’invalidità di tipo caducante, essendosi affermata, al contrario, proprio l’esistenza dell’onere d’impugnazione del quale si è detto.
E poiché la ricorrente non ha offerto alcun argomento, a base del proprio apodittico asserto, che possa indurre il Collegio a discostarsi dal suddetto indirizzo, questo dev’essere senz’altro confermato anche nel caso concreto.
Non giova, infatti, addurre che la ricorrente occupava una posizione di graduatoria poziore rispetto alle appellate. In una situazione inversa, il ricorso della medesima contro la propria esclusione sarebbe stato addirittura ab origine inammissibile per difetto d’interesse. Ma la circostanza sottolineata dalla ricorrente, tutt’altro che infrequente, non valeva a sottrarla ai principi sopra esposti, e pertanto alle conseguenze sfavorevoli della sua inottemperanza all’onere del quale si è detto.
5d Non essendovi ragione, dunque, perché la ricorrente possa sfuggire all’impero del consolidato principio dianzi ricordato, l’appello in esame in base alle considerazioni esposte si conferma improcedibile (CGARS, sentenza 31.01.2018 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nei casi nei quali i motivi di ricorso ineriscano all'illegittima composizione della commissione di gara o alla sua non idoneità tecnica, il loro eventuale accoglimento e il conseguente annullamento ha effetto caducante degli atti dell'intera gara.
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3. Il ricorso principale e i ricorsi per motivi aggiunti sono in parte infondati, per le seguenti ragioni.
Sia con il ricorso principale, sia con i ricorsi per motivi aggiunti, la Se.It. Spa, in proprio e quale mandataria del RTI costituendo con la Se.Sa.In. Srl –nell’impugnare il provvedimento del 2.10.2016, con cui veniva esclusa dalla procedura di gara per cui è causa per aver ottenuto un punteggio di 25,91, inferiore alla soglia di sbarramento prevista per il lotto n. 1– ha formulato, in via subordinata, delle censure relative alla costituzione della commissione giudicatrice, il cui accoglimento comporterebbe la caducazione dell’intera procedura di gara.
Rispetto ad esse, il cui esame si impone alla luce dell’inammissibilità delle censure sollevate in via principale avverso il giudizio tecnico della commissione, l’omessa impugnazione del provvedimento di aggiudicazione definitiva è irrilevante.
Ed invero, secondo il condivisibile orientamento giurisprudenziale, nei casi nei quali i motivi di ricorso ineriscano all'illegittima composizione della commissione di gara o alla sua non idoneità tecnica, il loro eventuale accoglimento e il conseguente annullamento ha effetto caducante degli atti dell'intera gara (Cons. Stato, n. 4514 del 2014; Tar Bari, n. 4183 del 2010) (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 27.05.2017 n. 231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’annullamento dell’atto presupposto (il bando) non comporta la caducazione automatica dell’atto consequenziale (l’aggiudicazione), qualora con quest’ultimo siano stati conferiti un bene o un’utilità ad un soggetto non qualificabile come parte necessaria nel giudizio concernente l’atto presupposto: ne discende che il fatto che il bando di gara sia immediatamente impugnabile non esclude la necessità di far valere l’invalidità derivata dell’atto finale con i rimedi tipici del processo impugnatorio.
Il riconoscimento, infatti, del cd. effetto caducante dell’atto presupposto può ammettersi unicamente nel caso in cui nel giudizio relativo a detto atto siano state intimate (anche) le parti necessarie del giudizio concernente l’atto consequenziale, a pena, in caso contrario, di un’indebita produzione degli effetti negativi del giudicato di annullamento su soggetti che non hanno potuto esercitare il loro diritto di difesa.
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Per quanto concerne, invero, gli effetti che l’annullamento del bando di gara dispiega sugli ulteriori atti della procedura ed in particolare sull’aggiudicazione definitiva della stessa, si fronteggiano due opposte esigenze, di volta in volta valorizzate dalla giurisprudenza espressasi in materia: da un lato, l’esigenza di non gravare il ricorrente dell’onere di impugnare con autonomo ricorso o con motivi aggiunti tutti i successivi atti di gara, dall’altro, quella di far salvo l’interesse del “controinteressato sopravvenuto”, in questo caso l’aggiudicatario della procedura.
Nel primo senso, si è valorizzato il cd. effetto caducante che l’eventuale annullamento del bando di gara (atto presupposto) dispiegherebbe sull’aggiudicazione definitiva (atto consequenziale, che nei confronti del primo si porrebbe in rapporto di presupposizione/consequenzialità immediata, diretta e necessaria). In questa prospettiva, l’omessa o tardiva impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, atto terminale del procedimento, non inficia la bontà dell’azione giurisdizionale intrapresa avverso l’atto presupposto, costituito dal bando, poiché l’atto finale del procedimento selettivo è destinato ad essere automaticamente travolto in caso di annullamento dell’atto che racchiude la lex specialis, mercé il cd. effetto caducante, e pertanto lo stesso non è coperto dall’onere di impugnativa (cfr., ex multis, TAR Campania, Salerno, Sez. I, 27.09.2007, n. 1991).
In base a tale orientamento, perciò, la mancata impugnazione da parte della Ma.Co. S.r.l. dell’aggiudicazione definitiva della gara, sarebbe del tutto irrilevante ed il ricorso rimarrebbe, comunque, procedibile, poiché l’accoglimento della domanda impugnatoria e quindi l’annullamento del bando di gara travolgerebbe automaticamente, tramite la cd. invalidità caducante, anche gli altri atti della procedura, compresa l’aggiudicazione della stessa: ciò che, del resto, viene sostenuto dalla ricorrente in sede di memoria conclusiva.
Tuttavia, altro orientamento ha sostenuto che l’omessa o tardiva impugnazione dell’atto finale della gara (aggiudicazione) rende improcedibile, per sopravvenuto difetto di interesse, il gravame avverso gli atti presupposti (bando), non potendosi predicare un effetto caducante, sull’ultimo atto, derivante dall’eventuale illegittimità dei primi (TAR Toscana, Sez. III, 21.06.2005, n. 3033).
A questa conclusione, come detto, si perviene muovendo dall’esigenza di tutelare l’aggiudicatario della gara, che non è parte necessaria nel giudizio sull’atto presupposto (il bando di gara), mentre lo è nel giudizio sull’atto consequenziale (cd. controinteressato sopravvenuto). Invero, l’annullamento dell’atto presupposto (il bando) non comporta la caducazione automatica dell’atto consequenziale (l’aggiudicazione), qualora con quest’ultimo siano stati conferiti un bene o un’utilità ad un soggetto non qualificabile come parte necessaria nel giudizio concernente l’atto presupposto: ne discende che il fatto che il bando di gara sia immediatamente impugnabile non esclude la necessità di far valere l’invalidità derivata dell’atto finale con i rimedi tipici del processo impugnatorio. Il riconoscimento, infatti, del cd. effetto caducante dell’atto presupposto può ammettersi unicamente nel caso in cui nel giudizio relativo a detto atto siano state intimate (anche) le parti necessarie del giudizio concernente l’atto consequenziale, a pena, in caso contrario, di un’indebita produzione degli effetti negativi del giudicato di annullamento su soggetti che non hanno potuto esercitare il loro diritto di difesa (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 23.06.2009, n. 551).
Seguendo tale orientamento, quindi, l’omessa impugnazione dell’aggiudicazione definitiva da parte della ricorrente determinerebbe l’improcedibilità del gravame, almeno nella sua parte impugnatoria (e con i già accennati effetti sull’azione risarcitoria), perché l’eventuale annullamento del bando non potrebbe più procurare alcun vantaggio alla società: ciò, atteso che né nel ricorso introduttivo, né in altri atti processuali viene evocato in giudizio l’aggiudicatario della gara (R.T.I. Impresa Ma. – Fi. S.p.A. – Bo. & Ti. S.p.A.).
Peraltro, la questione in esame deve essere ora affrontata tenendo conto della disciplina introdotta dal cd. codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010).
Nello specifico, l’indirizzo che, per salvaguardare l’interesse del “controinteressato sopravvenuto” (in questo caso l’aggiudicatario della gara), esigeva che il ricorrente, il quale aveva già gravato gli atti di gara, dovesse impugnare anche l’aggiudicazione, in modo tale da estendere il petitum di annullamento e da evocare in giudizio pure l’aggiudicatario, risulta superato dall’art. 28, comma 3, c.p.a.: detta disposizione, infatti, nell’ottica della “ragionevole durata del processo” (v. art. 2, comma 2, c.p.a.), facoltizza il giudice ad ordinare l’intervento in giudizio del terzo, anziché onerare il ricorrente dell’impugnativa (con altro ricorso o con motivi aggiunti) dell’aggiudicazione. Del resto, il principio di economicità degli atti processuali –che è alla base dell’art. 28, comma 3, cit.– si coordina perfettamente con l’effetto sostanziale cd. caducante dell’aggiudicazione, prodotto dall’eventuale accoglimento del gravame che ha ad oggetto il bando (TAR Liguria, Sez. II, 15.06.2011, n. 938).
In conclusione, perciò, va escluso che l’omessa impugnazione, ad opera della Ma.Co. S.r.l., degli atti di gara successivi al bando, ed in specie dell’aggiudicazione definitiva, comporti l’improcedibilità del gravame avente ad oggetto il solo bando di gara, potendosi comunque colmare tale lacuna, secondo quanto si è ora visto, mediante l’utilizzo del rimedio della chiamata in giudizio del terzo su ordine del giudice, previsto dall’art. 28, comma 3, c.p.a.: ne deriva l’infondatezza della suesposta eccezione di improcedibilità formulata dal Comune di Venezia (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 08.02.2017 n. 138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGOUna volta impugnati il bando e/o l’esclusione dal concorso (o da una procedura ad evidenza pubblica), occorre poi impugnare anche l’atto conclusivo del procedimento nel frattempo intervenuto, pena l’improcedibilità del ricorso avverso l’atto presupposto.
Tale conclusione trova conforto nel condiviso orientamento giurisprudenziale secondo il quale la non necessità di impugnazione dell’atto finale, quando sia stato già contestato quello preparatorio, opera unicamente quando tra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone quale inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove ed autonome valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti.
Diversamente, quando l’atto finale, pur partecipando della medesima sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisce conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, l’immediata impugnazione dell’atto preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare l’atto finale.
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Sul punto di diritto controverso la Sezione non intende discostarsi dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio, secondo cui una volta impugnati il bando e/o l’esclusione dal concorso (o da una procedura ad evidenza pubblica), occorre poi impugnare anche l’atto conclusivo del procedimento nel frattempo intervenuto, pena l’improcedibilità del ricorso avverso l’atto presupposto (Consiglio di Stato, Sezione V, 11.08.2010, n. 5618, 17.09.2008, n. 4400, 10.05.2010 n. 2766, 26.08.2008, n. 4053).
Tale conclusione trova conforto nel condiviso orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la non necessità di impugnazione dell’atto finale, quando sia stato già contestato quello preparatorio, opera unicamente quando tra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone quale inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove ed autonome valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti. Diversamente, quando l’atto finale, pur partecipando della medesima sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisce conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, l’immediata impugnazione dell’atto preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare l’atto finale (Consiglio di Stato, Sezione V, 11.08.2010; 22.01.2014, n. 329) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.11.2014 n. 5463 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn presenza di vizi accertati dell’atto presupposto deve distinguersi fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, la prima soltanto delle quali comporta travolgimento dell’atto consequenziale, indipendentemente dalla relativa impugnazione: tale situazione si verifica normalmente quando l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi.
Detto effetto caducante non intercorre di norma fra aggiudicazione provvisoria ed aggiudicazione definitiva, tenuto conto della giurisprudenza prevalente, che attribuisce all’aggiudicazione provvisoria natura di atto endo-procedimentale, dagli effetti ancora instabili e meramente interinali, con autonoma incidenza lesiva dell’aggiudicazione definitiva, quale provvedimento di formale ricezione, da parte dell’Amministrazione, dell’esito della gara, non senza nuova valutazione degli interessi pubblici e privati sottostanti.
Il soggetto che si consideri leso può dunque impugnare l’aggiudicazione provvisoria, ma si ritiene che debba comunque contestare, a pena di improcedibilità del ricorso, anche l’aggiudicazione definitiva (mentre l’impugnativa di quest’ultima è comunque ammissibile, anche in assenza di previa contestazione di altri atti interni della procedura di gara).
Quanto sopra non esclude che –in presenza di un’aggiudicazione definitiva, di fatto meramente confermativa di quella provvisoria ed anche in assenza di invalidità di atti presupposti, tali da travolgere “ab initio” l’intera procedura di gara– possa in singoli casi ritenersi applicabile il principio generale, in precedenza enunciato in tema di effetto caducante. Quando tuttavia siano stati ritualmente impugnati sia l’aggiudicazione provvisoria che quella definitiva, appare prioritario ed assorbente il principio di concentrazione e semplificazione che ha indotto il legislatore, con l’art. 1 della legge 21.07.2000, n. 205, a consentire l’impugnazione con motivi aggiunti di tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso fra le medesime parti, purché connessi all’oggetto del giudizio.
Tale principio consente che ogni atto autonomamente lesivo venga contestato per i vizi attinenti alla fase cui lo stesso si riferisce, mentre avverso gli atti conseguenti –ove censurabili solo per l’effetto viziante, riconducibile ad illegittimità di atti presupposti– può ben essere prospettato il solo vizio ad essi direttamente riconducibile, ovvero quello di illegittimità derivata, non ponendosi alcun problema circa la piena informazione di tutte le parti in causa sugli esatti termini della controversia (come non avverrebbe in caso di coinvolgimento di altri soggetti, in giudizi sia pure connessi, ma distinti da quello di cui si richiamassero genericamente le censure, solo in questo caso incorrendo in una ragione di inammissibilità).
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Il Collegio è chiamato a valutare, in via preliminare, la correttezza o meno delle statuizioni della sentenza appellata, secondo cui:
   - risulterebbe inammissibile l’impugnazione con motivi aggiunti dell’aggiudicazione definitiva di una gara, solo per illegittimità derivata e senza pedissequa riproposizione delle censure, già ritualmente prospettate avverso l’aggiudicazione provvisoria;
   - sarebbe dunque improcedibile il ricorso principale avverso l’aggiudicazione provvisoria e gli atti presupposti.
Il Collegio non condivide le conclusioni sopra sintetizzate, poiché incompatibili con principi fondamentali del processo amministrativo.
Nella fattispecie, infatti,l’impresa esclusa dalla gara ha impugnato la propria esclusione dalla gara, nonché la graduatoria provvisoria e quella definitiva, richiamando –in sede di proposizione dei motivi aggiunti– le censure formulate col ricorso principale e deducendo, in particolare, l’illegittimità derivata della aggiudicazione definitiva.
Con impostazione formalistica, che ha vanificato la tutela dell’originaria ricorrente, nella sentenza impugnata sono stati dichiarati inammissibili i motivi aggiunti e improcedibile il ricorso originario, per omessa pedissequa riproposizione di tutte le censure prospettate nel ricorso stesso.
L’appellante ha contestato tali conclusioni, richiamando in primo luogo i principi sul cosiddetto effetto travolgente dell’annullamento dell’atto presupposto, rispetto a quello consequenziale.
In presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, in effetti, deve distinguersi fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, la prima soltanto delle quali comporta travolgimento dell’atto consequenziale, indipendentemente dalla relativa impugnazione: tale situazione si verifica normalmente quando l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. V, 25.11.2010, n. 8243; Cons. St., sez. VI, 23.12.2008, n. 6520); detto effetto caducante non intercorre di norma fra aggiudicazione provvisoria ed aggiudicazione definitiva, tenuto conto della giurisprudenza prevalente, che attribuisce all’aggiudicazione provvisoria natura di atto endo-procedimentale, dagli effetti ancora instabili e meramente interinali, con autonoma incidenza lesiva dell’aggiudicazione definitiva, quale provvedimento di formale ricezione, da parte dell’Amministrazione, dell’esito della gara, non senza nuova valutazione degli interessi pubblici e privati sottostanti (cfr., in senso conforme, Cons. St., sez. V, 11.01.2011, n. 80; Cons. St., sez. VI, 20.10.2010, n. 7586; Cons. St., sez. V, 23.11.2010, nn.. 8154 e 8153).
Il soggetto che si consideri leso può dunque impugnare l’aggiudicazione provvisoria, ma si ritiene che debba comunque contestare, a pena di improcedibilità del ricorso, anche l’aggiudicazione definitiva (mentre l’impugnativa di quest’ultima è comunque ammissibile, anche in assenza di previa contestazione di altri atti interni della procedura di gara).
Quanto sopra non esclude che –in presenza di un’aggiudicazione definitiva, di fatto meramente confermativa di quella provvisoria ed anche in assenza di invalidità di atti presupposti, tali da travolgere “ab initio” l’intera procedura di gara– possa in singoli casi ritenersi applicabile il principio generale, in precedenza enunciato in tema di effetto caducante (cfr. Cons. St., sez. VI, 19.07.2007, n. 4060). Quando tuttavia, come nella situazione in esame, siano stati ritualmente impugnati sia l’aggiudicazione provvisoria che quella definitiva, appare prioritario ed assorbente il principio di concentrazione e semplificazione che ha indotto il legislatore, con l’art. 1 della legge 21.07.2000, n. 205, a consentire l’impugnazione con motivi aggiunti di tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso fra le medesime parti, purché connessi all’oggetto del giudizio.
Tale principio consente che –nel processo unitario in corso– ogni atto autonomamente lesivo venga contestato per i vizi attinenti alla fase cui lo stesso si riferisce, mentre avverso gli atti conseguenti –ove censurabili solo per l’effetto viziante, riconducibile ad illegittimità di atti presupposti– può ben essere prospettato il solo vizio ad essi direttamente riconducibile, ovvero quello di illegittimità derivata, non ponendosi alcun problema circa la piena informazione di tutte le parti in causa sugli esatti termini della controversia (come non avverrebbe in caso di coinvolgimento di altri soggetti, in giudizi sia pure connessi, ma distinti da quello di cui si richiamassero genericamente le censure, solo in questo caso incorrendo in una ragione di inammissibilità).
La sentenza appellata –che dichiarava inammissibili i motivi aggiunti di gravame avverso l’aggiudicazione definitiva, poiché non formalmente reiterativi di tutte le censure in precedenza prospettate, con ulteriore improcedibilità del ricorso principale– non può pertanto che essere annullata, senza che si pongano problemi di riconoscimento dell’errore scusabile, pur richiamato dall’appellante, poiché vi è stata la rituale impugnazione di tutti gli atti emessi in sede amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.04.2011 n. 2482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

In materia di atti amministrativi:

ATTI AMMINISTRATIVIIn presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata ma resta efficace ove non ritualmente impugnato.
La prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente
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   - che l’accoglimento del ricorso introduttivo deve estendersi anche ai motivi aggiunti proposti avverso gli atti di nomina del controinteressato; non sfugge al Collegio che, in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata ma resta efficace ove non ritualmente impugnato.
La prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 25.07.2019 n. 4068 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPer pacifica giurisprudenza, in presenza di vizi prospettati dell'atto presupposto "deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma resta efficace ove non ritualmente impugnato.
La prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente".
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Invero, per pacifica giurisprudenza, in presenza di vizi prospettati dell'atto presupposto "deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma resta efficace ove non ritualmente impugnato; la prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente" (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 13.11.2015, n. 5188) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 06.06.2019 n. 672 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDeve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante dell’atto presupposto, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma resta efficace ove non ritualmente impugnato.
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1) Il ricorso è fondato e merita accoglimento
2) In via preliminare, il Collegio ritiene opportuno precisare, in punto di diritto, che la cosiddetta illegittimità derivata è quel fenomeno di propagazione dell’invalidità dell’atto amministrativo, suscettibile di contagiare atti amministrativi distinti ma legati da un vincolo di presupposizione.
In tal senso, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante dell’atto presupposto, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma resta efficace ove non ritualmente impugnato (Cons. Stato, Sez. V, 10.04.2018, n. 2168; sez. III, 3.08.2015, n. 3800; sez. V, 13.11.2015, n. 5188).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato di decadenza dalla prima rafferma impugnato è atto conseguenziale e successivo, nel senso che si pone come conseguenza di quello precedente (atto presupposto) di decadenza dalla ferma, perché basato esclusivamente sulla sussistenza del primo provvedimento, senza che vi siano autonome ragioni o nuove e ulteriori valutazioni. Inoltre, il secondo provvedimento è stato tempestivamente impugnato in questa sede, di tal che perde di pratica rilevanza nella fattispecie in esame la distinzione tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante ai fini (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 17.05.2019 n. 6130 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Come chiarito dalla giurisprudenza, l’annullamento, disposto in autotutela e, a maggior ragione, conseguente a una pronuncia del giudice amministrativo, incidendo su un atto che costituisce l’indefettibile presupposto logico-giuridico della stipulazione della convenzione, non può che determinare la caducazione dell’accordo contrattuale. Tanto che potrebbe essere ipotizzata anche la nullità originaria dell’accordo per impossibilità dell’oggetto, una volta venuto meno il deliberato preliminare.
L’effetto caducante ricorre, dunque, ogni volta che lo stesso atto presupposto sia condizione imprescindibile di esistenza del solo atto presupponente, la cui sopravvivenza risulta pregiudicata dall'eliminazione di quello.
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Il ricorso merita, dunque, positivo apprezzamento.
La scelta operata dal Comune, nell’esercizio del proprio potere regolatorio del servizio funerario, di apportare all’atto n. 2860 Rep. Mun. del 16.09.2008 le modificazioni e integrazioni previste dal testo allegato alla deliberazione 178-18, risulta, infatti, essere in contrasto con i principi costituzionali che garantiscono la libertà di religione e della sua professione. Libertà che risulta chiaramente incisa nel momento in cui la possibilità di accedere al rito funebre islamico per il deceduto, è subordinata all’acquisizione, da parte dei parenti, di una certificazione attestante la fede islamica dello stesso, rilasciata da un soggetto privo di alcuna legittimazione in tal senso, trattandosi di una mera associazione privata.
Deve, dunque, per tali ragioni, essere annullata la deliberazione con cui il Comune ha ritenuto di poter modificare l’art. 9 della convenzione in essere con il Centro islamico, subordinando la sepoltura a tale condizione, con conseguente effetto caducante sul nuovo testo convenzionale sottoscritto.
Come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, l’annullamento, disposto in autotutela e, a maggior ragione, conseguente a una pronuncia del giudice amministrativo, incidendo su un atto che costituisce l’indefettibile presupposto logico-giuridico della stipulazione della convenzione, non può che determinare la caducazione dell’accordo contrattuale. Tanto che potrebbe essere ipotizzata anche la nullità originaria dell’accordo per impossibilità dell’oggetto, una volta venuto meno il deliberato preliminare.
L’effetto caducante ricorre, dunque, ogni volta che lo stesso atto presupposto sia condizione imprescindibile di esistenza del solo atto presupponente, la cui sopravvivenza risulta pregiudicata dall'eliminazione di quello (così TAR Pescara, n. 18/2019, in cui sono richiamate le sentenze del Consiglio Stato, sez. VI, 23.12.2008, n. 6520 e sez. IV, 27.03.2009, n. 1869).
Condizione che risulta ricorrere a pieno nella fattispecie, con la conseguenza che deve precisarsi come l’annullamento (disposto per le suddette ragioni) della deliberazione 178-18 comporti l’effetto caducante della modificazione della convenzione sottoscritta dal Comune e dal Centro islamico, con conseguente ripristino dell’efficacia del testo della convenzione sottoscritto nel 2008, dovendosi ritenere tamquam non esset ogni successiva modificazione apportata con l’atto annullato. Ciò anche in considerazione dell’inefficacia dell’ulteriore modificazione proposta dal Comune il 06.12.2018, che solo con l’approvazione del Centro islamico potrà innovare al testo del più volte citato art. 9 della Convenzione nei termini da essa previsti (
TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 20.04.2019 n. 383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’effetto caducante ricorre quando “lo stesso atto presupposto sia condizione imprescindibile di esistenza del solo atto presupponente, la cui sopravvivenza risulta pregiudicata dall'eliminazione di quello". La caducazione dell'atto presupposto, per effetto del presente annullamento del diniego di sanatoria travolge anche il consequenziale decreto di rilascio, determinandone l'eliminazione automatica.
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Per tali motivi, il ricorso va accolto con conseguente annullamento del diniego impugnato.
4. Relativamente al decreto di rilascio dell’immobile, del quale era stato richiesto l’annullamento nella causa riassunta a seguito di declaratoria del difetto di giurisdizione da parte del giudice ordinario, è da rilevare come esso costituisca un “posterius” logico del diniego di sanatoria.
A seguito dell’accoglimento del ricorso, infatti, consegue la caducazione del provvedimento di rilascio, in quanto legato da nesso di pregiudizialità-dipendenza. L’effetto caducante ricorre quando “lo stesso atto presupposto sia condizione imprescindibile di esistenza del solo atto presupponente, la cui sopravvivenza risulta pregiudicata dall'eliminazione di quello" (Consiglio Stato, sez. VI, 23.12.2008, n. 6520; Consiglio Stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1869). La caducazione dell'atto presupposto, per effetto del presente annullamento del diniego di sanatoria travolge anche il consequenziale decreto di rilascio, determinandone l'eliminazione automatica.
Di qui consegue la sopraggiunta improcedibilità per difetto dei interesse del ricorso successivamente instaurato (
TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 31.01.2019 n. 18 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza ha già chiarito che, nell'ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall'appartenenza, sia dell'atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.

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A. – Con il ricorso in esame, notificato il 10.06.2010 e depositato il 6 luglio, le odierne istanti hanno impugnato la deliberazione n. 57/2008 indicata in epigrafe, con la quale la Giunta del Comune di Castelbuono ha revocato l’assegnazione del lotto cimiteriale già assegnato a Gi.Sc.; chiedendo anche il risarcimento del danno causato dal provvedimento.
...
B.2 – Per il resto, il ricorso è inammissibile per mancata impugnazione degli atti, depositati dal Comune, relativi all’assegnazione del lotto a terzi.
E’ stato osservato che “…la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, n. 1247 del 2018; sez., IV, n. 4404 del 2015; Cass. civ., SS.UU., n. 7702 del 2016) ha già chiarito che, nell'ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall'appartenenza, sia dell'atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo…
” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.05.2018, n. 3169; nello stesso senso, Consiglio di Stato, Sez. IV, 18.05.2018, n. 3001).
Nel caso in esame, osserva il Collegio che il lotto, di cui le ricorrenti pretendono l’assegnazione, è stato diviso e assegnato, successivamente alla contestata revoca, a due privati, i quali hanno stipulato il contratto, ottenuto la concessione edilizia e comunicato l’inizio dei lavori (cfr. documentazione depositata dal Comune).
Ne consegue che -come già rilevato nell’ordinanza cautelare n. 652/2010- parte ricorrente avrebbe dovuto impugnare tali atti, atteso che tra tali atti e la revoca dell’assegnazione del lotto non si pone alcun rapporto di invalidità caducante, proprio per la presenza di terzi controinteressati individuabili, sulla cui posizione l’Amministrazione ha effettuato un’ulteriore valutazione di interessi con rilascio degli atti ampliativi aventi ad oggetto le due porzioni di lotto.
Deve, peraltro, aggiungersi che il lotto in questione è stato inserito tra le aree libere da assegnare giusta deliberazione di G.M. n. 76 del 17.06.2008, prodotta in atti dal Comune, che parte ricorrente ha ritenuto di non contestare.
D’altro canto, non vale a superare la rilevata inammissibilità la circostanza, evidenziata dalla parte ricorrente nella memoria conclusiva, di avere impugnato, con il ricorso introduttivo, ogni atto anche consequenziale alla deliberazione.
Invero, il generico riferimento, contenuto nel ricorso, all’impugnazione di tutti gli atti connessi, presupposti e consequenziali a quello specificamente gravato, integra una mera formula di stile priva di qualsiasi valore processuale, inidonea ad individuare uno specifico oggetto di impugnativa.
Sotto tale profilo, va applicato il costante principio giurisprudenziale, secondo cui “…le formule di mero stile dell'impugnazione come a “tutti gli atti antecedenti, preordinati, connessi, successivi e consequenziali” sono prive di un reale valore processuale, perché inidonee ad individuare uno specifico oggetto di gravame: e dunque da un lato a investire il giudice del dovere decisorio, dall’altro a mettere in guardia i controinteressati per disporsi a contraddittorio nel processo…” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 09.05.2017, n. 2121).
C. – Per tutto quanto esposto e rilevato, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 25.01.2019 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Va richiamato il consolidato insegnamento giurisprudenziale per il quale, pur in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
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Va altresì richiamata la distinzione tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo, rispetto ad un atto precedente, l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
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7.2. Parimenti, non è fondato l’assunto secondo cui l’interesse al presente gravame permarrebbe in ragione dell’attuale pendenza del giudizio iscritto dinanzi al TAR Marche col n. 301/12 R.G., nel quale risultano impugnati atti legislativi e provvedimenti amministrativi successivi all’emanazione del regolamento regionale n. 6 del 2009.
Nel giudizio attualmente pendente in primo grado è impugnata una delibera della Giunta regionale che è stata emanata a conclusione di un autonomo procedimento amministrativo che ha comportato un’apposita e rinnovata valutazione degli interessi pubblici coinvolti, come dimostrato dalla previa acquisizione del parere della commissione consiliare competente.
Tra le norme regolamentari qui sub iudice e la deliberazione giuntale n. 118/2012 non sussiste un rapporto di consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda automaticamente all’atto consequenziale.
In proposito va richiamato il consolidato insegnamento giurisprudenziale, per il quale, pur in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito. Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243). Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso di specie.
Va altresì richiamata la distinzione tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo, rispetto ad un atto precedente, l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 14.04.2014, n. 1805; id., 12.02.2015, n.758; id., 29.02.2016, n. 812; id, 12.10.2016, n. 4214, nonché, da ultimo, in tema di successione di strumenti di pianificazione generale, Cons. Stato, IV, 27.01.2017, n. 357) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2019 n. 432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’eventuale illegittimità della delibera giuntale, cui sono conseguite determinazioni dirigenziali di revoca di procedure amministrative, determina la loro invalidità derivata a effetto caducante, sicché non è necessaria la loro espressa impugnazione, atteso che l’annullamento della delibera presupposta comporta automaticamente anche il loro travolgimento.
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12.1. S’è visto come la Provincia sostenga che le ricorrenti siano sprovviste d’interesse ad agire, posto che la delibera impugnata, avendo natura di atto normativo, destinato, per la sua generalità e astrattezza, a una platea indistinta di interessati, sarebbe privo di lesività diretta e concreta della loro sfera d’interessi, la quale sarebbe invece, in tesi, potenzialmente incisa dagli atti di revoca della procedura di stabilizzazione avviata con le comunicazioni del marzo 2018, tuttavia non impugnati.
L’eccezione è infondata.
È, infatti, palese la lesività concreta e attuale dell’impugnata delibera sulla sfera soggettiva delle ricorrenti. Essa mira espressamente a privarli in via diretta e immediata dei requisiti, maturati ai sensi del previgente art. 1-bis, comma 1, della delibera della Giunta provinciale n. 417/2008, per la stipulazione con la Provincia di altrettanti contratti di lavoro a tempo indeterminato e dispone la revoca della procedura di stabilizzazione già in corso nei loro confronti. Non sfugge, invero, che è la stessa delibera gravata a incaricare il dirigente competente a revocare la procedura in questione, seppure con l’ambigua formula dell’”autorizzazione” al medesimo di procedere in tal senso.
Le lettere di revoca inviate alle ricorrenti dal dirigente provinciale, delle quali la Provincia eccepisce la mancata impugnazione, facendovi conseguire l’inammissibilità del gravame, costituiscono l’inevitabile diretta conseguenza del provvedimento giuntale impugnato.
Sono pertanto atti strettamente consequenziali, inscindibilmente connessi alla delibera in questione, che, specularmente, costituisce il loro presupposto unico, immediato e necessario. L’emissione delle lettere di revoca in esecuzione della delibera gravata non richiede, infatti, alcuna valutazione da parte del funzionario competente, né alcuna ulteriore ponderazione degli interessi coinvolti.
L’eventuale illegittimità della delibera, di cui esse sono l’immediata e inevitabile conseguenza, determina la loro invalidità derivata a effetto caducante, sicché non è necessaria la loro espressa impugnazione, atteso che l’annullamento della delibera presupposta comporta automaticamente anche il loro travolgimento (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 15.01.2019 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza insegna che in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto debba distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Il che comporta, quindi, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e quello successivo, con il riconoscimento di un effetto caducante qualora tale rapporto sia, come nella presente vicenda, immediato, diretto e necessario, ponendosi l'atto successivo come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
Laddove la condizione ulteriore, frequentemente quanto tralatiziamente evocata dalla giurisprudenza, per cui ai fini dell’effetto caducante occorrerebbe anche l’elemento formale per cui tutti gli atti in discussione dovrebbero collocarsi nella stessa sequenza procedimentale, deve ritenersi in realtà non decisiva, ma piuttosto recessiva rispetto agli elementi costituiti dal rapporto di effettiva presupposizione tra gli atti, nonché dal qualificato legame di conseguenzialità appena descritto, fattori il cui concorso risulta già sufficiente a integrare il fondamento logico del meccanismo dell’anzidetta caducazione automatica.

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Altrettanto fondatamente la ricorrente ha precisato, inoltre, che l’annullamento, da essa domandato, dell’autorizzazione al suddetto trasferimento avrebbe comportato un effetto caducante delle determinazioni amministrative a valle che tale trasferimento presupponevano, e che non costituivano, d’altra parte, espressioni di discrezionalità.
La giurisprudenza insegna, infatti, che in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto debba distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito. Il che comporta, quindi, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e quello successivo, con il riconoscimento di un effetto caducante qualora tale rapporto sia, come nella presente vicenda, immediato, diretto e necessario, ponendosi l'atto successivo come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: C.d.S., Sez. V, 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272, e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986; VI, 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Laddove la condizione ulteriore, frequentemente quanto tralatiziamente evocata dalla giurisprudenza, per cui ai fini dell’effetto caducante occorrerebbe anche l’elemento formale per cui tutti gli atti in discussione dovrebbero collocarsi nella stessa sequenza procedimentale, deve ritenersi in realtà non decisiva, ma piuttosto recessiva rispetto agli elementi costituiti dal rapporto di effettiva presupposizione tra gli atti, nonché dal qualificato legame di conseguenzialità appena descritto, fattori il cui concorso risulta già sufficiente a integrare il fondamento logico del meccanismo dell’anzidetta caducazione automatica (CGARS, sentenza 25.07.2018 n. 449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: In presenza di vizi dell’atto presupposto che ne hanno determinato l’annullamento, l’effetto caducante per l’atto successivo si verifica solo quando il rapporto tra i due atti sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi.
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Infine, in presenza di vizi dell’atto presupposto che ne hanno determinato l’annullamento, l’effetto caducante per l’atto successivo si verifica solo quando il rapporto tra i due atti sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi (Consiglio di Stato, sez. V, 20.01.2015 n. 163; sez. IV, 13.06.2013 n. 3272; sez. VI, 27.11.2012 n. 5986; sez. V 17.10.2012 n. 5294; sez. VI, 02.02.2012 n. 585), circostanza che sussiste nel caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 11.05.2018 n. 1258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In tema di atti amministrativi, la figura della cd. invalidità caducante si delinea allorquando il provvedimento annullato rappresenti il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti consequenziali, cosicché il suo venir meno travolge automaticamente –e cioè senza che occorra alcuna ulteriore specifica impugnativa– tali atti successivi strettamente e specificamente collegati al provvedimento presupposto.
Vero è che, secondo la giurisprudenza, l’effetto caducante derivante dall’annullamento dell’atto non può trovare applicazione nel caso in cui l’atto conseguenziale incida in via immediata e diretta sulla posizione di soggetti terzi rispetto al giudizio instaurato contro l’atto presupposto; in tal caso, infatti, sussiste l’onere di impugnare anche l’atto conseguenziale e di notificare l’impugnazione al soggetto controinteressato.

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c) si richiama, in argomento, l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in tema di atti amministrativi, la figura della cd. invalidità caducante si delinea allorquando il provvedimento annullato rappresenti il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti consequenziali, cosicché il suo venir meno travolge automaticamente –e cioè senza che occorra alcuna ulteriore specifica impugnativa– tali atti successivi strettamente e specificamente collegati al provvedimento presupposto (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 05.08.2010, n. 9199).
Vero è che, secondo la giurisprudenza, l’effetto caducante derivante dall’annullamento dell’atto non può trovare applicazione nel caso in cui l’atto conseguenziale incida in via immediata e diretta sulla posizione di soggetti terzi rispetto al giudizio instaurato contro l’atto presupposto; in tal caso, infatti, sussiste l’onere di impugnare anche l’atto conseguenziale e di notificare l’impugnazione al soggetto controinteressato (cfr., ex plurimis, TAR Puglia, Lecce, Sez. II, 31.07.2014, n. 2055) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 13.04.2018 n. 398 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti succedutisi nel tempo non sussiste un rapporto di consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale è infatti nel senso che in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso della successione cronologica di atti di pianificazione generale, anche quando il piano successivo si ponga come mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come detto, comporta l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo.
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Va richiamata la distinzione -assolutamente netta nei diversi arresti giurisprudenziali che hanno affrontato la questione- tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
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5. Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti della Regione Sardegna succedutisi nel tempo non sussiste un rapporto di consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale, richiamato dall’appellante, è infatti nel senso che in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso della successione cronologica di atti di pianificazione generale, anche quando il piano successivo si ponga come mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come detto, comporta l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo.
5.1. Nemmeno giova all’appellante sostenere che il Piano approvato nel 2016 sarebbe un atto di conferma del precedente.
Va in proposito richiamata la distinzione -assolutamente netta nei diversi arresti giurisprudenziali che hanno affrontato la questione- tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 14.04.2014, n. 1805; id., 12.02.2015, n. 758; id., 29.02.2016, n. 812; id, 12.10.2016, n. 4214, nonché, da ultimo, in tema di successione di strumenti di pianificazione generale, Cons. Stato, IV, 27.01.2017, n. 357).
Peraltro, nel caso di specie, più che una conferma di precedenti previsioni di Piano si è avuta la rinnovata approvazione, a seguito di apposita nuova istruttoria, di previsioni soltanto conformi, cioè coincidenti, con le precedenti.
La loro sopravvivenza all’eventuale annullamento di queste ultime rende improcedibile l’appello per sopravvenuta carenza di interesse (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.04.2018 n. 2172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel rapporto tra disposizione regolamentare illegittima e provvedimento attuativo non è ravvisabile quel rapporto di presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura della invalidità derivata con effetto caducante (e non viziante) sull’atto a valle (che, cioè, si sprigiona a prescindere dall’impugnazione di quest’ultimo), trattandosi invero non già di una relazione di presupposizione in senso tecnico-procedimentale –ravvisabile nelle sole ipotesi in cui gli atti appartengano ad una medesima fattispecie procedimentale, o in cui l’atto precedente sia presupposto unico e indefettibile dell’atto successivo nel senso di costituirne un presupposto di esistenza–, bensì di una mera relazione di presupposizione logico-giuridica tra norma regolamentare, generale e astratta, e atto amministrativo di cui la prima costituisce parametro di legittimità e la cui invalidità si riflette dunque, secondo il fenomeno dell’invalidità derivata, sull’atto amministrativo a valle determinandone un vizio di annullabilità rimovibile solo con un’impugnazione da proporre entro il termine di decadenza (oppure, eventualmente, in via di autotutela).
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8. Le considerazioni da ultimo svolte valgono anche a respingere il quarto motivo d’appello, di cui sopra sub 2.d), con le seguenti precisazioni:
   - nel rapporto tra disposizione regolamentare illegittima e provvedimento attuativo non è ravvisabile quel rapporto di presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura della invalidità derivata con effetto caducante (e non viziante) sull’atto a valle (che, cioè, si sprigiona a prescindere dall’impugnazione di quest’ultimo), trattandosi invero non già di una relazione di presupposizione in senso tecnico-procedimentale –ravvisabile nelle sole ipotesi in cui gli atti appartengano ad una medesima fattispecie procedimentale, o in cui l’atto precedente sia presupposto unico e indefettibile dell’atto successivo nel senso di costituirne un presupposto di esistenza–, bensì di una mera relazione di presupposizione logico-giuridica tra norma regolamentare, generale e astratta, e atto amministrativo di cui la prima costituisce parametro di legittimità e la cui invalidità si riflette dunque, secondo il fenomeno dell’invalidità derivata, sull’atto amministrativo a valle determinandone un vizio di annullabilità rimovibile solo con un’impugnazione da proporre entro il termine di decadenza (oppure, eventualmente, in via di autotutela);
   - sotto altro profilo, il venir meno della norma regolamentare per effetto di un giudicato di annullamento comporta la sua inapplicabilità alle fattispecie concrete giuridicamente rilevanti, sussumibili nel relativo ambito applicativo, il che presuppone che il relativo rapporto (da intendersi in senso lato) oggetto della disciplina regolamentare illegittima non sia ancora ‘chiuso in modo irretrattabile’ o ‘esaurito’ (ad es., per intervenuta decadenza o prescrizione, per precedente definizione con efficacia di giudicato, ecc.), ma sia ancora ‘pendente’;
   - la questione dell’eventuale estensione degli effetti del giudicato a soggetti terzi titolari di rapporti esauriti è, invece, in linea generale e salvo eventuali espressi e specifici divieti di legge, rimessa alla determinazione discrezionale dell’Amministrazione nell’esercizio degli ordinari poteri di autotutela (anche su impulso del soggetto interessato), la quale, a sua volta, diviene giustiziabile secondo i generali parametri del sindacato di legittimità, ivi compresi tutti gli elementi sintomatici del vizio di eccesso di potere (ma, come già esposto sopra sub 7., nel caso di specie manca un determinazione amministrativa concreta in relazione alla posizione dell’odierna appellante) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.03.2018 n. 1777 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: È stato stabilito che se l'invalidità di una condizione apposta all'atto amministrativo comporta invalidità totale dell'atto stesso, qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà amministrativa che non vi sarebbe stata senza quella, tuttavia l'invalidità totale dell'atto a cagione dell'invalidità della condizione non può prodursi quando si tratti di atti dovuti.
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Si aggiunga che anche laddove la contestata nota del Comune di Orbetello venisse qualificata nei termini di una proposta transattiva al ricorrente, ebbene non ne verrebbe meno l’illegittimità poiché nella fattispecie la posizione azionata ha la consistenza dell’interesse legittimo al rilascio dell’autorizzazione in parola, inerente a un procedimento amministrativo inteso ad accertarne i presupposti e i requisiti oggettivi e soggettivi. La posizione di interesse legittimo attiene all’interesse pubblico e non è suscettibile di formare oggetto di transazione, alla stregua di una comune controversia patrimoniale di diritto privato (C.d.S. IV, 05.06.1995 n. 405).
Il ricorso per motivi aggiunti pertanto è fondato per tali decisive ragioni, e possono essere assorbite le ulteriori censure poiché il loro accoglimento non apporterebbe ulteriore utilità al ricorrente. Per l’effetto, deve essere annullata la nota comunale 13.07.2017 che ha apposto la citata condizione illegittima.
Il suo annullamento però non travolge il provvedimento cui la condizione accede.
È stato infatti stabilito che se l'invalidità di una condizione apposta all'atto amministrativo comporta invalidità totale dell'atto stesso, qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà amministrativa che non vi sarebbe stata senza quella, tuttavia l'invalidità totale dell'atto a cagione dell'invalidità della condizione non può prodursi quando si tratti di atti dovuti (TAR Lombardia Milano IV, 10.09.2010 n. 5655).
Resta quindi ferma l’autorizzazione del ricorrente all’accesso alle aree demaniali marittime, priva della condizione illegittimamente apposta dall’Amministrazione (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 12.03.2018 n. 371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'ipotesi di invalidità derivata caducante si delinea allorquando il provvedimento annullato in sede giurisdizionale costituisce il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti consequenziali, esecutivi e meramente confermativi, sicché il suo venir meno travolge automaticamente, nel senso che non occorre una ulteriore specifica impugnativa, tali atti successivi strettamente e specificamente collegati al provvedimento presupposto.
L'ipotesi della invalidità derivata ad effetto solo viziante si ravvisa, invece, in tutte le ipotesi nelle quali si è in presenza di provvedimenti presupponenti solo genericamente o indirettamente connessi a quello presupposto: proprio per la rilevata assenza di uno specifico e stretto legame di dipendenza o di presupposizione, tali atti successivi non possono ovviamente rimanere travolti automaticamente, occorrendo per la loro eliminazione una esplicita pronuncia giurisdizionale di annullamento.

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A prescindere se si versi in ipotesi di invalidità derivata caducante (che si delinea allorquando il provvedimento annullato in sede giurisdizionale costituisce il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti consequenziali, esecutivi e meramente confermativi, sicché il suo venir meno travolge automaticamente, nel senso che non occorre una ulteriore specifica impugnativa, tali atti successivi strettamente e specificamente collegati al provvedimento presupposto) o di invalidità derivata ad effetto solo viziante (che si ravvisa, invece, in tutte le ipotesi nelle quali si è in presenza di provvedimenti presupponenti solo genericamente o indirettamente connessi a quello presupposto: proprio per la rilevata assenza di uno specifico e stretto legame di dipendenza o di presupposizione, tali atti successivi non possono ovviamente rimanere travolti automaticamente, occorrendo per la loro eliminazione una esplicita pronuncia giurisdizionale di annullamento) nella specie il Collegio ha respinto nel merito il predetto ricorso n. 278/2017 (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 29.11.2017 n. 791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quando sussiste un vizio di legittimità dell’atto presupposto tale da incidere sull’atto presupponente, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi (invalidità derivata ad effetto caducante), ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
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Secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale (cfr., Cons. Stato, 2611/2015), quando sussiste un vizio di legittimità dell’atto presupposto tale da incidere sull’atto presupponente, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi (invalidità derivata ad effetto caducante), ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi” (cfr., tra le tante: C.d.S., Sez. V, 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272, e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986; VI, 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11. 2010, n. 8243) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 11.08.2017 n. 1296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’invalidità caducante ha una portata estremamente circoscritta in quanto “ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare l'intensità del rapporto di consequenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente".
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Con la indicata sentenza, pertanto, è stato annullato, con efficacia erga omnes, l’atto amministrativo generale costituente atto presupposto dei provvedimenti del 01.07.2014 e del 22.05.2015, indicati in epigrafe, con i quali è stata negata l’ammissione della ricorrente alla fruizione del beneficio economico per cui è causa, atto presupposto la cui efficacia era stata sospesa con la citata ordinanza n. 273/2014, pubblicata il 16.05.2014 e asseritamente –senza contestazione alcuna a riguardo– notificata in forma esecutiva il successivo 10 giugno, non appellata, del seguente tenore: “Considerato che il pregiudizio dedotto presenta i caratteri della gravità ed irreparabilità e che le malattie dalle quali i ricorrenti sono affetti, che rendono gli stessi privi di autonomia ed autosufficienza, paiono –ad un esame sommario proprio della fase cautelare– in tutto assimilabili alla categoria della patologie SMA/SLA sotto il profilo della gravissima disabilità che inducono, sicché non si giustifica la diversa entità del beneficio economico stanziato dalla Regione, diretto ad alleviare il peso delle cure e dell’assistenza quotidiane”.
Ciò, peraltro, al di là di ogni altra pur possibile considerazione relativa alla fattispecie dedotta, non ha comportato, come invece preteso dalla ricorrente, l’invalidità derivata ad effetto caducante di tutti gli atti applicativi della delibera della Regione Puglia n. 2530 del 23.12.2013, ivi inclusi i citati provvedimenti del 01.07.2014 e del 22.05.2015, non tempestivamente impugnati dalla ricorrente.
Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza, l’invalidità caducante ha una portata estremamente circoscritta, non riscontrabile nel caso di specie, in quanto “ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare l'intensità del rapporto di consequenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente (Consiglio di Stato Sez. V, 20.01.2015. n. 163)" (Consiglio di stato n. 3800/2015; cfr. anche Consiglio di Stato n. 4695/2015 e n. 4404/2015 e Cons. St. n. 8243/2010 e n. 6520/2008, ivi richiamate) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 15.06.2017 n. 1014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il problema principale è quello di verificare quale sia la sorte dei provvedimenti attuativi del regolamento annullato, dovendosi, al riguardo, distinguersi l’ipotesi dei provvedimenti attuativi, impugnati contestualmente al regolamento, c.d. doppia impugnativa, i quali sono sicuramente travolti dalla caducazione di quest’ultimo, per invalidità derivata, atteso che l’annullamento dell’atto presupposto, ossia il regolamento, si riflette sull’atto successivo a valle, che ne assimila il vizio, dall’ipotesi dei provvedimenti applicativi medio tempore adottati e non impugnati tuttavia tempestivamente da parte del diretto interessato.
Con specifico riferimento a questa ultima fattispecie, le soluzioni prospettate sono sostanzialmente due, atteso che,
  
secondo un primo orientamento, più radicale, opera l’invalidità derivata a effetto caducante, prodotta dall’annullamento del regolamento nei confronti degli atti applicativi medio tempore adottati, e quindi l’effetto retroattivo dell’annullamento del regolamento procura la caducazione retroattiva automatica dei provvedimenti attuativi senza che sia necessaria l’apposita impugnazione degli stessi, mentre, invece,
  
secondo un opposto e prevalente indirizzo, dall’annullamento giurisdizionale del regolamento consegue un’invalidità derivata a effetto soltanto viziante dell’atto applicativo, cosicché all’annullamento del regolamento non consegue la caducazione automatica dei provvedimenti applicativi medio tempore adottati, attesa la loro definitività per effetto della decorrenza del termine decadenziale, sebbene resti salva, comunque, la possibilità, per l’amministrazione, di procedere alla loro rimozione agendo in via di autotutela, qualora ricorrano ragioni di pubblico interesse che sollecitino la rimozione del provvedimento attuativo divenuto oramai inoppugnabile.
Il Collegio ritiene di dovere aderire, attesa la sua maggiore persuasività, proprio al suddetto secondo orientamento, con la conseguenza che, dall’annullamento del regolamento di cui trattasi nella parte interessata, non consegue che debba ritenersi che i giudizi collegiali resi con tre giudizi individuali positivi e solo due giudizi individuali negativi siano di per sé nulli e/o annullabili e/o inefficaci, quando sia oramai decorso il termine per la loro impugnazione e gli stessi siano, pertanto, divenuti definitivi.
Un limite all’estensione del giudicato di annullamento di un regolamento deve, pertanto, rinvenirsi nei rapporti già esauriti e, quindi, il principio dell’efficacia erga omnes dell'annullamento di atti normativi e di cui sopra incontra proprio il suddetto “limite delle situazioni esaurite”; ne consegue che, appunto, il provvedimento demolitorio non travolge gli atti, attuativi del regolamento, che siano divenuti inoppugnabili per mancata impugnazione nei termini decadenziali brevi di legge e non può nemmeno interferire sulle situazioni oramai definite con sentenza passata in giudicato anche perché, altrimenti, si andrebbe incontro a un grave sovvertimento dell’operato dell’amministrazione che si vedrebbe costretta a riprendere in esame una lunga serie di atti e provvedimenti alcune volte già da anni pacificamente eseguiti, con tutte le relative conseguenze.
Ne deriva che l’annullamento di cui trattasi non è in grado di travolgere retroattivamente tutti i giudizi collegiali di non abilitazione, adottati prima della pubblicazione della sentenza e fondati sul voto contrario di soli due commissari.
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... per l'annullamento nota prot. 1844 del 11.02.2016 nella parte in cui prevede che gli effetti erga omnes dell'annullamento giurisdizionale della norma regolamentare di cui all'art. 8, co. 5, del d.p.r. 222/2011 non sia applicabile ai candidati che non abbiano tempestivamente proposto ricorso -conseguimento dell'abilitazione alla professione di professore universitario di prima fascia- silenzio-rifiuto sulle istanze presentate dai ricorrenti
...
Il ricorso è infondato nel merito e deve, pertanto, essere respinto sulla base delle seguenti considerazioni.
La Sezione ha, infatti, già avuto modo di pronunciarsi sulla tematica degli effetti dell’annullamento della norma regolamentare in discorso e non ha motivo di discostarsi da tale orientamento (si leggano in proposito le sentenze nn. 10278/2016, 11362/2016).
La tematica ha riguardo ai limiti oggettivi del giudicato.
Il problema principale è quello di verificare quale sia la sorte dei provvedimenti attuativi del regolamento annullato, dovendosi, al riguardo, distinguersi l’ipotesi dei provvedimenti attuativi, impugnati contestualmente al regolamento, c.d. doppia impugnativa, i quali sono sicuramente travolti dalla caducazione di quest’ultimo, per invalidità derivata, atteso che l’annullamento dell’atto presupposto, ossia il regolamento, si riflette sull’atto successivo a valle, che ne assimila il vizio, dall’ipotesi dei provvedimenti applicativi medio tempore adottati e non impugnati tuttavia tempestivamente da parte del diretto interessato.
Con specifico riferimento a questa ultima fattispecie, le soluzioni prospettate sono sostanzialmente due, atteso che, secondo un primo orientamento, più radicale, opera l’invalidità derivata a effetto caducante, prodotta dall’annullamento del regolamento nei confronti degli atti applicativi medio tempore adottati, e quindi l’effetto retroattivo dell’annullamento del regolamento procura la caducazione retroattiva automatica dei provvedimenti attuativi senza che sia necessaria l’apposita impugnazione degli stessi, mentre, invece, secondo un opposto e prevalente indirizzo, dall’annullamento giurisdizionale del regolamento consegue un’invalidità derivata a effetto soltanto viziante dell’atto applicativo, cosicché all’annullamento del regolamento non consegue la caducazione automatica dei provvedimenti applicativi medio tempore adottati, attesa la loro definitività per effetto della decorrenza del termine decadenziale, sebbene resti salva, comunque, la possibilità, per l’amministrazione, di procedere alla loro rimozione agendo in via di autotutela, qualora ricorrano ragioni di pubblico interesse che sollecitino la rimozione del provvedimento attuativo divenuto oramai inoppugnabile.
Il Collegio ritiene di dovere aderire, attesa la sua maggiore persuasività, proprio al suddetto secondo orientamento, con la conseguenza che, dall’annullamento del regolamento di cui trattasi nella parte interessata, non consegue che debba ritenersi che i giudizi collegiali resi con tre giudizi individuali positivi e solo due giudizi individuali negativi siano di per sé nulli e/o annullabili e/o inefficaci, quando sia oramai decorso il termine per la loro impugnazione e gli stessi siano, pertanto, divenuti definitivi.
Un limite all’estensione del giudicato di annullamento di un regolamento deve, pertanto, rinvenirsi nei rapporti già esauriti e, quindi, il principio dell’efficacia erga omnes dell'annullamento di atti normativi e di cui sopra incontra proprio il suddetto “limite delle situazioni esaurite”; ne consegue che, appunto, il provvedimento demolitorio non travolge gli atti, attuativi del regolamento, che siano divenuti inoppugnabili per mancata impugnazione nei termini decadenziali brevi di legge e non può nemmeno interferire sulle situazioni oramai definite con sentenza passata in giudicato anche perché, altrimenti, si andrebbe incontro a un grave sovvertimento dell’operato dell’amministrazione che si vedrebbe costretta a riprendere in esame una lunga serie di atti e provvedimenti alcune volte già da anni pacificamente eseguiti, con tutte le relative conseguenze.
Ne deriva che l’annullamento di cui trattasi non è in grado di travolgere retroattivamente tutti i giudizi collegiali di non abilitazione, adottati prima della pubblicazione della sentenza e fondati sul voto contrario di soli due commissari.
In sintesi, a meno di una tempestiva impugnazione del provvedimento lesivo, compete esclusivamente all’amministrazione la determinazione di procedere al riesame delle posizioni di tutti i candidati che avevano partecipato alla relativa procedura di abilitazione oppure esclusivamente nei confronti degli aspiranti che avessero tempestivamente proposto ricorso giurisdizionale. Nel caso del ricorrente, invero, non vi è stata l’originaria impugnazione, per cui il provvedimento che gli ha rifiutato l’abilitazione scientifica nazionale, essendo divenuto inoppugnabile, non può essere travolto se non in sede di revoca o di annullamento da parte dell’amministrazione sulla base di una valutazione nel merito dei contrapposti interessi.
Conclusivamente il ricorso è infondato nel merito e deve, pertanto, essere respinto sulla base di tutte le considerazioni che precedono (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 25.05.2017 n. 6255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”).
Ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid.
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2.1. La doglianza è fondata.
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi” (TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti (cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
2.2. A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità complessiva della concessione assentita, “dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid” (TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2010 n. 5655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La figura dell’«invalidità caducante» (o «travolgimento» o «effetto travolgente») si delinea allorquando il provvedimento annullato in sede giurisdizionale, nel caso di specie il permesso di costruire in sanatoria, costituisce il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti consequenziali (quali il certificato di agibilità), sicché il suo venir meno travolge automaticamente –e cioè senza che occorra una ulteriore specifica impugnativa– tali atti successivi strettamente e specificamente collegati al provvedimento presupposto.
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Per quanto sopra, sotto tale profilo, il permesso di costruire conseguente l’accertamento di conformità ex art. 36 d. P.R. n. 380 del 2001 va annullato: ciò che –va rilevato incidentalmente– si riflette sul successivo provvedimento attestante l’agibilità dei locali n. 856 del 14.10.2008 (depositato in atti dalla difesa del Comune di Licata in prossimità dell’udienza pubblica).
La figura dell’«invalidità caducante» (o «travolgimento» o «effetto travolgente»), infatti, si delinea allorquando il provvedimento annullato in sede giurisdizionale, nel caso di specie il permesso di costruire in sanatoria, costituisce il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti consequenziali (quali il certificato di agibilità), sicché il suo venir meno travolge automaticamente –e cioè senza che occorra una ulteriore specifica impugnativa– tali atti successivi strettamente e specificamente collegati al provvedimento presupposto (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 05.08.2010 n. 9199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

In materia di consiglieri comunali:

CONSIGLIERI COMUNALI: Il rapporto di consequenzialità tra la deliberazione di decadenza del Consigliere e quella della sua sostituzione si atteggia come immediato, diretto e necessario, e il provvedimento di sostituzione si pone, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore.
In tal senso, l’art. 45, n. 1, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, nel prevedere che nei Consigli comunali il seggio che durante il quinquennio rimanga vacante per qualsiasi causa, anche se sopravvenuta, è attribuito al candidato che nella medesima lista segue immediatamente l'ultimo eletto, non lascia margini di discrezionalità all’Amministrazione in ordine all’an della sostituzione.
In tal senso, l’atto di surrogazione non si caratterizza per la necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi in ordine alla surrogazione, non rilevando, in tale prospettiva, il previo accertamento di cause di ineleggibilità e/o incompatibilità tipizzate dall’ordinamento in capo al sostituto, attenendo le stesse al differente profilo dell’idoneità di quest’ultimo a ricoprire la carica, e non alla sostituzione in sé e per sé considerata.
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4.1.2. In ogni caso, ritiene il Collegio che nel caso di specie si sia in presenza di un caso di invalidità c.d. a effetti caducanti, nel quale l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente a quello consequenziale, anche ove quest'ultimo non venga, in tesi, correttamente impugnato.
In effetti, il rapporto di consequenzialità tra la deliberazione di decadenza del Consigliere e quella della sua sostituzione si atteggia come immediato, diretto e necessario, e il provvedimento di sostituzione si pone, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore.
In tal senso, l’art. 45, n. 1, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, nel prevedere che nei Consigli comunali il seggio che durante il quinquennio rimanga vacante per qualsiasi causa, anche se sopravvenuta, è attribuito al candidato che nella medesima lista segue immediatamente l'ultimo eletto, non lascia margini di discrezionalità all’Amministrazione in ordine all’an della sostituzione.
In tal senso, l’atto di surrogazione non si caratterizza per la necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi in ordine alla surrogazione, non rilevando, in tale prospettiva, il previo accertamento di cause di ineleggibilità e/o incompatibilità tipizzate dall’ordinamento in capo al sostituto, attenendo le stesse al differente profilo dell’idoneità di quest’ultimo a ricoprire la carica, e non alla sostituzione in sé e per sé considerata.
Del resto, il provvedimento di sostituzione è espressamente motivato proprio col richiamo alla deliberazione consiliare di decadenza e al disposto dell’art. 45, n. 1, del d.lgs. n. 267/2000 (nel senso dell’invalidità caducante, TAR Puglia, sez. II, 24.05.2004, n. 2273) (TAR Basilicata, sentenza 26.09.2017 n. 608 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

In materia edilizio-urbanistica:

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIn caso di mancata impugnazione degli atti successivi che hanno ridefinito gli interessi coinvolti, un'eventuale accoglimento del ricorso sarebbe privo di utilità, poiché non sarebbe idoneo ad inficiare la graduatoria finale relativa all'avviso di selezione impugnato. Pertanto, il ricorso in tal modo proposto deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
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Pur in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell'effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
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Va richiamata la distinzione tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo, rispetto ad un atto precedente, l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
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1. Con atto di costituzione, derivante dalla trasposizione di un ricorso straordinario al Capo dello Stato, la ricorrente si duole dell’illegittimità dell’ordinanza di ripristino emanata dal Comune intimato, per conformare i lavori di manutenzione effettuati al piano terra e rialzato di un immobile a quanto progettato attraverso una SCIA.
2. Deduce la ricorrente che, nella qualità di proprietaria dell’immobile sito in Fisciano alla via ... n. 29 e identificato catastalmente al Foglio 18 particella 1009, con nota del 22.01.2018, ella ha trasmesso al Comune di Fisciano, una copia della SCIA finalizzata all’esecuzione nel predetto immobile di lavori di manutenzione straordinaria e di parziale mutamento di destinazione d’uso al piano seminterrato.
3. A seguito dell’effettuazione di tali lavori, il Comune di Fisciano, a mezzo di propri tecnici, ha effettuato presso il suo immobile un sopralluogo teso a verificare la veridicità di un esposto presentato da un privato, il quale lamentava il compimento di alcuni abusi edilizi.
4. Sulla base di questa attività ispettiva, il Comune di Fisciano ha quindi notificato alla sig.ra Mi. l’impugnata ordinanza, avverso la quale l’interessata ha proposto domanda di annullamento, previa istanza di concessione della misura cautelare.
5. Si è costituito in giudizio il Comune di Fisciano, il quale resistendo al ricorso, ne ha pregiudizialmente rilevato l’improcedibilità, poiché “il Comune di Fisciano, con ordinanza n. 9/2019 n. prot. 1805/2019 del 29.01.2019, ha integrato e chiarito i contenuti dell’ordinanza dirigenziale n. 85 del 25.10.2018 impugnata con il ricorso straordinario poi trasposto nella presente sede giurisdizionale”. Tale ultimo provvedimento non sarebbe stato oggetto di impugnazione da parte della ricorrente.
6. All’udienza del 19.06.2019, constatata la possibilità di definire il giudizio con sentenza in forma semplificata, datone avviso alle parti, la causa è stata riservata per la decisione.
7. Va delibata pregiudizialmente l’eccezione pregiudiziale rilevata dall’amministrazione comunale, in quanto idonea a definire l’intero giudizio.
8. Sono incontestate tra le parti l’emanazione dell’ordinanza cautelare n. 9 del 2019 e la sua mancata impugnazione da parte dell’odierna ricorrente.
9. Con questo provvedimento, il Comune di Fisciano ha, effettivamente, rivalutato la precedente statuizione provvedimentale, tenendo conto delle censure formulate rispetto ad essa ad opera dell’odierna parte ricorrente.
Può ritenersi, dunque, che il più recente provvedimento emanato dall’amministrazione abbia effettivamente sostituito quello precedente, vantando un’autonoma efficacia lesiva.
9.1 Come rilevato più volte dalla giurisprudenza amministrativa “In caso di mancata impugnazione degli atti successivi che hanno ridefinito gli interessi coinvolti, un'eventuale accoglimento del ricorso sarebbe privo di utilità, poiché non sarebbe idoneo ad inficiare la graduatoria finale relativa all'avviso di selezione impugnato. Pertanto, il ricorso in tal modo proposto deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse” (TAR Sicilia–Catania, Sez. I, 23/08/2018, n. 1736; Consiglio di Stato, Sez. IV, 28/06/2016, n. 2914; Consiglio di Stato, Sez. IV, 15/06/2016, n. 2636; TAR Veneto, sez. II, 15/04/2015, n. 421; TAR Campania-Napoli, Sez. II, 08/05/2009, n. 2459).
9.2 Il principio di diritto enunciato, pienamente condivisibile e dal quale non v’è ragione di discostarsi, risulta pertinente rispetto al caso divisato ed implica, quindi, che l’impugnazione proposta avverso il provvedimento originario non rivesta più alcuna utilità giuridica per la parte proponente la domanda di annullamento.
Va dunque preso atto della sopravvenuta carenza di interesse ad una decisione sull’originaria domanda di annullamento, poiché, da un suo eventuale accoglimento, non potrebbe scaturire nessun effetto utile per l’interessato.9.3 Né può invocarsi fra l’atto impugnato e quello successivamente emanato dall’amministrazione un rapporto tale per cui l’annullamento del primo spiegherebbe un’efficacia c.d. caducante sul secondo.
A tal proposito, giova riportare nella presente sentenza quanto, di recente, ribadito dal Consiglio di Stato, Sez. V, 17.01.2019, n. 432: “…pur in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell'effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243). Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso di specie.
Va altresì richiamata la distinzione tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo, rispetto ad un atto precedente, l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 14.04.2014, n. 1805; id., 12.02.2015, n. 758; id., 29.02.2016, n. 812; id, 12.10.2016, n. 4214, nonché, da ultimo, in tema di successione di strumenti di pianificazione generale, Cons. Stato, IV, 27.01.2017, n. 357)
”.
9.4 Poiché nel caso di specie, tra i due atti, non può dirsi sussistente quel rapporto “immediato, diretto e necessario”, né risulta fondatamente predicabile quella relazione di “inevitabile conseguenza”, necessari per la prospettazione della sussistenza degli effetti di automatica caducazione discendenti dal giudicato di annullamento del primo atto rispetto a quello rimasto inoppugnato, il ricorso non può che essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1180 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAGiusta il costante insegnamento, <<qualora l'atto si basi su una pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto plurimotivato), il ricorso con il quale non si contestino tutte le motivazioni deve essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse, atteso che l'eventuale riconoscimento della fondatezza delle doglianze proposte non esclude l'esistenza e la validità della restante causa giustificatrice dell'atto>>.
Infatti, a fronte di un atto amministrativo di segno negativo il quale fondi la decisione su una pluralità di ragioni ostative, ciascuna delle quali risulterebbe di per sé idonea a supportarla, l'impugnativa svolta in sede giurisdizionale avverso tale decisione non può trovare accoglimento se anche uno solo dei motivi di doglianza resista alle censure mosse.
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Il c.d. effetto caducante, anche ammesso che possa riguardare un elemento della motivazione e non il presupposto giuridico di un determinato atto in sé considerato, è un’eccezione nel sistema del diritto amministrativo.
Precisamente, nell'ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
L'effetto caducante ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario.

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L’eccezione sollevata dal Comune è fondata.
Occorre rammentare l’insegnamento secondo il quale <<qualora l'atto si basi su una pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto plurimotivato), il ricorso con il quale non si contestino tutte le motivazioni deve essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse, atteso che l'eventuale riconoscimento della fondatezza delle doglianze proposte non esclude l'esistenza e la validità della restante causa giustificatrice dell'atto>> (in questo senso, TAR Piemonte, sez. II, 14/11/2018, n. 1247).
Infatti, a fronte di un atto amministrativo di segno negativo il quale fondi la decisione su una pluralità di ragioni ostative, ciascuna delle quali risulterebbe di per sé idonea a supportarla, l'impugnativa svolta in sede giurisdizionale avverso tale decisione non può trovare accoglimento se anche uno solo dei motivi di doglianza resista alle censure mosse (C. Stato, sez. V, 13/09/2018, n. 5362).
Nel caso di specie il provvedimento di diniego impugnato, nella motivazione non solo fa riferimento al parere negativo espresso dalla Soprintendenza in data 17.03.2006, prot. n. 1032, ma lo pone chiaramente a fondamento della reiezione della domanda di condono, come una delle ragioni di rigetto della stessa.
Per contro, l’intervenuta separata impugnazione, da parte di Da.Pa. e Ca.Ca., del parere negativo della Soprintendenza non incide sull’onere impugnatorio gravante su parte ricorrente.
Infatti, il c.d. effetto caducante, anche ammesso che possa riguardare un elemento della motivazione e non il presupposto giuridico di un determinato atto in sé considerato, è un’eccezione nel sistema del diritto amministrativo.
Precisamente, nell'ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito; l'effetto caducante ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario (così, C. Stato, sez. V, 10/04/2018, n. 2168; similmente, C. Stato, sez. IV, 18/05/2018, n. 3001).
Nel caso di specie nessuno dei presupposti citati risulta sussistere.
Sotto il primo profilo, infatti, fermo restando che per gli immobili abusivi realizzati su aree vincolate, il rilascio del condono è subordinato al previo parere favorevole delle Amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso, occorre considerare che il provvedimento della Soprintendenza, cui fa riferimento il diniego di condono in esame, non risulta essere stato adottato nell’ambito del procedimento di condono medesimo, ma si tratta di una valutazione resa nell’ambito di un autonomo procedimento, i cui risultati però, essendo intervenuti in un momento coevo al procedimento di condono in esame sono stati fatti propri dal Comune di Genova, in quanto comunque concernenti la compatibilità dell’opera in contestazione (la vasca) rispetto alla disciplina del vincolo monumentale.
In questo senso, quindi, il provvedimento della Soprintendenza, pur essendo stato recepito e fatto proprio dal Comune, non appartiene alla serie procedimentale conclusasi con il diniego di condono.
Sotto il secondo profilo, invece, occorre considerare come il parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo sia sì uno degli elementi presupposti necessari per il rilascio del provvedimento di condono, ma, d’altra parte, quest’ultimo provvedimento non ne costituisce una <<inevitabile ed ineluttabile conseguenza>>, <<senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi>>, perché l’Amministrazione comunale è tenuta ad eseguire ulteriori accertamenti e valutazioni sotto il profilo specificamente edilizio.
Ne consegue, pertanto, che il motivo in esame avrebbe dovuto formare oggetto specifico di impugnazione da parte della ricorrente
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 06.05.2019 n. 409 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: L’annullamento della delibera di adozione del piano regolatore esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione solo nel caso in cui quest’ultimo si limiti a confermare le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto d’impugnativa.
Se, al contrario, come accaduto nel caso di specie, dette previsioni siano state modificate, è evidente che detto effetto caducante non può verificarsi.
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9. Con il primo ed il secondo motivo di appello, che affrontano il tema centrale della controversia, la Im. e Ge. sostiene che l’approvazione del nuovo PRG di Roma non avrebbe potuto impedire, per la diversa destinazione impressa all’area, il rilascio del permesso di costruire e quindi l’attuazione della convenzione “Acqua Traversa” del 1936 con la quale era stata prevista la realizzazione nel medesimo comprensorio di “villini signorili”.
9.1. Secondo parte appellante, le previsioni del nuovo PRG, approvato con delibera n. 18 del 12.02.2008, non costituivano ostacolo al rilascio del titolo edilizio richiesto in ragione del precedente annullamento da parte del Tar per il Lazio della delibera di adozione dello stesso Piano (delibera n. 33/2003 oggetto della sentenza n. 109/2008) e ancor prima della variante c.d. Piano delle certezze (delibera n. 92/1997 oggetto della sentenza n. 14894/2004).
9.2. In sostanza, l’annullamento della previsione della destinazioni dell’area prima a verde pubblico, nella variante delle certezze, e poi a verde pubblico e servizi pubblici di livello locale, nella delibera di adozione del PRG, comportava il riespandersi della precedente disciplina urbanistica di cui alla convenzione “Acqua Traversa”.
10. La tesi dell’appellante non può essere condivisa.
10.1. Il Comune di Roma, dopo l’adozione del nuovo PRG (delibera n. 3/2003), ha approvato, in sede di controdeduzioni alle osservazioni presentate allo stesso Piano dai privati, la delibera n. 64 del 22.03.2006, con la quale ha mutato la destinazione dell’area da verde pubblico e servizi pubblici di livello locale in “Verde privato” (modifica poi recepita nella delibera n. 18/2008 di approvazione definitiva del PRG).
10.2. Tale delibera del 2006, come rilevato dal Tar, non è stata impugnata dalla ricorrente, pur essendo ancora pendente presso lo stesso Tribunale il ricorso n. 168/2004 poi deciso con la richiamata sentenza n. 109/2008.
10.3. Né è stata impugnata la successiva delibera n. 18/2008 con la quale è stato approvato il nuovo PRG del comune di Roma (l’art. 49 delle NTA esplicitamente ha previsto l’inedificabilità dell’area in relazione alla mutata destinazione urbanistica).
10.4. In ragione delle suddette circostanze, il Tar ha quindi correttamente respinto il ricorso contro il diniego del permesso di costruire, con assorbimento delle altre censure, considerando la piena validità del vincolo interdittivo dell’edificabilità dell’area.
11. D’altra parte, l’esame dell’istanza andava necessariamente svolto con riferimento alla normativa urbanistica vigente, non potendosi ritenere fondata la prospettazione dell’appellante in ordine al fatto che l’annullamento della delibera di adozione del PRG abbia avuto effetti automaticamente caducanti anche sul successivo atto di approvazione definitiva del Piano.
11.1 In relazione a quest’ultimo aspetto, va infatti rilevato che la sentenza n. 109/2008 ha riguardato il difetto di istruttoria connesso al profilo relativo alla destinazione dell’area (verde pubblico e servizi pubblici locali) in connessione con la ricomprensione del lotto in un tessuto ormai urbanizzato. La nuova previsione a “Verde privato” si è fondata invece su standard differenti.
11.2. Cosicché nel caso in esame non può ritenersi che l’annullamento della delibera di adozione abbia potuto avere effetti caducanti sulla successiva delibera di approvazione del PRG, essendo diverso il contenuto e comunque diverso l’antecedente procedimentale (delibera n. 64/2006).
11.3. In particolare, l’annullamento della delibera di adozione del piano regolatore esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione solo nel caso in cui quest’ultimo si limiti a confermare le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto d’impugnativa (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 14.07.2014, n. 3654). Se, al contrario, come accaduto nel caso di specie, dette previsioni siano state modificate, è evidente che detto effetto caducante non può verificarsi (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.02.2019 n. 1225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza).
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7. Il ricorso è palesemente infondato e va respinto.
8. Dalla documentazione –anche fotografica- versata in atti emerge in modo pacifico ed incontestato che lo stato di fatto del fabbricato, rappresentato dall’elaborato progettuale sottoposto dal ricorrente all’esame dell’ufficio tecnico comunale, è totalmente difforme dall’effettivo stato dei luoghi negli aspetti dettagliatamente descritti nel verbale di sopralluogo eseguito dai tecnici comunali su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria (mancato rispetto delle distanze dei fabbricati dai confini lato nord e lato sud; realizzazione di un quinto piano f.t. non contemplato dal progetto depositato, locale seminterrato costruito completamente fuori terra, assenza di tratto strada carrabile di collegamento con la via pubblica).
Da ciò non può che derivare la doverosità del provvedimento di autotutela adottato e rivolto, in buona sostanza, a rimuovere un titolo a suo tempo fondato su falsi presupposti di fatto.
9. La difesa del ricorrente si impernia esclusivamente sulla domanda di sanatoria presentata ex art. 36 d.P.R. 380/2001, ma il mezzo si rivela mal posto.
Nella vicenda in decisione, infatti, l’interesse del ricorrente è finalizzato a mantenere valido ed efficace l’originario permesso di costruire,contestandone ab origine il suo annullamento, non assumendo alcuna rilevanza la successiva ed autonoma iniziativa in sanatoria che non incide su alcun ordine di demolizione nel frattempo intervenuto.
E’, del resto, fin troppo chiara la differenza tra il caso di specie e quello che si verifica quando all’ordine di demolizione,legittimo o meno che sia, si dia seguito alla domanda di sanatoria.
Nella prima ipotesi, l’organo competente adotta il provvedimento costitutivo dello ius aedificandi che viene successivamente rimosso attraverso il provvedimento di ritiro in autotutela (annullamento), laddove il ricorso avverso quest’ultimo provvedimento è rivolto a ripristinare l’originaria situazione favorevole di partenza.
Nella seconda ipotesi, l’organo competente, constatando la mancanza del titolo edilizio, emana da subito un provvedimento negativo (ordine di demolizione) nei confronti del destinatario (proprietario o responsabile dell’abuso) che, allo scopo di costituire il titolo che prima mancava, attiva su domanda un ulteriore procedimento amministrativo ordinato a verificare da parte dell’Autorità procedente la conformità dell’intervento alla disciplina edilizia ed urbanistica esistente al momento della realizzazione dell’opera e al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria (cd. requisito della doppia conformità).
Laddove ricorra simile evenienza (ma non è quella sottoposta all’attenzione del Collegio) trova spazio il noto, anche se non unanime, indirizzo della giurisprudenza, secondo cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza)” (cfr. ex multis TAR Reggio Calabria 17.09.2018 n. 559).
10. In definitiva, poiché il ricorrente ha impugnato l’annullamento della concessione edilizia, deducendone l’illegittimità solo attraverso la prospettazione della probabile fondatezza della domanda di sanatoria (che non risulta affatto delibata né tanto meno accolta), il ricorso non coglie nel segno e va respinto (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 11.02.2019 n. 78 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di una istanza di condono edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
Ed invero, il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da tale istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Per effetto degli artt. 38, 43 e 44 della L. n. 47 del 1985, richiamati dall' art. 32, comma 25, del D.L. n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza di condono edilizio determina l'obbligo dell'amministrazione comunale di procedere prioritariamente all'esame della medesima, paralizzando il corso dei procedimenti per l'applicazione delle misure repressive fino alla definizione della domanda di sanatoria; infatti, in caso di accoglimento, l'abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l'ottemperanza da parte dell'interessato.

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2.1 A tale riguardo, è sufficiente osservare che la presentazione della domanda di condono che investe ciascuna di queste opere per le quali sono stati adottati i provvedimenti di demolizione fa venire meno questi provvedimenti e obbliga l’ente locale, in caso di diniego della domanda, a riadottare un nuovo provvedimento demolitorio.
2.2 Come rilevato, di recente, dal TAR Campania Napoli Sez. VIII, 04.04.2018, n. 2193, con sentenza il cui principio di diritto il Collegio ritiene di condividere e fare proprio, “La presentazione di una istanza di condono edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. Ed invero, il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da tale istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa. Per effetto degli artt. 38, 43 e 44 della L. n. 47 del 1985, richiamati dall' art. 32, comma 25, del D.L. n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza di condono edilizio determina l'obbligo dell'amministrazione comunale di procedere prioritariamente all'esame della medesima, paralizzando il corso dei procedimenti per l'applicazione delle misure repressive fino alla definizione della domanda di sanatoria; infatti, in caso di accoglimento, l'abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l'ottemperanza da parte dell'interessato (accoglie il ricorso introduttivo, dichiara inammissibile il ricorso per motivi aggiunti)”.
Che è, del resto, quanto l’Amministrazione ha in concreto fatto nel caso di specie, reiterando l’ordinanza di demolizione per le opere che si è ritenuto di non condonare (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 04.02.2019 n. 210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza della Sezione, pur non ignorando l’esistenza di recenti orientamenti di segno diverso, ritiene preferibile dare continuità alla tradizionale massima secondo cui la presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata dall’amministrazione.
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1. Con ordinanza n. 899/2017, il Comune di Pistoia ha ingiunto ai signori Gu.To. e Ca.Fu., nonché alla Gr. S.r.l., la demolizione di un insieme di opere edilizie realizzate senza di titolo e destinate a struttura di vendita della predetta società Gr.. Il provvedimento, nel descrivere le costruzioni da demolire, le identifica come “Struttura 1” (immobile commerciale adibito alla vendita al pubblico, anche identificato dalle parti come “serra grande”) e “Struttura 2” (serra modulare coperta, anche “serra piccola”), tra loro collegate da una zona aperta pavimentata, parimenti utilizzata come area espositiva destinata alla vendita.
1.1. L’ordinanza è stata impugnata dai suoi destinatari con il ricorso iscritto al n. 1612/2017 R.G..
Nella camera di consiglio del 16.01.2018, il collegio ne ha sospeso l’efficacia anche in considerazione della sopraggiunta presentazione, da parte degli interessati, di separate istanze per l’accertamento di conformità delle due strutture.
1.2. Decorso inutilmente il termine di legge, sulle due istanze di sanatoria si è formato il silenzio-rigetto (art. 36 d.P.R. n. 380/2001; art. 209, co. 4, l.r. toscana n. 65/2014), impugnato dagli interessati con i ricorsi iscritti ai nn. 569 e 570/2018 (relativi, rispettivamente, alla serra piccola e alla serra grande).
1.3. Nei tre giudizi si è costituito il Comune di Pistoia, per resistere ai gravami.
1.4. Le cause sono state discusse congiuntamente e trattenute per la decisione nella pubblica udienza del 18 dicembre 2018, preceduta dallo scambio di documenti e memorie difensive.
2. In via pregiudiziale deve essere disposta la riunione dei ricorsi, accomunati da palesi profili di connessione oggettiva e soggettiva, e verificata la persistenza dell’interesse ad agire.
A tale ultimo riguardo, la giurisprudenza della Sezione, pur non ignorando l’esistenza di recenti orientamenti di segno diverso, ritiene preferibile dare continuità alla tradizionale massima secondo cui la presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata dall’amministrazione.
Ne discende l’improcedibilità dell’impugnazione proposta, con il più risalente dei ricorsi riuniti, avverso l’ordinanza di demolizione n. 899/2017, definitivamente superata dalle istanze di sanatoria presentate dagli interessati il 20.12.2017.
Sorte analoga tocca ai due giudizi più recenti, giacché le istanze di sanatoria sono state a loro volta definite dal Comune di Pistoia con i provvedimenti espressi depositati dai ricorrenti in vista dell’udienza di discussione. Pur con esiti confermativi dei pregressi rigetti taciti, si tratta di un vero e proprio riesercizio del potere cui oggi è affidata in via esclusiva la regolazione del rapporto e che, come tale, richiedono di essere autonomamente impugnati (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 04.02.2019 n. 175 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla stregua della tradizionale massima –alla quale il collegio intende dare continuità, in coerenza con gli indirizzi della Sezione– la presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata.
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Considerato:
   - che i ricorrenti impugnano l’ordine di demolizione e ripristino pronunciato nei loro confronti dal Comune di Pisa con riferimento all’avvenuta realizzazione senza titolo di una serie di opere edilizie (manufatto precario adibito a ufficio; tettoia prefabbricata) a corredo dell’attività di parcheggio svolta dal signor Sc. sul terreno di proprietà del signor Pa.;
   - che, in vista dell’udienza pubblica del 06.12.2018, essi hanno chiesto differirsi la trattazione di merito della controversia, stante l’avvenuta presentazione, nelle more del giudizio, di una domanda per l’accertamento di conformità delle opere oggetto del provvedimento impugnato;
   - che la circostanza è stata confermata dal Comune di Pisa, il quale ha aderito all’istanza di rinvio;
   - che il collegio ha rappresentato alle parti, ai sensi dell’art. 73, co. 3, c.p.a., la volontà di trattenere la causa in decisione onde verificare la persistenza dell’interesse al ricorso pur in pendenza della sopravvenuta richiesta dell’accertamento di conformità;
   - che il difensore dei ricorrenti non si è opposto, insistendo tuttavia per la compensazione delle spese processuali;
   - che, confermando quanto già prospettato alle parti, il ricorso va dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, alla stregua della tradizionale massima –alla quale il collegio intende dare continuità, in coerenza con gli indirizzi della Sezione– secondo cui la presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 30.01.2019 n. 152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sopravvenuta formazione di un nuovo provvedimento di rigetto del condono comporta il venir meno dell'interesse a contestare i pregressi provvedimenti repressivi. L'atto sopraggiunto implica il dovere per l'Amministrazione comunale di emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.
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La presentazione di una istanza di condono edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. Ed invero, il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da tale istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Per effetto degli artt. 38, 43 e 44 della L. n. 47 del 1985, richiamati dall'art. 32, comma 25, del D.L. n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza di condono edilizio determina l'obbligo dell'amministrazione comunale di procedere prioritariamente all'esame della medesima, paralizzando il corso dei procedimenti per l'applicazione delle misure repressive fino alla definizione della domanda di sanatoria; infatti, in caso di accoglimento, l'abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l'ottemperanza da parte dell'interessato.
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Il presente contenzioso ha ad oggetto il provvedimento di accertamento di inottemperanza ad ordine di demolizione ed acquisizione di beni immobili abusivi, Rep. n. 31824 del 24.07.2018.
Ritiene il Collegio che la natura della controversia e la riscontrata completezza del contraddittorio e dell’istruttoria consentano la sua immediata definizione.
Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente impugna il provvedimento indicato in epigrafe evidenziando che esso è illegittimo per un vizio del procedimento.
In vero, sul punto, il ricorrente deduce che “successivamente al diniego comunque illegittimamente formulato della istanza di condono presentata dal sig. Ma., non ha provveduto a reiterare l’ingiunzione di demolizione e non ha fissato un nuovo termine per l’ottemperanza, limitandosi a notificare l’illegittimo provvedimento di acquisizione quivi gravato”.
Il motivo è manifestamente fondato e merita accoglimento.
Come rilevato, da molteplici sentenze del giudice amministrativo: “La sopravvenuta formazione di un nuovo provvedimento di rigetto del condono comporta il venir meno dell'interesse a contestare i pregressi provvedimenti repressivi. L'atto sopraggiunto implica il dovere per l'Amministrazione comunale di emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi” (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 02/05/2018, n. 2623).
Analogamente, il TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 04/04/2018, n. 2193 (conforme, anche, TAR Campania Napoli Sez. II, 21.06.2016, n. 3128), ha statuito che “La presentazione di una istanza di condono edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. Ed invero, il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da tale istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa. Per effetto degli artt. 38, 43 e 44 della L. n. 47 del 1985, richiamati dall'art. 32, comma 25, del D.L. n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza di condono edilizio determina l'obbligo dell'amministrazione comunale di procedere prioritariamente all'esame della medesima, paralizzando il corso dei procedimenti per l'applicazione delle misure repressive fino alla definizione della domanda di sanatoria; infatti, in caso di accoglimento, l'abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l'ottemperanza da parte dell'interessato”.
In ragione del suesposto orientamento competerà dunque al Comune di Sarno riesaminare la vicenda ed emanare, ove lo ritenga, l’ordinanza di demolizione debitamente notificata a ciascuno dei destinatari.
Va dunque accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento di tutti gli altri motivi (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 23.11.2018 n. 1696 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Stante il rapporto di collegamento tra i diversi atti che compongono l’atto finale, deve confermarsi che l’omessa impugnazione del provvedimento regionale di approvazione di un piano regolatore generale non determina alcuna preclusione all’ammissibilità, né rifluisce conseguentemente sulla procedibilità, del ricorso proposto contro la delibera di adozione dello strumento urbanistico, in quanto l’annullamento di quest’ultima, comportando il venir meno di uno degli elementi necessari di un atto complesso il cui procedimento si conclude solo con l’approvazione regionale, esplica effetti automaticamente caducanti e non meramente vizianti sul successivo provvedimento regionale, nella parte in cui lo stesso si limita a confermare le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa.
Sicché non solo l’impugnativa della delibera di adozione del PRG o di una sua variante è pienamente consentita, ma il ricorso è procedibile e pienamente satisfattivo dell’interesse azionato, anche in mancanza della impugnativa del provvedimento finale, poiché il suo accoglimento determina il venir meno (con effetto caducante) dell’intero procedimento, ivi compresa la eventuale successiva approvazione regionale.
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4. - Ciò premesso in punto di fatto, ritiene questo Collegio che il ricorso introduttivo, integrato da motivi aggiunti, debba essere respinto in quanto infondato.
4.1. - Preliminarmente, va disattesa l’eccezione, formulata da parte resistente, di improcedibilità del ricorso per omessa presentazione di osservazioni da parte della De Ch..
Invero, la De Ch. ha presentato le sue osservazioni in data 21.05.2014.
Inoltre, come evidenziato da Cons. Stato, Sez. IV, 11.09.2012, n. 4828 “… Stante il rapporto di collegamento tra i diversi atti che compongono l’atto finale, deve quindi confermarsi che l’omessa impugnazione del provvedimento regionale di approvazione di un piano regolatore generale non determina alcuna preclusione all’ammissibilità, né rifluisce conseguentemente sulla procedibilità, del ricorso proposto contro la delibera di adozione dello strumento urbanistico, in quanto l’annullamento di quest’ultima, comportando il venir meno di uno degli elementi necessari di un atto complesso il cui procedimento si conclude solo con l’approvazione regionale, esplica effetti automaticamente caducanti e non meramente vizianti sul successivo provvedimento regionale, nella parte in cui lo stesso si limita a confermare le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa. …”.
Sicché non solo l’impugnativa della delibera di adozione del PRG o di una sua variante è pienamente consentita, ma il ricorso è procedibile e pienamente satisfattivo dell’interesse azionato, anche in mancanza della impugnativa del provvedimento finale, poiché il suo accoglimento determina il venir meno (con effetto caducante) dell’intero procedimento, ivi compresa la eventuale successiva approvazione regionale.
Non muta il quadro l’omessa trasmissione della adozione alla Regione di cui si lamenta parte ricorrente a pag. 2 della memoria depositata in data 27.04.2018, non essendovi alcuna norma che determini la decadenza e il venir meno della adozione per il mero decorso di un determinato arco temporale.
Infine, non può essere accolta l’eccezione, formulata dal Comune di Terlizzi a pag. 2 della memoria depositata in data 09.05.2018, di improcedibilità del presente ricorso per sopravvenuto difetto di interesse, in considerazione della omessa impugnazione della sentenza n. 1097 del 06.09.2016 dichiarativa della inammissibilità della domanda proposta per l’ottemperanza dell’ordinanza cautelare n. 100/2016.
A tal riguardo, va evidenziato che con la citata sentenza n. 1097/2016 il TAR si è limitato a prendere atto che il Comune aveva ottemperato all’ordine cautelare con il nuovo provvedimento consiliare n. 32/2016, senza che il Tribunale esprimesse alcuna valutazione in ordine alla legittimità del provvedimento medesimo.
Il generico riferimento, operato dalla sentenza n. 1097/2016, alla discrezionalità della P.A. in sede pianificatoria non ha dunque alcun effetto decisorio o preclusivo rispetto ai successivi motivi aggiunti.
In ogni caso rispetto alla fase di esecuzione/ottemperanza della ordinanza cautelare di accoglimento ai fini del riesame n. 100/2016 non può ritenersi formato alcun giudicato preclusivo in termini di inammissibilità, tale da comportare una produzione di effetti sul presente giudizio di cognizione, giudizio che per sua natura è dotato di una differente dinamica sganciata dall’incidente di esecuzione suddetto (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.11.2018 n. 1466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 146 del D.lgs. n. 42/2004, al comma 4, statuisce che “L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
In virtù del dettato normativo in questione, l'espresso collegamento dei due atti (nulla-osta paesaggistico e permesso di costruire) mediante un rapporto di stretta presupposizione, implica l'illegittimità dell'atto presupponente ove adottato in mancanza dell'atto presupposto o in difformità al suo contenuto.
La Corte di Cassazione ha in più occasioni avuto modo di osservare che l'autorizzazione paesaggistica costituisce requisito di efficacia del permesso di costruire affermando che “L'autorizzazione paesaggistica si inserisce come elemento indispensabile nel procedimento di rilascio della concessione in modo da incidere sulla sua efficacia”.
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... per l'annullamento della determinazione n. 305 del Funzionario del Settore 4 – Sviluppo del Territorio, Urbanistica, Ambiente-Edilizia e Innovazione – del Comune di Gallipoli datata 15/02/2018, notificata il 06.03.2018, avente ad oggetto “Annullamento Autorizzazione Paesaggistica n. 18/2010 del 05/01/2012 in esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato n. 4762/2012 – Spiaggia Libera Attrezzata denominata “Sp.Cl.” in loc. “S. Giovanni alla Pedata” – ditta C.R. legale rappresentante della società Sp.Cl. srl” e contestuale ordinanza di rimozione della struttura balneare nonché di tutti gli atti preordinati, connessi e consequenziali a quello oggi impugnato.
...
1. I fatti oggetto della odierna controversia sono i seguenti.
La società Sp.Cl. S.r.l. è titolare di Concessione Demaniale Marittima n. 12/2008 rilasciata dalla Capitaneria di Porto di Gallipoli in data 10.04.2008 (rinnovo della precedente concessione n. 19/2006) ed avente scadenza il 31.12.2013, termine prorogato ex lege sino al 31.12.2020 in forza del disposto di cui all’art. 1, comma 18, del D.L. n. 194/2009, convertito con legge n. 25/2010.
Con istanza del 05.10.2007, l’esponente ha chiesto al Comune di Gallipoli il rilascio del titolo edilizio necessario per il mantenimento, per l’intera durata della concessione demaniale marittima, delle strutture funzionali all’attività balneare, comunicando altresì di non avere apportato alcuna variazione ai progetti già presentati al Comune di Gallipoli e regolarmente autorizzati. Il tutto in forza del disposto di cui all’art. 11, comma 4-quater e 4-quinques, della L.R. Puglia n. 17/2006.
Con successiva istanza del 12.08.2009, ha chiesto il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica all’uopo necessaria.
Con nota del 20.01.2011 la S.B.A.P. delle Province di Lecce, Brindisi e Taranto ha espresso parere contrario motivando che: “[...] le opere di progetto consistenti nel mantenimento annuale di strutture balneari, per dimensioni planovolumetriche alterano il contesto naturalistico e paesistico caratterizzato da litorale sabbioso con vegetazione autoctona ostacolandone le visuali”.
Quindi, con provvedimento n. 18/2010 del 09.03.2011 il Comune di Gallipoli ha negato l’autorizzazione paesaggistica, condividendo il citato parere della Soprintendenza.
Avverso il predetto provvedimento la Sp.Cl. s.r.l. ha presentato ricorso innanzi al TAR di Lecce (RG n. 902/2011), conclusosi con sentenza di accoglimento n. 1284/2011, successivamente appellata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Lecce Brindisi e Taranto.
Nelle more del giudizio innanzi al Consiglio di Stato, il Comune di Gallipoli, al fine di dare attuazione alla sentenza del Tar di Lecce, in data 05.01.2012 ha emesso nuova autorizzazione paesaggistica n. 18/2010, finalizzata al mantenimento annuale delle struttura balneare ubicata su area in concessione alla ricorrente.
Con sentenza n. 4762/2012, pubblicata il 07.09.2012, il Consiglio di Stato, riformando la decisione del TAR di Lecce, ha accolto l’appello proposto dalla Soprintendenza.
In attuazione di tale ultimo provvedimento giurisdizionale, ormai definitivo, con la determinazione n. 305 del 15.02.2018, notificata in data 06.03.2018, il Comune di Gallipoli ha annullato l’autorizzazione paesaggistica n. 18/2010 del 05.01.2012 per il mantenimento annuale della struttura balneare denominata Sp.Cl. e, per l’effetto, ne ha ordinato la rimozione.
Di qui l’odierna impugnativa con la quale Sp.Cl. s.r.l. ha chiesto, previa sospensione dell’efficacia, l’annullamento di detta determinazione, articolando i seguenti motivi di diritto: ...
...
In estrema sintesi, la ricorrente asserisce innanzitutto che la sentenza del TAR Lecce n. 1284/2011 sarebbe divenuta definitiva nei confronti dell’Amministrazione Comunale “poiché da quest’ultima mai appellata”.
Quindi censura il provvedimento oggetto di gravame in quanto in contrasto con la previsione dell’art. 21-octies e nonies della legge 241/1990: l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica sarebbe stato disposto senza che ricorressero i vizi della violazione di legge o dell’eccesso di potere, né ragioni di interesse pubblico.
Sarebbe stato leso, altresì, il legittimo affidamento della ricorrente, in quanto il provvedimento autorizzatorio non avrebbe contenuto alcun espresso riferimento al giudizio pendente innanzi al Consiglio di Stato.
Ancora, il Comune avrebbe dovuto chiedere un nuovo parere alla Soprintendenza e avrebbe dovuto tenere conto del fatto che, nelle more, la nuova Legge Regionale Puglia n. 17/2015 ha previsto che “le strutture funzionali all’attività balneare, purché di facile amovibilità, possono essere mantenute per l’intero anno solare”. Nello stesso senso, sarebbe la previsione di cui all’intesa interistituzionale sulle problematiche degli stabilimenti balneari del 27.10.2014.
Non si è costituito in giudizio il Comune di Gallipoli.
Con Decreto monocratico n. 160/2018 del 27.03.2018, il Presidente di questo Tribunale ha accolto l’istanza di sospensione degli effetti dei provvedimenti impugnati, limitatamente all’ordine di rimozione delle strutture di cui trattasi, rilevando che esse “risultano supportate da provvedimenti ulteriori, che sembrerebbero non incisi dall’annullamento disposto in sede giurisdizionale”.
Alla camera di consiglio del 18 aprile, la ricorrente ha rinunciato alla domanda cautelare, chiedendo una fissazione a breve per la trattazione del merito e, nella pubblica udienza del 26.09.2018, la causa è stata introitata per la decisione.
2. Il ricorso non può essere accolto per le ragioni che si vengono ad evidenziare.
2.1 Del tutto infondata è la tesi a dire della quale la sentenza del Consiglio di Stato n. 4762/2012 non avrebbe portata giuridicamente rilevante per il Comune di Gallipoli, stante la mancata impugnativa della sentenza di primo grado da parte di quest’ultimo.
Invero, l’art. 2909 c.c. dispone che “L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”, ed il Comune di Gallipoli è parte processuale della sentenza citata pur non essendosi costituito in giudizio e non avendo proposto appello.
Peraltro, anche a voler sottacere tale circostanza, deve ricordarsi che la decisione del Consiglio di Stato citata ha comportato la reviviscenza del diniego espresso dalla Soprintendenza, a cui il Comune era ed è vincolato alla presa d’atto.
In ogni caso, risulta del tutto sfornita di riscontri probatori la circostanza che l’autorizzazione paesaggistica n. 18/2010 del 05.01.2012 e l’appendice al permesso di costruire n. 27190/2007, datata 12.03.2012, siano stati rilasciati senza specificare alcuna condizione legata al giudizio d’appello, non essendo stata prodotta nel giudizio in esame detta autorizzazione.
Risulta quindi evidente che l’atto in questione sia stato emesso al mero fine di dare attuazione al decisum giurisdizionale di primo grado, provvisoriamente esecutivo e cogente.
In ogni caso, la reviviscenza dell’autorizzazione paesaggistica negativa (ad opera della sentenza del Consiglio di Stato), vincolante per l’amministrazione comunale, obbligava comunque la stessa al doveroso ripristino della legalità, dato che l'art. 146 del D.lgs. n. 42/2004 al comma 4, statuisce “L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
In virtù del dettato normativo in questione, l'espresso collegamento dei due atti (nulla-osta paesaggistico e permesso di costruire) mediante un rapporto di stretta presupposizione, implica l'illegittimità dell'atto presupponente ove adottato in mancanza dell'atto presupposto o in difformità al suo contenuto.
La Corte di Cassazione ha in più occasioni avuto modo di osservare che l'autorizzazione paesaggistica costituisce requisito di efficacia del permesso di costruire affermando che “L'autorizzazione paesaggistica si inserisce come elemento indispensabile nel procedimento di rilascio della concessione in modo da incidere sulla sua efficacia” (Cass. sent. n. 6671/1998) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 25.10.2018 n. 1555 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' ormai principio acquisito in giurisprudenza quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza)”.
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   - Ritenuto, in primo luogo, che sussistono i presupposti di legge per definire il giudizio nella presente sede cautelare, con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 del c.p.a., essendo, tra l’altro, state rese edotte le parti di tale eventualità, come consta dal verbale d’udienza;
   - Considerato che il ricorso, senza che vi sia la necessità di attendere l’esito della domanda di concessione del permesso di costruire in sanatoria, è improcedibile, essendo ormai principio acquisito in giurisprudenza quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza)” (cfr. ex multis ord. TAR Reggio Calabria 06.09.2018 n. 142; sent. TAR Reggio Calabria 03.07.2018 n. 406; TAR Roma, (Lazio), sez. II, 09/02/2018, n. 1581 sent. TAR Napoli sez. VIII 02.01.2018 n. 1) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 17.09.2018 n. 559 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive eventualmente già adottata, ovvero ne inibisce l’adozione a pena di illegittimità della sanzione demolitoria pronunciata in pendenza della sanatoria.
In altri termini, la presentazione dell’istanza di sanatoria comporta in ogni caso l’inefficacia dell’ordinanza impugnata, salvi i provvedimenti che l’amministrazione riterrà di adottare all’esito del procedimento.

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Considerato:
   - che, come risulta dalla documentazione in atti, successivamente all’instaurazione del giudizio il ricorrente signor Miniati ha chiesto al Comune di Firenze la sanatoria e il contestuale accertamento di conformità paesaggistica dei manufatti oggetto del provvedimento impugnato;
   - che la circostanza sopravvenuta determina la manifesta improcedibilità del ricorso, da accertarsi e dichiararsi ai sensi dell’art. 60 c.p.a.;
   - che, nella specie, trova infatti applicazione la tradizionale massima –alla quale il collegio intende dare continuità, in coerenza con gli indirizzi della Sezione– secondo cui la presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive eventualmente già adottata, ovvero ne inibisce l’adozione a pena di illegittimità della sanzione demolitoria pronunciata in pendenza della sanatoria (fra le molte, da ultimo cfr. TAR Toscana, sez. III, 02.08.2018, n. 1130; id., 21.05.2018, n. 691);
   - che, in altri termini, la presentazione dell’istanza di sanatoria comporta in ogni caso l’inefficacia dell’ordinanza impugnata, salvi i provvedimenti che l’amministrazione riterrà di adottare all’esito del procedimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.09.2018 n. 1177 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 (così come la presentazione di una istanza di condono edilizio) in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’ordine di demolizione rimane, infatti, caducato anche nel caso in cui l’istanza di sanatoria non sia accoglibile, stante che il provvedimento perde efficacia al momento della presentazione dell’istanza, e, pertanto, in ogni caso l’amministrazione, per poter procedere alla demolizione, dovrà adottare un nuovo ordine demolitorio o comunque assegnare un nuovo termine all’interessato per poter procedere spontaneamente alla disposta demolizione (e così evitare più gravose sanzioni), essendo ormai decorso quello precedentemente assegnato.
Nel senso dell'improcedibilità si è già peraltro più volte espressa la giurisprudenza anche di questo TAR sia alle istanze di condono edilizio sia alle richieste di accertamento di conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380 presentate dopo l'ordinanza di demolizione.

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Il Collegio aderisce all'orientamento giurisprudenziale secondo cui la presentazione di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 (così come la presentazione di una istanza di condono edilizio) in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’ordine di demolizione rimane, infatti, caducato anche nel caso in cui l’istanza di sanatoria non sia accoglibile, stante che il provvedimento perde efficacia al momento della presentazione dell’istanza, e, pertanto, in ogni caso l’amministrazione, per poter procedere alla demolizione, dovrà adottare un nuovo ordine demolitorio o comunque assegnare un nuovo termine all’interessato per poter procedere spontaneamente alla disposta demolizione (e così evitare più gravose sanzioni), essendo ormai decorso quello precedentemente assegnato.
Nel senso dell'improcedibilità si è già peraltro più volte espressa la giurisprudenza anche di questo TAR sia alle istanze di condono edilizio sia alle richieste di accertamento di conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380 presentate dopo l'ordinanza di demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 06/03/2017, n. 1289; Cons. Stato, sez. IV, 28/11/2013, n. 5704; Cons. Stato, sez. IV, 12/05/2010, n. 2844; Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2013, n. 5704; TAR Piemonte Torino, Sez. II, 18.01.2013, n. 48) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.07.2018 n. 5115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza ha già chiarito che, nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
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Nella fattispecie non si rinviene tra gli atti in discorso un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto la variante generale al PTG, non impugnata, non è applicativa degli atti impugnati, ma costituisce autonomo esercizio del potere discrezionale attribuito all’amministrazione comunale in materia urbanistica ed avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma azione impugnatoria.
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3.3.2. Il nuovo strumento urbanistico, non impugnato, adottato con variante al P.G.T. approvata dal Consiglio Comunale di Desio con deliberazione n. 47 del 24.09.2014, sebbene abbia confermato la destinazione urbanistica agricola delle aree in discorso, non costituisce atto meramente confermativo del precedente atto di pianificazione urbanistica nella parte relativa alle aree di proprietà delle appellanti.
In sostanza, le appellanti sembrano assumere che la persistenza dell’interesse al ricorso derivi dal fatto che l’annullamento degli atti impugnati in questa sede avrebbe efficacia caducante della variante al PGT approvata dal Consiglio Comunale di Desio in data 24.09.2014.
La tesi è infondata.
L’eventuale annullamento degli atti impugnati, infatti, non avrebbe comunque efficacia caducante della deliberazione del Consiglio Comunale di Desio n. 47 del 24.09.2014 che, anche nella parte relativa alle aree di proprietà degli appellanti, ha natura provvedimentale e non meramente confermativa.
In proposito, la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, n. 1247 del 2018; sez., IV, n. 4404 del 2015; Cass. civ., SS.UU., n. 7702 del 2016) ha già chiarito che, nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
Nella fattispecie non si rinviene tra gli atti in discorso un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto la variante generale al PTG, non impugnata, non è applicativa degli atti impugnati, ma costituisce autonomo esercizio del potere discrezionale attribuito all’amministrazione comunale in materia urbanistica ed avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma azione impugnatoria.
In particolare, il piano di governo del territorio, ai sensi dell’art. 7 della L.R. Lombardia, definisce l’assetto dell’intero territorio comunale ed è articolato nei seguenti atti: a) il documento di piano; b) il piano dei servizi; c) il piano delle regole.
La deliberazione del Consiglio Comunale di Desio n. 47 del 24.09.2014 -avente ad oggetto l’esame delle controdeduzioni alle osservazioni presentate agli atti costituenti il nuovo PGT, adottato con deliberazione C.C. n. 4 del 06.02.2014- ha approvato in via definitiva, ai sensi del settimo comma dell’art. 13 L.R. n. 12 del 2005 (il quale recita che, entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni), gli elaborati grafici allegati ed ha approvato l’aggiornamento cartografico e normativo della componente geologica, idrogeologica e sismica, reso necessario a seguito delle osservazioni pervenute e pareri resi, così come risulta dagli elaborati allegati.
Detto atto, pertanto, per tutte le aree rientranti nel territorio comunale, costituisce la risultante di una nuova istruttoria, sicché ha chiaramente natura provvedimentale e non meramente confermativa anche in relazione alle aree che, in esito al rinnovato iter, hanno conservato la precedente destinazione urbanistica.
Di talché, non essendo stata impugnata la variante generale al PTG del Comune di Desio del 2014, le appellanti, anche se venissero annullati gli atti in questa sede impugnati, non potrebbero più conseguire il “bene della vita” al quale aspirano (cfr., sul tema, ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 5365 del 2017; Sez. IV, n. 487 del 2017) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.05.2018 n. 3169 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza ha già chiarito che, nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
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Nella fattispecie non si rinviene tra la variante parziale al PRG in contestazione ed il provvedimento di approvazione del Piano Urbanistico Attuativo (PUA) un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimo non è meramente applicativo del primo, ma costituisce autonomo esercizio del potere discrezionale attribuito all’amministrazione in materia urbanistica ed avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma azione impugnatoria.
Di talché, non risultando impugnate le delibere giuntali di adozione ed approvazione del PUA, l’appellante non potrebbe più conseguire il bene della vita al quale aspira.
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3. A margine, il Collegio rileva che, in ogni caso, il presente appello è divenuto improcedibile per carenza di interesse in quanto, come rappresentato dal Comune di Mira nella propria memoria conclusiva, in pendenza del giudizio, la F.I.R.B. ha presentato il progetto del Piano Attuativo dell’area classificata “PN 13” dalla variante parziale al P.R.G. in discussione, che è stato adottato dalla Giunta Comunale con deliberazione 24.10.2013, n. 235, e poi approvato con deliberazione giuntale 24.02.2014, divenuta inoppugnabile.
L’eventuale annullamento della variante parziale al P.R.G. di Mira “in adeguamento del decreto del Presidente della Repubblica 23.11.2007 relativo alla reiterazione del vincolo del comparto Sc27”, adottata con deliberazione del Consiglio Comunale di Mira n. 158 dell’11.12.2008 e approvata con deliberazione della Giunte Regionale del Veneto n. 1543 dell’08.06.2010, infatti, non avrebbe comunque efficacia caducante delle deliberazioni della Giunta Comunale del 24.10.2013 di adozione del PUA dell’area classificata a “PN13” e della Giunta Comunale del 24.02.2014 di approvazione del detto PUA.
In proposito, la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, n. 1247 del 2018; sez., IV, n. 4404 del 2015; Cass. civ., sez. un., n. 7702 del 2016) ha già chiarito che, nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
Nella fattispecie non si rinviene tra la variante parziale al PRG in contestazione ed il provvedimento di approvazione del Piano Urbanistico Attuativo dell’area classificata dal PRG a zona residenziale scheda “PN13” un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimo non è meramente applicativo del primo, ma costituisce autonomo esercizio del potere discrezionale attribuito all’amministrazione in materia urbanistica ed avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma azione impugnatoria.
Di talché, non risultando impugnate le delibere giuntali di adozione ed approvazione del PUA, l’appellante non potrebbe più conseguire il bene della vita al quale aspira (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.05.2018 n. 3017 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha già chiarito che, nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
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Nella fattispecie non si rinviene tra il piano di recupero dell’immobile ed il successivo permesso di costruire un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimo non è meramente applicativo del primo, ma costituisce autonomo esercizio del potere attribuito all’amministrazione.
Tale permesso, inoltre, non è meramente confermativo di atti precedenti ed è stato rilasciato in accoglimento di un’autonoma istanza ed all’esito di un proprio iter istruttorio, tanto che l’amministrazione ha acquisito anche il parere della Commissione Edilizia espresso nella seduta del 21.07.2003.
Di talché, l’eventuale caducazione della delibera di Consiglio Comunale n. 64 del 2003, con cui è stato approvato il piano di recupero dell’immobile, non provocherebbe il travolgimento del permesso di costruire n. 175 del 2003 che avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma azione impugnatoria.
In definitiva, essendo inoppugnabile il detto permesso di costruire, l’appellante non potrebbe comunque conseguire il bene della vita al quale aspira, per cui il ricorso di primo grado è stato correttamente dichiarato improcedibile.
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2.2.2. In relazione alla statuizione di improcedibilità, il Collegio rileva che l’intervenuto permesso di costruire n. 175 del 25.11.2003, non impugnato ed inoppugnabile, assentendo anche l’installazione dell’ascensore, ha disciplinato il rapporto controverso facendo venire meno ogni interesse per le sorti della d.i.a. n. 1282 del 14.08.2003.
Il Comune di Asti, nella propria memoria, ha posto in rilievo che il permesso di costruire n. 175 del 20.11.2003 rilasciato alla In.Im. Srl, mai impugnato dal signor Ga., dà titolo alla Società controinteressata di realizzare un intervento di ristrutturazione edilizia del fabbricato di Corso Alfieri 264 con trasporto di cubatura, ed in particolare dà titolo ad installare l’ascensore di cui alla d.i.a. 1282 del 04.08.2003. In questo senso, ha aggiunto il Comune di Asti, la relazione tecnica del progettista ing. Ma.Go., a cui si riferisce il permesso di costruire n. 175 del 20.11.2003, al suo quarto punto elenca tra le “opere in oggetto” la “installazione di ascensore oleodinamico per consentire l’eliminazione delle barriere architettoniche”.
Il Collegio rileva che il Comune di Asti, con provvedimento n. 175 del 20.11.2003, ha rilasciato ad In.Im. Srl il permesso di costruire per eseguire l’intervento di ristrutturazione edilizia di fabbricato di civile abitazione con trasporto di cubatura facente parte del piano di recupero approvato dal Consiglio Comunale n. 64 del 16.07.2003.
Tra gli atti depositati in primo grado dal Comune (doc. n. 16), vi è la relazione tecnica dell’ing. Ma.Go., peraltro priva di data, in cui il professionista, a seguito dell’incarico professionale affidatogli dalla Società “In.Im.” srl con sede in ... n. 264, ha precisato in cosa consistono le relative opere, specificando al quarto periodo “installazione di ascensore oleodinamico per consentire l’eliminazione delle barriere architettoniche all’interno di un’intelaiatura metallica tamponata con lastre di cristallo antisfondamento tipo ‘stopsol’ non trasparenti e non riflettenti”.
Di talché, l’installazione dell’ascensore costituisce oggetto del permesso di costruire n. 175 del 20.11.2003, ormai inoppugnabile, e, di conseguenza, l’eventuale accoglimento delle azioni di annullamento proposte con l’atto introduttivo del giudizio e con motivi aggiunti non potrebbe produrre alcuna utilità per l’appellante.
2.2.3. Né su tale conclusione può incidere quanto dedotto dal signor Ga. circa il fatto che, sebbene non indicata nell’epigrafe, la deliberazione del Consiglio Comunale n. 64 del 16.07.2003, con cui era stato approvato il piano di recupero dell’immobile sul quale sono stati effettuati gli interventi in discorso, è stata impugnata in primo grado con i motivi aggiunti.
L’eventuale annullamento di tale atto, infatti, non avrebbe comunque efficacia caducante del permesso di costruire n. 175 del 2003, con cui è stata assentita, tra l’altro, l’installazione dell’ascensore.
In proposito, la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, n. 1247 del 2018; sez., IV, n. 4404 del 2015; Cass. civ., sez. un., n. 7702 del 2016) ha già chiarito che, nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
Nella fattispecie non si rinviene tra il piano di recupero dell’immobile ed il successivo permesso di costruire un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimo non è meramente applicativo del primo, ma costituisce autonomo esercizio del potere attribuito all’amministrazione.
Tale permesso, inoltre, non è meramente confermativo di atti precedenti ed è stato rilasciato in accoglimento di un’autonoma istanza ed all’esito di un proprio iter istruttorio, tanto che l’amministrazione ha acquisito anche il parere della Commissione Edilizia espresso nella seduta del 21.07.2003.
Di talché, l’eventuale caducazione della delibera di Consiglio Comunale n. 64 del 2003, con cui è stato approvato il piano di recupero dell’immobile, non provocherebbe il travolgimento del permesso di costruire n. 175 del 2003 che avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma azione impugnatoria.
In definitiva, essendo inoppugnabile il detto permesso di costruire, l’appellante non potrebbe comunque conseguire il bene della vita al quale aspira, per cui il ricorso di primo grado è stato correttamente dichiarato improcedibile.
2.2.4. La statuizione di improcedibilità non trova ostacoli neppure nella norma sancita dall’art. 34, comma 3, cod. proc. amm., non essendo stata proposta la relativa domanda di accertamento o comunque una pertinente istanza che manifesti l’interesse della parte per un tale tipo di pronuncia (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2637 del 2016; Adunanza Plenaria, n. 4 del 2015; Cons. Stato Sez. IV, n. 6703 del 2012 cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), cod. proc. amm.) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.05.2018 n. 3001 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza esclude che il mero rapporto di presupposizione tra due atti determini invalidità caducante dell’atto presupponente in ipotesi di annullamento di quello presupposto, avendo l’invalidità caducante una portata estremamente circoscritta.
Si è, pertanto, affermato che, in presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, ammettendosi per la prima che l’annullamento dell’atto presupposto si estenda automaticamente a quello consequenziale, anche ove quest’ultimo non sia stato tempestivamente impugnato; quanto alla concreta individuazione della predetta tipologia di effetti, è pacifico che si debba valutare l’intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell’effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito della medesima sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore , senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi, estranei alla precedente vicenda contenziosa.

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In ogni caso, fermo restando che le ragioni sopra esposte valgono di per sé ad escludere la fondatezza dei motivi di appello sollevati dalla società Ac.Ch., deve, conformemente a quanto statuito dalla decisione del Tribunale Amministrativo, escludersi che i titoli successivi si configurino quali atti meramente consequenziali rispetto a quelli oggetto di annullamento da parte della sentenza n. 1363/2013 e, dunque, affetti da invalidità caducante (sempre, però, in caso di annullamento dell’atto presupposto).
Valgano al riguardo le considerazioni in proposito esplicitate nell’esame dell’appello n. 6091/2013, alle quali va fatto integralmente rinvio.
Va in primo luogo evidenziato che la giurisprudenza esclude che il mero rapporto di presupposizione tra due atti determini invalidità caducante dell’atto presupponente in ipotesi di annullamento di quello presupposto, avendo l’invalidità caducante una portata estremamente circoscritta.
Si è, pertanto, affermato che, in presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, ammettendosi per la prima che l’annullamento dell’atto presupposto si estenda automaticamente a quello consequenziale, anche ove quest’ultimo non sia stato tempestivamente impugnato; quanto alla concreta individuazione della predetta tipologia di effetti, è pacifico che si debba valutare l’intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell’effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito della medesima sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore , senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi, estranei alla precedente vicenda contenziosa (cfr. Cons. Stato, VI, 13.10.2015, n. 4695; sez. V, 25.11.2010, n. 8243).
Orbene, si è sopra visto, che i titoli abilitativi demaniali, rilasciati successivamente a quello originario, configurano atti nuovi rispetto al primo, adottati all’esito di separati ed autonomi procedimenti nei quali vi è stata una rinnovata valutazione dei presupposti per la loro emanazione.
Si è, invero, dato conto della circostanza che vi siano stati nuovi procedimenti nonché nuova attività istruttoria e valutazione dei presupposti legittimanti il rilascio dei titoli.
E’ stata, poi, rilevata anche la modificazione soggettiva rispetto alla concessione originaria con il coinvolgimento di nuovi soggetti, la maggiore durata conferita al rapporto concessorio, l’ampliamento della superficie dell’area concessa, nonché l’irrilevanza, ai fini della esclusione della “novità” dei provvedimenti, del diritto di insistenza.
Quanto ai titoli edilizi, si è più sopra sottolineato come il permesso di costruire n. 120 del 2012 abbia, nella legittimazione urbanistico-edilizia dello stabilimento, integralmente sostituito quello originario, con la conseguenza che, anche per tale tipologia di atti, non possa parlarsi di invalidità ad effetto caducante; più in generale, poi, il rilascio dei successivi titoli edilizi è avvenuto all’esito di autonomi e diversi procedimenti rispetto a quello da cui è originato il permesso di costruire originario.
L’invocato carattere antecedente della concessione demaniale n. 71/2005 e del permesso di costruire n. 70/2005 vale, pertanto, unicamente ad evidenziare la loro valenza di atti presupposti (carattere di per sé non sufficiente ad integrare invalidità ad effetto caducante), ma, in relazione agli elementi sopra evidenziati, non risulta integrata quella peculiare intensità che configura il rapporto di consequenzialità immediato e diretto, necessario ad integrare tale species di invalidità.
E tanto prescindendo dalla dirimente considerazione che la caducazione automatica degli atti successivi richiede comunque l’annullamento giurisdizionale dell’atto presupposto, che nella vicenda in esame, in relazione agli esiti dell’appello, non vi è stato (risultando comunque, ove configurabile un autonomo annullamento amministrativo illegittimo per mancata valutazione ed esternazione degli elementi richiesti dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.05.2018 n. 2651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento, recante l’acquisizione coattiva dell’area al patrimonio comunale, ponendosi in un rapporto di presupposizione necessaria rispetto alla presupposta nota di diniego di cambio d’uso, è stato anch’esso già caducato per l’effetto caducante che da tale annullamento segue.
Ricorrono, infatti, entrambi i requisiti dell’effetto caducante:
  
il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
  
il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.

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21. Sulla scorta di quanto esposto in narrativa e in disparte ogni altro rilievo, il Collegio ritiene che:
   a) il bene della vita richiesto dagli appellanti e oggetto di successivi contenziosi consiste nella possibilità di mutare in abitazione la destinazione d’uso dell’attuale magazzino agricolo di loro proprietà.
Tale bene è stato loro definitivamente riconosciuto dalla ricordata sentenza n. 3415/2014 e una decisione di merito nel presente contenzioso non potrebbe recare loro alcuna altra utilità, anche perché il provvedimento impugnato in questa sede si autoqualifica espressamente come “atto meramente confermativo del diniego del 21.11.2005 prot. 9338”, annullato dalla sentenza citata.
Venendo in considerazione un atto meramente confermativo, per un verso difettava in radice l’interesse alla sua impugnazione, mentre, per altro verso, l’annullamento dell’atto confermato ha esplicato un automatico effetto caducante sull’atto confermativo. Di conseguenza, per questa parte, il ricorso di primo grado era in effetti inammissibile e limitatamente a questo profilo va confermata la sentenza impugnata;
   b) con l’atto di motivi aggiunti di primo grado, gli appellanti hanno chiesto l’annullamento del provvedimento comunale n. 251/2010, recante l’acquisizione gratuita del manufatto al patrimonio comunale. Tale provvedimento ha il suo espresso presupposto nella nota di diniego di cambio d’uso del 2005, annullata dalla sentenza n. 3415/2014.
In ragione di tale annullamento, deve darsi atto del sopravvenuto difetto di interesse degli appellanti alla decisione sui motivi aggiunti proposti in primo grado.
Deve, infatti, precisarsi che il provvedimento n. 251 del 15.01.2010, recante l’acquisizione coattiva dell’area al patrimonio comunale, ponendosi in un rapporto di presupposizione necessaria rispetto alla presupposta nota di diniego di cambio d’uso, è stato anch’esso già caducato per l’effetto caducante che da tale annullamento segue (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2014, n. 3415; sez. IV, 08.09.2015, n. 4193; sez. IV, 14.12.2017, n. 5896).
Ricorrono, infatti, entrambi i requisiti dell’effetto caducante (Cons. Stato, sez. IV, 21.09.2015, n. 4404), “il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale; il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi (ex plurimis, indicando le decisioni più recenti, C.d.S., sez. V, 26.06.2015, n. 2611; id., sez. VI, 27.04.2015, n. 2116; id., sez. VI, 09.04.2015, n. 1782; id., sez. VI, 30.03.2015, n. 1652; id. sez. V, 20.01.2015, n. 163; id., sez. III, 19.12.2014, n. 6174)” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.04.2018 n. 2277 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti succedutisi nel tempo non sussiste un rapporto di consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale è infatti nel senso che in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso della successione cronologica di atti di pianificazione generale, anche quando il piano successivo si ponga come mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come detto, comporta l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo.
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Va richiamata la distinzione -assolutamente netta nei diversi arresti giurisprudenziali che hanno affrontato la questione- tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
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5. Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti della Regione Sardegna succedutisi nel tempo non sussiste un rapporto di consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale, richiamato dall’appellante, è infatti nel senso che in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso della successione cronologica di atti di pianificazione generale, anche quando il piano successivo si ponga come mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come detto, comporta l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo.
5.1. Nemmeno giova all’appellante sostenere che il Piano approvato nel 2016 sarebbe un atto di conferma del precedente.
Va in proposito richiamata la distinzione -assolutamente netta nei diversi arresti giurisprudenziali che hanno affrontato la questione- tra atto di conferma ed atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 14.04.2014, n. 1805; id., 12.02.2015, n. 758; id., 29.02.2016, n. 812; id, 12.10.2016, n. 4214, nonché, da ultimo, in tema di successione di strumenti di pianificazione generale, Cons. Stato, IV, 27.01.2017, n. 357).
Peraltro, nel caso di specie, più che una conferma di precedenti previsioni di Piano si è avuta la rinnovata approvazione, a seguito di apposita nuova istruttoria, di previsioni soltanto conformi, cioè coincidenti, con le precedenti.
La loro sopravvivenza all’eventuale annullamento di queste ultime rende improcedibile l’appello per sopravvenuta carenza di interesse (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.04.2018 n. 2172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Effetti dell’annullamento di uno strumento urbanistico.
Si è affermato, da un lato, che la sentenza che conduce all’annullamento di un atto generale non sempre ha efficacia erga omnes, il che accade facilmente nel caso dell’annullamento di un piano regolatore, in cui l’interesse fatto valere nel ricorso resta circoscritto alle aree individuate o a parti specifiche del territorio comunale, pertinenti alle posizioni dell’istante, dall’altro, che le prescrizioni contenute in una variante al piano regolatore generale vanno considerate scindibili, ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale, con la conseguenza che, nel caso in cui il ricorso prospetti vizi relativi solo ad alcune determinazioni, l’annullamento del provvedimento non può essere che parziale, stante il principio generale della specificità dei motivi proponibili nei ricorsi davanti al giudice amministrativo.
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Non può attribuirsi al piano di zona per l’edilizia economica e popolare quel carattere generale, unitario e inscindibile, tale da determinare l’effetto erga omnes e la deroga al principio dell’efficacia soggettiva in caso di accoglimento dell’annullamento proposto da alcuni destinatari
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.04.2018 n. 2097 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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12. Gli appellanti, riproponendo sostanzialmente le censure avanzate con l’originario ricorso, ne chiedono l’accoglimento. Le censure sono prive di pregio e vanno rigettate.
12.1. La giurisprudenza di questo Consiglio, oltre che della Corte di cassazione, che ha avuto ad oggetto specifico i PEEP e della quale il primo giudice ha fatto corretta applicazione, è coerente con l’applicazione dei principi generali in tema di effetti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento e si ricollega alla evoluzione giurisprudenziale tendente a limitare l’estensione soggettiva degli effetti del giudicato in riferimento agli strumenti urbanistici.
12.1.1. In generale, è principio consolidato che la decisione di annullamento –che per i limiti soggettivi del giudicato esplica in via ordinaria effetti solo fra le parti in causa– acquista efficacia erga omnes nei casi di atti a contenuto inscindibile, ovvero di atti a contenuto normativo, secondari (regolamenti) o amministrativi generali, rivolti a destinatari indeterminati ed indeterminabili a priori, in relazione ai quali gli effetti dell’annullamento non sono circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi in presenza di un atto a contenuto generale sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale non può esistere per taluni e non esistere per altri (ex multis, da ultimo, Cons. Stato, sez. III, n. 3307 del 2016; sez. IV, n. 5449 del 2013; sez. III, n. 2350 del 2012; sez. V, n. 4390 del 2008; Cass. civ., sez. I, n. 2734 del 1998).
Tali principi sono stati da ultimo ribaditi dall’Adunanza Plenaria n. 11 del 2017, la quale -in una fattispecie in cui veniva in rilievo il termine per proporre ricorso e la sua decorrenza e veniva assunta come rilevante la conoscenza dell’accertamento dell’illegittimità- ha affermato che il sopravvenuto annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo non può giovare ai cointeressati che non abbiano tempestivamente proposto il gravame e per i quali, pertanto, si è già verificata una situazione di inoppugnabilità, con conseguente esaurimento del relativo rapporto giuridico, fatta eccezione per l’ipotesi degli atti ad effetti inscindibili.
12.1.2. In tale contesto generale, la giurisprudenza consolidata ha escluso l’attribuibilità al PEEP del carattere generale, unitario e inscindibile, tale da determinare l’effetto erga omnes e la deroga al principio dell’efficacia soggettiva in caso di accoglimento dell’annullamento proposto da alcuni destinatari.
Proprio in riferimento all’annullamento del PEEP del Comune di Acquaviva delle Fonti per cui è causa e ai precedenti decreti di espropriazione emanati nei confronti di soggetti che non avevano impugnato il primo (tra i quali la stessa signora Mu. che in quella diversa causa aveva fatto valere il diritto alla restituzione del bene espropriato con lo stesso decreto e l’accertamento dell’illegittimità della pretesa comunale di aver acquisito la proprietà del suolo espropriato), questo Consiglio (sez. IV, nn. 3694 e 156 del 2009) ha ritenuto il PEEP atto plurimo e scindibile, ancorché formalmente unico, perché caratterizzato dalla singolarità dei destinatari, con conseguente limitazione soggettiva dell’annullamento dello stesso.
Le stesse decisioni hanno precisato che l'annullamento integrale di un piano di zona per l'edilizia economica e popolare in sede giurisdizionale produce i suoi effetti anche nei confronti di chi non abbia proposto ricorso, solo nel senso che, una volta pronunciato l'annullamento, il piano non può più essere legittimamente assunto come presupposto di nuovi provvedimenti attuativi (come per esempio, quelli espropriativi), ma non nel senso che restano travolti e caducati anche gli atti espropriativi emanati precedentemente all'annullamento.
12.1.3. Né, in senso contrario, può invocarsi, come hanno fatto i ricorrenti e appellanti, la decisione di questo Consiglio sez. IV n. 6921 del 2002, avendo questa risolto la questione in termine strettamente processuali, non rinvenendo la qualità di soccombente in capo al Comune che in appello aveva censurato l’improcedibilità, ritenuta dal Tar sulla base del successivo annullamento del PEEP, del ricorso proposto dal privato avverso il decreto di espropriazione.
12.1.4. In senso conforme all’orientamento del Consiglio di Stato, è anche la giurisprudenza civile, secondo la quale, il soggetto che non ha partecipato al giudizio amministrativo non può avvalersi del giudicato relativo all’annullamento di un piano di zona per l’edilizia economica e popolare al fine di ottenere dal giudice ordinario la cancellazione della trascrizione del decreto di espropriazione e il risarcimento dei danni, in quanto la dichiarazione di pubblica utilità, implicita nell’approvazione del piano di zona, non è un atto collettivo, ma deve essere inquadrato nella categoria degli atti plurimi, caratterizzati dall’efficacia soggettivamente limitata ai destinatari individuabili in relazione alla titolarità delle singole porzioni immobiliari oggetto della potestà ablatoria, con la conseguenza che il suo annullamento non spiega efficacia erga omnes (Cass. civ., sez. I, n. 11920 del 2009, n. 7253 del 2004, n. 2038 del 1996).
12.1.5. La correttezza della scelta di limitare gli effetti soggettivi del giudicato di annullamento del PEEP trova giustificazione anche nella evoluzione giurisprudenziale tendente a limitare l’estensione soggettiva degli effetti del giudicato in riferimento agli strumenti urbanistici in generale.
Da un lato si è affermato che la sentenza che conduce all’annullamento di un atto generale non sempre ha efficacia erga omnes, il che accade facilmente nel caso dell’annullamento di un piano regolatore, in cui l’interesse fatto valere nel ricorso resta circoscritto alle aree individuate o a parti specifiche del territorio comunale, pertinenti alle posizioni dell’istante (Cons. Stato, sez. IV, n. 7771 del 2003).
Dall’altro, che le prescrizioni contenute in una variante al piano regolatore generale vanno considerate scindibili, ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale, con la conseguenza che, nel caso in cui il ricorso prospetti vizi relativi solo ad alcune determinazioni, l’annullamento del provvedimento non può essere che parziale, stante il principio generale della specificità dei motivi proponibili nei ricorsi davanti al giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, n. 8146 del 2003).
Ed ancora, si è messo in collegamento tale orientamento con il principio giurisprudenziale, secondo cui sono inammissibili per carenza di interesse le censure concernenti la disciplina urbanistica di aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente, giacché le prescrizioni dello strumento urbanistico vanno considerate scindibili ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale, salva la possibilità di proporre impugnativa allorquando la nuova destinazione urbanistica, pur concernendo un'area non appartenente al ricorrente, incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area stessa, o comunque su interessi propri e specifici del medesimo esponente (Cons. Stato, sez. IV, n. 6619 del 2007; n. 4977 del 2003).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di agibilità non assume una capacità sanante dei vizi che affliggono un titolo edilizio, il cui annullamento all’esito dell’impugnazione giurisdizionale si ripercuote inevitabilmente sul primo, con effetto caducante, stante la relazione di stretta consequenzialità.
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La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
0. Si premette che, come ha messo in evidenza la parte ricorrente, il certificato di agibilità non assume una capacità sanante dei vizi che affliggono un titolo edilizio, il cui annullamento all’esito dell’impugnazione giurisdizionale si ripercuote inevitabilmente sul primo, con effetto caducante, stante la relazione di stretta consequenzialità (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia – 22/04/2015 n. 188, confermata da Consiglio di Stato, sez. VI – 09/08/2016 n. 3559).
Pertanto, non ha alcun rilievo l’omessa tempestiva proposizione di un ricorso avverso il certificato suddetto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Questo Consiglio ha a più riprese chiarito che nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
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 Nella fattispecie non si rinviene tra il permesso di costruire impugnato ed i successivi provvedimenti e cioè:
  a) in data 26.09.2009 un provvedimento sanzionatorio ex art. 38, d.P.R. 380/2001, in relazione alla porzione abitativa dell’immobile;
   b) in data 17.11.2009 un permesso di costruire avente ad oggetto l’annesso rustico ed il suo ampliamento con rilascio del certificato di agibilità del 06.06.2010;
   c) in data 26.12.2010 è stato rilasciato permesso di costruire con il quale è stato autorizzato l’ampliamento della superficie con destinazione agricolo-produttiva, utilizzando porzioni in precedenza previste ad uso residenziale, con rilascio del certificato di agibilità del 07.07.2011;
   d) in data 24.05.2012 è stato rilasciato permesso di costruire n. 18/2012, in forza del quale è stato autorizzato l’ampliamento della casa di abitazione con utilizzo di porzione rustica del fabbricato in questione,
un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimi non eseguono il provvedimento oggi impugnato, ma costituiscono autonomo esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione.
Tali permessi, inoltre, non sono meramente confermativi dei precedenti e sono stati rilasciati in accoglimento di altrettanto autonome istanze, ed all’esito di un originale percorso istruttorio fondato su diverse basi normative.
Da ciò deriva che l’eventuale caducazione del permesso di costruire non farebbe venire meno i plurimi titoli autorizzatori sui quali fonda la costruzione avversata dall’odierno appellante. Conseguentemente, quest’ultimo non potrebbe ottenere il soddisfacimento del bene della vita sotteso al suo interesse legittimo e rappresentato dalla demolizione dell’immobile in questione con conseguente riduzione in pristino.
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7. L’odierno appello è improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse.
8. Preliminarmente, è necessario chiarire la portata della sentenza n. 780/2006 di questo Consiglio, che -nel confermare la sentenza del TAR per il Veneto di annullamento del permesso di costruire n. 3/2005, rilasciato dall’amministrazione appellata a favore dell’originario controinteressato– ha respinto l’appello principale di quest’ultimo.
8.1. Nella specie il Consiglio:
   a) conveniva con le conclusioni raggiunte dal primo giudice in relazione al fatto che la superficie relativa alla sottozona E3, ricompresa nel fondo rustico dell’odierno appellato, su cui insisteva l’intervento, fosse inferiore ai minimi prescritti dalla disciplina regionale;
   b) rilevava come l’annullamento del permesso di costruire n. 3/2005, non potesse non travolgere l’intero provvedimento, stante la sua inscindibilità formale e la unitarietà strutturale e funzionale dell’intervento edilizio;
   c) aggiungeva, però, che restava: “…salva la potestà del Comune di valutare, in diverso contesto procedimentale, l'ammissibilità di interventi edificatori concernenti esclusivamente annessi rustici per attività aziendale”.
8.2. Tanto evidenziato, ritiene il Collegio che la pronuncia in questione non abbia concluso per la obbligatorietà della demolizione di tutto quanto edificato dall’odierno appellato.
La sopra riportata precisazione contenuta nel giudicato, infatti, ha legittimato l’amministrazione comunale ad adottare ulteriori provvedimenti salvaguardando gli annessi rustici.
Dall’esame degli eventi e delle iniziative procedimentali successivi al giudicato, risulta che all’indomani dell’adozione del permesso di costruire n. 39/2006, avente ad oggetto “la costruzione di un fabbricato ad uso annessi rustici in Z.T.O. E3, ai sensi dell’art. 6 della L.R. 24/1985”, quivi impugnato, l’amministrazione comunale ha emanato:
   a) in data 26.09.2009 un provvedimento sanzionatorio ex art. 38, d.P.R. 380/2001, in relazione alla porzione abitativa dell’immobile;
   b) in data 17.11.2009 un permesso di costruire avente ad oggetto l’annesso rustico ed il suo ampliamento con rilascio del certificato di agibilità del 06.06.2010;
   c) in data 26.12.2010 è stato rilasciato permesso di costruire con il quale è stato autorizzato l’ampliamento della superficie con destinazione agricolo-produttiva, utilizzando porzioni in precedenza previste ad uso residenziale, con rilascio del certificato di agibilità del 07.07.2011;
   d) in data 24.05.2012 è stato rilasciato permesso di costruire n. 18/2012, in forza del quale è stato autorizzato l’ampliamento della casa di abitazione con utilizzo di porzione rustica del fabbricato in questione.
In particolare, dall’esame di quest’ultimo titolo edilizio -che ha ad oggetto “ampliamento di casa di abitazione in zona agricola mediante utilizzo di porzione rustica di fabbricato esistente”- emerge che lo stesso è stato adottato anche in forza delle ll.rr. Veneto n. 14/2009 e 13/2011, ossia in forza di una disciplina che modifica sensibilmente la materia de qua e che spezza del tutto ogni possibile collegamento tra l’esercizio del potere edilizio cristallizzatosi con il provvedimento impugnato in prime cure con quello esercitato successivamente dall’amministrazione e culminato con il citato permesso n. 18/2012.
8.3. A questo punto occorre chiarire che l’eventuale annullamento del permesso di costruire n. 39/2006, non avrebbe portata caducante rispetto ai successivi provvedimenti autorizzatori rilasciati dall’amministrazione comunale.
Questo Consiglio (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 21.09.2015, n. 4404) ha a più riprese chiarito che nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
8.4. Nella fattispecie non si rinviene tra il permesso di costruire impugnato ed i successivi provvedimenti sopra elencati un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimi non eseguono il provvedimento oggi impugnato, ma costituiscono autonomo esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione.
Tali permessi, inoltre, non sono meramente confermativi dei precedenti e sono stati rilasciati in accoglimento di altrettanto autonome istanze, ed all’esito di un originale percorso istruttorio fondato su diverse basi normative.
Da ciò deriva che l’eventuale caducazione del permesso di costruire n. 39/2006, non farebbe venire meno i plurimi titoli autorizzatori sui quali fonda la costruzione avversata dall’odierno appellante. Conseguentemente, quest’ultimo non potrebbe ottenere il soddisfacimento del bene della vita sotteso al suo interesse legittimo e rappresentato dalla demolizione dell’immobile in questione con conseguente riduzione in pristino (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 2637 del 2016).
8.5. La statuizione di improcedibilità non trova ostacoli neppure nella norma sancita dall’art. 34, comma 3, cod. proc. amm., non essendo stata proposta la relativa domanda di accertamento o comunque una pertinente istanza che manifesti l’interesse della parte per un tale tipo di pronuncia (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 15.06.2016, n. 2637; Ad. plen., n. 4 del 2015; Sez. IV, 28.12.2012, n. 6703, 07.11.2012, n. 5674 cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), cod. proc. amm.).
9. L’odierno appello deve, quindi, essere dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2018 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rammentato in via preliminare che, secondo il principio “tempus regit actum”, la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato (ordinanza di demolizione) va condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione”, Il Collegio ritiene di dover rilevare, in linea generale e con riferimento alla fattispecie odierna, che:
   - in difetto di preventiva istanza di parte non poteva esigersi che il Comune dovesse verificare d’ufficio la conformità urbanistica dell’opera in contestazione, atteso che un onere siffatto non è previsto nella disciplina vigente concernente i poteri di vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia abusiva;
   - né può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia dell’ordinanza di demolizione risultino compromesse dalla presentazione della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 cit. , con conseguente improcedibilità della impugnazione odierna per sopravvenuta carenza di interesse;
   - la giurisprudenza che ha riconosciuto l'obbligo di riadottare un provvedimento sanzionatorio dopo il rigetto della istanza di sanatoria si è formata in tema di condono edilizio, ossia in presenza di una richiesta che trova il suo fondamento in una disposizione di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi: ma quei principi non possono trovare applicazione quando sia stata formulata una istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia sulla base di una disposizione che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla base di una disciplina preesistente;
   - sostenere che, nell'ipotesi di presentazione della istanza di accertamento di conformità, e di rigetto, esplicito o implicito, della istanza stessa, l'Amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, e questo perché la presentazione della istanza ex art. 36 cit. ha avuto un effetto caducante sull’ingiunzione a demolire, equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, “ad libitum” del destinatario del provvedimento repressivo, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento sanzionatorio della pubblica autorità, il che non può ammettersi;
   - posto che la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non risultano compromesse dalla presentazione della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del menzionato d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza medesima comporta piuttosto un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, che rimane soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, nel caso di accoglimento della istanza (o, si può aggiungere, nel caso di accoglimento del ricorso contro il diniego di accertamento di conformità ex art. 36 cit.), la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o in difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente: sicché
     
qualora sia accolta la domanda di sanatoria (o se viene accolto, in sede giurisdizionale, il ricorso contro il “diniego ex art. 36”), l’ordine di demolizione decade per il venire meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione delle conformità dell’intervento, verificata in via amministrativa, o anche in sede giurisdizionale, alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento e sia al momento della presentazione della domanda;
     
mentre, nel caso di rigetto della istanza, tacito o esplicito, divenuto inoppugnabile, la misura repressiva adottata a suo tempo riacquista la sua efficacia, che non era definitivamente cessata, ma soltanto sospesa, in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale, con la sola specificazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, il quale non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà prevista dalla legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso;
   - il procedimento di verifica della compatibilità urbanistica dell’opera avviato a istanza di parte è un procedimento del tutto autonomo e differente dal precedente procedimento sanzionatorio/repressivo avviato d’ufficio e conclusosi con l’ordinanza di demolizione dell’opera eseguita in assenza o difformità del titolo abilitativo, di talché non vi sono ragioni per imporre all’Amministrazione comunale il riesercizio del potere repressivo a seguito dell’esito negativo del procedimento di accertamento di conformità urbanistica, atteso che il provvedimento di demolizione costituisce un atto vincolato (a suo tempo) adottato in esito a un procedimento amministrativo sul quale non interferisce l’eventuale conclusione negativa del procedimento ad istanza di parte ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001: un nuovo procedimento e provvedimento sanzionatorio si concretizzerebbe, infatti, in assenza di una esplicita previsione legislativa, in una inutile e antieconomica duplicazione dell’azione amministrativa.
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5. L’appello è infondato e va respinto.
Le impugnate statuizioni della sentenza di primo grado sono corrette e vanno confermate.
5.1. In via preliminare, anche in relazione a quanto dedotto dall’appellante nell’ultima parte del secondo motivo di impugnazione, specie sulla omessa considerazione, da parte del Tar, della avvenuta presentazione, da parte del F., della istanza di cui all’art. 36 del t.u. n. 380 del 2001, istanza che avrebbe un “effetto caducante” sulla ingiunzione a demolire contestata in primo grado, il Collegio ritiene di dover puntualizzare che l’avvenuta presentazione della istanza e il fatto che sia pendente, davanti al Tar del Lazio, un giudizio proposto dal Fu. avverso e per l’annullamento del diniego di accertamento di conformità n. 944/2012 opposto dal Comune sulla istanza del ricorrente medesimo avanzata ai sensi del citato art. 36 (v. sopra, p. 4., “in finem”), non assume rilievo ai fini di una eventuale pronuncia di (im)proseguibilità del presente gravame.
A questo proposito, rammentato in via preliminare che, secondo il principio “tempus regit actum”, la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione” (sentenza n. 49 del 2016; si veda anche sentenza n. 30 del 2016) (così C. cost., n. 224 del 2016) e precisato che l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 cit. risulta datata 13.10.2011 e, quindi, è posteriore di alcuni mesi rispetto alla ordinanza di demolizione per la quale oggi è controversia, adottata il 09.05.2011, il Collegio ritiene di dover rilevare, in linea generale e con riferimento alla fattispecie odierna, che:
   - in difetto di preventiva istanza di parte non poteva esigersi che il Comune dovesse verificare d’ufficio la conformità urbanistica dell’opera in contestazione, atteso che un onere siffatto non è previsto nella disciplina vigente concernente i poteri di vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia abusiva;
   - né può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia dell’ordinanza di demolizione risultino compromesse dalla presentazione della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 cit. , con conseguente improcedibilità della impugnazione odierna per sopravvenuta carenza di interesse;
   - la giurisprudenza che ha riconosciuto l'obbligo di riadottare un provvedimento sanzionatorio dopo il rigetto della istanza di sanatoria si è formata in tema di condono edilizio, ossia in presenza di una richiesta che trova il suo fondamento in una disposizione di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi: ma quei principi non possono trovare applicazione quando sia stata formulata una istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia sulla base di una disposizione che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla base di una disciplina preesistente;
   - sostenere che, nell'ipotesi di presentazione della istanza di accertamento di conformità, e di rigetto, esplicito o implicito, della istanza stessa, l'Amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, e questo perché la presentazione della istanza ex art. 36 cit. ha avuto un effetto caducante sull’ingiunzione a demolire, equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, “ad libitum” del destinatario del provvedimento repressivo, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento sanzionatorio della pubblica autorità, il che non può ammettersi;
   - posto che la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non risultano compromesse dalla presentazione della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del menzionato d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza medesima comporta piuttosto un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, che rimane soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, nel caso di accoglimento della istanza (o, si può aggiungere, nel caso di accoglimento del ricorso contro il diniego di accertamento di conformità ex art. 36 cit.), la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o in difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente: sicché qualora sia accolta la domanda di sanatoria (o se viene accolto, in sede giurisdizionale, il ricorso contro il “diniego ex art. 36”), l’ordine di demolizione decade per il venire meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione delle conformità dell’intervento, verificata in via amministrativa, o anche in sede giurisdizionale, alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento e sia al momento della presentazione della domanda; mentre, nel caso di rigetto della istanza, tacito o esplicito, divenuto inoppugnabile, la misura repressiva adottata a suo tempo riacquista la sua efficacia, che non era definitivamente cessata, ma soltanto sospesa, in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale, con la sola specificazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, il quale non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà prevista dalla legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso;
   - il procedimento di verifica della compatibilità urbanistica dell’opera avviato a istanza di parte è un procedimento del tutto autonomo e differente dal precedente procedimento sanzionatorio/repressivo avviato d’ufficio e conclusosi con l’ordinanza di demolizione dell’opera eseguita in assenza o difformità del titolo abilitativo, di talché non vi sono ragioni per imporre all’Amministrazione comunale il riesercizio del potere repressivo a seguito dell’esito negativo del procedimento di accertamento di conformità urbanistica, atteso che il provvedimento di demolizione costituisce un atto vincolato (a suo tempo) adottato in esito a un procedimento amministrativo sul quale non interferisce l’eventuale conclusione negativa del procedimento ad istanza di parte ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001: un nuovo procedimento e provvedimento sanzionatorio si concretizzerebbe, infatti, in assenza di una esplicita previsione legislativa, in una inutile e antieconomica duplicazione dell’azione amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.02.2018 n. 1063 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parere della Sovrintendenza, autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire sono atti successivi della stessa più ampia sequenza procedimentale, autonomamente impugnati. La dichiarata illegittimità dei primi due fa comunque venir meno i presupposti che radicavano il potere in concreto dell'Amministrazione di accordare il titolo edilizio e travolge il permesso di costruire per l’effetto caducante che ne consegue.
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18. E’ comunque autonomamente fondata anche la seconda censura, alla quale la società oppone plurime, ma non fondate eccezioni di inammissibilità. Il parere della Soprintendenza è perplesso e contraddittorio perché quanto alle opere già eseguite richiama le disposizioni degli artt. 167 e 181 del codice e la sussistenza del vincolo paesaggistico, demandando al Comune la verifica di compatibilità, mentre si esprime chiaramente in senso favorevole solo sulle ulteriori opere ancora da eseguire.
18.1. Segue da ciò il vizio dell’autorizzazione comunale, che va oltre il segno nell’inciso della premessa, non conforme al vero, “visto il parere favorevole della Sovraintendenza”.
19. Parere della Sovrintendenza, autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire sono atti successivi della stessa più ampia sequenza procedimentale, autonomamente impugnati. La dichiarata illegittimità dei primi due fa comunque venir meno i presupposti che radicavano il potere in concreto dell'Amministrazione di accordare il titolo edilizio e travolge il permesso di costruire per l’effetto caducante che ne consegue (cfr. per una parallela fattispecie procedimentale Cons. Stato, sez. IV, 08.09.2015, n. 4193) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.12.2017 n. 5896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Distinzione tra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante. Intensità del rapporto di consequenzialità tra atti presupposti e atti presupponenti nel caso di strumenti urbanistici di diverso livello.
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1. Distinzione tra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante.
  
1.1. In termini generali, in base al noto schema fatto proprio dal giudice amministrativo, in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distingursi fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, ammettendo per la prima che l'annullamento dell'atto presupposto si estenda automaticamente a quello consequenziale, anche ove quest'ultimo non venga impugnato, mentre la seconda renderebbe l'atto consequenziale annullabile, purché impugnato nei termini.
   1.2. Ai fini della concreta individuazione della tipologia di effetti tra atti presupposti e atti presupponenti, è pacifico che si debba valutare l'intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell'effetto caducante ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi.

2. (segue): sull'intensità del rapporto di consequenzialità tra atti presupposti e atti presupponenti nel caso di strumenti urbanistici di diverso livello.
  
2.1. In base alla legislazione regionale toscana (dapprima la L.R. Toscana n. 5/1995 e ora la L.R. Toscana n. 1/2005), il governo del territorio si attua con una serie di strumenti che partono dal piano di indirizzo territoriale e, passando per snodi intermedi, si concludono con il rilascio dei permessi di costruire.
Il sistema che ne deriva si sviluppa per passaggi successivi, ciascuno dei quali comporta l’adozione di uno specifico atto, sulla base di una ponderazione degli interessi implicati, apprezzati anche alla luce della corrispondenza con l’atto di livello superiore.
Così stando le cose, è evidente che -quasi per definizione- ciascuno dei successivi atti implica una ulteriore valutazione di interessi, seppur circoscritta nei limiti determinati dall’atto presupposto. E questo vale per ciascuno dei successivi passaggi della catena.
   2.2. La relazione che intercorre tra regolamento urbanistico e piano attuativo non è di natura diversa da quella che passa tra piano attuativo e permesso di costruire.
In entrambi i casi, gli atti presupponenti (piano attuativo e permesso di costruire) hanno alle loro spalle un atto presupposto (regolamento urbanistico e piano attuativo), che limitano -ma non certo eliminano- il potere di apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione.
   2.3. L’effetto che si produce tra le coppie di atti (quelli presupponenti: piano attuativo e permesso di costruire; e quelli presupposti: regolamento urbanistico e piano attuativo), in caso di invalidità dell’atto presupposto, è dunque l’invalidità derivata, destinata a essere fatta valere nelle forme, nei modi e nei termini previsti dall’ordinamento, e dunque, necessariamente, anche mediante la tempestiva impugnazione dell’atto presupposto, nel rispetto del termine di decadenza.
D’altronde, se il Comune, nell’approvare il piano attuativo, non fosse chiamato a compiere una valutazione di interessi nuova e diversa (seppure circoscritta, nel senso di cui prima si è detto), l’approvazione del piano medesimo degraderebbe al ruolo di atto meramente esecutivo se non addirittura dovuto: conseguenza questa palesemente incongrua e contrastante con la realtà effettuale, e comunque incompatibile con la complessa procedura prescritta per l’approvazione del piano medesimo.
   2.4. Il privato, che si ritenga leso da un piano attuativo, ha solo l’onere di impugnarlo tempestivamente, dimostrando ovviamente la legittimazione e l’interesse ad agire, a nulla rilevando la pregressa e tempestiva impugnazione dello strumento urbanistico presupposto (nella specie il R.U.C. ex L.R. Toscana n. 5/1995).
   2.5. Il termine per impugnare gli strumenti di pianificazione urbanistica (ivi compresi i piani attuativi), da parte di soggetti da essi non direttamente incisi, decorre, a pena di decadenza, dalla data di pubblicazione della delibera di approvazione
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it).
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... per la riforma della sentenza 16.11.2008 n. 2962 del TAR TOSCANA-FIRENZE: SEZ. I, resa tra le parti, concernente permesso di costruire per realizzazione di opere di urbanizzazione e approvazione di piano particolareggiato
...
1. L’appello, in linea di principio, non sembra contestare il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui il termine per impugnare gli strumenti di pianificazione urbanistica, da parte di soggetti da essi non direttamente incisi, decorre, a pena di decadenza, dalla data di pubblicazione della delibera di approvazione (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. VI, 19.10.2007, n. 5457).
Tale giurisprudenza, però, non varrebbe nel caso di specie, in ragione dello strettissimo legame che intercorrerebbe tra il regolamento urbanistico e il piano di attuazione, tale che la caduta dell’uno travolgerebbe inevitabilmente con sé l’altro (si tratterebbe di un vizio caducante).
Diversamente, i permessi di costruire sarebbero legati agli strumenti urbanistici da una relazione meno intensa e, pur potendo essere affetti da invalidità derivata per l’illegittimità di questi ultimi, andrebbero comunque tempestivamente impugnati (come nella vicenda l’appellante ha fatto).
2. Sebbene esposta brillantemente e con dovizia di argomentazioni, la tesi non può essere condivisa.
Tale tesi fa capo a una noto schema, fatto proprio dal giudice amministrativo, che, in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, distingue fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, ammettendo per la prima che l'annullamento dell'atto presupposto si estenda automaticamente a quello consequenziale, anche ove quest'ultimo non venga impugnato, mentre la seconda renderebbe l'atto consequenziale annullabile, purché impugnato nei termini.
Ai fini della concreta individuazione della predetta tipologia di effetti, è pacifico che si debba valutare l'intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell'effetto caducante ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 23.02.2011, n. 1114; sez. VI; 27.04.2011, n. 2482).
3. Nel caso di specie, secondo la scansione delineata dalla legge della Regione Toscana 16.01.1995, n. 5, sotto la vigenza della quale ha avuto origine la vicenda controversa, il governo del territorio si attua con una serie di strumenti che partono dal piano di indirizzo territoriale e, passando per snodi intermedi, si concludono con il rilascio dei permessi di costruire. Il sistema che ne deriva si sviluppa per passaggi successivi, ciascuno dei quali comporta l’adozione di uno specifico atto, sulla base di una ponderazione degli interessi implicati, apprezzati anche alla luce della corrispondenza con l’atto di livello superiore.
Così stando le cose, è evidente che -quasi per definizione- ciascuno dei successivi atti implica una ulteriore valutazione di interessi, seppur circoscritta nei limiti determinati dall’atto presupposto. E questo vale per ciascuno dei successivi passaggi della catena.
In altri termini, la relazione che intercorre tra regolamento urbanistico e piano attuativo non è di natura diversa da quella che passa tra piano attuativo e permesso di costruire. In entrambi i casi, gli atti presupponenti (piano attuativo e permesso di costruire) hanno alle loro spalle un atto presupposto (regolamento urbanistico e piano attuativo), che limitano -ma non certo eliminano- il potere di apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione.
L’effetto che in entrambi i casi si produce tra le coppie di atti, in caso di invalidità dell’atto presupposto, è dunque l’invalidità derivata, destinata a essere fatta valere nelle forme, nei modi e nei termini previsti dall’ordinamento, e dunque, necessariamente, anche mediante la tempestiva impugnazione dell’atto presupposto, nel rispetto del termine di decadenza.
D’altronde, se il Comune, nell’approvare il piano attuativo, non fosse chiamato a compiere una valutazione di interessi nuova e diversa (seppure circoscritta, nel senso di cui prima si è detto), l’approvazione del piano medesimo degraderebbe al ruolo di atto meramente esecutivo se non addirittura dovuto: conseguenza questa palesemente incongrua e contrastante con la realtà effettuale, e comunque incompatibile con la complessa procedura prescritta per l’approvazione del piano medesimo.
4. Così intesa la normativa, non vi è ragione per riconoscere in concreto esistente quella violazione dell’art. 113 Cost. che l’appellante invece lamenta. Certo, come l’appello osserva, sarebbe paradossale se il privato non potesse impugnare immediatamente il piano, in quanto non lesivo; e nemmeno successivamente, per essere il piano divenuto inoppugnabile a seguito della scadenza dei termini. La contraddizione è solo apparente: in realtà il privato, che si ritenga leso da un piano attuativo, ha solo l’onere di impugnarlo tempestivamente, dimostrando ovviamente la legittimazione e l’interesse ad agire.
Qui, a dire il vero, sembra stare –in punto di fatto– il nocciolo concreto della questione: nell’avere cioè il TAR escluso legittimazione e interesse a impugnare il regolamento urbanistico nel diverso giudizio ricordato in narrativa, mentre la signora Ch. avrebbe omesso di impugnare il piano confidando nell’accoglimento del ricorso contro il regolamento urbanistico.
A questo proposito, però, non può nemmeno dirsi che sia stato l’orientamento del Tribunale a determinare un qualche affidamento nell’appellante, inducendola a ritenere non ammissibile una immediata impugnativa contro uno strumento urbanistico quale il piano attuativo.
Infatti, come appare dai fascicoli, la sentenza di primo grado, che ha dichiarato inammissibile il ricorso contro il regolamento urbanistico, è stata depositata il 03.07.2007, dunque quasi quattro anni dopo la pubblicazione del piano particolareggiato (affissione all’albo pretorio dal 30.07. al 14.08.2003; pubblicazione sul B.U.R. del 03.09.2003), a sua volta impugnato con ricorso notificato il 20.07.2006 e con motivi aggiunti notificati il 15.06.2007.
Non sussiste dunque, per la signora Ch., alcun affidamento che possa averne determinato le iniziative processuali e forse le avrebbe potuto consentire il beneficio dell’errore scusabile, ai fini della rimessione in termini per impugnare.
In definitiva, il piano attuativo avrebbe dovuto essere impugnato tempestivamente, nel termine decorrente dal deposito presso la casa comunale, eventualmente introducendo motivi aggiunti nel giudizio promosso contro il regolamento urbanistico.
Non avendo l’appellante così fatto, correttamente il Tribunale territoriale ha ritenuto irricevibile per tardività il ricorso relativo.
5. L’appello sostiene poi che, diversamente da quanto ha deciso il TAR, la declaratoria di inammissibilità non potrebbe travolgere quei motivi che riguardano vizi autonomi dei permessi di costruire impugnati e che, in particolare, attengono al rischio idrogeologico e all’esistenza di diritti di terzi sull’area (v. pag. 21 e segg. del ricorso).
Con riguardo alla ritenuta omessa valutazione del rischio idraulico, la tesi non è convincente. Come appare chiaramente dal ricorso introduttivo (pag. 18), tale motivo contesta la legittimità del piano attuativo prima ancora di quella dei permessi di costruire. Lo stesso parere ostativo geologico-tecnico del geologo dottor Pellegrini, su cui l’appello insiste, è testualmente formulato in relazione al piano attuativo medesimo.
In disparte le controdeduzioni formulate sul punto dal Comune e dai privati controinteressati, la sentenza va dunque confermata anche nella parte che afferma l’inammissibilità di questo motivo, al pari degli altri proposti avverso i permessi di costruire con il ricorso introduttivo (salvo quanto si dirà subito appresso), come conseguenza dell’irricevibilità dell’impugnazione dello strumento urbanistico.
6. La censura dedotta in primo grado con i motivi aggiunti, circa la mancata piena disponibilità dell’area, ha invece carattere autonomo e sopravvive dunque alla pronunzia di irricevibilità.
Un provvedimento del Tribunale di Pisa avrebbe dichiarato l’esistenza di diritti di terzi sull’area contestata. Essa pertanto non sarebbe nella piena disponibilità dei titolari dei permessi di costruire; ne seguirebbe il mancato rispetto dei parametri urbanistico-edilizi.
Impregiudicata ogni altra valutazione (nel fascicolo non si trova copia del provvedimento), basti osservare a questo riguardo che -per affermazione della stessa appellante- quella che viene evocata è un’ordinanza d’urgenza, mentre nulla è dato sapere degli sviluppi del giudizio di merito.
Manca, in definitiva, un accertamento con efficacia di giudicato, che possa essere addotto a solido fondamento della pretesa indisponibilità parziale dell’area.
La censura, pertanto, è infondata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.06.2013 n. 3272 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La circostanza che l’appellante non abbia coltivato il ricorso contro la deliberazione che ha approvato la variante di P.R.G. non ha effetti preclusivi nei riguardi del diverso ricorso proposto contro la delibera comunale di adozione, in quanto l'eventuale annullamento di quest'ultima esplicherebbe effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione nella parte in cui lo stesso confermi le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa.
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... per la riforma della sentenza n. 1361/2005 del TAR VENETO-VENEZIA: SEZ. II , resa tra le parti, concernente variante prg - diniego concessione edilizia.
...
2. Nel merito, il ricorso è, però, infondato.
Il signor Re. ha impugnato il diniego del Comune, opposto sulla base della variante al P.R.G. adottata con la deliberazione del Consiglio comunale del 10.12.1991, insieme con quest’ultima.
A questo proposito, il Comune deduce l’improcedibilità dell’appello a seguito della perenzione del ricorso proposto dalla controparte contro la delibera della Giunta regionale n. 4271 del 21.07.1992, recante approvazione della variante al P.R.G., e della mancata impugnazione della successiva variante del 2004.
L’eccezione non è fondata.
Da un lato, infatti, la circostanza che l’appellante non abbia coltivato il ricorso contro la deliberazione che ha approvato la variante di P.R.G. non ha effetti preclusivi nei riguardi del diverso ricorso proposto contro la delibera comunale di adozione, in quanto l'eventuale annullamento di quest'ultima esplicherebbe effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione nella parte in cui lo stesso confermi le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.03.2010, n. 1361).
Dall’altro, posto che il bene della vita che il Re. intende conseguire non è più il rilascio del permesso di costruire, ma la declaratoria di illegittimità del diniego in vista del risarcimento del danno, restano irrilevanti le successive vicende della pianificazione urbanistica comunale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.12.2012 n. 6703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Rapporto di presupposizione necessaria tra gli atti amministrativi.
I vizi idonei a caducare il Piano esecutivo convenzionato hanno un effetto caducante nei confronti dei successivi titoli edilizi o deve ritenersi che non sussista alcun rapporto di presupposizione necessaria tra il Piano ed i titoli stessi?
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   1. Atto amministrativo - Vizi - Caducanti - Presupposti necessari - Individuazione
   2. Urbanistica - Piani urbanistici - Piano Esecutivo Convenzionato - Titoli edilizi autorizzatori - Rapporto di presupposizione necessaria - Insussistenza - Ragioni - Conseguenze
  
1. In termini generali, i vizi caducanti presuppongono che tra gli atti interessati vi sia un rapporto di presupposizione necessaria, sicché all'atto successivo non residui alcun margine ulteriore di ponderazione che non si traduca nel mero completamento dell'iter procedimentale iniziato con il primo atto impugnato.
La prudenza nell'individuazione dei vizi caducanti si giustifica in considerazione della peculiarità dei loro effetti; la caducazione automatica ed a catena di atti non impugnati, infatti, comporta una propagazione dei vizi che vulnera il generale principio di stabilità degli atti consolidati, e il sottostante assetto di interessi, oltre a poter potenzialmente pregiudicare terzi controinteressati mai evocati in alcun giudizio.
Conseguentemente, si ravvisa la fattispecie di vizi caducanti solo ove l'atto successivo si ponga come conseguenza immediata, diretta e necessaria, ossia ove l'atto successivo sia inevitabile conseguenza di quello anteriore.
   2. Non sussiste un rapporto di presupposizione necessaria tra P.E.C. e successivi titoli autorizzatori edilizi: i titoli edilizi emanati successivamente al P.E.C., infatti, seppure in questo trovano un fondamento, non ne sono conseguenza immediata e necessaria; neppure è escluso qualsivoglia margine di apprezzamento nella successiva fase procedimentale.
Pertanto, l'annullamento del P.E.C. non può travolgere i successivi titoli edilizi, anche in considerazione del fatto che l'effetto caducante non travolgerebbe atti limitativi della sfera giuridica del destinatario bensì atti ampliativi della medesima, rispetto ai quali si è nel frattempo consolidato un ragionevole affidamento e un nuovo assetto di interessi
(massma tratta da www.mondolegale.it).
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E’ pacifico che parte ricorrente non ha provveduto ad impugnare i titoli edilizi rilasciati successivamente all’approvazione del PEC contestato, i quali si sono nelle more consolidati. E’ ugualmente evidente che l’interesse della ricorrente non è contestare la mera regolarità formale delle opere ma eventualmente inibirne la realizzazione.
Sostiene parte ricorrente che i vizi dedotti, idonei a caducare il PEC, avrebbero un effetto caducante nei confronti dei successivi titoli edilizi, sì da renderne superflua l’autonoma impugnativa. La difesa di parte ricorrente cita al riguardo la decisione del Consiglio di Stato sez. V n. 3255 del 2008.
La fattispecie ivi trattata appare tuttavia differente poiché, nel caso di specie, era stata innanzitutto rigettata un’eccezione di improcedibilità dell’appello per mancata impugnazione del sopravvenuto permesso di costruire, rilasciato in esecuzione della sentenza di primo grado. Il giudice d’appello puntualizzava che, essendosi trattato di mera attività di esecuzione della statuizione del primo giudice, il travolgimento di quest’ultima avrebbe comportato l’automatica caducazione di atti che non potevano definirsi espressione di acquiescenza costituendo mera ottemperanza.
Nel corpo della decisione si rinviene poi una massima che puntualizza che il permesso di costruire che trovi fondamento in un PEC impugnato risulta travolto da illegittimità derivata in caso di annullamento della variante di PEC medesima; la massima, riportata solo come tale, non consente tuttavia di evincere la tesi della caducazione automatica propugnata da parte ricorrente. La sussistenza di una possibile invalidità derivata del titolo edilizio rispetto ai presupposti vizi del PEC non è infatti di per sé risolutiva circa la natura caducante o viziante dell’annullamento del primo atto rispetto al secondo; l’invalidità derivata, come tale potenzialmente sussistente, ben infatti può essere oggetto di idonea ed apposita censura, appunto formulata in via derivata.
In termini generali i vizi caducanti presuppongono che tra gli atti interessati vi sia un rapporto di presupposizione necessaria, sicché all’atto successivo non residui alcun margine ulteriore di ponderazione che non si traduca nel mero completamento dell’iter procedimentale iniziato con il primo atto impugnato. La prudenza nell’individuazione dei vizi caducanti si giustifica in considerazione della peculiarità dei loro effetti; la caducazione automatica ed a catena di atti non impugnati, infatti, comporta una propagazione dei vizi che vulnera il generale principio di stabilità degli atti consolidati, e il sottostante assetto di interessi, oltre a poter potenzialmente pregiudicare terzi controinteressati mai evocati in alcun giudizio. Conseguentemente la giurisprudenza ravvisa fattispecie di vizi caducanti solo ove l’atto successivo si ponga come conseguenza immediata, diretta e necessaria, ossia ove l’atto successivo sia inevitabile conseguenza di quello anteriore.
Tanto non pare potersi predicare nel rapporto tra P.E.C. e successivi titoli autorizzatori edilizi, tanto più là dove il P.E.C. ha lasciato ulteriori margini da definirsi nelle successive sequenze procedimentali. Solo apparentemente si attaglia al caso di specie la decisione, citata da parte ricorrente, del Consiglio di Stato sez. VI n. 114/2011 che ha ritenuto che il diniego di autorizzazione paesaggistica unicamente fondato sul contrasto con uno strumento urbanistico poi annullato restasse automaticamente travolto dall’annullamento dello strumento urbanistico presupposto. Effettivamente in tale caso l’unica e necessaria ragione del travolto diniego risiedeva, appunto, nello strumento urbanistico. Neppure deve essere trascurato il fatto che la fattispecie di invalidità derivata caducante, come ricostruita nell’ultimo caso citato, incideva automaticamente su un atto restrittivo per il destinatario, con effetto quindi ampliativo della sua sfera giuridica.
Il caso di specie si presenta simmetrico ma inverso: i titoli edilizi emanati successivamente al P.E.C., seppure in questo trovano un fondamento, non ne sono conseguenza immediata e necessaria; neppure è escluso qualsivoglia margine di apprezzamento nella successiva fase procedimentale. Infine l’effetto caducante non travolgerebbe atti limitativi della sfera giuridica del destinatario bensì atti ampliativi della medesima, rispetto ai quali si è nel frattempo consolidato un ragionevole affidamento e un nuovo assetto di interessi.
Più consono al caso di specie pare quindi ad esempio quello di cui alla sentenza C. stato sez. IV 14.12.2002 n. 7001. Il supremo consesso amministrativo ha ivi analizzato il caso in cui, annullati il piano urbanistico generale e quello attuativo, in separato giudizio si è accertata altresì l’invalidità derivata delle successive concessioni edilizie, che in detti piani avevano trovato fondamento. Nel caso specifico vi erano quindi state separate e specifiche impugnative.
In sede di ottemperanza, là dove il ricorrente chiedeva che venisse disposta la demolizione dei manufatti, si evidenziava che le uniche sanzioni applicabili per le opere nelle more realizzate e divenute prive di titolo sarebbero state quelle pecuniarie di cui all’attuale art. 38 d.p.r. 380/2001, poiché l’annullamento dei titoli non era stato dovuto ad un contrasto originario con le previsioni di piano, legge o regolamento ma ad un sopravvenuto vizio formale per caducazione del piano. Per di più si evidenziava come i titoli ben potessero sopravvivere all’esito di un emendamento della pianificazione ab origine annullata.
Sebbene evidentemente la fattispecie differisca da quella per cui è causa resta ben evidente la molteplicità di soluzioni e valutazioni amministrative che intervengono nelle diverse fasi di un iter procedimentale quale quello per cui è causa e che non consentono di ravvisarvi atti avvinti tutti e necessariamente da stretto ed ineludibile vincolo di presupposizione necessaria.
Né infine può darsi spazio all’interesse risarcitorio, neppure per altro rappresentato dalla ricorrente; è infatti evidente come l’eventuale interesse risarcibile connesso alla mancata realizzazione di un piano similare proposto dalla ricorrente discenderebbe dal diverso e parallelo procedimento instaurato dalla ricorrente medesima avverso il diniego di approvazione di quel diverso PEC di suo interesse; non è infatti dall’approvazione dell’altrui PEC che la ricorrente vede derivare un danno immediato e diretto bensì eventualmente dall’illegittima mancata approvazione del proprio, che non viene qui in questione essendo stata oggetto di separato giudizio.
Il ricorso deve quindi essere dichiarato improcedibile (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 21.10.2011 n. 1116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L'omessa impugnazione del provvedimento di approvazione di un piano regolatore generale non determina alcuna preclusione all'ammissibilità del ricorso proposto contro l’adozione dello stesso strumento urbanistico, in quanto l'annullamento di quest'ultima esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sugli atti presupposti del procedimento di formazione della strumento urbanistico.
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1. Preliminarmente va disattesa l’eccezione sollevata dalla difesa del Comune resistente in ordine all’improcedibilità del ricorso per mancata impugnativa degli atti sopravvenuti relativi all’approvazione dello strumento urbanistico.
Infatti l'omessa impugnazione del provvedimento di approvazione di un piano regolatore generale non determina alcuna preclusione all'ammissibilità del ricorso proposto contro l’adozione dello stesso strumento urbanistico, in quanto l'annullamento di quest'ultima esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sugli atti presupposti del procedimento di formazione della strumento urbanistico (cfr. Cons. St., sez. IV, 23/07/2009, n. 4662).
Vero è piuttosto, semmai, che nella specie la società cooperativa ricorrente ha mancato di impugnare tempestivamente l’atto di adozione della variante urbanistica, risalente alla delibera n. 12 del 25/03/2002, debitamente pubblicata e pacificamente conosciuta dall’interessata che ha pure presentato osservazioni, ma ha diretto le proprie contestazioni contro la delibera n. 25 del 27/11/2002, avente ad oggetto l’esame delle osservazioni.
Tale atto non è autonomamente impugnabile, trattandosi di atto endoprocedimentale (cfr. Cons. St., sez. IV, 21/08/2009, n. 5002).
Sennonché la rilevazione di ufficio di tale questione, comportante l’esigenza di preventiva contestazione ai sensi dell’art. 73, co. 3, del nuovo CPA, sarebbe in contrasto con i principi di economia processuale, posto che il ricorso si palesa comunque infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 20.06.2011 n. 3250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La variante alla licenza edilizia ha carattere di accessione e di non autonomia, con la conseguenza che l'illegittimità della licenza originaria opera nei confronti della variante come invalidità caducante, e non meramente viziante; pertanto, l'annullamento della prima determina l'automatica rimozione della seconda (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.1981 n. 219).

In materia di espropriazione:

ESPROPRIAZIONE: Nell’impianto normativo dell’espropriazione per pubblica utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001, la dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata dalla legge n. 2359/1865, sostanzialmente rappresenta il necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per cui il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta travolto, come tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa.
Si invera, cioè, un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.

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6.- Ad ogni buon fine, anche a volere –in tesi– aderire alla difesa attorea radicata all’insussistenza di un controinteressato in materia espropriativa, il ricorso deve ritenersi, comunque, inammissibile anche per mancata impugnazione della dichiarazione di pubblica utilità nel termine di decadenza.
6.1.- Gioverà ricordare che parte ricorrente, con la memoria finale, al fine di neutralizzare l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardiva impugnazione della d.p.u., ha rimarcato che “non ha denunciato l’illegittimità della dichiarazione di pubblica utilità si da imporre l’impugnazione del provvedimento nei termini prescritti dall’art. 29 del CPA… (bensì) ha evidenziato l’inefficacia ex lege della dichiarazione di p.u. per l’insussistenza a monte di un efficace vincolo espropriativo e, comunque, la sua sopravvenuta inidoneità a costituire presupposto legittimante l’adozione del decreto di esproprio per decorso del termine quinquennale prescritto dall’art. 13, comma 4, del Testo Unico”.
E ciò in quanto sarebbe scaduta sia la dichiarazione di pubblica utilità, contenuta nella deliberazione consiliare n. 103 del 17.12.1996 di approvazione del Piano di lottizzazione della Maglia C1-n. 16, per decorso del decennio ex art. 28 l. n. 1150/1942; sia la d.p.u. di cui alla successiva deliberazione giuntale n. 124 del 14.07.2005, essendo decorso, ai sensi del combinato disposto dei commi 4 e 6 dell’art. 13 dpr n. 327/01, il quinquennio entro il quale deve essere adottato il decreto di esproprio; non risultando utile a tal fine la determinazione dirigenziale n. 585 del 29.04.2014 di approvazione del progetto esecutivo, non potendo la d.p.u. essere ricollegata a siffatto livello di approfondimento, risultando detta determina anche priva degli elementi essenziali a valere quale d.p.u. (estremi dell’atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio ex art. 17 dpr 327/2001; indicazione dei termini iniziali e finali per l’avvio ed il compimento dei lavori e delle occupazioni).
L’abile difesa attorea, per quanto pregevolmente costruita, non risulta condivisibile.
6.2.- Nell’impianto normativo dell’espropriazione per pubblica utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001, la dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata dalla legge n. 2359 del 1865, sostanzialmente rappresenta il necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per cui il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta travolto, come tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (ex multis Cons. St. Sez. IV 03.10.2012 n. 5189).
Si invera, cioè, un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons. Stato Sez. IV 29.01.2008 n. 258; idem 30.12.2003 n. 9155 e 30.06.2003 n. 3896) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 01.02.2019 n. 155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: A differenza dell’annullamento di atti presupposti o prodromici, di cui può predicarsi l’eventuale effetto caducante o invalidante degli atti successivi, l’annullamento di un atto a valle non inficia la validità degli atti precedenti che conservano la loro validità ed efficacia in applicazione del principio generale di conservazione previsto dall’art. 159, comma 1, c.p.c..
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L.2. Anche il secondo motivo di ricorso deve essere rigettato.
E invero, il decreto di espropriazione, costituendo l’atto conclusivo del procedimento espropriativo, può essere riemesso, in vigenza dell’originaria dichiarazione di pubblica utilità, non necessitando la rinnovazione dell’intero iter.
A differenza dell’annullamento di atti presupposti o prodromici (cui rimanda la giurisprudenza citata in seno al ricorso introduttivo), di cui può predicarsi l’eventuale effetto caducante o invalidante degli atti successivi, l’annullamento di un atto a valle non inficia la validità degli atti precedenti che conservano la loro validità ed efficacia in applicazione del principio generale di conservazione previsto dall’art. 159, comma 1, c.p.c.
Inoltre, deve evidenziarsi come il provvedimento n. 611 del 19.08.2010 ha solo parzialmente annullato il precedente decreto di esproprio in relazione all’esatta individuazione delle aree oggetto del procedimento di espropriazione per pubblica utilità confermandone la persistente validità per la restante parte anche in relazione alla determinazione dell’indennità provvisoria
Ne consegue che il provvedimento impugnato con il presente ricorso, nel richiamare gli effetti prodotti dall’originario (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 27.03.2019 n. 904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l’abbrivio alla procedura ablatoria produce un effetto “domino”, con l’invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch’esso travolto. Si invera, in tali casi, un effetto automaticamente caducante e non meramente viziante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
Sulla base di tale esegesi, non può essere sic et simpliciter condivisa la prospettazione dell’appellante secondo cui il decreto di esproprio, seppure atto consequenziale alla dichiarazione di pubblica utilità, sarebbe sempre dotato di una sua precisa autonomia e lesività, in quanto segna la conclusione del procedimento ed è in grado di realizzare il definitivo trasferimento del titolo di proprietà.
Va da sé, peraltro, che l’adozione di un decreto di esproprio in pendenza di un giudizio di impugnazione dei suoi atti presupposti, in quel momento efficaci, potrebbe condurre, anche dopo un considerevole intervallo di tempo, al travolgimento del decreto stesso a seguito dell’annullamento degli atti a “monte”, per cui tale efficacia caducante, e non meramente viziante, può inverarsi solo in ragione di un rigoroso ed esaustivo accertamento del nesso di presupposizione necessaria che deve sussistere tra gli atti annullati e quelli “travolti” a prescindere da una loro impugnazione, atteso che, viceversa, si avrebbe un’ingiustificata violazione dell’onere di tempestiva impugnazione dei provvedimenti amministrativi nei termini decadenziali, posto a presidio della acquisizione di una sollecita certezza in ordine alle situazioni giuridiche afferenti l’esercizio del potere pubblico.
La presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura dell’invalidità derivata con effetto caducante sull’atto a “valle” si ravvisa nelle ipotesi in cui gli atti annullati in sede giurisdizionale costituiscono il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti che, in quanto tali, sono meramente consequenziali.
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3.3.5. La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo di porre in rilievo che la rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l’abbrivio alla procedura ablatoria produce un effetto “domino”, con l’invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch’esso travolto (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, 4193 del 2015 e Cons. Stato, IV, 5189 del 2012). Si invera, in tali casi, un effetto automaticamente caducante e non meramente viziante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (cfr., altresì, Cons. Stato, IV, 29.01.2008 n. 258; idem 30.12.2003, n. 9155 e 30.06.2003, n. 3896).
Sulla base di tale esegesi, non può essere sic et simpliciter condivisa la prospettazione dell’appellante -pur basata sul fondamentale principio della esigenza di certezza delle situazioni e dei rapporti giuridici, cui è ispirata la previsione del termine decadenziale di impugnativa dei provvedimenti amministrativi- secondo cui il decreto di esproprio, seppure atto consequenziale alla dichiarazione di pubblica utilità, sarebbe sempre dotato di una sua precisa autonomia e lesività, in quanto segna la conclusione del procedimento ed è in grado di realizzare il definitivo trasferimento del titolo di proprietà.
Va da sé, peraltro, che l’adozione di un decreto di esproprio in pendenza di un giudizio di impugnazione dei suoi atti presupposti, in quel momento efficaci, potrebbe condurre, anche dopo un considerevole intervallo di tempo, al travolgimento del decreto stesso a seguito dell’annullamento degli atti a “monte”, per cui tale efficacia caducante, e non meramente viziante, può inverarsi solo in ragione di un rigoroso ed esaustivo accertamento del nesso di presupposizione necessaria che deve sussistere tra gli atti annullati e quelli “travolti” a prescindere da una loro impugnazione, atteso che, viceversa, si avrebbe un’ingiustificata violazione dell’onere di tempestiva impugnazione dei provvedimenti amministrativi nei termini decadenziali, posto a presidio della acquisizione di una sollecita certezza in ordine alle situazioni giuridiche afferenti l’esercizio del potere pubblico.
La presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura dell’invalidità derivata con effetto caducante sull’atto a “valle” si ravvisa nelle ipotesi in cui gli atti annullati in sede giurisdizionale costituiscono il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti che, in quanto tali, sono meramente consequenziali (cfr., in argomento, ex multis, Cons. Stato, VI, 20.03.2018, n. 1777; Cons. Stato, II, parere del 27.08.2014, n. 2957) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.01.2019 n. 510 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Come noto, la dichiarazione di pubblica utilità è correlata all’approvazione del progetto definitivo dell’opera pubblica (cfr. al riguardo il consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi sulla scorta della decisioni dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con le decisioni 15.09.1999, n. 14, 24.01.2000, n. 2, del 20.12.2002 n. 8, secondo il quale al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, dev'essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo).
Ciò posto, il Collegio esprime l’avviso che, sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta travolto, come del resto tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa.
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch'esso travolto.
Pertanto non rileva la circostanza che parte ricorrente non abbia eventualmente impugnato tempestivamente il decreto di esproprio, in quanto il venire meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della sentenza di questa Sezione, confermata dal Consiglio di Stato– determina un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
Tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di esproprio infatti corre un rapporto di necessaria presupposizione, tale per cui l'annullamento del primo non ha sul secondo effetti meramente vizianti, bensì caducanti. Vero è, infatti, che il decreto di esproprio può essere adottato solo in presenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità. Conseguentemente, l'annullamento giurisdizionale della dichiarazione di p.u. comporta l'automatica caducazione degli effetti del decreto di esproprio nel frattempo emesso, anche laddove non tempestivamente e ritualmente impugnato.
Si è infatti osservato che l'atto dichiarativo della pubblica utilità, implicito nella delibera di approvazione del progetto di opera pubblica, determina l'affievolimento a interesse legittimo del diritto soggettivo del proprietario espropriando e la costituzione, in capo all'Amministrazione, del potere espropriativo, con conseguente onere per il primo, in ragione del carattere immediatamente lesivo dell'atto in questione, di tempestiva impugnazione dello stesso anche ai fini dell'eventuale annullamento, in virtù dell'effetto caducante determinato dalla sua eliminazione dal mondo della realtà giuridica, del decreto di espropriazione successivamente adottato, che deve risultare sorretto da valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità.
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14.1. Pertanto occorre rilevare che la citata sentenza di annullamento non ha riguardato soltanto, contrariamente a quanto osservato dalla difesa del Comune, gli atti relativi all’occupazione d’urgenza, ma gli stessi atti fondanti della procedura espropriativa di cui è causa ed in primis il decreto del commissario delegato dalla P.C.M., Prefetto di Napoli, n. P/15544/DIS del 30/09/1995 di approvazione del progetto esecutivo per la realizzazione di una discarica alla località “Masseria del Pozzo” del Comune di Giugliano.
Risulta pertanto evidente come la pronuncia di annullamento abbia riguardato anche la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera di cui è causa.
Infatti, come noto, la dichiarazione di pubblica utilità è correlata all’approvazione del progetto definitivo dell’opera pubblica (cfr. al riguardo il consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi sulla scorta della decisioni dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con le decisioni 15.09.1999, n. 14, 24.01.2000, n. 2, del 20.12.2002 n. 8, secondo il quale al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, dev'essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo; per tutte Consiglio di Stato, IV, 11.11.2014, n. 5525).
14.2. Ciò posto, il Collegio esprime l’avviso che, sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta travolto, come del resto tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (Cons. St., sez. IV, n. 4193 del 2015; Cons. Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato, Sez. IV, 29/01/2008, n. 258; TAR Sardegna, sez. II, 18/04/2005, n. 776; TAR Napoli, sez. IV n. 385/2014).
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch'esso travolto.
Pertanto non rileva la circostanza che parte ricorrente non abbia eventualmente impugnato tempestivamente il decreto di esproprio, in quanto il venire meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della sentenza di questa Sezione, confermata dal Consiglio di Stato– determina un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons. Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato Sez. IV, 29/01/2008 n. 258; Cons. Stato, Sez. IV, 30/12/2003 n. 9155; Cons. Stato Sez. IV, 30/06/2003 n. 3896).
Tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di esproprio infatti corre un rapporto di necessaria presupposizione, tale per cui l'annullamento del primo non ha sul secondo effetti meramente vizianti, bensì caducanti. Vero è, infatti, che il decreto di esproprio può essere adottato solo in presenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità. Conseguentemente, l'annullamento giurisdizionale della dichiarazione di p.u. comporta l'automatica caducazione degli effetti del decreto di esproprio nel frattempo emesso, anche laddove non tempestivamente e ritualmente impugnato (TAR Bolzano, (Trentino-Alto Adige), sez. I, 12/09/2016, n. 394; Cons. St., sez. IV, n. 4193 del 2015; id., n. 5189 del 2012).
Si è infatti osservato che l'atto dichiarativo della pubblica utilità, implicito nella delibera di approvazione del progetto di opera pubblica, determina l'affievolimento a interesse legittimo del diritto soggettivo del proprietario espropriando e la costituzione, in capo all'Amministrazione, del potere espropriativo, con conseguente onere per il primo, in ragione del carattere immediatamente lesivo dell'atto in questione, di tempestiva impugnazione dello stesso anche ai fini dell'eventuale annullamento, in virtù dell'effetto caducante determinato dalla sua eliminazione dal mondo della realtà giuridica, del decreto di espropriazione successivamente adottato, che deve risultare sorretto da valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità (Consiglio di Stato, sez. IV, 16/03/2010, n. 1540).
14.2.1. Pertanto il ricorso, nella sua parte impugnatoria è fondato, a prescindere dalla tempestività della notifica del ricorso e dalla delibazione delle censure articolate in ricorso, in quanto, come osservato del resto da parte ricorrente nelle memorie successivamente depositate nel corso del giudizio, l’intera procedura ablatoria, culminata poi nel decreto di esproprio oggetto di impugnativa nella presente sede, deve intendersi travolta, a seguito del giudicato formatosi sulla sentenza di questa Sezione n. 243/1997.
La domanda impugnatoria, in quanto volta ad evidenziare il vizio genetico, con effetto caducante, dell’intera procedura, va pertanto accolta e per l’effetto va annullato il Decreto prot. n. P/38455/DIS del 16/11/1998, con il quale il Prefetto di Napoli, Commissario delegato ex OPCM 07/10/1994 ha pronunciato l’espropriazione definitiva a favore del Comune di Giugliano in Campania dei beni immobili di proprietà della società EC. srl siti nel Comune di Giugliano in Campania in località Masseria del Pozzo, determinando le relative indennità (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 21.11.2017 n. 5479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Le pronunce di incostituzionalità delle leggi -come noto- hanno effetto erga omnes, a nulla valendo la circostanza che parte ricorrente non sia stata parte del giudizio a quo, né rileva che la stessa non sia stata parte dei giudizi impugnatori avverso la procedura espropriativa, in quanto con la declaratoria di incostituzionalità della citata L.R. è venuta meno la dichiarazione di pubblica utilità che costituisce il fondamento di tutta l’unitaria procedura espropriativa, con effetto pertanto caducante della medesima.
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Sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta travolto, come del resto tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa.
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch'esso travolto, come ritenuto nell’ipotesi di specie, in relazione alla procedura de qua, dalla sentenza di questa Sezione, n. 8904/2008, con la quale si è annullato il decreto di esproprio a seguito della cennata pronuncia della Corte Costituzionale.
Peraltro non rileva la circostanza che parte ricorrente non sia stata parte dei giudizi impugnatori in quanto il venire meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della pronuncia della Consulta– determina un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
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11.1. Entrambi gli assunti non colgono nel segno.
Ed invero, le pronunce di incostituzionalità delle leggi -come noto- hanno effetto erga omnes, a nulla valendo la circostanza che parte ricorrente non sia stata parte del giudizio a quo, né rileva che la stessa non sia stata parte dei giudizi impugnatori avverso la procedura espropriativa, in quanto con la declaratoria di incostituzionalità della citata L.R. è venuta meno la dichiarazione di pubblica utilità che costituisce il fondamento di tutta l’unitaria procedura espropriativa, con effetto pertanto caducante della medesima.
Al riguardo Collegio esprime infatti l’avviso che, sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta travolto, come del resto tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (Cons. Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato, Sez. IV, 29/01/2008, n. 258; TAR Sardegna, sez. II, 18/04/2005, n. 776; TAR Napoli, sez. IV n. 385/2014).
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch'esso travolto, come ritenuto nell’ipotesi di specie, in relazione alla procedura de qua, dalla sentenza di questa Sezione, n. 8904/2008, con la quale si è annullato il decreto di esproprio a seguito della cennata pronuncia della Corte Costituzionale.
Peraltro non rileva la circostanza che parte ricorrente non sia stata parte dei giudizi impugnatori in quanto il venire meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della pronuncia della Consulta– determina un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons. Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato Sez. IV, 29/01/2008 n. 258; Cons. Stato, Sez. IV, 30/12/2003 n. 9155; Cons. Stato Sez. IV, 30/6/2003 n. 3896) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 02.11.2017 n. 5109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

In materia di pubblico impiego:

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nei procedimenti di tipo concorsuale, l'impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo … deve successivamente estendersi agli ulteriori atti pregiudizievoli quale l'approvazione definitiva della graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi altrimenti l'inutilità dell'eventuale decisione di accoglimento del ricorso proposto contro l'esclusione.
Fermo restando quindi l'onere di impugnazione immediata dell’atto endoprocedimentale di carattere direttamente ed autonomamente lesivo, rimane l'onere di estendere il gravame anche al provvedimento conclusivo del procedimento concorsuale, ovverosia l'atto di approvazione della graduatoria finale da parte del concorrente escluso, in quanto, diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all'eventuale annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno decisamente minoritario … e che non appare condivisibile, non ravvisandosi un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e l’approvazione della graduatoria finale.

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Il ricorso è improcedibile per l’omessa impugnazione dei provvedimenti di approvazione delle graduatorie del concorso impugnato.
Secondo un costante e pacifico orientamento giurisprudenziale “nei procedimenti di tipo concorsuale, l'impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo … deve successivamente estendersi agli ulteriori atti pregiudizievoli quale l'approvazione definitiva della graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi altrimenti l'inutilità dell'eventuale decisione di accoglimento del ricorso proposto contro l'esclusione (Consiglio Stato nn. 1347/2012, 4320/2003 e 4241/2008); fermo restando quindi l'onere di impugnazione immediata dell’atto endoprocedimentale di carattere direttamente ed autonomamente lesivo, rimane l'onere di estendere il gravame anche al provvedimento conclusivo del procedimento concorsuale, ovverosia l'atto di approvazione della graduatoria finale da parte del concorrente escluso, in quanto, diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all'eventuale annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno decisamente minoritario … e che non appare condivisibile, non ravvisandosi un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e l’approvazione della graduatoria finale” (Cons. St., sez. VI, 11.06.2018, n. 3530).
Nel caso in esame, i ricorrenti non hanno provveduto a impugnare le graduatorie di merito formatesi a seguito della conclusione del concorso, con la conseguenza che il ricorso è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 06.03.2019 n. 2955 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L'art. 12, primo comma, del d.P.R. n. 487 del 1994 stabilisce che <<Le commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di valutazione delle prove scritte>>.
La giurisprudenza ritiene, al riguardo, che non vi sia vizio invalidante qualora tali criteri, pur se non nella prima seduta della commissione, vengano comunque definiti prima che si proceda alla correzione delle prove scritte. Ciò che conta infatti è che venga garantita la trasparenza nell’espletamento della prova concorsuale, risultato questo che si ottiene qualora la determinazione e la verbalizzazione dei criteri avvenga in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti.
Né può ritenersi che la fissazione e la pubblicizzazione dei criteri di valutazione sarebbero necessarie per consentire ai candidati di poter meglio calibrare le proprie risposte. L’unica funzione svolta dalla prescrizione contenuta nel richiamato articolo 12 è, come detto, quella di garantire la trasparenza ed imparzialità nella fase di correzione e di verificare ex post la correttezza e congruità delle operazioni valutative; è dunque estranea alla sua ratio la funzione di orientamento ex ante dei candidati nello svolgimento delle prove concorsuali.
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Per pacifico orientamento giurisprudenziale, in materia di pubblici concorsi, le commissioni esaminatrici, chiamate prima a fissare i parametri di valutazione e poi a giudicare le prove svolte dai candidati, non effettuano una ponderazione di interessi, ma esercitano un'amplissima discrezionalità tecnica, sulla quale il sindacato di legittimità del giudice amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso di potere in particolari ipotesi limite, riscontrabili dall'esterno e con immediatezza dalla sola lettura degli atti (errore sui presupposti, travisamento dei fatti, manifesta illogicità o irragionevolezza).
Anche la scelta concernente l'individuazione dei criteri di massima per la valutazione delle prove è quindi sindacabile dal giudice amministrativo solo qualora appaia evidente che l'esercizio del potere discrezionale sia trasmodato in uno o più dei vizi sintomatici dell'eccesso di potere.
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Come noto, l’invalidità ad effetto caducante –che comporta l’automatico travolgimento dell'atto consequenziale– si verifica solamente quando l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 05.11.2014, n. 5463 che esclude che l’annullamento del bando di concorso abbia effetto caducante sugli atti successivi; si veda anche più in generale Consiglio di Stato, sez. VI, 27.04.2011, n. 2482).
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Con altra censura viene dedotta la violazione degli artt. 3 e 97 Cost. nonché dell’art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1995, in quanto la griglia di valutazione delle prove scritte sarebbe stata approvata dopo l’effettuazione delle stesse.
In proposito si osserva quanto segue.
L'art. 12, primo comma, del d.P.R. n. 487 del 1994 stabilisce che <<Le commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di valutazione delle prove scritte>>.
La giurisprudenza ritiene tuttavia che non vi sia vizio invalidante qualora tali criteri, pur se non nella prima seduta della commissione, vengano comunque definiti prima che si proceda alla correzione delle prove scritte. Ciò che conta infatti è che venga garantita la trasparenza nell’espletamento della prova concorsuale, risultato questo che si ottiene qualora la determinazione e la verbalizzazione dei criteri avvenga in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti (cfr. Consiglio di Stato, VI, 19.03.2015, n. 1411; id. 26.01.2015, n. 325; id. VI, 03.03.2014, n. 990).
Né può ritenersi che la fissazione e la pubblicizzazione dei criteri di valutazione sarebbero necessarie per consentire ai candidati di poter meglio calibrare le proprie risposte. L’unica funzione svolta dalla prescrizione contenuta nel richiamato articolo 12 è, come detto, quella di garantire la trasparenza ed imparzialità nella fase di correzione e di verificare ex post la correttezza e congruità delle operazioni valutative; è dunque estranea alla sua ratio la funzione di orientamento ex ante dei candidati nello svolgimento delle prove concorsuali (cfr. Consiglio di Stato, VI, 19.03.2015, n. 1411).
Ciò premesso, risulta dagli atti depositati in giudizio che, nella vicenda in esame, i criteri di valutazione delle prove scritte sono stati definiti prima dell'inizio della correzione. Ne consegue che la censura in esame non può essere accolta.
Infine, con l’ultimo motivo del ricorso introduttivo, i ricorrenti lamentano il peso eccessivo attribuito dalla Commissione all’indicatore “originalità”, rilevando che tale indicatore sarebbe del tutto inadeguato per valutare prove di carattere matematico-scientifico quali quelle da essi espletate.
A questo proposito il Collegio osserva che, per pacifico orientamento giurisprudenziale, in materia di pubblici concorsi, le commissioni esaminatrici, chiamate prima a fissare i parametri di valutazione e poi a giudicare le prove svolte dai candidati, non effettuano una ponderazione di interessi, ma esercitano un'amplissima discrezionalità tecnica, sulla quale il sindacato di legittimità del giudice amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso di potere in particolari ipotesi limite, riscontrabili dall'esterno e con immediatezza dalla sola lettura degli atti (errore sui presupposti, travisamento dei fatti, manifesta illogicità o irragionevolezza). Anche la scelta concernente l'individuazione dei criteri di massima per la valutazione delle prove è quindi sindacabile dal giudice amministrativo solo qualora appaia evidente che l'esercizio del potere discrezionale sia trasmodato in uno o più dei vizi sintomatici dell'eccesso di potere (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 28.02.2018, n. 1218; id. sez. IV, 30.08.2017, n. 4107).
Ciò premesso, è opinione del Collegio che gli interessati non abbiano sufficientemente illustrato le ragioni per le quali l’indicatore originalità sarebbe del tutto inadeguato per procedere alla valutazione delle prove da loro in concreto espletate, essendosi gli stessi limitati a formulare una affermazione generale ed indimostrata secondo cui l’originalità sarebbe sempre estranea alle materie matematiche e scientifiche. Non sono stati pertanto evidenziati quegli elementi di irragionevolezza nella scelta in concreto operata dall’Amministrazione che soli avrebbero potuto giustificare il sindacato di questo giudice.
Per questi motivi, anche la censura in esame è infondata.
Si può ora passare all’esame dei motivi aggiunti con i quali è stata impugnata la graduatoria finale di merito del concorso di cui è causa.
I ricorrenti deducono in questa sede il vizio di invalidità derivata riproponendo le stesse censure già dedotte nel ricorso introduttivo.
Come visto, però, le censure contenute nel ricorso introduttivo sono tutte infondate; non può pertanto sussistere il vizio di invalidità derivata.
Con altra censura contenuta nei motivi aggiunti, i ricorrenti rilevano che il TAR del Lazio, con sentenze n. 1376 del 2017 e n. 1121 del 2017, ha annullato l’art. 8, comma 4, del d.m. n. 95 del 2016, norma applicata nel caso in esame che disciplinava le modalità di calcolo del punteggio complessivo da attribuirsi a prova scritta e prova pratica. Secondo gli stessi ricorrenti queste pronunce produrrebbero effetto favorevole anche nei loro confronti in quanto trattasi di sentenze aventi efficacia erga omnes.
A questo proposito il Collegio deve innanzitutto rilevare che, essendo il primo atto lesivo della posizione dei ricorrenti quello che ha disposto la loro mancata ammissione alla prova orale, l’illegittimità dell’art. 8, comma 4, del d.m. n. 95 del 2016 (o comunque l’illegittimità del criterio di calcolo del punteggio complessivo di prova scritta e prova pratica) avrebbe potuto e dovuto essere dedotta nell’atto introduttivo del presente giudizio con il quale è stato appunto impugnato il provvedimento che ha disposto la mancata ammissione alla prova orale.
Ciò posto, si deve escludere che l’efficacia erga omnes delle pronunce rese dal TAR del Lazio possa automaticamente ricadere a favore dei ricorrenti.
Va difatti osservato che l’annullamento della norma regolamentare contenuta nell’art. 8, comma 4, del d.m. n. 95 del 2016, seppur recepita dal bando di concorso, non ha comportato l’automatico travolgimento dei provvedimenti di mancata ammissione dei concorrenti alla prova orale, e ciò in quanto, come noto, l’invalidità ad effetto caducante –che comporta l’automatico travolgimento dell'atto consequenziale– si verifica solamente quando l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 05.11.2014, n. 5463 che esclude che l’annullamento del bando di concorso abbia effetto caducante sugli atti successivi; si veda anche più in generale Consiglio di Stato, sez. VI, 27.04.2011, n. 2482) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 04.02.2019 n. 251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La costante giurisprudenza insegna che, in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
L'effetto caducante ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessari.
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5. – Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
5.1. – La costante giurisprudenza (da ultimo cfr. Cons Stato, Sez. V, 10.04.2018, n. 2168; Cons. Stato, Sez. V, 13.11.2015, n. 5188) insegna che, in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
L'effetto caducante ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 20.08.2018 n. 1555 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per non avere, il ricorrente, impugnato l’originario provvedimento di esclusione né, tanto meno, la graduatoria finale del concorso (sul principio per cui il ricorrente che ha impugnato l'esclusione ha l'onere di impugnare anche la successiva graduatoria di merito non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa).
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Rilevato che il ricorrente ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale l’amministrazione si è limitata a comunicare, all’esito della domanda di accesso da lui presentata, il punteggio attribuito dalla commissione agli elaborati delle prove concorsuali relative all’Undicesimo concorso per l’avanzamento al grado di 1° Maresciallo;
Rilevato che, all’opposto, non risulta essere stato impugnato:
   - il provvedimento con cui il ricorrente è stato escluso dalle prove concorsuali;
   - la graduatoria finale del concorso medesimo;
Rilevato altresì che il ricorso non è stato notificato ad alcun controinteressato;
Considerato che alla parte ricorrente è stato dato avviso, in pubblica udienza, di profili di inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a.;
Ritenuto, infatti, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per non avere, il ricorrente:
   - impugnato l’originario provvedimento di esclusione né, tanto meno, la graduatoria finale del concorso (sul principio per cui il ricorrente che ha impugnato l'esclusione ha l'onere di impugnare anche la successiva graduatoria di merito non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa, cfr., da ultimo, TAR Emilia-Romagna, Parma, sez. I, 05.01.2017, n. 5, TAR Sicilia, Catania, sez. II, 11.10.2016, n. 2530) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 19.07.2018 n. 8165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Colui che ha impugnato l'esclusione dalla prove di un concorso pubblico cui ha partecipato, a seguito della pubblicazione della graduatoria di merito, ha l'onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa.
La mancata impugnazione della graduatoria finale di un concorso si risolve, infatti, in un profilo di improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento di esclusione dallo stesso, in quanto, per i pubblici concorsi, l'atto finale costituito dalla delibera di approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che determina la lesione del candidato, non ne costituisce conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine controverso.
Ne consegue che, nel caso di specie, l'omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso da parte dei ricorrenti comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, non potendo l'eventuale annullamento del provvedimento di esclusione incidere su un atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai divenuto inoppugnabile.
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2. Il ricorso è improcedibile per le seguenti ragioni.
Come si è visto, oggetto di gravame è la graduatoria della prova preselettiva tenutasi il 20.09.2016 relativa al concorso pubblico indetto dalla Asl di Teramo con deliberazione n. 1343 del 2015, per la copertura a tempo indeterminato di 56 figure di operatore socio sanitario, cat. B, livello Bs-ruolo tecnico.
A seguito della sospensione in via cautelare del provvedimento gravato, i ricorrenti sono stati ammessi a sostenere le prove concorsuali, all’esito delle quali però non si sono collocati in posizione utile (cfr. graduatoria approvata con la deliberazione n. 330 del 2017).
Le parte ricorrenti non hanno poi impugnato la graduatoria di merito del concorso, approvata con la deliberazione n. 330 del 2017.
In proposito deve rilevarsi come colui che ha impugnato l'esclusione dalla prove di un concorso pubblico cui ha partecipato, a seguito della pubblicazione della graduatoria di merito, ha l'onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa (ex multis, Tar Parma n. 5 del 2017; Tar Roma, n. 2788 del 2016).
La mancata impugnazione della graduatoria finale di un concorso si risolve, infatti, in un profilo di improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento di esclusione dallo stesso, in quanto, per i pubblici concorsi, l'atto finale costituito dalla delibera di approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che determina la lesione del candidato, non ne costituisce conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine controverso (ex multis, Tar Roma, n. 11084 del 2014; Tar Catanzaro, n. 417 del 2014).
Ne consegue che, nel caso di specie, l'omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso da parte dei ricorrenti comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, non potendo l'eventuale annullamento del provvedimento di esclusione incidere su un atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai divenuto inoppugnabile.
Tanto premesso, il ricorso va dichiarato improcedibile e, stante la definizione in rito, le spese di lite compensate (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 29.11.2017 n. 548 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Per giurisprudenza costante e pacifica il ricorrente che ha impugnato l'esclusione, a seguito della pubblicazione della graduatoria di merito di un concorso pubblico cui ha partecipato, ha l'onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa, in quanto, per i pubblici concorsi, l'atto finale costituito dalla delibera di approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine controverso, con la conseguenza che l'omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso comporterà la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, non potendo l'eventuale annullamento del provvedimento di esclusione di un candidato incidere su un atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai divenuto inoppugnabile.
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Risulta incontestato tra le parti, pur non avendo nessuna delle due depositato in giudizio il relativo atto, che sia stata espletata la procedura concorsuale e sia stata approvata la graduatoria finale.
Altrettanto incontestato, ed evidente, è che la graduatoria non sia stata gravata dal ricorrente.
Per giurisprudenza costante e pacifica il ricorrente che ha impugnato l'esclusione, a seguito della pubblicazione della graduatoria di merito di un concorso pubblico cui ha partecipato, ha l'onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa, in quanto, per i pubblici concorsi, l'atto finale costituito dalla delibera di approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine controverso, con la conseguenza che l'omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso comporterà la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, non potendo l'eventuale annullamento del provvedimento di esclusione di un candidato incidere su un atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai divenuto inoppugnabile (TAR Parma 05.01.2017 n. 5; TAR Catania sez. II 11.10.2016 n. 2530; TAR Lazio-Roma sez. I, 03.03.2016, n. 2788 e 05.02.2015 n. 2151).
Dall’accoglimento del ricorso quindi il ricorrente non otterrebbe più alcun vantaggio, non potendo l’annullamento dell’atto di esclusione incidere sulla graduatoria finale, non impugnata e che quindi ha ormai irrimediabilmente consolidato i propri effetti.
Il ricorso pertanto deve essere dichiarato improcedibile (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 16.05.2017 n. 1100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il ricorrente che ha impugnato l'esclusione, a seguito della pubblicazione della graduatoria di merito di un concorso pubblico cui ha partecipato, ha l'onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa, poiché la mancata impugnazione della graduatoria finale di un concorso si risolve in un profilo di improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento di esclusione dallo stesso.
Si deve cioè “escludere che tra la deliberazione di indire la selezione e il bando di concorso, da un lato, e l'approvazione della graduatoria finale, dall'altro lato, sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di adozione della lex specialis e dei successivi atti endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame".
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   - che il Collegio se da un canto condivide la motivazione addotta dall’ordinanza cautelare 792/2013, dall’altro ancor prima osserva come “il ricorrente che ha impugnato l'esclusione, a seguito della pubblicazione della graduatoria di merito di un concorso pubblico cui ha partecipato, ha l'onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa, poiché la mancata impugnazione della graduatoria finale di un concorso si risolve in un profilo di improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento di esclusione dallo stesso” (così TAR Emilia Romagna, Parma, 05.01.2017, n. 5): si deve cioè “escludere che tra la deliberazione di indire la selezione e il bando di concorso, da un lato, e l'approvazione della graduatoria finale, dall'altro lato, sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di adozione della lex specialis e dei successivi atti endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame (cfr., in termini, Tar Sardegna-Cagliari, sez. II, 06.03.2013, n. 205; che richiama anche la consolidata giurisprudenza in materia: Cons. Stato, sez. V, 09.03.2012, n. 1347; Cons. Stato, sez. V, 09.02.2010, n. 622; Cons. Stato, sez. VI, 25.01.2008, n. 207; Cons. Stato, Sez. III, 01/02/2012, n. 503; TAR Sardegna, Sez. II, 16/05/2012, n. 544; TAR Valle d'Aosta 14/07/2010, n. 49)” (così TAR Sicilia, Palermo, 16.12.2014, n. 3304) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.05.2017 n. 1026 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nell’ambito delle procedure concorsuali per l’accesso al pubblico impiego, l’atto finale e provvedimentale è indubbiamente la graduatoria finale, mediante la quale l’amministrazione indica in via definitiva i soggetti coi quali stipulare il contratto di lavoro; tuttavia, in seno al procedimento selettivo il termine per esperire l’impugnativa degli atti di gara può iniziare a decorre ancor prima che sia approvata la stessa graduatoria definitiva: in particolar modo, qualora il bando di concorso preveda l’adozione e la pubblicazione di atti endoprocedimentali finalizzati all’esclusione di uno o più concorrenti, essi precludono al candidato la possibilità di un utile inserimento in graduatoria e costituiscono per l’interessato l’atto conclusivo del procedimento concorsuale. Siffatto atto deve necessariamente, essere tempestivamente impugnato, con la conseguenza che il consolidamento di tale provvedimento priva il ricorrente della legittimazione a contestare successivamente l’approvazione della graduatoria, la proclamazione del vincitore e la sua nomina.
L’onere di immediata impugnazione dell’atto di esclusione non esime, peraltro, il ricorrente dall’obbligo di estendere la censura anche ai successivi atti del procedimento e, in particolare, alla graduatoria finale. L’atto esclusivo e la graduatoria, pur inserendosi nel medesimo iter procedimentale, non manifestano un rapporto di presupposizione; vale a dirsi che la graduatoria non è atto direttamente consequenziale all’esclusione: l’amministrazione procedente, non a caso, avvenuta l’esclusione compie ulteriori valutazioni che impediscono di considerare i due atti citati come l’uno l’antecedente logico del secondo.
Ne consegue che l’annullamento dell’esclusione non manifesta efficacia caducante della graduatoria: quest’ultima deve, all’opposto, essere oggetto di specifica impugnazione con autonomo ricorso o per motivi aggiunti a seguito di censura del previo atto di esclusione.
Quanto scritto trova il conforto della consolidata giurisprudenza amministrativa la quale ha statuito che “sussiste l’onere di estendere il gravame anche al provvedimento conclusivo del procedimento concorsuale, ovverosia l’atto di approvazione della graduatoria finale da parte del concorrente. Infatti, costituisce principio generale nei procedimenti di tipo concorsuale quello secondo cui l’impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo deve successivamente estendersi agli ulteriori atti pregiudizievoli, quale l’approvazione definitiva della graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi altrimenti l’inutilità dell’eventuale decisione di accoglimento del ricorso proposto contro l’esclusione. Diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all’eventuale annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno decisamente minoritario, non ravvisandosi un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e l’approvazione della graduatoria finale”.
Ne consegue che sul candidato escluso incombe sia l’onere di immediata impugnazione dell’atto di esclusione sia l’onere di censurare la graduatoria finale: qualora il gravame non sia esteso anche al provvedimento conclusivo, spirato il termine per ricorrere al giudice amministrativo, la graduatoria diviene inoppugnabile con conseguente sopraggiungere di carenza d’interesse in capo al candidato, non potendo l’annullamento della sola esclusione manifestare effetto caducante della graduatoria.
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Quanto rilevato già in sede di giudizio cautelare, appare dirimente della controversia qui esame. Per regola generale, oggetto del processo amministrativo è l’atto lesivo di una situazione giuridica soggettiva del ricorrente e siffatto carattere di lesività si rinviene, normalmente, nell’atto provvedimentale, quale atto esoprocedimentale in grado di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del destinatario.
Invero, il menzionato principio non è immune da eccezioni, una delle quali si verifica anche nell’ambito delle procedure concorsuali per l’accesso al pubblico impiego.
L’atto finale e provvedimentale delle stesse è indubbiamente la graduatoria finale, mediante la quale l’amministrazione indica in via definitiva i soggetti coi quali stipulare il contratto di lavoro; tuttavia, in seno al procedimento selettivo il termine per esperire l’impugnativa degli atti di gara può iniziare a decorre ancor prima che sia approvata la stessa graduatoria definitiva: in particolar modo, qualora il bando di concorso preveda l’adozione e la pubblicazione di atti endoprocedimentali finalizzati all’esclusione di uno o più concorrenti, essi precludono al candidato la possibilità di un utile inserimento in graduatoria e costituiscono per l’interessato l’atto conclusivo del procedimento concorsuale. Siffatto atto deve necessariamente, essere tempestivamente impugnato, con la conseguenza che il consolidamento di tale provvedimento priva il ricorrente della legittimazione a contestare successivamente l’approvazione della graduatoria, la proclamazione del vincitore e la sua nomina (in al senso, di recente, TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 15.02.2016, n. 48 e TAR Basilicata, Potenza, Sez. I, 08.07.2015, n. 393).
L’onere di immediata impugnazione dell’atto di esclusione non esime, peraltro, il ricorrente dall’obbligo di estendere la censura anche ai successivi atti del procedimento e, in particolare, alla graduatoria finale. L’atto esclusivo e la graduatoria, pur inserendosi nel medesimo iter procedimentale, non manifestano un rapporto di presupposizione; vale a dirsi che la graduatoria non è atto direttamente consequenziale all’esclusione: l’amministrazione procedente, non a caso, avvenuta l’esclusione compie ulteriori valutazioni che impediscono di considerare i due atti citati come l’uno l’antecedente logico del secondo.
Ne consegue che l’annullamento dell’esclusione non manifesta efficacia caducante della graduatoria: quest’ultima deve, all’opposto, essere oggetto di specifica impugnazione con autonomo ricorso o per motivi aggiunti a seguito di censura del previo atto di esclusione.
Quanto scritto trova il conforto della consolidata giurisprudenza amministrativa la quale ha statuito che “sussiste l’onere di estendere il gravame anche al provvedimento conclusivo del procedimento concorsuale, ovverosia l’atto di approvazione della graduatoria finale da parte del concorrente. Infatti, costituisce principio generale nei procedimenti di tipo concorsuale quello secondo cui l’impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo deve successivamente estendersi agli ulteriori atti pregiudizievoli, quale l’approvazione definitiva della graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi altrimenti l’inutilità dell’eventuale decisione di accoglimento del ricorso proposto contro l’esclusione. Diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all’eventuale annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno decisamente minoritario, non ravvisandosi un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e l’approvazione della graduatoria finale” (TAR Lazio, Roma, Sez. I, 04.11.2014, n. 11084. In senso sostanzialmente conforme, ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. III, 15.01.2015 n. 577; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 07.05.2013, n. 4489; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 10.01.2013, n. 183; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 06.02.2013, n. 134; TAR Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 29.03.2012, n. 189; TAR Sicilia Catania, Sez. I, 28.02.2012, n. 539).
Ne consegue che sul candidato escluso incombe sia l’onere di immediata impugnazione dell’atto di esclusione sia l’onere di censurare la graduatoria finale (come esplicitamente affermato anche da TAR Campania, Napoli, Sez. V, 10.09.2012, n. 3843): qualora il gravame non sia esteso anche al provvedimento conclusivo, spirato il termine per ricorrere al giudice amministrativo, la graduatoria diviene inoppugnabile con conseguente sopraggiungere di carenza d’interesse in capo al candidato, non potendo l’annullamento della sola esclusione manifestare effetto caducante della graduatoria.
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno censurato i soli atti di ammissione alle prove orali, rectius di esclusione dei medesimi a seguito delle prove scritte: al sopraggiungere della graduatoria finale nelle more del presente giudizio, non si è assistito alla puntuale impugnazione della medesima. Conseguentemente il ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopraggiunto difetto d’interesse (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 05.05.2017 n. 383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Con specifico riferimento alla materia dei concorsi pubblici si deve escludere che tra la deliberazione di indire la selezione e il bando di concorso, da un lato, e l'approvazione della graduatoria finale, dall'altro lato, sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei primi.
È indubbio, infatti, che l'approvazione della graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di adozione della lex specialis e dei successivi atti endoprocedimentali.
Ne consegue che le eventuali illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame.
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Il ricorrente che ha impugnato l'esclusione, a seguito della pubblicazione della graduatoria di merito del concorso di che trattasi, ha l'onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa.
La mancata impugnazione della graduatoria finale di un concorso, infatti, si risolve in un profilo di improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento di esclusione dallo stesso in quanto, per i pubblici concorsi, l'atto finale costituito dalla delibera di approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine controverso.
L'omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso, pertanto, comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, non potendo l'eventuale annullamento del provvedimento di esclusione di un candidato incidere su un atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai divenuto inoppugnabile, con la conseguenza che l'eventuale annullamento del provvedimento di esclusione non potrebbe produrre alcun effetto utile per l'interessato.
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Tutto ciò premesso osserva il collegio come i ricorrenti si siano limitati alla sola impugnativa del bando e dell’atto di ammissione alla relativa procedura ma non abbiano altresì impugnato gli esiti della procedura concorsuale stessa: pertanto, nessun utilità potrebbe derivare dall'eventuale accoglimento del ricorso poiché sarebbero in ogni caso fatti salvi i provvedimenti a valle, ovvero la graduatoria finale.
Come già affermato in giurisprudenza (cfr., ex multis, TAR Parma, sez. I, 05.01.2017, n. 5), con orientamento dal quale la Sezione non ha motivo di discostarsi, "con specifico riferimento alla materia dei concorsi pubblici si deve escludere che tra la deliberazione di indire la selezione e il bando di concorso, da un lato, e l'approvazione della graduatoria finale, dall'altro lato, sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di adozione della lex specialis e dei successivi atti endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame" (cfr., in termini, Tar Sardegna-Cagliari, sez. II, 06.03.2013, n. 205; che richiama anche la consolidata giurisprudenza in materia: Cons. Stato, sez. V, 09.03.2012, n. 1347; Cons. Stato, sez. V, 09.02.2010, n. 622; Cons. Stato, sez. VI, 25.012008, n. 207; Cons. Stato, Sez. III, 01/02/2012, n. 503; TAR Sardegna, Sez. II, 16/05/2012, n. 544; TAR Valle d'Aosta 14/07/2010, n. 49; TAR Sicilia, Palermo, 16.12.2014, n. 3304).
Il principio trova ulteriore conferma nella più recente giurisprudenza laddove si afferma che "il ricorrente che ha impugnato l'esclusione, a seguito della pubblicazione della graduatoria di merito del concorso di che trattasi, ha l'onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa. La mancata impugnazione della graduatoria finale di un concorso, infatti, si risolve in un profilo di improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento di esclusione dallo stesso in quanto, per i pubblici concorsi, l'atto finale costituito dalla delibera di approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine controverso. L'omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso, pertanto, comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, non potendo l'eventuale annullamento del provvedimento di esclusione di un candidato incidere su un atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai divenuto inoppugnabile, con la conseguenza che l'eventuale annullamento del provvedimento di esclusione non potrebbe produrre alcun effetto utile per l'interessato (vedi, da ultimo, TAR Lazio, Sez. I-bis, n. 709/2016; TAR Lazio, Roma,. Sez. I, 03.03.2016, n. 2788)" (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 03.05.2017 n. 5124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nella materia dei concorsi pubblici “si deve escludere che tra la deliberazione di indire la selezione e il bando di concorso, da un lato, e l'approvazione della graduatoria finale, dall'altro lato, sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei primi.
È indubbio, infatti, che l'approvazione della graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di adozione della lex specialis e dei successivi atti endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame”.
L’eventuale annullamento del bando o degli atti intermedi della procedura di valutazione, infatti non ha un effetto caducante della graduatoria stessa, la quale, pur appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce conseguenza inevitabile, atteso che la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine controverso.
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Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, “la formula di stile con la quale si estende l'impugnazione a “tutti gli atti antecedenti, preordinati, connessi, successivi e consequenziali” è priva di qualsiasi valore processuale in quanto inidonea ad individuare uno specifico oggetto di impugnativa. Il particolare rigore di tale consolidato orientamento giurisprudenziale si giustifica ove si consideri che solo un'inequivoca determinazione del petitum processuale consente alle controparti la piena esplicazione del diritto di difesa in giudizio garantito dall'articolo 24, comma 2° della Costituzione”.
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Il ricorso, come in primo luogo eccepito dalla difesa dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, è improcedibile per mancata impugnativa della graduatoria finale.
A tanto consegue che nessun utilità può derivare ai ricorrenti dall'eventuale accoglimento del gravame, poiché resterebbe, in ogni caso, salvo il provvedimento a valle di approvazione della graduatoria e di individuazione dei vincitori del concorso.
Come costantemente affermato in giurisprudenza, con orientamento che il Collegio condivide, nella materia dei concorsi pubblici “si deve escludere che tra la deliberazione di indire la selezione e il bando di concorso, da un lato, e l'approvazione della graduatoria finale, dall'altro lato, sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di adozione della lex specialis e dei successivi atti endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame” (cfr., da ultimo, TAR Emilia Romagna, Parma, 05.01.2017, n. 5, TAR Sicilia, Catania, sez. II, 11.10.2016, n. 2530).
L’eventuale annullamento del bando o degli atti intermedi della procedura di valutazione, infatti non ha un effetto caducante della graduatoria stessa, la quale, pur appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce conseguenza inevitabile, atteso che la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine controverso (cfr., ex multis, TAR Lazio, sez. I-bis, n. 709/2016).
Diversamente da quanto osservato dai ricorrenti, poi, la rilevata omissione non può essere superata dalla formula di stile utilizzata in ricorso e con la quale gli stessi hanno gravato “tutti gli atti ad esso connessi, presupposti e consequenziali, ivi compresi, per quanto occorrer possa, tutti i verbali della Commissione ed il provvedimento, di incogniti estremi, di approvazione della graduatoria finale e di nomina dei vincitori”, atteso che si tratta di dizione palesemente generica e formulata più in termini di eventualità che di certezza, oltretutto non seguita dalla formulazione di concrete censure avverso il provvedimento di approvazione della graduatoria finale.
In proposito è utile richiamare il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “la formula di stile con la quale si estende l'impugnazione a “tutti gli atti antecedenti, preordinati, connessi, successivi e consequenziali” è priva di qualsiasi valore processuale in quanto inidonea ad individuare uno specifico oggetto di impugnativa. Il particolare rigore di tale consolidato orientamento giurisprudenziale si giustifica ove si consideri che solo un'inequivoca determinazione del petitum processuale consente alle controparti la piena esplicazione del diritto di difesa in giudizio garantito dall'articolo 24, comma 2° della Costituzione” (cfr, ex multis, TAR Piemonte, Torino, sez. I, 28.07.2015, n. 1244, Consiglio di Stato, sez. IV, 09.01.2014, n. 36).
Né può rilevare, come pure sostenuto dai ricorrenti, la circostanza che il ricorso è stato comunque notificato a tutti i soggetti vincitori, atteso che, dalla ricostruzione in fatto contenuta nel ricorso, emerge come tale notifica sia avvenuta nei confronti di coloro che a quel momento risultavano aver superato le prove scritte.
Conseguentemente, il ricorso in epigrafe, è divenuto improcedibile e al Collegio, assorbita ogni altra deduzione, eccezione e difesa, non resta che darne atto (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 03.04.2017 n. 4130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Con specifico riferimento alla materia dei concorsi pubblici si deve escludere che tra la deliberazione di indire la selezione e il bando di concorso, da un lato, e l'approvazione della graduatoria finale, dall’altro lato, sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed immediata tale da giustificare l’automatica caducazione di quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di adozione della lex specialis e dei successivi atti endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame.
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Il ricorrente che ha impugnato l’esclusione, a seguito della pubblicazione della graduatoria di merito del concorso di che trattasi, ha l’onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa.
La mancata impugnazione della graduatoria finale di un concorso, infatti, si risolve in un profilo di improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento di esclusione dallo stesso in quanto, per i pubblici concorsi, l’atto finale costituito dalla delibera di approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto che determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine controverso.
L’omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso, pertanto, comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, non potendo l’eventuale annullamento del provvedimento di esclusione di un candidato incidere su un atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai divenuto inoppugnabile, con la conseguenza che l’eventuale annullamento del provvedimento di esclusione non potrebbe produrre alcun effetto utile per l’interessato.
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In linea generale, nei concorsi a posti di pubblico impiego, il termine per l'impugnazione degli atti di concorso decorre dalla data di conoscenza del relativo esito, che si fa coincidere col provvedimento di approvazione della graduatoria, in quanto solo da detto atto può scaturire la lesione attuale della posizione degli interessati e la sua conoscenza reca in sé tutti gli elementi che consentono all'interessato di percepirne la portata lesiva.
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La formula di stile con la quale si estende l'impugnazione a "tutti gli atti antecedenti, preordinati, connessi, successivi e consequenzialì" è priva di qualsiasi valore processuale in quanto inidonea ad individuare uno specifico oggetto di impugnativa.
Il particolare rigore di tale consolidato orientamento giurisprudenziale si giustifica ove si consideri che solo un'inequivoca determinazione del petitum processuale consente alle controparti la piena esplicazione del diritto di difesa in giudizio garantito dall'articolo 24, comma 2°, della Costituzione.
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L’eccezione di improcedibilità è fondata nei seguenti termini.
La ricorrente non ha impugnato gli esiti della procedura concorsuale indetta con il bando gravato e, pertanto, nessun utilità potrebbe derivarle dall’eventuale accoglimento del ricorso poiché sarebbero in ogni caso fatti salvi i provvedimenti a valle, ovvero, la graduatoria finale in virtù della quale gli odierni controinteressati risultavano vincitori del concorso e venivano assunti.
Come già affermato in giurisprudenza, con orientamento dal quale la Sezione non ha motivo di discostarsi, “con specifico riferimento alla materia dei concorsi pubblici si deve escludere che tra la deliberazione di indire la selezione e il bando di concorso, da un lato, e l'approvazione della graduatoria finale, dall’altro lato, sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed immediata tale da giustificare l’automatica caducazione di quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di adozione della lex specialis e dei successivi atti endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame (cfr., in termini, Tar Sardegna–Cagliari, sez. II, 06.03.2013, n. 205; che richiama anche la consolidata giurisprudenza in materia: Cons. Stato, sez. V, 09.03.2012, n. 1347; Cons. Stato, sez. V, 09.02.2010, n. 622; Cons. Stato, sez. VI, 25.01.2008, n. 207; Cons. Stato, Sez. III, 01/02/2012, n. 503; TAR Sardegna, Sez. II, 16/05/2012, n. 544; TAR Valle d'Aosta 14/07/2010, n. 49)” (TAR Sicilia, Palermo, 16.12.2014, n. 3304).
Il principio trova ulteriore conferma nella più recente giurisprudenza laddove si afferma che “il ricorrente che ha impugnato l’esclusione, a seguito della pubblicazione della graduatoria di merito del concorso di che trattasi, ha l’onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa. La mancata impugnazione della graduatoria finale di un concorso, infatti, si risolve in un profilo di improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento di esclusione dallo stesso in quanto, per i pubblici concorsi, l’atto finale costituito dalla delibera di approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto che determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine controverso. L’omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso, pertanto, comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, non potendo l’eventuale annullamento del provvedimento di esclusione di un candidato incidere su un atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai divenuto inoppugnabile, con la conseguenza che l’eventuale annullamento del provvedimento di esclusione non potrebbe produrre alcun effetto utile per l’interessato (vedi, da ultimo, TAR Lazio, Sez. I-bis, n. 709/2016)” (TAR Lazio, Roma,. Sez. I, 03.03.2016, n. 2788).
Gravava, pertanto, sulla ricorrente l’onere di impugnare la graduatoria concorsuale che, peraltro, al momento della proposizione del ricorso era stata pubblicata sull’Albo Pretorio del Comune (e non erano ancora spirato il relativo termine decadenziale).
Sul punto la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire “(Cons. Stato, Sez. V, 04.03.2008, n. 862; Cons. Stato, Sez. V, 06.09.2012 n. 4726; Cons. Stato, Sez. V, 27.10.2014, n. 5293) che in linea generale, nei concorsi a posti di pubblico impiego, il termine per l'impugnazione degli atti di concorso decorre dalla data di conoscenza del relativo esito, che si fa coincidere col provvedimento di approvazione della graduatoria, in quanto solo da detto atto può scaturire la lesione attuale della posizione degli interessati e la sua conoscenza reca in sé tutti gli elementi che consentono all'interessato di percepirne la portata lesiva” (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 07.06.2016, n. 1187).
Che la graduatoria fosse nota alla ricorrente è comprovato dalla circostanza che il ricorso veniva notificato ai vincitori del concorso che, a far data dal 03.12.2012, sono anche colleghi della ricorrente che nelle more del giudizio è risultata vincitrice di un successivo concorso per il conferimento di un incarico dirigenziale presso il Comune di Parma (ed anche con riferimento a tale ultima data è decorso il termine decadenziale ex art. 29 c.p.a. senza che la graduatoria venisse impugnata).
La rilevata omissione, contrariamente a quanto deduce la ricorrente, non può essere superata dalla già richiamata formula di stile con la quale la ricorrente affermava di impugnare “tutti gli atti connessi e/o coordinati anteriori e/o conseguenti seppur non cogniti, ivi compresa l’eventuale graduatoria finale dell’impugnato concorso”.
Non può, infatti, sottacersi che la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di affermare che "la formula di stile con la quale si estende l'impugnazione a "tutti gli atti antecedenti, preordinati, connessi, successivi e consequenzialì è priva di qualsiasi valore processuale in quanto inidonea ad individuare uno specifico oggetto di impugnativa. Il particolare rigore di tale consolidato orientamento giurisprudenziale si giustifica ove si consideri che solo un'inequivoca determinazione del petitum processuale consente alle controparti la piena esplicazione del diritto di difesa in giudizio garantito dall'articolo 24, comma 2°, della Costituzione" (in senso conforme, Cons. Stato, sez. VI, 20.05.2009 n. 3105; sez. IV, 21.06.2001, n. 3346)” (Cons. Stato, Sez. IV, 09.01.2014, n. 36; nei medesimi termini: TAR Sicilia, Palermo, Sez. II 07.02.2013, n. 317; TAR Piemonte, Sez. II, 27.07.2011, n. 845; TAR Toscana, Sez. I 21.06.2010, n. 2017; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 19.06.2009, n. 5850; TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 05.06.2009, n. 3925).
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato improcedibile stante la mancata impugnazione degli atti della procedura concorsuale ivi compresi la graduatoria finale e l’approvazione della stessa (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 05.01.2017 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGOPer il professionista dipendente della Pa l’Albo non è un costo.
La ripartizione degli oneri. I tribunali tracciano la rotta: in caso di esclusiva l’ente pubblico rimborsa l’iscrizione così come i corsi di formazione e la polizza assicurativa per attività tecniche.

I professionisti dipendenti pubblici possono ribaltare sul datore di lavoro il costo dell’iscrizione all’Albo professionale. E ciò, in particolare, se l’attività pubblica viene esercitata in regime di esclusiva. Le spese di iscrizione all’Albo riguardano non solo avvocati e ingegneri, ma tutti coloro che da un lato “firmano”, quali professionisti abilitati, atti della pubblica amministrazione e dall’altro abbiano un vincolo che impedisca l’attività esterna a favore di terzi.
Il caso più recente è quello deciso dal Tribunale di Pordenone (sentenza 06.09.2019 n. 116) e si riferisce ad alcuni infermieri professionali, legati da obbligo di esclusività con una Ausl. In tal caso l’iscrizione all’Albo è stata riconosciuta a carico dell’ente pubblico in quanto è stata ritenuta un requisito indispensabile per lo svolgimento dell’attività.
Nel caso, invece, l’iscrizione all’Albo non sia necessaria, ma sia sufficiente aver conseguito l’abilitazione (superando l’esame di Stato), non vi è alcun problema di oneri a carico della Pa. Ciò accade ad esempio per gli avvocati dello Stato, che non sono iscritti ad alcun Albo, o per alcuni medici del ministero della Salute; e questa è anche l’opinione del Consiglio nazionale degli ingegneri
(circolare 21.10.2015 n. 615), che distingue tra professionisti abilitati e iscritti all’Albo.
Ai fini del rimborso, occorre distinguere tra i titoli acquisiti per accedere e mantenere una posizione lavorativa (qual è, appunto, l’iscrizione a un Albo professionale) e i titoli che, una volta acquisiti, diventano dote specifica del dipendente. Per esempio, la laurea, di cui il lavoratore beneficia sotto vari aspetti, non solo lavorativi: il costo per conseguirla non può, perciò, essere ribaltato sul datore di lavoro (
Corte conti Puglia, parere 01.10.2008 n. 29).
Stesso ragionamento per i titoli di qualificazione non indispensabili alla carriera (specializzazioni, master, ecc.) ma utili solo ai fini di punteggi o avanzamenti: non essendo obbligatori, quei titoli non possono essere a carico dell’ente.
I primi professionisti che hanno battagliato per ribaltare sul datore di lavoro gli oneri di iscrizione all’Albo sono stati gli avvocati dell’Inps e dell’Inail (Cassazione,
sentenza 16.04.2015 n. 7776 e n. 3928/2007), seguiti dagli avvocati interni dei Comuni (Consiglio di Stato, parere 15.03.2011 n. 1081).
Un’importante estensione del principio riguarda i ruoli tecnici e di progettazione di opere pubbliche, in quanto il dipendente iscritto all’Albo e con un rapporto esclusivo con la Pa, fruisce a spese dell’ente di una copertura assicurativa sui rischi progettuali di natura professionale (articolo 24, comma 4, del Dlgs 50/2016, testo unico sugli appalti).
Ragionamento che si può fare anche per i corsi di formazione obbligatori: se il dipendente non si può giovare di tali corsi in rapporti esterni (ad esempio, nella libera professione autorizzata) a causa di un vincolo di esclusività con la Pa, i relativi costi sono a carico di quest’ultima. L’iscrizione dei dipendenti ad Albi pone al datore di lavoro pubblico problemi contabili per il pagamento dell’Irap: secondo l’articolo 3 del Dlgs 446/1977 tale imposta è a carico del datore di lavoro e ciò innesca un meccanismo di rivalsa verso i terzi quando, ad esempio, una lite si conclude con una sentenza che riconosca il rimborso delle “spese di lite” a favore dell’ente pubblico. Insieme all’importo quantificato dal giudice, l’ente pubblico può chiedere anche una somma a titolo di Irap (circa il 20%) come onere accessorio riflesso (Consiglio di Stato, decisione n. 3738/2018 e Cassazione,
sentenza 14.11.2018 n. 29375).
Ciò sempre in forza del principio che ritiene accessoria e separata, rispetto alla retribuzione, ogni somma indispensabile e attinente alla professione. Come accadeva per l’indennità di “cavalcatura” di medici e veterinari condotti che dovevano per raggiungere gli assistiti.
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LA PAROLA DEI GIUDICI E DEL MEF
   1 - L'infermiera
L’esclusiva non è vincolante
Il tribunale di Milano ha respinto la domanda di rimborso della quota di iscrizione al Collegio di categoria di un’infermiera dipendente di una struttura pubblica. I giudici hanno, infatti, ritenuto che per gli infermieri che lavorano in una struttura pubblica non esiste un divieto assoluto di svolgere attività in favore di terzi (come invece esiste per gli avvocati). Infatti, gli infermieri, anche dipendenti pubblici a tempo pieno, possono svolgere attività professionale esterna,previa autorizzazione dell’ente di appartenenza, subordinata all’assenza di conflitto di interessi (Tribunale di Milano, sentenza n. 1161 dell’11.05.2016).
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   2 - L'avvocato
Non può lavorare per terzi
Secondo i giudici della Suprema corte l’ente datore di lavoro deve rimborsare all’avvocato che lavora nella pubblica amministrazione i costi di iscrizione all’elenco speciale dell’Albo degli avvocati riservato ai legali che esercitano la professione nell’interesse esclusivo del datore di lavoro. Ciò in quanto la professione forense, per normativa specifica (legge 339 del 2003) è inibita al pubblico dipendente, anche assunto a tempo parziale, a tutela sia dell’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, sia dell'indipendenza della professione forense (Corte di Cassazione, sentenze n. 11833/20013 e n. 775/2014). 
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   3 - L'assistente sociale
Il no del ministero dell’Economia
Il ministero dell’Economia ha escluso, con una nota inviata al Consiglio nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali, la sussistenza di un diritto al rimborso della quota di iscrizione all’Albo per gli assistenti sociali dipendenti di un ente pubblico. Ciò perché l’iscrizione all’Ordine non avviene in un elenco speciale come quello cui appartengono gli avvocati degli enti pubblici.
Mancando tale presupposto, verrebbe meno anche l’applicazione analogica del diritto al rimborso sancito dalle pronunce della Cassazione in materia di oneri del datore di lavoro (nota del ministero dell’Economia, prot. n. 45685 del 26.05.2016).
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   4 - Gli altri orientamenti
Spese di viaggio e telefoniche
Al di fuori delle attività professionali, vi sono precisi orientamenti: costituisce rimborso spese il rimborso del costo di uno specifico viaggio di trasferta (Corte di Cassazione, sentenza n. 2385/1966); così è retribuzione sia il pagamento delle spese di vestiario comune, sia quello per tute in specifiche condizioni di lavoro (Corte di Cassazione, sentenza n. 11139/1998, relativa ad aziende di igiene pubblica).
È rimborso anche il pagamento di spese telefoniche per reperibilità (Corte di Cassazione, sentenza n. 10367/2004), mentre se la spesa nell’interesse del datore di lavoro copre parzialmente una spesa propria del lavoratore, vi può esser un concorso (Corte di Cassazione, sentenza n. 17639/2003, in tema di uniforme obbligatoria per autisti).
Solo a carico del datore di lavoro sono, invece, i costi per obblighi di sicurezza (Corte di Cassazione, sentenza n. 11139/1998), perché necessari all’espletamento del lavoro.
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Nuove attività. Niente pretese se non c’è un Ordine o un Collegio.
Le nuove professioni, che non hanno Ordini o Collegi, restano fuori dal meccanismo di rimborso delle spese di adesione.
Ad esempio gli oneri di iscrizione a una categoria, che il dipendente in regime di esclusiva affronti quale responsabile della protezione dati (Rdp), non sono ribaltabili sul datore di lavoro. Ciò perché si tratta di una professione “non collegiata”, riconosciuta ma non obbligatoria (nel senso che per esercitare le relative attività non è indispensabile l’iscrizione a un Albo) che non può, allo stato, generare problemi di oneri economici.
Infatti le professioni non collegiate sono attività auto-organizzate a norma della legge 4/2013, che non assicurano alcuna esclusiva e quindi non generano costi detraibili per il datore di lavoro.
Oltretutto, la legge 4/2013, nell’ampliare le categorie professionali, esclude che dal nuovo regime delle professioni possano derivare «nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato», con un divieto che si attaglia all’iscrizione a un organismo di categoria libero o volontario.
Un’iscrizione volontaria a un’associazione o Albo previsto dalla legge 4/2013 può, quindi, dare garanzie di affidabilità, ma non è indispensabile per svolgere la prestazione lavorativa.
In conseguenza, il costo dell’iscrizione all’Albo resta a carico del dipendente, senza poter essere traslata sul datore di lavoro. L’iscrizione a una professione regolamentata (il cui elenco è gestito dal ministero per lo Sviluppo economico) è quindi soprattutto sintomo di qualificazione professionale, utilizzabile come attestato di qualità dei servizi offerti, ad esempio per talune garanzie che si forniscono al cliente, quali il codice deontologico di condotta (articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2019).

PUBBLICO IMPIEGOIl pubblico paga l’ordine. Dall’ente la quota dei professionisti dipendenti. Una sentenza del tribunale di Pordenone interviene sui costi di iscrizione.
La Pubblica amministrazione deve pagare le quote di iscrizione agli ordini dei professionisti. Nel caso in cui il lavoratore autonomo sia dipendente pubblico e lo stesso abbia un vincolo di esclusività, l'ente dovrà provvedere al versamento della quota di iscrizione.
E' la conclusione a cui è giunto il TRIBUNALE di Pordenone, Sez. lavoro, nella sentenza 06.09.2019 n. 116.
Il tribunale ha accolto il ricorso presentato da 214 infermieri, ma la valutazione è estendibile a tutti i liberi professionisti. Infatti, la decisione presa dal giudice riprende una sentenza della Corte di cassazione (
sentenza 16.04.2015 n. 7776) che trattava il caso di avvocati dipendenti della Pa.
Il tribunale, innanzitutto, ha ricordato come l'iscrizione all'albo professionale è obbligatoria anche per i pubblici dipendenti ed è subordinata al conseguimento del titolo universitario abilitante. Il pagamento della quota di iscrizione, tuttavia, non deve ricadere sulle spalle del professionista se questo lavora per un ente pubblico.
Nel stabilire questo concetto, il tribunale riporta l'inciso della
sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Cassazione secondo cui: «quando sussiste il vincolo di esclusività, l'iscrizione all'albo è funzionale allo svolgimento di un'attività professionale svolta nell'ambito di una prestazione di lavoro dipendente, pertanto la relativa tassa rientra tra i costi per lo svolgimento di dette attività che dovrebbero, in via normale, gravare sull'ente che beneficia in via esclusiva dei risultati di detta attività».
L'infermiere dipendente di azienda pubblica, secondo il tribunale, riveste una posizione del tutto analoga a quella dell'avvocato al servizio di un ente pubblico, in quanto «tenuto a prestare la propria attività lavorativa alle dipendenze della Pa con obbligo di esclusività nei confronti di quest'ultima non potendo esercitare in altri contesti libero professionali». Inoltre: «non vi è motivo di ritenere una qualche supremazia della professione forense rispetto alle altre che legittimi una diversità di trattamento. Nella richiamata sentenza della Suprema Corte si afferma un principio generale valido per tutti i professionisti dipendenti e non certo solo per i legali».
Il principio ricordato dal tribunale fa riferimento al fatto che nel lavoro dipendente si riscontra l'assunzione a compiere un'attività per conto e nell'interesse altrui, pertanto la soluzione di far cadere la quota in capo all'ente risponde ad un principio generale secondo cui il mandante è obbligato a tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che lo stesso abbia subito in conseguenza dell'incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali necessari. Visto che l'infermiere dipendente pubblico svolge la professione per incarico di un'azienda sanitaria, la stessa è obbligata a tenerlo indenne da ogni spesa necessaria all'espletamento dell'incarico professionale assunto come dipendente.
Quindi, «sicché ogni qualvolta venga esercitata da quest'ultima attività professionale in regime di esclusività, va riconosciuto in via generale il dovere giuridico del soggetto datoriale di rimborsare al lavoratore i costi per l'esercizio dell'attività, fra cui quello dell'iscrizione all'albo»
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2019).

IN EVIDENZA

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Sul danno erariale derivante dal riconoscimento ex post, da parte del comune, di debiti a titolo di corrispettivi per lo svolgimento di lavori saltuari e occasionali svolti da privati cittadini e sulla portata dell'ex "parere di legittimità", del "parere di regolarità tecnica" e del "parere di regolarità contabile".
Le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non hanno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto irregolarmente al bilancio dell’ente.
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Sussiste la piena responsabilità del sindaco e degli assessori (Giunta Comunale) per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente, soprattutto in assenza dei presupposti normativi per l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
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Parimenti responsabile il geometra responsabile dell’area tecnica e del personale, per aver apposto il parere di regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è causa senza verificare la legittimità e regolarità delle procedure relative alla fase dell’impegno contabile e della spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e alla fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.

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Altrettanto responsabile il segretario comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica funzione di garante della legalità e di correttezza amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma 85, della legge citata, del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario,
l’evoluzione normativa in materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del segretario in questione alla responsabilità amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto affermato da questa Corte, secondo cui
la soppressione del parere di legittimità del segretario su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio “non esclude che permangano in capo al segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l'Ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti”.
Nel caso di specie,
il segretario, partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza le gravi violazioni di legge che, con l’approvazione delle delibere di riconoscimento, si stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto esigere la verbalizzazione della sua opposizione.
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Non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione amministrativa, rientri a pieno titolo il controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.

Ne deriva che
la lettura combinata dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di regolarità tecnica, che non si limita a verificare l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e inglobando le regole sia tecniche, di un determinato settore, che quelle generali in ordine alla legittimità dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di gestione assegnato al proprio settore.
Invece,
con il “parere di regolarità contabile” il fine perseguito dal legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
   a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica rilasciato dal soggetto competente;
   b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall’organo proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.

Orbene,
secondo il sistema delle competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile del servizio di ragioneria deve effettuare prima dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del segretario comunale,
si ritiene che il parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare copertura finanziaria e il rispetto degli equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di altri organi istituzionali dell’ente.
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La questione all’esame del Collegio riguarda una ipotesi di danno erariale derivante dal riconoscimento ex post, da parte del Comune di Santa Domenica Talao, di debiti a titolo di corrispettivi per lo svolgimento di lavori saltuari e occasionali svolti da privati cittadini.
Il Procuratore regionale contesta agli odierni convenuti che, con l’adozione delle diciannove delibere di giunta sopra citate, siano state violate le disposizioni di cui agli artt. 191 e seguenti del TUEL che concernono l’assunzione degli impegni di spesa negli enti locali, nonché dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 92 del TUEL relativi all’utilizzo delle forme di lavoro flessibile.
L’art. 191 del TUEL stabilisce che “Gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente programma del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all’art. 153, comma 5”.
Il successivo comma 3 afferma che “Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare”.
Orbene,
dall’esame delle delibere di riconoscimento indicate nell’atto di citazione non risulta che le stesse siano state precedute dalla necessaria delibera a contrarre con il relativo impegno di spesa sul relativo capitolo di bilancio con l’attestazione di copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio economico-finanziario.
Né dalle stesse è rinvenibile, al di là di un’apodittica affermazione, la giustificazione di ragioni di urgenza o di eccezionalità e imprevedibilità dell’evento che avrebbero potuto giustificare il ricorso alla procedura disciplinata dal terzo comma del medesimo articolo 191 suddetto.
Stante quanto sopra,
si sarebbe, allora, dovuto fare ricorso all’istituto del riconoscimento del debito fuori bilancio di cui all’art. 194 del TUEL, la cui competenza viene, però, ascritta al Consiglio comunale e non all’organo esecutivo dell’ente locale.
Nel caso di specie, pertanto, il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e il soggetto amministratore o funzionario o dipendente dell’ente che ha consentito la prestazione, ai sensi del già richiamato art. 191, comma 4.
Inoltre, gli artt. 36 del D.Lgs. n 165/2001 e 92 del TUEL, richiamati dal Procuratore nel suo atto di citazione, disciplinano la possibilità per le pubbliche amministrazioni di ricorrere a forme contrattuali di lavoro flessibile con rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato, pieno o parziale, sempre, però, nel rispetto della disciplina vigente in materia e “per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, (sempre) nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento (del personale) assicurando la trasparenza ed escludendo ogni forma di discriminazione".
Orbene, ai fini dell’accertamento della responsabilità dei convenuti citati, ad avviso del Collegio, nessun rilievo assume il diverso inquadramento giuridico dei fatti operato dai difensori.
Infatti, sia che tali interventi vengano inquadrati tra le “borse lavoro” o tra gli “appalti di servizi”, in nessuno dei due casi vi è stato un atto propedeutico –quale ad esempio un bando per l’assegnazione delle borse, o una delibera di acquisizione dei servizi richiesti- che abbia concorso a manifestare all’esterno una volontà in tal senso, da parte dell’amministrazione del Comune di Santa Domenica Talao.
In tutti i casi, sia l’eventuale assegnazione della borsa o l’adozione di qualsivoglia forma di lavoro flessibile sia, a maggior ragione, la stipulazione di un contratto d’appalto di servizi, necessitano di una forma scritta “ad substantiam”, nel pieno rispetto di uno dei principi cardine dell’ordinamento giuridico, quando una delle parti contrattuali è una Pubblica Amministrazione.
Tale principio è sancito dall’art. 17 della Legge di contabilità generale dello Stato (R.D. n. 2440 del 1923) che, ammettendo anche forme più semplificate di stipulazione contrattuale, prevede per tutte la forma scritta (scrittura privata; obbligazione stesa ai piedi del capitolato; atto separato sottoscritto; lettera commerciale).
Tale principio trova la sua giustificazione non solo e non tanto in ragioni di ordine generale attinenti l’interesse pubblico perseguito dalla p.a., ma anche nella considerazione che un’attività estremamente procedimentalizzata, quale quella in esame, al di là del nomen juris utilizzato ai fini del suo inquadramento, non sarebbe concepibile che possa essere conclusa con una stipulazione orale.
Ciò anche perché la forma scritta rappresenta uno strumento indefettibile di garanzia del regolare svolgimento dell'attività negoziale della p.a., nell'interesse sia del cittadino sia della stessa amministrazione e, conseguentemente, in assenza della forma scritta il contratto è nullo (in terminis: Cass, sez. I civile, sent. n. 5263/2015; n. 7297/2009; sez. III civile, ord. n. 16307/2018).
Per il principio su esposto, prive di pregio, ad avviso del Collegio, sono le contestazioni che le difese muovono all’atto di citazione secondo cui nel caso di specie si verserebbe in una ipotesi di affidamento di un appalto di servizi sotto soglia.
Infatti, il superamento o meno della “soglia” (art 29 del D.Lgs n. 163/2006 applicabile ratione temporis; oggi art. 36 del D.Lgs. n. 50/2016) implica esclusivamente un maggiore o minore rigore nella scelta del contraente, ma nessuna incidenza può avere in ordine alla necessaria forma scritta dei contratti della p.a.
Atteso quanto sopra, ritiene il Collegio che nessuna valida obbligazione sia sorta in capo all’amministrazione del Comune di Santa Domenica Talao e, pertanto, sussiste la responsabilità amministrativo-contabile in capo ai convenuti, in quanto con la loro condotta hanno causato un indubbio danno erariale consistente nell’erogazione di corrispettivi non dovuti in quanto conseguenti a obbligazioni nulle.
A ciò si aggiunga che
sono state violate tutte le norme del TUEL (prima citate) poste a presidio della correttezza delle procedure di spesa degli enti locali e, per quanto già detto, le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non hanno nemmeno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto irregolarmente al bilancio dell’ente.

In ordine alle singole condotte il Collegio svolge le seguenti considerazioni.
Sussiste la piena responsabilità del sindaco Lu.Al.Gi. e degli assessori Es.Fu.Fr., La Gr.Ma.Gi., Fa.Gi., La.Ra.Ma., Le.Fr. e Pa.An.Sa. per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente, soprattutto in assenza dei presupposti normativi per l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
Inoltre, nessuna istruttoria è stata svolta dal sindaco o dai componenti la giunta ma, soprattutto, nessuna prova viene fornita in ordine all’eccezionalità e imprevedibilità dei lavori e alla loro utilità per il Comune.
Parimenti responsabile il geom. Fa.Be., responsabile dell’area tecnica e del personale, per aver apposto il parere di regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è causa senza verificare la legittimità e regolarità delle procedure relative alla fase dell’impegno contabile e della spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e alla fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.
In merito nessun valore esimente, ad avviso del Collegio, può avere la perizia a firma del geom. To.Gr., datata 19.10.2016, in quanto riferentesi a delibere diverse rispetto a quelle oggetto della citazione in questione.
Altrettanto responsabile il dott. Mo.Ca.An., segretario comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica funzione di garante della legalità e di correttezza amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma 85, della legge citata, del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario,
l’evoluzione normativa in materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del segretario in questione alla responsabilità amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto affermato da questa Corte, secondo cui
la soppressione del parere di legittimità del segretario su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio “non esclude che permangano in capo al segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l'Ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti (Sez. giur. Toscana, sent. n. 217/2012).
Il segretario Mo., partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza le gravi violazioni di legge che, con l’approvazione delle delibere di riconoscimento, si stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto esigere la verbalizzazione della sua opposizione.
Niente di tutto questo è avvenuto, e pertanto deve confermarsi la responsabilità del segretario comunale.
Considerazioni contrarie vanno svolte, invece, per la convenuta De Lu.Ma.Ro., quale responsabile del servizio economico-finanziario del Comune, che ha emesso i relativi pareri di “regolarità contabile”.
Il responsabile del servizio economico-finanziario, ai sensi dell’art. 49 del TUEL, come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. b), del d.l. n. 174/2012, convertito in l. n. 213/2012, su ogni proposta di deliberazione ha l’obbligo di esprimere un parere di regolarità contabile, qualora la stessa comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico finanziaria o sul patrimonio dell’ente.
Tale parere, che rientra tra quelli preventivi, è previsto dall’art. 147 del TUEL, a mente del quale “Gli enti locali, nell'ambito della loro autonomia normativa e organizzativa, individuano strumenti e metodologie per garantire, attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa”.
Il successivo art. 147-bis afferma che “Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. Il controllo contabile è effettuato dal responsabile del servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e del visto attestante la copertura finanziaria”.
Pertanto, il legislatore della novella del 2012, con la suddetta norma ha inteso differenziare il contenuto del “controllo di regolarità amministrativa e contabile” (di competenza del responsabile del servizio o della funzione), che si esprime attraverso il parere di regolarità tecnica e riguarda la “regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa”, dal “controllo contabile” che, esprimendosi attraverso il parere di regolarità contabile (di competenza del responsabile di ragioneria), ha riguardo all’aspetto meramente contabile e finanziario del provvedimento, attraverso, anche, l’apposizione del visto attestante la copertura finanziaria.
Pertanto,
non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione amministrativa, rientri a pieno titolo il controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.
Ne deriva che
la lettura combinata dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di regolarità tecnica, che non si limita a verificare l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e inglobando le regole sia tecniche, di un determinato settore, che quelle generali in ordine alla legittimità dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di gestione assegnato al proprio settore.
Invece,
con il “parere di regolarità contabile” il fine perseguito dal legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
   a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica rilasciato dal soggetto competente;
   b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall’organo proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.

Orbene,
secondo il sistema delle competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile del servizio di ragioneria deve effettuare prima dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del segretario comunale,
si ritiene che il parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare copertura finanziaria e il rispetto degli equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di altri organi istituzionali dell’ente.
Conseguentemente, ritiene il Collegio, di rigettare l’azione del Procuratore regionale nei confronti di De Lu.Ma.Ro..
Al proscioglimento segue il rimborso delle spese di lite, poste a carico dell’Amministrazione comunale, che si liquidano equitativamente in euro 1.500,00.
Riguardo alla quantificazione del danno e alla sua ripartizione fra i rimanenti convenuti, si condivide parzialmente quanto indicato in citazione e quindi:
...
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la regione Calabria, definitivamente pronunciando, in accoglimento parziale dell’atto di citazione:
assolve Ma.Ro. De Lu. da ogni addebito e liquida alla medesima a titolo di spese del giudizio la somma di € 1.500,00 oltre IVA, CPA e spese generali come per legge, posta a carico dell’Amministrazione di appartenenza;
condanna i sotto elencati convenuti al pagamento in favore del Comune di Santa Domenica Talao delle somme:
   1) Lu.Al.Gi., € 2.294,00 oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   2) La Gr.Ma.Gi., € 679,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   3) Es.Fu.Fr., € 369,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   4) Fa.Gi., € 690,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   5) La Bo.Ra.Ma., € 1.425,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   6) Pa.An.Sa., € 25,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   7) Le.Fr., € 340,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   8) Mo.Ca.An., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   9) Fa.Be., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo (Corte dei Conti, sez. giurisdiz, Calabria, sentenza 27.05.2019 n. 185).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAEdilizia popolare, le modalità di calcolo del corrispettivo di svincolo competono al Ministero.
La possibilità di affrancamento dei soggetti contraenti convenzioni di edilizia popolare dal vincolo del prezzo massimo di cessione è disciplinata dalla legge e può essere autorizzata solo nel rispetto delle competenze, delle modalità e delle forme di garanzia disciplinate.

Con il parere 25.09.2019 n. 368, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia ha chiarito che la competenza alla definizione della percentuale necessaria al calcolo del corrispettivo dovuto è sottratta alla potestà decisionale dei Comuni e ritorna a essere a tutti gli effetti di natura ministeriale.
Il nuovo assetto regolatorio della materia attribuisce a un decreto attuativo del ministero dell'Economia e delle Finanze il compito di individuare le modalità che dovranno seguire i Comuni per concedere le dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancamento e le eventuali forme di garanzia concesse.
La competenza sulle modalità di calcolo del corrispettivo di svincolo
Già l'articolo 5, comma 3-bis, della legge 106/2011 prevedeva una specifica e definita procedura di affrancamento dai vincoli in questione, finalizzata ad agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari con riguardo all'edilizia convenzionata. Secondo questa impostazione, per l'applicazione della procedura di svincolo il venditore era tenuto a corrispondere al Comune un corrispettivo da calcolarsi sulla base dell'individuazione di parametri che dovevano essere stabiliti a livello ministeriale, tramite un decreto attuativo del ministero dell'Economia e delle Finanze.
Con la legge 14/2012 (articolo 29, comma 16-undecies) la competenza è temporaneamente attribuita ai Comuni, fino all'emanazione di una ulteriore modifica all'articolo 31 della legge 448/1998 che, riprendendo e correggendo la formulazione originaria, riassegna al ministero dell'Economia e delle Finanze la competenza in materia di individuazione delle percentuali di calcolo del corrispettivo di svincolo.
Le regole sullo svincolo
Secondo le vigenti disposizioni, i vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze, nonché del canone massimo di locazione, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con atto pubblico o scrittura privata autenticata.
La stipula dell'atto è effettuata a richiesta delle persone fisiche che vi abbiano interesse, anche se non più titolari di diritti reali sul bene immobile ed è prevista la trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari. Il corrispettivo da pagare deve essere proporzionale alla corrispondente quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto di superficie, e può prevedere eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata.
Il decreto individua altresì i criteri e le modalità per la concessione da parte dei Comuni di dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancamento dal vincolo. In pendenza della rimozione dei vincoli, il contratto di trasferimento dell'immobile non produce effetti limitatamente alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.10.2019).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Nelle more dell'emanazione del decreto del Ministro Economia e Finanze di cui all'art. 31, comma 49-bis, della L. 23.12.1998, n. 448 novellato dall'art. 25-undecies, D.L. 23.10.2018, n. 119 convertito con L. 17.12.2018, n. 136, quale normativa si applica per il calcolo del corrispettivo per la rimozione dei vincoli su prezzo massimo di cessione e sul canone massimo di locazione di cui alla citata L. 23.12.1998, n. 448?
L'istituto della "rimozione del vincolo di determinazione prezzi" nell'ambito degli edifici rientranti nell'alveo dell'edilizia residenziale pubblica, è stato introdotto dall'art. 5, comma 3-bis, del D.L. 13.05.2011, n. 70 (convertito in L. 12.07.2011, n. 106), il quale aggiunse il comma 49-bis all'art. 31, della L. 23.12.1998, n. 448.
In base a tale istituto, è possibile rimuovere il vincolo sul prezzo di cessione e sul canone di locazione, in presenza dei seguenti presupposti:
   - Decorrenza di almeno 5 anni dalla data del primo trasferimento.
   - Presentazione di una specifica richiesta al Comune.
   - Versamento di un corrispettivo, al momento della stipula di una specifica convenzione, soggetta a trascrizione.
In buona sostanza, attraverso la rimozione del vincolo, i prezzi di cessione e di locazione ridiventano "liberi", nel senso che è possibile procedere alla vendita e locazione a prezzi di mercato e non più calmierati.
Con l'art. 25-undecies, comma 1, lett. a, del D.L. 23.10.2018, n. 119, convertito in L. 17.12.2018, n. 136, sono state apportate modificazioni alla disciplina dell'istituto. In particolare, sono state introdotte modificazioni in relazione alla competenza del soggetto legittimato a determinare il predetto corrispettivo per la rimozione.
Ed, infatti, in sede di quesito, si chiede, appunto, di sapere quale normativa applicare per il calcolo del corrispettivo.
Orbene, prima delle modificazioni del 2018, la competenza per la determinazione della percentuale per il calcolo del corrispettivo, dapprima attribuita al Ministero dell'economia e delle finanze (previa intesa in sede di Conferenza Unificata), era stata successivamente devoluta, con decorrenza dal 01.01.2012, ai Comuni. Ciò, in forza del disposto dell'art. 29, comma 16-undecies, del D.L. 29.12.2011, n. 216, convertito in L. 24.02.2012, n. 14.
Ora, con la novella normativa del 2018, si è ritornati alla disciplina originaria, con la devoluzione della competenza in favore del Ministero dell'economia e delle finanze (sempre previa intesa in sede di Conferenza Unificata). La novella disposizione normativa è ben chiara al riguardo: "La percentuale di cui al presente comma è stabilita, anche con l'applicazione di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281".
Purtroppo, l'indicato decreto ministeriale non è stato ancora emanato, per cui insorge il dubbio se i Comuni abbiano ancora uno spazio di competenza in tema di determinazione del corrispettivo di rimozione vincolo.
Occorre osservare che non esiste alcuna altra fonte normativa, su cui fondarsi per poter ritenere sussistente una residuale competenza comunale in materia. Con la novella normativa del 2018, il soggetto competente in tema di corrispettivo è solo ed esclusivamente il Ministero, ragion per cui diversi Comuni hanno sospeso (taluni solo di fatto, altri attraverso un'esplicita deliberazione di Giunta) ogni decisione, con conseguente interruzione dei procedimenti in materia.
Ritornare al pregresso criterio di determinazione fissato dal Comune non è più possibile e parimenti sconsigliabile appare la scelta di adottare un nuovo criterio, inserendo poi in sede di contratto una clausola di revisione del prezzo in caso di sopravvenienza di un diverso criterio ministeriale. Infatti, ciò che deve essere ben evidenziato è che il Comune, dal 2018, non ha più alcuna competenza in materia.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 23.12.1998, n. 448, art. 31 - D.L. 13.05.2011, n. 70, art. 5 - L. 12.07.2011, n. 106 - D.L. 23.10.2018, n. 119, art. 25-undecies - L. 17.12.2018, n. 136
(30.09.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sulla possibilità di affrancazione dei soggetti contraenti convenzioni di edilizia popolare dal vincolo del prezzo massimo di cessione.
Agli interrogativi:
   1- se sia possibile da parte della Giunta comunale rimuovere “il prezzo imposto” oppure eliminare la convenzione, liberando i proprietari dall’obbligo di corrispondere a favore del comune la somma di svincolo la risposta è che ...
si conferma la possibilità di svincolo che può avvenire solamente tramite la procedura di affrancazione prevista ex legge n. 136 del 17.12.2018 (di conversione, con modificazioni, del D.L. n. 119 del 23.10.2018) art. 25-undecies;
   2- se in attesa del decreto attuativo del Ministero dell’Economia e delle Finanze per l’attivazione della procedura di affrancazione dai vincoli, previsto dall’art. 25-undecies della legge 136/2018 si possa considerare ancora applicabile la norma di cui all’art. 29, comma 16-undecies, del DL 216/20011 convertito in Legge 14/2012 che attribuiva ai comuni la competenza in materia di calcolo del valore dell’affrancazione dai vincoli del prezzo massimo la risposta è che ...
la competenza alla definizione della percentuale necessaria al calcolo del corrispettivo dovuto al Comune, viene sottratta alla potestà decisionale del Comuni e ritorna ad essere a tutti gli effetti di natura ministeriale;
   3- se sia possibile procedere in ogni caso con la presentazione di fideiussione al Comune da parte del venditore del corrispettivo risultante dall’applicazione del comma 48 dell’art. 31 della legge 448/1998 la risposta è che ...
la novella (legge n. 136 del 17.12.2018 (di conversione, con modificazioni, del D.L. n. 119 del 23.10.2018) art. 25-undecies) inserisce nel quadro regolatorio un nuovo aspetto non definito in precedenza, attribuendo allo stesso decreto attuativo del Ministero dell’Economia e delle Finanze il compito di individuare le modalità che dovranno seguire i Comuni per concedere le dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancamento e dunque, si intende, le eventuali modalità e forme di garanzia delle dilazioni stesse.
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Con la nota sopra citata, il Sindaco del Comune di Arconate (MI) pone un quesito in materia di applicazione dell’art. 49-bis della legge 448/1998 così come riformulato dalla legge 136 del 2018, in merito alla possibilità di affrancazione dei soggetti contraenti convenzioni di edilizia popolare dal vincolo del prezzo massimo di cessione.
In particolare, il Comune di Arconate ha stipulato convenzioni ai sensi dell’art. 35 della legge 865 del 1971 per la cessione di aree sia in diritto di superficie, sia in diritto di proprietà nell’ambito di un piano di zona per l’edilizia economica popolare (PEEP) nelle quali si prevede che i trasferimenti di proprietà successivi al primo dovranno avvenire ad un prezzo massimo determinato dal Comune.
Poiché numerosi cittadini hanno richiesto la rimozione di tale vincolo
il Comune chiede, in primo luogo, se sia possibile da parte della Giunta comunale rimuovere “il prezzo imposto” oppure eliminare la convenzione, liberando i proprietari dall’obbligo di corrispondere a favore del Comune di Arconate la somma di svincolo.
In secondo luogo, si chiede se in attesa del decreto attuativo del Ministero dell’Economia e delle Finanze per l’attivazione della procedura di affrancazione dai vincoli, previsto dall’art. 25-undecies della legge 136/2018 si possa considerare ancora applicabile la norma di cui all’art. 29, comma 16-undecies, del DL 216/20011 convertito in Legge 14/2012 che attribuiva ai comuni la competenza in materia di calcolo del valore dell’affrancazione dai vincoli del prezzo massimo.
In terzo luogo, si chiede se sia possibile procedere in ogni caso con la presentazione di fideiussione al Comune da parte del venditore del corrispettivo risultante dall’applicazione del comma 48 dell’art. 31 della legge 448/1998.
Infine, si chiede se i proprietari delle unità abitative di cui si tratta possano stipulare atti di vendita delle unità medesime ad un prezzo maggiore rispetto a quello vincolato, subordinando il pagamento della differenza alla condizione sospensiva dell’affrancazione dal vincolo.
...
La questione della rimozione dei vincoli di prezzo alla cessione degli immobili realizzati tramite edilizia convenzionata ha avuto nel tempo una evoluzione articolata. A introdurre la possibilità di superare tali vincoli è stata la Legge 12.07.2011, n. 106 che all’art. 5 comma 3-bis afferma:
Per agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari, dopo il comma 49 dell'articolo 31 della legge 23.12.1998, n. 448, sono inseriti i seguenti:
   49-bis. I vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché del canone massimo di locazione delle stesse, contenuti nelle convenzioni di cui all'articolo 35 della legge 22.10.1971, n. 865, e successive modificazioni, per la cessione del diritto dì proprietà, stipulate precedentemente alla data di entrata in vigore della legge 17.02.1992, n. 179, ovvero per la cessione del diritto di superficie, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con convenzione in forma pubblica stipulata a richiesta del singolo proprietario e soggetta a trascrizione per un corrispettivo proporzionale alla corrispondente quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto di superficie, in misura pari ad una percentuale del corrispettivo risultante dall'applicazione del comma 48. La percentuale di cui al presente comma è stabilita, anche con l'applicazione di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa con la Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281.
   49-ter. Le disposizioni di cui al comma 49-bis si applicano anche alle convenzioni di cui all'articolo 18 del testo unico di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380
.".
Questa norma, emanata nel 2011 dunque già prevedeva una specifica e definita procedura di affrancazione dai vincoli suddetti, finalizzata ad agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari con riguardo all’edilizia convenzionata. Già quella norma infatti prevedeva che per l’applicazione di tale procedura il venditore corrispondesse al Comune un corrispettivo da calcolarsi secondo le modalità indicate e sulla base dell’individuazione di parametri che dovevano essere stabiliti a livello ministeriale, tramite un decreto attuativo del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Di conseguenza, è già a partire dal 2011 che viene affrontata la questione dell’affrancazione dal vincolo: esso non può essere rimosso, se non attraverso appunto l’applicazione delle specifiche norme previste a tal fine e l’utilizzo dei parametri per il calcolo del corrispettivo da assegnare al Comune, la cui definizione si stabilisce sia appunto di competenza ministeriale.
Successivamente, l’art. 29, comma 16-undecies della Legge 24.02.2012, n. 14 (conversione del decreto-legge 29.12.2011, n. 216), interviene a modificare la competenza alla definizione della percentuale necessaria a calcolare il valore del corrispettivo di svincolo da attribuire al Comune. La novella normativa prevede infatti che “A decorrere dal 01.01.2012, la percentuale di cui al comma 49-bis dell’articolo 31 della legge 23.12.1998, n. 448, è stabilita dai comuni.”
In questo modo la competenza a stabilire le modalità di calcolo del corrispettivo di svincolo di fatto viene trasferita ai Comuni, eliminando in tal modo la necessità dell’emanazione del decreto attuativo del Ministero dell’Economia e delle finanze.
Tuttavia, è più recentemente intervenuta una ulteriore modifica alla formulazione del comma 49-bis dell’art. 31 della legge 448/1998 che riprendendo e correggendo la formulazione originaria, ha così di nuovo assegnato al Ministero dell’Economia e delle Finanze la competenza in materia di individuazione delle percentuali di calcolo del corrispettivo di svincolo.
Infatti, la legge n. 136 del 17.12.2018 (di conversione, con modificazioni, del D.L. n. 119 del 23.10.2018), ove l’art. 25-undecies sostituisce integralmente il comma 49-bis e introduce il comma 49-quater dell’art. 31 della L. 448/1998 come segue:
   "49-bis. I vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché del canone massimo di locazione delle stesse, contenuti nelle convenzioni di cui all'articolo 35 della legge 22.10.1971, n. 865, e successive modificazioni, per la cessione del diritto di proprietà o per la cessione del diritto di superficie, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con atto pubblico o scrittura privata autenticata, stipulati a richiesta delle persone fisiche che vi abbiano interesse, anche se non più titolari di diritti reali sul bene immobile, e soggetti a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari, per un corrispettivo proporzionale alla corrispondente quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto di superficie, in misura pari ad una percentuale del corrispettivo risultante dall'applicazione del comma 48 del presente articolo. La percentuale di cui al presente comma è stabilita, anche con l'applicazione di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281. Il decreto di cui al periodo precedente individua altresì i criteri e le modalità per la concessione da parte dei comuni di dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancazione dal vincolo. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano agli immobili in regime di locazione ai sensi degli articoli da 8 a 10 della legge 17.02.1992, n. 179, ricadenti nei piani di zona convenzionati;
   49-quater. In pendenza della rimozione dei vincoli di cui ai commi 49-bis e 49-ter, il contratto di trasferimento dell'immobile non produce effetti limitatamente alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato. L'eventuale pretesa di rimborso della predetta differenza, a qualunque titolo richiesto, si estingue con la rimozione dei vincoli secondo le modalità di cui ai commi 49-bis e 49-ter. La rimozione del vincolo del prezzo massimo di cessione comporta altresì la rimozione di qualsiasi vincolo di natura soggettiva
”.
Questa nuova formulazione della norma, collocata nel suo quadro evolutivo più generale, risulta dunque molto chiara per la risposta ai tre quesiti ammissibili proposti dal Comune di Arconate.
In primo luogo,
si conferma che la possibilità di svincolo può avvenire solamente tramite la procedura di affrancazione prevista, in secondo luogo che la competenza alla definizione della percentuale necessaria al calcolo del corrispettivo dovuto al Comune, viene sottratta alla potestà decisionale del Comuni e ritorna ad essere a tutti gli effetti di natura ministeriale.
In terzo luogo,
la novella inserisce nel quadro regolatorio un nuovo aspetto non definito in precedenza, attribuendo allo stesso decreto attuativo del Ministero dell’Economia e delle Finanze il compito di individuare le modalità che dovranno seguire i Comuni per concedere le dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancamento e dunque, si intende, le eventuali modalità e forme di garanzia delle dilazioni stesse.
Il quarto quesito posto dal Comune di Arconate, inammissibile sotto il profilo oggettivo in quanto riferito all’interpretazione di questioni relative a rapporti economici tra soggetti privati, non può essere trattato nel merito (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 25.09.2019 n. 368).

IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI: Prestazioni professionali a titolo gratuito: i Professionisti Tecnici attaccano la sentenza del TAR.
Il commento della Rete Professioni Tecniche sul pronunciamento dello scorso 30 settembre del Tar Lazio che dichiara legittimo un bando del Ministero dell’Economia che non prevedeva compenso (31.10.2019 - link a www.casaeclima.com).

INCARICHI PROFESSIONALI: Attività professionali a titolo gratuito e sentenza TAR: presentata interrogazione al Senato.
La questione sollevata dal TAR Lazio è giunta all’attenzione del Parlamento, del Ministro della Giustizia e del MEF
(14.10.2019 - link a www.casaeclima.com).
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Al riguardo, si legga l'interrogazione a risposta scritta Atto n. 4-02259 pubblicato il 09.10.2019, nella seduta n. 153, a firma dei Senatori De Bertoldi e Ciriani (link a www.senato.it).

INCARICHI PROFESSIONALITar Lazio: legittima la previsione di attività professionali a titolo gratuito.
Dichiarato legittimo l'avviso pubblico del Ministero dell'Economia nel quale si chiedeva la manifestazione di interesse per incarichi di consulenza a costo zero
(03.10.2019 - link a www.casaeclima.com).

INCARICHI PROFESSIONALIIl professionista può fare anche gratis consulenze per la PA. Il Tar Lazio boccia il ricorso sul bando Mef. Non conta neanche l’equo compenso.
Il rapporto tra un’amministrazione pubblica e un professionista può essere a titolo gratuito, se la consulenza ha regole molto flessibili e dà porta arricchimento professionale.
Il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la sentenza 30.09.2019 n. 11411, torna sul tema, delineando le condizioni perché sia possibile una collaborazione senza compenso.
La pronuncia si riferisce a un avviso pubblicato a febbraio dal ministero dell’Economia alla ricerca di un supporto tecnico ad elevato contenuto specialistico di professionalità altamente qualificate per svolgere consulenze a titolo gratuito, sul diritto nazionale ed europeo societario, bancario e dei mercati e intermediari finanziari (in vista anche dell’adeguamento dell’ordinamento nazionale a quello comunitario).
L’avviso era rivolto a esponenti del mondo accademico e professionisti (requisito di ammissione era una consolidata esperienza di almeno cinque anni nel rispettivo settore) e prevedeva una durata biennale del rapporto, senza rinnovo e con possibilità per il professionista di recedere (con preavviso di 30 giorni) ma con obbligo di portare a termine un eventuale studio che avesse iniziato.
Il Tar evidenzia anzitutto che l’avviso aveva ad oggetto una consulenza eventuale e occasionale (seppure da svilupparsi in due anni), che, proprio per tale condizione di fondo, non poteva qualificarsi come contratto di lavoro autonomo.
Le modalità di affidamento in base all’articolo 7, comma 6, del Dlgs 165/2001 non sono quindi applicabili, anche perché l’avviso prevedeva la possibilità, per il professionista, di recedere in ogni momento.
Secondo i giudici, l’obbligo di preavviso obbedisce a mera esigenza organizzativa (l’amministrazione ha necessità di conoscere ex ante su quali professionalità può contare in un determinato periodo), mentre l’obbligo di concludere l’incarico è funzionale ad un’azione della pubblica amministrazione efficace, che persegue il buon andamento: un’interruzione potrebbe causare perdite di tempo e degli apporti qualificati.
Il Tar ha pure chiarito che il rapporto non può configurarsi come appalto di servizi professionali: mancavano nell’avviso la previsione del numero ben definito di incarichi da conferire, dell’individuazione puntuale dell’oggetto e della consistenza di ciascun incarico, nonché una selezione vera e propria, con graduatoria finale.
Così il Tar afferma quindi la legittimità del carattere gratuito della consulenza, rilevando che nel nostro ordinamento non c’è alcun divieto in tal senso. E precisa che la disciplina dell’equo compenso non si applica, proprio perché il compenso non c’è. Nulla impedisce al professionista, senza incorrere in alcuna violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare la propria consulenza senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in denaro.
Il professionista può invece in questo caso trarre vantaggi di natura diversa, in termini di arricchimento professionale legato alla partecipazione ad eventuali tavoli, allo studio di particolari problematiche ed altro, nonché quale possibilità di far valere tutto ciò all’interno del proprio curriculum vitae. Tale miglioramento professionale riguarda peraltro sia i giovani professionisti, sia i soggetti con maggiore esperienza (articolo Il Sole 24 Ore del 02.10.2019).

INCARICHI PROFESSIONALI: Incarichi professionali a titolo gratuito nella P.A.: quando sono legittimi. Il Tar Lazio chiarisce a quali condizioni è possibile affidare a dei professionisti incarichi privi di compenso economico e consulenze a titolo gratuito.
Non esiste un divieto per le Pubbliche Amministrazione di conferire incarichi professionali a titolo gratuito, in particolare se si tratta di consulenza a carattere eventuale ed occasionale, mentre il professionista ottiene vantaggi curriculari e di crescita professionale.
La giustizia amministrativa torna sulla questione della legittimità delle procedure di affidamento di incarichi professionali a professionisti senza un compenso, contro i quali gli ordini professionali hanno in questi anni intrapreso una lotta decisa.
Secondo il Tar Lazio, è legittima la procedura del Ministero dell’Economia, con la quale veniva ricercato un soggetto altamente specializzato, al fine di svolgere consulenze a titolo gratuito, che avevano ad oggetto “il diritto nazionale ed europeo societario, bancario e dei mercati e intermediari finanziari, in vista anche dell’adozione o integrazione di normative primarie e secondarie”.
A parere dei giudici amministrativi, per le Pubbliche Amministrazioni non esiste un divieto di incarichi a titolo gratuito, neanche per effetto dell’obbligo di equo compenso.
Nulla impedisce, infatti, al professionista, senza incorrere in alcuna violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare la propria consulenza senza pretendere e ottenere alcun corrispettivo in denaro, mentre il professionista stesso può ricavare stimoli professionali e vantaggi curriculari.
La consulenza occasionale non è un incarico di lavoro autonomo o un appalto professionale
L’incarico affidato dal Ministero dell’Economia era di durata biennale, era previsto senza possibilità di rinnovo, ma con possibilità, per il professionista, di recedere, con preavviso di 30 giorni, fermo restando l’obbligo, per lo stesso, di portare a termine un eventuale studio che avesse iniziato.
A parere della sentenza in commento, il carattere eventuale ed occasionale della consulenza, seppure nell’arco temporale ordinariamente di due anni, non la rende qualificabile come contratto di lavoro autonomo.
Ciò viene desunto anche dalla previsione della possibilità, per il professionista, di porre comunque fine unilateralmente all’incarico in qualunque momento, senza che militino in senso contrario il preavviso di 30 giorni per esercitare tale diritto né la previsione dell’obbligo, per il professionista, di concludere la propria attività su eventuali questioni in corso.
L’obbligo di preavviso non eliminerebbe il carattere eventuale della consulenza, ma obbedirebbe ad una mera esigenza organizzativa: in altre parole, l’Amministrazione ha necessità di conoscere ex ante sull’apporto di quali professionalità nell’esame di questioni rilevanti può contare in un determinato periodo, dato che un’interruzione potrebbe determinare perdite di tempo e degli apporti qualificati già conferiti dai professionisti che non intendano più portare avanti la consulenza.
Dall’altro lato, la procedura non era un servizio professionale da svolgere sulla base del codice appalti, data l’assenza di una previsione del numero ben definito di incarichi da conferire, dell’individuazione puntuale dell’oggetto e della consistenza di ciascun incarico, nonché mancando una selezione vera e propria, con una graduatoria finale.
La possibilità di un incarico a titolo gratuito non è vietato dalla legge, e anzi è nell’interesse del professionista
Secondo la sentenza del Tar Lazio, nel nostro ordinamento non si rinviene alcun divieto di conferire incarichi a titolo gratuito.
Infatti lo stesso obbligo di un equo compenso deve intendersi nel senso che, laddove il compenso in denaro sia stabilito, esso non possa che essere equo. Mentre non si può desumere un obbligo implicito di onerosità di tutte le prestazioni.
E pertanto nessuna norma impedisce al professionista (secondo il TAR senza incorrere in alcuna violazione, neppure del Codice deontologico) di prestare la propria consulenza senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in denaro.
I vantaggi per il professionista che presta la propria opera a titolo gratuito
L’attività di consulenza, pur non dando vantaggi economici, potrebbe arrecare vantaggi di natura diversa, in termini di arricchimento professionale legato alla partecipazione ad eventuali tavoli, allo studio di particolari problematiche ed altro, nonché quale possibilità di far valere tutto ciò all’interno del proprio curriculum vitae, in particolare per professionisti ancora giovani che, sebbene qualificati, trovino ancora molti stimoli professionali nell’attività descritta nell’avviso e ravvisino altresì nella stessa un’opportunità per arricchire il proprio curriculum.
D’altronde anche professionisti con un bagaglio professionale consistente potrebbero avere interesse, in quanto stimolante, a contribuire, con la propria professionalità, all’elaborazione di norme per l’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari, oggetto della consulenza (02.10.2019 - commento tratto da www.giurdanella.it).
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... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dell’avviso pubblico del Ministero dell’Economia e delle Finanze in data 27.02.2019, di manifestazione di interesse per il conferimento di incarichi di consulenza a titolo gratuito sul diritto nazionale ed europeo societario, bancario e dei mercati e intermediari finanziari, in vista anche dell’adozione o integrazione di normative primarie e secondarie, ai fini, tra l’altro, dell’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive e regolamenti comunitari;
...
I - Con avviso pubblicato in data 27.02.2019 sul sito web del Ministero dell’Economia e delle Finanze, detta Amministrazione ha reso noto che intendeva cercare un supporto tecnico ad elevato contenuto specialistico di professionalità altamente qualificate per svolgere consulenze a titolo gratuito, sul diritto nazionale ed europeo societario, bancario e dei mercati e intermediari finanziari, in vista anche dell’adozione o integrazione di normative primarie e secondarie, ai fini, tra l’altro, dell’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive e regolamenti comunitari.
Detto avviso era diretto ad esponenti del mondo accademico e professionisti. Ed infatti, quale requisito di ammissione, veniva richiesta “consolidata e qualificata esperienza accademica e/o professionale documentabile (di almeno 5 anni), anche in ambito europeo o internazionale, negli ambiti tematici del diritto societario, bancario, pubblico dell’economia o dei mercati finanziari o dei principi contabili e bilanci societari; lingua inglese fluente”.
Era prevista una durata biennale, senza possibilità di rinnovo, ma con possibilità, per il professionista, di recedere, con preavviso di 30 giorni, fermo restando l’obbligo, per lo stesso, di portare a termine un eventuale studio che avesse iniziato.
II - Avverso tale avviso il ricorrente, che dichiara di essere avvocato con esperienza ultratrentennale nelle materie in questione, ha proposto il gravame in esame, rappresentando di non avervi aderito, stante il carattere gratuito dell’incarico, che contesta in questa sede.
I motivi di censura dedotti sono i seguenti:
   1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165/2001 - omissione o carenza dei requisiti essenziali dell’atto amministrativo - omessa o carente motivazione - violazione e falsa applicazione della legge n. 241/1990 e dei principi di legge e regolamento in materia di azione amministrativa - eccesso di potere - eccesso di potere per violazione dei canoni di congruità, adeguatezza, imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa - carenza di istruttoria e motivazione - violazione del principio di par condicio.
L’oggetto dell’avviso sarebbe una prestazione lavorativa di natura professionale.
La stipula di un contratto scritto, la durata prolungata e predeterminata, l’obbligo del preavviso di 30 giorni in caso di rescissione, e ancor di più “l’obbligo del consulente di concludere la propria attività su eventuali questioni in corso” sarebbero tutti elementi che concorrono ad affermare che la consulenza in parola sia appunto, come dice la parola stessa, una “consulenza”, ossia una prestazione professionale.
Essendo prevalente il “carattere personale o intellettuale della prestazione richiesta”, anziché quello imprenditoriale, l’incarico al professionista esterno sarebbe riconducibile al contratto d’opera (art. 2222 cod. civ.), in particolare, al contratto d’opera intellettuale (art. 2229 cod. civ.),
Dall’esame degli atti si dedurrebbe inoltre che il Ministero intimato intende conferire un incarico individuale ai sensi dell’art. 7, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165/2001.
In tal senso deporrebbero, oltre alla natura della prestazione ed ai requisiti richiesti, che ricalcano quelli della norma citata, anche la pubblicazione nella Sezione Concorsi del sito web, la previsione di un incarico biennale non rinnovabile, la specificazione che la competenza “non è rinvenibile nella struttura”, la predeterminazione di “durata, oggetto e compenso della collaborazione”.
Essa costituirebbe certamente una prestazione lavorativa resa in un rapporto di lavoro autonomo di natura professionale.
Ciò comporterebbe che al rapporto di specie si applicheranno certamente l’art. 36 Cost. e la nuova disciplina dell’equo compenso, che escludono in radice la possibilità di stipulare un contratto professionale a titolo gratuito tra professionista e Pubblica Amministrazione.
In ogni caso, anche considerando la fattispecie in esame come appalto di servizi, pur se inquadrata nella fattispecie di cui all’art. 57, comma 2, lettera b), del d.lgs. 163/2006 ed all’art. 36, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 50/2016, o comunque rientrante nella categoria dei “contratti esclusi” ai sensi degli artt. 17 e 4 del medesimo decreto, avrebbero dovuto osservarsi i principi generali dell’agere amministrativo (art. 97 Cost.), ovvero dell’economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità, e si sarebbe comunque dovuta applicare la disciplina dell’equo compenso, che ad oggi è estesa ad ogni rapporto tra professionisti e Pubblica Amministrazione.
Come ampiamente motivato in precedenza, troverebbero applicazione la disciplina generale di cui all’art. 7, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165/2001 e le disposizioni normative nel frattempo intervenute in materia di incarichi.
Perciò l’Amministrazione dovrebbe: a) verificare che la prestazione richiesta sia inerente alle proprie finalità istituzionali (c.d. inerenza); b) avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno (c.d. non intraneità); c) sul piano qualitativo, essere motivata da una particolare expertise di carattere particolarmente qualificato (c.d. specialità) disponibile solo sul mercato, per l’espletazione dell’incarico esterno.
L’avviso sarebbe completamente carente di motivazione, atteso che non solo questa mancherebbe in ordine all’accertamento reale sull’assenza di servizi o di professionalità, interne all’Ente, in grado di espletare l’incarico –essa si limiterebbe al solo mero inciso “non rinvenibile all’interno della struttura”-, ma soprattutto non sarebbe stato neanche mai chiarito il riferimento normativo della procedura avviata.
Nella specie tra gli elementi essenziali dell’atto amministrativo sarebbero assenti il preambolo, la motivazione (come già evidenziato prima), il luogo e la data in cui è stato emanato il provvedimento e la determinazione del compenso.
Correlato all’obbligo di determinare il compenso vi sarebbe quello di acquisire il parere obbligatorio del Collegio dei revisori dell’Ente, ai sensi dell’art. 1, comma 42, della legge n. 311/2004, prima di emanare il relativo avviso, il che nel caso in esame non sarebbe avvenuto o, quanto meno, non risulta richiamato nell’atto.
A questo si aggiungerebbe il necessario carattere eccezionale e temporaneo dell’incarico de quo, che non sembrerebbe rispettato, stante la durata biennale del contratto.
   2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165/2001 - violazione della legge n. 247/2012 - violazione dell’art. 4 del d.lgs. n. 50/2016 - violazione del D.M. n. 55/2014 - violazione della legge 04.12.2017, n. 172 - violazione dell’articolo 19-quaterdecies, comma 3, del decreto legge 16.10.2017, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.12.2017, n. 172 - violazione del diritto all’equo compenso - eccesso di potere per travisamento dei presupposti, sviamento, disparità di trattamento, manifesta illogicità, irragionevolezza ed ingiustizia.
L’avviso propone un affidamento a titolo gratuito per tutti gli incarichi di consulenza; ciò sarebbe abnorme ed irragionevole.
L’impugnata clausola in esame ricadrebbe nella categoria delle “clausole immediatamente escludenti”, da impugnare immediatamente con il bando di indizione della procedura selettiva, senza attendere l’atto di approvazione della graduatoria definitiva o l’aggiudicazione, che definisce la procedura concorsuale.
Sussisterebbe un netto contrasto con la recente riforma dell’equo compenso.
La legge n. 172/2017, di conversione del d.l. n. 148/2017 (c.d. Decreto Fiscale), con l’art. 19-quaterdecies ha introdotto l’art. 13-bis alla Legge Forense (legge n. 247/2012), sull’equo compenso. Il medesimo articolo ha esteso a tutti i lavoratori autonomi l’applicazione della previsione originariamente a favore degli avvocati e al contempo ne ha previsto l’applicazione anche nei confronti delle prestazioni a favore della Pubblica Amministrazione.
La Legge di Bilancio 2018 (legge n. 205/2017), ai commi 487 e 488 dell’art. 1, ha allargato ulteriormente questa disciplina, modificando l’art. 13-bis.
In particolare, vengono presunti non equi (con presunzione che non ammette prova contraria) i compensi inferiori a quelli previsti dalle apposite tabelle ministeriali: per gli avvocati si deve fare riferimento ai “parametri” individuati in base al D.M. del 2014.
Tali compensi sarebbero da considerare nulli, proprio in quanto non equi, senza possibilità di derogare a tale disciplina.
La norma parla di “prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti”, per cui non distingue tra appalti di servizi, incarichi legali fiduciari o incarichi professionali ex art. 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001.
La più recente giurisprudenza amministrativa, in un caso simile a quello qui in esame, ha chiarito che la P.A. non può richiedere prestazioni gratuite ai professionisti ed è illegittimo il bando che prevede prestazioni professionali a titolo gratuito (Tar Campania–Napoli - sezione I - ordinanza 24-25.10.2018, n. 1541).
Alla luce di quanto sopra, sarebbe priva di qualsiasi fondamento la dichiarazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze nel suo comunicato stampa, secondo cui: “Esula completamente da questi rapporti, quindi, il tema dell’equo compenso che si riferisce a rapporti professionali di lavoro nell’ambito del settore privato”.
La gratuità non sarebbe compatibile con l’obbligo di garantire il principio dell'equo compenso che la legge impone ora alle Pubbliche Amministrazioni.
Questo principio è stato già affermato dalla più recente giurisprudenza amministrativa: “La l. 04.12.2017, n. 172, nel convertire d.l. 16.10.2017, n. 148, vi ha inserito l’art. 19-quaterdecies, il quale, al comma 3, stabilisce che la pubblica amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della citata legge di conversione” (Tar Calabria, sentenza n. 1507/2018).
Peraltro l’equo compenso è applicabile, oltre che alle prestazioni degli avvocati, anche a quelle degli altri professionisti di cui all’art. 1 della legge 22.05.2017, n. 81, comprendendo iscritti agli ordini e collegi. E sul punto l’art. 1 della legge n. 81/2017 fa esplicitamente riferimento “ai rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del codice civile, ivi inclusi i rapporti di lavoro autonomo che hanno una disciplina particolare ai sensi dell'articolo 2222 del codice civile”, ossia proprio ai contratti d’opera stipulati da qualsiasi professionista, in cui rientrano certamente anche gli incarichi ex art. 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001, di cui al caso di specie.
Nonostante l’avviso impugnato si rivolga ai professionisti in genere, senza specificare una categoria in particolare, dal momento che esso ha ad oggetto un incarico di consulenza legale, esso risulterebbe indirizzato essenzialmente agli avvocati (art. 2 l. 247/2012).
Il D.M. 55 del 2014, che pone i parametri per la professione forense, inclusi quelli per consulenze stragiudiziali, fissa come principio generale che “il compenso dell’avvocato e proporzionato all’importanza dell’opera” (art. 2).
Un’offerta pari a zero sarebbe quindi in palese contrasto con tale principio.
Il D.M. parametri n. 37, approvato l’08.03.2018 ed in vigore a partire dal 27 aprile del medesimo anno, ha fissato dei minimi inderogabili nella liquidazione giudiziale del compenso degli avvocati, proprio in applicazione del principio dell’equo compenso.
Quindi l’illegittimità del bando riguarderebbe non soltanto la proposta di una prestazione a titolo gratuito, ma anche il mancato rispetto dei parametri professionali.
   3) Violazione degli artt. 1, 4, 35, 36 e 97 Cost. - eccesso di potere per irragionevolezza - violazione dell’art. 2233 c.c. e degli artt. 6, 9, 23 e 43 del Codice deontologico - eccesso di potere sotto i seguenti profili: sviamento dalla causa tipica, illogicità, ingiustizia manifesta, travisamento ed erroneità dei presupposti - violazione dei principi in materia di indipendenza ed autonomia dei professionisti.
Il compenso previsto nel bando, pari a zero euro, e senza alcun rimborso spese, sarebbe incostituzionale, irragionevole e sproporzionato rispetto all’enorme mole del lavoro e alla quantità e qualità dell’attività richiesta. Ne conseguirebbero la lesione del decoro e del prestigio del professionista, nonché un danno ai suoi diritti costituzionali.
Al riguardo l’art. 2233 del codice civile, con riferimento all’art. 36 Cost., statuisce che nel contratto di prestazione d’opera intellettuale “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguato all’importanza dell’opera e al decoro della professione”.
Vi sarebbe quindi un coerente sviluppo normativo ed interpretativo giurisprudenziale che conferma l’obbligo del rispetto di soglie numeriche minime, volto a delineare un compenso equo, e quindi legittimo, perché proporzionato all’opera e conforme al decoro professionale, per cui non potrebbero farsi distinzioni, in ordine all’equità del compenso, tra incarichi di lavoro autonomo, incarichi fiduciari ed appalti di servizi.
   4) Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, lett. ii), 4, 95, 97 del d.lgs n. 50/2016; degli artt. 3 e 97 Cost. e degli artt. 3 e 6 della legge n. 241/1990 - eccesso di potere per illogicità, erroneità dei presupposti e travisamento dei fatti.
L’offerta economica proposta dall’Amministrazione, che offre un compenso pari a zero per una consulenza di natura biennale e altamente specialistica, sarebbe anche distorsiva della competizione concorrenziale.
La compatibilità di un contratto “a titolo gratuito” o a prezzo simbolico con i principi fondamentali del nuovo Codice appalti è stata più volte criticata dalla giurisprudenza amministrativa, e in particolare il Tar Calabria, in una recentissima pronuncia (Tar Calabria, sentenza 418/2018 del 16.07.2018)
Il Tar, dopo aver premesso che l’operatore economico è esonerato dal poter o dover proporre la domanda di partecipazione alla gara in caso di offerta dal valore meramente simbolico e che il bando “impone condizioni negoziali tali da rendere il rapporto contrattuale economicamente non conveniente e matematicamente in perdita”, ha ritenuto: “Ne deriva che coglie nel segno la difesa della ricorrente laddove afferma che l’abnorme base d’asta fissata viola il principio della concorrenza effettiva fissato dall’art. 95, comma 1, del codice degli appalti.”.
Il potere discrezionale della P.A. di definire l’importo a base d’asta non sarebbe dunque libero o assoluto, ma sarebbe sindacabile attraverso il parametro della logicità e ragionevolezza dell’azione amministrativa, nella misura in cui non viene contestualizzato o filtrato attraverso una corretta analisi di mercato ed un’attenta valutazione dei prezzi.
Sarebbe evidente l’effetto distorsivo della concorrenza e del mercato di un bando che obbliga i partecipanti a prestare la propria opera gratuitamente.
L’affidamento degli incarichi di consulenza legale deve assolutamente privilegiare il profilo curriculare del professionista rispetto al solo criterio economico. Tale principio sarebbe già stato affermato dal Tar Lecce che, accogliendo la richiesta di sospensione proposta nei confronti di un bando per servizi legali, ha ritenuto il sistema dell’aggiudicazione in base al criterio del minor prezzo non coerente con il vigente ordinamento e, comunque, in contrasto con il decoro della professione forense (cfr. Tar Lecce, ordinanza n. 21/2017).
Nel caso di specie la proposta di una consulenza a titolo completamente gratuito, in contrasto con il decoro della professione, non favorirebbe la partecipazione dei migliori e dei più capaci, violando il principio di massima partecipazione.
Peraltro, ad aggravare l’irragionevolezza del bando, la P.A. consente la partecipazione solo a professionisti altamente qualificati, quelli che probabilmente grazie all’esperienza acquisita e all’avviamento professionale consolidato sono i meno interessati a svolgere incarichi per compensi irrisori o addirittura gratuiti.
Perciò l’avviso impugnato, oltre a ledere i diritti dei ricorrenti, non favorirebbe ma anzi danneggerebbe l’interesse della Pubblica Amministrazione.
   5) Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, 3 e 23 della legge n. 247/2012, violazione delle norme a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dei professionisti e degli avvocati, eccesso di potere per traviamento, erroneità dei presupposti e sviamento - violazione dell’art. 36 Cost. dell’art. 2233 c.c., degli artt. 6, 9 e 29 del Codice deontologico, dei principi di autonomia e decoro dei professionisti - violazione dell’art. 97 Cost., nonché dei principi in materia di fissazione della base d’asta e delle regole della massima partecipazione e della leale concorrenza - indeterminatezza della consistenza quantitativa oggettiva dell’attività professionale da fornire.
Il bando si caratterizzerebbe anche per l’indeterminatezza della consistenza quantitativa oggettiva dell’attività professionale da fornire.
Esso parlerebbe solo di attribuzione degli incarichi, ponendo come unico limite la durata biennale del contratto, senza chiarire quali e quante siano le attività rientranti nel conferimento dell’incarico, le modalità di svolgimento e la forma.
L’indeterminatezza del contenuto delle prestazioni richieste e la gratuità del compenso sarebbero in grado di compromettere, con il decoro dell’ordine e dei professionisti, il meccanismo della competizione ed in ogni caso non consentirebbero agli operatori economici, e nello specifico alla parte ricorrente, di formulare una seria domanda di partecipazione alla procedura sulla base di un effettivo calcolo di convenienza.
...
VI - Preliminarmente occorre accertare se il ricorso sia o meno ammissibile, tenuto conto che il ricorrente, in possesso dei requisiti, non ha presentato la propria adesione all’avviso oggetto di contestazione in questa sede.
VI.1 - In proposito si rammenta l’eccezione di inammissibilità opposta dall’Amministrazione resistente, sul rilievo che la mancata partecipazione priverebbe il ricorrente della legittimazione processuale, non essendo lo stesso titolare di una posizione differenziata qualificata.
Deve considerarsi che, secondo la prospettazione del ricorrente, la previsione, in particolare, del carattere gratuito della ‘prestazione’ richiesta renderebbe l’offerta abnorme ed irragionevole.
Da ciò deriverebbe il carattere escludente della clausola in questione, che conseguentemente sarebbe immediatamente impugnabile, anche in assenza di partecipazione.
VI.2 - Il Collegio ritiene che, ai soli fini dell’individuazione della legittimazione processuale e della conseguente ammissibilità del ricorso e fatto salvo naturalmente l’accertamento nel merito, la richiamata prospettazione induce logicamente a sostenere che il ricorso sia ammissibile, attesa la natura asseritamente escludente, nei sensi sopra specificati, della previsione della gratuità dello ‘incarico’.
VII - Evidenziata l’ammissibilità del ricorso, se ne deve, tuttavia, affermare l’infondatezza.
VIII - Occorre inquadrare correttamente l’oggetto dell’avviso, impugnato col ricorso in esame.
Con il predetto avviso, diretto a giuristi del mondo accademico e/o forense, in possesso di esperienza di almeno 5 anni documentabile, anche a livello europeo o internazionale, negli ambiti tematici del diritto societario, bancario, pubblico dell'economia o dei mercati finanziari o dei principi contabili e bilanci societari, si chiede agli stessi una mera manifestazione di interesse a prestare, senza che sia prefissata la frequenza e l’entità dell’eventuale ‘prestazione’ nell’arco temporale di due anni, la propria consulenza nelle stesse suddette materie “in vista anche dell’adozione e/o integrazione di normative primarie e secondarie ai fini, tra l’altro, dell'adeguamento dell'ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari”.
VIII.1 - La genericità non costituisce un vizio dell’avviso ma un elemento che lo caratterizza, in forza del quale anzi esso è assolutamente legittimo.
Come, infatti, è stato anche precisato con il comunicato stampa che ha fornito i dovuti chiarimenti in ordine alla sua portata, all’esito della valutazione dei curricula obbligatoriamente inviati dai su indicati professionisti, non s’instaura alcun rapporto di lavoro né è prevista la fornitura di un servizio professionale.
IX - Proprio in ragione del carattere eventuale ed occasionale della consulenza, seppure nell’arco temporale ordinariamente di due anni, non può questa qualificarsi come contratto di lavoro autonomo, che, rispetto alle Pubbliche Amministrazioni, è ammissibile se si ravvisano tutti i presupposti indicati all’art. 7, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165/2001, di cui in questa sede si lamenta la violazione.
IX.1 - Ciò si desume ulteriormente dalla previsione della possibilità, per il professionista, di porre comunque fine unilateralmente all’incarico in qualunque momento.
IX.2 - Non militano in senso contrario né il prescritto preavviso di 30 giorni per esercitare tale diritto né la previsione dell’obbligo, per il professionista, di concludere la propria attività su eventuali questioni in corso.
Per quanto concerne il preavviso, esso obbedisce ad una mera esigenza organizzativa: in altre parole, l’Amministrazione ha necessità di conoscere ex ante sull’apporto di quali professionalità nell’esame di questioni rilevanti può contare in un determinato periodo.
L’obbligo di concludere l’incarico è funzionale ad un’azione della Pubblica Amministrazione efficace, che persegue il buon andamento: un’interruzione potrebbe, infatti, determinare perdite di tempo e degli apporti qualificati già conferiti dai professionisti che non intendano più portare avanti la consulenza.
IX.3 – Alla luce di quanto evidenziato non si ravvisa la dedotta violazione delle norme appena citate.
X - Non si tratta neppure di servizio il cui affidamento è sottoposto alla disciplina del Codice dei Contratti pubblici.
X.1 - Conduce a tale conclusione l’assenza della previsione del numero ben definito di incarichi da conferire, dell’individuazione puntuale dell’oggetto e della consistenza di ciascun incarico, nonché di una selezione vera e propria, con una graduatoria finale.
Perciò è evidente che nessun obbligo di applicare le norme del d.lgs. n. 50/2016 sussisteva in capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze.
X.1 - La prescrizione di requisiti minimi si rendeva invece evidentemente necessaria per acquisire manifestazioni di interesse solo da parte di soggetti qualificati che, ove ritenuti idonei sulla base della valutazione dei propri curricula, possano effettivamente dare un contributo rilevante nelle materie e nell’ambito delle attività indicate nell’avviso censurato.
XI - Alla luce dei rilievi svolti sinora,
il carattere gratuito della consulenza appare legittimo.
XI.1 -
Deve rilevarsi in proposito che nel nostro ordinamento non si rinviene alcun divieto in tal senso.
XI.2 -
Non può ritenersi che la disciplina dell’equo compenso, diffusamente ed analiticamente descritta dalla parte ricorrente ed erroneamente invocata a sostegno delle proprie tesi, presenti tale carattere ostativo. Essa deve, infatti, intendersi nel senso che, laddove il compenso in denaro sia stabilito, esso non possa che essere equo.
XI.3 -
Nulla impedisce, tuttavia, al professionista, senza incorrere in alcuna violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare la propria consulenza, in questo caso richiesta solo in modo del tutto eventuale nei due anni stabiliti, senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in denaro.
Lo stesso può invece in questo caso trarre vantaggi di natura diversa, in termini di arricchimento professionale legato alla partecipazione ad eventuali tavoli, allo studio di particolari problematiche ed altro, nonché quale possibilità di far valere tutto ciò all’interno del proprio curriculum vitae.
Non bisogna dimenticare al riguardo che, se è vero che viene richiesta una determinata esperienza documentabile negli ambiti di materia indicati nell’avviso, è altresì vero che non si tratta di un’esperienza che può essere vantata solo da professionisti che lavorano da lunghissimo periodo e che per ciò stesso potrebbero non ricevere stimoli e vantaggi in termini curriculari.
Il vaglio dei curricula garantisce al Ministero di scegliere solo quanti siano ritenuti in concreto in grado di fornire un apporto valido, il che assicura lo stesso in ordine al livello qualitativo elevato della consulenza, ove acquisita.
Tuttavia potrebbe trattarsi di professionisti ancora giovani che, sebbene qualificati, trovino ancora molti stimoli professionali nell’attività descritta nell’avviso e ravvisino altresì nella stessa un’opportunità per arricchire il proprio curriculum.
D’altronde anche professionisti con un bagaglio professionale consistente potrebbero avere interesse, in quanto stimolante, a contribuire, con la propria professionalità, all’elaborazione di norme per l’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari.

XII - Dalle argomentazioni svolte nella presente disamina deriva che l’avviso impugnato è legittimo ed il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 30.09.2019 n. 11411 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: E' legittimo l'avviso pubblico (nella fattispecie del MEF) per il conferimento di incarichi di consulenza legale a titolo gratuito.
Il carattere gratuito della consulenza appare legittimo.
Deve rilevarsi in proposito che nel nostro ordinamento non si rinviene alcun divieto in tal senso.
Non può ritenersi che la disciplina dell’equo compenso presenti tale carattere ostativo. Essa deve, infatti, intendersi nel senso che, laddove il compenso in denaro sia stabilito, esso non possa che essere equo.
Nulla impedisce, tuttavia, al professionista, senza incorrere in alcuna violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare la propria consulenza, in questo caso richiesta solo in modo del tutto eventuale nei due anni stabiliti, senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in denaro.
Lo stesso può invece in questo caso trarre vantaggi di natura diversa, in termini di arricchimento professionale legato alla partecipazione ad eventuali tavoli, allo studio di particolari problematiche ed altro, nonché quale possibilità di far valere tutto ciò all’interno del proprio curriculum vitae.
Non bisogna dimenticare al riguardo che, se è vero che viene richiesta una determinata esperienza documentabile negli ambiti di materia indicati nell’avviso, è altresì vero che non si tratta di un’esperienza che può essere vantata solo da professionisti che lavorano da lunghissimo periodo e che per ciò stesso potrebbero non ricevere stimoli e vantaggi in termini curriculari.
Il vaglio dei curricula garantisce al Ministero di scegliere solo quanti siano ritenuti in concreto in grado di fornire un apporto valido, il che assicura lo stesso in ordine al livello qualitativo elevato della consulenza, ove acquisita.
Tuttavia potrebbe trattarsi di professionisti ancora giovani che, sebbene qualificati, trovino ancora molti stimoli professionali nell’attività descritta nell’avviso e ravvisino altresì nella stessa un’opportunità per arricchire il proprio curriculum.
D’altronde anche professionisti con un bagaglio professionale consistente potrebbero avere interesse, in quanto stimolante, a contribuire, con la propria professionalità, all’elaborazione di norme per l’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari.
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... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dell’avviso pubblico del Ministero dell’Economia e delle Finanze in data 27.02.2019, di manifestazione di interesse per il conferimento di incarichi di consulenza a titolo gratuito sul diritto nazionale ed europeo societario, bancario e dei mercati e intermediari finanziari, in vista anche dell’adozione o integrazione di normative primarie e secondarie, ai fini, tra l’altro, dell’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive e regolamenti comunitari;
...
I - Con avviso pubblicato in data 27.02.2019 sul sito web del Ministero dell’Economia e delle Finanze, detta Amministrazione ha reso noto che intendeva cercare un supporto tecnico ad elevato contenuto specialistico di professionalità altamente qualificate per svolgere consulenze a titolo gratuito, sul diritto nazionale ed europeo societario, bancario e dei mercati e intermediari finanziari, in vista anche dell’adozione o integrazione di normative primarie e secondarie, ai fini, tra l’altro, dell’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive e regolamenti comunitari.
Detto avviso era diretto ad esponenti del mondo accademico e professionisti. Ed infatti, quale requisito di ammissione, veniva richiesta “consolidata e qualificata esperienza accademica e/o professionale documentabile (di almeno 5 anni), anche in ambito europeo o internazionale, negli ambiti tematici del diritto societario, bancario, pubblico dell’economia o dei mercati finanziari o dei principi contabili e bilanci societari; lingua inglese fluente”.
Era prevista una durata biennale, senza possibilità di rinnovo ma con possibilità, per il professionista, di recedere, con preavviso di 30 giorni, fermo restando l’obbligo, per lo stesso, di portare a termine un eventuale studio che avesse iniziato.
II - Gli Ordini degli Avvocati di Roma e di Napoli hanno impugnato il predetto avviso, unitamente ai chiarimenti dati su di esso dall’Amministrazione, deducendo i seguenti motivi di doglianza:
   1) Violazione degli artt. 1, 3, 35, 36 e 97 Cost., nonché dell’art. 13-bis, comma 3, della legge 31.12.2012, n. 247 (recante “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”), inserito dall’art. 19-quaterdecies, comma 1, del d.l. 16.10.2017, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.12.2017, n. 172, applicabile alle Pubbliche Amministrazioni in forza del terzo comma dell’art. 19-quaterdecies, comma 3, del d.l. n. 148/2017.
La previsione della gratuità delle prestazioni che il Ministero intimato intende acquisire con la pubblicazione dell’avviso si porrebbe in contrasto con le prescrizioni impartite dalle menzionate disposizioni costituzionali e legislative, che riconoscerebbero l’equo e giusto compenso come principio di carattere generale nel nostro ordinamento.
Il diritto all’equo compenso nello svolgimento di incarichi, anche nei confronti della Pubblica Amministrazione, sarebbe, infatti, garantito sia dalla Costituzione, che tutela il diritto del professionista “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro” (art. 36), sia dalla legge, che correla la retribuzione professionale al “contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale” (art. 13-bis, co. 2, L. 247/2012).
La previsione della gratuità dell’incarico contenuta nell’avviso violerebbe la normativa costituzionale e legislativa anche sotto il profilo del buon andamento dell’organizzazione amministrativa e della ragionevolezza dell’operato della P.A..
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze intende acquisire servizi di consulenza da parte di professionisti dotati di “consolidata e qualificata esperienza accademica e/o professionale” e, nel contempo, pretende di farlo senza esborsi ed oneri a carico dell’Amministrazione.
Tale pretesa violerebbe il principio di proporzionalità e denoterebbe l’omessa o comunque l’erronea ed irrazionale ponderazione di tutti gli interessi compresenti, nonché la mancata considerazione delle conseguenze cui l’Amministrazione espone sia il professionista sia sé stessa ed il pubblico Erario.
Infatti, richiedendo al professionista di sottoscrivere e dunque accettare condizioni lontane da una retribuzione o da un equo compenso, comporterebbe per il medesimo, all’atto della sottoscrizione, la violazione degli artt. 9, 19, 25 e 29 del Codice Deontologico vigente.
Tali disposizioni, da un lato, stabiliscono il divieto di accettazione di un compenso iniquo o lesivo della dignità e del decoro professionale, dall’altro, impongono che le condizioni contrattuali per i servizi legali e per l’attività difensiva non possano tradursi in clausole lesive della dignità e del decoro del professionista.
Inoltre detta pretesa esporrebbe l’Amministrazione al rischio di ricevere prestazioni di scarsa qualità, in quanto non considera il costo/opportunità del professionista a rendere prestazioni in misura correlata al compenso ricevuto, anche in ragione dell’assunzione di responsabilità che comporta lo svolgimento di tale attività.
Eliminare qualunque tipologia di compenso comporterebbe che l’incarico (e quindi l’Amministrazione che ne beneficia) sia sottoposto all’alea della indisponibilità (anche sopravvenuta) a ricoprirlo (ed infatti, l’avviso prevede il diritto di recesso ad nutum, con preavviso di 30 giorni), determinando eventuali avvicendamenti dannosi per il buon andamento dell’Ufficio, lasciando comunque in capo al professionista l’obbligo di “concludere la propria attività su eventuali questioni in corso”.
Nel contempo, la pattuizione di gratuità esporrebbe l’Amministrazione a comportamento opportunistici e, in ipotesi, persino all’azione di nullità del contratto e a quella generale di arricchimento ex art. 2041 c.c. per l’indennizzo della diminuzione patrimoniale subìta dal professionista nell’adempimento di una prestazione resa ad esclusivo vantaggio dell’Amministrazione.
L’Amministrazione non potrebbe utilmente invocare il precedente del Consiglio di Stato n. 4614/2017. Al di là della diversità di circostanze (una su tutte quella relativa alla messa a disposizione, in quel caso, di un rilevantissimo importo di euro 250.000,00 a titolo di rimborso spese, nella specie inesistente), il precedente è stato emesso in relazione ad un procedimento indetto prima dell’introduzione dell’art. 13-bis nella legge 247/2012.
Inoltre la scelta del Ministero, contenuta nell’avviso impugnato, di non remunerare i propri consulenti discriminerebbe irragionevolmente i futuri ed eventuali titolari di tali incarichi rispetto ad altri consulenti, anche della stessa Amministrazione, che già svolgono analoghi compiti di consulenza variamente retribuiti.
Da qui il contrasto anche con l’art. 3 Cost..
   2) Violazione del d.lgs. n. 50/2016 e delle linee guida ANAC n. 12 sull’affidamento dei servizi legali approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 907 del 24.10.2018.
I servizi che il Ministero intimato intende acquisire sono “servizi legali” contemplati dall’Allegato IX del Codice dei Contratti pubblici (nell’ambito del quale rientrano tutti i servizi giuridici che non sono esclusi a norma dell’articolo 17, comma 1, lettera d, del Codice dei contratti pubblici).
Come affermato dall’ANAC nelle menzionate Linee Guida, i relativi affidamenti, non essendo ricompresi, da un punto di vista prestazionale, nell’ambito oggettivo, costituirebbero “appalti”, svolti su richiesta delle stazioni appaltanti nei limiti delle istruzioni ricevute.
Tuttavia la configurazione di un appalto pubblico gratuito, nei termini ivi prefigurati, sarebbe elusiva della normativa pertinente.
Al riguardo si rileva anzitutto che tutto il sistema della contrattazione pubblica è imperniato sulla sinallagmaticità del contratto di appalto, per cui l’esistenza del corrispettivo sarebbe imprescindibile.
Il corrispettivo dovrebbe non soltanto esistere, ma anche essere congruo in relazione all’impegno profuso dal contraente ed essere equo.
Ciò sarebbe garantito dalla Costituzione ed imposto dalla legge.
In proposito le Linee Guida Anac prevedono che, anche per i contratti esclusi ex art. 17, l’Amministrazione debba garantire “l’equità del compenso, nel rispetto dei parametri stabiliti da ultimo con decreto ministeriale 08.03.2018, n. 37”, atteso che “il risparmio di spesa non è il criterio di guida nella scelta che deve compiere l’amministrazione”.
In ogni caso, anche a voler per ipotesi concedere che una remunerazione possa non tradursi in un corrispettivo finanziario, sarebbe comunque inammissibile prevedere che l’incarico sia svolto in perdita, senza quindi una forma di contributo alle spese sostenute.
Peraltro, al di là della gratuità, la scelta del contraente/consulente prefigurata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze nell’avviso impugnato sulla base della sola valutazione curriculare e senza la previsione di un prezzo violerebbe i principi e le disposizioni di cui agli artt. 140 ss. del d.lgs. 50/2016 e, in particolare, quelli sottesi all’articolo 95 in riferimento al criterio di aggiudicazione.
La disciplina dei contratti pubblici prevede che, fra i criteri di aggiudicazione, vi siano il prezzo ed altresì la qualità dell’offerta. In proposito, come affermato da ANAC sempre nelle linee guida n. 12, “la natura dei servizi in questione e l’importanza degli interessi coinvolti suggeriscono, anche per gli affidamenti di minor valore, l’utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”.
Le disposizioni in questione risulterebbero violate anche in quanto l’Amministrazione non ha predeterminato i criteri sulla base dei quali procederà alla selezione, limitandosi alla “valutazione dei curricula”.
L’assenza di una comparazione sulla scorta di criteri predeterminati sarebbe peraltro comprovata dalla mancata previsione di una graduatoria di merito o dell’attribuzione di punteggi.
Si verificherebbe inoltre un’evidente sproporzione tra l’individuazione di requisiti di partecipazione particolarmente qualificanti e il “valore” della commessa.
L’avviso sarebbe altresì irragionevolmente carente dell’indicazione del fabbisogno numerico di professionisti da contrattualizzare e dell’ambito dell’incarico, non essendo specificate le prestazioni richieste, la cui individuazione è rimessa al contratto.
Non consterebbe inoltre che il Ministero abbia fornito motivazioni circa la gratuità e le particolari ragioni di urgenza o emergenza, in virtù delle quali si potrebbe eventualmente giustificare, limitatamente alla procedura così indetta, il ricorso ad una selezione “indeterminata” quanto alla procedura ed all’esito.
Tali circostanze violerebbero l’art. 142, comma 5-quater, del d.lgs. n. 50/2016, in combinato disposto con l’art. 21, che impongono alle Amministrazioni di dotarsi di strumenti di programmazione e di predeterminazione del fabbisogno.
Il provvedimento violerebbe anche il principio di pubblicità degli avvisi, che impone il rispetto delle misure di cui all’art. 142 del d.lgs. 50/2016 e comunque richiede che i soggetti interessati abbiano un agevole accesso, in tempo utile, a tutte le informazioni necessarie relative alla procedura prima che essa sia aggiudicata, in modo da consentire l’eventuale manifestazione di interesse da parte dei professionisti.
   3) Eccesso di potere per difetto di istruttoria - difetto di motivazione.
L’Amministrazione non avrebbe svolto una verifica adeguata né in ordine all’opportunità di individuare un meccanismo di selezione diverso né in relazione alla reale necessità di coinvolgere specifiche professionalità in funzione di impegni determinati.
Inoltre non si comprenderebbe l’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione, all’esito del quale essa ha pubblicato l’avviso de quo.
L’Amministrazione non potrebbe neppure invocare il principio del contenimento della spesa pubblica, in quanto quest’ultimo obiettivo non può essere assicurato violando altre norme di legge, anche e soprattutto di rango costituzionale.
Si impugna anche la nota n. 48 dell’08.03.2019 dell’Ufficio Stampa del Ministero dell’Economia e delle Finanze, con la quale l’Amministrazione ha specificato –a fronte delle polemiche suscitate– che i) l’avviso “non costituisce un’opportunità lavorativa”; ii) la consulenza “non è da intendersi come rapporto di lavoro o fornitura di un servizio professionale”; iii) “l’invito è rivolto a personalità affermate, principalmente provenienti dal mondo accademico, che, in ottica di collaborazione istituzionale, desiderino offrire la propria esperienza in termini di idee e soluzioni tecniche in materie molto complesse”; iv) “la procedura posta in essere dal MEF garantisce al Paese che l’Amministrazione, prima di elaborare norme e disegnare strumenti, assicuri un doveroso confronto con gli esperti di alto profilo competenti in materia che l’Italia sa offrire” e v) che “esula completamente da questi rapporti, quindi, il tema dell’equo compenso che si riferisce a rapporti professionali di lavoro nell’ambito del settore privato”.
I suddetti chiarimenti darebbero ragione di tutti i vizi denunciati innanzi.
Un “confronto con gli esperti di alto profilo competenti in materia” assunto “prima di elaborare norme e disegnare strumenti” sarebbe una richiesta di prestazione d’opera intellettuale e, nello specifico, un servizio di consulenza legale.
Non sarebbe vero nemmeno che l’invito sia rivolto a “personalità affermate, principalmente provenienti dal mondo accademico”: i requisiti di partecipazione menzionati nell’avviso indicano 5 anni di esperienza nel settore giuridico di competenza, alternativamente in ambito accademico o professionale.
Non si tratterebbe di una “collaborazione istituzionale”, ai fini della quale il Ministero avrebbe potuto rivolgersi in via diretta e con altre modalità alle istituzioni preposte, una su tutte agli Ordini degli Avvocati ricorrenti.
Anche a voler, per ipotesi, concedere che si tratti di una diversa, quanto nuova, atipica ed indeterminata forma di collaborazione “istituzionale”, l’apporto consulenziale comunque accordato dal singolo professionista non troverebbe in alcun modo una giustificazione causale.
Sarebbe palesemente illegittimo l’assunto finale del Ministero secondo il quale esulerebbe da questi rapporti il tema dell’equo compenso “che si riferisce a rapporti professionali di lavoro nell’ambito del settore privato”, essendo ormai pacifico che l’applicazione del menzionato principio rappresenta –per espresso riconoscimento legislativo (art. 19-quaterdecies, comma 3, del D.L. n. 148/2017)– un dovere anche per tutte le Amministrazioni pubbliche.
Infine, anche alla luce del chiarimento, l’Amministrazione non potrebbe invocare nemmeno l’art. 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001, atteso che, in forza della normativa menzionata, anche tali incarichi beneficerebbero della garanzia di un equo compenso.
Infine l’art. 7 del d.lgs. 165/2001 sarebbe inconferente, in quanto riguarda “contratti di lavoro autonomo”, nella specie non configurabili.
...
IV - Il ricorso è privo di fondamento per le ragioni di seguito esposte.
V - Occorre inquadrare correttamente l’oggetto dell’avviso, impugnato col ricorso in esame.
Con il predetto avviso, diretto a giuristi del mondo accademico e/o forense, in possesso di esperienza di almeno 5 anni documentabile, anche a livello europeo o internazionale, negli ambiti tematici del diritto societario, bancario, pubblico dell'economia o dei mercati finanziari o dei principi contabili e bilanci societari, si chiede agli stessi una mera manifestazione di interesse a prestare, senza che sia prefissata la frequenza e l’entità dell’eventuale ‘prestazione’ nell’arco temporale di due anni, la propria consulenza nelle stesse suddette materie “in vista anche dell’adozione e/o integrazione di normative primarie e secondarie ai fini, tra l’altro, dell'adeguamento dell'ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari”.
V.1 - La genericità non costituisce un vizio dell’avviso ma un elemento che lo caratterizza, in forza del quale anzi esso è assolutamente legittimo.
Come, infatti, è stato anche precisato con il comunicato stampa che ha fornito i dovuti chiarimenti in ordine alla sua portata, all’esito della valutazione dei curricula obbligatoriamente inviati dai su indicati professionisti, non s’instaura alcun rapporto di lavoro né è prevista la fornitura di un servizio professionale.
VI – Si deve ulteriormente evidenziare la previsione della possibilità, per il professionista, di porre fine unilateralmente all’incarico in qualunque momento.
VI.1 - Il prescritto preavviso di 30 giorni per esercitare tale diritto obbedisce ad una mera esigenza organizzativa: in altre parole, l’Amministrazione ha necessità di conoscere
ex ante sull’apporto di quali professionalità nell’esame di questioni rilevanti può contare in un determinato periodo.
VI.2 - L’obbligo, per il professionista, di concludere la propria attività su eventuali questioni in corso è invece funzionale a garantire un’azione della Pubblica Amministrazione efficace, che persegue il buon andamento: un’interruzione potrebbe, infatti, determinare perdite di tempo e degli apporti qualificati già conferiti dai professionisti che non intendano più portare avanti la consulenza.
VI.3 – Sono elementi che fanno escludere la riconduzione della consulenza all’ambito dei servizi, il cui affidamento è sottoposto alla disciplina del Codice dei Contratti pubblici.
VI.4 - Conduce a tale conclusione anche l’assenza della previsione del numero ben definito di incarichi da conferire, dell’individuazione puntuale dell’oggetto e della consistenza di ciascun incarico, nonché di una selezione vera e propria, con una graduatoria finale.
VI.5 - Perciò è evidente che nessun obbligo di applicare le norme del d.lgs. n. 50/2016 sussisteva in capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze.
VII - La prescrizione di requisiti minimi si rendeva invece evidentemente necessaria per acquisire manifestazioni di interesse solo da parte di soggetti qualificati che, ove ritenuti idonei sulla base della valutazione dei propri curricula, possano effettivamente dare un contributo rilevante nelle materie e nell’ambito delle attività indicate nell’avviso censurato.
VIII - Alla luce dei rilievi svolti sinora, il carattere gratuito della consulenza appare legittimo.
VIII.1 - Deve rilevarsi in proposito che nel nostro ordinamento non si rinviene alcun divieto in tal senso.
VIII.2 - Non può ritenersi che la disciplina dell’equo compenso, diffusamente ed analiticamente descritta dalla parte ricorrente ed erroneamente invocata a sostegno delle proprie tesi, presenti tale carattere ostativo. Essa deve, infatti, intendersi nel senso che, laddove il compenso in denaro sia stabilito, esso non possa che essere equo.
VIII.3 - Nulla impedisce, tuttavia, al professionista, senza incorrere in alcuna violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare la propria consulenza, in questo caso richiesta solo in modo del tutto eventuale nei due anni stabiliti, senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in denaro.
Lo stesso può invece in questo caso trarre vantaggi di natura diversa, in termini di arricchimento professionale legato alla partecipazione ad eventuali tavoli, allo studio di particolari problematiche ed altro, nonché quale possibilità di far valere tutto ciò all’interno del proprio curriculum vitae.
Non bisogna dimenticare al riguardo che, se è vero che viene richiesta una determinata esperienza documentabile negli ambiti di materia indicati nell’avviso, è altresì vero che non si tratta di un’esperienza che può essere vantata solo da professionisti che lavorano da lunghissimo periodo e che per ciò stesso potrebbero non ricevere stimoli e vantaggi in termini curriculari.
Il vaglio dei curricula garantisce al Ministero di scegliere solo quanti siano ritenuti in concreto in grado di fornire un apporto valido, il che assicura lo stesso in ordine al livello qualitativo elevato della consulenza, ove acquisita.
Tuttavia potrebbe trattarsi di professionisti ancora giovani che, sebbene qualificati, trovino ancora molti stimoli professionali nell’attività descritta nell’avviso e ravvisino altresì nella stessa un’opportunità per arricchire il proprio curriculum.
D’altronde anche professionisti con un bagaglio professionale consistente potrebbero avere interesse, in quanto stimolante, a contribuire, con la propria professionalità, all’elaborazione di norme per l’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari.
IX - Dalle argomentazioni svolte nella presente disamina deriva che l’avviso impugnato è legittimo ed il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 30.09.2019 n. 11410 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

IN EVIDENZA

APPALTI: Limitazione al 30% del subappalto.
La Corte di Giustizia UE con riferimento all’art. 105 del d.lgs. n. 50 del 2016 statuisce che:
La direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, come modificata dal regolamento delegato (UE) 2015/2170 della Commissione, del 24.11.2015, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi
(Corte di Giustizia UE, Sez. V, sentenza 26.09.2019 - causa C-63/18 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Nella causa C‑63/18, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (Italia), con ordinanza 19.01.2018 n. 148, pervenuta in cancelleria il 10.02.2018, nel procedimento
Vi. SpA
contro
Autostrade per l’Italia SpA,
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Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 49 e 56 TFUE, dell’articolo 71 della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE (GU 2014, L 94, pag. 65), come modificata dal regolamento delegato (UE) 2015/2170 della Commissione, del 24.11.2015 (GU 2015, L 307, pag. 5) (in prosieguo: la «direttiva 2014/24»), nonché sul principio di proporzionalità.
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Vi. SpA e l’Autostrade per l’Italia SpA in merito alla decisione adottata da quest’ultima, in qualità di amministrazione aggiudicatrice, di escludere la prima da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.
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Diritto italiano
9 L’articolo 105, paragrafo 2, terza frase, del decreto legislativo n. 50 – Codice dei contratti pubblici, del 18.04.2016 (supplemento ordinario alla GURI n. 91 del 19.04.2016; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 50/2016»), così prevede: «
Fatto salvo quanto previsto dal comma 5, l’eventuale subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture».
10 L’articolo 105, paragrafo 5, del decreto legislativo n. 50/2016 è formulato come segue: «
Per le opere di cui all’articolo 89, comma 11, e fermi restando i limiti previsti dal medesimo comma, l’eventuale subappalto non può superare il trenta per cento dell’importo delle opere e non può essere, senza ragioni obiettive, suddiviso».
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Sulla questione pregiudiziale
21 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 49 e 56 TFUE e la direttiva 2014/24 debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.
22 In via preliminare, occorre rilevare che, poiché il valore dell’appalto di cui al procedimento principale, al netto dell’IVA, è superiore alla soglia di EUR 5225000 prevista all’articolo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, è con riferimento a quest’ultima che occorre rispondere alla presente domanda di pronuncia pregiudiziale.
23 Occorre ricordare che tale direttiva, come risulta in sostanza dal suo considerando 1, ha l’obiettivo di garantire il rispetto, nell’aggiudicazione degli appalti pubblici, in particolare, della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, e dei principi che ne derivano, in particolare la parità di trattamento, la non discriminazione, la proporzionalità e la trasparenza, nonché di garantire che l’aggiudicazione degli appalti pubblici sia aperta alla concorrenza.
24 In particolare, a tal fine, la predetta direttiva prevede espressamente, al suo articolo 63, paragrafo 1, la possibilità per gli offerenti di fare affidamento, a determinate condizioni, sulle capacità di altri soggetti, per soddisfare determinati criteri di selezione degli operatori economici.
25 Inoltre, l’articolo 71 della medesima direttiva, che riguarda specificamente il subappalto, al suo paragrafo 2 dispone che l’amministrazione aggiudicatrice può chiedere o può essere obbligata da uno Stato membro a chiedere all’offerente di indicare, nella sua offerta, le eventuali parti dell’appalto che intende subappaltare a terzi, nonché i subappaltatori proposti.
26 Ne deriva che, al pari della direttiva 2004/18 abrogata dalla direttiva 2014/24, quest’ultima sancisce la possibilità, per gli offerenti, di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, purché le condizioni da essa previste siano soddisfatte (v., in tal senso, per quanto riguarda la direttiva 2004/18, sentenza del 14.07.2016, Wrocław - Miasto na prawach powiatu, C‑406/14, EU:C:2016:562, punti da 31 a 33).
27 Infatti, secondo una giurisprudenza costante, e come risulta dal considerando 78 della direttiva 2014/24, in materia di appalti pubblici, è interesse dell’Unione che l’apertura di un bando di gara alla concorrenza sia la più ampia possibile. Il ricorso al subappalto, che può favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo (v., in tal senso, sentenza del 05.04.2017, Borta, C‑298/15, EU:C:2017:266, punto 48 e giurisprudenza ivi citata).
28 Inoltre, al punto 35 della sentenza del 14.07.2016, Wrocław - Miasto na prawach powiatu (C‑406/14, EU:C:2016:562), che riguardava l’interpretazione della direttiva 2004/18, la Corte ha stabilito che una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori che impone limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, e ciò a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si tratterebbe, è incompatibile con tale direttiva, applicabile nell’ambito della controversia che aveva dato luogo a tale sentenza.
29 A tal riguardo, occorre rilevare che, sebbene l’articolo 71 della direttiva 2014/24 riprenda, in sostanza, il tenore dell’articolo 25 della direttiva 2004/18, esso elenca tuttavia talune norme supplementari in materia di subappalto. In particolare, tale articolo 71 prevede la possibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di chiedere o di essere obbligata dallo Stato membro a chiedere all’offerente di informarla sulle intenzioni di quest’ultimo in materia di subappalto, nonché la possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice, a determinate condizioni, di trasferire i pagamenti dovuti direttamente al subappaltatore per i servizi, le forniture o i lavori forniti al contraente principale.
Inoltre, il suddetto articolo 71 dispone che le amministrazioni aggiudicatrici possono verificare o essere obbligate dagli Stati membri a verificare se sussistano motivi di esclusione dei subappaltatori a norma dell’articolo 57 di tale direttiva relativi in particolare alla partecipazione a un’organizzazione criminale, alla corruzione o alla frode.
30 Tuttavia, dalla volontà del legislatore dell’Unione di disciplinare in maniera più specifica, mediante l’adozione di siffatte norme, le situazioni in cui l’offerente fa ricorso al subappalto, non si può dedurre che gli Stati membri dispongano ormai della facoltà di limitare tale ricorso a una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, al pari del limite imposto dalla normativa di cui trattasi nel procedimento principale.
31 A tale riguardo, il governo italiano sostiene che gli Stati membri possono prevedere misure diverse da quelle specificamente elencate nella direttiva 2014/24, al fine di garantire, in particolare, il rispetto del principio di trasparenza nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, poiché a tale principio è dedicata una particolare attenzione nel contesto di tale direttiva.
32 Più specificamente, tale governo sottolinea il fatto che la limitazione del ricorso al subappalto di cui trattasi nel procedimento principale è giustificata alla luce delle particolari circostanze presenti in Italia, dove il subappalto ha da sempre costituito uno degli strumenti di attuazione di intenti criminosi. Limitando la parte dell’appalto che può essere subappaltata, la normativa nazionale renderebbe il coinvolgimento nelle commesse pubbliche meno appetibile per le associazioni criminali, il che consentirebbe di prevenire il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nelle commesse pubbliche e di tutelare così l’ordine pubblico.
33 Come osserva il governo italiano, è vero che i considerando 41 e 105 della direttiva 2014/24, nonché alcune disposizioni di quest’ultima, come l’articolo 71, paragrafo 7, indicano espressamente che gli Stati membri rimangono liberi di prevedere, nel proprio diritto interno, disposizioni più rigorose rispetto a quelle previste dalla predetta direttiva in materia di subappalto, a condizione che tali prime disposizioni siano compatibili con il diritto dell’Unione.
34 Come deriva, in particolare, dai criteri di selezione qualitativi previsti dalla direttiva 2014/24, in particolare dai motivi di esclusione dettati al suo articolo 57, paragrafo 1, è altresì vero che il legislatore dell’Unione ha inteso evitare, mediante l’adozione di tali disposizioni, che gli operatori economici che sono stati condannati con sentenza definitiva, alle condizioni previste in tale articolo, partecipino a una procedura di aggiudicazione di appalti.
35 Parimenti, il considerando 41 della direttiva 2014/24 prevede che nessuna disposizione di quest’ultima dovrebbe vietare di imporre o di applicare misure necessarie, in particolare, alla tutela dell’ordine, della moralità e della sicurezza pubblici, a condizione che dette misure siano conformi al TFUE, mentre il considerando 100 di tale direttiva precisa che è opportuno evitare l’aggiudicazione di appalti pubblici, in particolare, ad operatori economici che hanno partecipato a un’organizzazione criminale.
36 Oltre a ciò, secondo una giurisprudenza costante, va riconosciuto agli Stati membri un certo potere discrezionale nell’adozione di misure destinate a garantire il rispetto dell’obbligo di trasparenza, il quale si impone alle amministrazioni aggiudicatrici in tutte le procedure di aggiudicazione di un appalto pubblico. Infatti, il singolo Stato membro è nella posizione migliore per individuare, alla luce di considerazioni di ordine storico, giuridico, economico o sociale che gli sono proprie, le situazioni favorevoli alla comparsa di comportamenti in grado di provocare violazioni del rispetto dell’obbligo summenzionato (v., in tal senso, sentenza del 22.10.2015, Impresa Edilux e SICEF, C‑425/14, EU:C:2015:721, punto 26 e giurisprudenza ivi citata).
37 Più specificamente, la Corte ha già dichiarato che il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici (v., in tal senso, sentenza del 22.10.2015, Impresa Edilux e SICEF, C‑425/14, EU:C:2015:721, punti 27 e 28).
38 Tuttavia, anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare siffatto fenomeno, una restrizione come quella di cui trattasi nel procedimento principale eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo.
39 A tal riguardo, occorre ricordare che, durante tutta la procedura, le amministrazioni aggiudicatrici devono rispettare i principi di aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 18 della direttiva 2014/24, tra i quali figurano, in particolare, i principi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità (sentenza del 20.09.2018, Montte, C‑546/16, EU:C:2018:752, punto 38).
40 Orbene, in particolare, come ricordato al punto 30 della presente sentenza, la normativa nazionale di cui al procedimento principale vieta in modo generale e astratto il ricorso al subappalto che superi una percentuale fissa dell’appalto pubblico in parola, cosicché tale divieto si applica indipendentemente dal settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall’identità dei subappaltatori. Inoltre, un siffatto divieto generale non lascia alcuno spazio a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore (v., per analogia, sentenza del 05.04.2017, Borta, C‑298/15, EU:C:2017:266, punti 54 e 55).
41 Ne consegue che, nell’ambito di una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, per tutti gli appalti, una parte rilevante dei lavori, delle forniture o dei servizi interessati dev’essere realizzata dall’offerente stesso, sotto pena di vedersi automaticamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto, anche nel caso in cui l’ente aggiudicatore sia in grado di verificare le identità dei subappaltatori interessati e ove ritenga, in seguito a verifica, che siffatto divieto non sia necessario al fine di contrastare la criminalità organizzata nell’ambito dell’appalto in questione.
42 Come sottolinea la Commissione, misure meno restrittive sarebbero idonee a raggiungere l’obiettivo perseguito dal legislatore italiano, al pari di quelle previste dall’articolo 71 della direttiva 2014/24 e richiamate al punto 29 della presente sentenza. D’altronde, come indica il giudice del rinvio, il diritto italiano già prevede numerose attività interdittive espressamente finalizzate ad impedire l’accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel paese.
43 Pertanto, una restrizione al ricorso del subappalto come quella di cui trattasi nel procedimento principale non può essere ritenuta compatibile con la direttiva 2014/24.
44 Tale conclusione non può essere rimessa in discussione dall’argomento dedotto dal governo italiano, secondo cui i controlli di verifica che l’amministrazione aggiudicatrice deve effettuare in forza del diritto nazionale sarebbero inefficaci. Invero, siffatta circostanza, che, come pare evincersi dalle osservazioni stesse di tale governo, risulta dalle modalità specifiche di tali controlli, nulla toglie al carattere restrittivo della misura nazionale di cui al procedimento principale.
Peraltro, il governo italiano non ha affatto dimostrato, nell’ambito della presente causa, che le diverse disposizioni previste all’articolo 71 della direttiva 2014/24, con le quali gli Stati membri possono limitare il ricorso al subappalto, nonché i possibili motivi di esclusione dei subappaltanti ai sensi dell’articolo 57 di tale direttiva, e ai quali fa riferimento l’articolo 71, paragrafo 6, lettera b), di quest’ultima, non possano essere attuate in modo tale da raggiungere l’obiettivo perseguito dalla normativa nazionale di cui al procedimento principale.
45 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla questione pregiudiziale dichiarando che
la direttiva 2014/24 dev’essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.
Sulle spese
46 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara:
La direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, come modificata dal regolamento delegato (UE) 2015/2170 della Commissione, del 24.11.2015, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.

IN EVIDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIAPer l’Adunanza plenaria la bonifica del sito inquinato per il danno ambientale causato dalla società incorporata può essere ordinata anche alla incorporante.
Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento
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Danno ambientale – Responsabilità – Società – Fusione per incorporazione
La bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento (1).
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   (1) I. – Con la sentenza in rassegna l’Adunanza plenaria –sollecitata dalla IV sezione del Consiglio di Stato con ordinanza del 07.05.2019, n. 2928 (oggetto della News Us, n. 62 del 24.05.2019, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti)– ha affermato il principio di diritto per cui, in caso di danno ambientale causato dalla società incorporata, la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, in base alla disciplina previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangono al momento dell’adozione del provvedimento.
   II. – L’originaria ricorrente aveva impugnato una determinazione dirigenziale del 2015 mediante la quale la stessa era stata diffidata a procedere alla bonifica delle aree contaminate da cromo esavalente e da solventi clorurati. Il Tar per il Piemonte aveva, in primo grado, respinto il ricorso. Il Consiglio di Stato respingeva, con sentenza non definitiva, tutte le censure dell’appellante ad eccezione di una in relazione alla quale ne riteneva necessaria la devoluzione all’Adunanza plenaria.
In particolare, l’appellante rappresentava di non aver mai gestito direttamente l’impianto in questione, di non esserne mai stata proprietaria e che la contaminazione era imputabile ad altre società. La società che aveva gestito il citato sito fino al 1986 si sarebbe poi estinta nel luglio del 1991, al momento dell’incorporazione nella società appellante.
La stessa società ritiene, quindi, che: il d.lgs. n. 22 del 1997 (cd. decreto Ronchi), il cui art. 17 avrebbe per la prima volta introdotto nell’ordinamento l’obbligo di procedere a bonifica in capo al soggetto responsabile di eventi di contaminazione, non potrebbe essere applicato ad episodi di inquinamento verificatisi anteriormente alla propria vigenza; l’ordine di bonifica non potrebbe essere a lei riferito in quanto non avrebbe mai direttamente posto in essere alcuna condotta inquinante; la società incorporata dall’appellante non avrebbe trasferito alcuna situazione soggettiva di obbligo di fare sia perché la condotta di contaminazione non avrebbe avuto alcun disvalore giuridico al momento in cui è stata commessa, sia perché la legislazione vigente ratione temporis non avrebbe conosciuto l’istituto.
La quarta sezione del Consiglio di Stato, quindi, dopo aver esaminato i contrapposti orientamenti sul tema, ha deferito all’esame dell’Adunanza plenaria la questione se una società incorporante, nel regime anteriore alla modifica del diritto societario, possa essere considerata responsabile dell’inquinamento posto in essere dall’incorporata ai sensi dell’art. 17, d.lgs. n. 22 del 1997, come poi sostituito, in sostanziale continuità normativa, dagli artt. 242 ss. d.lgs. n. 152 del 2006.
   III. – Con la sentenza in rassegna, il collegio ha osservato quanto segue:
      a) la risoluzione della questione giuridica sottoposta al suo esame richiede di esaminare tre punti controversi, in rapporto di consecuzione logica:
         a1) se la condotta di inquinamento ambientale posta in essere prima dell’introduzione della bonifica dei siti inquinati nell’ordinamento giuridico sia qualificabile come illecito, fonte di responsabilità civile per il suo autore, e in quale fattispecie normativa di questo istituto il fatto possa essere inquadrato;
         a2) in caso di risposta positiva al primo quesito, quali siano i rapporti tra l’illecito e la bonifica e, in particolare, se sia possibile ordinare la bonifica per fatti risalenti ad epoca antecedente all’introduzione a livello legislativo della bonifica;
         a3) infine, in caso di risposta positiva al secondo quesito, se gli obblighi e le responsabilità conseguenti alla commissione dell’illecito siano trasmissibili per effetto di operazioni societarie straordinarie, quale la fusione, secondo la legislazione all’epoca vigente;
      b) con riferimento al primo punto, nel ritenere che, anche prima dell’introduzione dell’istituto della bonifica con l’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997, l’inquinamento ambientale era considerato un fatto illecito:
         b1) risale agli anni ’70 del secolo scorso l’elaborazione dell’ambiente come bene giuridico autonomo e unitario, oggetto di protezione giuridica contro le aggressioni umane;
         b2) l’emergere dell’ambiente come nuovo bene giuridico nasce dall’opera di riduzione ad unità della legislazione dell’epoca, contraddistinta da normative di carattere settoriale poste a salvaguardia di elementi costitutivi del paesaggio e delle bellezze naturali, già oggetto di tutela sin da epoca antecedente alla Costituzione;
         b3) sulla base della linea di tendenza descritta, è maturata presso la dottrina una nozione autonoma di ambiente, evidenziandosi che la qualificazione normativa di bene ambientale nasce dal riscontro delle sue oggettive caratteristiche materiali, per cui l’atto giuridico che lo qualifichi tale e ne istituisca il relativo regime ha natura solo dichiarativa di una qualità ad esso immanente. Rispetto alla considerazione unitaria del bene con finalità di tutela ambientale risultano recessivi gli aspetti legati alla sua composizione materiale e al suo regime dominicale;
         b4) la giurisprudenza, muovendo dagli artt. 9 e 32 Cost., ha elevato l’ambiente a diritto individuale, tutelabile tramite l’art. 2043 c.c., e ha, in parallelo, sviluppato la tutela della proprietà contro le immissioni intollerabili ai sensi dell’art. 844 c.c. in una logica non più dominicale ma in funzione del benessere dell’individuo e del suo interesse personale a godere di un habitat naturale salubre e incontaminato;
         b5) il danno ambientale è stato quindi positivizzato con l’art. 18 –ora abrogato– della legge n. 349 del 1986, istitutiva del Ministero dell’ambiente, con il quale è stata sostanzialmente recepita a livello normativo la concezione dell’ambiente come bene immateriale unitario, sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente o separatamente, oggetto di cura e tutela, ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili a unità;
         b6) la Corte cost., sentenza 31.12.1987, n. 641 (Giur. it., 1989, I,1, 227, con nota di STIGLIANO MESSUTI; Foro it., 1988, I, 694, con nota di GIAMPIETRO; Giur. costit., 1987, I, 3788, con nota di MILETO; Foro amm., 1988, 1, con nota di TALICE; Quaderni regionali, 1988, 847; Rass. giur. energia elettrica, 1988, 364; Riv. giur. ambiente, 1988, 93, con note di POSTIGLIONE, CARAVITA; Foro it., 1988, I, 1057, con nota di PONZANELLI; Informazione prev., 1988, 458; Regioni, 1988, 525, con nota di FERRARI; Sanità pubbl., 1988, 365; Amm. it., 1988, 848; Riv. giur. polizia locale, 1988, 299, con nota di BERTOLINI; Riv. Corte Conti, 1988, fasc.1, 90; Riv. Amm. della Repubblica Italiana, 1988, 220, con nota di ARRIGONI; Giur. it., 1988, I,1, 1456; Riv. giur. edil., 1988, I, 3; Arch. civ., 1988, 533; Corriere giur., 1988, 234, con nota di GIAMPIETRO; Dir. Regione, 1988, 83, con nota di ANGIOLINI; Finanza Loc., 1988, 448) ha inquadrato la nuova fattispecie di danno ambientale nel paradigma generale della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c., precisando che tale disposizione deve essere posta in correlazione con la disposizione che prevede il bene giuridico tutelato attraverso la posizione del divieto primario;
         b7) la pronuncia si colloca nel solco della concezione della responsabilità civile extracontrattuale aperta ai valori costituzionali, in base alla quale deve essere considerato illecito civile ogni fatto ingiusto lesivo di beni giuridicamente tutelati, ivi compresi quelli per i quali il bisogno di protezione matura sulla base delle spinte emergenti dall’esperienza, ispirata ai valori, personali, esplicitamente garantiti dalla Costituzione. La tutela di questi nuovi beni è consentita sulla base dell’atipicità dell’art. 2043 c.c.;
         b8) muovendo da tali basi teoriche si è quindi escluso che l’art. 18 della legge n. 349 del 1986 abbia avuto portata innovativa sul piano della considerazione dell’ambiente come bene giuridico protetto, in quanto la sua tutela deriva direttamente dalla Costituzione;
         b9) l’illecito così tipizzato ha sancito sul più generale piano sistematico la dimensione collettiva e super-individuale del danno all’ambiente;
         b10) in ogni caso, come precisato dalla Corte costituzionale, benché l’ambiente non sia un bene appropriabile, si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo che corrisponde ai costi dell’azione pubblica di conservazione e tutela. Pertanto, confrontando i benefici con le alterazioni, si può effettuare la stima e la pianificazione degli interventi di preservazione, miglioramento e recupero e si possono valutare i costi del danneggiamento;
         b11) emerge pertanto una funzione riparatoria dell’illecito ambientale non circoscritta alla sola differenza di valore del bene leso rispetto a quello che aveva prima del danno, secondo lo schema indennitario tipico dell’illecito civile, ma estesa a tutti i costi necessari per ripristinare il complessivo pregiudizio inferto all’ecosistema naturale.
Ne discende che il danno all’ambiente risarcibile ai sensi dell’art. 18 della legge n. 349 del 1986 anche attraverso una somma di denaro, assume pertanto i connotati della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c., con la differenza che il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile non soggiace al limite dell’eccessiva onerosità ma solo a quello della possibilità, con un rafforzamento, quindi, della tutela dell’ambiente rispetto agli ordinari strumenti dell’illecito civile;
      c) con riferimento alla possibilità di ordinare la bonifica per fatti risalenti ad epoca antecedente all’introduzione a livello legislativo della bonifica:
         c1) le misure introdotte con il d.lgs. n. 22 del 1997, poi trasfuse nel codice dell’ambiente attualmente vigente, e il rimedio del risarcimento del danno già previsto dall’art. 2043 c.c. e poi dalla legge n. 349 del 1986, hanno la medesima funzione, ripristinatoria-reintegratoria, di protezione dell’ambiente, con la precisazione che le prime si pongono, in particolare, l’obiettivo di non limitare la tutela al solo equivalente monetario dei danni prodotti, ma di prevenirne la verificazione e, in caso contrario, di porre a carico del responsabile la rimozione dei danni e i relativi oneri;
         c2) la funzione di prevenzione è consustanziale alla generale azione dei pubblici poteri di tutela dell’ambiente, ma su impulso della legislazione europea il legislatore interno ha variamente posto in rilievo l’esigenza di assicurare il ripristino ambientale, sulla base del rilievo che la responsabilità civile prevista negli ordinamenti giuridici nazionali non sempre è uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a omissioni o atti di taluni soggetti;
         c3) pertanto, le misure introdotte nel 1997, ed ora disciplinate dagli artt. 239 ss. del codice di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, hanno nel loro complesso una finalità di salvaguardia del bene ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o danno, nelle quali è assente ogni matrice di sanzione rispetto al relativo autore;
         c4) la bonifica costituisce uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare la diminuzione del relativo valore, ma a consentire il recupero materiale a cura e spese del responsabile della contaminazione. Ne discende che nella bonifica emerge la funzione di reintegrazione del bene giuridico leso propria della responsabilità civile, che evoca il rimedio della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c., previsto per il danno all’ambiente dall’art. 18, ottavo comma, della legge n. 349 del 1986;
         c5) prima dell’introduzione della norma da ultimo citata doveva ritenersi comunque applicabile al danno ambientale l’art. 2058 c.c. in considerazione del rapporto di alternatività con il rimedio del risarcimento per equivalente previsto in caso di fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c.;
         c6) l’inapplicabilità del limite dell’eccessiva onerosità, già prevista con il d.lgs. n. 22 del 1997, costituisce una differenza che non determina l’incompatibilità tra il rimedio della bonifica dei siti inquinati e l’istituto della responsabilità civile per fatto illecito, ma si spiega alla luce del preminente valore assegnato dalla Costituzione all’ambiente nella gerarchia dei beni giuridici, sulla base degli artt. 9 e 32 Cost. e della dimensione collettiva del danno a tale bene, rispetto ai pregiudizi riferibili alla sfera soggettiva del singolo;
         c7) in senso conforme depone l’analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di diritto punitivo, secondo la quale a prescindere dalla qualificazione giuridica da parte del diritto nazionale occorre avere riguardo a natura, scopo e gravità delle conseguenze sull’autore dell’illecito, con la conseguenza che non hanno natura penale misure che soddisfano pretese risarcitorie o che siano essenzialmente dirette a ripristinare la situazione di legalità e restaurare l’interesse pubblico leso;
         c8) mentre nel diritto penale l’indagine è condotta sul piano della continuità normativa tra gli istituti, in applicazione del principio di legalità, che si declina tra l’altro secondo i principi dell’irretroattività della norma incriminatrice o sanzionatoria e dell’applicazione della norma più favorevole in caso di successione di norme di tale natura, nel caso dell’illecito civile la tecnica non è riproducibile, in quanto in tale settore domina l’esigenza di assicurare la reintegrazione del bene giuridico leso;
         c9) nel caso del danno ambientale, pertanto, con l’introduzione degli obblighi di bonifica non si è estesa l’area dell’illiceità rispetto a condotte in precedenza considerate conformi a diritto, ma si sono ampliati i rimedi rispetto a fatti di aggressione dell’ambiente già considerati lesivi di un bene giuridico meritevole di tutela, con l’aggiunta rispetto alla reintegrazione per equivalente monetario degli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati;
         c10) la bonifica può essere ordinata a condizione che vi sia una situazione di inquinamento ambientale e che possa essere rimossa dal soggetto responsabile. Il carattere permanente del danno ambientale comporta che l’autore dell’inquinamento, potendovi provvedere, rimane soggetto agli obblighi conseguenti alla sua condotta illecita, secondo la successione di norme di legge nel frattempo intervenuta;
         c11) pertanto, nel caso di specie, non vi sarebbe una retroazione di istituti giuridici introdotti in epoca successiva alla commissione dell’illecito, ma un’applicazione da parte della competente autorità amministrativa di istituti a protezione dell’ambiente previsti dalla legge al momento in cui si accerta una situazione di pregiudizio in atto;
      d) con riferimento alla possibilità di trasmettere gli obblighi e le responsabilità conseguenti alla commissione dell’illecito in caso di operazioni societarie straordinarie, quale la fusione per incorporazione, nel regime antecedente alla riforma del diritto societario di cui al d.lgs. n. 6 del 2003 (essendo pacifica tale evenienza dopo la riforma della norma citata, intervenuta nel 2003):
         d1) ai sensi dell’art. 2504-bis c.c., nella versione vigente anteriormente alla citata riforma, la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte;
         d2) nel caso di specie, malgrado la fusione risalga al 1991 e la bonifica sia stata introdotta nel 1997, la sua natura di illecito permanente consente di ritenere il relativo responsabile soggetto agli obblighi, risarcitori e di reintegrazione o ripristino dello stato dei luoghi, da esso derivanti. “In altri termini, allorché la situazione di danno all’ambiente si protragga in un arco di tempo in cui per effetto della successione di norme di legge al rimedio risarcitorio si aggiunga quello della bonifica, nessun ostacolo di ordine giuridico è ravvisabile ad applicare quest’ultima ad un soggetto che, pur non avendo commesso la condotta fonte del danno, sia nondimeno subentrato a quest’ultimo”;
         d3) dal tenore letterale del citato art. 2504-bis c.c. si ricava, quindi, che gli obblighi in questione sono trasmissibili, in caso di fusione per incorporazione, dalla società responsabile del danno incorporata alla società incorporante;
         d4) sul piano dogmatico, la conclusione è avvalorata dal fatto che l’enunciato linguistico “responsabilità civile“ designa l’insieme delle conseguenze cui un soggetto deve sottostare per legge in conseguenza di un fatto illecito da lui commesso che, nel caso dell’illecito civile, consistono, tra l’altro, nell’obbligo di risarcire il danno o nella reintegrazione in forma specifica;
         d5) la successione dell’incorporante negli obblighi dell’impresa incorporata è espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et incommoda, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale;
         d6) il superamento della concezione tradizionale si coglie nel riferimento testuale dell’art. 2504-bis c.c. (post riforma) dove si precisa che, oltre ad assumere i diritti e gli obblighi delle incorporate, la società incorporante prosegue in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione;
         d7) l’effetto tipico della successione negli obblighi della società incorporata non è impedito dal fatto che l’accertamento dell’illecito ambientale possa eventualmente essere successivo all’operazione straordinaria di fusione, in quanto, anche quando funge da presupposto di un provvedimento amministrativo come quello che ordina la bonifica, l’accertamento del danno all’ambiente risale per sua natura all’epoca della sua commissione;
         d8) sulla successione nell’obbligo non incide il fatto che lo stabilimento industriale, da cui è provenuto l’inquinamento oggetto dell’ordine di bonifica impugnato, non sia mai stato acquistato dalla incorporante, ma sia stato, in epoca precedente alla fusione per incorporazione della società responsabile dell’inquinamento, fatto oggetto di cessione di ramo d’azienda a terzi, in quanto in base all’art. 2560, primo comma, c.c., la cessione d’azienda non libera il cedente dei debiti dallo stesso contratti, tra cui quelli da fatto qualificabile come illecito civile;
         d9) in una prospettiva funzionale si può osservare che “la successione sul piano civilistico negli obblighi inerenti a fenomeni di contaminazione di siti e di inquinamento ambientale in caso di operazioni societarie contraddistinte dalla continuità dell’impresa pur a fronte del mutamento formale del centro di imputazione giuridica consente di assicurare una miglior tutela dell’ambiente”.
Il soggetto interessato all’acquisto di un complesso aziendale, tramite l’istituto della due diligence, può venire a conoscenza del fenomeno e concordare sul piano negoziale strumenti in grado di riversare su quest’ultimo le relative conseguenze sul piano economico o avvalersi dei rimedi civilistici per la responsabilità del cedente per omessa informazione;
         d10) la tesi contraria alla successione consentirebbe una facile elusione degli obblighi maturati nel corso della gestione di una società.
   IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
      e) nel senso della mancanza di responsabilità della incorporante per fatti attribuibili all’incorporata si veda Cons. Stato, sez. V, 05.12.2008, n. 6055 (Dir. e giur. agr. e ambiente, 2009, 279, con nota di ROMANELLI; Riv. giur. ambiente, 2009, 365, con nota di DE CESARIS), secondo cui, tra l’altro:
- “L'art. 17 d.leg. n. 22/1997 presenta, rispetto al plesso normativo composto dagli art. 2043, 2050 e 2058, differenze talmente numerose e tanto profonde da non consentire la formulazione di alcun giudizio di continuità tra le stesse; ne discende che l'applicazione dell'art. 17 ad un soggetto estinto prima del 1997 si risolve in una non consentita applicazione retroattiva della legge”;
- “La peculiarità dell'istituto disciplinato dall'art. 17, che non trova antecedenti diretti nella previgente disciplina, risiede nella sua natura di misura ablatoria personale, consentita in apicibus dall'art. 23 cost., la cui adozione crea in capo al destinatario un obbligo di attivazione, consistente nel porre in essere determinati atti e comportamenti unitariamente finalizzati al recupero ambientale dei siti inquinati”;
- “Nei confronti dei successori di società responsabili degli inquinamenti, estintesi prima del 1997, non è possibile applicare l'art. 17 d.leg. n. 22/1997; è però possibile far valere l'ordinaria responsabilità civilistica di tipo aquiliano e, sul versante amministrativo, rimangono comunque adottabili, in base alle regole della c.d. «successione economica», i provvedimenti contingibili e urgenti, ove ne ricorrano i presupposti stabiliti dall'ordinamento”;
      f) nel senso che la normativa introdotta dall’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 si applichi a qualunque situazione di inquinamento dei suoli in atto al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo stesso è orientato, Cons. Stato, sez. VI, 09.10.2007, n. 5283 (in Ambiente, 2008, 749, con nota di RINALDI);
      g) sulla concezione dell’ambiente quale bene immateriale unitario, si vedano:
         g1) Cass. civ., sez. III, 19.06.1996, n. 5650 (Foro it., 1996, I, 3062, con nota di COLONNA; Danno e resp., 1996, 693, con nota di COLONNA), secondo cui, tra l’altro, “L'ambiente, inteso in senso unitario come bene pubblico complesso, caratterizzato dai valori estetico-culturale, igienico-sanitario ed ecologico-abitativo, assurge a bene pubblico immateriale, la cui natura non preclude da doppia tutela patrimoniale e non patrimoniale, relativa alla lesione di quell'insieme di beni materiali ed immateriali determinati, in cui esso si sostanzia e delimita territorialmente”;
         g2) Corte cost., 30.12.1987, n. 641, cit., secondo cui, tra l’altro:
- “L'ambiente è un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell'insieme, sono riconducibili ad unità. Esso non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva di tipo appropriativo: ma, appartenendo alla categoria dei c.d. beni liberi, è fruibile dalla collettività e dai singoli. Alle varie forme di godimento è accordata una tutela civilistica la quale trova ulteriore supporto nel precetto costituzionale che circoscrive l'iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) ed in quello che riconosce il diritto di proprietà, ma con i limiti della utilità e della funzione sociale (art. 42 Cost.)”;
- “è infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 l. 08.07.1986 n. 349, nella parte in cui sottrae alla giurisdizione della corte dei conti la responsabilità dei dipendenti dello stato e degli enti pubblici per i danni arrecati all'ambiente nell'esercizio delle proprie funzioni, in riferimento agli art. 5, 25 e 103 cost.
”;
      h) in relazione alla rilettura dell’istituto della responsabilità civile extracontrattuale nel quadro dei valori costituzionali, si veda, tra le altre, Corte cost., 14.07.1986, n. 184 (Foro it., 1986, I, 2053, con nota di PONZANELLI; Giust. civ., 1986, I, 2324; Foro It., 1986, I, 2976, con nota di MANATERI; Riv. giur. circolaz. e trasp., 1986, 1007; Leggi Civili, 1986, 6011, con nota di GIUSTI; Amm. it., 1986, 2010; Nuova giur. civ., 1986, I, 534, con nota di ALPA; Resp. civ. e prev., 1986, 520, con nota di SCALFI), secondo cui:
- “La vigente Costituzione, garantendo principalmente valori personali, impone che l'art. 2043 cod. civ. vada correlato agli articoli della Carta fondamentale (che tutelano i predetti valori) e che, pertanto, sia letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono a causa dell'illecito. Ciò comporta che detto articolo, correlato all'art. 32 Cost., vada necessariamente esteso fino a comprendere il risarcimento, non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma (esclusi i danni morali subiettivi che vanno risarciti ex art. 2059 cod. civ. solo quando l'illecito civile costituisca anche reato) di tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana. Ne consegue che la richiesta di autonomo risarcimento, in ogni caso, del "danno biologico" contiene un implicito, ma ineludibile, invito ad una particolare attenzione alla norma primaria ex art. 32 Cost., la cui violazione fonda il risarcimento ex art. 2043, al contenuto dell'iniuria, di cui allo stesso articolo, ed alla comprensione (non più limitata, quindi, alla garanzia di soli beni patrimoniali) del risarcimento della lesione di beni e valori personali”;
- “il risarcimento del danno, che è una sanzione riparatoria appartenente alla categoria delle sanzioni "esecutive" del precetto primario, tende a ripristinare l'equilibrio tra gli interessi privati in gioco, segue alla violazione della norma di diritto privato e, pertanto, soprattutto alla lesione dell'oggetto specifico, immediatamente garantito dalla stessa norma; si distingue, quindi, nettamente dalla pena, che appartiene invece alla categoria delle sanzioni punitive, e, di conseguenza, tende principalmente a rieducare il reo od a riaffermare l'autorità statale ed a prevenire i pericoli sociali indiretti (recidiva, vendetta privata, ecc.); consegue alla violazione della norma di diritto penale e, pertanto, soprattutto alla lesione degli oggetti giuridici mediati, garantiti precipuamente dalla norma penale”;
- “L'art. 2043 cod. civ. è una sorta di "norma in bianco" in quanto, mentre vi è espressamente e chiaramente indicata l'obbligazione risarcitoria, che consegue al fatto doloso o colposo, non sono individuati i beni giuridici la cui lesione è vietata, essendo l'illiceità oggettiva del fatto, che condiziona il sorgere della detta obbligazione, indicata unicamente attraverso l'"ingiustizia" del danno prodotto dall'illecito. Esso quindi contiene una norma giuridica secondaria, la cui applicazione presuppone l'esistenza di una norma giuridica primaria, perché non fa che statuire le conseguenze dell'ingiuria, dell'atto contra ius, cioè della violazione di una norma di diritto obiettivo, integrativa del precetto non espresso. Pertanto, il riconoscimento del diritto alla salute, come fondamentale diritto alla persona umana, comporta il riconoscimento che l'art. 32, primo comma, Cost. integra l'art. 2043 cit., completandone il precetto primario”;
      i) nel senso della qualificazione dell’art. 2043 c.c. come norma secondaria o sanzionatoria si veda, tra le altre, Cass. civ., sez. un., 22.07.1999, n. 500 (Foro it., 1999, I, 2487, con note di PALMIERI, PARDOLESI; Foro it., 1999, I, 3201 (m), con note di CARANTA, FRACCHIA, ROMANO; Foro it., 1999, I, 3201 (m), con nota di SCODITTI; Giornale dir. amm., 1999, 832, con nota di TORCHIA; Nuovo dir., 1999, 691, con nota di FINUCCI; Contratti, 1999, 869, con nota di MOSCARINI; Giust. civ., 1999, I, 2261, con nota di MORELLI; Urbanistica e appalti, 1999, 1067, con nota di PROTTO; Trib. amm. reg., 1999, II, 225, con nota di BONANNI; Arch. civ., 1999, 1107; Danno e resp., 1999, 965, con nota di CARBONE, MONATERI, PALMIERI; Danno e resp., 1999, 965, con nota di PARDOLESI, PONZANELLI, ROPPO; Corriere giur., 1999, 1367, con nota di DI MAJO, MARICONDA; Mass. giur. lav., 1999, 1272; Gius, 1999, 2760, con nota di BERRUTI; Rass. giur. energia elettrica, 1999, 433; Nuove autonomie, 1999, 563, con nota di SCAGLIONE; Gazzetta giur., 1999, fasc. 35, 42; Guida al dir., 1999, fasc. 31, 36, con nota di MEZZACAPO, CARUSO, DE PAOLA; Guida al dir., 1999, fasc. 31, 36, con nota di FINOCCHIARO; Dir. e pratica società, 1999, fasc. 21, 65; Ammin. it., 1999, 1399; Dir. pubbl., 1999, 463, con nota di ORSI BATTAGLINI, MARZUOLI; Rass. amm. sic., 1999, 9), che, muovendo da tale base, ha affermato la risarcibilità per equivalente dell’interesse legittimo;
      j) sul rapporto tra reintegrazione in forma specifica e risarcimento per equivalente si vedano, tra le altre:
         j1) Cass. civ., sez. III, 21.11.2017, n. 27546 (Rep. foro it., 2017, Danni civili, n. 221), secondo cui “Ai sensi del 2° comma dell'art. 2058 c.c., in virtù del quale, anche se il danneggiato abbia chiesto, quando possibile, la reintegrazione in forma specifica, il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente ove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore, la differenza fra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente consiste nel fatto che, nel primo, la somma dovuta è calcolata sui costi occorrenti per la riparazione, mentre, nel secondo, è riferita alla differenza fra il bene integro (e cioè nel suo stato originario) ed il bene leso o danneggiato”;
         j2) Cass. civ., sez. I, 03.07.1997, n. 5993 (Rep. Foro it., 1997, Danni civili, n. 259), secondo cui “In tema di disposizione del 2º comma dell'art. 2058 c.c., in virtù della quale, anche se il danneggiato abbia chiesto, quando possibile, la «reintegrazione in forma specifica», il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per «equivalente» ove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore, la differenza fra la «riparazione in forma specifica» ed il risarcimento per «equivalente» consiste nel fatto che, nel primo, la somma dovuta è calcolata sui costi occorrenti per la riparazione e, nel secondo, è riferita alla differenza fra il bene integro (e cioè nel suo stato originario) ed il bene leso o danneggiato”;
      k) sulle modificazioni soggettive delle società (anche ad esito di fallimento) responsabili di danni ambientali ovvero proprietarie di terreni e sul regime generale della responsabilità ambientale anche con riferimento alla successione ereditaria, si vedano, oltre alla News US, n. 62 del 24.05.2019, cit. (spec. lett. j):
         k1) Corte di giustizia UE, 04.03.2015, C-534/13, Min. ambiente c. Soc. Fipa Group (in Foro it., 2015, IV, 293; Urbanistica e appalti, 2015, 635, con nota di CARRERA, in Riv. giur. ambiente, 2015, 33 (m), con note di MASCHIETTO, POZZO, GAVAGNIN, in Rass. forense, 2015, 138, in Giur. it., 2015, 1480 (m), con note di VIPIANA PERPETUA, VIVANI, in Riv. quadrim. dir. ambiente, 2015, fasc. 1, 186, con nota di GRASSI, in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 137, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2015, 946, con nota di ANTONIOLI, in Nuovo notiziario giur., 2015, 615, con nota di CARDELLA, in Ragiusan, 2016, fasc. 381, 122), secondo cui: “La direttiva 2004/35/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi”.
La sentenza in esame ha escluso distonie tra la direttiva 2004/35/Ce e le disposizioni italiane secondo le quali, ove sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito od ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, l’autorità competente non può imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi;
         k2) Cons. Stato, Ad. plen., 13.11.2013, n. 25, e 25.09.2013, n. 21 (in Giurisdiz. amm., 2013, ant., 53, in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 2296, in Giornale dir. amm., 2014, 365 (m), con nota di SABATO, in Riv. giur. edilizia, 2013, I, 835, in Riv. amm., 2013, 715, e in Ragiusan, 2014, fasc. 361, 131), secondo cui “Si rimette all'esame della corte di giustizia Ue la questione pregiudiziale di corretta interpretazione relativa al se i principi dell'Ue in materia ambientale sanciti dall'art. 191 par. 2 Tfuee dalla dir. Ce 21.04.2004 n. 35 (art. 1 e 8 n. 3, tredicesimo e ventiquattresimo considerando) -in particolare, il principio «chi inquina paga», il principio di precauzione, il principio dell'azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all'ambiente- ostino a una normativa nazionale, quale quella delineata dagli art. 244, 245 e 253 d.leg. 03.04.2006 n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest'ultimo gli interventi di riparazione, non consente all'autorità amministrativa di imporre l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell'inquinamento, prevedendo, a carico di quest'ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l'esecuzione degli interventi di bonifica”;
      l) con riferimento al principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, si vedano, tra le altre:
         l1) Cons. Stato, sez. VI, 09.11.2018, n. 6330 (Società, 2019, 841, con nota di DE POLI; Foro amm., 2018, 1942), per un’analisi della giurisprudenza convenzionale in materia, secondo cui, tra l’altro, “La rettificazione del prezzo disposto dalla Consob non ha natura di sanzione amministrativa, né di pena in senso convenzionale, trattandosi invece di una misura conformativa avente la finalità preminente di «restituire» agli azionisti di minoranza le condizioni di scelta economica che il mercato avrebbe espresso ove non fosse stato perturbato dall'asserito comportamento collusivo di offerente e venditore; la funzione espressa dalla delibera della Consob è la regolazione economica del mercato finanziario; la «collusione accertata» tra l'offerente e uno o più venditori, da cui «emerga il riconoscimento di un corrispettivo più elevato di quello dichiarato dall'offerente», che consente alla Consob, ai sensi dell'art. 106, 3° comma, lettera d), numero 2), tuf, di rettificare in aumento il prezzo dell'offerta, implica l'accertamento di un accordo, o comunque di un'intesa in senso lato, volta a perseguire l'obiettivo di eludere le norme che presidiano la formazione del prezzo dell'Opa”;
         l2) Corte EDU, 08.06.1976, Engel e altri (Foro it., 1977, IV, 1), secondo cui, tra l’altro:
- “Sussiste violazione dell'art. 6, § 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, nella parte in cui prevede la pubblicità del processo, nel caso che il dibattito si sia svolto a porte chiuse, vietando l'accesso alla stampa ed al pubblico, fuori dalle situazioni eccezionali previste da tale disposizione”;
- “Le garanzie di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione europea, che riconosce il diritto ad un processo equo, si applicano ad un procedimento relativo alla fondatezza di un'accusa penale nei confronti di un individuo, che trae origine da una sanzione considerata di matura semplicemente disciplinare dal diritto interno dello Stato convenuto, ma che in realtà persegue obiettivi analoghi a quelli propri del diritto penale. Per stabilire in concreto il carattere penale della sanzione applicata ai fini dell'applicazione dell'art. 6 della Convenzione, una particolare importanza deve essere in primo luogo attribuita alla natura effettiva della misura adottata ed in secondo luogo al grado di severità della sanzione. Di conseguenza, soltanto una misura che, per natura, durata o modalità di esecuzione, abbia effetti minimi sulla libertà personale di un individuo può essere considerata al di fuori della sfera penale”;
      m) sul carattere permanente del danno ambientale:
         m1) Cass. civ., sez. III, 19.02.2016, n. 3259 (Guida al dir., 2016, fasc. 15, 24, con nota di PISELLI), secondo cui “in materia di danno ambientale, la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento dell'ambiente nelle condizioni di danneggiamento, sicché il termine prescrizionale dell'azione di risarcimento inizia a decorrere solo dal momento in cui tali condizioni siano state volontariamente eliminate dal danneggiante ovvero la condotta sia stata resa impossibile dalla perdita incolpevole della disponibilità del bene da parte di quest'ultimo”;
         m2) Cass. civ., sez. III, 06.05.2015, n. 9012 (Danno e resp., 2016, 646, con nota di COVUCCI), secondo cui, tra l’altro, “In materia di danno ambientale, la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento dell'ambiente nelle condizioni di danneggiamento, sicché il termine prescrizionale dell'azione di risarcimento inizia a decorrere solo dal momento in cui tali condizioni siano state volontariamente eliminate dal danneggiante ovvero la condotta sia stata resa impossibile dalla perdita incolpevole della disponibilità del bene da parte di quest'ultimo”;
      n) sulla responsabilità dell’incorporante per l’illecito civile posto in essere dalla incorporata si veda Cass. civ., sez. III, 11.11.2015, n. 22998 (Rep. Foro it., 2015, Società, n. 727), secondo cui “La fusione di società, anche mediante incorporazione, realizza una successione universale corrispondente a quella mortis causa delle persone fisiche, sicché il nuovo soggetto risultante dalla fusione (o il soggetto incorporante) diviene l'unico e diretto obbligato per i debiti dei soggetti estinti in ragione della fusione o della incorporazione, fra i quali vanno ricompresi anche quelli derivanti da responsabilità di cose in custodia ex art. 2051 c.c., in relazione ai danni causati da un incendio delle parti comuni di un immobile di proprietà della società incorporata”;
      o) sull’orientamento, antecedente all’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 2504-bis c.c., contrario alla responsabilità dell’incorporante, si veda Cass. civ., sez. I, 22.09.1997, n. 9349 (Riv. giur. circolaz. e trasp., 1997, 827), secondo cui “In caso di fusione per incorporazione di due società di capitali, la società incorporante non risponde del pagamento delle sanzioni amministrative irrogate per violazioni al codice della strada commesse da veicoli di proprietà della società incorporata, qualora al momento della notificazione del verbale di accertamento fosse già avvenuta l'incorporazione”;
      p) sul principio cuius commoda eius et incommoda, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale:
         p1) in caso di fallimento: con riferimento a un provvedimento di messa in sicurezza di un sito inquinato, Cons. Stato, sez. IV, 04.12.2017, n. 5668 (Fallimento, 2018, 590, con nota di D'ORAZIO; Riv. giur. ambiente, 2018, 157 (m), con nota di VANETTI; Ambiente, 2018, 102 (m); Foro amm., 2017, 2381), secondo cui “L’obbligo di adottare le misure sia urgenti sia definitive idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento deve essere posto unicamente a carico di chi ne sia responsabile per avervi dato causa a titolo di dolo o colpa; al contempo il principio chi inquina paga presuppone che sia stato cagionato un danno da riparare i cui costi devono gravare sul responsabile; il curatore fallimentare, cui non è riconducibile lo statuto del «detentore», non è né rappresentante né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio esclusivamente per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge, sicché è privo di legittimazione passiva in relazione alle ordinanze emesse dai rappresentanti degli enti territoriali, tranne l'ipotesi dell'esercizio provvisorio dell'impresa”; più in generale, Cass. civ., sez. un., 20.02.2013, n. 4213 (Foro it., 2013, I, 1137, con nota di FABIANI M.; Guida al dir., 2013, fasc. 14, 45, con nota di GRAZIANO; Giur. it., 2013, 2099; Fallimento, 2013, 925, con nota di BOSTICCO; Banca, borsa ecc., 2014, II, 400, con nota di RANIELI), secondo cui, tra l’altro, “Poiché nel procedimento di accertamento del passivo il curatore fallimentare assume la posizione di terzo, le scritture private a fondamento del credito sono soggette ai limiti probatori di cui all'art. 2704 c.c. e debbono quindi essere munite di data certa”;
         p2) sulla successione del debito in caso di cessione di azienda, con la particolarità che in questo caso la successione dell’acquirente nei debiti inerenti all’azienda è limitata a quelli risultanti dai libri contabili obbligatori ai sensi dell’art. 2560, secondo comma, c.c.: Cons. Stato, Ad. plen., 07.06.2012, n. 21 (Giurisdiz. amm., 2012, a. 107; Arch. giur. oo. pp., 2012, 490; Nuovo notiziario giur., 2012, 411, con nota di BARBIERI; Foro amm.-Cons. Stato, 2012, 1523), secondo cui, tra l’altro, “Nel caso di incorporazione o di fusione societaria, sussiste in capo alla società incorporante, o risultante dalla fusione, l'onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all'art. 38, 1º comma, lett. c), d.leg. n. 163 del 2006 anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la società incorporata o le società fusesi, nell'ultimo triennio ovvero che sono cessati dalla relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del 2011: nell'ultimo anno), ferma restando la possibilità di dimostrare la c.d. dissociazione”; Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2012, n. 10 (Urbanistica e appalti, 2012, 889, con nota di FILIPPETTI; Contratti Stato e enti pubbl., 2012, fasc. 3, 66, con nota di CALIANDRO; Giurisdiz. amm., 2012, a. 28; Arch. giur. oo. pp., 2012, 447; Nuovo notiziario giur., 2012, 410, con nota di BARBIERI; Foro amm.-Cons. Stato, 2012, 1091; Riv. giur. edilizia, 2012, I, 754), secondo cui, tra l’altro, “In caso di cessione d'azienda o di un suo ramo realizzatasi prima della partecipazione alla gara, la dichiarazione circa l'insussistenza di sentenze pronunciate per reati incidenti sulla moralità professionale deve essere resa, a pena di esclusione, anche da parte degli amministratori e dei direttori tecnici che hanno operato nel triennio (ora nell'anno, a seguito delle modifiche introdotte con l. 106/2011) presso l'impresa cedente”, “Nella cessione di azienda o di un ramo di essa -fattispecie in cui si verifica una successione a titolo particolare- si realizza, in ogni caso, il passaggio all'avente causa del complesso dei rapporti attivi e passivi nei quali l'azienda stessa o il suo ramo si sostanzia, e ciò rende la vicenda suscettibile di comportare la continuità tra la precedente e la nuova gestione imprenditoriale” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza, sentenza 22.10.2019 n. 10 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: 1.- Ambiente – tutela dell’Ambiente – genesi normativa.
   2.- Ambiente – tutela dall’inquinamento – bonifica di un sito inquinato – identificazione del responsabile societario – criteri.

   1. Rimonta agli anni ’70 del secolo scorso ad opera della dottrina, in parallelo con l’affermarsi dello sviluppo urbanistico ed industriale ed il maturare in contrapposizione ad esso di una diffusa coscienza ecologica, l’elaborazione dell’Ambiente come bene giuridico autonomo ed unitario, oggetto di protezione giuridica contro le aggressioni umane.
L’emergere di questo “nuovo” bene giuridico nasce dall’opera di riduzione ad unità della legislazione dell’epoca, allora contraddistinta da normative di carattere settoriale poste a salvaguardia degli elementi costitutivi del paesaggio e delle bellezze naturali quali il suolo, l’aria e l’acqua, già oggetto sin da epoca antecedente alla Costituzione di tutela in altre forme e ad altri scopi, e cioè attraverso un regime di carattere essenzialmente conservativo proprio della tutela della tutela paesaggistica e culturale (in particolare con la legge 09.06.1939, n. 1497 -Protezione delle bellezze naturali; poi abrogata nel 1999).
Alle caratteristiche tipiche della tutela conservativa tradizionale, essenzialmente incentrata sui vincoli alle attività umane a tutela del valore di bellezza naturale e paesaggistica del bene, si è affiancata, in quell’epoca di crescita industriale, un’azione di vigilanza, prevenzione e repressione delle condotte umane nocive per i singoli elementi costitutivi dell’Ambiente sulla base di discipline normative di settore.
Sulla base della descritta linea di tendenza è pertanto maturata presso la dottrina una nozione autonoma di Ambiente come bene giuridico, in funzione della sua protezione contro pregiudizi in grado di tramutarsi in danno dello stesso “uomo aggressore”, con la privazione o il deterioramento irreversibile delle citate matrici ambientali fondamentali per la sua esistenza.
Nell’ambito di questa evoluzione del pensiero giuridico è stato quindi messo in luce che la qualificazione normativa di bene ambientale nasce dal riscontro delle sue oggettive caratteristiche materiali, per cui l’atto giuridico (legge o provvedimento amministrativo) che tale lo qualifichi e ne istituisca il relativo regime di tutela ha natura dichiarativa, di accertamento di una qualità ad esso immanente; ed inoltre che rispetto alla considerazione unitaria del bene con finalità di tutela ambientale sono recessivi gli aspetti legati alla sua composizione materiale (se cioè il bene sia composto a sua volta da un insieme di singole cose materiali) e al suo regime dominicale, pubblico, collettivo o privato cui gli lo stesso è sottoposto, poiché l’elevazione a bene ambientale determina comunque una funzionalizzazione delle relative facoltà.
   2. La bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento
(massima free tratta da www.giustamm.it - Consiglio di Stato, A.P., sentenza 22.10.2019 n. 10 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAL’Adunanza plenaria si pronuncia sulla bonifica del sito inquinato da parte della società subentrata per effetto di fusione per incorporazione alla società responsabile.
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Inquinamento – Inquinamento ambientale – Bonifica – Società subentrata per effetto di fusione per incorporazione alla società responsabile – Responsabile per fatti della società originaria - Limiti
La bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento.
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   (1) La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. IV, ord., 07.05.2019, n. 2928.
Ha premesso l’Alto consesso che anche prima che venisse introdotto l’istituto della bonifica, con l’art. 17, d.lgs. n. 22 del 1997, il danno all’ambiente costituiva un illecito civile, previsto dall’art. 2043 cod. civ..
Ha aggiunto che gli obblighi in questione siano trasmissibili in virtù di fusione per incorporazione dalla società responsabile del danno incorporata alla società incorporante.
Al quesito ora posto non può che essere data risposta positiva proprio sulla base del tenore letterale del poc’anzi richiamato art. 2504-bis, comma 1, cod. civ., che include espressamente nella vicenda traslativa in questione «gli obblighi delle società estinte», ovvero di quelle incorporate (analoga formulazione reca peraltro la medesima disposizione dopo la riforma del diritto societario, con la sola differenza che in luogo delle società estinte si fa riferimento alle «società partecipanti alla fusione» e al fatto che in tutti i rapporti giuridici di queste ultime, anche quelli processuali, vi è una “prosecuzione” dell’incorporante).
Con riguardo al previgente regime, nel senso che negli obblighi dell’incorporata di cui l’incorporante diviene l’unico obbligato a seguito di fusione rientrano anche quelli derivanti da responsabilità civile si è espressa la Cassazione (Sezione III civile, sentenza 11.11.2015, n. 22998, in un caso di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 cod. civ.).
Sul piano dogmatico la conclusione è avvalorata dal fatto che “responsabilità civile” è espressione che designa l’insieme delle conseguenze cui un soggetto deve sottostare per legge in conseguenza di un fatto illecito da lui commesso, che nel caso dell’illecito civile consistono nell’«obblig(o) (…) a risarcire il danno» o nell’alternativa della «reintegrazione in forma specifica», anch’essa pertanto oggetto di obbligo, rispettivamente ai sensi dei più volte richiamati artt. 2043 e 2058 del codice civile, oltre che della più generale norma contenuta nell’art. 1173 cod. civ., che pone il fatto illecito tra le fonti di obbligazione.
La successione dell’incorporante negli obblighi dell’incorporata è espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et incommoda, cui è informata la disciplina delle operazioni societarie straordinarie, tra cui la fusione, anche prima della riforma del diritto societario, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale.
Anche prima che venisse sancito il carattere evolutivo-modificativo di quest’ultimo tipo di operazione era infatti indubbio che l’ente societario subentrato a quello estintosi per effetto dell’incorporazione acquisiva il patrimonio aziendale di quest’ultimo, di cui sul piano contabile fanno parte anche le passività, ovvero i debiti inerenti all’impresa esercitata attraverso la società incorporata (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 22.10.2019 n. 10 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
   § - 5. Così sintetizzate le questioni di diritto deferite a questa Adunanza plenaria, la loro risoluzione richiede di affrontare tre punti controversi, posti in rapporto di consecuzione logica, di seguito esposti:
   a) innanzitutto
se la condotta di inquinamento ambientale commessa prima che nell’ordinamento giuridico fosse introdotta la bonifica dei siti inquinati sia qualificabile come illecito, fonte di responsabilità civile per il suo autore, e in quale fattispecie normativa di quest’ultimo istituto il fatto possa essere inquadrato;
   b) quindi, in caso di risposta positiva al primo punto,
quali siano i rapporti tra la figura di illecito così individuato e la bonifica e pertanto se, incontestata la discontinuità normativa tra i due istituti, sia nondimeno possibile ordinare la bonifica per fatti risalenti ad epoca antecedente alla sua introduzione a livello legislativo;
   c) infine, ammessa l’ipotesi positiva per il secondo punto,
se gli obblighi e le responsabilità conseguenti alla commissione dell’illecito siano trasmissibili per effetto di operazioni societarie straordinarie quale la fusione, secondo la legislazione civilistica vigente a quell’epoca vigente.
§ - 6. La risposta al quesito sub a) è nel senso che anche prima che nell’ordinamento giuridico venisse introdotta la bonifica, con il più volte citato art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997, l’inquinamento ambientale era considerato un fatto illecito. Nel sostenere la tesi contraria la società appellante si pone in contrasto con acquisizioni pacifiche presso la dottrina e la giurisprudenza.
§ - 6.1. Rimonta agli anni ’70 del secolo scorso ad opera della dottrina, in parallelo con l’affermarsi dello sviluppo urbanistico ed industriale ed il maturare in contrapposizione ad esso di una diffusa coscienza ecologica, l’elaborazione dell’ambiente come bene giuridico autonomo ed unitario, oggetto di protezione giuridica contro le aggressioni umane.
L’emergere di questo “nuovo” bene giuridico nasce dall’opera di riduzione ad unità della legislazione dell’epoca, allora contraddistinta da normative di carattere settoriale poste a salvaguardia degli elementi costitutivi del paesaggio e delle bellezze naturali quali il suolo, l’aria e l’acqua, già oggetto sin da epoca antecedente alla Costituzione di tutela in altre forme e ad altri scopi, e cioè attraverso un regime di carattere essenzialmente conservativo proprio della tutela della tutela paesaggistica e culturale (in particolare con la legge 09.06.1939, n. 1497 - Protezione delle bellezze naturali; poi abrogata nel 1999).
Alle caratteristiche tipiche della tutela conservativa tradizionale, essenzialmente incentrata sui vincoli alle attività umane a tutela del valore di bellezza naturale e paesaggistica del bene, si stava in quell’epoca di crescita industriale sviluppando per via legislativa un’azione di vigilanza, prevenzione e repressione delle condotte umane nocive per i singoli elementi costitutivi dell’ambiente sulla base di discipline normative di settore.
Sulla base della descritta linea di tendenza è pertanto maturata presso la dottrina una nozione autonoma di quest’ultimo come bene giuridico, in funzione della sua protezione contro pregiudizi in grado di tramutarsi in danno dello stesso “uomo aggressore”, con la privazione o il deterioramento irreversibile delle citate matrici ambientali fondamentali per la sua esistenza.
Nell’ambito di questa evoluzione del pensiero giuridico è stato quindi messo in luce che la qualificazione normativa di bene ambientale nasce dal riscontro delle sue oggettive caratteristiche materiali, per cui l’atto giuridico (legge o provvedimento amministrativo) che tale lo qualifichi e ne istituisca il relativo regime di tutela ha natura dichiarativa, di accertamento di una qualità ad esso immanente; ed inoltre che rispetto alla considerazione unitaria del bene con finalità di tutela ambientale sono recessivi gli aspetti legati alla sua composizione materiale (se cioè il bene sia composto a sua volta da un insieme di singole cose materiali) e al suo regime dominicale, pubblico, collettivo o privato cui gli lo stesso è sottoposto, poiché l’elevazione a bene ambientale determina comunque una funzionalizzazione delle relative facoltà.
§ - 6.2. L’elaborazione dottrinale ha trovato riscontro nella giurisprudenza di quell’epoca che, traendo fondamento dalla Costituzione, ed in particolare gli artt. 9 e 32, ha elevato l’ambiente a diritto individuale, tutelabile attraverso la tecnica della responsabilità civile extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ., a fondamento della quale sta il precetto generale del neminem laedere; in parallelo si è sviluppata la tutela della proprietà contro immissioni intollerabili prevista dall’art. 844 cod. civ., intesa tuttavia secondo una logica non più meramente dominicale, ma in funzione del benessere dell’individuo e del suo interesse personale a godere di un habitat naturale salubre ed incontaminato.
§ - 6.3. Nella descritta temperie culturale il danno all’ambiente è stato infine positivizzato, con l’art. 18 della legge 08.07.1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale), ora abrogato, che in assonanza con la fattispecie generale prevista dal poc’anzi citato art. 2043 cod. civ. ha tipizzato come fatto illecito «Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte», fonte di obbligo per il suo «autore» al risarcimento del danno a favore dello Stato (comma 1).
§ - 6.4. Come affermato dalla Corte costituzionale, con la nuova fattispecie di illecito ambientale si è avuto il recepimento a livello normativo della concezione dell’ambiente come «bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità»; oggetto di considerazione legislativa «come elemento determinativo della qualità della vita» in relazione ad «un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti»; e pertanto elevato a bene protetto attraverso l’azione dei pubblici poteri «imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto» (sentenza 31.12.1987, n. 641, di rigetto delle questioni di costituzionalità della nuova fattispecie di danno ambientale nella parte in cui la relativa cognizione è stata devoluta al giudice ordinario anziché alla Corte dei conti).
Nell’inquadrare il danno all’ambiente nel paradigma generale della responsabilità civile la Corte costituzionale ha poi precisato che l’art. 2043 cod. civ. «va posto in correlazione con la disposizione che prevede il bene giuridico tutelato attraverso la posizione del divieto primario. La sanzione risarcitoria è conseguenza della lesione della situazione giuridica tutelata. (…) Risultano rimedi a tutta la indefinita e sterminata serie degli eventi lesivi che l’uomo quotidianamente si inventa utilizzando anche, in maniera distorta e a proprio esclusivo vantaggio, il progresso tecnologico».
§ - 6.5. La pronuncia ora richiamata si colloca nel solco della concezione dell’istituto della responsabilità civile extracontrattuale “aperta” ai valori costituzionali («rilettura costituzionale di tutto il sistema codicistico dell’illecito civile») espressa dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza 14.07.1986, n. 184, sul danno biologico.
In base a tale concezione è considerato illecito civile ogni fatto ingiusto lesivo di beni giuridicamente tutelati, ivi compresi quelli per i quali il bisogno di protezione matura sulla base delle spinte emergenti «dall’esperienza, ispirata ai valori, personali, esplicitamente garantiti dalla Carta costituzionale».
Sul piano tecnico-giuridico la tutela di questi “nuovi beni” viene consentita sulla base dell’atipicità della fattispecie prevista dall’art. 2043 cod. civ., imperniata sulla clausola generale del «danno ingiusto» provocato da «Qualunque fatto doloso o colposo»; e della sua natura di norma secondaria o sanzionatoria: «obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno» (va ricordato che sulla base della stessa qualificazione dell’art. 2043 cod. civ. di norma secondaria o sanzionatoria è stata affermata la risarcibilità per equivalente dell’interesse legittimo, con la sentenza delle Sezioni unite civili della Cassazione del 22.07.1999, n. 500).
§ - 6.6. In base alla descritta concezione dell’illecito civile extracontrattuale si è poi escluso che l’art. 18 della legge n. 349 del 1986 abbia avuto portata innovativa sul piano della considerazione dell’ambiente come bene giuridico protetto.
La fonte genetica della sua tutela è stata invece individuata «direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente, come diritto vigente e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (quali gli articoli 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l’individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale, ambientale» (Cass. civ., III, 19.06.1996, n. 5650, di conferma della condanna al risarcimento dei danni subiti dai Comuni coinvolti nel disastro del Vajont, come noto avvenuto molti anni prima dell’entrata in vigore della legge n. 349 del 1986).
Nella pronuncia ora richiamata la Suprema Corte ha invece individuato quale unico elemento di novità della fattispecie introdotta nel 1986 quello consistito nel definire il riparto di competenze nella tutela dell’ambiente tra Stato, enti territoriali ed associazioni di protezione ambientale.
§ - 6.7. Ai rilievi svolti dalla Cassazione può aggiungersi che l’illecito così tipizzato ha sancito sul più generale piano sistematico la dimensione collettiva e super-individuale del danno all’ambiente, comprensivo di tutti i costi sociali conseguenti ad aggressioni dell’habitat naturale, consistenti in diseconomie esterne di produzione ed emergente, tra l’altro:
   - dal riferimento operato dal comma 5 dell’art. 18 l. n. 349 del 1986 al «costo necessario per il ripristino» per la determinazione del danno, nel caso di impossibilità di una sua «precisa quantificazione»;
   - e dalla previsione contenuta nel comma 8, per cui in caso di condanna è disposto «ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile».
§ - 6.8. Illuminanti rispetto alle caratteristiche del danno ambientale sono ancora una volta i passaggi motivazionali della sentenza della Corte costituzionale del 31.12.1987, n. 641, sopra menzionata, in particolare laddove: si afferma che il danno risarcibile per l’illecito ambientale «è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l’alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene ad essere gravata da oneri economici»; e si precisa che l’ambiente, benché non sia «un bene appropriabile», nondimeno «si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo».
Secondo la Corte costituzionale quest’ultimo corrisponde ai costi dell’azione pubblica di conservazione e tutela «tra cui quella di polizia che regolarizza l’attività dei soggetti e crea una sorveglianza sull’osservanza dei vincoli; la gestione del bene in senso economico con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali».
Su questa base -prosegue la Corte- è pertanto possibile «confrontare i benefici con le alterazioni; si può effettuare la stima e la pianificazione degli interventi di preservazione, di miglioramento e di recupero; si possono valutare i costi del danneggiamento. E per tutto questo l’impatto ambientale può essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di dare all’ambiente e quindi al danno ambientale un valore economico».
§ - 6.9. Dalle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale emerge pertanto una funzione riparatoria dell’illecito ambientale non circoscritta alla sola differenza di valore del bene leso rispetto a quello che aveva prima del danno, secondo lo schema proprio del tipico illecito civile fonte lesivo di beni di carattere individuale, ma estesa a tutti costi necessari per ripristinare il complessivo pregiudizio inferto all’ecosistema naturale.
Sotto il profilo ora evidenziato il danno all’ambiente risarcibile ai sensi dell’art. 18 l. n. 349 del 1986, anche attraverso una somma di denaro, assume pertanto i connotati della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 cod. civ. (in questi termini è la costante giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass. civ., I, 03.07.1997, n. 5993; III, ord. 21.11.2017, n. 27546).
Tuttavia, rispetto al rimedio di carattere generale previsto da quest’ultima disposizione, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile previsto dal sopra citato comma 8 del medesimo art. 18 della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente non soggiace al limite dell’eccessiva onerosità, ma solo a quello della possibilità, per cui sotto questo profilo la tutela dell’ambiente è rafforzata rispetto agli ordinari strumenti dell’illecito civile.
§ - 7. Chiarito pertanto che anche prima che venisse introdotto l’istituto della bonifica, con l’art. 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997, il danno all’ambiente costituiva un illecito civile, previsto dall’art. 2043 cod. civ., si può passare pertanto ad esaminare il punto sub b) e dunque a stabilire i rapporti tra i due istituti.
§ - 7.1. Come esposto in precedenza, l’ordinanza di deferimento della IV Sezione non ha inteso contestarne il rapporto di discontinuità normativa, affermato dalla V Sezione nel più volte ricordato precedente di cui alla sentenza del 05.12.2008, n. 6055, sulla base di un’approfondita analisi strutturale delle norme ad esse relative.
La Sezione rimettente ha invece proposto una diversa chiave di lettura di tali rapporti, incentrata sulla comune funzione «ripristinatoria-reintegratoria», della responsabilità civile e della bonifica, tale da consentire di ordinare quest’ultima per fenomeni di inquinamento risalenti ad epoca antecedente alla sua introduzione nell’ordinamento giuridico.
§ - 7.2. I rilievi svolti dalla Sezione rimettente sono corretti.
L’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 ha introdotto il rimedio della «messa in sicurezza», «bonifica» «ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento», nei confronti di situazioni anche solo di «pericolo concreto ed attuale» di superamento dei livelli di concentrazione di sostanze inquinanti –fissati con il regolamento di attuazione approvato con decreto interministeriale del 25.10.1999, n. 471– causate «anche in maniera accidentale» (comma 2), ed attribuito la competenza all’autorità amministrativa (commi 3 e seguenti).
Lungi dal segnare una discontinuità con la precedente legislazione in materia, le misure in questione sono al contrario state poste in dichiarata concorrenza con esse, ai sensi dell’art. 18, comma 4, del citato regolamento approvato con d.m. n. 471 del 1999 (ora abrogato), secondo cui «E’ fatto comunque salvo l’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi e di risarcimento del danno ambientale ai sensi dell'articolo 18 della legge 08.07.1986, n. 349».
§ - 7.3. Nel ravvisare sulla base degli elementi ora descritti, e di ulteriori, un’«assenza di continuità normativa» tra la disposizione introdotta nel 1997 e la figura generale di illecito civile, e nel concludere nel senso dell’impossibilità di applicare la prima in via retroattiva a fatti antecedenti alla sua entrata in vigore, la V Sezione non ha quindi considerato nel precedente del 2008 che le (pur innegabili) differenze strutturali tra le due norme sono conseguenti non già all’introduzione di un nuovo fatto illecito, offensivo di un bene in precedenza non ritenuto meritevole di protezione ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., ma all’esigenza di rafforzare la tutela del bene ambiente, già oggetto di protezione legislativa con il rimedio previsto da quest’ultima disposizione e con la specifica disposizione dell’art. 18 della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente.
La citata disposizione regolamentare è nello specifico indice del fatto che tanto le misure introdotte con il decreto legislativo n. 22 del 1997, poi trasfuse nel codice dell’ambiente attualmente vigente, quanto il rimedio del risarcimento del danno già riconosciuto sulla base dell’art. 2043 cod. civ., e poi con la legge n. 349 del 1986, hanno la medesima funzione («ripristinatoria-reintegratoria») di protezione dell’ambiente. Le prime si pongono in particolare l’obiettivo di non limitare la tutela al solo equivalente monetario dei danni prodotti, come per il passato, ma di prevenirne la verificazione e, in caso contrario, di porre a carico del responsabile la rimozione e i relativi oneri.
§ - 7.4. Come in precedenza accennato, la funzione di prevenzione è peraltro consustanziale alla generale azione dei pubblici poteri di tutela dell’ambiente. Essa emerge dall’evoluzione legislativa in materia, realizzatasi sulla spinta del diritto europeo e del principio cardine “chi inquina paga” (ora sancito a livello sovranazionale dall’art. 191 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e dall’art. 3-ter del codice dell’ambiente di cui al d.lgs. n. 152 del 2006), con il quale si mira a fare ricadere i costi dei danni causati all’ambiente sui soggetti responsabili piuttosto che non sulla collettività e riparati con denaro pubblico, o su soggetti incolpevoli che nondimeno si trovano in una qualche relazione materiale o giuridica con il sito inquinato.
Solo attraverso un’azione di tutela preventiva è infatti possibile impedire che danni all’ambiente si producano e che, dunque, accertate le relative responsabilità, debbano attivarsi tutte le procedure necessarie per rimuovere la situazione di pregiudizio, con il rischio di una loro inattuazione e dell’impossibilità di integrale riparazione per equivalente dei costi del ripristino.
Oltre alla funzione preventiva gli istituti introdotti a partire dal decreto legislativo n. 22 del 1997, su impulso della legislazione europea (in particolare della direttiva 2004/35/CE del 21.04.2004 -«sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale»), hanno quindi posto in rilievo l’esigenza di assicurare il ripristino ambientale, sulla base del rilievo, espresso nel considerando n. 13, che la responsabilità civile prevista dagli ordinamenti giuridici nazionali non sempre è «uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a atti o omissioni di taluni singoli soggetti».
In questa direzione si collocano da ultimo le modifiche introdotte al codice dell’ambiente, ed in particolare all’art. 311, relativo all’«Azione risarcitoria in forma specifica» (così la rubrica), introdotte dalla legge europea 2013 (legge 06.08.2013, n. 97), incentrate nel loro complesso ad attribuire ad esso carattere prioritario ed invece subordinato alla tutela per equivalente, in funzione di una più efficace tutela dell’ambiente. Rispetto all’assetto originariamente prefigurato dalla legge istitutiva del Ministero dell’ambiente di equiordinazione tra i due rimedi, ripristinatorio e di reintegrazione per equivalente, la legislazione successiva ha così sancito la priorità del primo.
§ - 7.5. Può pertanto ritenersi pacifico che le misure introdotte nel 1997, ed ora disciplinate dagli artt. 239 e ss. del codice di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, hanno nel loro complesso una finalità di salvaguardia del bene ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o danno, nelle quali è assente ogni matrice di sanzione rispetto al relativo autore.
Come inoltre puntualmente rilevato dalla Sezione rimettente tali misure non appartengano al «diritto lato sensu punitivo», sebbene per esse sia imprescindibile un accertamento di responsabilità (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., ord. 13.11.2013, nn. 21 e 25), ma si collocano invece nel tessuto connettivo formato dalla normativa ora menzionata.
§ - 7.6. Se poi nemmeno l’appellante arriva a sostenere la tesi opposta, è sufficiente allora osservare che le misure in questione si concretizzano in obblighi di fare a carico del responsabile, sotto la vigilanza dell’amministrazione pubblica competente (attraverso l’approvazione del progetto di bonifica) con l’unico scopo di ripristinare la situazione di fatto antecedente all’inquinamento ambientale e di rimuoverne gli effetti.
Come correttamente rilevato dalla IV Sezione nell’ordinanza di deferimento all’Adunanza plenaria, la bonifica costituisce in estrema sintesi «uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare la diminuzione del relativo valore (in ciò sostanziandosi la tutela per equivalente), ma a consentirne il recupero materiale a cura e spese del responsabile della contaminazione».
Sotto il profilo ora evidenziato si palesa pertanto nella bonifica la funzione di reintegrazione del bene giuridico «leso dall’illecito» (così ancora l’ordinanza di rimessione) propria della responsabilità civile e riecheggiante il rimedio della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 cod. civ., già espressamente previsto per il danno all’ambiente dall’art. 18, comma 8, della legge n. 349 del 1986 nella forma del «ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile», come in precedenza esposto.
§ - 7.7. Sul punto va aggiunto che prima che fosse introdotta quest’ultima disposizione la fattispecie di carattere generale della reintegrazione in forma specifica ai sensi del medesimo art. 2058 cod. civ. doveva comunque ritenersi applicabile in virtù del rapporto di alternatività con il rimedio dell’equivalente monetario previsto in caso di fatto illecito dall’art. 2043 del codice civile. Inoltre, analogamente a quanto avvenuto in occasione dell’istituzione del Ministero dell’ambiente e della fattispecie di illecito relativo a tale bene, anche allorché è stata introdotta nell’ordinamento giuridico la bonifica di siti inquinati, con il più volte citato d.lgs. n. 22 del 1997, non è stato previsto il limite dell’eccessiva onerosità (previsto dal comma 2 dell’art. 2058).
Si tratta nondimeno di una differenza che, lungi dal segnare l’incompatibilità tra il rimedio della bonifica dei siti inquinati rispetto all’istituto della responsabilità civile per fatto illecito e la sua collocazione nella materia del diritto punitivo, si spiega invece alla luce del preminente valore assegnato dalla Costituzione all’ambiente nella gerarchia dei beni giuridici, sulla base dei già citati artt. 9 e 32 della Carta fondamentale, e della sopra evidenziata dimensione collettiva del danno a tale bene, rispetto ai pregiudizi riferibili alla sfera soggettiva del singolo.
§ - 7.8. In senso conforme depone l’indagine condotta sulla base dei principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di diritto punitivo, in relazione al principio del ne bis in idem (sancito dall’art. 4 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione), secondo la quale a prescindere dalla formale qualificazione giuridica da parte del diritto nazionale occorre avere riguardo alla natura, scopo e gravità delle conseguenze sull’autore dell’illecito (cfr. la sentenza “capo stipite” dell’08.06.1976, Engel v. Paesi Bassi).
A questo riguardo la Corte europea ha in particolare negato natura di sanzione penale alle misure che soddisfano pretese risarcitorie o che siano essenzialmente dirette a ripristinare la situazione di legalità e restaurare così l’interesse pubblico leso (sentenza 07.07.1989, Tre Traktörer Aktiebolag c. Svezia, citata dalla VI Sezione di questo Consiglio di Stato nella sentenza del 09.11.2018, n. 6330, nell’ambito di una più approfondita analisi della giurisprudenza convenzionale in materia, alla quale si fa rinvio).
§ - 7.9. Impostati in questi termini i rapporti tra i due istituti, l’indagine condotta sul piano della continuità normativa tra gli stessi si rivela errato nelle sue premesse.
La tecnica di analisi dei rapporti tra norme ora richiamata è infatti propria del diritto penale o punitivo in generale, nel quale, per il carattere in sé afflittivo delle sanzioni in esso previste, domina il principio di legalità, che nella sua dimensione diacronica si declina tra l’altro secondo i principi dell’irretroattività della norma incriminatrice o sanzionatoria e dell’applicazione della norma più favorevole in caso di successione di norme di tale natura (artt. 2 del codice penale e 1 della legge 24.11.1981, n. 689 - Modifiche al sistema penale).
La stessa tecnica non è invece riproducibile nel caso dell’illecito civile, in cui la reazione dell’ordinamento giuridico per il danno procurato è dominata dall’esigenza di assicurare la reintegrazione del bene giuridico leso. Va allora ribadito sul punto che nel caso del danno ambientale con l’introduzione degli obblighi di bonifica ad opera dell’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 non si è estesa l’area dell’illiceità rispetto a condotte in precedenza considerate conformi a diritto, ma si sono ampliati i rimedi rispetto a fatti di aggressione dell’ambiente già considerati lesivi di un bene giuridico meritevole di tutela, con l’aggiunta rispetto alla reintegrazione per equivalente monetario già consentita in base agli artt. 2043 cod. civ. e 18 della legge n. 349 del 1986, ed in espressa concorrenza con quest’ultimo (secondo quanto previsto dal più volte citato art. 18, comma 4, d.m. n. 471 del 1999), degli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati.
§ - 7.10. Deve al medesimo riguardo essere sottolineato che nemmeno vi è contestazione da parte della società appellante sul fatto che, come puntualmente rilevato dalla Sezione rimettente, la bonifica può essere ordinata a condizione che vi sia una situazione di inquinamento ambientale e che possa essere rimossa dal soggetto responsabile.
Il rilievo ora svolto consente di lumeggiare il carattere permanente del danno ambientale, perdurante cioè fintanto che persista l’inquinamento (secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, da ultimo ribadita da Cass. civ., III, 19.02.2016, n. 3259, 06.05.2015, n. 9012; nel medesimo senso può essere richiamata la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, tra cui si segnala la sentenza della VI Sezione del 23.06.2014, n. 3165).
Da tale inquadramento si ricava pertanto la conseguenza che l’autore dell’inquinamento, potendovi provvedere, rimane per tutto questo tempo soggetto agli obblighi conseguenti alla sua condotta illecita, secondo la successione di norme di legge nel frattempo intervenuta: e quindi dall’originaria obbligazione avente ad oggetto l’equivalente monetario del danno arrecato, o in alternativa alla reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 cod. civ., poi specificato nel «ripristino dello stato dei luoghi» ai sensi del più volte richiamato art. 18, comma 8, l. n. 249 del 1986, fino agli obblighi di fare connessi alla bonifica del sito secondo la disciplina attualmente vigente.
§ - 7.11. Pertanto, diversamente da quanto affermato dalla V Sezione nella più volte menzionata sentenza del 05.12.2008, n. 6055, non vi è luogo nel caso ora descritto ad alcuna retroazione di istituti giuridici introdotti in epoca successiva alla commissione dell’illecito, ma casomai all’applicazione da parte della competente autorità amministrativa degli istituti a protezione dell’ambiente previsti dalla legge al momento in cui si accerta una situazione di pregiudizio in atto.
§ - 8. Giunti a questa conclusione rimane da esaminare il punto controverso sub c), e cioè se gli obblighi ora enunciati possano essere posti a carico di un soggetto non qualificabile come responsabile dell’inquinamento, per non essere mai stato proprietario, né tanto meno avere mai gestito l’impianto industriale da cui è scaturito l’inquinamento, nel caso di specie fatto addirittura oggetto di trasferimento a terzi mediante cessione di ramo d’azienda prima della fusione per incorporazione, e che pertanto mai abbia potuto provvedere a rimuovere gli effetti di condotte illecite altrui sull’ambiente circostante.
§ - 8.1. Il quesito richiede di affrontare le caratteristiche e gli effetti della fusione per incorporazione, nel regime antecedente alla riforma del diritto societario di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, in cui si colloca la presente vicenda contenziosa e sulla cui base la Provincia di Asti ha emesso l’ordine di bonifica nei confronti della Al.-Lu. It., onde verificare se questa operazione straordinaria determini una cesura nel fenomeno successorio proprio del carattere permanente dell’illecito ambientale, come poc’anzi esposto.
L’appellante sottolinea al riguardo che nel previgente regime «la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte»: art. 2504-bis cod. civ., nella versione antecedente alla citata riforma ed applicabile ai fatti di causa, quando l’appellante ha incorporato la S.I.E.T.T.E. (1991). Viene al riguardo evidenziato che in base alla legislazione all’epoca vigente non può essere compresa la bonifica, poiché introdotta nell’ordinamento successivo solo nel 1997.
8.2. Sennonché a confutazione delle argomentazioni difensive ora sintetizzate è sufficiente richiamare le considerazioni svolte in sede di esame dei precedenti punti controversi, dalle quali si ricava che è in particolare errata la premessa su cui gli assunti della medesima società poggiano, ovvero che prima che la bonifica fosse introdotta a livello legislativo il danno ambientale non integrasse alcun illecito e che, quindi, la stessa non potrebbe essere ordinata per condotte antecedenti alla sua introduzione a livello legislativo.
Né l’uno né l’altro rilievo sono corretti, posto che il danno all’ambiente è inquadrabile nella fattispecie generale di illecito civile ex art. 2043 cod. civ. e che la sua natura di illecito permanente consente di ritenere il relativo responsabile soggetto agli obblighi, risarcitori ed in primis di reintegrazione o ripristino dello stato dei luoghi, da esso derivanti. In altri termini, allorché la situazione di danno all’ambiente si protragga in un arco di tempo in cui per effetto della successione di norme di legge al rimedio risarcitorio si aggiunga quello della bonifica, nessun ostacolo di ordine giuridico è ravvisabile ad applicare quest’ultima ad un soggetto che, pur non avendo commesso la condotta fonte del danno, sia nondimeno subentrato a quest’ultimo.
§ - 8.3. Ciò che occorre a questo punto chiarire e se gli obblighi in questione siano trasmissibili in virtù di fusione per incorporazione dalla società responsabile del danno incorporata alla società incorporante.
Al quesito ora posto non può che essere data risposta positiva proprio sulla base del tenore letterale del poc’anzi richiamato art. 2504-bis, comma 1, cod. civ., che include espressamente nella vicenda traslativa in questione «gli obblighi delle società estinte», ovvero di quelle incorporate (analoga formulazione reca peraltro la medesima disposizione dopo la riforma del diritto societario, con la sola differenza che in luogo delle società estinte si fa riferimento alle «società partecipanti alla fusione» e al fatto che in tutti i rapporti giuridici di queste ultime, anche quelli processuali, vi è una “prosecuzione” dell’incorporante).
Con riguardo al previgente regime, nel senso che negli obblighi dell’incorporata di cui l’incorporante diviene l’unico obbligato a seguito di fusione rientrano anche quelli derivanti da responsabilità civile si è espressa la Cassazione (Sezione III civile, sentenza 11.11.2015, n. 22998, in un caso di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 cod. civ.).
§ - 8.4. Sul piano dogmatico la conclusione è avvalorata dal fatto che “responsabilità civile” è espressione che designa l’insieme delle conseguenze cui un soggetto deve sottostare per legge in conseguenza di un fatto illecito da lui commesso, che nel caso dell’illecito civile consistono nell’«obblig(o) (…) a risarcire il danno» o nell’alternativa della «reintegrazione in forma specifica», anch’essa pertanto oggetto di obbligo, rispettivamente ai sensi dei più volte richiamati artt. 2043 e 2058 del codice civile, oltre che della più generale norma contenuta nell’art. 1173 cod. civ., che pone il fatto illecito tra le fonti di obbligazione.
La successione dell’incorporante negli obblighi dell’incorporata è espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et incommoda, cui è informata la disciplina delle operazioni societarie straordinarie, tra cui la fusione, anche prima della riforma del diritto societario, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale.
Anche prima che venisse sancito il carattere evolutivo-modificativo di quest’ultimo tipo di operazione era infatti indubbio che l’ente societario subentrato a quello estintosi per effetto dell’incorporazione acquisiva il patrimonio aziendale di quest’ultimo, di cui sul piano contabile fanno parte anche le passività, ovvero i debiti inerenti all’impresa esercitata attraverso la società incorporata.
§ - 8.5. Nel sancire la natura evolutivo-modificativo della fusione la riforma del diritto societario ha pertanto inteso superare quella artificiosa concezione antropomorfista accolta nel codice civile e radicatasi presso la giurisprudenza civile dell’epoca antecedente alla riforma del diritto societario, tendente a dare rilievo preminente al dato formale della personalità giuridica riconosciuta alle società di capitali, che secondo la migliore dottrina commercialistica ha invece carattere strumentale rispetto al regime giuridico di separazione dei patrimoni e delle responsabilità della società rispetto ai soci.
Nella critica alla concezione tradizionale si era in particolare evidenziato che pur in presenza di una vicenda intrinsecamente contraddistinta da una prospettiva di continuità dell’impresa si faceva nondimeno ricorso all’istituto delle successioni mortis causa per trarre le regole giuridiche applicabili al caso di specie, tra cui in particolare: sul piano sostanziale, il principio per cui ogni atto deve essere indirizzato al nuovo ente, unico centro di imputazione giuridica per i debiti dei soggetti definitivamente estinti per effetto della fusione (cfr. ex multis: Cass. civ., I, 22.09.1997, n. 9349, 11.06.2003, n. 9355); sul piano processuale, le norme relative all’interruzione e alla successione nel processo, ex artt. 110 e 299 e ss. cod. proc. civ. per il caso di fusione avvenuta in corso di causa.
La volontà innovatrice della riforma del diritto societario rispetto al descritto assetto si coglie appunto nel riferimento testuale del nuovo art. 2504-bis cod. civ. al fatto che oltre ad “assumere” i diritti e gli obblighi delle incorporate la società incorporante prosegue «in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione».
§ - 8.6. Lo stesso fondamento logico ricavabile dal principio cuius commoda eius et incommoda è poi alla base:
   - dell’analoga disciplina prevista nella fattispecie della cessione di azienda (sull’analogia con la fusione per incorporazione cfr. le sentenze di questa Adunanza plenaria del 04.05.2012, n. 10, e del 07.06.2012, n. 21), con la sola particolarità che in questo caso la successione dell’acquirente nei debiti inerenti all’azienda è limitata a quelli risultanti dai libri contabili obbligatori (art. 2560, comma 2, cod. civ.);
   - dell’opposta regola, per cui non vi è successione nel debito, in caso di estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, con efficacia costitutiva ai sensi dell’art. 2495, comma 2, cod. civ., laddove sulla base dell’art. 2456 cod. civ., nella versione antecedente alla riforma del diritto societario, la giurisprudenza di legittimità era invece orientata per la sopravvivenza della società in caso di rapporti non esauriti: Cass. civ., II, 04.10.1999, n. 11201;
   - del pari, anche in caso di fallimento, il quale non dà luogo ad alcuna successione della procedura concorsuale rispetto alla società in bonis e che ha invece la funzione di gestione e liquidazione della massa attiva aziendale al fine del soddisfacimento concorsuale dei creditori (in questi termini, con riguardo al caso, per plurimi aspetti analogo a quello oggetto del presente giudizio, di un provvedimento di messa in sicurezza di un sito inquinato, si rinvia a Cons. Stato, IV, 04.12.2017, n. 5668; più in generale: Cass. civ., SS.UU, 20.02.2013, n. 4213; I, 07.07.2015, n. 14054).
§ - 8.7. Ritornando al caso della fusione per incorporazione, qui in discussione, deve precisarsi che l’effetto suo tipico della successione negli obblighi della società incorporata, già sancito nella previgente formulazione dell’art. 2504-bis cod. civ., non è impedito dal fatto che l’accertamento dell’illecito ambientale possa eventualmente essere successivo all’operazione straordinaria di fusione, come nel caso di specie. Infatti, anche quando funge da presupposto di un provvedimento amministrativo come quello che ordina la bonifica oggetto del presente giudizio, e che dunque modificando la realtà giuridica costituisce obblighi a carico del destinatario del provvedimento, l’accertamento del danno all’ambiente risale per sua natura all’epoca della sua commissione.
§ - 8.8. Alla successione nell’obbligo non osta inoltre il fatto che lo stabilimento industriale da cui è provenuto l’inquinamento oggetto dell’ordine di bonifica impugnato nel presente giudizio non sia mai stato acquistato dalla società odierna appellante, ma –come questa sottolinea- sia stato in epoca precedente alla fusione per incorporazione della società responsabile dell’inquinamento fatta oggetto di cessione di ramo d’azienda a terzi. Come infatti statuito dalla Sezione rimettente nella sentenza non definitiva coeva all’ordinanza di rimessione, in base all’art. 2560, comma 1, cod. civ. la cessione d’azienda non libera il cedente dei debiti dallo stesso contratti, tra cui quelli da fatto illecito civile.
§ - 8.9. Rispetto a quanto finora considerato può aggiungersi che la successione sul piano civilistico negli obblighi inerenti a fenomeni di contaminazione di siti e di inquinamento ambientale in caso di operazioni societarie contraddistinte dalla continuità dell’impresa pur a fronte del mutamento formale del centro di imputazione giuridica consente di assicurare una miglior tutela dell’ambiente.
Come infatti evidenziato in sede di discussione dalla difesa della controinteressata IAO - Industrie Riunite attraverso l’istituto elaborato dalla prassi commerciale della due diligence è possibile per il soggetto interessato all’acquisto di un complesso aziendale venire a conoscenza del fenomeno da parte del cedente, autore dei fatti e di concordare sul piano negoziale strumenti in grado di riversare su quest’ultimo le relative conseguenze sul piano economico (ad esempio: attraverso garanzie per sopravvenienze passive), o altrimenti avvalersi dei rimedi civilistici per la responsabilità del medesimo cedente per omessa informazione.
§ - 8.10. Come poi evidenzia la Sezione rimettente, la tesi contraria alla successione consentirebbe una facile elusione degli obblighi maturati nel corso della gestione di una società.
Anche per questo ordine di rilievi la Corte di giustizia dell’Unione europea ha infatti stabilito in materia il principio per cui la fusione mediante incorporazione comporta la trasmissione alla società incorporante dell’obbligo di pagare l’ammenda inflitta con decisione definitiva successivamente a tale fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse dalla società incorporata precedentemente alla fusione stessa (sentenza 05.03.2015, C-342/13).
§ - 9. In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto:
la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 22.10.2019 n. 10 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa circostanza che il provvedimento impugnato, volto ad adottare idonee misure di prevenzione ai sensi dell’art. 242 del Dlgs. 03.04.2006 n. 152, non sia stato preceduto da una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 242, commi 3 e 4, e dell’art. 252, comma 8, del Dlgs. 152/2006 non costituisce un vizio necessariamente destinato a condurre all’annullamento.
Occorre infatti applicare anche in materia ambientale i principi codificati in via generale per la comunicazione di avvio del procedimento e il preavviso di diniego. Pur trattandosi di adempimenti necessari, rimane ferma la facoltà dell’amministrazione di utilizzare la sanatoria processuale ex art. 21-octies comma 2 della legge 07.08.1990 n. 241, dimostrando che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
La mancata interlocuzione con le autorità da coinvolgere nella conferenza di servizi e con i destinatari del provvedimento finale diventa quindi un vizio non sanabile solo se non sia stato acquisito materiale istruttorio rilevante.
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Le misure di prevenzione, che possono essere imposte anche al proprietario incolpevole dell’area contaminata, sono definite dall’art. 240 comma 1-i, del Dlgs. 152/2006 come interventi che prevengono o riducono un rischio sufficientemente probabile di un danno sanitario o ambientale in un futuro prossimo. Questa definizione generica è compatibile con quella tecnica della messa in sicurezza di emergenza ex art. 240 comma 1-m-t del Dlgs. 152/2006.
In entrambi i casi il presupposto è una condizione di emergenza.
In un’area contaminata, la riduzione del rischio implica il recupero del controllo sulla diffusione degli inquinanti, in modo che sia impedito o reso più difficile il passaggio nell’ambiente. Le misure di prevenzione sono quindi accostabili alla messa in sicurezza di emergenza per la comune finalità di contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici ambientali, e rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente.
L’assimilabilità delle misure di prevenzione alla messa in sicurezza di emergenza trova una conferma testuale nell’art. 304, comma 1, del Dlgs. 152/2006, dedicato alla prevenzione del danno ambientale.
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Il proprietario incolpevole può essere destinatario, in base all’art. 245, comma 2, del Dlgs. 152/2006, dell’ordine di eseguire misure di prevenzione. La categoria delle misure di prevenzione si estende fino a comprendere la messa in sicurezza di emergenza ex art. 240, comma 1-m-t, del Dlgs. 152/2006. Questa interpretazione è coerente con il principio “chi inquina paga”.
Il suddetto principio è codificato a livello comunitario come responsabilità oggettiva dagli art. 3 n. 1, 4 n. 5, e 11 n. 2, della direttiva 21.04.2004 n. 2004/35/CE (v. anche l’art. 300 del Dlgs. 152/2006).
La giurisprudenza comunitaria, nel confinare l’applicazione della direttiva 2004/35/CE alle sole attività svolte o ultimate dopo il 30.04.2007, ha indirettamente tutelato anche la disciplina nazionale applicabile ratione temporis ai fatti anteriori.
È stato infatti precisato che il principio “chi inquina paga” non può essere invocato al fine di escludere l’applicazione di una normativa nazionale in materia ambientale quando non sia applicabile nessuna normativa comunitaria.
Inoltre, con riferimento all’art. 16 par. 1 della direttiva 2004/35/CE, la giurisprudenza comunitaria ha chiarito che gli Stati sono liberi di introdurre o mantenere misure di prevenzione e riparazione del danno ambientale più severe di quelle comunitarie, anche per quanto riguarda l'individuazione di altri soggetti responsabili.
Nel diritto interno è stata dapprima introdotta una fattispecie di violazione dolosa o colposa delle norme di tutela ambientale (v. art. 18, comma 1, della legge 08.07.1986 n. 349), e poi è stata prevista una responsabilità di tipo oggettivo, con l’obbligo di messa in sicurezza e di bonifica a carico di chi abbia provocato, anche in modo accidentale, una situazione di inquinamento intesa come superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli e delle acque (v. art. 17, comma 2, del Dlgs. 05.02.1997 n. 22). Quest’ultima è la disciplina ora trasferita nell’art. 242 del Dlgs. 152/2006. Per quanto riguarda i soggetti diversi dagli autori dell’inquinamento dispone la norma sulle misure di prevenzione ex art. 245, comma 2, del Dlgs. 152/2006.
Per interpretare quest’ultima norma, e dimostrare che può avere l’estensione descritta sopra, ossia coincidere con la previsione relativa alla messa in sicurezza di emergenza, occorre richiamare i principi del diritto interno che consentono di coinvolgere anche il proprietario incolpevole nelle attività di prevenzione e di riparazione del danno ambientale.
Il primo principio riguarda la responsabilità ex art. 2051 c.c. per il danno cagionato da cosa in custodia. Il proprietario di un’area contaminata è custode della stessa, e dunque deve adoperarsi per impedire che dalla situazione di inquinamento derivino danni a terzi, senza potersi esimere dimostrando di non essere l’autore dell’inquinamento. Se l’area contaminata è affidata in gestione a un soggetto distinto, come nel caso in esame, la responsabilità per la custodia è solidale, salvo diversa pattuizione tra le parti interessate.
Il secondo principio riguarda la responsabilità ex art. 2050 c.c. per l'esercizio di attività pericolose. Sotto il profilo che qui interessa, un’attività è pericolosa in quanto svolta su un’area contaminata. La pericolosità si manifesta sia nei confronti dei lavoratori sia nei confronti degli altri soggetti ammessi all’interno dell’area contaminata. Il proprietario è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Poiché il diritto alla salute e l’integrità dell’ambiente non possono ricevere una protezione più o meno efficace a seconda delle circostanze, le misure idonee a evitare il danno coincidono necessariamente con quelle che l’art. 240 del Dlgs. 152/2006 individua come misure dirette a stabilizzare la situazione e a impedire che la contaminazione si diffonda nelle matrici ambientali.
Il terzo principio riguarda l’obbligo a carico del proprietario incolpevole di sostenere le spese della bonifica nei limiti del valore di mercato acquisito dall’area in esito agli interventi di bonifica, quando tali interventi siano eseguiti d’ufficio dall’amministrazione. La disciplina di dettaglio è contenuta nell’art. 253, comma 4, del Dlgs. 152/2006, ma la ragione fondante può essere individuata nell’esigenza di mantenere un equilibrio tra il beneficio che la proprietà riceve dal lavoro di terzi e il costo sostenuto da questi ultimi. Si tratta di uno schema di carattere generale, assimilabile all’accessione ex art. 936, comma 2 c.c., con la differenza che il proprietario incolpevole non può liberarsi chiedendo la rimozione delle opere di bonifica, dal momento che la bonifica soddisfa interessi pubblici al di fuori della disponibilità dei privati.
Ne consegue che l’amministrazione può chiedere al proprietario incolpevole di farsi carico delle misure di prevenzione, a condizione che la spesa possa essere sostenuta senza conseguenze economiche eccessive, secondo il normale bilanciamento di interessi garantito dal principio di proporzionalità. Nessun intervento di bonifica può invece essere imposto al proprietario incolpevole, il quale rimane tuttavia obbligato a rimborsare i relativi costi all’amministrazione, qualora risulti infruttuosa o non praticabile l’escussione dell’autore dell’inquinamento.
Poiché il credito dell’amministrazione grava sull’area contaminata (v. art. 253, commi 1 e 2, del Dlgs. 152/2006) come un onere reale assistito da un privilegio speciale immobiliare ex art. 2748, comma 2 c.c., al proprietario incolpevole che non possa o non voglia rimborsare i costi della bonifica rimane l’opzione di abbandonare il fondo, secondo un meccanismo non dissimile da quello descritto nell’art. 1070 c.c. a proposito dell’abbandono del fondo servente. In alternativa, il proprietario incolpevole può volontariamente assumere gli oneri della bonifica ex art. 245, comma 1, del Dlgs. 152/2006, salvo rivalsa nei confronti dell’autore dell’inquinamento.

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... per l'annullamento:
(a) nel ricorso introduttivo:
   - del provvedimento del responsabile della Direzione Generale per la Salvaguardia del Territorio e delle Acque prot. n. 11532.06-06-2018 di data 06.06.2018, che ha sollecitato la ricorrente a eseguire quanto richiesto dalla conferenza di servizi decisoria del 25.07.2013, in conformità al parere dell’ARPA prot. n. 71461 del 24.05.2013, e in particolare ad adottare idonee misure di prevenzione ai sensi dell’art. 242 del Dlgs. 03.04.2006 n. 152 sull’area Valletta all’interno del sito di interesse nazionale Laghi di Mantova e Polo Chimico, con accertamento dell’assenza di rischi per i fruitori dell’area derivanti dalla presenza di sostanze volatili nelle matrici ambientali come chiesto dalla conferenza di servizi del 17.03.2014;
   - del parere dell’ISPRA dell’aprile 2018, relativo all’efficacia delle misure di prevenzione messe in atto da Ve. spa e ai monitoraggi eseguiti da Ve. spa nelle acque sotterranee dell’area Valletta;
   - della nota dell’ARPA prot. 5690 di data 01.02.2017, nella quale sono giudicate insufficienti le misure di prevenzione adottate da Ve. spa nell’area Valletta;
   - del provvedimento del responsabile della Direzione Generale per la Salvaguardia del Territorio e delle Acque prot. 14611.18-07-2018 di data 18.07.2018, con il quale è stato confermato il provvedimento di sollecito del 06.06.2018;
(b) nei motivi aggiunti:
   - del provvedimento del responsabile della Direzione Generale per la Salvaguardia del Territorio e delle Acque prot. n. 4506.07-03-2019 di data 07.03.2019, con il quale è stato ribadito che gli interventi richiesti a Ve. spa, compresa la verifica della presenza di materiali di riporto, costituiscono misure di prevenzione esigibili anche nei confronti del proprietario incolpevole ai sensi dell’art. 245, comma 2, del Dlgs. 152/2006, nelle more dell’individuazione dell’autore dell’inquinamento;
   - della nota dell’ARPA prot. n. Arpa-Arpaaoo-2019-1824 di data 08.03.2019, compresi gli allegati, con la quale sono stati validati e interpretati i risultati della caratterizzazione sui sedimenti dell’area Valletta eseguita da Ve. spa nel settembre 2018;
   - degli atti presupposti e connessi;
Sulle questioni procedurali
17. La circostanza che i provvedimenti impugnati non siano stati preceduti da una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 242, commi 3 e 4, e dell’art. 252, comma 8, del Dlgs. 152/2006 non costituisce un vizio necessariamente destinato a condurre all’annullamento.
18. Occorre infatti applicare anche in materia ambientale i principi codificati in via generale per la comunicazione di avvio del procedimento e il preavviso di diniego. Pur trattandosi di adempimenti necessari, rimane ferma la facoltà dell’amministrazione di utilizzare la sanatoria processuale ex art. 21-octies comma 2 della legge 07.08.1990 n. 241, dimostrando che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La mancata interlocuzione con le autorità da coinvolgere nella conferenza di servizi e con i destinatari del provvedimento finale diventa quindi un vizio non sanabile solo se non sia stato acquisito materiale istruttorio rilevante.
19. Inoltre, nelle procedure ambientali che si sviluppano esse stesse come un’interlocuzione tra il Ministero, l’ARPA e i soggetti chiamati a eseguire interventi di bonifica o di prevenzione e messa in sicurezza di emergenza, con scambio continuo dei dati di monitoraggio e delle relative interpretazioni, la conferenza di servizi è necessaria solo negli snodi più importanti, quando devono essere elaborate nuove regole per l’attività successiva. Se dai dati acquisiti emerge invece l’esigenza di interventi puntuali, che si collocano all’interno della cornice già definita dai provvedimenti precedenti, la convocazione della conferenza di servizi non è richiesta.
20. Nello specifico, considerando in modo unitario i provvedimenti impugnati nel ricorso introduttivo e nei motivi aggiunti, si può ritenere che il Ministero abbia essenzialmente sollecitato l’adozione di misure di prevenzione secondo la direttiva formulata nella conferenza di servizi decisoria del 25.07.2013, già considerata legittima dal TAR Brescia nella sentenza n. 1144/2016. La vicenda contenziosa è stata poi alimentata dagli studi commissionati da Ve. spa, allo scopo di superare il vincolo della predetta conferenza di servizi.
L’amministrazione ha risposto alle obiezioni della ricorrente, ribadendo e chiarendo le ragioni tecniche alla base dell’ingiunzione ad adottare misure di prevenzione. In questa situazione, non erano necessarie ulteriori garanzie procedimentali per coinvolgere la ricorrente, e non vi è stata alcuna perdita di materiale istruttorio rilevante. La correttezza della posizione dell’amministrazione appartiene al merito della controversia, e deve quindi essere trattata in relazione agli altri motivi di ricorso.
Sulle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza
21. Le misure di prevenzione, che possono essere imposte anche al proprietario incolpevole dell’area contaminata, sono definite dall’art. 240 comma 1-i, del Dlgs. 152/2006 come interventi che prevengono o riducono un rischio sufficientemente probabile di un danno sanitario o ambientale in un futuro prossimo. Questa definizione generica è compatibile con quella tecnica della messa in sicurezza di emergenza ex art. 240 comma 1-m-t del Dlgs. 152/2006.
In entrambi i casi il presupposto è una condizione di emergenza. In un’area contaminata, la riduzione del rischio implica il recupero del controllo sulla diffusione degli inquinanti, in modo che sia impedito o reso più difficile il passaggio nell’ambiente. Le misure di prevenzione sono quindi accostabili alla messa in sicurezza di emergenza per la comune finalità di contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici ambientali, e rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente.
L’assimilabilità delle misure di prevenzione alla messa in sicurezza di emergenza trova una conferma testuale nell’art. 304, comma 1, del Dlgs. 152/2006, dedicato alla prevenzione del danno ambientale.
Sul proprietario incolpevole
32. Il proprietario incolpevole può essere destinatario, in base all’art. 245, comma 2, del Dlgs. 152/2006, dell’ordine di eseguire misure di prevenzione. La categoria delle misure di prevenzione, come si è visto sopra, si estende fino a comprendere la messa in sicurezza di emergenza ex art. 240, comma 1-m-t, del Dlgs. 152/2006. Questa interpretazione è coerente con il principio “chi inquina paga”.
33. Il suddetto principio è codificato a livello comunitario come responsabilità oggettiva dagli art. 3 n. 1, 4 n. 5, e 11 n. 2, della direttiva 21.04.2004 n. 2004/35/CE (v. anche l’art. 300 del Dlgs. 152/2006).
34. La giurisprudenza comunitaria, nel confinare l’applicazione della direttiva 2004/35/CE alle sole attività svolte o ultimate dopo il 30.04.2007, ha indirettamente tutelato anche la disciplina nazionale applicabile ratione temporis ai fatti anteriori.
È stato infatti precisato che il principio “chi inquina paga” non può essere invocato al fine di escludere l’applicazione di una normativa nazionale in materia ambientale quando non sia applicabile nessuna normativa comunitaria (v. C.Giust. GS 09.03.2010 C-378/08, ERG, punto 46; C. Giust. Sez. VIII 09.03.2010 C-478/08, Buzzi, punto 36).
Inoltre, con riferimento all’art. 16 par. 1 della direttiva 2004/35/CE, la giurisprudenza comunitaria ha chiarito che gli Stati sono liberi di introdurre o mantenere misure di prevenzione e riparazione del danno ambientale più severe di quelle comunitarie, anche per quanto riguarda l'individuazione di altri soggetti responsabili (v. sentenza ERG, cit., punti 68-69).
35. Nel diritto interno è stata dapprima introdotta una fattispecie di violazione dolosa o colposa delle norme di tutela ambientale (v. art. 18, comma 1, della legge 08.07.1986 n. 349), e poi è stata prevista una responsabilità di tipo oggettivo, con l’obbligo di messa in sicurezza e di bonifica a carico di chi abbia provocato, anche in modo accidentale, una situazione di inquinamento intesa come superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli e delle acque (v. art. 17, comma 2, del Dlgs. 05.02.1997 n. 22). Quest’ultima è la disciplina ora trasferita nell’art. 242 del Dlgs. 152/2006. Per quanto riguarda i soggetti diversi dagli autori dell’inquinamento dispone la norma sulle misure di prevenzione ex art. 245, comma 2, del Dlgs. 152/2006.
36. Per interpretare quest’ultima norma, e dimostrare che può avere l’estensione descritta sopra, ossia coincidere con la previsione relativa alla messa in sicurezza di emergenza, occorre richiamare i principi del diritto interno che consentono di coinvolgere anche il proprietario incolpevole nelle attività di prevenzione e di riparazione del danno ambientale.
37. Il primo principio riguarda la responsabilità ex art. 2051 c.c. per il danno cagionato da cosa in custodia. Il proprietario di un’area contaminata è custode della stessa, e dunque deve adoperarsi per impedire che dalla situazione di inquinamento derivino danni a terzi, senza potersi esimere dimostrando di non essere l’autore dell’inquinamento. Se l’area contaminata è affidata in gestione a un soggetto distinto, come nel caso in esame, la responsabilità per la custodia è solidale, salvo diversa pattuizione tra le parti interessate.
38. Il secondo principio riguarda la responsabilità ex art. 2050 c.c. per l'esercizio di attività pericolose. Sotto il profilo che qui interessa, un’attività è pericolosa in quanto svolta su un’area contaminata. La pericolosità si manifesta sia nei confronti dei lavoratori sia nei confronti degli altri soggetti ammessi all’interno dell’area contaminata. Il proprietario è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Poiché il diritto alla salute e l’integrità dell’ambiente non possono ricevere una protezione più o meno efficace a seconda delle circostanze, le misure idonee a evitare il danno coincidono necessariamente con quelle che l’art. 240 del Dlgs. 152/2006 individua come misure dirette a stabilizzare la situazione e a impedire che la contaminazione si diffonda nelle matrici ambientali.
39. Il terzo principio riguarda l’obbligo a carico del proprietario incolpevole di sostenere le spese della bonifica nei limiti del valore di mercato acquisito dall’area in esito agli interventi di bonifica, quando tali interventi siano eseguiti d’ufficio dall’amministrazione. La disciplina di dettaglio è contenuta nell’art. 253, comma 4, del Dlgs. 152/2006, ma la ragione fondante può essere individuata nell’esigenza di mantenere un equilibrio tra il beneficio che la proprietà riceve dal lavoro di terzi e il costo sostenuto da questi ultimi. Si tratta di uno schema di carattere generale, assimilabile all’accessione ex art. 936, comma 2 c.c., con la differenza che il proprietario incolpevole non può liberarsi chiedendo la rimozione delle opere di bonifica, dal momento che la bonifica soddisfa interessi pubblici al di fuori della disponibilità dei privati.
40. Ne consegue che l’amministrazione può chiedere al proprietario incolpevole di farsi carico delle misure di prevenzione, a condizione che la spesa possa essere sostenuta senza conseguenze economiche eccessive, secondo il normale bilanciamento di interessi garantito dal principio di proporzionalità. Nessun intervento di bonifica può invece essere imposto al proprietario incolpevole, il quale rimane tuttavia obbligato a rimborsare i relativi costi all’amministrazione, qualora risulti infruttuosa o non praticabile l’escussione dell’autore dell’inquinamento.
Poiché il credito dell’amministrazione grava sull’area contaminata (v. art. 253, commi 1 e 2, del Dlgs. 152/2006) come un onere reale assistito da un privilegio speciale immobiliare ex art. 2748, comma 2 c.c., al proprietario incolpevole che non possa o non voglia rimborsare i costi della bonifica rimane l’opzione di abbandonare il fondo, secondo un meccanismo non dissimile da quello descritto nell’art. 1070 c.c. a proposito dell’abbandono del fondo servente. In alternativa, il proprietario incolpevole può volontariamente assumere gli oneri della bonifica ex art. 245, comma 1, del Dlgs. 152/2006, salvo rivalsa nei confronti dell’autore dell’inquinamento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 30.09.2019 n. 833 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Misure di prevenzione e intervento di bonifica assunto volontariamente
L’amministrazione può chiedere al proprietario incolpevole di farsi carico delle misure di prevenzione, a condizione che la spesa possa essere sostenuta senza conseguenze economiche eccessive, secondo il normale bilanciamento di interessi garantito dal principio di proporzionalità; nessun intervento di bonifica può invece essere imposto al proprietario incolpevole, il quale rimane tuttavia obbligato a rimborsare i relativi costi all’amministrazione, qualora risulti infruttuosa o non praticabile l’escussione dell’autore dell’inquinamento.
Poiché il credito dell’amministrazione grava sull’area contaminata (v. art. 253, commi 1 e 2, del Dlgs. 152/2006) come un onere reale assistito da un privilegio speciale immobiliare ex art. 2748, comma 2 c.c., al proprietario incolpevole che non possa o non voglia rimborsare i costi della bonifica rimane l’opzione di abbandonare il fondo, secondo un meccanismo non dissimile da quello descritto nell’art. 1070 c.c. a proposito dell’abbandono del fondo servente; in alternativa, il proprietario incolpevole può volontariamente assumere gli oneri della bonifica ex art. 245, comma 1, del Dlgs. 152/2006, salvo rivalsa nei confronti dell’autore dell’inquinamento.
L’intervento di bonifica assunto volontariamente ai sensi dell’art. 245, comma 1, nonché dell’art. 252, comma 5, del Dlgs. 152/2006 costituisce una gestione di affari altrui che, in applicazione analogica della norma generale ex art. 2028 c.c., deve essere portata a compimento, o comunque proseguita finché l’amministrazione non sia in grado di far subentrare l’autore dell’inquinamento; lo stesso vale se l’assunzione dell’intervento di bonifica da parte del proprietario incolpevole o di altri soggetti è avvenuta ai sensi dell’art. 9 del DM 25.10.1999 n. 471
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 25.09.2019 n. 831 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
13. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulle questioni procedurali
14. La circostanza che i provvedimenti impugnati non siano stati preceduti da una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 242, commi 3 e 4, e dell’art. 252, comma 8, del Dlgs. 152/2006 non costituisce un vizio necessariamente destinato a condurre all’annullamento.
15. Occorre infatti applicare anche in materia ambientale i principi codificati in via generale per la comunicazione di avvio del procedimento e il preavviso di diniego. Pur trattandosi di adempimenti necessari, rimane ferma la facoltà dell’amministrazione di utilizzare la sanatoria processuale ex art. 21-octies, comma 2, della legge 07.08.1990 n. 241, dimostrando che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La mancata interlocuzione con le autorità da coinvolgere nella conferenza di servizi e con i destinatari del provvedimento finale diventa quindi un vizio non sanabile solo se non sia stato acquisito materiale istruttorio rilevante.
16. Inoltre, nelle procedure ambientali che si sviluppano esse stesse come un’interlocuzione tra il Ministero, l’ARPA e i soggetti chiamati a eseguire gli interventi di bonifica o di prevenzione e messa in sicurezza di emergenza, con scambio continuo dei dati di monitoraggio e delle relative interpretazioni, la conferenza di servizi è necessaria solo negli snodi più importanti, quando devono essere elaborate nuove regole per l’attività successiva. Se dai dati acquisiti emerge invece l’esigenza di interventi puntuali che si collocano all’interno della cornice già definita dai provvedimenti precedenti, la convocazione della conferenza di servizi non è richiesta.
17. Nello specifico, considerando in modo unitario i due provvedimenti impugnati, si può ritenere che il Ministero abbia imposto misure strettamente correlate alla situazione evidenziata dall’ARPA nella nota del 07.12.2017. Il confronto con le ricorrenti è stato integrato nella fase della valutazione delle istanze di autotutela. Il fatto che a proposito delle concentrazioni di mercurio rilevate dai piezometri CS5-bis e CS5-ter sia stata seguita l’interpretazione proposta dall’ARPA anziché quella del prof. Ba. ricade tra le questioni di merito, affrontate dagli altri motivi di impugnazione, e non rileva come autonomo vizio formale.
Sulle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza
18. Le misure di prevenzione, che possono essere imposte anche al proprietario incolpevole dell’area contaminata, sono definite dall’art. 240 comma 1-i, del Dlgs. 152/2006 come interventi che prevengono o riducono un rischio sufficientemente probabile di un danno sanitario o ambientale in un futuro prossimo. Questa definizione generica è compatibile con quella tecnica della messa in sicurezza di emergenza ex art. 240, comma 1-m-t, del Dlgs. 152/2006.
In entrambi i casi il presupposto è una condizione di emergenza.
In un’area contaminata, la riduzione del rischio implica il recupero del controllo sulla diffusione degli inquinanti, in modo che sia impedito o reso più difficile il passaggio nell’ambiente. Le misure di prevenzione sono quindi accostabili alla messa in sicurezza di emergenza per la comune finalità di contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici ambientali, e rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente. L’assimilabilità delle misure di prevenzione alla messa in sicurezza di emergenza trova una conferma testuale nell’art. 304, comma 1, del Dlgs. 152/2006, dedicato alla prevenzione del danno ambientale.
19. Con riguardo alla condizione di emergenza, la tesi delle ricorrenti, basata sulla relazione del prof. Ba., è che in presenza di un inquinamento storico e in mancanza di un peggioramento repentino dello stato di fatto nessun intervento potrebbe essere imposto come urgente. Nello specifico, il superamento dei limiti delle CSC rilevato dai piezometri CS5-bis e CS5-ter non dimostrerebbe l’attualità e la continuità del passaggio di mercurio dal terreno alle acque sotterranee, ma semplicemente la presenza di una situazione di inquinamento storico, che nei monitoraggi può provocare picchi casuali.
Per quanto riguarda il piezometro CS5-bis, il prof. Ba. ipotizza che il battente idraulico di soli 3 metri abbia ridotto la dispersione dei reperti per cause imputabili alle procedure di spurgo (v. relazione, pag. 26). Per quanto riguarda il piezometro CS5-ter, il prof. Ba. ipotizza parimenti un errore sperimentale dovuto a variabili incontrollate o confondenti, come tale non indicativo di un’evoluzione sfavorevole della condizione di inquinamento, la quale sarebbe quindi stabile nel tempo e non richiederebbe alcun intervento di contenimento (v. relazione, pag. 28).
20. Questa tesi non appare condivisibile. Anche concedendo che nel monitoraggio abbiano avuto un ruolo le variabili incontrollate o confondenti, e che la condizione di inquinamento sia in equilibrio, si ritiene però che il presupposto delle misure prevenzione sussista ugualmente. Per il principio di precauzione non si può infatti ignorare la correlazione tra il mercurio della sala celle, una parte del quale è passata negli anni dalle canalette al terreno, e le concentrazioni di mercurio oltre i limiti delle CSC nelle acque sotterranee a valle della sala celle.
Se vi è equilibrio, nel senso che non si assiste a un’accelerazione della dispersione nell’acquifero, è evidente che si tratta di un equilibrio insoddisfacente, nel quale rimane alto il rischio ambientale, particolarmente quando si consideri che il mercurio è solo uno degli inquinanti presenti. Anche questa è una situazione che consente di intervenire senza attendere i tempi della bonifica, attuando immediatamente un più rigoroso controllo delle sorgenti primarie di contaminazione.
21. L’intervento con finalità preventive non si sovrappone alla bonifica, che dovrà condurre in futuro a una complessiva condizione di sicurezza sitospecifica, ma è diretto a garantire un equilibrio provvisorio più accettabile per la salute pubblica e l’integrità dell’ambiente, assicurando margini sufficienti a escludere lo sforamento delle CSC nei successivi monitoraggi.
In altri termini, si tratta di abbassare il livello complessivo delle concentrazioni degli inquinanti, in modo da assorbire il margine di errore dei monitoraggi all’interno dei limiti delle CSC, rendendo meno probabili gli sforamenti. Fino al completamento delle misure di prevenzione, il dubbio che gli sforamenti siano determinati da nuovi e non controllati fenomeni di dispersione degli inquinanti è per sé legittimo, e anzi doveroso in una prospettiva di precauzione.
Sul proprietario incolpevole
22. Il proprietario incolpevole (Ve. spa nel caso in esame) può essere destinatario, in base all’art. 245, comma 2, del Dlgs. 152/2006, dell’ordine di eseguire misure di prevenzione. La categoria delle misure di prevenzione, come si è visto sopra, si estende fino a comprendere la messa in sicurezza di emergenza ex art. 240, comma 1-m-t, del Dlgs. 152/2006. Questa interpretazione è coerente con il principio “chi inquina paga”.
23. Il suddetto principio è codificato a livello comunitario come responsabilità oggettiva dagli art. 3 n. 1, 4 n. 5, e 11 n. 2, della direttiva 21.04.2004 n. 2004/35/CE (v. anche l’art. 300 del Dlgs. 152/2006).
24. La giurisprudenza comunitaria, nel confinare l’applicazione della direttiva 2004/35/CE alle sole attività svolte o ultimate dopo il 30.04.2007, ha indirettamente tutelato anche la disciplina nazionale applicabile ratione temporis ai fatti anteriori. È stato infatti precisato che il principio “chi inquina paga” non può essere invocato al fine di escludere l’applicazione di una normativa nazionale in materia ambientale quando non sia applicabile nessuna normativa comunitaria (v. C. Giust. GS 09.03.2010 C-378/08, ERG, punto 46; C.Giust. Sez. VIII 09.03.2010 C-478/08, Buzzi, punto 36).
Inoltre, con riferimento all’art. 16 par. 1 della direttiva 2004/35/CE, la giurisprudenza comunitaria ha chiarito che gli Stati sono liberi di introdurre o mantenere misure di prevenzione e riparazione del danno ambientale più severe di quelle comunitarie, anche per quanto riguarda l'individuazione di altri soggetti responsabili (v. sentenza ERG, cit., punti 68-69).
25. Nel diritto interno è stata dapprima introdotta una fattispecie di violazione dolosa o colposa delle norme di tutela ambientale (v. art. 18, comma 1, della legge 08.07.1986 n. 349), e poi è stata prevista una responsabilità di tipo oggettivo, con l’obbligo di messa in sicurezza e di bonifica a carico di chi abbia provocato, anche in modo accidentale, una situazione di inquinamento intesa come superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli e delle acque (v. art. 17, comma 2, del Dlgs. 05.02.1997 n. 22). Quest’ultima è la disciplina ora trasferita nell’art. 242 del Dlgs. 152/2006. Per quanto riguarda i soggetti diversi dagli autori dell’inquinamento, dispone la norma sulle misure di prevenzione ex art. 245, comma 2, del Dlgs. 152/2006.
26. Per interpretare quest’ultima norma, e dimostrare che può avere l’estensione descritta sopra, ossia coincidere con la previsione relativa alla messa in sicurezza di emergenza, occorre richiamare i principi del diritto interno che consentono di coinvolgere anche il proprietario incolpevole nelle attività di prevenzione e di riparazione del danno ambientale.
27. Il primo principio riguarda la responsabilità ex art. 2051 c.c. per il danno cagionato da cosa in custodia. Il proprietario di un’area contaminata è custode della stessa, e dunque deve adoperarsi per impedire che dalla situazione di inquinamento derivino danni a terzi, senza potersi esimere dimostrando di non essere l’autore dell’inquinamento. Se l’area contaminata è affidata in gestione a un soggetto distinto, come nel caso in esame, la responsabilità per la custodia è solidale, salvo diversa pattuizione tra le parti interessate.
28. Il secondo principio riguarda la responsabilità ex art. 2050 c.c. per l'esercizio di attività pericolose. Sotto il profilo che qui interessa, un’attività è pericolosa in quanto svolta su un’area contaminata. La pericolosità si manifesta sia nei confronti dei lavoratori sia nei confronti degli altri soggetti ammessi all’interno dell’area contaminata.
Il proprietario è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Poiché il diritto alla salute e l’integrità dell’ambiente non possono ricevere una protezione più o meno efficace a seconda delle circostanze, le misure idonee a evitare il danno coincidono necessariamente con quelle che l’art. 240 del Dlgs. 152/2006 individua come misure dirette a stabilizzare la situazione e a impedire che la contaminazione si diffonda nelle matrici ambientali.
29. Il terzo principio riguarda l’obbligo a carico del proprietario incolpevole di sostenere le spese della bonifica nei limiti del valore di mercato acquisito dall’area in esito agli interventi di bonifica, quando tali interventi siano eseguiti d’ufficio dall’amministrazione. La disciplina di dettaglio è contenuta nell’art. 253, comma 4, del Dlgs. 152/2006, ma la ragione fondante può essere individuata nell’esigenza di mantenere un equilibrio tra il beneficio che la proprietà riceve dal lavoro di terzi e il costo sostenuto da questi ultimi. Si tratta di uno schema di carattere generale, assimilabile all’accessione ex art. 936, comma 2 c.c., con la differenza che il proprietario incolpevole non può liberarsi chiedendo la rimozione delle opere di bonifica, dal momento che la bonifica soddisfa interessi pubblici al di fuori della disponibilità dei privati.
30. Ne consegue che l’amministrazione può chiedere al proprietario incolpevole di farsi carico delle misure di prevenzione, a condizione che la spesa possa essere sostenuta senza conseguenze economiche eccessive, secondo il normale bilanciamento di interessi garantito dal principio di proporzionalità. Nessun intervento di bonifica può invece essere imposto al proprietario incolpevole, il quale rimane tuttavia obbligato a rimborsare i relativi costi all’amministrazione, qualora risulti infruttuosa o non praticabile l’escussione dell’autore dell’inquinamento.
Poiché il credito dell’amministrazione grava sull’area contaminata (v. art. 253, commi 1 e 2, del Dlgs. 152/2006) come un onere reale assistito da un privilegio speciale immobiliare ex art. 2748, comma 2 c.c., al proprietario incolpevole che non possa o non voglia rimborsare i costi della bonifica rimane l’opzione di abbandonare il fondo, secondo un meccanismo non dissimile da quello descritto nell’art. 1070 c.c. a proposito dell’abbandono del fondo servente. In alternativa, il proprietario incolpevole può volontariamente assumere gli oneri della bonifica ex art. 245, comma 1, del Dlgs. 152/2006, salvo rivalsa nei confronti dell’autore dell’inquinamento.
Sulla prosecuzione della bonifica
31. Con l’ultimo motivo di impugnazione viene appunto in rilievo il problema delle conseguenze dell’assunzione volontaria degli oneri della bonifica da parte di soggetti che non sono autori dell’inquinamento, o ne sono responsabili solo in misura marginale.
32. Occorre precisare che nel presente giudizio non possono essere affrontate questioni riguardanti l’individuazione degli autori dell’inquinamento da mercurio e la ripartizione delle rispettive responsabilità. Questa è una materia già trattata dal TAR Brescia nella sentenza n. 802/2018. A tale pronuncia occorre dunque fare rinvio, in attesa dell’esito dell’appello, respingendo gli argomenti utilizzati da Ed. spa per escludere o ridimensionare la propria responsabilità sulla base di una diversa lettura delle conseguenze dei passaggi societari e degli accordi intervenuti tra le parti private.
La decisione di primo grado ha lasciato inalterata la ripartizione delle responsabilità fissata nel provvedimento della Provincia di Mantova n. 21/255 del 15.10.2012 (ossia 99,57% a Ed. spa, 0,43% a Sy. spa). Pertanto, è in tale contesto che si deve esaminare la tesi di Sy. spa, secondo cui l’attività di bonifica, iniziata volontariamente subentrando a Ve. spa, potrebbe essere interrotta una volta raggiunta la soglia dello 0,43% del costo stimato dell’intervento, che in concreto sarebbe già stata ampiamente superata.
33. Il suddetto argomento non appare condivisibile. L’intervento di bonifica assunto volontariamente ai sensi dell’art. 245, comma 1, nonché dell’art. 252, comma 5, del Dlgs. 152/2006, costituisce una gestione di affari altrui, che, in applicazione analogica della norma generale ex art. 2028 c.c., deve essere portata a compimento, o comunque proseguita finché l’amministrazione non sia in grado di far subentrare l’autore dell’inquinamento. Lo stesso vale se l’assunzione dell’intervento di bonifica da parte del proprietario incolpevole o di altri soggetti è avvenuta ai sensi dell’art. 9 del DM 25.10.1999 n. 471.
34. Nel caso di soggetti che siano stati qualificati come responsabili pro quota dell’inquinamento (v. art. 311, comma 3, del Dlgs. 152/2006), le obbligazioni della gestione di affari si producono quando non sia stato definito o validato preventivamente dall’amministrazione il rapporto tra il grado di responsabilità e il costo delle strumentazioni e delle lavorazioni impiegate nell’intervento di bonifica. In mancanza di questi chiarimenti preliminari, la gestione di affari si intende assunta per l’intera attività di bonifica, e i ripensamenti successivi non sono direttamente opponibili all’amministrazione.
35. Le ragioni private per cui un soggetto non obbligato, oppure obbligato solo per una parte, assume con il proprio comportamento l’impegno a eseguire un complessivo intervento di bonifica possono essere le più varie (ad esempio, evitare l’onere reale connesso alle opere di bonifica, se realizzate dall’amministrazione; eseguire accordi transattivi stipulati con i veri responsabili dell’inquinamento; tutelarsi contro una situazione di incertezza giuridica, prevenendo eventuali responsabilità penali o risarcitorie).
Lo schema della gestione di affari richiede esclusivamente che vi sia la consapevolezza dello stato di contaminazione dell’area e della necessità di eseguire la bonifica secondo le direttive stabilite dall’amministrazione. Poiché la bonifica viene effettuata in sostituzione dell’autore dell’inquinamento, il soggetto che si intromette potrà rivolgersi a quest’ultimo per essere indennizzato delle spese, fermi restando gli accordi tra le parti private.
36. Dal lato dell’amministrazione, l’impegno del soggetto incolpevole, o parzialmente colpevole, che volontariamente assume gli oneri della bonifica costituisce un risultato di interesse pubblico, e produce quindi un affidamento tutelabile. La legittimità di questa posizione di vantaggio non esime però l’amministrazione dall’obbligo di far eseguire la bonifica agli autori dell’inquinamento.
Se vi è accordo tra le parti private, l’obbligo evidentemente decade, essendo ininfluente che l’intervento sia realizzato da un soggetto diverso dagli autori dell’inquinamento, qualora non vi siano sostanziali differenze qualitative nel risultato. Se però tra le parti private non vi è un accordo, o è subentrata una situazione di disaccordo, l’amministrazione deve prevedere un percorso di ordinata transizione dai soggetti non responsabili dell’inquinamento a quelli responsabili.
Tra i profili di interesse pubblico che possono essere presi in esame nell’impostazione di questo percorso vi è anche la stabilità degli interlocutori, ossia dei destinatari delle future direttive sulla bonifica. Questo consente all’amministrazione di attendere la conclusione delle controversie sull’individuazione degli autori dell’inquinamento e sui relativi gradi di responsabilità, in modo da operare in un quadro di certezza del diritto. Nel frattempo, rimane fermo l’obbligo di proseguire nell’attività di bonifica a carico del soggetto che ha assunto volontariamente questo impegno.

AMBIENTE-ECOLOGIAAi sensi dell’art. 183 D.lgs. 152/2006 si considera come rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi.
Gli oggetti che la ricorrente è stata intimata a smaltire costituiscono il residuo di ciò che è stato oggetto di sgombero in esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile di sua proprietà all’esito della procedura esecutiva.
Tali oggetti sono stati appoggiati alla rinfusa su un terreno limitrofo a lei in uso, ma per poter ritenere che non si tratti di un’ipotesi di abbandono di rifiuti ex art. 192 D.lgs. 152/2006, bisognerebbe dimostrare che quegli oggetti si trovano sul terreno per assolvere una qualche funzione e non siano stati meramente depositati.
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La ricorrente impugnava il provvedimento indicato in epigrafe che le ordinava di rimuovere dei rifiuti depositati su un terreno agricolo.
A tal fine faceva presente di aver subito una procedura esecutiva della propria abitazione e di aver collocato alcuni arredi e suppellettili presso un terreno adiacente alla sua dimora e che, pur non essendo proprietaria, da anni coltivava tanto da aver in corso un procedimento giudiziario per far dichiarare l’avvenuto usucapione del medesimo.
Già con una precedente ordinanza del 24.10.2018 era stata intimata la rimozione dei rifiuti che aveva in parte ottemperato pur ritenendo che non si trattasse di rifiuti, ma quanto al provvedimento impugnato lo riteneva illegittimo sulla scorta di due motivi di ricorso.
Il primo contesta il potere di ordinanza del Sindaco ex art. 192 D.lgs. 152/2006 poiché gli oggetti da rimuovere non possono essere considerati rifiuti ex art. 183 del medesimo testo unico 152/2006.
I materiali di sua proprietà depositati sul fondo sono funzionali alla realizzazione di un pergolato e pertanto non rappresentano né oggetti di cui il detentore/proprietario si sia disfatto o intende disfarsi, né rientrano tra quelle sostanze di cui per legge si abbia l’obbligo di disfarsi.
Il secondo motivo denuncia lo sviamento di potere poiché il provvedimento impugnato richiama il Regolamento edilizio comunale a tutela del decoro e la legge 15/2013, quest’ultima in materia edilizia, dimostrando che l’Amministrazione comunale si è avvalsa dell’ordinanza sindacale prevista dall’art. 192 del Codice dell’ambiente non per preservare la salubrità dell’ambiente ma per garantire il decoro urbano e per contrastare il fenomeno degli abusi edilizi.
Si costituiva in giudizio il Comune di Pennabilli che eccepiva preliminarmente l’inammissibilità del ricorso poiché l’atto impugnato sarebbe una mera conferma della precedente ordinanza di rimozione non impugnata; nel merito chiedeva il rigetto del ricorso.
Il ricorso è infondato è ciò consente di non affrontare l’eccezione preliminare del Comune.
Ai sensi dell’art. 183 D.lgs. 152/2006 si considera come rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi.
Gli oggetti che la ricorrente è stata intimata a smaltire costituiscono il residuo di ciò che è stato oggetto di sgombero in esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile di sua proprietà all’esito della procedura esecutiva.
Tali oggetti sono stati appoggiati alla rinfusa su un terreno limitrofo a lei in uso, ma per poter ritenere che non si tratti di un’ipotesi di abbandono di rifiuti ex art. 192 D.lgs. 152/2006, bisognerebbe dimostrare che quegli oggetti si trovano sul terreno per assolvere una qualche funzione e non siano stati meramente depositati.
Il riferimento contenuto nel provvedimento all’art. 7, comma 4, L.R. 15/2013 non è sintomatico dello sviamento di potere contestato dalla ricorrente, ma è semplicemente un passaggio della motivazione dell’atto per escludere che i beni da rimuovere potessero non essere considerati rifiuti ma destinati alla realizzazione di una palizzata secondo quanto prospettato dalla ricorrente.
Peraltro la visione delle foto degli oggetti da rimuovere dimostra in modo evidente la loro inidoneità allo scopo affermato dalla ricorrente.
Essendo il ricorso palesemente infondato viene respinta l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio, mentre le condizioni economiche della ricorrente giustificano la compensazione delle spese di giudizio (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 21.09.2019 n. 716 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI – Rovina e crollo di una copertura in eternit – Omessa comunicazione al Comune da parte del proprietario – Responsabilità ex artt. 242 e 257, d.lgs. n. 152/2006 – Configurabilità.
In materia di gestione dei rifiuti, il proprietario, informato dello stato dei luoghi, è tenuto a verificare le condizioni in cui si trova la copertura in eternit ed a comunicare al Comune nel cui territorio l’immobile insiste, l’esistenza della situazione potenzialmente inquinante.
L’omissione di tale comunicazione, avendo colpevolmente dimostrato un pieno disinteresse rispetto allo stato del manufatto di sua proprietà, pur sapendo che lo stesso era in parte realizzato con materiale altamente inquinante, configura la responsabilità per i reati di cui agli artt. 242 e 257, comma 1, del D.L.vo n. 152/2006
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.09.2019 n. 37460 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Eternit e omessa comunicazione al Comune: cosa rischia il proprietario?
Il proprietario, informato dello stato dei luoghi, è tenuto a verificare le condizioni in cui si trova la copertura in eternit e a comunicare al Comune, nel cui territorio l'immobile si trova, l’esistenza della situazione potenzialmente inquinante. Nel caso tale comunicazione non venga emessa e il proprietario abbia colpevolmente dimostrato il pieno disinteresse rispetto allo stato del manufatto di sua proprietà, pur sapendo che lo stesso era in parte realizzato con materiale altamente inquinante, potrà essere ritenuto responsabile dei reati di cui agli artt. 242 e 257, comma 1, del D.L.vo n. 152/2006 e punito con la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o con l'ammenda da mille euro a ventiseimila euro (massima tratta da www.tuttoambiente.it)
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RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 21.06.2018 il Tribunale ci Crotone ha condannato Ba.Pa. alla pena di giustizia, avendolo riconosciuto colpevole del reato di cui agli artt. 242 e 257, comma 1, del dlgs n. 152 del 2006, per avere egli, in presenza di un evento potenzialmente inquinante, consistente nella rovina e nel crollo di una copertura in eternit presente in un immobile di sua proprietà, omesso di darne comunicazione alle autorità competenti.
Avverso la predetta decisione, ha interposto ricorso in appello il prevenuto, articolando due motivi di impugnazione.
Con il primo egli ha contestato la attribuzione a suo carico della responsabilità per la contravvenzione a lui contestata sulla base del solo dato costituito dal fatto che lo stesso era il proprietario dell'immobile ove si era verificato il crollo e, pertanto, l'evento potenzialmente inquinante.
Con il secondo motivo egli ha lamentato la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile.
Sulla base di quanto accertato in sede di merito è risultato che il Ba. era ben consapevole della esistenza della copertura in eternit riferita al casolare di sua proprietà sito in Comune di Cotronei, località Trepidò, tanto da essersi attivato per acquisire dei preventivi di spesa per la realizzazione della bonifica del sito; egli, pertanto, nella qualità di proprietario, informato dello stato dei luoghi, era tenuto a verificare le condizioni in cui si trovava la predetta copertura ed a comunicare al Comune di Cotronei, nel cui territorio l'immobile insiste, la esistenza della situazione potenzialmente inquinante.
Posto che egli ha omesso tale comunicazione, avendo colpevolmente dimostrato un pieno disinteresse rispetto allo stato del manufatto di sua proprietà, pur sapendo che lo stesso era in parte realizzato con materiale altamente inquinante, a suo carico il Tribunale di Crotone ha correttamente ritenuto sussistere la responsabilità per il fatto contestatogli.
Riguardo alla mancata qualificazione del fatto entro l'ambito delle ipotesi di particolare tenuità ex art. 131-bis cod. pen., si rileva, per un verso, che il ricorrente non ha formulato alcuna specifica istanza volta a far dichiarare la causa di non punibilità del fatto a lui contestato alla stregua della disposizione sopra citata, di tal che egli non può ora lamentare la stringatezza della motivazione con la quale il Tribunale ha escluso la ricorrenza della fattispecie in questione.
Per altro verso, si rileva anche che il Tribunale ha comunque escluso, con motivazione sostanzialmente congrua, che la condotta del Ba. avesse quel minimo grado di offensività che avrebbe giustificato l'applicazione della causa di non punibilità, posto che il detto giudice ha messo in luce sia la potenziale pericolosità dell'inquinamento da eternit, che ritenuto il prevenuto meritevole di una pena la quale, essendo superiore al minimo edittale, escludeva logicamente la possibilità di qualificare il fatto in termini di particolare lievità (sull'implicito rigetto della richiesta di qualificazione del fatto nell'ambito dell'art. 131-bis cod. pen. in caso di pena irrogata in misura superiore al minimo edittale, cfr.: Corte di cassazione, Sezione V penale, 10.10.2015, n. 39806) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.09.2019 n. 37460).

IN EVIDENZA

APPALTIIl principio di c.d. equivalenza funzionale interviene a dare elasticità al parametro valutativo delle offerte di una gara, così tutelando la massima partecipazione al confronto concorrenziale.
Tale principio permea l’intera disciplina dell’evidenza pubblica; costituisce espressione del legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione e trova applicazione indipendentemente da espressi richiami negli atti di gara o da parte dei concorrenti, in tutte le fasi della procedura di evidenza pubblica.
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19. Il Collegio osserva anzitutto che il TAR, nella sentenza appellata, è partito da una premessa condivisibile, affermando che nelle gare d'appalto vige il principio interpretativo che vuole privilegiata, a tutela dell'affidamento delle imprese, l’interpretazione letterale del testo della lex specialis, dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una sua obiettiva incertezza.
Occorre infatti evitare che il procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale, posto che l’interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt. 1362 e ss., c.c., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale (cfr. tra le altre, Cons. Stato, n. 7/2013; III, n. 3715/2018; V, n. 4684/2015).
20. Ne discende che le valutazioni qualitative della Commissione di gara, a salvaguardia della par condicio dei concorrenti, debbano svolgersi nell’ambito del perimetro delineato dalla lex specialis, quanto in particolare alle caratteristiche dei prodotti offerti, non potendo una valutazione positiva degli aspetti tecnici dell’offerta, operata dalla Commissione, sovrapporsi alla definizione contenuta nella disciplina di gara. L’esplicazione del principio di concorrenza non è incondizionata ma temperata da quello, altrettanto cogente, di tutela della par condicio, ed il punto di incontro tra le relative esigenze è dato dalla disciplina di gara, che fissa –in termini, a seconda dei casi, più o meno rigidi– i limiti entro i quali deve svolgersi il confronto concorrenziale (cfr. Cons. Stato, III, n. 747/2018).
21. Occorre tuttavia considerare che, a dare elasticità al parametro valutativo, così tutelando la massima partecipazione al confronto concorrenziale, interviene il principio di c.d. equivalenza funzionale.
Secondo l’art. 68 del d.lgs. 50/2016, che attua nell’ordinamento nazionale l’art. 42 della direttiva 2014/24/UE, le “specifiche tecniche” (qui da intendersi in senso lato, alla stregua di parametri di definizione dell’offerta tecnica) sono indicate nella lex specialis secondo diverse modalità (comma 3): “in termini di prestazioni o di requisiti funzionali … a condizione che i parametri siano sufficientemente precisi da consentire agli offerenti di determinare l'oggetto dell'appalto e agli enti aggiudicatori di aggiudicare l'appalto” (lettera a); ovvero “mediante riferimento a specifiche tecniche e, in ordine di preferenza, alle norme nazionali che recepiscono norme europee, alle valutazioni tecniche europee, alle specifiche tecniche comuni, alle norme internazionali, ad altri sistemi tecnici di riferimento adottati dagli organismi europei di normalizzazione o, se non esiste nulla in tal senso, alle norme nazionali, alle omologazioni tecniche nazionali o alle specifiche tecniche nazionali in materia di progettazione, di calcolo e di realizzazione delle opere e di uso delle forniture; ciascun riferimento contiene la menzione “o equivalente”” (lettera b); oppure, sostanzialmente, abbinando specifiche tecniche dell’uno e dell’altro dei tipi predetti (lettere c) e d).
Secondo il comma 5, un’offerta non può essere respinta perché non conforme alle prescrizioni di cui al comma 3, lettera b), previste dalla lex specialis, qualora l’offerente provi che “le soluzioni proposte ottemperano in maniera equivalente ai requisiti definiti dalle specifiche tecniche”.
Secondo il comma 6, un’offerta non può essere respinta qualora risulti conforme ad una “norma nazionale che recepisce una norma europea, a una omologazione tecnica europea, ad una specifica tecnica comune, ad una norma internazionale o a un riferimento tecnico elaborato da un organismo europeo di normalizzazione” (in sostanza, alle specifiche tecniche di cui al comma 3, lettera b)), se tali specifiche “contemplano le prestazioni o i requisiti funzionali … prescritti” dalla lex specialis.
Inoltre, in ogni caso, secondo il comma 4, “Salvo che siano giustificate dall’oggetto dell’appalto, le specifiche tecniche non menzionano una fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare caratteristico dei prodotti o dei servizi forniti da un operatore economico specifico, né fanno riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un’origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti. Tale menzione o riferimento sono autorizzati, in via eccezionale, nel caso in cui una descrizione sufficientemente precisa e intelligibile dell'oggetto dell'appalto non sia possibile applicando il paragrafo 3. Una siffatta menzione o un siffatto riferimento sono accompagnati dall'espressione “o equivalente””.
22. Quanto appena ricordato evidenzia l’importanza che la formulazione della lex specialis, sotto il profilo della univocità e completezza dei parametri valutativi, assume ai fini della legittimità della procedura di valutazione e della “elasticità” consentita alla Commissione di gara nell’apprezzamento delle offerte tecniche.
23. La sentenza appellata ha preso posizione in ordine alla portata applicativa del principio di equivalenza funzionale, riconoscendone la centralità nel sistema, ma affermandone l’inapplicabilità alla gara in questione (in relazione all’offerta Si., il cui prodotto differisce sotto diversi aspetti dalle caratteristiche indicate nei sottoparametri di valutazione) in mancanza di una previsione nella lex specialis, ovvero di una esplicita dichiarazione o evidenziazione da parte del concorrente.
Tale punto è contestato dagli appellanti incidentali, i quali prospettano le loro tesi sul presupposto che detti parametri contemplino, anche se talvolta attraverso il riferimento a determinate specifiche caratteristiche o modalità operative del prodotto da fornire, l’indicazione delle prestazioni o dei requisiti funzionali richiesti (riconducibili all’art. 86, comma 3, lettera a), cit).
L’appellante principale sostiene invece che i parametri si collocano al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 86, cit., in quanto limitato ai requisiti di partecipazione o di ammissibilità dell’offerta.
24. Il Collegio osserva che secondo la giurisprudenza prevalente di questa Sezione, l’ambito di applicazione del principio di equivalenza è piuttosto ampio, essendo stato affermato che:
   - il principio di equivalenza “permea l’intera disciplina dell’evidenza pubblica e la possibilità di ammettere a seguito di valutazione della stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche equivalenti a quelle richieste risponde al principio del favor partecipationis (ampliamento della platea dei concorrenti) e costituisce altresì espressione del legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione” (cfr. Cons. Stato, III, n. 4364/2013; n. 4541/2013; n. 5259/2017; n. 6561/2018);
   - trova applicazione indipendentemente da espressi richiami negli atti di gara o da parte dei concorrenti, in tutte le fasi della procedura di evidenza pubblica e “l’effetto di “escludere” un’offerta, che la norma consente di neutralizzare facendo valere l’equivalenza funzionale del prodotto offerto a quello richiesto, è testualmente riferibile sia all’offerta nel suo complesso sia al punteggio ad essa spettante per taluni aspetti … e la ratio della valutazione di equivalenza è la medesima quali che siano gli effetti che conseguono alla difformità” (cfr. Cons. Stato, III, n. 6721/2018);
   - l’art. 68, comma 7, del d.lgs. 50/2016 non onera i concorrenti di un’apposita formale dichiarazione circa l’equivalenza funzionale del prodotto offerto, potendo la relativa prova essere fornita con qualsiasi mezzo appropriato; la commissione di gara può effettuare la valutazione di equivalenza anche in forma implicita, ove dalla documentazione tecnica sia desumibile la rispondenza del prodotto al requisito previsto dalla lex specialis (cfr. Cons. Stato, III, n. 2013/2018; n. 747/2018) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 18.09.2019 n. 6212 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Principio di equivalenza negli appalti pubblici.
Il TAR Milano, in tema di principio di equivalenza dei prodotti offerti nelle gare d'appalto osserva che:
   - muovendo dalla normativa prima contenuta nell’art. 68 del d.lgs. n. 163 del 2006 e ora racchiusa nell’art. 68 del d.lgs. n. 50 del 2016, la giurisprudenza ha evidenziato che, allorché le offerte devono recare per la loro idoneità elementi corrispondenti a specifiche tecniche, il legislatore ha inteso introdurre il criterio dell’equivalenza, nel senso cioè che non vi deve essere una conformità formale ma sostanziale con le specifiche tecniche, in modo che le stesse vengano comunque soddisfatte, con la conseguenza che, in attuazione del principio comunitario della massima concorrenza –finalizzata a che la ponderata e fruttuosa scelta del miglior contraente non debba comportare ostacoli non giustificati da reali esigenze tecniche– i concorrenti possono sempre dimostrare che la loro proposta ottemperi in maniera equivalente allo standard prestazionale richiesto e che il riferimento negli atti di gara a specifiche certificazioni o caratteristiche tecniche non consente alla stazione appaltante di escludere un concorrente respingendo l’offerta che possieda una certificazione equivalente o rechi caratteristiche tecniche perfettamente corrispondenti allo specifico standard voluto;
   - peraltro, è l’operatore economico che intende avvalersi della clausola di equivalenza ad avere l’onere di dimostrare l’equipollenza funzionale tra i prodotti, non potendo pretendere che di tale accertamento si faccia carico la stazione appaltante, la quale è vincolata alla regola per cui le caratteristiche tecniche previste nel capitolato di appalto valgono a qualificare i beni oggetto di fornitura e concorrono, dunque, a definire il contenuto della prestazione sulla quale deve perfezionarsi l’accordo contrattuale, sicché eventuali e apprezzabili difformità registrate nell’offerta concretano una forma di aliud pro alio, comportante, di per sé, l’esclusione dalla gara, anche in mancanza di apposita comminatoria, e nel contempo non rimediabile tramite regolarizzazione postuma, consentita soltanto quando i vizi rilevati nell’offerta siano puramente formali o chiaramente imputabili a errore materiale;
   - se dunque la produzione in sede di offerta delle schede tecniche dei prodotti deve ritenersi sufficiente ai fini dell’ammissione alla gara, in quanto atta a consentire alla stazione appaltante lo svolgimento di un giudizio di idoneità tecnica dell’offerta e di equivalenza dei requisiti del prodotto offerto alle specifiche tecniche –sì che la prova da fornire può concretizzarsi in una specifica e dettagliata descrizione del prodotto e della fornitura–, resta fermo che il giudizio di equivalenza sulle specifiche tecniche dei prodotti offerti in gara, legato non a formalistici riscontri ma a criteri di conformità sostanziale delle soluzioni tecniche offerte, costituisce pacificamente legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione e, pertanto, il relativo sindacato giurisdizionale deve attestarsi su riscontrati, e prima ancora dimostrati, vizi di manifesta erroneità o di evidente illogicità del giudizio stesso, ossia sulla palese inattendibilità della valutazione espressa dalla stessa commissione di gara;
   - d’altra parte, l’Amministrazione ben può esigere che i prodotti che intende acquisire presentino caratteristiche aggiuntive rispetto a quelle ordinariamente richieste per simili tipologie di prodotti, dovendosi presumere –fino a prova contraria– che le prescritte ulteriori proprietà elevino lo standard prestazionale ai fini di un migliore soddisfacimento dell’interesse pubblico perseguito, mentre spetta all’offerente dimostrare, pur a fronte della più alta soglia imposta, l’equivalenza sostanziale/funzionale del diverso prodotto offerto e poi, in caso di giudizio negativo della stazione appaltante, argomentatamente denunciare in sede giurisdizionale l’erroneità della determinazione amministrativa sfavorevole
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.09.2019 n. 1991 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Ritenuto:
   - che la controversia si incentra sulle caratteristiche tecniche dei prodotti offerti dalla società ricorrente per l’affidamento della fornitura di “medicazione con argento nanocristalli” (lotti 31 e 32), ed in particolare sulla circostanza, valutata decisiva dalla stazione appaltante per escludere la ditta dalla gara, che quei prodotti sono privi di «argento in nanocristalli»;
   - che l’interessata invoca il “principio dell’equivalenza”, nell’assunto che i prodotti offerti garantirebbero comunque le medesime prestazioni e andrebbero dunque valutati idonei, pur in assenza del requisito stabilito dal capitolato tecnico, il quale peraltro reca un esplicito richiamo proprio al principio di equivalenza di cui all’art. 68 del d.lgs. n. 50 del 2016;
   - che, osserva il Collegio, muovendo dalla normativa prima contenuta nell’art. 68 del d.lgs. n. 163 del 2006 e ora racchiusa nell’art. 68 del d.lgs. n. 50 del 2016, la giurisprudenza ha evidenziato che, allorché le offerte devono recare per la loro idoneità elementi corrispondenti a specifiche tecniche, il legislatore ha inteso introdurre il criterio dell’equivalenza, nel senso cioè che non vi deve essere una conformità formale ma sostanziale con le specifiche tecniche, in modo che le stesse vengano comunque soddisfatte, con la conseguenza che, in attuazione del principio comunitario della massima concorrenza –finalizzata a che la ponderata e fruttuosa scelta del miglior contraente non debba comportare ostacoli non giustificati da reali esigenze tecniche–, i concorrenti possono sempre dimostrare che la loro proposta ottemperi in maniera equivalente allo standard prestazionale richiesto e che il riferimento negli atti di gara a specifiche certificazioni o caratteristiche tecniche non consente alla stazione appaltante di escludere un concorrente respingendo l’offerta che possieda una certificazione equivalente o rechi caratteristiche tecniche perfettamente corrispondenti allo specifico standard voluto (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. III, 28.06.2019 n. 4459);
   - che, peraltro, è l’operatore economico che intende avvalersi della clausola di equivalenza ad avere l’onere di dimostrare l’equipollenza funzionale tra i prodotti, non potendo pretendere che di tale accertamento si faccia carico la stazione appaltante, la quale è vincolata alla regola per cui le caratteristiche tecniche previste nel capitolato di appalto valgono a qualificare i beni oggetto di fornitura e concorrono, dunque, a definire il contenuto della prestazione sulla quale deve perfezionarsi l’accordo contrattuale, sicché eventuali e apprezzabili difformità registrate nell’offerta concretano una forma di aliud pro alio, comportante, di per sé, l’esclusione dalla gara, anche in mancanza di apposita comminatoria, e nel contempo non rimediabile tramite regolarizzazione postuma, consentita soltanto quando i vizi rilevati nell’offerta siano puramente formali o chiaramente imputabili a errore materiale (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 03.08.2018 n. 4809);
   - che, se dunque la produzione in sede di offerta delle schede tecniche dei prodotti deve ritenersi sufficiente ai fini dell’ammissione alla gara, in quanto atta a consentire alla stazione appaltante lo svolgimento di un giudizio di idoneità tecnica dell’offerta e di equivalenza dei requisiti del prodotto offerto alle specifiche tecniche –sì che la prova da fornire può concretizzarsi in una specifica e dettagliata descrizione del prodotto e della fornitura–, resta fermo che il giudizio di equivalenza sulle specifiche tecniche dei prodotti offerti in gara, legato non a formalistici riscontri ma a criteri di conformità sostanziale delle soluzioni tecniche offerte, costituisce pacificamente legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione e, pertanto, il relativo sindacato giurisdizionale deve attestarsi su riscontrati, e prima ancora dimostrati, vizi di manifesta erroneità o di evidente illogicità del giudizio stesso, ossia sulla palese inattendibilità della valutazione espressa dalla stessa commissione di gara (v. TAR Lazio, Sez. III, 03.12.2018 n. 11727);
   - che, d’altra parte, l’Amministrazione ben può esigere che i prodotti che intende acquisire presentino caratteristiche aggiuntive rispetto a quelle ordinariamente richieste per simili tipologie di prodotti, dovendosi presumere –fino a prova contraria– che le prescritte ulteriori proprietà elevino lo standard prestazionale ai fini di un migliore soddisfacimento dell’interesse pubblico perseguito, mentre spetta all’offerente dimostrare, pur a fronte della più alta soglia imposta, l’equivalenza sostanziale/funzionale del diverso prodotto offerto e poi, in caso di giudizio negativo della stazione appaltante, argomentatamente denunciare in sede giurisdizionale l’erroneità della determinazione amministrativa sfavorevole;

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

EDILIZIA PRIVATA: M. Viviani, Distanze tra fabbricati: un errore corretto dopo cinquantun anni. Meglio tardi che mai (24.10.2019).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Studio legale Spallino, Distanze in edilizia - repertorio di giurisprudenza (settembre 2019 - tratto da www.studiospallino.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti - Ipotesi di accordo integrativo recante criteri per le progressioni economiche (nota 05.07.2019 n. 30823 di prot.).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTIOGGETTO: Modalità operative per l’applicazione del calcolo per l’individuazione della soglia di anomalia nei casi di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso a seguito delle disposizioni di cui all’articolo 1 del decreto legge 18.04.2019, n. 32 convertito dalla legge 14.06.2019, n. 55, recante “Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici” (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, circolare 24.10.2019 n. 8).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: D.M. 12.04.2019 – Modifiche al decreto del 03.08.2015 e s.m.i. (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nota 15.10.2019 n. 15406 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAOggetto: Attrezzature per i servizi religiosi in applicazione dei principi della l.r. 12/2005 (Regione Lombardia, nota 26.09.2019 n. 39784 di prot.).
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Correlata, si legga anche:
  
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.08.2019 n. 36689.

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Detrazione delle spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio – definizioni degli interventi edilizi contenute nell’art. 3 del D.P.R n. 380 del 2001 - Art. 16-bis del TUIR - Art. 11, legge 27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate, risposta 16.09.2019 n. 383).
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E’ detraibile la sostituzione dei serramenti esterni?
Per le Entrate la sostituzione dei serramenti esterni è manutenzione straordinaria per cui è applicabile il bonus ristrutturazione.

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Articolo 11, legge 27.07.2000, n. 212 – Detrazione delle spese sostenute per interventi di recupero del patrimonio edilizio - Titoli abilitativi – Art. 16-bis del TUIR (Agenzia delle Entrate, risposta 19.07.2019 n. 287).
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E’ possibile accedere alle detrazioni fiscali anche senza una CILA?
Le Entrate chiariscono che si può accedere alle detrazioni fiscali anche senza una CILA, qualora gli interventi da effettuare ricadano in edilizia libera.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 06.11.2019, "Individuazione dei divieti temporali di utilizzazione agronomica nella stagione autunno vernina 2019/2020 in applicazione del d.m. 25.02.2016" (decreto D.G. 31.10.2019 n. 15623).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 04.11.2019 n. 258 "Misure per la definizione delle capacità assunzionali di personale a tempo indeterminato delle regioni" (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Pubblica Amministrazione, decreto 03.09.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 04.11.2019, "Bando per la rimozione del cemento amianto da parte di privati, approvato con d.d.u.o. n. 8615 del 14.06.2019 - Ulteriore finanziamento e modalità di approvazione elenco domande ammesse" (deliberazione G.R. 28.10.2019 n. 2328).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI - LAVORI PUBBLICI: G.U.U.E. 31.10.2019 L 279:
   "REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2019/1827 DELLA COMMISSIONE del 30.10.2019 che modifica la direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le soglie delle concessioni".
  
"REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2019/1828 DELLA COMMISSIONE del 30.10.2019 che modifica la direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le soglie degli appalti di forniture, servizi e lavori e dei concorsi di progettazione".
  
"REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2019/1829 DELLA COMMISSIONE del 30.10.2019 che modifica la direttiva 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le soglie degli appalti di forniture, servizi e lavori e i concorsi di progettazione".
  
"REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2019/1830 DELLA COMMISSIONE del 30.10.2019 che modifica la direttiva 2009/81/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le soglie degli appalti di forniture, servizi e lavori".

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 02.11.2019 n. 257 "Testo del decreto-legge 03.09.2019, n. 101, coordinato con la legge di conversione 02.11.2019, n. 128, recante: «Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali»".
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Di interesse si leggano:
  
● Art. 6-bis Armonizzazione dei termini di validità di graduatorie di pubblici concorsi
   ● Art. 14-bis Cessazione della qualifica di rifiuto

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 31.10.2019 n. 256 "Modifiche all’allegato 1 al decreto del Ministro dell’interno 03.08.2015, recante «Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139»" (Ministero dell'Interno, decreto 18.10.2019).

APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI - VARI: G.U. 26.10.2019 n. 252 "Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili" (D.L. 26.10.2019 n. 124).
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Di interesse si leggano:
  
● Art. 4. Ritenute e compensazioni in appalti e subappalti ed estensione del regime del reverse charge per il contrasto dell’illecita somministrazione di manodopera
   ● Art. 18. Modifiche al regime dell’utilizzo del contante
   ● Art. 23. Sanzioni per mancata accettazione di pagamenti effettuati con carte di debito e credito
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Si leggano anche:
   ► Collegato fiscale: responsabilità divise tra committente e appaltatore (31.10.2019 - link a www.fiscooggi.it).
   ► Il decreto-legge fiscale è in G.U. - Tra le novità, norme su ritenute e compensazioni in appalti e subappalti, sul divieto di cumulo tra Conto Energia e Tremonti ambientale e sulla revisione delle priorità in materia di investimenti pubblici in infrastrutture (28.10.2019 - link a www.casaeclima.com).
   ► Manovra finanziaria 2020, in vigore il collegato fiscale (27.10.2019
- link a www.fiscooggi.it).

APPALTI: G.U.U.E. 25.10.2019 n. L 272 "REGOLAMENTO DI ESECUZIONE (UE) 2019/1780 DELLA COMMISSIONE del 23.09.2019 che stabilisce modelli di formulari per la pubblicazione di avvisi e bandi nel settore degli appalti pubblici e che abroga il regolamento di esecuzione (UE) 2015/1986 («formulari elettronici»)".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 21.10.2019, "Integrazione alla d.g.r. VII/20732 del 16.02.2005 «Linee guida per il riconoscimento della qualifica di imprenditore agricolo professionale»" (deliberazione G.R. 14.10.2019 n. 2258).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 17.10.2019, "Settimo aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 10.10.2019 n. 14557).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 14.10.2019 n. 241 "Misure urgenti per il rispetto degli obblighi previsti dalla direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell’aria e proroga del termine di cui all’articolo 48, commi 11 e 13, del decreto-legge 17.10.2016, n. 189, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.12.2016, n. 229" (D.L. 14.10.2019 n. 111).

VARI: G.U. 12.10.2019 n. 240 "Testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera, recante: «Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari»".

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 10.10.2019, "Nuove determinazioni in materia di agriturismo ai sensi dell’art. 158 della l.r. 31/2008. Revisione del marchio regionale di riconoscimento e dei simboli dei servizi delle aziende agrituristiche" (deliberazione G.R. 30.09.2019 n. 2169).

ENTI LOCALI: G.U. 30.09.2019 n. 229 "Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni (Legge di contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: F. Laudante, Profili problematici della composizione delle Commissioni giudicatrici delle gare d’appalto: una ricostruzione giurisprudenziale (31.10.2019 - link a www.filodiritto.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Saitta, La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione? (31.10.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. La legittimazione ad agire nel processo civile. – 2. La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo. – 3. Le ragioni della (presunta) «specialità» ed il ruolo dell’interesse legittimo. – 4. Le incertezze giurisprudenziali tra legittimazione ed interesse a ricorrere: brevi cenni. – 5. Spunti per un ripensamento: la legittimazione da titolarità concreta a mera affermazione. – 6. Alcuni casi paradigmatici come banco di prova: a) il ricorso incidentale escludente. – 7. Segue: b) la tutela degli interessi superindividuali. – 8. Segue: c) le nuove figure di legittimazione ex lege. – 9. Legittimazione a ricorrere e natura soggettiva od oggettiva della giurisdizione amministrativa.

EDILIZIA PRIVATA: R. Iacovelli, Nullità urbanistica: la reductio ad unum compiuta dalle Sezioni Unite (29.10.2019 - link a www.filodiritto.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: L. Catania, Albi pretori della PA: dopo quasi 10 anni è ancora caos (28.10.2019 - link a www.lentepubblica.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. B. Molinaro, Dopo la Corte Europea anche la Cassazione “apre” all’“abuso di necessità (28.10.2019 - link a www.filodiritto.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: F. D'Alessandri, La privacy delle decisioni giudiziarie pubblicate sul sito internet istituzionale della Giustizia Amministrativa (25.10.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Viviani, Distanze tra fabbricati: un errore corretto dopo cinquantun anni. Meglio tardi che mai (24.10.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Cicala, L'UTILIZZO DEI PERMESSI EX LEGGE 104/1992 NEL CASO IN CUI L ASSISTITO È IN CASA FAMIGLIA, COMUNITÀ ALLOGGIO O CASA DI RIPOSO (PublikaDaily n. 19 - 22.10.2019).

APPALTI: S. Usai, LA QUESTIONE DELL'INVERSIONE DELLA VERIFICA DEI REQUISITI NELLA RECENTE GIURISPRUDENZA (PublikaDaily n. 19 - 22.10.2019).

EDILIZIA PRIVATA: M. Luchetti, Abuso edilizio risalente: repressione sì repressione no (22.10.2019 - link a www.filodiritto.com).

PUBBLICO IMPIEGO: F. Goffi, Mobbing sul lavoro: i presupposti per il risarcimento (18.10.2019 - link a www.filodiritto.com).

EDILIZIA PRIVATA: R. Giani, Il principio di rotazione nell’aggiudicazione degli appalti pubblici (12.10.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. La declinazione dell’evidenza pubblica nel sotto-soglia. – 2. La disciplina per principi. – 3. Il principio di rotazione quale principio anomalo. – 4. Principio di rotazione e tutela della concorrenza. – 5. Rotazione degli inviti e rotazione degli affidamenti. – 6. Deroga alla rotazione: reinvito e riaffido.

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: R. Sacchi, LA FIGURA DEL RESPONSABILE DELLA PREVENZIONE DELLA CORRUZIONE E DELLA TRASPARENZA (RPCT) NEL NUOVO PNA 2019 (PublikaDaily n. 18 - 09.10.2019).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G. P. Cirillo, La premialità edilizia, la compensazione urbanistica e il trasferimento dei diritti edificatori (04.10.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Rassegna dei diritti edificatori: il trasferimento di cubatura e di volumetria. Gli altri diritti edificatori: la perequazione edilizia; la compensazione edilizia; le premialità edilizie.

EDILIZIA PRIVATA: M. A. Sandulli, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela (02.10.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Considerazioni introduttive. 1.1. Premessa. 1.2. L’evoluzione del sistema dei titoli abilitativi edilizi. 1.3. Le contraddizioni delle c.d. misure di semplificazione. 2. I controlli in fase di avvio dell’attività edilizia. 2.1. La complessità del sistema della legittimazione all’esercizio dell’attività edilizia. 3. Il regime dell’autotutela e le garanzie di stabilità del titolo. 3.1. Profili generali. 3.2. Il co. 2-bis dell’art. 21-nonies come temperamento al limite temporale e la necessità di coordinamento con l’art. 21, co. 1. 3.3. I poteri straordinari di annullamento d’ufficio in materia edilizia. 4. Le sanzioni amministrative edilizie. 5. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA: P. Malanetto, Libertà di iniziativa economica e localizzazione delle attività di impresa. Scia e funzioni di controllo delle amministrazioni locali (21.09.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Impianti per energia da fonti rinnovabili e misure compensative non patrimoniali (11.09.2019 - link a http://studiospallino.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Intervento in autotutela: il termine di 18 mesi vale solo per i provvedimenti successivi al 28.08.2015 (02.09.2019 - link a http://studiospallino.blogspot.com).

URBANISTICA: L. Spallino, Piani attuativi e poteri di non approvazione delle amministrazioni locali - TAR Lombardia-Brescia, 03.01.2019 n. 5 (07.08.2019 - link a www.dirittopa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: A. Mitrotti, Brevi riflessioni sull’atto di ritiro delle dimissioni del sindaco comunale anche alla luce dei potenziali parallelismi con gli effetti propri della questione di fiducia apponibile dal Governo nazionale (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2019).

EDILIZIA PRIVATA: M. Gerardo, Chiarezza e concisione degli atti giuridici (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2019).
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Sommario: 1. Precisazione terminologica ed introduzione - 2. Disciplina normativa. Norma giuridica - 3. Disciplina normativa. (segue) Provvedimento amministrativo - 4. Disciplina normativa. (segue) Sentenza ed atti prodromici - 5. Disciplina normativa. (segue) Negozio giuridico - 6. Disciplina normativa. (segue) Dichiarazione di scienza - 7. richiamo ai caratteri della chiarezza e sinteticità nel momento storico attuale. aspetti generali e problematiche connesse agli atti normativi - 8. richiamo ai caratteri della chiarezza e sinteticità nel momento storico attuale. (segue) Problematiche connesse al provvedimento amministrativo - 9. richiamo ai caratteri della chiarezza e sinteticità nel momento storico attuale. (segue) Problematiche connesse alla sentenza e agli atti prodromici - 10. Considerazioni finali.

APPALTI: A. Izzi, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione -anche- nella fase antecedente l’aggiudicazione definitiva - Nota a Consiglio di stato, Adunanza Plenaria, sentenza 04.05.2018 n. 5 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2019).
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Sommario: 1. Premessa - 2. i fatti di causa - 3. l’evoluzione giurisprudenziale in materia di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione. Cenni - 4. la tesi della sezione remittente - 5. l’indirizzo dell’adunanza Plenaria - 6. Conclusioni.

PATRIMONIO: G. Profeta, La valorizzazione dei beni culturali quale terreno elettivo del partenariato pubblico-privato e, in particolare, pubblico-pubblico (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2019).
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Sommario: 1. Introduzione - 2. Il rapporto di partenariato pubblico-privati - 3. L’in-house quale limite esterno al partenariato pubblico-privato - 4. La valorizzazione dei beni culturali quale terreno elettivo del partenariato pubblico-privato e, in particolare, pubblico-pubblico - 5. Il caso concreto: l’accordo di valorizzazione del 20.02.2017 - 6. Considerazioni conclusive.

EDILIZIA PRIVATA: M. A. Sandulli, Poteri di autotutela della pubblica amministrazione e illeciti edilizi (15.07.2015 - tratto da www.federalismi.it).

A.N.AC.

PUBBLICO IMPIEGOPoteri dell’Autorità in materia di accertamento e sanzione delle fattispecie di pantouflage di cui all’art. 53, comma 16-ter, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (comunicato del Presidente 30.10.2019 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTIPubblicate due nuove rassegne: Pareri di precontenzioso sulla verifica dell’anomalia e Requisiti speciali nelle gare di servizi e forniture.
Disponibili on line due nuove pubblicazioni in materia di contratti pubblici. Si tratta della Rassegna ragionata dei pareri di precontenzioso in tema di verifica dell’anomalia, 2017-2019, e della Rassegna ragionata in tema di requisiti speciali di partecipazione negli affidamenti di servizi e forniture.
Il documento dell’Anac sul precontenzioso in tema di ‘verifica dell’anomalia’ ricostruisce molte pronunce dell’Autorità riferite al periodo 2017-2019, fornendo un quadro sistematico e organico degli orientamenti assunti in materia nel corso del tempo al fine di assicurare la corretta valutazione delle offerte, funzionale all’individuazione del miglior offerente.
Molti i profili che emergono dalla rassegna: l’individuazione delle offerte anomale e l’avvio della verifica di congruità; le prime decisioni assunte in merito dall’Autorità dopo l’entrata in vigore del decreto c.d. “sblocca cantieri”; l’istruttoria nell’ambito della verifica di anomalia e l’oggetto della verifica di anomalia; l’esito della verifica e l’obbligo di motivazione; l’esclusione automatica delle offerte e la sindacabilità del giudizio di anomalia.
Le molteplici pronunce dell’Autorità in merito ai requisiti speciali di partecipazione negli affidamenti di servizi e forniture hanno consentito di elaborare una rassegna che, muovendo dalle più recenti determinazioni dell’Anac post-Codice del 2016, ripercorre i principali aspetti connessi alla disciplina dei requisiti speciali di partecipazione, evidenziando gli indirizzi espressi nonché la continuità e i mutamenti di orientamento rispetto al previgente Codice del 2006.
La rassegna è ripartita nelle tre marco-aree dei requisiti speciali -idoneità professionale, capacità tecnico-organizzativa, capacità economico-finanziaria- e illustra i principali profili affrontati dall’Autorità (29.10.2019 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTIOggetto: Indicazioni relative all’obbligo di acquisizione del CIG e di pagamento del contributo in favore dell’Autorità per le fattispecie escluse dall’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici (comunicato del Presidente 16.10.2019 - link a www.anticorruzione.it).

SEGRETARI COMUNALIL'Anac rafforza le tutele del segretario comunale come responsabile anticorruzione.
L'Anac interviene nuovamente sul tema dell'adozione di misure discriminatorie nei confronti del segretario comunale nominato responsabile per la prevenzione della corruzione.
La delibera 02.10.2019 n. 883 ha riguardato lo scioglimento della convenzione di segreteria per recesso unilaterale di un Comune. Tale scelta –è stato segnalato- nella sostanza nasconde la volontà di revocare il segretario comunale/responsabile prevenzione corruzione sia per liberarsi di un funzionario scomodo, costituente ostacolo al perpetuarsi di certe prassi/progetti/intendimenti corruttivi, sia in un'ottica di vendetta per avere il Rpct bloccato alcuni progetti politici del Sindaco.
La fattispecie concreta sottoposta all'esame dell'Anac non era evidentemente riconducibile a quella prevista dall'articolo 1, comma 82, della legge n. 190/2012, non essendo stato adottato alcun provvedimento di revoca di segretario comunale, in base all'articolo 100 del Tuel. Tuttavia, il recesso unilaterale del Comune dalla convenzione di segreteria, di fatto, ha comportato la rimozione del segnalante dal suo incarico di segretario comunale e di Roct, con aspetti qualificabili come misura ritorsiva in base all'articolo 1, comma 7, legge n. 190/2012.
Le ragioni discriminatorie
L'Anac ha rilevato la vicinanza cronologica del recesso con:
   a) il giudizio negativo espresso dal Rpct sul livello di ottemperanza dell'ente agli obblighi di trasparenza e denuncia d'inosservanza cronica dei doveri di pubblicazione degli atti, in base al Dlgs n. 33/2013, per omessa pubblicazione delle determinazioni dirigenziali del 2019 e del 2018;
   b) la segnalazione d'inadempimenti in tema di trasparenza;
   c) i solleciti, anche formali, ad ottemperare a detti obblighi, inviati dal Rpct ai responsabili;
   d) la valutazione negativa della performance dell'anno 2018 dei tre responsabili delle omesse pubblicazioni e la negata erogazione dell'indennità di risultato;
   e) l'intendimento di esprimere parere negativo sulla proposta deliberativa relativa alla salvaguardia degli equilibri di bilancio, per omessa pubblicazione di oltre 100 determinazioni dirigenziali degli anni 2018 e 2019 di cui 70 relative all'esercizio finanziario 2019.
Non ha rinvenuto, di contro, un collegamento tra il recesso con altri atti indicati dal segretario, poiché cronologicamente successivi alla delibera consiliare di recesso, che però illustrano il contesto interno preesistente al recesso in cui il Rpct ha operato ed è intervenuto per contrastare condotte, a suo parere, corruttive, in quanto viziate da conflitto d'interessi.
Sia il Sindaco, sia il segretario comunale hanno confermato la sussistenza di rapporti personali conflittuali sin dai tempi in cui il Sindaco era vicesindaco con delega al bilancio nella giunta precedente, sebbene diversamente giustificati: incomprensioni personali, per il Sindaco; motivi lavorativi, per il Rpct.
La richiesta di riesame
Tali considerazioni, unitamente alle altri problemi illustrati dal segnalante e alle motivazioni del recesso unilaterale del Comune dalla convenzione di segreteria hanno suscitato perplessità sulla regolarità del ricorso a tale procedura, sebbene ciò non sia di competenza dell'Autorità.
Per quanto di competenza, la cessazione dell'incarico di Segretario comunale e conseguentemente di Rpct appare prima facie correlata all'attività di prevenzione della corruzione da questi svolta in qualità di Rpct. Alla luce di tutto quanto sopra, l'Anac ha ritenuto che, nel caso specifico, la deliberazione del consiglio comunale di risoluzione unilaterale dalla convenzione di segreteria abbia prodotto l'effetto diretto della revoca dell'incarico di segretario comunale e quello indiretto della revoca dell'incarico di Rpct per motivi legati a tale sua attività oltre che di segretario comunale.
L'Anac ha chiesto quindi al Consiglio comunale il riesame, in base all'articolo15, comma 3, del Dlgs n. 39/2013, della delibera consiliare di recesso unilaterale della convenzione per la gestione in forma associata del servizio di segreteria comunale e assegnato all'amministrazione il termine di 30 giorni per tale adempimento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.11.2019).

APPALTIAppalti, Anac boccia il criterio che premia chi arriva prima
Il criterio cronologico, cioè l’ordine di arrivo delle manifestazioni di interesse al protocollo della stazione appaltante), non può ritenersi strumento idoneo per assicurare la scelta degli operatori da far concorrere in quanto «non è in grado di garantire la medesima casualità del sorteggio e di neutralizzare il possibile rischio di asimmetrie informative tra i potenziali concorrenti».

In questo senso si è espressa l’Anac con il Parere di Precontenzioso 18.09.2019 n. 827 - rif. PREC 120/19/L.
L’appaltatore ha contestato la legittimità del criterio adottato dalla stazione appaltante -per la realizzazione di un impianto di illuminazione- per individuare i soggetti da invitare alla procedura negoziata. Nell’avviso di indagine di mercato, la stazione appaltante ha previsto che nell’ipotesi in cui «il numero delle domande pervenute fosse risultato superiore a tre», l’invito da parte del Rup «sarebbe stato rivolto ai primi tre candidati, in base all’ordine cronologico di arrivo delle istanze di partecipazione
» al protocollo dell’ente.
L’amministrazione ha giustificato il criterio evidenziando l’esigenza di concludere la gara in tempi rapidi. E ne ha sostenuto la legittimità in quanto modalità di selezione casuale e oggettiva come il sorteggio .
La tesi non persuade l’Autorità anticorruzione. Nel parere si riafferma che le procedure sotto soglia (linee guida Anac n. 4) devono essere condotte nel rispetto del principio della libera concorrenza «quale effettiva contendibilità degli affidamenti da parte dei soggetti potenzialmente interessati e il principio di pubblicità e trasparenza quale conoscibilità della procedura di gara e facilità di accesso alle informazioni».
Le Linee guida suggeriscono, quando la stazione appaltante non abbia previsto dei criteri oggettivi per la selezione dei fornitori e vengano presentate manifestazioni di interesse da un numero di operatori superiore a quello predefinito nell’avviso, di ricorrere a un sistema oggettivo e trasparente. Queste connotazioni sono sicuramente riconducibili al sistema del sorteggio «a condizione che ciò sia stato debitamente reso noto nell’avviso a manifestare interesse».
Invece il criterio cronologico, basato sulla tempestività della domanda, non può ritenersi «in grado di garantire la medesima casualità del sorteggio e di neutralizzare il possibile rischio di asimmetrie informative tra i potenziali concorrenti».
Il mezzo prescelto per la selezione, prosegue il parere, deve essere idoneo a «raggiungere la più ampia sfera di potenziali operatori interessati all’affidamento, in relazione all’entità e all’importanza dell’appalto».
L’obiettivo viene frustrato nel caso dell’utilizzo del criterio cronologico e infatti l’Anac ha segnalato le criticità di questo sistema prevedendo già «il divieto di prevedere l’adozione del criterio cronologico nella selezione degli operatori da invitare».
Sotto il profilo pratico, inoltre, al di là delle autorevoli considerazioni espresse dall’Anac si deve rilevare che l’utilizzo dell’ordine di arrivo al protocollo si presta anche a possibili censure per potenziali fughe anticipate di notizie sulla gara da avviare. Circostanza che, inevitabilmente, finisce per condizionare lo svolgimento della procedura (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.10.2019).

APPALTIIl responsabile del servizio non può presiedere la «propria» commissione di gara.
L'approvazione degli atti di gara non costituisce un'operazione di natura meramente formale ma integra una «funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta» (articolo 77, comma 4 del codice dei contratti) il cui svolgimento è precluso ai componenti della commissione giudicatrice. Ciò determina l'incompatibilità del dirigente/responsabile del servizio a presiedere le commissioni di gara relative ad appalti del proprio settore.

È questa la precisazione contenuta nel parere dell'Anac espresso con il Parere di Precontenzioso 04.09.2019 n. 760 - rif. PREC 119/19/S.
L'istanza
All'Anac è stata posta la questione della illegittimità della composizione della commissione di gara per incompatibilità del presidente.
Più nel dettaglio, l'impresa istante –avvalendosi della norma sulla incompatibilità contenute nel comma 4 dell'articolo 77 del codice secondo cui «I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta»- ha rilevato l'impossibilità per il responsabile del servizio (che approva la legge speciale di gara) di svolgere anche le funzioni del soggetto che approva le risultanze della gara.
Ciò in virtù dell'estensione delle cause di incompatibilità –a differenza di quanto accadeva con il vecchio regime normativo (e in specie con l'articolo 84, comma 8) del Dlgs 163/2006– anche al soggetto che presiede la commissione di gara (delibera Anac n. 27/2017).
Il chiarimento dell'Anac
L'autorità anticorruzione ha chiarito che la disposizione in tema di incompatibilità risponde all'esigenza di assicurare una «rigida separazione della fase di preparazione della documentazione di gara da quella di valutazione delle offerte in essa presentate, a garanzia della neutralità del giudizio ed in coerenza con la ratio generalmente sottesa alle cause di incompatibilità dei componenti degli organi amministrativi».
Questo divieto, quindi, sarebbe destinato a prevenire il pericolo concreto di possibili «effetti distorsivi prodotti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale, definendo i contenuti e le regole della procedura (Cons. Stato, sez. V, 28.04.2014, n. 2191)».
Ora, nel ragionamento espresso nel parere, l'approvazione degli atti di gara non può essere considerata una mera operazione di natura solo formale ma, trattandosi di un «controllo preventivo di merito, implica necessariamente un'analisi degli stessi, una positiva valutazione e –attraverso la formalizzazione– una piena condivisione».
La fase (e gli atti dell'approvazione) implica e concretizza proprio una funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto da aggiudicare il cui svolgimento è precluso ai componenti della Commissione giudicatrice (in tal senso Tar Brescia n. 1306/2017; Tar Puglia, Lecce, sezione II, n. 1040/2016).
Questa situazione, pertanto, avrebbe l'effetto di determinare una chiara incompatibilità che non può essere superata –prosegue l'Anac– neppure ammettendo l'ulturavigenza dell'articolo 84 del vecchio codice. L'ultravigenza, infatti, deve ritenersi limitata alla sola modalità di nomina delle commissioni di gara e non anche alle «incompatibilità ovvero gli altri aspetti disciplinati dall'art. 77 del Codice, né tanto meno appare giuridicamente possibile che una norma espressamente abrogata –l'art. 84 del d.lgs. 163/2006- possa continuare a spiegare effetti».
La conclusione è nel senso, quindi, della incompatibilità del ruolo dirigente/responsabile del servizio che approva la legge di gara con il ruolo del soggetto tenuto ad approvare le risultanze della gara. Negli enti locali (e nella altre stazioni appaltanti) il dirigente/responsabile del servizio a cui è riconducibile l'appalto non può presiedere, quindi, la propria commissione di gara nonostante quanto disposto nell'articolo 107 del decreto legislativo 267/2000 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.10.2019).

APPALTIL'invito a tutti gli appaltatori del territorio non esclude l'obbligo di rotazione.
La circostanza che ogni impresa del territorio comunale sia stata invitata alla procedura di affidamento non esonera il responsabile unico del procedimento dall'obbligo di rispettare il principio di rotazione. Pertanto l'affidamento al vecchio affidatario è illegittimo.

In questo senso il Parere di Precontenzioso 05.06.2019 n. 500 - rif. PREC 63/19/S dell'Anac.
Il quesito
I quesiti inviati all'Anac –in sede di precontenzioso– da un appaltatore, in relazione all'affidamento, tramite procedure negoziate senza previa pubblicazione del bando di gara del servizio di manutenzione dei locali espletato secondo l'articolo 36 del codice dei contratti, riguardavano, in primo luogo, il mancato rispetto della rotazione. L'appalto, infatti,era stato aggiudicato al vecchio affidatario che, secondo l'impresa instante, non avrebbe neppure dovuto essere invitato.
In secondo luogo, l'appaltatore si è lamentato dell'operato della commissione di gara che non avrebbe valutato la propria richiesta di partecipazione, nonostante la richiesta di invito, alla luce dell'orientamento giurisprudenziale che afferma l'obbligo di invitare al procedimento l'operatore che abbia manifestato l'intendimento di partecipare alla competizione.
La stazione appaltante ha replicato evidenziando che al procedimento risultavano invitate tutte le cooperative sociali esistenti nel territorio comunale e che l'istante non è stata invitata in quanto non ancora costituita alla data di trasmissione delle lettere d'invito.
Il riscontro
L'autorità anticorruzione ha ribadito la lettura molto rigorosa che l'attuale giurisprudenza esprime in tema di rispetto dell'alternanza/rotazione tra imprese. In sostanza, ogni deroga alla rotazione –sia nel riaffido dell'appalto sia nel reinvito del vecchio aggiudicatario o ai soggetti già invitati– deve trovare una adeguata motivazione.
L'aspetto pratico interessante della questione è che la stazione appaltante ha sostenuto di aver invitato tutti gli operatori locali (tutte le cooperative sociali) esistenti nel territorio comunale e pertanto non doveva applicare la rotazione. La circostanza non è stata considerata persuasiva dall'Anac.
Il fatto che il Rup, nell'effettuare gli inviti al procedimento semplificato nelle acquisizioni sottosoglia comunitaria (articolo 36 del codice dei contratti) e, in particolare, nell'ipotesi entro i 40mila euro (articolo 36, comma 2, lettera a), abbia rivolto gli inviti a ogni operatore locale (presente nel territorio comunale) non rende, per ciò stesso, il procedimento "aperto". La procedura realmente aperta, in effetti, consentirebbe –anche alla luce di quanto disposto nelle linee guida Anac n. 4, in tema di acquisizioni nel sottosoglia comunitario- di apportare delle deroghe alla rotazione considerata l'affinità del procedimento con quello "classico" dell'evidenza pubblica.
Ma non può sfuggire, sotto il profilo tecnico/operativo, che "aprire" il procedimento ai soli operatori locali non determina, evidentemente, l'esperimento di una procedura formalmente e sostanzialmente aperta. E' chiaramente una contraddizione visto che la possibilità di partecipazione, in realtà, è limitata territorialmente.
L'Anac ha ritenuto non persuasive le argomentazioni sviluppate e il riferimento alla giurisprudenza visto che l'appaltatore –nel caso di specie– non ha presentato una propria offerta/tecnico economica che avrebbe dovuto essere valutata dalla commissione di gara ma una semplice richiesta di invito che è stata "ignorata" dal collegio.
Queste affermazioni, in effetti, confermano quanto emerge dalla recente giurisprudenza (Tar Catania, sentenza n. 1380/2019) che tende a distinguere il caso in cui il responsabile unico proceda con avviso pubblico a manifestare interesse su cui, poi, innestare gli inviti, dal caso in cui la scelta degli operatori sia stata effettuata in modo "discrezionale" dal responsabile del procedimento. In quest'ultimo caso, infatti, la mancata formalizzazione dell'avviso legittima la partecipazione ai soggetti non invitati che si propongono.
Il riscontro dell'Anac, obiettivamente, sembra eccessivamente penalizzante per l'impresa che venga a conoscenza del procedimento e, seguendo la procedura, si limiti a richiedere di essere invitata senza presentare una vera e propria offerta (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.07.2019).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L'ufficio edilizia e l'ufficio lavori pubblici, in gestione associata all'Unione di Comuni, chiedono quali siano le novità in materia di "opere a scomputo" avendo avuto notizia di una modifica normativa che però non si ritrova né nella disciplina edilizia (nazionale e regionale) né in quella sugli appalti.
La problematica è reale e deriva dall'avvio, da parte della Commissione europea, di una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia riguardante, tra l'altro, la violazione dell'art. 5, par. 8, comma 2, Dir. 2014/24/UE in relazione alle opere di urbanizzazione a scomputo.
Alla luce di questa procedura, coinvolgente le Linee guida ANAC n. 4, l'Autorità Nazionale Anticorruzione preso atto che nelle more della conclusione della procedura di aggiornamento delle Linee guida n. 4, è intervenuto il D.L. 18.04.2019, n. 32 recante "Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici", convertito con L. 14.06.2019 n. 55 ha provveduto all'"Aggiornamento dei punti 1.5, 2.2, 2.3 e 5.2.6 lettera j) delle Linee guida n. 4 a seguito dell'entrata in vigore della L. 14.06.2019 n. 55 di conversione del D.L. 18.04.2019 n. 32" con la Del. 10.07.2019, n. 636.
Le Linee guida n. 4, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti "Procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici" contengono oggi una disciplina specifica (punto 2.2 e 2.3) su questo tema prevedendo in sintesi che:
   - "Per le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire, nel calcolo del valore stimato devono essere cumulativamente considerati tutti i lavori di urbanizzazione primaria e secondaria anche se appartenenti a diversi lotti, connessi ai lavori oggetto di permesso di costruire, permesso di costruire convenzionato (art. 28-bis, D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o convenzione di lottizzazione (art. 28, L. 17.08.1942 n. 1150) o altri strumenti urbanistici attuativi".
   - l'art. 16, comma 2-bis, D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (Nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria ... di importo inferiore alla soglia ..., funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il [Codice dei contratti]) e l'art. 36, comma 4, Codice dei contratti pubblici che rinvia a tale disposizione si applicano dunque esclusivamente quando il valore di tutte le opere di urbanizzazione non raggiunge le soglie di rilevanza comunitaria.
I casi possibili sono dunque due:
   a) nel caso dunque si rimanga sotto la soglia il privato avrà titolo ad avvalersi delle citate disposizioni (esecuzione diretta di opere a scomputo) ma esclusivamente per le opere funzionali. "Per opere funzionali si intendono le opere di urbanizzazione primaria (ad es. fogne, strade, e tutti gli ulteriori interventi elencati in via esemplificativa dall'art. 16, comma 7, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) la cui realizzazione è diretta in via esclusiva al servizio della lottizzazione ovvero della realizzazione dell'opera edilizia di cui al titolo abilitativo a costruire e, comunque, quelle assegnate alla realizzazione a carico del destinatario del titolo abilitativo a costruire";
   b) il valore complessivo di tutte le opere supera la soglia comunitaria. In questo caso il privato dovrà applicare il Codice di contratti pubblici (procedure di gara, principi, regole ecc..) sia per le opere funzionali che per quelle non funzionali.
A questo complesso quadro occorre aggiungere l'ulteriore deroga (della deroga) prevista dall'art. 35, comma 11, del codice dei contratti pubblici in base al quale "le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori possono aggiudicare l'appalto per singoli lotti senza applicare le disposizioni del presente codice, quando il valore stimato al netto dell'IVA del lotto sia inferiore a euro 80.000 per le forniture o i servizi oppure a euro 1.000.000 per i lavori, purché il valore cumulato dei lotti aggiudicati non superi il 20 per cento del valore complessivo di tutti i lotti in cui sono stati frazionati l'opera prevista, il progetto di acquisizione delle forniture omogenee, o il progetto di prestazione servizi".
In sintesi, rimane in vigore la disciplina sulla realizzazione diretta di opere a scomputo da parte del titolare del permesso di costruire ma con forti limitazioni derivanti dal calcolo del valore stimato secondo le indicazioni di Anac, frutto del recepimento di puntuali indicazioni comunitarie.
Si conferma che tale disciplina è fuori dalla disciplina urbanistico-edilizia e del Codice dei contratti, che contiene un richiamo indiretto e generale solo nell'art. 216, comma 27-octies laddove dispone "Ai soli fini dell'archiviazione delle citate procedure di infrazione, nelle more dell'entrata in vigore del regolamento, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e l'ANAC sono autorizzati a modificare rispettivamente i decreti e le linee guida adottati in materia", norma che è alla base della Del. 10.07.2019, n. 636 dell'ANAC.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 17.08.1942 n. 1150, art. 28 - D.P.R. 06.06.2001 n. 380, art. 28-bis - D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 35 - D.L. 18.04.2019, n. 32 - L. 14.06.2019, n. 55 - Del. 10.07.2019, n. 636 dell'ANAC (30.10.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTI FORNITURE E SERVIZILa nomina del direttore dell’esecuzione nei contratti di forniture/servizi.
Domanda
Il nostro ente sta avviando delle procedure d’appalto di servizi e forniture di importo inferiore ai 500 mila euro. Il responsabile del servizio vorrebbe procedere con la nomina di un direttore dell’esecuzione diverso dal responsabile unico del procedimento.
Questo distinguo, per importi inferiori ai 500mila euro è possibile o, obbligatoriamente, il RUP deve svolgere anche le funzioni di direttore dell’esecuzione?
Risposta
La questione posta esige un previo chiarimento sui rapporti tra nomina del direttore dell’esecuzione ed erogazione degli incentivi.
Normalmente, anche per come la questione viene affrontata e chiarita nelle linee guida ANAC n. 3, le funzioni del direttore dell’esecuzione negli appalti di forniture e servizi d importo inferiore ai 500mila euro devono essere svolte dal RUP.
In sostanza, e banalizzando, si ritiene che nell’ambito di tali importi le funzioni/compiti da svolgere –salvo prova contraria– non siano così complesse ed articolate.
Ma, a sommesso parere, la preoccupazione sugli incarichi distinti RUP e direttore dell’esecuzione, trae origine (o almeno appare riconducibile) alla questione degli incentivi per funzioni tecniche. Nel senso che, questi ultimi, sono erogabili solo ed esclusivamente se per l’esecuzione del contratto è stato nominato un DEC diverso dal RUP. E ciò, secondo l’ANAC (ed il costante orientamento delle sezioni regionali della Corte dei Conti) è ammissibile solamente nel caso in cui l’appalto superi i 500mila euro.
Ciò emerge, in tempi recenti, con particolare evidenza nella delibera n. 301/2019 della sezione regionale del Veneto in cui si legge, testualmente, che al di sotto dell’importo appena richiamato “la nomina disgiunta” DEC/RUP, “non è né necessaria, né tanto meno prevista”, in quanto “il responsabile del procedimento svolge, nei limiti delle proprie competenze professionali, anche le funzioni di progettista e direttore dell’esecuzione del contratto” con la conseguenza che, solo al superamento “della stessa si impone la scissione delle due figure. Dal quadro normativo non si evincono ulteriori fattispecie che legittimino la nomina del direttore dell’esecuzione al di fuori delle ipotesi contemplate”.
L’aspetto, pertanto, sostanziale della questione è quello prospettato ma nulla esclude, qualora si ravvisassero aspetti tecnici e/o di opportunità (si pensi al caso in cui il responsabile del servizio sia al contempo RUP/DEC di diversi servizi/forniture) che rendessero necessario distribuire il carico di lavoro (ed ovviamente nel caso in cui realmente le funzioni siano articolate e la scissione risulti davvero necessaria.
In questo caso ben potrebbe, questo soggetto, individuare (se non proprio un DEC) un responsabile del procedimento con alcuni compiti di quelli riconducibili ai controlli/verifiche sull’esecuzione del contratto.
Naturalmente questo soggetto non potrebbe avere accesso ad incentivi (visto i vincoli sopra sintetizzati) ma potrebbe avere benefici in termini di valutazione sulla performance per i risultati raggiunti (30.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOVerifiche sui requisiti di nomina dei componenti delle commissioni di concorso.
Domanda
Stiamo nominando una commissione di concorso per il nostro comune e i componenti sono tutti esterni all’ente. Dobbiamo compiere delle verifiche particolari sulla situazione dei componenti?
Risposta
La normativa in materia di prevenzione della corruzione ha interessato anche le procedure di formazione delle commissioni di concorso, attraverso l’articolo 1, comma 46, della legge 06.11.2012, n. 190, che ha introdotto l’art. 35-bis, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato “Prevenzione del fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nelle assegnazioni agli uffici”. Analoga disposizione è rinvenibile nell’art. 3, del d.lgs. 39/2013, in materia di inconferibilità ed incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni.
La nuova disposizione, prevede che coloro che sono stati condannati, anche con sentenza NON passata in giudicato, per i reati previsti nel Capo I, del Titolo II del libro secondo del codice penale (articoli da 314 a 335-bis c.p.), tra gli altri divieti, non possono fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per l’accesso o la selezione a pubblici impieghi. Come ben specificato nel comma 2, del citato articolo 35-bis, “la disposizione prevista al comma 1 integra le leggi e regolamenti che disciplinano la formazione di commissioni e la nomina dei relativi segretari”.
Chiarito l’ambito normativo in cui ci si muove, rispondendo al quesito, è necessario che l’ente che ha provveduto alla nomina della commissione, acquisisca, da ciascun componente (presidente + due componenti) e dal segretario, prima dell’insediamento, un’apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione, resa dall’interessato nei termini e alle condizioni dell’art. 46 del DPR n. 445/2000, che attesti l’assenza di condanne, anche non definitive, per i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Ricevuta la dichiarazione, il servizio personale o altro ufficio del comune, dovrà provvedere ad acquisire il certificato penale e quello dei carichi pendenti dei quattro interessati, così da compiere la dovuta verifica sulle dichiarazioni rese. É consigliabile che le dichiarazioni e l’acquisizione dei certificati penali, avvenga prima dell’insediamento della commissione giudicatrice.
Sull’argomento, a completamento informativo, si rinvia alla delibera ANAC n. 447 del 17.04.2019, con la quale l’Autorità ha ritenuto applicabile il principio dell’inconferibilità dell’incarico di componente o di segretario di una commissione di concorso, anche nei casi in cui la sentenza –anche non definitiva– sia stata pronunciata non solo per reato “consumato”, ma anche per “delitto tentato” (29.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIndennità amministratori: vige ancora la riduzione del 10% sull’ammontare in essere alla data del 30/09/2005.
Domanda
L’Amministrazione comunale del mio Ente è stata eletta nello scorso mese di maggio. Ho un dubbio: la riduzione del 10% sull’indennità spettante agli amministratori introdotta alcuni anni fa è ancora vigente?
Risposta
Come noto le indennità spettanti agli amministratori degli enti locali trovano la loro disciplina nell’art. 82 del TUEL. Per la loro quantificazione, che avviene essenzialmente per fascia demografica di appartenenza, vige ancora il decreto ministeriale n. 119 del 04/04/2000, a suo tempo adottato ai sensi dell’art. 23 della legge n. 265/1999.
Il quesito del lettore fa riferimento alla decurtazione del 10% introdotta dall’art. 1, comma 54, della legge 23/12/2005, n. 266, che deve essere applicato all’ammontare dell’indennità risultante alla data del 30/09/2005, a cui devono essere assoggettate sono anche le indennità e i gettoni di presenza spettanti agli amministratori degli enti locali.
Sul tema è poi intervenuto l’art. 76, comma 3, del d.l. 25/06/2008, n. 112 convertito dalla legge 06/08/2008, n. 133 che ha modificato l’art. 82, comma 11, del TUEL (già in precedenza modificato dall’art. 2, comma 25, della legge 24/12/2007, n. 244), eliminando ogni possibilità di incremento delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza rispetto alla misura determinata ai sensi del comma 8 dello stesso articolo, ovvero mediante decreto ministeriale.
L’art. 5, comma 7, del d.l. 31/05/2010, n. 78 convertito dalla legge 30/07/2010, n. 122 ha infine previsto un’ulteriore rideterminazione in ribasso delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza per un periodo non inferiore ai tre anni e in una misura variabile in ragione della dimensione demografiche dell’ente, rinviandone tuttavia l’attuazione ad un decreto ministeriale che a tutt’oggi non ha ancora visto la luce. La norma è pertanto rimasta lettera morta. Sul tema è recentemente intervenuta la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Abruzzo con parere n. 113 del 12 settembre scorso.
I magistrati contabili hanno ribadito l’orientamento giurisprudenziale ormai da tempo consolidato: affermano che essendo stata abolita fin dal 2008 la possibilità per gli enti di modificare autonomamente l’importo delle indennità, le delibere contenenti eventuali riduzioni, superiori a quella fissate dalla legge, vanno intese come rinunce volontarie ad una parte dell’indennità. Come tali, esse non hanno alcuna influenza sull’ammontare delle stesse per gli esercizi successivi (Sezione di controllo per il Piemonte deliberazione n. 278/2012/PAR).
Il principio è stato poi confermato dalla Sezione delle autonomie con parere n. 35/2016/QMIG che afferma che le indennità di funzione non possono essere soggette ad un congelamento rapportato ad un determinato momento storico e mantenuto negli esercizi futuri, solo perché circostanze di natura personale e discrezionale (ad esempio, in caso di riduzione volontaria, parziale o totale, dell’indennità da parte di un amministratore in carica all’atto della sua rideterminazione) abbiano potuto incidere sugli importi spettanti. Gli importi decurtati per scelte volontarie e soggettive non possono costituire una base storica sulla quale rapportare le medesime indennità per il futuro.
Da ciò discende che le indennità che siano state volontariamente ridotte al di sotto della soglia stabilita dalla legge possano essere rideterminate in aumento fino a raggiungere la misura teorica massima legale definita dal DM n. 119/2000 in ragione della dimensione demografica dell’ente. Resta invece pienamente confermato l’abbattimento percentuale previsto dall’art. 1, comma 54, della legge 23/12/2005, n. 266, che continua pertanto ad applicarsi all’ammontare dell’indennità risultante alla data del 30/09/2005 (28.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

TRIBUTIL'ufficio tributi di questo Ente pubblico si trova spesso a ricevere scritti difensivi con richieste di annullamento o rettifica di accertamenti basati sul principio che l'onere della prova dell'esistenza del tributo è a carico dell'Amministrazione. E' realmente così ed in base a quali norme?
In linea di principio le obiezioni formulate dagli interessati fanno riferimento ad un principio immanente nel nostro ordinamento, in base al quale spetta all'Amministrazione dimostrare le ragioni a fondamento della propria pretesa impositiva (tributaria e non). Si tratta dei principi di legalità ricavabili da disposizioni costituzionali (art. 23, 53, 97) e meglio esplicitati in varie disposizioni della L. 27.07.2000, n. 212 "Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente" quali ad esempio:
   - Art. 11, comma 1, "Il contribuente può interpellare l'amministrazione per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete e personali relativamente a: a) l'applicazione delle disposizioni tributarie, quando vi sono condizioni di obiettiva incertezza sulla corretta interpretazione di tali disposizioni e la corretta qualificazione di fattispecie alla luce delle disposizioni tributarie applicabili alle medesime, ove ricorrano condizioni di obiettiva incertezza".
   - Art. 6, comma 2, "L'amministrazione deve informare il contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l'irrogazione di una sanzione, richiedendogli di integrare o correggere gli atti prodotti che impediscono il riconoscimento, seppure parziale, di un credito".
   - Art. 6, comma 4, "Al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso dell'amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente. Tali documenti ed informazioni sono acquisiti ai sensi dell'articolo 18, commi 2 e 3, della legge 07.08.1990, n. 241, relativi ai casi di accertamento d'ufficio di fatti, stati e qualità del soggetto interessato dalla azione amministrativa".
Questi principi e queste disposizioni però non determinano un onere di ricerca degli elementi della fattispecie tributaria talmente onerosi da formare una "prova" dell'esistenza del presupposto, potendo l'amministrazione finanziaria in molti contesti (ma la valutazione va fatta con riferimento alla singola disposizione) operare mediante elementi indiziari gravi, precisi e concordati.
Recentemente ad esempio, in relazione all'applicazione dell'art. 63, comma 3, primo periodo, D.Lgs. n. 446 del 1997 che recita "Il canone è determinato sulla base della tariffa di cui al comma 2, con riferimento alla durata dell'occupazione e può essere maggiorato di eventuali effettivi e comprovati oneri di manutenzione in concreto derivanti dall'occupazione del suolo e del sottosuolo, che non siano, a qualsiasi titolo, già posti a carico delle aziende che eseguono i lavori" il Consiglio di Stato ha ritenuto che "L'onere della prova ricadente sull'amministrazione [...] ben può essere assolto con il ricorso a criteri presuntivi, ferma ovviamente la possibilità, per la parte controinteressata, di dimostrare l'erroneità o l'implausibilità di quanto sostenuto dalla parte pubblica".
Alla luce del quadro esposto, ferma restando la necessità di verificare la singola disposizione impositiva, l'amministrazione potrà assolvere al proprio onere probatorio anche mediante indizi ed in tal senso rimettere al contribuente la dimostrazione di eventuali esclusioni, esimenti o altri elementi che, nel caso concreto, dimostrino l'infondatezza della pretesa tributaria.
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Riferimenti normativi e contrattuali
Art. 23 Cost. - Art. 53 Cost. - Art. 97 Cost. - L. 07.08.1990, n. 241, art. 1 - L. 27.07.2000, n. 212 - L. 01.08.2002, n. 166, art. 10
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. V, 11.10.2018, n. 5862
(23.10.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTIImposta di bollo nello scambio di lettera commerciale.
Domanda
Da qualche mese ho assunto la responsabilità di un piccolo ufficio gare che svolge per conto dell’ente prevalentemente procedure sulla piattaforma Mepa, nelle diverse forme dell’ODA, Trattativa Diretta e RDO. La prassi in precedenza era di richiedere la marca da bollo solo nel caso di RDO, ma non per gli acquisti formalizzati medianti Ordine Diretto di Acquisto piuttosto che Trattativa Diretta.
E’ corretto continuare con questa modalità in ordine all’assolvimento dell’Imposta di bollo?
Risposta
La prassi dell’ufficio gare poteva ritenersi corretta, almeno limitatamente alle trattative dirette o Richieste di offerta infra 40.000 euro sino al 10.09.2019, qualora la stazione appaltante si fosse rifatta alle regole di sistema di e-procurement della pubblica amministrazione, ed in particolare all’art. 53 rubricato “La conclusione del contratto” che consentiva, e consente, ad ogni Soggetto Aggiudicatore, in alternativa al documento informatico di stipula generato dal sistema, di adottare ulteriori forme negoziali tra quelle previste e disciplinate dall’art. 32, comma 14, del Codice dei Contratti, ed in particolare lo scambio di lettera commerciale. Tipologia contrattuale che ai sensi degli artt. 24 e 25 della tariffa parte II del D.P.R. 642/1972, secondo l’opinione comune di questi ultimi anni non richiedeva l’imposta di bollo.
Su quest’ultimo punto tuttavia l’Agenzia delle Entrate, in risposta ad un quesito sull’imposta di bollo sui contratti stipulati attraverso la piattaforma “Consip-Mepa acquistiinretepa”, con il parere n. 370 si è espressa in modo differente con riferimento ai rapporti negoziali instaurati sotto forma di corrispondenza.
L’Ente dapprima richiama l’art. 2, parte prima, allegata al DPR n. 642 del 1972 che prevede l’applicazione dell’imposta di bollo fin dall’origine per “le scritture private contenenti convenzioni o dichiarazioni anche unilaterali con le quali si creano, modificano, si estinguono, si accertano o si documentano rapporti giuridici di ogni specie”, nonché l’art. 24 della stessa tariffa che dispone l’applicazione dell’imposta di bollo in caso d’uso per gli “Atti e documenti di cui all’art. 2 sotto forma di corrispondenza”, per poi soffermarsi sulla nota a margine di quest’ultimo articolo che stabilisce che “l’imposta è dovuta sin dall’origine se per gli atti e documenti è richiesta dal codice civile a pena di nullità la forma scritta”.
Giunge quindi alla conclusione che “detta norma va intesa nel senso che non è sufficiente che un atto o un documento sia redatto sotto forma di corrispondenza, per essere sottoposto al pagamento dell’imposta di bollo solo in caso d’uso ai sensi dell’art. 24 della tariffa, poiché, qualora ci si trovi in presenza di atti, quali quelli individuati dalla nota a margine dell’articolo in commento, l’imposta in argomento è dovuta sin dall’origine”.
Ovviamente nessun dubbio sul fatto che i contratti d’appalto o di concessione sottoscritti dai una pubblica amministrazione richiedono la forma scritta (ad substantiam).
Con riferimento al quesito in premessa rileva inoltra quanto riportato già nel 2013 con la risoluzione 96/E del 16 dicembre, richiamata nel sopra citato parere, che fornisce chiarimenti sull’imposta di bollo nel Mercato elettronico, definendo il "documento di stipula, benché firmato digitalmente solo dall’amministrazione, quale elemento sufficiente ad instaurare un rapporto contrattuale. Il contratto tra la pubblica amministrazione ed un fornitore abilitato è dunque stipulato per scrittura privata e lo scambio di documenti digitali tra i due soggetti concretizza una particolare procedura prevista per la stipula di detta scrittura privata”.
Pertanto tutti i contratti informatici derivanti dai diversi strumenti del Mepa, quali ODA, Trattative Dirette e Richieste di Offerta sono soggette all’imposta di bollo nella misura di € 16,00 per ogni foglio (ovvero 4 facciate) (23.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - ATTI AMMINISTRATIVILa nomina della figura del responsabile per la transizione al digitale.
Domanda
Nel nostro comune deve ancora essere nominato il Responsabile per la Transizione al Digitale. Chi deve emanare l’atto di nomina e quali altri adempimenti è necessario predisporre?
Risposta
L’articolo 17, comma 1, del Codice dell’Amministrazione Digitale (decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, in seguito CAD) prevede che ogni pubblica amministrazione –e tutti i soggetti previsti dallo stesso Codice– siano tenuti ad affidare ad un unico ufficio dirigenziale le funzioni di indirizzo, coordinamento e gestione della trasformazione digitale, così come configurata dalla normativa, attraverso la nomina di un Responsabile per la Transizione al Digitale (da ora RTD).
L’obbligo di nominare questa figura risale al 14.09.2016, da quando cioè il decreto legislativo n. 179/2016, ha novellato la versione del CAD in tal senso.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha poi recentemente sollecitato in tal senso le amministrazioni con la Circolare n. 3 del 01.10.2019, recante “Responsabile per la transizione digitale – art. 17 decreto legislativo 07.03.2005, n. 82 “Codice dell’amministrazione digitale”.
Oltre a stabilire che il RTD debba essere dotato di “adeguate competenze tecnologiche, di informatica giuridica e manageriali”, la versione novellata dell’art 17, stabilisce che nello svolgimento dei compiti relativi alla transizione, questo risponde direttamente all’organo di vertice politico, o in assenza di quest’ultimo, al vertice amministrativo dell’ente.
Ciò implica che, nel caso di un comune, il RTD sia nominato dalla Giunta nell’ambito del proprio potere di organizzazione (ex art. 48, comma 3, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e sia sovraordinato, nelle sue attività, alle altre figure apicali, compreso il Segretario Generale. Il RTD non potrà mai essere esterno all’amministrazione (incarico di consulenza).
L’importanza strategica di questa figura era già stata ribadita dal Piano Triennale per l’informatica nella Pubblica amministrazione – il documento di indirizzo strategico ed economico di riferimento per le amministrazioni per lo sviluppo dei propri sistemi informativi – che aveva identificato il RTD come “il principale interlocutore di AgID (Agenzia per l’Italia Digitale) per il monitoraggio e il coordinamento delle attività di trasformazione digitale”.
Per quanto riguarda gli altri adempimenti necessari collegati alla nomina, lo stesso Piano Triennale ha disposto che le amministrazioni devono registrare i dati del RTD nell’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (IPA – www.indicepa.gov.it).
A questo scopo, dal 01.12.2017 è stato predisposto in IPA –nell’ambito dell’anagrafica di ogni ente– il campo dedicato all’Ufficio per la Transizione Digitale, configurando così la prima fonte attraverso cui rilevare lo stato di attuazione dell’art 17 del CAD.
La mancata pubblicazione su IPA non significa automaticamente che il Responsabile non sia stato nominato. Tuttavia, alla luce del combinato disposto di CAD e Piano Triennale, la pubblicazione dei riferimenti del RTD su IPA è da intendersi come parte integrante dell’obbligo.
A completamento informativo del presente quesito, si allega testo della proposta di deliberazione di Giunta, relativa all’individuazione e nomina del RTD.
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Modello deliberazione giunta nomina figura responsabile transizione digitale (22.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALIIl revisore dei conti non può essere revocato per aver dato parere contrario su una proposta di deliberazione.
Domanda
Sono al mio primo incarico di revisore unico presso un comune di 3500 abitanti circa.
L’eventuale espressione di un parere contrario ai sensi dell’art. 239 del TUEL su una proposta di deliberazione consiliare può comportare la mia revoca da parte dell’Amministrazione dell’ente?
Risposta
Sul tema posto dal lettore è intervenuto nei mesi scorsi il Tar di Brescia che ha emesso una sentenza molto interessante.
Vediamo il caso: il revisore unico dei conti di un comune aveva formulato un parere contrario sulla proposta di deliberazione consiliare di approvazione del bilancio di previsione. A fronte di ciò il sindaco dell’ente chiedeva al revisore di collaborare con gli uffici comunali ai sensi dell’art. 239, comma 1, del TUEL per includere nella proposta di deliberazione tutte le modifiche necessarie, in modo da pervenire ad un parere favorevole, o quanto meno condizionato, da parte del revisore dei conti.
Questi confermava invece il proprio parere contrario. Il consiglio comunale procedeva all’approvazione del bilancio di previsione pur in presenza di detto parere sfavorevole. A fronte di ciò poi, il revisore veniva revocato dal proprio incarico con successiva deliberazione consiliare.
Ciò in quanto, per effetto del parere contrario reso, era venuta meno –così motiva la delibera– il necessario rapporto di fiducia con l’Amministrazione dell’ente. Il revisore impugnava la delibera innanzi al Tar competente per territorio con due ordini di motivazioni: a) l’atto consiliare violava l’art. 235, comma 2, del TUEL, il quale non prevede la perdita della fiducia tra le cause di revoca dell’incarico, ma soltanto l’inadempimento ai doveri d’ufficio; b) il difetto di motivazione, in quanto l’atto dava una visione solo parziale dell’impegno del ricorrente nell’assistenza resa agli uffici comunali. Chiedeva poi l’annullamento della deliberazione, nonché il risarcimento del danno materiale e di immagine subiti.
L’articolo del TUEL richiamato prevede –lo ricordiamo– che il revisore possa essere revocato solo per inadempienza e, in particolare, per la mancata presentazione della relazione alla proposta di deliberazione consiliare del rendiconto entro il termine previsto dall’articolo 239, comma 1, lettera d), del medesimo TUEL.
Nel caso in esame il parere in oggetto era stato puntualmente reso, sebbene esso fosse contrario e, come tale, non in linea con le aspettative dell’ente. Nell’atteggiamento del ricorrente non è quindi ravvisabile alcun inadempimento ai propri doveri. Mancava infatti il presupposto che potesse giustificare la revoca dell’incarico per la cessazione del rapporto di fiducia, ovvero l’omessa presentazione del parere.
In ambito amministrativo, prosegue il Tar, non rileva la fiducia soggettiva tra le persone, che deve invece essere intesa in senso oggettivo, come coerenza tra la funzione rivestita e le azioni poste in essere sulla base di tale funzione. Al contrario il riferimento all’inadempienza dei propri compiti contenuti nell’art. 235, comma 2, del TUEL va inteso nel senso che la fiducia viene meno solo se una parte (il revisore dei conti) non adempie agli obblighi che la legge prevede per il proprio ufficio. E’ evidentemente impossibile, afferma il TAR, continuare una collaborazione se una delle parti non interpreta lealmente il proprio ruolo.
Ricordiamo che i pareri dell’organo di revisione presentano il carattere dell’obbligatorietà nei casi elencati dall’art. 239 del TUEL. Pur trattandosi di pareri obbligatori, essi non sono vincolanti: l’ente può sempre deliberare anche in presenza di un parere contrario, a condizione che fornisca nell’atto deliberativo adeguata motivazione alla propria scelta decisionale.
Il giudice amministrativo, pertanto, accoglieva il ricorso, annullava la revoca dell’incarico e accertava la correttezza dell’operato del revisore. Tuttavia, essendosi ormai consumata l’originaria durata triennale dell’incarico, l’annullamento non ha avuto conseguenze sull’incarico conferito al nuovo revisore, che rimaneva così in carica per effetto della nomina intervenuta subito dopo la revoca del ricorrente (21.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - VARISpettacolo all’interno di luoghi sacri.
Domanda
Una associazione vuole organizzare uno spettacolo di danza all’interno di una chiesa. Chiediamo se tale attività necessiti di una licenza ex art. 68 TULPS (ora SCIA).
Risposta
Lo svolgimento di spettacoli, trattenimenti o intrattenimenti, in luoghi “chiusi”, ovvero all’interno di locali deve essere oggetto di verifiche dell’idoneità degli stessi in ordine alla sicurezza dei luoghi e delle diverse attrezzature utilizzate.
Scopo dell’art. 80 del TULPS, Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (R.D. 18.06.1931, n. 773), è quello di garantire la sicurezza strutturale dei locali; l’autorità pubblica concede la licenza per uno spettacolo previa verifica della “solidità e sicurezza dell’edificio e l’esistenza di uscite pienamente adatte a sgombrarlo prontamente in caso di incendio”.
Questo è il principio su cui poggia ogni successiva valutazione: i luoghi devono essere strutturalmente sicuri per contenere gli spettatori.
Il DPR 311/2001 stabilisce che per i locali fino a 200 posti, le verifiche e gli accertamenti dell’autorità di p.s., ovvero della C.C.V.L.P.S. (Commissione Comunale Vigilanza Locali Pubblico Spettacolo) di cui l’art. 141 del Reg. TULPS, sono sostituiti da una relazione tecnica di un professionista iscritto all’albo/ordine degli ingegneri, o dei geometri o architetti o periti industriali, che attesta la rispondenza del locale o dell’impianto alle regole tecniche di cui allo stesso art. 141 citato.
I dubbi che possono nascere sono relativi al fatto che lo spettacolo non ha natura imprenditoriale e che pertanto non è richiesta la licenza ex art. 68 TULPS (ovvero il rilascio di SCIA).
Si ritiene che, a prescindere da tale passaggio formale, la sicurezza delle persone che assistono allo spettacolo deve comunque essere garantita, anche all’interno di un luogo di culto.
Pertanto il consiglio che forniamo agli operatori è quello di acquisire quantomeno la relazione tecnica del professionista incaricato, comprendente la dichiarazione di contenere il numero degli spettatori entro le 200 presenze.
Ulteriore consiglio: se il luogo di culto interessato ha una capienza che supera di gran lunga i 200 posti a sedere, sarebbe certamente più sicuro non accontentarsi della dichiarazione, optando per le verifiche e gli accertamenti della C.C.V.L.P.S.
Altra questione è la safety, ossia la sicurezza dell’evento intesa quale gestione del flusso e capienza massima, piano di emergenza ed evacuazione, impiego di operatori addetti alla sicurezza (cd. steward), assistenza sanitaria: l’organizzatore in tal senso dovrà presentare un adeguato e proporzionato piano, che necessariamente non può essere disgiunto da eventuali prescrizioni di security assicurate dalle forze di polizia (18.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOUtilizzo graduatorie.
Domanda
La Corte dei Conti Sardegna e, recentemente, quella delle Marche sono intervenute in materia di graduatorie. Potete fare la sintesi di quanto affermato?
Risposta
Il parere 06.09.2019 n. 41 della Sezione regionale delle Marche della Corte dei Conti è intervenuto in maniera precisa e attenta alla questione dell’utilizzo delle graduatorie dopo le novità contenute nei commi 360 e seguenti della legge 145/2018. Queste, sono state in sintesi le conclusioni dei magistrati contabili, che peraltro si condividono:
   • le graduatorie di concorsi banditi dopo il 01.01.2019 si possono utilizzare solo per i posti messi a concorso; queste graduatorie non possono essere utilizzate da altri enti;
   • le graduatorie dal 2010 al 2018 (comprese quelle di concorsi banditi entro il 31.12.2018) si possono ancora utilizzare per lo scorrimento degli idonei e possono ancora essere utilizzate da altri enti;
   • rimane valido l’art. 91, comma 4, del d.lgs. 267/2000 che prevede l’impossibilità di scorrere una graduatoria per posti creati o trasformati dopo la stessa;
   • tutte le graduatorie (sia del 2019 che quelle degli anni precedenti) si possono ancora utilizzare per assumere a tempo determinato, in quanto l’art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001 è ancora vigente, non è stato abrogato né modificato (17.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Servizi pubblici e al cittadino.
La scrivente società privata svolge attività in concessione di un servizio pubblico. In quanto tale è soggetta all'accesso civico anche generalizzato e all'accesso agli atti e deve verificare un interesse particolare nel richiedente o ne è esclusa?
Relativamente al quesito circa l'applicazione della disciplina sull'accesso civico ordinario e generalizzato (art. 5, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33) e relativi obblighi di pubblicazione la risposta dipende dalla presenza o meno delle caratteristiche descritte dall'art. 2-bis, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 in base al quale la disciplina del decreto, compreso l'accesso, si applica non solo alle pubbliche amministrazioni in senso stretto, ma anche:
   a) agli enti pubblici economici e agli ordini professionali;
   b) alle società in controllo pubblico come definite dall'art. 2, comma 1, lett. m), D.Lgs. 19.08.2016, n. 175. Sono escluse le società quotate come definite dall'art. 2, comma 1, lett. p), dello stesso decreto legislativo, nonché le società da esse partecipate, salvo che queste ultime siano, non per il tramite di società quotate, controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche;
   c) alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato comunque denominati, anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi nell'ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e in cui la totalità dei titolari o dei componenti dell'organo d'amministrazione o di indirizzo sia designata da pubbliche amministrazioni.
In tale circostanza si ricorda che (art. 5, comma 3, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33) "L'esercizio del diritto [...] non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente. L'istanza di accesso civico identifica i dati, le informazioni o i documenti richiesti e non richiede motivazione. L'istanza può essere trasmessa per via telematica".
Se non si ricade in una di tali fattispecie non si è soggetti a tale disciplina mentre si rimane soggetti, in quanto "gestori di pubblici servizi" alla disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi (L. 07.08.1990, n. 241).
In questo caso tuttavia l'istanza di accesso deve provenire da soggetto qualificato che possa dimostrare un interesse diretto, concreto ed attuale al documento e che motivi la sua richiesta.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 07.08.1990, n. 241, artt. 22 e ss. - D.P.R. 12.04.2006, n. 184 - D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 5
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 02.10.2019, n. 6603 - Cons. Stato Sez. V, 22.08.2019, n. 5781
(16.10.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTIAccesso civico generalizzato e atti dell’appalto.
Domanda
Questa amministrazione, in relazione a diversi appalti e contratti già conclusi, ha ricevuto numerose richieste di accesso civico generalizzato da parte di operatori economici che non sono risultati aggiudicatari degli stessi.
Alcune tendenti ad ottenere atti relativi alla fase dell’esecuzione del contratto.
In certi casi non viene esplicitata alcuna motivazione, in altri la motivazione è quella di “effettuare un controllo sulla corretta esecuzione degli appalti”.
È possibile avere un chiarimento su come i RUP si debbano comportare ovvero se riscontrare positivamente o meno queste richieste?
Risposta
La questione dei rapporti tra accesso civico generalizzato (ovvero della possibilità di ottenere dati/atti deternuti dalla pubblica amministrazione senza alcuna motivazione specifica, considerato che lo scopo del FOIA è quello di alimentare un controllo sociale sull’attività della pubblica amministrazione e sulle modalità di spendita delle risorse pubbliche) è stata oggetto, effettivamente, di diverse interpretazioni. Ed ora, oggettivamente, risulta definitivamente risolto.
In particolare, in breve tempo, lo stesso Consiglio di Stato, con due diverse sentenze (sez. III, n. 3780/2019 e sez. V, n. 5503/2019) si è espresso in modo differente.
Con la prima delle sentenze citata, il giudice di Palazzo Spada ha ritenuto che la materia degli appalti deve ritenersi soggetta all’accesso civico generalizzato e l’incertezza interpretativa sarebbe determinata da una non chiara tecnica legislativa.
Di diverso approdo la più recente delle due sentenze che disconosce l’applicabilità dell’accesso civico generalizzato ai “casi” per i quali esiste già una disciplina specifica. È questo il caso dell’accesso agli atti dell’appalto che trovano una compiuta disciplina (e connessi limiti) nell’articolo 53 del codice dei contratti che, come noto, rinvia poi al quadro generale come delineato dall’articolo 22 della legge 241/1990.
La soluzione, e pertanto la risposta, che deve essere preferita da parte del RUP è proprio quella contenuta nell’ultima delle sentenze citate da cui emerge che gli atti di gara (compresa gli atti relativi alla fase esecutiva e quindi della gestione del contratto) non sono soggetti all’accesso civico generalizzato.
In sostanza, l’accesso agli atti in parola (ed in particolare quelli afferenti la fase pubblicistica, ad esempio delle offerte dell’aggiudicatario) soggiace ai limiti di cui all’articolo 53 del codice che esige, come anche l’accesso documentale generale, una precisa posizione giuridica da tutelare.
Secondo il giudice una soluzione diversa deve passare per via legislativa.
Pertanto, in relazione al quesito posto (e nei termini in cui è stato espresso) il riscontro alle istanze presentate, se fondate sull’articolo 5 della decreto legislativo 33/2013 come modificato dal decreto legislativo 97/2016, deve essere di segno negativo (16.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALIPubblicazione dati sul bilancio comunale.
Domanda
Da pochi mesi sono stato nominato responsabile del settore contabile del mio comune. Vorrei conoscere gli obblighi di pubblicità e trasparenza in materia di bilanci e relative scadenze.
Risposta
Il riferimento normativo, per poter rispondere al quesito, va ricercato nell’articolo 29, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, meglio noto come “decreto trasparenza”. L’articolo in questione è rubricato: Obblighi di pubblicazione del bilancio, preventivo e consuntivo, e del Piano degli indicatori e risultati attesi di bilancio, nonché dei dati concernenti il monitoraggio degli obiettivi. L’articolo 29, dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. 97/2016, si compone di tre commi e prevede che le pubbliche amministrazioni (tra cui anche i comuni) pubblichino il bilancio di previsione e consuntivo, completo di allegati, entro trenta giorni dalla sua adozione.
Il primo comma, del citato articolo 29, al fine di assicurare la piena accessibilità e comprensibilità anche da parte dei meno esperti alla lettura delle informazioni di bilancio, richiede alle stesse amministrazioni di pubblicare, in aggiunta, i dati relativi al bilancio di previsione e a quello consuntivo in forma sintetica, aggregata e semplificata, anche con il ricorso a rappresentazioni grafiche.
Al medesimo scopo è orientata la disposizione contenuta al comma 1-bis, che richiede alle amministrazioni, di pubblicare e rendere accessibili i dati relativi alle entrate e alla spesa dei bilanci preventivi e consuntivi in formato tabellare aperto, in modo da consentirne l’esportazione, il trattamento e il riutilizzo.
Sul punto, oltre a richiamare l’attenzione sul corretto adempimento dell’obbligo, si fa presente che ai fini della predisposizione dei relativi schemi occorre riferirsi al d.p.c.m. 22.09.2014 «Definizione degli schemi e delle modalità per la pubblicazione su internet dei dati relativi alle entrate e alla spesa dei bilanci preventivi e consuntivi e dell’indicatore annuale di tempestività dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni», aggiornato con il decreto del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, del 29.04.2016 «Modifica del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 22.09.2014, in materia di definizione degli schemi e delle modalità per la pubblicazione su Internet dei dati relativi alle entrate e alla spesa dei bilanci preventivi e consuntivi».
Strettamente connesso, e in qualche modo complementare, alla pubblicazione integrale e semplificata dei documenti di bilancio, nonché dei dati relativi alle entrate e alla spesa, risulta essere l’obbligo di pubblicazione del piano di indicatori di cui al comma 2, con cui si fornisce ai cittadini la possibilità di esercitare anche un controllo sugli obiettivi della pubblica amministrazione.
Occorre, inoltre, evidenziare che il d.lgs. 126/2014, fra le diverse modifiche apportate al d.lgs. 118/2011 («Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 05.05.2009, n. 42»), ha introdotto l’art. 18-bis («Indicatori di bilancio») che, di fatto, estende anche agli enti locali l’obbligo di pubblicazione del Piano degli indicatori.
Si tratta, in sostanza, di un sistema di indicatori misurabili e riferiti ai programmi, quale parte integrante dei documenti di programmazione e di bilancio di ciascuna amministrazione ed è diretto a consentire la comparazione dei bilanci.
Richiamate, in estrema sintesi, la valenza informativa dei dati di bilancio e di quelli contenuti nel Piano degli indicatori, emerge, pertanto, l’importanza del corretto assolvimento ai predetti obblighi di pubblicazione, in quanto diretti a fornire ai cittadini una lettura facile ed immediata riguardo all’azione degli amministratori in termini di obiettivi, risultati e risorse impiegate.
Riguardo alle tempistiche sopra ricordate –30 giorni dall’approvazione del bilancio o del conto consuntivo– a completamento informativo, si fa presente che gli obblighi dell’articolo 29, non risultano sanzionati, dall’art. 47 del decreto trasparenza (sanzioni pecuniarie da 500 a 10.000 euro) per cui, in caso di inadempienza, i cittadini potranno richiedere la pubblicazione dei dati mancanti o incompleti, al responsabile della trasparenza (di norma, il segretario comunale), attraverso l’istituto dell’accesso civico semplice, come disciplinato dall’art. 5, comma 1, del d.lgs. 33/2013.
Per acquisire maggiore contezza sui contenuti dell’obbligo, infine, si consiglia di consultare l’allegato 1, della deliberazione ANAC n. 1310 del 28.12.2016 (15.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEA seguito dell’approvazione di un regolamento post aggiudicazione di una gara, durante le verifiche al fine di erogare i pagamenti è sorta una questione: in materia di appalti di servizi nei quali il Rup e il Direttore di esecuzione coincidono, il 40% destinato al Direttore dell’esecuzione e ai suoi collaboratori si deve erogare? Oppure è un’economia e si liquida solo il 60% al Rup e suoi collaboratori?
Nella materia dei compensi, gli incentivi rappresentano un argomento spinoso perché la disciplina che si è succeduta nel tempo ha comportato l’applicazione di una diversa normativa a seconda del momento in cui è stata pubblicata la gara.
Occorre infatti distinguere:
   • gare bandite prima del 18.04.2016: si applica il Dlgs. n. 163/2006;
   • gare bandite tra il 20.04.2016 e il 19.05.2017: si applica il Dlgs. n. 50/2016 “versione 1.0”;
   • gare bandite tra il 20.05.2017 e il 18.04.2019: si applica il Dlgs. n. 50/2016 “versione 2.0” (a seguito del Decreto “Correttivo” Dlgs. n. 56/2017);
   • gare bandite tra il 19.04.2019 e il 17.06.2019: si applica il Dlgs. n. 50/2016 “versione 3.0” (a seguito del Decreto “Sblocca cantieri” Dl. n. 32/2019);
   • gare bandite dopo il 18.06.2019: si applica il Dlgs. n. 50/2016 “versione 4.0” (a seguito della conversione del Decreto “Sblocca cantieri” effettuata con Legge n. 55/2019).
Per quanto riguarda gli appalti di servizi, occorre premettere che, ai sensi dell’art. 112, comma 2, del Dlgs. n. 50/2016 (nella versione introdotta a seguito del “Correttivo” Dlgs. n. 56/2017) è possibile erogare gli incentivi solo nel caso in cui sia nominato il Direttore dell’esecuzione del contratto (Dec).
In proposito, le Linee-guida Anac n. 3, approvate con Delibera n. 1096/2016 e successivamente aggiornate con Delibera n. 1007/2017, hanno precisato che negli appalti di servizi e forniture il Rup, nei limiti delle proprie competenze professionali, svolge anche il ruolo di Dec mentre l’obbligo della nomina del Dec come soggetto diverso dal Rup ricorre nei seguenti casi:
   1. prestazioni di importo superiore ad Euro 500.000;
   2. interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico;
   3. prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione, vigilanza, sociosanitario, supporto informatico);
   4. interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità;
   5. per ragioni concernenti l’organizzazione interna alla Stazione appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento.
La Corte dei conti (Sezione Veneto, parere 21.05.2019 n. 107) ha affermato che per quegli appalti di servizi per i quali non sussiste l’obbligo di nomina del Dec come soggetto diverso dal Rup non sussistono le condizioni per il riconoscimento degli incentivi per funzioni tecniche. Anche qualora, per esigenze organizzative, l’Amministrazione decidesse di nominare comunque un Direttore dell’esecuzione come soggetto diverso dal Rup –in un appalto non riconducibile ad alcuna delle tipologie sopra indicate– non sarebbe comunque possibile riconoscere gli incentivi in esame.
Quanto sopra se la gara alla quale si riferiscono le attività incentivabili è stata bandita tra il 20.05.2017 e il 18.04.2019, quindi dopo le modifiche apportate al “Codice dei Contratti pubblici” dal “Correttivo” Dlgs. n. 56/2017.
Se la gara è stata bandita nel periodo precedente, la coincidenza di Dec e Rup è astrattamente incentivabile.
In ogni caso, occorre fare riferimento al Regolamento interno, che dovrebbe aver disciplinato le ipotesi di coincidenza di funzioni, prevedendo –ad esempio– nei casi in cui sullo stesso soggetto vengano a confluire più funzioni separatamente considerate, la somma delle relative percentuali di incentivo, magari con un abbattimento percentuale su quella più bassa.
Quindi ricapitolando:
   • per gare bandite tra il 20.05.2017 e il 18.04.2019, il Dec può essere nominato solo al ricorrere di precise ipotesi indicate dalle Linee-guida Anac n. 3. In assenza di tali presupposti, la funzione di Dec non è incentivabile, anche se nominata dall’Ente per proprie esigenze organizzative;
   • per gare bandite tra il 20.04.2016 e il 19.05.2017, le funzioni di Dec –se espressamente nominato– possono venir incentivate nei limiti e con le percentuali previste nel Regolamento interno;
   • nelle ipotesi in cui il Rup coincida con il Dec (perché non ricorrono le condizioni delle Linee-guida n. 3 oppure perché il Dec non è stato espressamente nominato), non sono previsti gli incentivi. In tal caso quindi non si tratta di “economia” perché gli incentivi non sono previsti a monte dell’attività (11.10.2019 - tratto da e link a www.entilocali-online.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Principio onnicomprensività.
Domanda
Potreste spiegare il principio dell’onnicomprensività della retribuzione accessoria di un dipendente pubblico?
Risposta
Ogni compenso accessorio che può essere retribuito a un dipendente pubblico deve necessariamente transitare dal fondo delle risorse decentrate che è alimentabile solo con le risorse previste dalla contrattazione nazionale.
Quanto sopra è una conseguenza del cosiddetto principio dell’onnicomprensività della retribuzione del dipendente pubblico statuito dall’art. 2, comma 3, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165.
Su tale aspetto la giurisprudenza si è soffermata più volte.
Il Consiglio di Stato, V sezione, con la sentenza n. 463/2009, pronunciata in materia di compensi ai messi notificatori, ha avuto modo di precisare che tali somme aggiuntive possono essere rese disponibili solamente dopo l’approvazione del C.C.N.L. 14/09/2000, allorquando tale possibilità è stata appunto prevista in un contratto nazionale. Diversamente nessun compenso può essere erogato ai dipendenti pubblici.
L’art. 45 del D.Lgs 30.03.2001, n. 165 prevede che il trattamento economico fondamentale ed accessorio dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, fatto salvo quanto previsto all’articolo 40, commi 3-ter e 3-quater, e all’articolo 47-bis, comma 1, sia definito dai contratti collettivi.
L’art. 40, comma 3-quinquies del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 afferma altresì che le regioni, per quanto concerne le proprie amministrazioni, e gli enti locali possono destinare risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa nei limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale e nei limiti dei parametri di virtuosità fissati per la spesa di personale dalle vigenti disposizioni, in ogni caso nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica e di analoghi strumenti del contenimento della spesa.
Per quanto concerne specificamente il comparto Funzioni Locali il contratto collettivo nazionale del 21/05/2018, riprendendo quanto già operato in passato con l’art. 31, comma 2, del CCNL 22/01/2004, ha introdotto, con l’art. 67, comma 1, un nuovo consolidamento delle risorse di parte stabile, definendo come importo unico consolidato, le risorse di parte stabile destinate nell’anno 2017, come certificate dall’organo di revisione.
Il predetto importo unico consolidato resta confermato, con le stesse caratteristiche, anche per gli anni successivi.
Nel proseguo del sopra richiamato art. 67 sono elencate, ai commi 2 e 3, le voci di parte stabile che consentono di incrementare stabilmente l’importo unico consolidato anno 2017 e le voci di parte variabile che consentono di alimentare i fondi della contrattazione decentrata integrativa con importi variabili di anno in anno, comprese quelle “risorse” specificamente individuate dalla legge (art. 67, comma 3, lett. C).
Il comma 8 introduce una “nuova” possibilità di alimentazione dei fondi di parte variabile per i fondi delle Regioni a statuto ordinario e per le città metropolitane, ai sensi dell’art. 23, comma 4, del D.Lgs. n. 75/2017 (10.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: RDO Aperta su Mepa e la trasparenza.
Domanda
La procedura su Mepa nella forma della RDO APERTA, per come costruita in piattaforma, soddisfa di per sé tutti gli obblighi di trasparenza, oppure è necessario che al lancio della procedura seguano altre forme di pubblicità?
Risposta
La Richiesta di Offerta (RDO) è quello strumento di negoziazione presente sul Mepa di Consip attraverso il quale una stazione appaltante seleziona, al termine di una procedura interamente telematica e secondo modalità ben definite, il fornitore aggiudicatario di una specifica prestazione. Alle RDO su Mepa possono partecipare solo gli operatori abilitati al Mercato Elettronico, ed in particolare a quello specifico bando collegato alla categoria merceologica di riferimento. Infatti, in base alla tipologia di attivata effettuata, l’operatore esprimerà in sede di abilitazione, la propria preferenza alla/e categoria/e o sottocategoria/e merceologica/che di interesse.
La RDO può essere di due forme, ad “invito”, dove l’Amministrazione seleziona gli operatori con cui negoziare, oppure “Aperta”, ovvero quel tipo di procedura a cui possono partecipare tutti i fornitori abilitati allo specifico bando collegato alla categoria merceologica, nonché coloro che entro i termini di scadenza previsti per la presentazione dell’offerta ottengono l’abilitazione. Quest’ultima rappresenta sicuramente quel tipo di procedura che le linee guida n. 4, definiscono aperta al mercato, dove non si opera alcuna limitazione in ordine al numero degli operatori da selezionare, e rispetto alla quale non si applica il c.d. “principio di rotazione”.
A livello informatico gli operatori prendono conoscenza della procedura, nel primo caso, entrando in piattaforma lato fornitore, nello spazio dedicato alle gare ad invito diretto (diversamente da quanto previsto per la Trattativa Diretta e per l’Ordine Diretto di Acquisto, per le RDO non è attivo alcun sistema di comunicazione a mezzo mail). Nel caso delle RDO aperte, invece, la ricerca è possibile sia nel cruscotto del fornitore, che nella funzione di ricerca bandi (in VENDI – RDO Aperte) dove recentemente è stata introdotta la possibilità di individuare una negoziazione digitando il numero generato automaticamente dal sistema al momento della creazione della gara.
Con riferimento al quesito si precisa che la pubblicazione sul portale di Consip non esaurisce gli adempimenti previsti dalla vigente normativa. Al fine di assicurare la pubblicità e la trasparenza delle procedure di gara come previsto dalle disposizioni codicistiche e dai provvedimenti attuativi, nel caso di RDO Aperta il “Riepilogo RDO” generato direttamente dal Portale Informatico deve essere pubblicato:
   – sul Profilo Committente dell’Amministrazione aggiudicatrice, sezione Amministrazione Trasparente, sotto-sezione Bandi e contratti di gara;
   – sul sito del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti anche tramite i sistemi informatizzati regionali e le piattaforme regionali e-procurement.
L’art. 29, co. 1 e 2, del codice dei contratti prevede infatti che “tutti gli atti relativi alle procedure per l’affidamento di appalti pubblici di servizi, forniture e lavori, di concorsi pubblici di progettazione, di concorsi di idee e di concessioni, devono essere pubblicati e aggiornati sul profilo del committente e pubblicati, altresì, sul sito del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e sulla piattaforma digitale istituita presso l’ANAC, anche tramite i sistemi informatizzati regionali e le piattaforme regionali di e-procurement interconnesse tramite cooperazione applicativa" (09.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Questa Prefettura chiede se ai fini dell'informativa antimafia è possibile valutare anche ulteriori elementi rispetto a quelli espressamente contemplati dall'art. 84 del Codice delle leggi antimafia.
Il Codice delle leggi antimafia (D.Lgs. 06.09.2011, n. 159) all'art. 84 definisce "informazione antimafia" "l'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 91, comma 6, nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4. Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all'adozione dell'informazione antimafia interdittiva di cui al comma 3 sono desunte: ..." e sono elencati una serie di atti e provvedimenti da cui desumere tali circostanze.
Nonostante l'elencazione espressa, per la giurisprudenza, l'adozione di un'informativa antimafia non richiede una prova che vada al di là di ogni ragionevole dubbio ma la sussistenza di elementi effettivamente riscontrati, valutati nel loro complesso e non atomisticamente, che forniscano un quadro d'insieme in base al quale non sia illogico formulare un giudizio prognostico negativo.
Ne deriva che l'autorità prefettizia, al fine di valutare il pericolo di infiltrazione della criminalità organizzata, può prendere in considerazione anche le pronunce dichiarative della prescrizione aventi ad oggetto reati rientranti nella normativa di cui all'art. 84, comma 4, D.Lgs. 06.09.2011, n. 159. Infatti la finalità dell'interdittiva antimafia è quella di salvaguardare l'ordine pubblico economico, la libera concorrenza tra le imprese ed il buon andamento della pubblica amministrazione e tale finalità prevale anche in ottica interpretativa rispetto alle specifiche casistiche indicate dal legislatore.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 06.09.2011, n. 159, art. 84
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. III, 25.07.2019, n. 5261 - Cons. Stato Sez. III, 27.06.2019, n. 4431 - Cons. Stato Sez. III, 02.05.2019, n. 2855 - TAR Puglia Bari Sez. III, 17.07.2019, n. 1034 - TAR Veneto Venezia Sez. I, 01.07.2019, n. 795 - TAR Sicilia Catania Sez. I, 25.06.2019, n. 1561 - Cons. giust. amm. Sicilia, 15.05.2019, n. 438
(09.10.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true.

INCARICHI PROFESSIONALIPubblicazione dati sugli incarichi professionali.
Domanda
Abbiamo notato che nel nostro ente non c’è una applicazione uniforme, tra i vari settori, in merito agli obblighi di pubblicità e trasparenza per gli incarichi professionali. I dati e documenti da pubblicare vanno trattati in base all’art. 15 o all’art. 37 del decreto trasparenza?
Risposta
Il quesito pone in evidenza una delle vicende più controverse di tutta la normativa in materia di trasparenza che le pubbliche amministrazioni sono chiamate ad affrontare. La consultazione costante dei siti web dei comuni e delle province, conferma che l’argomento merita un giusto approfondimento.
Per gli incarichi di “collaborazione e consulenza”, ai fini della trasparenza, è necessario prendere a riferimento l’art. 15, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33, che disciplina la pubblicazione dei dati relativi agli incarichi conferiti e affidati a soggetti esterni a qualsiasi titolo, sia oneroso che gratuito.
La base giuridica degli incarichi –nella normativa applicabile agli enti locali– è rinvenibile nell’art. 7, comma 6 e seguenti del d.lgs. 165/2001 e nell’art. 110, comma 6, del TUEL 267/2000.
Sempre a livello normativo, per l’affidamento di un incarico di collaborazione è necessario riferirsi all’articolo 3, comma 55, della legge 24.12.2007, n. 244, come sostituito dall’art. 46, comma 2, del d.l. n. 112/2008, che testualmente recita: “Gli enti locali possono stipulare contratti di collaborazione autonoma, indipendentemente dall’oggetto della prestazione, solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge o previste nel programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’articolo 42, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267”.
Altre disposizioni in materia sono rinvenibili nell’art. 3, commi 54, 56 e 57, della legge 24.12.2007, n. 244.
Per ogni incarico di collaborazione e consulenza i dati da pubblicare (art. 15, comma 1, d.lgs. 33/2013), sono i seguenti:
   a) gli estremi dell’atto di conferimento dell’incarico;
   b) il curriculum vitae;
   c) i dati relativi allo svolgimento di incarichi o la titolarità di cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione o lo svolgimento di attività professionali;
   d) i compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di consulenza o di collaborazione, con specifica evidenza delle eventuali componenti variabili o legate alla valutazione del risultato
A tali obblighi, si aggiunge quanto previsto dall’art. 53, comma 14, del d.lgs. 165/2001, il quale prevede l’obbligo di pubblicare l’attestazione dell’avvenuta verifica dell’insussistenza di situazioni di conflitto di interessi, anche potenziale.
Si ricorda che i compensi sono da pubblicare al lordo di oneri sociali e fiscali a carico del collaboratore e consulente.
Si ritiene utile sottolineare, inoltre, che all’interno della sotto-sezione “Consulenti e collaboratori”, devono essere pubblicati i dati relativi agli incarichi e alle consulenze che non siano riconducibili al “Contratto di appalto di servizi” assoggettato alla disciplina dettata nel codice dei contratti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50).
Diversamente, qualora i dati si riferiscano ad incarichi riconducibili alla nozione di appalto di servizio (affidamento con Codice Identificativo di Gara – CIG), si applica l’art. 37, del d.lgs. 33/2013, prevedendo la pubblicazione dei dati ivi indicati nella sotto-sezione di primo livello “Bandi di gara e contratti”.
Giova, altresì, sottolineare che gli incarichi conferiti o autorizzati da un’amministrazione ai propri dipendenti rimangono disciplinati dall’art. 18, del d.lgs. 33/2013 e devono essere pubblicati nella diversa sotto-sezione Personale > Incarichi conferiti e autorizzati ai dipendenti.
Tenuto conto della eterogeneità degli incarichi di consulenza e dell’esistenza di fattispecie di dubbia qualificazione come tali (si pensi, ad esempio, agli incarichi legali), si rammenta che l’ANAC ha già ricondotto agli incarichi di collaborazione e consulenza, di cui assicurare la pubblicazione sui siti, quelli conferiti:
   • ai commissari esterni membri di commissioni concorsuali;
   • ai componenti del Collegio sindacale;
   • ai componenti del Collegio dei revisori dei conti;
   • ai collaboratori occasionali.
Per questa tipologia di incarichi, le informazioni richieste vanno pubblicate entro tre mesi dal conferimento dell’incarico e devono essere mantenute per i tre anni successivi alla cessazione (art. 15, co. 4, d.lgs. 33/2013).
La mancata pubblicazione degli estremi degli atti di conferimento degli incarichi e dell’attestazione ex art. 53 d.lgs. 165/2001, comporta inefficacia dell’atto, non consentendo, quindi, né l’utilizzo della prestazione eventualmente resa, né la liquidazione del compenso.
Nel caso in cui il pagamento della prestazione sia stato comunque corrisposto si determina responsabilità in capo a chi l’ha disposto e l’irrogazione di una sanzione pari alla somma pagata.
Ricapitolando:
   • se l’incarico professionale è inteso come affidamento appalto di servizio, ai sensi del d.lgs. 50/2016, quindi con CIG: i dati vanno pubblicati su Amministrazione trasparente > Bandi di gara e contratti;
   • se l’incarico affidato è un rapporto di collaborazione o consulenza (art. 7, comma 6 e seguenti, d.lgs. 165/2001) i dati vanno pubblicati su Amministrazione trasparente > Collaboratori e consulenti.
Avendo consultato direttamente il sito web del comune interpellante, si consiglia di eliminare dalla sezione Collaboratori e consulenti tutti gli incarichi affidati con CIG (08.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALIL’utilizzo dell’avanzo libero per spese correnti a carattere non permanente: dalla corte dei conti arriva un utile orientamento per la loro individuazione.
Domanda
L’art. 187 del TUEL prevede la possibilità di finanziare spese correnti a carattere non permanente con l’avanzo libero. Ma quali sono queste spese?
Risposta
Il quesito proposto dal lettore è di sicura attualità e interesse. Come noto il comma 2 dell’art. 187 del TUEL fornisce un elenco di spese per il cui finanziamento è possibile fare ricorso all’avanzo di amministrazione, parte libera, dell’esercizio precedente. Tali spese, sono elencate dalla lett. a) alla lett. e) della norma, secondo un tassativo ordine di priorità. Ciò significa che le spese di ciascuna lettera possono essere finanziate con avanzo solo se non ricorre la necessità di finanziare, con le medesime somme, quelle indicate alle lettere precedenti.
Esse sono così elencate:
   a) debiti fuori bilancio;
   b) provvedimenti necessari per la salvaguardia degli equilibri di bilancio di cui all’art. 193 ove non possa provvedersi con mezzi ordinari;
   c) spese di investimento;
   d) spese correnti a carattere non permanente;
   e) estinzione anticipata dei prestiti. Per queste ultime, precisa la norma, qualora l’ente non disponga di una quota sufficiente di avanzo libero, nel caso abbia somme accantonate per una quota pari al 100 per cento del fondo crediti di dubbia esigibilità, può ricorrere all’utilizzo di quote dell’avanzo destinato a investimenti solo a condizione che garantisca, comunque, un pari livello di investimenti aggiuntivi.
Mentre per le altre lettere l’individuazione delle spese è immediata, non così può dirsi per quelle di cui alla lett. d). Se leggiamo il d.lgs. 118/2011, vediamo che l’allegato 7), ai fini della codifica delle transazioni, individua ed elenca al punto 5) le entrate e le spese non ricorrenti. Sebbene queste ultime non siano sovrapponibili alle spese a carattere non permanente, l’elencazione fornita è di sicuro aiuto, quanto meno per le voci a) (consultazioni elettorali o referendarie locali) e c) (eventi calamitosi).
Di recente tuttavia la Corte dei conti Lazio, con proprio parere n.83/2019/PAR rilasciato a fronte di specifico quesito, rivoltole da un comune del proprio territorio, ha fornito utili indicazioni al fine di individuare tali tipologie di spesa, pur non definendone in maniera netta i confini.
Tutte le spese di cui al comma 2 dell’art. 187 del TUEL, affermano i giudici contabili, si caratterizzano sempre per la loro estemporaneità e per l’assenza di una continuità temporale e per il fatto di non essere né fisse né costanti nel tempo. L’incertezza di tali spese riguarda anche il loro aspetto quantitativo, ovvero l’impossibilità per l’ente di definirne anzitempo l’ammontare. Proprio queste caratteristiche sono quelle che permettono il loro finanziamento con un’entrata (l’avanzo di amministrazione appunto) che si caratterizza anch’essa per la sua incertezza nell’an e nel quantum e che, come tale, è verificabile solo ex post, ad avvenuta approvazione del rendiconto dell’esercizio precedente.
Quest’ultima rappresenta condizione sine qua non per poter procedere alla copertura della spesa. La ratio della limitazione del suo utilizzo, prosegue la Corte, discende dal principio per cui la costruzione programmatica del bilancio previsionale deve comprendere tutta l’attività che il comune è chiamato a svolgere, individuando le risorse a cui attingere per l’intera copertura delle spese previste nell’esercizio (07.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Natura giuridica cartellino.
Domanda
I cartellini marcatempo o i fogli presenza hanno natura di atto pubblico?
Risposta
Gli orientamenti giurisprudenziali si sono mossi nel tempo sino a raggiungere direzioni diametralmente opposte, tuttavia, l’orientamento più recente può dirsi consolidato.
Le meno recenti pronunce configuravano il cartellino marcatempo come un atto pubblico. Il Consiglio di Stato, sez. II, con sentenza del 06.04.1991, n. 3891 lo aveva precisato definendo atto pubblico “ogni documento contenente attestazioni suscettibili di produrre effetti giuridici per una pubblica amministrazione”, ed in ciò identificando anche il cartellino orario che è destinato a fornire la prova dell’effettuazione della prestazione di lavoro ai fini del pagamento della retribuzione. Dal riconoscimento al cartellino della natura di atto pubblico ne conseguiva che, comportamenti dei dipendenti finalizzati a falsificare le risultanze dello stesso, fossero inquadrabili come falso ideologico.
Di parere opposto è la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 41426 del 25.09.2018, si pronuncia così “i cartellini marcatempo o i fogli presenza non hanno natura di atto pubblico (allo stesso modo Sez. U, n. 15983 del 11.04.2006; Cassazione 19299 del 16.04.2012), trattandosi di documenti di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, documenti che, peraltro non contengono manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla Pubblica Amministrazione".
La vicenda aveva riguardato alcuni dipendenti i quali timbravano il cartellino, con modalità tali da attestare falsamente la loro presenza negli uffici comunali. Ma se è vero che commettevano il reato di truffa aggravata ai danni dell’ente locale, non è vero che realizzassero un falso in atto pubblico.
Cartellini e badge rilevano infatti solo nel rapporto con il datore di lavoro, rapporto che nella Pubblica Amministrazione è di diritto privato. Sono cioè privi di rilevanza esterna non essendo manifestazione dichiarativa o di volontà attribuibile alla Pubblica Amministrazione.
L’alterazione delle presenze configura quindi il reato di truffa aggravata ma non quello di falso in atto pubblico (03.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVIInformatizzazione della P.A..
Anche alla luce della nuova normativa sulla privacy è legittima la previsione di procedure completamente informatizzate senza l'intervento di dipendenti?

La questione circa l'utilizzo di sistemi automatizzati coinvolge profili di carattere amministrativo, rispetto ai quali non si può non sottolineare il tendenziale favore normativo (a partire dall'art. 97 della Costituzione) verso una maggiore efficienza dell'azione amministrativa.
"Anche in sede giurisprudenziale ciò è stato più volte sottolineato. L'automazione del processo decisionale dell'amministrazione mediante l'utilizzo di una procedura digitale ed attraverso un "algoritmo" -ovvero di una sequenza ordinata di operazioni di calcolo- che in via informatica sia in grado di valutare e graduare una moltitudine di domande, soprattutto con riferimento a procedure seriali o standardizzate, è conforme ai canoni di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa (art. 1, L. 07.08.1990, n. 241), i quali, secondo il principio costituzionale di buon andamento dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), impongono all'amministrazione il conseguimento dei propri fini con il minor dispendio di mezzi e risorse e attraverso lo snellimento e l'accelerazione dell'iter procedimentale. Infatti, l'assenza di intervento umano in un'attività di mera classificazione automatica di istanze numerose, secondo regole predeterminate (che sono, queste sì, elaborate dall'uomo), e l'affidamento di tale attività a un efficiente elaboratore elettronico appaiono come doverose declinazioni dell'art. 97 Cost. coerenti con l'attuale evoluzione tecnologica".
Fra i settori di maggior sviluppo vi è senz'altro quello degli appalti dove l'informatizzazione si abbina ad esigenze di anticorruzione e razionalizzazione. Infatti la gestione telematica della gara offre il vantaggio di una maggiore sicurezza nella "conservazione" dell'integrità delle offerte in quanto permette automaticamente l'apertura delle buste in esito alla conclusione della fase precedente e garantisce l'immodificabilità delle stesse, nonché la tracciabilità di ogni operazione compiuta; inoltre, nessuno degli addetti alla gestione della gara potrà accedere ai documenti dei partecipanti, fino alla data e all'ora di seduta della gara, specificata in fase di creazione della procedura.
Le stesse caratteristiche della gara telematica escludono in radice ed oggettivamente la possibilità di modifica delle offerte. Infatti, le fasi di gara seguono una successione temporale che offre garanzia di corretta partecipazione, inviolabilità e segretezza delle offerte e i sistemi provvedono alla verifica della validità dei certificati e della data e ora di marcatura; l'affidabilità degli algoritmi di firma digitale e marca temporale garantiscono la sicurezza della fase di invio/ricezione delle offerte in busta chiusa. Nella gara telematica la conservazione dell'offerta è affidata allo stesso concorrente, garantendo che questa non venga, nelle more, modificata proprio attraverso l'imposizione dell'obbligo di firma e marcatura nel termine fissato per la presentazione delle offerte.
Come evidenziato l'intervento umano non è comunque assente, ma si esplica nell'ambito della organizzazione del sistema telematico e nella definizione dell'algoritmo, che non sono esenti dal controllo del giudice a cui è imposto di valutare in primo luogo la correttezza del processo informatico in tutte le sue componenti: dalla sua costruzione, all'inserimento dei dati, alla loro validità, alla loro gestione.
Ciò premesso, qualora l'automatizzazione comporti "una valutazione sistematica e globale di aspetti personali relativi a persone fisiche, basata su un trattamento automatizzato, compresa la profilazione, e sulla quale si fondano decisioni che hanno effetti giuridici o incidono in modo analogo significativamente su dette persone fisiche" trova applicazione la particolare disciplina del GDPR (Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE) che obbliga all'adozione di una specifica "Valutazione d'impatto sulla protezione dei dati" (artt. 35-36).
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Riferimenti normativi e contrattuali
Art. 97 Cost. - D.Lgs. 07.03.2005, n. 82 - Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 35 - Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 36
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. VI, 08.04.2019, n. 2270 - Cons. Stato Sez. V, 21.11.2017, n. 5388 - Cons. Stato Sez. III, 03.10.2016, n. 4050
(02.10.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTI: Seduta pubblica virtuale.
Domanda
Alcune amministrazioni anche nel caso di gare telematiche prevedono la seduta pubblica fisica, è sbagliato escludere questa possibilità quando si utilizzano strumenti telematici di acquisto? Quando è comunque obbligatorio prevedere la seduta pubblica fisica?
Risposta
Uno dei pregi delle gare telematiche è sicuramente quello della seduta pubblica virtuale, strumento che consente di svincolare la stazione appaltante dalla definizione precisa di un orario e di un luogo specifico con riferimento all’apertura di una procedura di gara, in un’ottica di revisione delle modalità operative ed organizzative del personale pubblico, sempre più volta all’incentivazione del telelavoro.
Numerose sono le sentenze che si sono pronunciate sul punto e tali da attribuire ormai una natura “consolidata”. Solo per ricordarne alcune: TAR Campania, Napoli, sez. I, sent. n. 725 del 02.02.2018 “Il principio di pubblicità delle sedute deve essere rapportato non ai canoni storici che hanno guidato l’applicazione dello stesso, quanto piuttosto alle peculiarità e specificità che l’evoluzione tecnologica ha consentito di mettere a disposizione delle procedure di gara telematiche, in ragione del fatto che la piattaforma elettronica che ha supportato le varie fasi di gara assicura l’intangibilità del contenuto delle offerte (indipendentemente dalla presenza o meno del pubblico) posto che ogni operazione compiuta risulta essere ritualmente tracciata dal sistema elettronico senza possibilità di alterazioni; in altri termini, è garantita non solo la tracciabilità di tutte le fasi, ma proprio l’inviolabilità delle buste elettroniche contenenti le offerte e l’incorruttibilità di ciascun documento presentato”; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, sent. n. 365 del 29.05.2017 “La correttezza e l’intangibilità risulta, in questo caso, garantita dal sistema, con esclusione di ogni rischio di alterazione nello svolgimento delle operazioni, anche in assenza dei concorrenti. Il rischio di alterazione nello svolgimento delle operazioni (in passato teoricamente possibile, proprio, in considerazione della modalità ordinaria di svolgimento in cartaceo della gara) viene oggi meno (nella sostanza) grazie all’assoluta certezza della tracciabilità di ogni fase della gara telematica, attraverso l’utilizzo di strumenti elettronici totalmente verificabili e ricostruibili, anche ex post”; nonché da ultimo il TAR Lombardia, Milano, sez. IV n. 793/2018.
La gara telematica, pertanto, consente non solo la tracciabilità delle fasi, ma anche l’inviolabilità delle buste elettroniche, che seguono, tra l’altro, una precisa scansione temporale (buste amministrative, al termine, buste tecniche e quindi economiche).
Lo stesso sistema MEPA ha sviluppato in modo concreto questo “concetto di seduta pubblica virtuale” consentendo di fatto ai partecipanti di vedere, una volta aperta la procedura, gli operatori che hanno presentato offerta (se ammessi od esclusi), la presenza o meno dei file caricati negli spazzi appositamente creati delle buste amministrative/tecniche ed economiche, oltre all’esito della gara.
Alla luce di queste considerazioni ritengo sia un surplus prevedere nelle gare telematiche la seduta pubblica fisica, che diventa sicuramente obbligatoria nel caso di presentazione di campioni, quando siano oggetto di valutazione in merito ad un’offerta tecnica, ovvero nel caso di presentazione di alcuni documenti cartacei che non possono essere assolutamente sostituiti da una mera dichiarazione sostitutiva (02.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Pubblicazione dati sull’organizzazione dell’ente.
Domanda
Nella sezione Amministrazione trasparente del nostro sito, alla sottosezione “Organizzazione”, tra le altre, ci sono le sottosezioni di Livello 2, denominate rispettivamente:
   • sanzioni per mancata comunicazione dei dati;
   • rendiconti gruppi consiliari regionali/provinciali;
   • articolazione degli uffici.
È possibile sapere cosa va pubblicato, di preciso, in queste sottosezioni?
Risposta
Secondo le norme del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd: decreto trasparenza), come ampiamente modificato dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97, ogni amministrazione deve prevedere nella home-page del proprio sito istituzionale, una sezione denominata AMMINISTRAZIONE TRASPARENTE.
Tale sezione, sulla base dell’allegato 1, alla delibera ANAC n. 1310 del 28.12.2016, si suddivide in 26 sottosezioni di Livello 1 e 67 sottosezioni di Livello 2. Tale ripartizione è obbligatoria e gli enti non possono adottare una propria “Alberatura”, aggiungendo e sottraendo sottosezioni a proprio piacimento (FAQ ANAC Trasparenza 1.7).
La seconda sottosezione dell’Albero della Trasparenza è quella legata alla “Organizzazione” dell’ente e si compone di cinque sottosezioni di Livello 2, denominate rispettivamente:
   • Titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo;
   • sanzioni per mancata comunicazione dei dati;
   • rendiconti gruppi consiliari regionali/provinciali;
   • articolazione degli uffici;
   • telefono e posta elettronica.
Per le tre sottosezioni citate del quesito, gli obblighi di pubblicazione riguardano:
ORGANIZZAZIONE > SANZIONI PER MANCATA COMUNICAZIONE DEI DATI:
In questa sottosezione vanno pubblicate le (eventuali) sanzioni irrogate dall’ANAC per mancata o incompleta comunicazione dei dati da parte dei titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo. Qualora il comune non abbia ricevuto sanzioni, è consigliabile inserire la seguente dicitura “Il comune di …………. non ha ricevuto sanzioni per la mancata comunicazione dei dati”. Il riferimento normativo per la sottosezione è l’articolo 47, comma 1, del d.lgs. 33/2013.
ORGANIZZAZIONE > RENDICONTI GRUPPI CONSILIARI REGIONALI / PROVINCIALI
Trattandosi di un comune, non ci sono dati da pubblicare, ma –come sostenuto dall’ANAC– non è consigliabile lasciare le sottosezioni vuote. L’Autorità considera questi casi specifici come omessa pubblicazione. E’ preferibile, pertanto, inserire una frase o un documento, che dia conto –con estrema completezza– delle motivazioni della mancanza dei contenuti. Nel caso specifico, si consiglia in inserire la seguente dicitura: “Ai sensi dell’art. 28, c. 1, d.lgs. n. 33/2013, la sottosezione non è di competenza per questo comune”.
ORGANIZZAZIONE > ARTICOLAZIONE DEGLI UFFICI
In questa sottosezione di Livello 2 vanno pubblicare le competenze di ciascun ufficio e i nomi dei dirigenti responsabili dei singoli uffici. Va, inoltre, pubblicata una illustrazione, in forma semplificata, dell’organizzazione dell’amministrazione, mediante l’organigramma o analoghe rappresentazioni grafiche e i nominativi dei dirigenti responsabili dei singoli uffici.
Come recentemente previsto nella delibera ANAC n. 1074 del 28/11/2018, recante “Approvazione definitiva dell’Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione”, per i comuni sotto 15.000 abitanti –classe demografica a cui appartiene il comune interpellante– è possibile la pubblicazione di organigramma semplificato contenente:
  • la denominazione degli uffici;
  • il nominativo del responsabile;
  • l’indicazione dei recapiti telefonici e caselle EMAIL, cui gli interessati possano rivolgersi.
Il riferimento normativo per i dati da pubblicare in questa sottosezione è l’articolo 13, comma 1, lettere b) e c), del d.lgs. 33/2013 (01.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il parere di regolarità contabile sulle delibere di giunta e di consiglio (art. 49 TUEL). Dalla corte dei conti arriva un importante chiarimento.
Domanda
Nelle scorse settimane sono stata nominata titolare di P.O. per l’area finanziaria del mio comune. Vi chiedo: quali sono i confini delle responsabilità connesse con la mia espressione del parere di regolarità contabile sulle proposte di deliberazione ai sensi dell’art. 49 del TUEL?
Risposta
Il quesito formulato è condiviso da molti responsabili finanziari di enti locali. Come ben noto il testo della norma citata è stato riformulato dal d.l. n. 174/2012.
In particolare il comma 1 prevede che: “Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione”.
Il comma 3 conferma la responsabilità amministrativa e contabile dei funzionari sui pareri espressi. Questi ultimi, ribadisce il comma 4, non sono vincolanti per l’organo collegiale, che può comunque deliberare anche in presenza di pareri contrari, purché ne dia adeguata motivazione nel testo dell’atto.
Sul tema dei confini delle responsabilità dei funzionari che esprimono i pareri, dell’organo deliberante e del segretario comunale che presiede alla seduta, è intervenuta di recente la sezione giurisdizionale della Corte dei conti Calabria con la sentenza 27.05.2019 n. 185.
Nell’ipotesi di danno erariale oggetto della sentenza, i magistrati contabili hanno condannato tutti gli imputati (giunta al completo, segretario comunale e responsabile del servizio tecnico che ha reso il parere di regolarità tecnica), ad eccezione del solo responsabile del servizio finanziario. Con quali motivazioni?
La sentenza afferma che “(…) il legislatore della novella del 2012, (…) ha inteso differenziare il contenuto del ‘controllo di regolarità amministrativa e contabile’ (di competenza del responsabile del servizio o della funzione), che si esprime attraverso il parere di regolarità tecnica e riguarda la ‘regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa’, dal ‘controllo contabile’ che, esprimendosi attraverso il parere di regolarità contabile (di competenza del responsabile di ragioneria), ha riguardo all’aspetto meramente contabile e finanziario del provvedimento. (…) Nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione amministrativa, rientra a pieno titolo il controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione, ovverossia la verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate. (…) La lettura combinata dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di regolarità tecnica, che non si limita a verificare l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e inglobando le regole sia tecniche, di un determinato settore, che quelle generali in ordine alla legittimità dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di gestione assegnato al proprio settore. Invece, con il ‘parere di regolarità contabile’ il fine perseguito dal legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell’ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
   a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica rilasciato dal soggetto competente;
   b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall’organo proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione
”.
E ancora, prosegue la Corte: “(…) la verifica della legittimità delle deliberazioni, siano esse di giunta che di consiglio, non rientra tra i controlli che il responsabile del servizio di ragioneria deve effettuare prima dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile. (…). Si ritiene che il parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare copertura finanziaria e il rispetto degli equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di altri organi istituzionali dell’ente”.
Da quanto sopra, emerge molto chiaramente come l’orientamento dei magistrati contabili sia pertanto netto nel distinguere e separare le responsabilità degli attori, confinando nettamente, quella del responsabile finanziario (30.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Accessi al server regolati. Connessioni da remoto, disciplina ad hoc. Consiglieri e protocollo dell’ente: dal Tar Campania utili parametri.
In un comune siciliano può un consigliere accedere da remoto al server comunale del protocollo dell'ente in carenza di previsione regolamentare che lo preveda espressamente?

L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo sull'ente, nell'interesse della collettività (cfr. Consiglio di stato V, 05/09/2014, n. 4525, cit. da Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 29.11.2018); si tratta di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10 Tuoel) o, più in generale, nei confronti della p.a., disciplinato dalla legge n. 241 del 1990 (cfr. parere della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014 e il richiamato del 29.11.2018).
Per i comuni della regione Sicilia si applica l'art. 217 del Testo coordinato delle leggi regionali relative all'ordinamento degli enti locali (Art. 199, Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana approvato con legge regionale n. 16/1963 (art. 20, legge regionale n. 1/1976 e art. 56, legge regionale n. 9/1986), il quale prevede, analogamente, che «I consiglieri comunali (...), per l'effettivo esercizio della loro funzione, hanno diritto di prendere visione dei provvedimenti adottati dall'ente e degli atti preparatori in essi richiamati nonché di avere tutte le informazioni necessarie all'esercizio del mandato e di ottenere, senza spesa, copia degli atti deliberativi. Copia dell'elenco delle delibere adottate dalla giunta è trasmessa al domicilio dei consiglieri e depositata presso la segreteria a disposizione di chiunque ne faccia richiesta».
Il protocollo informatico, come noto, è stato introdotto dall'art. 50 del dpr n. 445/2000, il quale, al comma 3, richiede la realizzazione o la revisione dei sistemi informativi automatizzati in conformità anche alle disposizioni di legge sulla riservatezza dei dati personali; gli articoli 53 e 55 del citato dpr n. 445 prevedono, rispettivamente, la «registrazione di protocollo» e la «segnatura di protocollo» che contengono una serie di dati che consentono la rintracciabilità dei documenti.
La citata Commissione per l'accesso, già con il parere del 16.03.2010 stabiliva che «l'accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell'Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuoel)».
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del 2004, pag. 19 e 20) aveva specificato che «nell'ipotesi in cui l'accesso da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l'esercizio di tale diritto, ai sensi dell'art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per consentire l'espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità, (...) che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all'esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi all'amministrazione destinataria della richiesta accertare l'ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione ratione officii del consigliere comunale».
Già il Tar Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha affermato, tra l'altro, che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare, giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Sempre il Tar Sardegna, approfondendo la tematica, con la sentenza n. 531/2018, ha specificato che il «possesso delle chiavi di accesso telematico, rappresenta una condizione preliminare, ma nondimeno necessaria, per l'esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si svolga non attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli atti dell'amministrazione comunale (...), ma mediante una selezione degli oggetti degli atti di cui si chiede l'esibizione. Peraltro, una delle modalità essenziali per poter operare in tal senso è rappresentata proprio dalla possibilità di accedere (non direttamente al contenuto della documentazione in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo». Anche il Tar Campania (Sezione staccata di Salerno), con la recentissima decisione n. 545 del 04/04/2019 ha confermato il diritto del consigliere comunale all'accesso anche da remoto al protocollo informatico dell'ente.
Il predetto tribunale, ribadendo sostanzialmente quanto stabilito dal Tar Sardegna con la richiamata sentenza 531/2018, ha ritenuto che tale esercizio non dovrebbe tuttavia essere esteso al contenuto della documentazione in arrivo o in uscita dall'amministrazione soggetta, invece, alle ordinarie regole in materia di accesso, tra le quali la necessità di richiesta specifica, ma ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo (numero di registrazione al protocollo, data, mittente, destinatario, modalità di acquisizione, oggetto). Il Tar Campania con la citata decisione n. 545/2019 ha accolto il ricorso imponendo all'amministrazione comunale resistente di apprestare, entro il termine di 60 giorni decorrente dalla comunicazione della medesima decisione «le modalità organizzative per il rilascio di password per l'accesso da remoto al protocollo informatico al consigliere comunale ricorrente».
Ciò premesso, si osserva che la disciplina regolamentare si pone anche come strumento di previsione delle misure tecniche necessarie per l'effettivo esercizio del diritto in parola in capo al consigliere comunale. Tale strumento, necessario al fine di porre i competenti uffici comunali nelle condizioni di operare correttamente, dovrebbe, dunque, essere obbligatoriamente adottato dall'ente in tempi ragionevoli ben potendo prendersi a parametro i termini individuati dal sopra citato Tar della Campania o termini più brevi favorevoli ai consiglieri comunali
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2019).

NEWS

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Doppio giro contabile per gli incentivi tecnici.
Doppio giro contabile per l'incentivo relativo alle funzioni tecniche (articolo 113) per garantire il «passaggio» nel fondo incentivante del personale e la conseguente iscrizione nell'ambito della parte corrente del bilancio. La spesa iscritta nella specifica voce di spesa (corrente o in conto capitale) deve trovare una contropartita di entrata nella parte corrente destinata proprio a finanziare la spesa di personale legata all'incentivo.
È quanto prevede il decreto del 01.08.2019 di aggiornamento del Principio contabile applicato n. 4/2 valorizzando una specifica previsione normativa contenuta nell'articolo 1, comma 526, della legge 205/2017 secondo la quale questi incentivi «fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
Partendo da questo presupposto il principio ora chiarisce che «gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all'articolo 113 del Dlgs 50/2016, compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, sono assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono, nel titolo II della spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture».
Conto capitale e parte corrente
Di conseguenza, in funzione della previsione normativa, vige una regola di sostanziale accessorietà, in forza della quale l'incentivo deve essere imputato agli stanziamenti concernenti le corrispondenti spese a cui si riferiscono, seguendone anche la collocazione tanto se in conto capitale quanto se di parte corrente.
L'impegno, più specificamente, è registrato con imputazione all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio e è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti Nac», voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il personale (articolo 113 del Dlgs 50/2016).
Infatti, non va dimenticato, che trattandosi di incentivi specifici per il personale devono «transitare» nell'ambito del fondo del comparto, con la conseguenza che il finanziamento dell'erogazione deve, comunque, avvenire nell'ambito della parte corrente del bilancio, anche laddove si tratti di un incentivo correlato a un'opera pubblica con finanziamento, pertanto, nell'ambito della gestione in conto capitale.
Ecco perché è richiesto, proprio dal principio, di impegnare la spesa riguardante gli incentivi tecnici anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale (anche in termini di maturazione della condizione di esigibilità).
Il finanziamento di questa spesa è rappresentato proprio dall'accertamento di entrata assunto in corrispondenza e in contropartita dell'impegno/pagamento effettuato sullo stanziamento relativo alla singola tipologia di spesa (servizio, fornitura o lavori), con una soluzione che consente, altresì e congiuntamente, di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
Fondo innovazione
Le medesime modalità di registrazione sono adottate anche per la quota del 20 percento, sempre prevista dal comma 4 dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016 (cosiddetto fondo innovazione) destinata all'acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione nonché per l'attivazione di tirocini formativi e di orientamento, che, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio.
Anche in questo caso, infatti, la spesa è impegnata a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i lavori, servizi e forniture con imputazione all'esercizio in corso di gestione, ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti Nac».
La quota del 20 percento è, infatti, impegnata anche tra le spese correnti o di investimento in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio contabile della competenza finanziaria, con copertura costituita, ancora, proprio dall'indicato accertamento di entrata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.09.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEDefiniti gli step per incentivi tecnici e fondo innovazione.
Chiarite le modalità di contabilizzazione degli incentivi per funzioni tecniche e delle spese finanziate dal fondo innovazione.
L'undicesimo decreto correttivo al Dlgs 118/2011, il decreto 01.08.2019 pubblicato con i suoi allegati sulla Gazzetta Ufficiale del 22.08.2019 n. 196, ha definito i passaggi contabili finalizzati alla corretta rappresentazione nel bilancio finanziario dell'ente del pagamento delle somme incentivanti al personale interno e delle spese finanziate con il fondo innovazione.
Gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche (articolo 113 del Dlgs 50/2016), compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, devono essere assunti a carico degli stanziamenti riguardanti i lavori, servizi e forniture cui si riferiscono. La registrazione dunque è effettuata al titolo II della spesa ove si tratti di opere o lavori pubblici e al titolo I, nel caso di servizi e forniture, con imputazione all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio.
Tempestivamente deve essere emesso l'ordine di pagamento a favore del bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 Rimborsi e altre entrate correnti, categoria 3059900 Altre entrate correnti n.a.c., voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il personale (articolo 113 del Dlgs 50/2016).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici deve poi essere impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale. La copertura della spesa è costituita dall'accertamento di entrata, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione contabile. Gli accertamenti alla voce del piano finanziario E.3.05.99.02.001 e la liquidazione degli impegni correlati non generano formazione di ricavi o costi.
Analoghe modalità di registrazione sono previste per la quota del 20 per cento destinata all'acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, nonché al finanziamento di tirocini formativi e di orientamento.
Anche le somme del fondo innovazione devono infatti essere impegnate a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i lavori, servizi e forniture con imputazione all'esercizio in corso di gestione, e deve essere tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 Rimborsi e altre entrate correnti, categoria 3059900 Altre entrate correnti n.a.c.
La quota è poi impegnata anche tra le spese correnti o di investimento in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio contabile della competenza finanziaria. La copertura è costituita dall'accertamento di entrata, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.08.2019).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici fuori dai tetti di spesa solo a partire dal 2018.
Ancora un intervento della Sezione Autonomie (deliberazione 30.10.2019 n. 26) questa volta per chiarire che, solo a partire dalla legge di bilancio 2018 è possibile considerare esclusi dai limiti del salario accessorio gli incentivi tecnici, mentre dalla data di approvazione del nuovo codice dei contratti (Dlgs 50/2016) e per tutto l'anno 2017, gli incentivi tecnici avrebbero dovuto essere assoggettati ai limiti di crescita del salario accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017).
La questione non è di poco conto, specie per tutti quegli enti locali che, seguendo le indicazioni di alcune sezione regionali (Veneto e Umbria), hanno stanziato e successivamente erogato incentivi non considerandoli soggetti ai tetti di spesa del salario accessorio.
I ripetuti interventi della Sezione Autonomie
In merito alla corretta contabilizzazione degli incentivi tecnici ci sono volute tre deliberazione della Sezione Autonomie.
Il primo intervento restrittivo è avvenuto con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, dove è stato precisato che le nuove disposizioni introdotte dal legislatore sugli incentivi tecnici non avrebbero potuto, così come formulate, consentire una erogazione al di fuori dei vincoli di crescita del salario accessorio. Infatti, a differenza degli incentivi per la progettazione, il legislatore eliminando il collegamento diretto con le opere pubbliche e la loro destinazione a spese di investimento, avrebbe operato una scelta diversa assolutamente non sovrapponibile alla precedente.
Principi successivamente ribaditi con la deliberazione 10.10.2017 n. 24, dove la Sezione Autonomie è dovuta intervenire dichiarando inammissibile la sollecitazione della Sezione regionale della Liguria a un possibile ripensamento.
Il cambio di orientamento, sulla esclusione dai limiti del salario accessorio, è avvenuta con la deliberazione 26.04.2018 n. 6, ossia all'indomani dell'intervento del legislatore che, con la legge di bilancio 2018, ha inserito, nell'articolo 113 del Dlgs 50/2018, il comma 5-bis secondo il quale le risorse finanziarie individuate fanno capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture.
I nuovi dubbi delle sezione regionali
Sulla questione di una possibile attrazione degli incentivi tecnici all'interno delle risorse escluse, tra la data di entrata in vigore del Dlgs 50/2016 e la legge di bilancio 2018, si sono formati due diversi orientamenti della magistratura contabile.
Il primo restrittivo che, muovendo dalle conclusioni cui era pervenuta la Sezione Autonomie nel 2018, hanno confermato il comma 5-bis norma innovativa e non interpretativa, tanto da attrarre tutti gli incentivi, dalla data del nuovo codice degli appalti (2016) fino al 31/12/2017, nei limiti di crescita del salario accessorio - nel 2016 individuato dalla legge di stabilità 2016 e nel 2017 dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
Un secondo orientamento ha, invece, precisato che l'effetto innovativo dell'articolo 5-bis non può non ripercuotersi sugli stanziamenti di bilancio già effettuati per la realizzazione dell'opera pubblica (tra i quali rientrano gli incentivi tecnici) i quali –essendo già stanziati sui relativi capitoli dell'appalto prima dell'avvento della novella introdotta dal comma 5-bis- cessano di concorrere al tetto retributivo dei trattamenti accessori.
La conferma della Sezione Autonomie
La seconda soluzione richiama la «non consumazione del potere», perché la conseguenza del cumulo degli incentivi tecnici con il trattamento accessorio del personale non si sarebbe determinata con il solo impegno della spesa, salvaguardando, così, per la successione delle leggi nel tempo. Tuttavia, una scelta contabile produttiva di effetti sul piano del diritto sostanziale, non appare in linea con il richiamato percorso argomentativo sviluppato in dettaglio dalla Sezione Autonomie.
Infatti, la natura innovativa e non interpretativa della nuova disposizione legislativa, muta in senso sostanziale la contabilizzazione degli incentivi con la conseguente esclusione di queste risorse dalla spesa del personale e da quella per il trattamento accessorio. In definitiva, le sezione regionali non possono consentire legittimazioni postume non in linea con quanto espresso dalla Sezione Autonomie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.11.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli incentivi per funzioni tecniche sono da includere nel tetto della spesa del personale fino al 01.01.2018.
Gli incentivi tecnici previsti dall’articolo 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso articolo, maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata in vigore dello stesso, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015, successivamente modificato dall’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017, pur se la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi e forniture.
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PREMESSO
La questione di massima, sollevata dalla Sezione regionale di controllo per le Marche con la deliberazione 16.05.2019 n. 30, riguarda la necessità di una pronuncia di orientamento al fine di stabilire se gli incentivi tecnici -previsti dall’articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, così come novellato dal comma 5-bis (il quale, si ricorda, dispone che gli incentivi tecnici fanno capo al medesimo capitolo di spesa per i singoli lavori, servizi e forniture, sottraendoli, così, ad una loro assimilabilità al trattamento economico accessorio)- maturati nel periodo temporale che decorre dall’entrata in vigore dello stesso decreto fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), vadano inclusi nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015, successivamente sostituito dall’art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017, nel caso la provvista dei predetti incentivi sia stata già predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi o forniture.
Lo scrutinio della questione all’esame della Sezione non può prescindere dalla disamina delle precedenti pronunce rese dalle Sezioni Riunite, dalla Sezione delle autonomie e da alcune Sezioni regionali di controllo per risolvere questioni analoghe.
Nella
deliberazione 13.11.2009 n. 16 di questa Sezione , che ha riconosciuto l’esclusione del vincolo per gli incentivi alla progettazione, è stata considerata rilevante la provenienza dei fondi, riconoscendo la natura di «spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento».
Il medesimo percorso ermeneutico è stato condiviso dalle Sezioni Riunite con la deliberazione 04.10.2011 n. 51, che ha escluso dal rispetto del limite di spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra i quali l’incentivo per la progettazione interna.
Sulla specifica questione degli incentivi per funzioni tecniche, nella deliberazione 06.04.2017 n. 7, è stato affermato che gli incentivi di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 «sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)». Il principio di diritto si impernia sulla distinzione tra gli incentivi c.d. “alla progettazione”, che erano previsti dal non più vigente articolo 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006, e quelli per le funzioni tecniche, di cui al soprarichiamato art. 113.
Il medesimo orientamento è stato ribadito da questa Sezione nella deliberazione 10.10.2017 n. 24, con la quale si è ritenuta inammissibile la questione sottoposta dalla Sezione di controllo della Liguria con deliberazione 29.06.2017 n. 58, in quanto l’assenza di decisioni contrastanti, nel frattempo assunte dalle Sezioni regionali, e la mancanza di argomentazioni giuridiche e/o fattuali nuove e diverse da quelle già esaminate con la richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7, facevano sì che la rimessione si configurasse, nella sostanza, «come una mera richiesta di riesame della decisione già assunta, sulla base dei medesimi elementi di fatto e di diritto già considerati».
In sostanza, nelle pronunce della Sezione delle autonomie non è stata rinvenuta una specificità nei compensi previsti per le funzioni tecniche tale da far ritenere non applicabile il limite stabilito per i trattamenti accessori. Ciò anche in funzione della rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione, nonché per il fatto che tali emolumenti essendo erogabili anche per gli appalti di servizi e forniture, si configuravano, ai sensi delle disposizioni normative all’epoca vigenti, come spesa di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale).
La Sezione delle autonomie, con deliberazione 26.04.2018 n. 6 ha, poi, enunciato il principio di diritto secondo il quale «Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017».
La Sezione, dunque, argomentando dal principio per cui «anche se l’allocazione contabile degli incentivi di natura tecnica nell’ambito del “medesimo capitolo di spesa” previsto per i singoli lavori, servizi o forniture potrebbe non mutarne la natura di spesa corrente - trattandosi, in senso oggettivo, di emolumenti di tipo accessorio spettanti al personale...», ha affermato che «...la contabilizzazione prescritta ora dal legislatore sembra consentire di desumere l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e dalla spesa per il trattamento accessorio».
Più precisamente, richiamando quanto già espresso dal Giudice contabile, e, dunque, che «gli incentivi per le funzioni tecniche sono, per loro natura, estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale, che hanno come parametro di riferimento un predeterminato anno base (qual è anche l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017)», la Sezione ha ritenuto che «il comma 5-bis rafforza tale intendimento e individua come determinante, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto».
Dunque, “..sul piano logico..”, continuava la Sezione, «…l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere. La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale…... Pertanto, il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale. Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017».
Con riferimento al quesito de quo –e cioè se gli incentivi maturati nel periodo intertemporale predetto (anni 2016-2017) rientrino nei limiti di spesa del trattamento accessorio del personale– si richiamano, altresì, i diversi orientamenti delle Sezioni regionali di controllo successivi alla richiamata deliberazione 26.04.2018 n. 6.
Più precisamente, una prima opzione ermeneutica (Veneto parere 13.11.2018 n. 405, Lombardia parere 27.09.2018 n. 258 e Umbria parere 28.03.2019 n. 56) che –proprio valorizzando la deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione delle autonomie, per la quale l’articolo 5-bis del citato decreto ha valenza innovativa e non interpretativa– richiamando il principio tempus regit actum, ritiene, fino all’entrata in vigore della novella normativa, detti incentivi siano da includere nel tetto dei trattamenti accessori.
Altro orientamento, di segno opposto, (Veneto parere 25.07.2018 n. 265 e parere 14.11.2018 n. 429) considera che l’effetto innovativo dell’articolo 5-bis non può non ripercuotersi sugli stanziamenti di bilancio già effettuati per la realizzazione dell’opera pubblica (tra i quali rientrano gli incentivi tecnici) i quali –essendo già stanziati sui relativi capitoli dell’appalto prima dell’avvento della novella introdotta dal citato articolo- cessano di concorrere al tetto retributivo dei trattamenti accessori.
Dal che, secondo la prospettazione effettuata, ne discenderebbe, nel rispetto di quanto espresso dalla Sezione delle autonomie con deliberazione 26.04.2018 n. 6, l’intangibilità dell’effetto innovativo e non interpretativo della norma, non essendosi consumato nel 2017 la conseguenza del cumulo degli incentivi tecnici col trattamento accessorio del personale.
In conformità a questo orientamento si richiama, altresì, la Sezione Umbria con
parere 05.02.2018 n. 14, ove afferma che: «sia il comma 1 che il comma 2 dell’art. 113 citato, già disponevano che tutte le spese afferenti agli appalti di lavori, servizi o forniture, debbano trovare imputazione sugli stanziamenti previsti per i predetti appalti. Il comma 5-bis rafforza tale intendimento e individua come determinante, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto».
CONSIDERATO
La questione, oggetto del richiesto pronunciamento da parte della Sezione delle autonomie, tende, in sostanza, a conoscere se, ove gli incentivi per funzioni tecniche siano stati imputati nei singoli quadri economici degli appalti affidati ancor prima dell’effettiva entrata in vigore -a far data dal 01.01.2018- della novellata disposizione del Codice degli appalti, questa imputazione contabile si sottrarrebbe (anche per il periodo temporale 2016–2017) ai limiti di spesa del trattamento accessorio del personale.
Prima di esprimere le proprie considerazioni in merito, il Collegio ritiene opportuno ripercorrere le principali tappe che la materia de qua ha percorso nel suo travagliato cammino.
L’articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, nella sua originaria formulazione, è stato interpretato dalla Sezione delle autonomie con le deliberazioni n. 7 e n. 24 del 2017, come norma che non sottraeva gli incentivi tecnici dal tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015 e ss.mm.
La disposizione, infatti, secondo le richiamate deliberazioni, a differenza della normativa relativa agli incentivi dovuti per la progettazione di cui all’articolo 113, comma 1, disciplinerebbe incentivi per attività -quali programmazione per la spesa degli investimenti, valutazione preventiva dei progetti, predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti, di RUP, di direzione dei lavori, di direzione dell’ esecuzione e di collaudo tecnico, di verifica di conformità, di collaudatore statico- che non avrebbero carattere di continuità e sarebbero, conseguentemente, attratti nel solco dei trattamenti economici accessori del personale in servizio e, dunque, nei relativi tetti di spesa.
In seguito, l’articolo 113 è stato novellato dalla l. n. 205/2017, il cui articolo 1, comma 526, introducendo il comma 5-bis, ha esplicitamente disposto che «gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa per i singoli lavori, servizi e forniture».
In tal senso, dunque, è stata definita anche la portata del comma 2 della citata disposizione che ha trovato, altresì, l’avallo interpretativo della Sezione delle autonomie.
La Sezione, infatti, con successiva deliberazione 26.04.2018 n. 6, ha espresso la massima per cui «gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, nel testo modificato dall’art. 1, comma 526 della l. n. 205/2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017».
Si chiarisce, dunque, la natura di tali incentivi, sottraendoli al vincolo del trattamento accessorio a far data dell’entrata in vigore della legge di bilancio 2018 (01.01.2018).
Nel solco prospettico così delineato, e tornando al quesito posto all’attenzione di questa Sezione, e cioè se, ove gli incentivi per funzioni tecniche siano stati imputati nei singoli quadri economici degli appalti affidati ancor prima dell’effettiva entrata in vigore -a far data dal 01.01.2018- della novellata disposizione del Codice degli appalti, questa imputazione contabile li sottrarrebbe, anche per il periodo temporale 2016–2017, ai limiti di spesa del trattamento accessorio del personale, la risposta deve essere, a parere del Collegio, negativa, per le ragioni che seguono.
La disposizione del codice dei contratti, nella sua originaria formulazione, era stata, come riferito, chiaramente interpretata dalla Sezione delle autonomie nelle citate deliberazioni n. 7 e n. 24 del 2017, coerenti, tra l’altro, con l’orientamento espresso dalla Sezioni Riunite con deliberazione 04.10.2011 n. 51, nel senso gli incentivi di cui all’articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 «sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)».
Il principio di diritto era fondato sulla distinzione tra gli incentivi c.d. “alla progettazione”, che erano previsti dal non più vigente articolo 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006, e gli incentivi per le funzioni tecniche, di cui al soprarichiamato art. 113.
Il quadro giuridico, così come delineato in sede nomofilattica dalla Sezione, dunque, non lasciava margini di opinabilità circa il corretto inquadramento e il conseguente trattamento contabile di detti incentivi.
Aderire, pertanto, ad una diversa opzione ermeneutica, ritenendo, pur se non formalmente, sostanzialmente superabile quanto poi chiarito dalla stessa Sezione delle autonomie con la deliberazione 26.04.2018 n. 6 -che ha espressamente richiamato la portata innovativa e non interpretativa del comma 5-bis novellante l’articolo 113– rischia in definitiva di contrastare, oltre che con specifiche disposizioni cristallizzate nel Codice dei contratti disciplinanti le relazioni temporali tra azione amministrativa e leggi sopravvenute, altresì con i principi generali in materia di successione di leggi nel tempo e dei loro effetti.
Sul piano strettamente testuale, infatti, depone sfavorevolmente ad una diversa interpretazione la disposizione transitoria contenuta nel codice dei contratti pubblici –l’art. 216 del d.lgs. n. 50/2016- per cui, in coerenza con il principio tempus regit actum, «le disposizioni del Testo unico si applicano alle procedure ed ai contratti per le quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore, nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure ed ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte».
Sul piano sostanziale, non persuade l’affermazione per cui l’effetto innovativo non può non ripercuotersi sugli stanziamenti di bilancio già effettuati per la «realizzazione dell’opera pubblica, tra i quali rientrano gli incentivi tecnici, in quanto l’effetto del cumulo degli stessi con il trattamento accessorio del personale non si sarebbe consumato nell’anno 2017 con l’accertamento del diritto alla corresponsione ed il relativo impegno di spesa», ma è destinato ad essere considerato e, dunque, escluso, in epoca successiva all’entrata in vigore della novella normativa (in tal senso, Veneto, parere 25.07.2018 n. 265 e parere 14.11.2018 n. 429).
Con riferimento, infatti, al delicato tema del rapporto tra tempo e azione amministrativa, noto è il ripensamento del tradizionale principio tempus regit actum e la tendenza verso un modello di amministrazione incentrato sull’azione e non sul singolo atto, al fine di delineare correttamente il perimetro applicativo di una legge sopravvenuta, espressa nel brocardo tempus regit actionem.
Tuttavia, richiamare la non consumazione del potere, perché la conseguenza del cumulo degli incentivi tecnici con il trattamento accessorio del personale non si sarebbe determinata con il solo impegno della spesa, salvaguardando, così, per ius superveniens, una scelta contabile evidentemente produttiva di effetti sul piano del diritto sostanziale, non appare in linea con il richiamato percorso argomentativo in precedenza palesato nei diversi orientamenti della magistratura contabile e successivamente definito con la deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione delle autonomie.
Ove, infatti, la Sezione con tale pronuncia afferma che, «il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale» e che, quale logica conseguenza di questa diversa allocazione contabile, «... Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017», evidentemente, collega ad una diversa contabilizzazione prescritta dal legislatore effetti sostanziali quali l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e da quella per il trattamento accessorio.
Tanto è, tra l’altro, ribadito dalla stessa Sezione ove, ancora in quella sede, nel corso del suo iter argomentativo afferma, con riferimento alle ragioni di diritto sostanziale sottese la norma, che «...l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere».
Opinare diversamente, consentendo, così, una legittimazione ex post a condotte amministrative non in linea con quanto espresso in sede nomofilattica da questa Sezione nell’interpretare una legge al tempo vigente, rischia di porsi in contrasto con un principio di certezza del diritto a cui è funzionale la nomofilachia, ove legislativamente ammessa.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per le Marche con la deliberazione 16.05.2019 n. 30, enuncia il seguente principio di diritto:
«
Gli incentivi tecnici previsti dall’articolo 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso articolo, maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata in vigore dello stesso, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015, successivamente modificato dall’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017, pur se la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi e forniture» (Corte dei Conti, Sez. autonomie, deliberazione 30.10.2019 n. 26).

ENTI LOCALIScuolabus, comuni liberi. Possono erogare gratuitamente il servizio. La sezione autonomie della Corte conti pone fine alla querelle.
Comuni liberi sul pagamento del servizio di trasporto scolastico. Nell'ambito della propria autonomia finanziaria e nel rispetto degli equilibri di bilancio, nonché della clausola di invarianza finanziaria, gli enti possono coprire i costi del servizio con risorse proprie e quindi possono erogarlo gratuitamente agli utenti più deboli e disagiati. Per il resto dell'utenza, i municipi devono definire «un piano diversificato di contribuzione delle famiglie beneficiarie del servizio» in base alla diverse situazioni economiche in cui i nuclei familiari versano.
Nella deliberazione 18.10.2019 n. 25 la sezione autonomie della Corte dei conti trova il punto di equilibrio tra la salvaguardia dei bilanci comunali e la tutela del diritto allo studio, messa a rischio da alcune recenti letture dei magistrati contabili che avrebbero avuto come conseguenza il pagamento degli scuolabus anche da parte delle fasce di utenti più disagiate per reddito o per provenienza geografica.
Il problema. Tutto nasce col parere 06.06.2019 n. 46 della Corte conti del Piemonte che ha qualificato il servizio di trasporto scolastico come trasporto pubblico locale e non più come servizio a domanda individuale, con la conseguenza che i municipi sarebbero tenuti in sede di copertura alla stretta osservanza del principio dell'equilibrio economico, scaricando in tal modo i costi a totale carico dell'utenza.
La pronuncia ha creato il panico soprattutto tra i piccoli comuni, preoccupati di non poter continuare a garantire la gratuità di un servizio che proprio nei mini-enti, spesso collocati in territori montani e disagiati, diventa essenziale per garantire il diritto allo studio.
Alla delibera dei giudici contabili piemontesi ha fatto seguito una pronuncia della Corte conti Puglia (parere 25.07.2019 n. 76) che ha parzialmente mitigato la tesi della sezione regionale del Piemonte affermando che tra le risorse volte ad assicurare l'integrale copertura dei costi possono essere ricomprese «le contribuzioni regionali e quelle autonomamente destinate dall'ente nella propria autonomia finanziaria purché reperite nel rispetto della clausola d'invarianza finanziaria espressa nel divieto di nuovi o maggiori oneri, con corrispondente minor aggravio a carico dell'utenza».
Una conclusione che, pur confermando la validità delle argomentazioni della delibera piemontese, ha aperto alla possibilità per i comuni di continuare a erogare i contributi per il servizio di scuolabus, anche a copertura integrale dei costi, a condizione che vengano ridotti gli importi di altre spese in modo da non aumentare la spesa complessiva.
La richiesta di parere dell'Anci. Per dirimere il contrasto tra la pronuncia più restrittiva della sezione regionale piemontese e quella più «a maglie larghe» della Corte conti Puglia, l'Anci ha chiesto un parere alla sezione autonomie, sostenendo la necessità di una lettura «costituzionalmente orientata» dell'articolo 117 Tuel e delle norme del dlgs 63/2017, fondata sul fatto che il trasporto scolastico è strumento di garanzia «ampia a sostanziale del diritto allo studio sancito dall'art. 34 della Costituzione e quindi, in ultima istanza, strumento fondamentale per il pieno sviluppo della persona umana».
Secondo l'Anci, un'interpretazione rigida delle norme, che escludesse la possibilità di un qualsiasi intervento finanziario da parte dei comuni, avrebbe portato al paradosso di negare la natura giuridica del servizio di scuolabus quale servizio pubblico locale, da garantire utilizzando anche risorse proprie nel rispetto degli equilibri di bilancio.
La delibera della sezione autonomie. La sezione autonomie ha condiviso le argomentazioni dell'Anci, aprendo di fatto alla possibilità per i comuni di dare copertura, nell'ambito della propria autonomia finanziaria, al trasporto pubblico scolastico. Una chance che avrebbe potuto essere già sancita da una norma di legge se il cosiddetto decreto scuola, approvato a inizi agosto dal precedente esecutivo M5S-Lega e mai approdato in Gazzetta Ufficiale, non fosse stato travolto dalla crisi di governo.
La possibilità di finanziare il servizio scuolabus è stata inserita nel nuovo decreto legge approvato il 10 ottobre dal consiglio dei ministri ma anche questo non è ancora in vigore visto che il dl non è ancora approdato in Gazzetta. In ogni caso, in attesa che l'intervento del legislatore diventi finalmente vigente, la sezione autonomie mette un punto fermo alla querelle giurisprudenziale.
«Se da un lato la copertura dei servizi pubblici generali e di quelli a domanda individuale o ad istanza di parte, deve avvenire in equilibrio economico-finanziario ai sensi dell'art. 117 Tuel», si legge nel parere, «dall'altro la fruibilità del servizio di trasporto scolastico comunale è rilevante ai fini della concreta implementazione di misure che garantiscano il diritto allo studio, tutelato a livello costituzionale dagli artt. 3, 33 e 34 Cost. e da intendersi nel senso di possibilità, per chiunque ed a prescindere dalla sua situazione economica, di accedere al sistema scolastico: diritto cui lo Stato deve far fronte atteso che l'art. 3 Cost. pone a suo carico l'onere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
Per questo, conclude la sezione autonomie, «il punto di equilibrio tra i due valori costituzionalmente tutelati (equilibrio di bilancio e diritto allo studio) non può prescindere da una lettura dell'art. 117 Tuel e del comma 2 dell'art. 5 del dlgs n. 63/2017, che consenta agli enti, nell'ambito della propria autonomia finanziaria e nel rispetto degli equilibri di bilancio, declinati dalla legge 30.12.2018, n. 145, nonché della clausola d'invarianza finanziaria, di dare copertura al servizio con risorse proprie».
Il che significa erogare gratuitamente il servizio nei confronti delle categorie di utenti più deboli e definire in anticipo un piano diversificato di contribuzione degli altri utenti «in conseguenza delle diverse situazioni economiche in cui gli stessi versano» (articolo ItaliaOggi del 19.10.2019).

ENTI LOCALI: Copertura finanziaria al servizio di trasporto scolastico - equilibri di bilancio (legge di bilancio, 30.12.2018, n. 145 (legge di bilancio 2019) e clausola d’invarianza finanziaria.
Gli Enti locali, nell’ambito della propria autonomia finanziaria, nel rispetto degli equilibri di bilancio, quali declinati dalla legge 30.12.2018, n. 145 (legge di bilancio 2019) e della clausola d’invarianza finanziaria, possono dare copertura finanziaria al servizio di trasporto scolastico anche con risorse proprie, con corrispondente minor aggravio a carico all’utenza.
Fermo restando i principi di cui sopra, laddove l’Ente ne ravvisi la necessità motivata dalla sussistenza di un rilevante e preminente interesse pubblico oppure il servizio debba essere erogato nei confronti di categorie di utenti particolarmente deboli e/o disagiati, la quota di partecipazione diretta dovuta dai soggetti beneficiari per la fruizione del servizio può anche essere inferiore ai costi sostenuti dall’Ente per l’erogazione dello stesso, o nulla o di modica entità, purché individuata attraverso meccanismi, previamente definiti, di gradazione della contribuzione degli utenti in conseguenza delle diverse situazioni economiche in cui gli stessi versano.
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PREMESSO
1. La questione di massima oggi all’esame è stata sollevata dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani (di seguito ANCI) ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, come modificato dall’art. 10-bis del d.l. 24.06.2016, n. 113, convertito dalla l. 07.08.2016, n. 160.
La richiamata disposizione ha, invero, introdotto in materia di attività consultiva della Corte la richiesta diretta alla Sezione delle autonomie di pareri in materia di contabilità pubblica, individuando per i Comuni, le Province e le Città metropolitane le rispettive componenti rappresentative nell'ambito della Conferenza unificata quali soggetti legittimati alla medesima.
Avvalendosi, quindi, di tale disposizione di legge l’ANCI, con nota indirizzata al Presidente della Corte dei conti prot. n. 97/VSG/SD-19 del 23.09.2019 (acquisita in pari data al protocollo della Corte con il n. 2552/PRES-A45-A), ha richiesto un parere in ordine alla modalità di copertura finanziaria dei costi del servizio di trasporto scolastico e, nello specifico, se «la quota di partecipazione diretta dovuta dalle famiglie per l’accesso ai servizi di trasporto degli alunni può essere inferiore ai costi sostenuti dall’ente locale per l’erogazione del servizio, o anche nulla, nel rispetto degli equilibri di bilancio di cui all’articolo 1, commi da 819 a 826, della legge 30.12.2018, n. 145».
1.1. In proposito l’ANCI rappresenta che alla luce della normativa di riferimento -d.lgs. 13.04.2017, n. 63 che dispone in materia di «Effettività del diritto allo studio attraverso la definizione delle prestazioni, in relazione ai servizi alla persona, con particolare riferimento alle condizioni di disagio e ai servizi strumentali, nonché potenziamento della carta dello studente, a norma dell'articolo 1, commi 180 e 181, lettera f), della legge 13.07.2015, n. 107»- gli enti locali sono tenuti a garantire i servizi di trasporto scolastico in quanto servizio prioritario per il supporto al diritto allo studio, finalizzato a perseguire l'uguaglianza sostanziale degli studenti.
Richiama in particolare le disposizioni che individuano i servizi prioritari per il supporto al diritto allo studio che devono essere erogati dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti locali, finalizzati al perseguimento dell’uguaglianza sostanziale degli studenti, ai quali deve essere garantita in tutto il territorio nazionale l’effettività del diritto allo studio fino al completamento del percorso di istruzione secondaria di secondo grado e, specificatamente, gli artt. 2, 3 e 5 del menzionato d.lgs. n. 63 del 2017 all’uopo evidenziando che in base al combinato disposto dell’art. 2 (che individua i servizi da rendere in tutto il territorio nazionale, tra cui rientrano anche “i servizi di trasporto e forma di agevolazione della mobilità”) e dell’art. 3 (che determinano la gratuità dei servizi di cui all’art. 2 ovvero le modalità di contribuzione delle famiglie a copertura dei costi) il trasporto scolastico, in quanto riconducibile all’art. 2, dovrebbe essere erogato in forma gratuita.
Il successivo art. 5 che disciplina, specificatamente, i servizi di trasporto e le forma di agevolazione della mobilità, prevede, da un lato, che le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, assicurino «il trasporto delle alunne e degli alunni delle scuole primarie statali per consentire loro il raggiungimento della più vicina sede di erogazione del servizio scolastico» e che il servizio sia assicurato «su istanza di parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati» e, dall’altro, precisa che tale servizio deve essere assicurato «nei limiti dell'organico disponibile e senza nuovi o maggiori oneri per gli enti pubblici interessati».
Dalla lettura coordinata del suesposto impianto normativo, quindi, l’ANCI perviene alla conclusione che «tenuto conto delle rilevanti finalità sociali che i Comuni perseguono attraverso l’erogazione di tale servizio, non si può escludere dunque che nell'ambito della propria autonomia finanziaria e nel rigoroso rispetto degli equilibri di bilancio i Comuni possano finanziare lo stesso con risorse proprie».
1.2. Di diverso avviso, invece, la giurisprudenza contabile, anche recente, (nella richiesta di parere si citano le Sezioni regionale di controllo: Campania, parere 21.06.2017 n. 222; id., Sicilia, parere 10.10.2018 n. 178; Piemonte, parere 06.06.2019 n. 46; Puglia, parere 25.07.2019 n. 76) che, qualificando il trasporto scolastico come servizio pubblico di trasporto, lo ha escluso dalla disciplina normativa dei servizi pubblici a domanda individuale, espressamente individuati dal dm 31.12.1983, ancorando, di conseguenza, l’erogazione del servizio alla tariffazione di cui all’art. 117 Tuel.
L’Anci si sofferma in particolare sulle conclusioni a cui sono, di recente, pervenute le Sezioni regionali di controllo per il Piemonte e per la Puglia rispettivamente con la parere 06.06.2019 n. 46 e parere 25.07.2019 n. 76.
Sebbene in entrambe si affermi che «la natura di servizio pubblico, in quanto oggettivamente rivolto a soddisfare esigenze della collettività, comporta, pertanto, che per il trasporto scolastico siano definite dall’Ente adeguate tariffe a copertura dei costi, secondo quanto stabilito dall'articolo 117 del Tuel», con la conseguenza che la sua copertura finanziaria deve avvenire mediante i corrispettivi versati dai richiedenti il servizio, attraverso una quota «che, nel rispetto del rapporto di corrispondenza tra costi e ricavi, deve essere finalizzata ad assicurare l’integrale copertura dei costi del servizio» (in termini, Sezione regionale di controllo per il Piemonte, parere 06.06.2019 n. 46 cit.), non si esclude la possibilità di ricomprendere, tra le risorse volte ad assicurare l’integrale copertura dei costi, «le contribuzioni regionali e quelle autonomamente destinate dall’ente nella propria autonomia finanziaria purché reperite nel rispetto della clausola d’invarianza finanziaria espressa nel divieto dei nuovi e maggiori oneri (….), con corrispondente minor aggravio a carico all’utenza» (in termini, Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 25.07.2019 n. 76 cit.).
1.3. Ciò rappresentato, l’ANCI sostiene che una lettura costituzionalmente orientata delle suesposte norme «impone di considerare come il trasporto scolastico sia strumento di garanzia ampia e sostanziale del diritto allo studio sancito dall’articolo 34 della Costituzione, e quindi, in ultima istanza, strumento fondamentale per il pieno sviluppo della persona umana», sia in quanto «lo stesso legislatore ammette che il trasporto scolastico e le altre forme di mobilità, proprio in quanto trattasi di servizi pubblici essenziali a garanzia del diritto allo studio, possano essere erogati in forma gratuita, ovvero con contribuzione delle famiglie, dettando anche criteri di differenziazione per le tariffe», sia perché «Pur disciplinando quindi nell’articolo 5 del decreto le modalità di erogazione del servizio di trasporto scolastico, il legislatore, quando fa riferimento al pagamento di una quota di partecipazione diretta, non esclude che il Comune possa prevedere un piano tariffario che segua le modalità di cui alla norma generale di cui all’articolo 3, aggiungendo solo che sia attivabile su istanza di parte e senza maggiori o nuovi oneri per gli enti territoriali interessati, ossia rispettando i propri equilibri di bilancio».
Ad ulteriore supporto del proprio convincimento, richiama l’orientamento giurisprudenziale in virtù del quale la presenza di un corrispettivo non costituisce un elemento indefettibile nell’ambito dei servizi pubblici locali in quanto «non incide sulla qualifica di servizio pubblico il fatto che la prestazione sia o meno subordinata al pagamento di una tariffa: che lo stesso Testo Unico sull'ordinamento degli enti locali all'articolo 117 disciplini anche i criteri per la determinazione e la riscossione delle tariffe non esclude dall’ambito dei servizi pubblici locali quelli erogati senza un corrispettivo, sempre che le prestazioni siano strumentali all'assolvimento delle finalità sociali dell’ente, come avviene per il servizio di pubblica illuminazione» (Consiglio di Stato, sez. V, 16.12.2004, n. 8090 e 25.11.2010 n. 8231).
Ad avviso dell’ANCI, quindi, una diversa chiave di lettura protesa all’applicazione rigida dell’articolo 117 del TUEL, escludendo un qualsiasi intervento finanziario per il Comune, porterebbe al paradosso di negare la natura giuridica dello stesso servizio quale servizio pubblico locale, che va –per definizione- comunque garantito utilizzando anche risorse proprie, nel rispetto degli equilibri di bilancio.
Di qui la formulazione del parere all’esame.
1.4. Il Presidente della Corte, con propria ordinanza n. 21 del 24.09.2019, ha deferito l’esame e la pronuncia della prospettata questione alla Sezione delle autonomie.
CONSIDERATO
2.1 La questione di massima all’esame, sollevata dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, come modificato dall’art. 10-bis del d.l. 24.06.2016, n. 113, convertito dalla l. 07.08.2016, n. 160, involge la corretta interpretazione delle norme che disciplinano la copertura finanziaria del servizio di trasposto scolastico e, nello specifico, se la quota di partecipazione diretta dovuta dalle famiglie per l’accesso ai servizi di trasporto degli alunni possa essere inferiore ai costi sostenuti dall’ente locale per l’erogazione del servizio, o anche nulla, nel rispetto degli equilibri di bilancio di cui all’art. 1, commi da 819 a 826, della legge 30.12.2018, n. 145 (legge di bilancio 2019).
In altri termini si chiede di conoscere se, tenuto conto delle rilevanti finalità sociali che gli Enti Locali perseguono attraverso l’erogazione di tale servizio, sia consentito che gli stessi, nell’ambito della propria autonomia finanziaria e nel rispetto degli equilibri di bilancio, possano finanziare il predetto servizio con risorse proprie.
2.2. Il quesito trae origine dalla necessità di coordinare il quadro normativo del finanziamento dei servizi pubblici locali che fanno capo all’articolo 117 TUEL con le finalità sociali perseguite attraverso l’erogazione del servizio di trasporto scolastico, alla luce anche dei recenti orientamenti espressi dalla magistratura contabile in sede consultiva. Ciò in quanto la giurisprudenza contabile (cfr.: Corte dei conti, Sezioni regionali di controllo: Campania, parere 21.06.2017 n. 222; Sicilia, parere 25.02.2015 n. 115 e parere 10.10.2018 n. 178; Piemonte, parere 06.06.2019 n. 46; Puglia, parere 25.07.2019 n. 76), investita di problematiche analoghe a quella in questa sede in esame, ha concordemente qualificato il servizio di trasporto scolastico come “trasporto pubblico locale” e, come tale, lo ha escluso dalla disciplina normativa dei “servizi pubblici a domanda individuale” poiché non ricompreso nell’elenco di cui al decreto interministeriale 31.12.1983, emanato ai sensi dell’art. 6, comma 3, del d.l. n. 55/1983, conv. L. n. 131/1983.
Pertanto, gli enti, nell’erogazione del predetto servizio, sarebbero tenuti, in sede di copertura, alla stretta osservanza del principio dell’equilibrio economico di cui alle disposizioni dell’art. 117 TUEL, che dispone in materia di tariffe dei servizi pubblici, ed in particolare all’osservanza del principio dell’equilibrio ex ante tra costi e risorse a copertura.
In conseguenza, la copertura del costo dovrebbe essere a totale carico dell'utenza. Ciò in quanto il richiamato art. 117 TUEL stabilisce che le tariffe –ossia i corrispettivi- dei servizi pubblici approvate dagli Enti interessati devono essere determinate in maniera tale «da assicurare l'equilibrio economico-finanziario dell'investimento e della connessa gestione» ed individua, quali criteri per il calcolo della tariffa relativa ai servizi stessi: a) la corrispondenza tra costi e ricavi in modo da assicurare la integrale copertura dei costi, ivi compresi gli oneri di ammortamento tecnico-finanziario; b) l'equilibrato rapporto tra i finanziamenti raccolti ed il capitale investito; c) l'entità dei costi di gestione delle opere, tenendo conto anche degli investimenti e della qualità del servizio; d) l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato.
Tuttavia, a fronte di tale univocità di orientamento circa la natura del servizio, differenti appaiono le conseguenze che le diverse Sezioni interessate hanno definito in ordine alla copertura dello stesso a mezzo di contributi dell’utenza.
Infatti un indirizzo non esclude che tra le risorse volte ad assicurare l’integrale copertura dei costi possono essere ricomprese le contribuzioni regionali e quelle autonomamente destinate dall’ente, nella propria autonomia finanziaria purché reperite nel rispetto della clausola d’invarianza finanziaria espressa nel divieto dei nuovi e maggiori oneri, con corrispondente minor aggravio a carico dell’utenza (Sezione regionale di controllo della Puglia, parere 25.07.2019 n. 76); altro orientamento non esclude la possibile erogazione gratuita del servizio in funzione di un motivato interesse pubblico, tanto più se il servizio assume carattere generalizzato, posto che la normativa non vieta la possibilità di graduare l’entità dei versamenti dovuti dall’utenza, ovviamente previa adeguata copertura (Sezioni regionali di controllo: Campania, parere 21.06.2017 n. 222; Sicilia, parere 25.02.2015 n. 115 e parere 10.10.2018 n. 178); una terza posizione (Sezione regionale di controllo per il Piemonte, parere 06.06.2019 n. 46) ritiene, infine, che la copertura del costo deve essere a totale carico dell'utenza, escludendo in radice una eventuale erogazione a titolo gratuito, posto che, in conformità alla prescrizione di “invarianza della spesa” di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 63/2017, la quota di partecipazione finanziaria a carico dell'utenza deve necessariamente concorrere alla copertura integrale della spesa sostenuta dal Comune per l'erogazione del servizio. Per tutte, comunque, «restano ferme le scelte gestionali e l'individuazione dei criteri di finanziamento demandate alla competenza dell'ente locale».
2.3. Nel merito, ai fini della risoluzione della questione di massima in esame, dirimente è la ricostruzione del quadro normativo in cui si colloca l’erogazione del servizio di trasporto scolastico comunale.
Ciò al fine di inquadrare correttamente sia la natura del servizio che la valenza della clausola di invarianza della spesa prescritta dall’art. 5 del d.lgs. 13.04.2017, n. 63 a mente del quale: «1. Nella programmazione dei servizi di trasporto e delle forme di agevolazione della mobilità, per le alunne e gli alunni, le studentesse e gli studenti sono incentivate le forme di mobilità sostenibile in coerenza con quanto previsto dall'articolo 5 della legge 28.12.2015, n. 221.
2. Le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, assicurano il trasporto delle alunne e degli alunni delle scuole primarie statali per consentire loro il raggiungimento della più vicina sede di erogazione del servizio scolastico. Il servizio è assicurato su istanza di parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati.
3. Tale servizio è assicurato nei limiti dell'organico disponibile e senza nuovi o maggiori oneri per gli enti pubblici interessati
».
In particolare, assumono rilievo le conseguenze da attribuirsi alla menzionata clausola di invarianza finanziaria, contenuta al secondo comma, in uno con la previsione di pagamento di una quota di partecipazione diretta di cui alla parte finale del medesimo comma.
2.4. Si osserva, in proposito, che il d.lgs. 13.04.2017, n. 63 -recante la disciplina in materia di «Effettività del diritto allo studio attraverso la definizione delle prestazioni, in relazione ai servizi alla persona, con particolare riferimento alle condizioni di disagio e ai servizi strumentali, nonché potenziamento della carta dello studente, a norma dell'articolo 1, commi 180 e 181, lettera f), della legge 13.07.2015, n. 107»- si inserisce in un contesto ordinamentale di riforme del settore finalizzate principalmente ad affermare il ruolo centrale della scuola nella società della conoscenza, ad innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti per contrastare anche le diseguaglianze socio-culturali e territoriali, per prevenire e recuperare l'abbandono e la dispersione scolastica, in coerenza con il profilo educativo, culturale e professionale dei diversi gradi di istruzione, per garantire il diritto allo studio, le pari opportunità di successo formativo e di istruzione permanente dei cittadini (art. 1 L. n. 107/2015).
Infatti la legge 13.07.2015, n. 107, recante la “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti”, ha delegato il Governo ad adottare, entro i diciotto mesi successivi alla sua entrata in vigore, uno o più decreti legislativi al fine di provvedere al riordino, alla semplificazione e alla codificazione delle disposizioni legislative in materia di istruzione (art. 1, comma 180), nel rispetto dei principi e criteri direttivi ivi contemplati (art. 1, comma 181) tra cui anche quello volto a garantire l’effettività «del diritto allo studio su tutto il territorio nazionale, nel rispetto delle competenze delle regioni in tale materia, attraverso la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, sia in relazione ai servizi alla persona, con particolare riferimento alle condizioni di disagio, sia in relazione ai servizi strumentali … (lett. f)».
In attuazione di detta delega il menzionato d.lgs. 13.04.2017, n. 63 individua e definisce, compatibilmente con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili, le modalità delle prestazioni in materia di diritto allo studio, in relazione ai servizi erogati dallo Stato, dalle regioni e dagli enti locali nel rispetto delle competenze e dell'autonomia di programmazione finalizzati a perseguire su tutto il territorio nazionale l'effettività del diritto allo studio delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti fino al completamento del percorso di istruzione secondaria di secondo grado. Il decreto definisce, altresì, le modalità per l'individuazione dei requisiti di eleggibilità per l'accesso alle prestazioni da assicurare sul territorio nazionale e individua i principi generali per il potenziamento della Carta dello studente (art. 1).
A tal fine il successivo art. 2 dispone che lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze e nei limiti delle effettive disponibilità finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente, devono programmare gli interventi per il sostegno al diritto allo studio delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti al fine di fornire, su tutto il territorio nazionale, una serie di servizi, puntualmente identificati, che, ai sensi del successivo art. 3, devono essere «erogati in forma gratuita ovvero con contribuzione delle famiglie a copertura dei costi, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».
In caso di contribuzione delle famiglie, il medesimo art. 3, co. 2, stabilisce che «gli enti locali individuano i criteri di accesso ai servizi e le eventuali fasce tariffarie in considerazione del valore dell'indicatore della situazione economica equivalente, di seguito denominato ISEE, ferma restando la gratuità totale qualora già prevista a legislazione vigente».
Tra i servizi da garantire su tutto il territorio nazionale per rendere effettivo il diritto allo studio, di cui al primo comma dell’art. 2 sopra menzionato, il legislatore colloca alla lett. a) -e, quindi, al primo posto- i “servizi di trasporto e forme di agevolazione della mobilità”. In ragione del combinato disposto degli artt. 2, co. 1, lett. a), e dell’art. 3 successivo, detti servizi dovrebbero, quindi, essere erogati in forma gratuita oppure con contribuzione delle famiglie, previa individuazione dei criteri di differenziazione per le tariffe. Ciò in quanto servizi essenziali a garanzia del diritto allo studio, contemplato e garantito dalla Carta Costituzionale.
Si osserva, a tal proposito, che la Costituzione all’art. 34, nel contemplare e garantire il diritto allo studio (“La scuola è aperta a tutti”) dispone l’obbligatorietà dell’istruzione inferiore per almeno otto anni che, in quanto tale, deve essere gratuita, nonché il diritto dei capaci e meritevoli a raggiungere i gradi più elevati del percorso scolastico («L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»).
Giova, inoltre, ricordare che, l’art. 3 Cost. pone a carico della Repubblica l’onere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Alla luce di tale contesto costituzionale va analizzato, in particolare, il successivo art. 5 del menzionato d.lgs. n. 63/2017.
Detto articolo, rubricato genericamente “Servizi di trasporto e forme di agevolazione della mobilità”, oltre a promuovere l’incentivazione delle forme di mobilità sostenibile in coerenza con quanto previsto dall'articolo 5 della legge 28.12.2015, n. 221 -recante le “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali"- disciplina, nello specifico, il servizio di trasporto scolastico per le cd. “fasce protette”, in ragione della giovane età, di studenti.
Infatti, stabilisce espressamente che il servizio di trasporto scolastico deve essere assicurato alle “alunne” e agli “alunni” delle “scuole primarie statali” -quindi ad una utenza circoscritta in maniera puntuale, individuata negli studenti della c.d “scuola dell’obbligo”- al fine di «consentire loro il raggiungimento della più vicina sede di erogazione del servizio scolastico» e, quindi, allo scopo di garantire effettivamente agli stessi il diritto allo studio.
Detto diritto, infatti, in assenza del servizio, potrebbe risultare compromesso dalle probabili difficoltà insite nel raggiungimento della sede scolastica da parte dei predetti alunni/alunne che, in quanto minori, necessitano di essere accompagnati. La norma qualifica espressamente anche la natura del servizio e le modalità di copertura. Dispone, infatti, che il servizio «è assicurato su istanza di parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati». La clausola di invarianza viene ulteriormente ribadita al comma 3 laddove si dispone che «tale servizio è assicurato nei limiti dell'organico disponibile e senza nuovi o maggiori oneri per gli enti pubblici interessati».
2.5. Fermo restando quanto sin qui evidenziato, ai fini della compiuta valutazione della questione di massima all’esame occorre ora soffermarsi brevemente sui concetti di “trasporto pubblico locale” e di “servizio pubblico a domanda individuale” sui quali si fonda essenzialmente la risoluzione dei quesiti sottoposti all’attenzione delle Sezioni regionali di controllo di cui si è già detto.
Quanto al “trasporto pubblico locale” deve richiamarsi l’art. 1, co. 2, del d.lgs. 19.11.1997, n. 422 (Conferimento alle regioni ed agli enti locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15.03.1997, n. 59) in base al quale: «2. Sono servizi pubblici di trasporto regionale e locale i servizi di trasporto di persone e merci, che non rientrano tra quelli di interesse nazionale tassativamente individuati dall'articolo 3; essi comprendono l'insieme dei sistemi di mobilità terrestri, marittimi, lagunari, lacuali, fluviali e aerei che operano in modo continuativo o periodico con itinerari, orari, frequenze e tariffe prestabilite, ad accesso generalizzato, nell'ambito di un territorio di dimensione normalmente regionale o infra-regionale».
Ne discende che un servizio può essere qualificato come “trasporto pubblico locale” se ed in quanto ricomprenda tutto l’insieme dei sistemi di mobilità operanti sul territorio in modo continuativo e/o periodico che si caratterizzino per: − l’oggetto del trasporto, che indifferentemente può essere di persone o merci, ovvero entrambe; − la fruizione, in quanto ad accesso generalizzato nell’ambito di un territorio di dimensione regionale o infra-regionale. Per la fruizione del servizio non vi sono condizioni di accesso salvo il pagamento del biglietto; − la predeterminazione degli itinerari, degli orari e delle tariffe.
In conseguenza, il servizio di trasporto scolastico non può essere qualificato come “trasporto pubblico locale” in quanto privo degli elementi qualificanti di questo. Al trasporto scolastico infatti può accedere solo una ben precisa tipologia di utenza (studenti residenti sul territorio e per il servizio di cui all’art. 5, co. 2, solo studenti della scuola primaria statale), i percorsi e gli orari sono strettamente funzionali alla fruizione del servizio scolastico e non vi è una tariffazione ma, al più, una contribuzione.
Quanto alla qualificazione del “servizio pubblico a domanda individuale” soccorre il Decreto ministeriale 31.12.1983 -emanato dal Ministero dell'Interno di concerto con i Ministeri del Tesoro e delle Finanze, ai sensi e per gli effetti dell'art. 6 del d.l. 28.02.1983, n. 55, convertito, con modificazioni, nella legge 26.04.1983, n. 131, recante “Provvedimenti urgenti per il settore della finanza locale per l'anno 1983”- alla luce del quale per servizi pubblici a domanda individuale devono intendersi tutte quelle attività gestite direttamente dall'ente, che siano poste in essere non per obbligo istituzionale oppure che vengono utilizzate a richiesta dell'utente e che non siano state dichiarate gratuite per legge nazionale o regionale.
Ad ogni modo non possono essere considerati servizi pubblici a domanda individuale quelli a carattere produttivo, per i quali il regime delle tariffe e dei prezzi esula dalla disciplina del menzionato art. 6 del decreto-legge 28.02.1983, n. 55. Il D.M. individua le categorie dei servizi pubblici locali a domanda individuale tenuto conto che, ai sensi del primo comma dello stesso art. 6 del d.l. 28.02.1983, n. 55, sono comunque compresi fra detti servizi gli asili nido, i bagni pubblici, i mercati, gli impianti sportivi, i trasporti funebri, le colonie ed i soggiorni, i teatri ed i parcheggi comunali e che, ai sensi del combinato disposto dell'ultimo comma del menzionato art. 6 e dell'art. 3 del decreto-legge 22.12.1981, n. 786, convertito in legge 26.02.1982, n. 51, sono esclusi dalla disciplina ivi prevista i servizi gratuiti per legge statale o regionale, quelli finalizzati all'inserimento sociale dei portatori di handicap, quelli per i quali le (allora) vigenti norme prevedevano la corresponsione di tasse, diritti o di prezzi amministrati ed i servizi di trasporto pubblico.
La qualificazione di servizio pubblico a domanda individuale implica la predeterminazione della misura percentuale della quota dei costi complessivi da finanziarsi da tariffe o contribuzioni, in forza del già richiamato art. 6 del d.l. 55/1983, il quale stabilisce che: «Le province, i comuni, i loro consorzi e le comunità montane sono tenuti a definire, non oltre la data della deliberazione del bilancio, la misura percentuale dei costi complessivi di tutti i servizi pubblici a domanda individuale -e comunque per gli asili nido, per i bagni pubblici, per i mercati, per gli impianti sportivi, per il servizio trasporti funebri, per le colonie e i soggiorni, per i teatri e per i parcheggi comunali- che viene finanziata da tariffe o contribuzioni ed entrate specificamente destinate. 2. Con lo stesso atto vengono determinate le tariffe e le contribuzioni (….). Omissis
5.1. (…) L'individuazione dei costi di ciascun anno è fatta con riferimento alle previsioni di bilancio dell'anno relativo». Il servizio di trasporto scolastico non è ricompreso nell’elenco di cui al richiamato DM 31.12.1983. Ciò ha determinato l’univoco orientamento giurisprudenziale, in precedenza richiamato, che ha ritenuto che «il servizio di trasporto scolastico sia pleno iure un servizio pubblico di trasporto, e, come tale, escluso dalla disciplina normativa dei servizi pubblici a domanda individuale
» (cfr., Corte dei conti, Sezioni regionali di controllo: Campania, parere 21.06.2017 n. 222; Sicilia, parere 25.02.2015 n. 115 e parere 10.10.2018 n. 178; Piemonte, parere 06.06.2019 n. 46; Puglia, parere 25.07.2019 n. 76).
Più risalente nel tempo, anche se nella piena vigenza del richiamato decreto interministeriale, la parere 14.09.2011 n. 80 della Sezione Regionale di controllo per il Molise in cui è stato, invece, sostenuto che, sebbene il servizio di trasporto scolastico non sia ricompreso nell’elenco di cui al richiamato art. 6 del d.l. n. 55/1983, convertito nella legge 26.04.1983, n. 131, in relazione allo stesso «possa agevolmente affermarsi che, per le sue caratteristiche, rientri nel concetto di servizio a domanda individuale. Condizione fondamentale della decisione di attivare o meno un servizio a domanda individuale è che sussistano nell’ente le condizioni economiche per farlo».
Alla luce del richiamato quadro normativo, tuttavia, nonostante ne presenti alcuni tratti caratteristici, osta alla qualificazione del servizio di trasporto scolastico come “servizio pubblico a domanda individuale” la circostanza che la sua erogazione è doverosa per legge.
2.6. Per le motivazioni di cui appresso, infatti, l’unica qualificazione del servizio di che trattasi rispettosa del dettato normativo che ne disciplina l’erogazione, porta a ricondurre il trasporto scolastico ad un servizio pubblico essenziale a garanzia del primario diritto allo studio la cui mancata fruizione può, di fatto, inibire allo studente il raggiungimento della sede scolastica, con conseguente illegittima compressione del diritto costituzionalmente garantito.
Si impone, quindi, una lettura coordinata degli artt. 1, 2, 3 e 5 del d.lgs. n. 63/2017 che, come già evidenziato, detta le disposizioni per rendere effettivo il diritto allo studio attraverso la definizione delle prestazioni, in relazione ai servizi alla persona, con particolare riferimento alle condizioni di disagio e ai servizi strumentali, nonché al potenziamento della carta dello studente di cui al successivo art. 10.
I richiamati articolati di legge qualificano i servizi essenziali, i beneficiari degli stessi nonché le modalità di erogazione del servizio di trasporto scolastico che deve essere erogato, in via generale, alle «alunne e alunni, studentesse e studenti fino al completamento del percorso di istruzione secondaria di secondo grado» e, in particolare, assicurato alle “alunne” e agli “alunni”, della sola scuola primaria statale, cioè agli studenti della cd. “scuola dell’obbligo”, appartenenti alla fascia di età più giovane, al fine di consentire loro la possibilità di raggiungere la sede più vicina in cui possono usufruire del servizio scolastico.
Per detto servizio il legislatore fa esplicito riferimento al servizio di trasporto scolastico e dispone che l’accesso avvenga su istanza di parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati.
Ne consegue che il servizio di che trattasi, per le sue peculiari caratteristiche, assolve alle funzioni di servizio pubblico essenziale posto a garanzia del diritto allo studio, diritto contemplato e garantito dalla Carta Costituzionale, la cui erogazione, nella ricorrenza dei presupposti di legge, deve essere assicurata da tutti i soggetti costituenti la Repubblica Italiana (art. 114 Cost.) sulla base del principio di sussidiarietà verticale, in conformità al quale l’erogazione del servizio spetta all’Ente Locale, in quanto soggetto più prossimo al cittadino.
La norma stessa, poi, stabilisce che, al pari degli altri servizi contemplati nell’art. 2 (mensa, fornitura dei libri di testo e degli strumenti didattici indispensabili negli specifici corsi di studi, quelli per le alunne e gli alunni, le studentesse e gli studenti ricoverati in ospedale, in case di cura e riabilitazione, nonché per l'istruzione domiciliare), il servizio di trasporto scolastico può essere erogato in forma gratuita, oppure con contribuzione delle famiglie: in tal caso previa individuazione da parte dell’Ente Locale dei criteri di accesso ai servizi e delle eventuali fasce tariffarie in considerazione del valore dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), ferma restando la gratuità totale qualora già prevista a legislazione vigente e ferma restando la clausola di invarianza finanziaria (senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica).
La disposizione, quindi, non esclude né la possibile erogazione a titolo gratuito del servizio, né la possibile gradazione della contribuzione delle famiglie in conseguenza delle diverse situazioni economiche in cui le stesse versano. Detti servizi, infatti, essendo rimessi all'autonomia degli enti locali nei limiti delle risorse disponibili, non comportano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, così come precisato nella Relazione Tecnica a corredo della legge in esame.
Quanto, poi, al servizio di trasporto scolastico di cui all’art. 5, co. 2, le modalità di erogazione e di copertura sono già stabilite della norma: il servizio è assicurato ad istanza di parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, fermo restando che l’erogazione non deve comportare nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati.
Anche in tale caso, la disciplina legislativa non impone la copertura del servizio a totale carico dell’utenza. Riprova ne è la previsione espressa della clausola di invarianza finanziaria («l’erogazione non deve comportare nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati») che, diversamente opinando, non avrebbe avuto alcuna utilità e, anzi, sarebbe stata incongruente con la previsione di una copertura integrale del costo del servizio da parte dei beneficiari.
Si osserva, sul punto, che, a livello generale e sia pure in occasione di altre e diverse problematiche interpretative, la clausola di invarianza finanziaria è stata intesa dalla magistratura contabile, nel senso che l’amministrazione deve provvedere attingendo alle “ordinarie” risorse finanziarie, umane e materiali di cui può disporre a legislazione vigente. «L’invarianza non preclude la spesa “nuova” solo perché non precedentemente sostenuta o “maggiore” perché di importo superiore alla precedente previsione (laddove prevista), ma la decisione di spesa comporterà “oneri” nuovi e maggiori se aggiuntivi ed esondanti rispetto alle risorse ordinarie (finanziarie, umane e materiali) che a legislazione vigente garantiscono l’equilibrio di bilancio» (in termini, Sezione regionale di controllo per la Campania, parere 06.05.2019 n. 102).
 Ne consegue che la previsione di bilancio costituisce sia il presupposto che il limite della spesa complessivamente ammessa.
3. In conclusione, dal ricostruito quadro normativo di riferimento e dall’esame delle finalità perseguite dal legislatore con la riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione, emerge che, se da un lato la copertura dei servizi pubblici generali e di quelli a domanda individuale o ad istanza di parte, deve avvenire in equilibrio economico-finanziario ai sensi dell’art. 117 TUEL, dall’altro la fruibilità del servizio di trasporto scolastico comunale è rilevante ai fini della concreta implementazione di misure che garantiscano il diritto allo studio, tutelato a livello costituzionale dagli artt. 3, 33 e 34 Cost. e da intendersi nel senso di possibilità, per chiunque ed a prescindere dalla sua situazione economica, di accedere al sistema scolastico: diritto cui lo Stato deve far fronte atteso che l’art. 3 Cost. pone a suo carico l’onere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Si ricorda tra l’altro che, come in precedenza già precisato, «l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita» (art. 34 Cost.).
Pertanto, il punto di equilibrio tra i due valori costituzionalmente tutelati (equilibrio di bilancio e diritto allo studio) non può prescindere da una lettura delle disposizioni di cui all’art. 117 del TUEL e del comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. n. 63/2017, in uno con i precedenti art. 2 e 3, che consenta agli Enti, nell’ambito della propria autonomia finanziaria e nel rispetto degli equilibri di bilancio, quali declinati dalla legge 30.12.2018, n. 145 (presenza di un risultato di competenza non negativo desumibile, per ciascun anno dal prospetto della verifica degli equilibri allegato al rendiconto di gestione), nonché della clausola d’invarianza finanziaria, di dare copertura finanziaria al servizio con risorse proprie e, di conseguenza, da un lato, di erogare gratuitamente il servizio nei confronti delle categorie di utenti più deboli e/o disagiati, laddove sussista un rilevante e preminente interesse pubblico, e, dall’altro, di definire un piano diversificato di contribuzione delle famiglie beneficiarie del servizio, secondo le modalità della norma generale di cui all’articolo 3.
4. Si evidenzia, infine, che la problematica sottoposta a questa Sezione aveva trovato soluzione nell’ambito del decreto-legge recante «Misure di straordinaria necessità ed urgenza nei settori dell’istruzione, dell’università, della ricerca e dell’alta formazione artistica musicale e coreutica» (cd. decreto “Scuola”), approvato dal Consiglio dei ministri il 06.08.2019, che all’art. 5 -rubricato “Disposizioni urgenti in materia di servizi di trasporto scolastico”– si esprimeva in senso conforme alle odierne conclusioni.
Per tale decreto, approvato “salvo intese”, era stata prevista la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale entro il 28 agosto u.s.. Tuttavia, il previsto termine è spirato inutilmente, comportando di conseguenza la mancata entrata in vigore della norma.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima sollevata dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani –ANCI– ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, come modificato dall’art. 10-bis del d.l. 24.06.2016, n. 113, convertito dalla l. 07.08.2016, n. 160, enuncia il seguente principio di diritto:
«
Gli Enti locali, nell’ambito della propria autonomia finanziaria, nel rispetto degli equilibri di bilancio, quali declinati dalla legge 30.12.2018, n. 145 (legge di bilancio 2019) e della clausola d’invarianza finanziaria, possono dare copertura finanziaria al servizio di trasporto scolastico anche con risorse proprie, con corrispondente minor aggravio a carico all’utenza.
Fermo restando i principi di cui sopra, laddove l’Ente ne ravvisi la necessità motivata dalla sussistenza di un rilevante e preminente interesse pubblico oppure il servizio debba essere erogato nei confronti di categorie di utenti particolarmente deboli e/o disagiati, la quota di partecipazione diretta dovuta dai soggetti beneficiari per la fruizione del servizio può anche essere inferiore ai costi sostenuti dall’Ente per l’erogazione dello stesso, o nulla o di modica entità, purché individuata attraverso meccanismi, previamente definiti, di gradazione della contribuzione degli utenti in conseguenza delle diverse situazioni economiche in cui gli stessi versano
» (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 18.10.2019 n. 25).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEPer l’erogazione dell'incentivo l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e la sede idonea, unitamente alla contrattazione decentrata, per circoscrivere dettagliatamente le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogati.
Appare, altresì, opportuno rammentare che
l’art. 113 D.lgs. n. 50/2016 contiene un sistema compiuto di vincoli per l’erogazione degli incentivi stessi e contestualmente ricordare come, per effetto delle modifiche apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 56 del 2017, i compensi incentivanti in parola siano erogabili, in caso di servizi o forniture, solo laddove sia stato nominato il direttore dell’esecuzione, nomina richiesta
“secondo le Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero di particolare complessità”.
Ciò in quanto
gli incentivi per le funzioni tecniche vanno a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello specifico compito. Tali compensi, infatti, non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori. Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge.
 Alla luce del suesposto quadro normativo
è incontrovertibile che gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge, comprese le direttive ANAC (ben note all’amministrazione richiedente)
o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa e, relativamente agli appalti relativi a servizi e forniture, la disciplina sui predetti incentivi si applica solo “nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione”. Quest’ultima circostanza, si ricorda, ricorre soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a € 500.000 ovvero di particolare complessità.
In mancanza di una procedura di gara l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione.
Le predette circostanze, all’evidenza, non ricorrono per i casi in cui il codice prevede la possibilità di affidamento diretto e, pertanto, in assenza dei presupposti normativi legittimanti l’erogazione degli incentivi di che trattasi, va data risposta negativa al primo quesito formulato dall’amministrazione comunale.
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L’applicabilità degli incentivi, nell’ambito dei contratti di affidamento di servizi e forniture, è contemplata soltanto “nel caso in cui sia nominato il direttore dell’esecuzione
(parte finale del comma 2, come modificata, in senso limitativo, dall’art. 76, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 56/2017), inteso quale soggetto autonomo e diverso dal RUP, e tale distinta nomina è richiesta soltanto negli appalti di forniture o servizi di importo superiore a € 500.000,00 ovvero di particolare complessità, con valutazione spettante ai dirigenti secondo quanto specificato al punto 10 delle citate Linee guida emanate dall’ANAC per disciplinare in modo più dettagliato “Nomina, ruolo e compiti del RUP, per l’affidamento di appalti e concessioni”.
In specie, premesso che l’art. 111, comma 2, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e s.m.i. prevede che, di norma, il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di forniture coincida con il responsabile unico del procedimento,
la particolare complessità che giustifica la scissione delle due figure viene individuata, dalla disciplina di attuazione del codice contenuta nelle citate Linee guida, espressamente ed a prescindere dal valore delle prestazioni, nelle seguenti circostanze:
   - interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico (lett. b);
   - prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione, vigilanza, socio sanitario, supporto informatico) lett. c);
   - interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità (lett. d);
   - per ragioni concernenti l’organizzazione interna alla stazione appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento (lett. e).

Dal quadro normativo sopra richiamato non si evincono ulteriori fattispecie che legittimino la nomina del direttore dell’esecuzione al di fuori delle ipotesi contemplate.
Ne consegue che la disciplina sugli incentivi non può trovare applicazione in tutti i casi in cui la legge non prevede la figura disgiunta del direttore dell’esecuzione rispetto a quella del Rup.
In proposito deve osservarsi, anche, che
la giurisprudenza contabile è concorde nell’escludere l’incentivabilità di funzioni o attività diverse da quelle considerate dall’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016. Ciò al fine di evitare un ingiustificato ampliamento dei soggetti beneficiari dell’incentivo stesso, con il ragionevole rischio di elusione del limite espressamente posto dall'art. 113, comma 2, ultimo periodo, che a chiare lettere riconduce, e circoscrive, gli incentivi per gli appalti di servizi o forniture alle ipotesi sopra rappresentate.
Ne consegue, pertanto, che
per le argomentazioni già rappresentate in tema di presupposti normativi legittimanti l’erogazione degli incentivi di che trattasi, va data risposta negativa anche al secondo quesito formulato dall’amministrazione comunale.
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1. Il Sindaco del Comune di Cappella Maggiore (TV) ha inviato una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, in merito alla corretta applicazione della norma sugli incentivi per funzioni tecniche per appalti relativi a servizi e forniture (art. 113 d.lgs. n. 50/2016) estrinsecantesi in due quesiti specifici.
1.1. Il primo dei quesiti formulati, coinvolge i primi due commi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 ed, in particolare, il comma 2 in base al quale le amministrazioni aggiudicatrici “destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti (…) La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”.
Sull’interpretazione di tale disposizione, il Sindaco istante richiama gli orientamenti formulati dalla magistratura contabile in sede consultiva (in particolare: Sezione regionale di controllo per le Marche, parere 08.06.2018 n. 28 e questa Sezione, parere 07.01.2019 n. 1) in base ai quali l’incentivo è subordinato all’esperimento di una gara o comunque di una procedura comparativa.
A tal proposito, il Sindaco osserva che l’art. 36, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 50/2016 prevede che l’affidamento di lavori, servizi e forniture di importo inferiore ad € 40.000,00 può avvenire mediante affidamento diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici, all’uopo osservando che: “di norma gli Uffici dell'Ente istante, conformemente ad una pratica diffusa presso anche altri enti, procedono ad affidamenti diretti di lavori, servizi e forniture con consultazione di due o più preventivi. In alcuni casi la consultazione viene preceduta da un'indagine di mercato attivate attraverso una richiesta di manifestazione d'interesse.
Più in particolare l'Ente pubblica sul proprio sito internet una richiesta di manifestazione d'interesse per l'affidamento diretto ai sensi dell'art. 36, comma 2, lett. a), del D.lgs. 50/2016 di un determinato lavoro, servizio fornitura specificando di norma l'importo stimato dell'affidamento, eventuali requisiti di partecipazione e gli elementi essenziali del contratto. Pervenute le manifestazioni d'interesse da parte degli operatori economici interessati, l'Ente richiede un preventivo per l'affidamento diretto ai sensi dell'art. 36, comma 2, lett. a), del D.lgs. 5012076 a tutti i soggetti (od ad alcuni di essi) che hanno manifestato l'interesse e successivamente, valutati i preventivi pervenuti, procede ad affidamento diretto.
In altri casi la consultazione di due o più preventivi non è preceduta dall'attività sopradescritta ma l'Ufficio competente procede alla consultazione di due o più preventivi mediante richiesta diretta ai vari operatori economici eventualmente selezionati da un registro/albo detenuto dall'Ente
”.
Ciò precisato, l’Ente chiede di sapere se le procedure di affidamento sopradescritte -affidamento diretto di lavori, servizi e forniture per importi inferiori a € 40.000,00 attraverso consultazione degli operatori previa richiesta di manifestazione di interesse oppure richiesta diretta di due o più preventivi– configurino “una procedura comparativa e quindi, possano, nel rispetto dell’autonomie regolamentare dell’ente, costituire presupposto per la costituzione del fondo di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. 50/2016.
1.2. Il secondo dei quesiti formulati coinvolge un altro aspetto del richiamato comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 che, all'ultimo periodo, subordina la possibilità di attribuzione dell'incentivo per funzioni tecniche relative all’affidamento di servizi e forniture alla circostanza che sia nominato il Direttore dell'Esecuzione.
In proposito il richiedente premesso che: “le Linee Guida Anac n. 3 concernente "Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l'affidamento di appalti e concessioni' pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 273 del 27.11.2016 e successivamente modificate nel corso del 2017 dedicano una specifica sezione al Responsabile dell'esecuzione negli appalti di servizi e forniture (paragrafi 8-9-10). In particolare il RUP, salvo i casi previsti dal paragrafo 10, svolge anche il ruolo di Direttore dell'esecuzionechiede di sapere “se nel caso di coincidenza delle funzioni di Rup e di Direttore dell'esecuzione, indipendentemente dalla presenza di un formale atto di nomina del Rup quale Direttore dell'esecuzione (probabilmente ultroneo stante le indicazioni del paragrafo 8 delle Linee Guida ANAC n. 3), possano essere accantonate le relative risorse e procedere quindi alla distribuzione dell'incentivo.
...
3.1. Ciò precisato si procede all’esame dei quesiti sottoposti dall’Amministrazione comunale, offrendo, per le motivazioni di cui sopra, una lettura interpretativa delle norme che regolano la materia in oggetto.
Con il primo dei quesiti formulati l’Ente chiede di sapere se l’affidamento diretto di lavori, servizi e forniture ai sensi dell’art. 36, comma 2, lett. a), del d.lgs 50/2016, cioè per importi inferiori a 40.000,00 euro, attraverso consultazione degli operatori previa richiesta di manifestazione di interesse oppure richiesta diretta di due o più preventivi, configuri la procedura comparativa che legittima l’Ente, nel rispetto della propria autonomia regolamentare, a costituire il fondo di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs 50/2016.
Con il secondo quesito si chiede di sapere se nel caso di coincidenza delle funzioni di Rup e di Direttore dell’esecuzione, indipendentemente anche da un atto formale di nomina del Rup quale direttore dell’esecuzione, possono essere accantonate le relative risorse e procedere quindi alla distribuzione dell’incentivo,
Ad entrambi i quesiti, per le motivazioni di cui appresso, deve essere data risposta negativa.
3.2. Si premette che la risoluzione di entrambi i quesiti si colloca nell’alveo del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016 e s.m.i.) e, precisamente dell’art. 113, da esaminarsi in combinato disposto con gli artt. 31 e 213, nei testi aggiornati dapprima dal d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), dall’art. 1, comma 526, della L. 27.12.2017, n. 205 (Legge di bilancio 2018), e, quindi dal d.l. 18.04.2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici) nonché con le disposizioni di “maggior dettaglio” dettate dall’ANAC ai sensi del richiamato art. 31, comma 5, attraverso le Linee guida n. 3, recanti: “Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico dei procedimenti per l'affidamento di appalti e concessioni”, approvate dal Consiglio dell’Autorità con deliberazione n. 1096 del 26.10.2016 ed aggiornate al d.lgs. 56 del 19/04/2017 con deliberazione del Consiglio n. 1007 dell’11.10.2017, aventi natura vincolante (Consiglio di Stato, parere n. 2044/2017).
Si evidenzia, peraltro, che a seguito dell’intervenuto d.l. 18.04.2019, n. 32 cit., le Linee guida dell’ANAC ex art. 31, comma 5, d.lgs. 50/2016, unitamente ai decreti adottati in attuazione delle previgenti disposizioni, dovranno essere sostituite dal regolamento unico recante disposizioni di esecuzione, attuazione e integrazione del codice degli appalti, di cui al novellato art. art. 216, comma 27-octies, da emanarsi, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della relativa disposizione, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettere a) e b), della legge 23.08.1988, n. 400, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-Regioni.
Le richiamate Linee guida, pertanto, troveranno applicazione fino alla data di entrata in vigore del predetto regolamento. Inoltre, va ulteriormente osservato che, per espressa volontà legislativa, le novelle così introdotte al d.lgs. 50/2016, trovano applicazione per le procedure i cui bandi o avvisi, con i quali si indice una gara, sono pubblicati successivamente alla data del 19.04.2019 (data di entrata in vigore del d.l.), nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, per le procedure in cui, alla medesima data, non sono ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte.
Ciò precisato, ai fini della risoluzione delle questioni sottoposte, rileva l’art. 113, laddove, nel dettare la disciplina dei nuovi “incentivi per funzioni tecnici”, prescrive (testo vigente dal 19.04.2019) che: “Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti” (comma 1) e che “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della progettazione [modifica introdotta dal D.L. 18.04.2019, n. 32 art. 1, comma 1 lett. aa)] , di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. (…..) La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione” (comma 2).
Il D.L. 18.04.2019, n. 32 ha disposto, altresì, che anche la suesposta modifica all’art. 113, comma 2, trova applicazione per le procedure i cui bandi o avvisi, con i quali si indice una gara, sono pubblicati successivamente alla data del 19.04.2019 (data di entrata in vigore del decreto), nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure in cui, alla medesima data, non sono ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte.
La citata norma dispone che la ripartizione della parte più consistente delle risorse (l’80% del fondo costituito ai sensi del comma 2) debba avvenire “per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. (…..) La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti (…)” (comma 3).
Va rilevato, quindi, che
per l’erogazione di detti incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e la sede idonea, unitamente alla contrattazione decentrata, per circoscrivere dettagliatamente le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogati (Sezione delle autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6 cit.; Sezione Regionale di Controllo per il Veneto, parere 07.09.2016 n. 353).
Appare, altresì, opportuno rammentare che
l’art. 113 D.lgs. n. 50/2016 contiene un sistema compiuto di vincoli per l’erogazione degli incentivi stessi e contestualmente ricordare come, per effetto delle modifiche apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 56 del 2017, i compensi incentivanti in parola siano erogabili, in caso di servizi o forniture, solo laddove sia stato nominato il direttore dell’esecuzione, nomina richiesta -come ricordato recentemente anche dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione 09.01.2019 n. 2)- secondo le Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero di particolare complessità”.
Ciò in quanto
gli incentivi per le funzioni tecniche vanno a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello specifico compito. Tali compensi, infatti, non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori. Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge (in termini, Sezione delle autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6. In senso conforme: SRC Puglia parere 24.01.2017 n. 5 e parere 21.09.2017 n. 108; SRC Lombardia parere 16.11.2016 n. 333).
3.3. Alla luce del suesposto quadro normativo
è incontrovertibile che gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge, comprese le direttive ANAC (ben note all’amministrazione richiedente) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa e, relativamente agli appalti relativi a servizi e forniture, la disciplina sui predetti incentivi si applica solo “nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione (cfr. SRC Lombardia, parere 09.06.2017 n. 190; SRC Marche, parere 08.06.2018 n. 28; SRC Veneto, parere 27.11.2018 n. 455; SRC Lazio, parere 06.07.2018 n. 57). Quest’ultima circostanza, si ricorda, ricorre soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a € 500.000 ovvero di particolare complessità.
In mancanza di una procedura di gara l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione (cfr. parere 09.06.2017 n. 185 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia).
Le predette circostanze, all’evidenza, non ricorrono per i casi in cui il codice prevede la possibilità di affidamento diretto e, pertanto, in assenza dei presupposti normativi legittimanti l’erogazione degli incentivi di che trattasi, va data risposta negativa al primo quesito formulato dall’amministrazione comunale.
Analogamente, in relazione al secondo quesito si osserva che le menzionate linee guida, in ossequio a quanto disposto dall’art. 31, comma 5, della normativa di riferimento, stabiliscono (par. 10) l’importo massimo e la tipologia di servizi e forniture per i quali il RUP può coincidere con il progettista o con il direttore dell’esecuzione del contratto e, nel contempo, precisano dettagliatamente i casi in cui quest’ultimo deve essere soggetto diverso dal responsabile del procedimento [par. 10.2, lett. da a) ad e)].
La determinazione dell’importo massimo individua con chiarezza il confine che impone la differenziazione delle due figure professionali. Al di sotto di detta soglia la nomina disgiunta delle stesse non è né necessaria, né tanto meno prevista, in quanto “il responsabile del procedimento svolge, nei limiti delle proprie competenze professionali, anche le funzioni di progettista e direttore dell'esecuzione del contratto” (par. 10.1): solo al superamento della stessa si impone la scissione delle due figure. Dal quadro normativo non si evincono ulteriori fattispecie che legittimino la nomina del direttore dell’esecuzione al di fuori delle ipotesi contemplate.
Come già evidenziato, del resto,
l’applicabilità degli incentivi, nell’ambito dei contratti di affidamento di servizi e forniture, è contemplata soltanto “nel caso in cui sia nominato il direttore dell’esecuzione (parte finale del comma 2, come modificata, in senso limitativo, dall’art. 76, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 56/2017), inteso quale soggetto autonomo e diverso dal RUP, e tale distinta nomina è richiesta soltanto negli appalti di forniture o servizi di importo superiore a € 500.000,00 ovvero di particolare complessità, con valutazione spettante ai dirigenti secondo quanto specificato al punto 10 delle citate Linee guida emanate dall’ANAC per disciplinare in modo più dettagliato “Nomina, ruolo e compiti del RUP, per l’affidamento di appalti e concessioni”.
In specie, premesso che l’art. 111, comma 2, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e s.m.i. prevede che, di norma, il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di forniture coincida con il responsabile unico del procedimento,
la particolare complessità che giustifica la scissione delle due figure viene individuata, dalla disciplina di attuazione del codice contenuta nelle citate Linee guida, espressamente ed a prescindere dal valore delle prestazioni, nelle seguenti circostanze:
   - interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico (lett. b);
   - prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione, vigilanza, socio sanitario, supporto informatico) lett. c);
   - interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità (lett. d);
   - per ragioni concernenti l’organizzazione interna alla stazione appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento (lett. e).

Dal quadro normativo sopra richiamato non si evincono ulteriori fattispecie che legittimino la nomina del direttore dell’esecuzione al di fuori delle ipotesi contemplate.
Ne consegue che la disciplina sugli incentivi non può trovare applicazione in tutti i casi in cui la legge non prevede la figura disgiunta del direttore dell’esecuzione rispetto a quella del Rup.
In proposito deve osservarsi, anche, che
la giurisprudenza contabile è concorde nell’escludere l’incentivabilità di funzioni o attività diverse da quelle considerate dall’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016 (Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18; SRC Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; SRC Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; SRC per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71). Ciò al fine di evitare un ingiustificato ampliamento dei soggetti beneficiari dell’incentivo stesso, con il ragionevole rischio di elusione del limite espressamente posto dall'art. 113, comma 2, ultimo periodo, che a chiare lettere riconduce, e circoscrive, gli incentivi per gli appalti di servizi o forniture alle ipotesi sopra rappresentate.
Ne consegue, pertanto, che
per le argomentazioni già rappresentate in tema di presupposti normativi legittimanti l’erogazione degli incentivi di che trattasi, va data risposta negativa anche al secondo quesito formulato dall’amministrazione comunale (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 11.10.2019 n. 301).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici, effetto retroattivo per il regolamento comunale.
Il regolamento comunale può disciplinare con effetto retroattivo la distribuzione degli incentivi tecnici accantonati dall'ente sotto il regime normativo precedente al Dlgs 50/2016.

Con il parere 10.10.2019 n. 385, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia chiarisce, in linea con precedenti interpretazioni giurisprudenziali (Liguria parere 03.04.2019 n. 31, si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 9 aprile), che la retrodatazione degli effetti, consentita dai commi primo e terzo dell'articolo 216 del codice dei contratti, deve però essere valutata alla luce dei limiti e parametri vigenti al momento in cui sono sorti i presupposti giuridici per l'erogazione del compenso.
Il caso
Il quesito rivolto alla Corte mira a chiarire gli ambiti di manovra della potestà regolamentare di un Comune, in relazione alla possibilità di adeguamento del regolamento sugli incentivi tecnici, ancora allineato all'originario disposto del Dlgs 163/2006, per conformarlo alla disciplina introdotta nelle more dall'articolo 13-bis del Dl 90/2014 e, alla stregua di questa, ripartire gli incentivi accantonati e maturati per l'attività svolta dai dipendenti tra l'entrata in vigore dell'articolo 13-bis e l'intervento del nuovo codice dei contratti pubblici.
Determinazione del compenso
La modifica normativa che maggiormente incide sulla qualificazione dell'incentivo riguarda, a parere dei magistrati, le modalità di determinazione della provvista finanziaria. Mentre in precedenza la determinazione del compenso e la sua ripartizione avveniva per ogni singola opera o lavoro appaltato, nella previsione normativa del Dl 90/2014 le risorse destinate, in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro, vengono fatte confluire in un apposito fondo per la progettazione e l'innovazione.
Un importo pari all'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri stabiliti in apposito regolamento adottato dall'ente e previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa.
L'adozione del regolamento
L'adozione del regolamento, secondo la giurisprudenza contabile (Sezione di controllo Veneto parere 07.09.2016 n. 353; Sezione di controllo Friuli Venezia Giulia parere 02.02.2018 n. 6, Sezione di controllo Lombardia deliberazione 14.03.2019 n. 96 e parere 07.11.2017 n. 305), costituisce condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate nel relativo fondo.
Al regolamento spetta dunque la definizione della percentuale effettiva delle risorse finanziarie, entro il limite del 2 per cento, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare e dei relativi criteri di riparto. L'ente deve poi definire le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, depurato del ribasso d'asta offerto.
Devono poi essere disciplinate le responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, in relazione alla complessità delle opere, escluso le attività manutentive, e all'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo.
Nell'ammettere la possibilità di regolamentazione retroattiva, i magistrati escludono la possibilità di disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al tempo dell'attività incentivabile (in questi termini anche Sezione di controllo Piemonte parere 09.12.2018 n. 135) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.10.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Il regolamento incentivante le funzioni tecniche può disporre retroattivamente sempre che non sia in contrasto con la legge vigente ratione temporis.
Il regolamento può disciplinare con effetto retroattivo la distribuzione di incentivi tecnici accantonati nel regime normativo antecedente il d.lgs. n. 50/2016 perché la retrodatazione degli effetti è consentita dall’art. 216, 1° e 3° comma, del medesimo d.lgs. n. 50/2016.
Nella predetta facoltà di incidere retroattivamente con lo strumento del regolamento sopra indicato pare assorbita la possibilità di intervenire con una norma regolamentare di adeguamento delle pregresse disposizioni, aggiornate fino al d.lgs. n. 163/2006, alle previsioni recate dal d.l. n. 90/2014.
T
uttavia, va richiamato quanto già osservato dalla giurisprudenza di controllo circa i limiti del potere regolamentare in discorso, con speciale riguardo alla circostanza che “il regolamento potrà disciplinare le suddette situazioni pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva”, risultando “escluso, di conseguenza, che il regolamento suddetto possa attualmente disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al tempo dell’attività incentivabile”.
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Il Sindaco del Comune di Calolziocorte (LC) ha inviato la richiesta di parere sopra indicata in materia di incentivi per la progettazione a favore del personale tecnico interno dell’Ente.
In particolare viene chiesto se «nel caso in cui il Regolamento Comunale riguardante gli incentivi per la progettazione a favore del personale tecnico interno all’Ente, aggiornato fino al D.Lgs. 163/2016, non sia stato adeguato a quanto prescritto dal D.L. 90/2014, che nella legge di conversione abroga i commi 5 e 6 dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006 e introduce nell’art. 93 i commi 7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies, che disciplinano il “fondo per la progettazione e l’innovazione”, è possibile adottare una norma regolamentare di adeguamento di detto regolamento con valenza retroattiva al fine di ripartire gli incentivi accantonati in bilancio e maturati dai dipendenti per l’attività svolta nel periodo ricompreso tra l’entrata in vigore dell’art. 13-bis del D.L. 90/2014 e l’entrata in vigore del D.LGS. 50/2016».
...
In ossequio alla costante giurisprudenza delle Sezioni di controllo, le questioni poste nella richiesta di parere in esame possono essere analizzate in chiave generale e astratta, non essendo scrutinabili nel merito istanze concernenti valutazioni su casi o atti gestionali specifici, in una prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una consulenza generale della Corte dei conti, incompatibile con le funzioni alla stessa attribuite dal vigente ordinamento e con la sua fondamentale posizione di indipendenza e neutralità.
Conseguentemente, il Collegio prenderà in esame il quesito formulato dall’Amministrazione comunale offrendo una lettura interpretativa generale del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, non potendo costituire, di contro, oggetto di valutazione da parte della Sezione i profili inerenti alla legittimità delle singole corresponsioni dei predetti incentivi al personale dell’Ente.
Nell’istanza in argomento viene, anzitutto, in rilievo il quadro normativo in tema di incentivi per funzioni tecniche antecedente all’attuale disciplina recata dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 s.m.i. e, segnatamente, la disciplina degli incentivi per la progettazione e l’innovazione.
Come noto, l’art. 13 del d.l. n. 90/2014 (conv. dalla legge n. 114/2014) ha abrogato i commi 5 e 6 dell’articolo 92 del d.lgs. n. 163/2006, introducendo, contestualmente, una nuova, diversa disciplina degli incentivi per la progettazione ai commi 7-bis e ss. dell’art. 93 dello stesso d.lgs. n. 163/2006.
Come rilevato nelle pronunce di questa Corte (cfr. Sezione regionale controllo Piemonte,
parere 02.10.2014 n. 197) la modifica di maggior sostanza, al riguardo, attiene alle modalità di determinazione della provvista per l’erogazione degli incentivi: mentre in precedenza la determinazione del compenso e la sua ripartizione avveniva per ogni singola opera o lavoro appaltato, nella previsione normativa del d.l. n. 90/2014 le risorse destinate, in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro, vengono fatte confluire in un apposito “Fondo per la progettazione e l’innovazione”.
Un importo pari all’80 per cento delle risorse finanziarie del Fondo per la progettazione e l’innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri stabiliti in apposito regolamento adottato dall’Ente e previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa.
In particolare il regolamento in parola è chiamato a stabilire:
   · la percentuale effettiva delle risorse finanziarie, entro il predetto limite del 2 per cento, in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare;
   · i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo;
   · i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, depurato del ribasso d’asta offerto.
Va poi soggiunto che l’adozione del regolamento è considerata, nella giurisprudenza contabile (cfr., ex multis, Sez. controllo Veneto parere 07.09.2016 n. 353; Sez. controllo Regione autonoma Friuli Venezia Giulia parere 02.02.2018 n. 6 e, per questa Sezione, deliberazione 14.03.2019 n. 96 e parere 07.11.2017 n. 305) condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate nel fondo.
Ciò posto, nella richiesta di parere in esame si chiede, in buona sostanza, se sia attualmente possibile ad un Comune, nell’esercizio della propria autonomia regolamentare, adeguare il proprio regolamento in tema di incentivi per la progettazione a favore del personale tecnico dell’Ente, ancora allineato all’originario disposto del d.lgs. n. 163/2006, per conformarlo alla disciplina introdotta nelle more dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014 e, alla stregua di questa, ripartire gli incentivi accantonati e maturati per l’attività svolta dai dipendenti tra l’entrata in vigore del ridetto art. 13-bis e l’intervento del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 50/2016.
In proposito, in termini generali,
questa Sezione si è già pronunciata nel senso che il regolamento in parola possa disporre anche la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate dopo l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici e prima dell’adozione del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro economico riguardante la singola opera (cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185 e parere 12.06.2017 n. 191; si veda anche Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 07.09.2016 n. 353).
Tale affermazione tiene conto di come l’opzione dell’ultrattività della pregressa normativa sia già stata recepita dal legislatore del 2016, consentendo «che il regime previgente continui ad operare in relazione “alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016”. Ai sensi dell’art. 216, comma 1, infatti, le disposizioni introdotte dal d.lgs. n. 50 del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo “Codice”, fatto salve le disposizioni speciali e testuali di diverso tenore» (in questi termini cfr. il citato parere 12.06.2017 n. 191 di questa Sezione).
La questione è stata recentemente affrontata dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria nel parere 03.04.2019 n. 31 (già richiamato da questa Sezione nel proprio parere 08.05.2019 n. 163) ove si è affermato il principio di diritto secondo cui
il regolamento può disciplinare con effetto retroattivo la distribuzione di incentivi tecnici accantonati nel regime normativo antecedente il d.lgs. n. 50/2016 perché la retrodatazione degli effetti è consentita dall’art. 216, 1° e 3° comma, del medesimo d.lgs. n. 50/2016.
Nella predetta facoltà di incidere retroattivamente con lo strumento del regolamento sopra indicato pare assorbita la possibilità di intervenire con una norma regolamentare di adeguamento delle pregresse disposizioni alle previsioni recate dal d.l. n. 90/2014; né previsioni di termini decadenziali per il ridetto adeguamento regolamentare sembrano rinvenibili all’interno dello stesso art. 13-bis del d.l. n. 90 del 2014.
Sul punto, tuttavia, la Sezione richiama quanto osservato dalla stessa Sezione di controllo per la Liguria nel citato parere 03.04.2019 n. 31 circa i limiti del potere regolamentare in discorso, con speciale riguardo alla circostanza che “
il regolamento potrà disciplinare le suddette situazioni pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva”, risultando “escluso, di conseguenza, che il regolamento suddetto possa attualmente disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al tempo dell’attività incentivabile” (in questi termini anche Sezione regionale di controllo per il Piemonte, (parere 09.12.2018 n. 135) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 10.10.2019 n. 385).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHENon è inibito alla norma regolamentare sopravvenuta disciplinare, entro i limiti che si diranno, tali fattispecie pregresse, proprio perché riferite ad ambiti temporali ai quali il D.lgs. 50/2016 non si applica per effetto della ridetta disposizione di diritto transitorio.
Il regolamento dunque potrà disporre per la corresponsione degli incentivi maturati nel passato, ma solo in attuazione della normativa previgente, sulla base della sua ultrattività per la regolazione delle fattispecie pregresse (come disposto dall’art. 216 del d.lgs. 50/2016) e nei limiti in cui rimette espressamente alla stessa normativa previgente la disciplina di quelle stesse fattispecie.
Il regolamento sopravvenuto potrà dunque disciplinare le situazioni pregresse, nel caso di specie la ripartizione degli incentivi tecnici, nel rigoroso rispetto, tuttavia, dei limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva.
Si deve, invece escludere “che lo stesso possa oggi disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non uniformi a quelli in vigore al momento dell’attività incentivabile”.
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Con la nota sopra citata, il Sindaco del Comune di Varese pone un quesito in materia di applicazione dell'articolo 113 del Codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50, che reca la disciplina degli incentivi tecnici e demanda a un regolamento comunale e alla contrattazione decentrata la fissazione delle modalità di riparto degli importi destinati ai soggetti in esso indicati.
Il parere che si richiede riguarda la possibilità che le due fonti di auto-normazione dell'istituto (regolamento comunale e contratto decentrato) disciplinino l'erogazione degli incentivi relativi a lavori, servizi e forniture conclusisi durante la vigenza del d.lgs. 12.04.2006 n. 163.
In particolare, si chiede se il regolamento comunale e il contratto decentrato possano contenere alcune norme transitorie con cui dare applicazione alle disposizioni contenute negli articoli 92 e 93 di detto decreto, nelle rispettive formulazioni vigenti tempo per tempo.
La richiesta trae origine dalle diverse posizioni assunte dalle Sezioni regionali di codesta Corte.
Accanto a posizioni che sembrano escludere tale possibilità (Sezione Lazio, parere 06.07.2018 n. 57), ma anche codesta Sezione, parere 12.06.2017 n. 191) altre Sezioni sembrano non scartarla del tutto. Tra queste, la Sezione Veneto (parere 25.07.2018 n. 264) e la Sezione Liguria.
Quest'ultima, in particolare (parere 03.04.2019 n. 31), distinguendo tra retroattività "forte" e retroattività "debole", ha valorizzato tale seconda ipotesi (corrispondente alla "produttività di effetti attuali ma sulla base di una fattispecie realizzatasi nel passato"), sembrando ammettere la possibilità che il regolamento disciplini retroattivamente la fattispecie a condizione che l'accantonamento delle risorse destinate agli incentivi sia già avvenuto.
Alla luce di quanto sopra il Comune di Varese chiede: “il regolamento previsto dall'articolo 113, comma 3, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, può disciplinare, dando applicazione alle disposizioni contenute negli articoli 92 e 93 del d.lgs. 12.04.2006, gli incentivi tecnici relativi a lavori, servizi e forniture conclusisi durante la vigenza di tale ultimo decreto?.
...La questione sollevata dal Comune di Varese è stata già affrontata da diverse Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, esaminandola da diversi punti di vista e prospettive, al fine di rispondere a quesiti che di volta in volta sottolineavano aspetti di dettaglio differenti.
Al fine di rispondere al quesito posto nello specifico è utile riprendere e riassumere due principi chiave, condivisi da questa Sezione.
In primo luogo, è importante ricordare la funzione del regolamento previsto nell’ambito della disciplina che regola questo istituto incentivante, sia nella sua formulazione attuale, sia in quella precedente. Tale regolamento, per quanto riguarda i fini interpretativi del quesito, ha sostanzialmente una funzione esecutiva interna di recepimento dei criteri di ripartizione previsti dalla contrattazione decentrata.
Infatti, in entrambe le formulazioni (D.lgs. 163/2006 e ss. e D.lgs. 50/2016) gli incentivi in esame trovano la propria fonte in norme che prevedono, ai fini della corresponsione, la fissazione dei criteri e della modalità di distribuzione delle risorse in sede di contrattazione collettiva integrativa decentrata e la successiva adozione di tali criteri in un apposito regolamento.
Quest’ultimo costituisce dunque un “passaggio fondamentale per la regolazione interna della materia” (deliberazione 13.05.2016 n. 18), ma, nell’ottica che qui interessa, è soprattutto l’atto che, recependo i criteri e le modalità individuati dalla contrattazione decentrata, consente il riparto delle risorse accantonate e rende determinabile il quantum dell’incentivo spettante ai singoli dipendenti (Sez. reg. controllo Veneto parere 25.07.2018 n. 264).
In questo senso, "dato che i criteri di assegnazione e di riparto del fondo devono, di regola, essere determinati in sede decentrata con contrattazione integrativa per essere, poi, recepiti dal Regolamento, ne consegue che quest’ultimo è solo un contenitore (...), mentre sul piano sostanziale resta immutata la natura pattizia della disposizione che regola l’incentivo (...)” (Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per la Basilicata
parere 08.03.2017 n. 7).
Tanto è vero che, ove nelle more dell’adozione del Regolamento siano stati comunque già fissati, in sede di contrattazione integrativa, i criteri di riparto delle risorse accantonate, che lo stesso è chiamato soltanto a recepire, la mera carenza dell’atto regolamentare o la sua tardiva emanazione non possono ledere il diritto al compenso incentivante spettante al dipendente che ha eseguito la funzione incentivata, e la questione è suscettibile di tutela a livello giurisdizionale, su eventuale iniziativa del singolo (Sez. reg. controllo Lazio parere 06.07.2018 n. 57)).
Ciò in quanto “le amministrazioni interessate sono tenute, per il principio di correttezza e buona fede, a procedere speditamente all’emanazione e, a seguito di modifica della normativa legislativa, all’aggiornamento dei regolamenti attuativi (in tal senso Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 09.03.2012 n. 3779 ha riconosciuto al dipendente il diritto al risarcimento del danno discendente dalla mancata possibilità di percepire l’incentivo previsto dalla normativa)” (Sez. reg. controllo Piemonte, parere 09.10.2017 n. 177).
In secondo luogo, ai nostri fini, occorre esaminare le questioni di diritto intertemporale venutesi a porre con l’emanazione del d.lgs. 50/2016. A questo proposito, Il legislatore del 2016 si è fatto carico delle questioni e le ha risolte scegliendo l’opzione dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime previgente continui ad operare in relazione “alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016”. Ai sensi dell’art. 216, comma 1, infatti, le disposizioni introdotte dal d.lgs. n. 50 del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo “Codice”, fatto salve le disposizioni speciali e testuali di diverso tenore (Sez. Reg. controllo Lombardia
(parere 12.06.2017 n. 191).
Non ricorrendo tale ultima eventualità la disposizione richiamata va letta nel senso che il D.lgs. 50/2016 trova applicazione limitatamente alle fattispecie concrete, inclusive degli incentivi tecnici, verificatesi dopo la sua entrata in vigore.
Ne deriva che le fattispecie concrete verificatesi prima di tale vigenza, sempre inclusive degli incentivi tecnici, restano regolate dalla normativa precedente.
In conclusione, e sulla base di questi principi,
non è, perciò, inibito alla norma regolamentare sopravvenuta disciplinare, entro i limiti che si diranno, tali fattispecie pregresse, proprio perché riferite ad ambiti temporali ai quali il D.lgs. 50/2016 non si applica per effetto della ridetta disposizione di diritto transitorio.
Il regolamento dunque potrà disporre per la corresponsione degli incentivi maturati nel passato, ma solo in attuazione della normativa previgente, sulla base della sua ultrattività per la regolazione delle fattispecie pregresse (come disposto dall’art. 216 del d.lgs. 50/2016) e nei limiti in cui rimette espressamente alla stessa normativa previgente la disciplina di quelle stesse fattispecie.
Il regolamento sopravvenuto potrà dunque disciplinare le situazioni pregresse, nel caso di specie la ripartizione degli incentivi tecnici, nel rigoroso rispetto, tuttavia, dei limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva
(Sez. Reg. controllo Liguria parere 03.04.2019 n. 31).
Si deve, invece escludere “che lo stesso possa oggi disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non uniformi a quelli in vigore al momento dell’attività incentivabile (Sez. reg. di controllo Piemonte (parere 09.12.2018 n. 135) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 10.10.2019 n. 383).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIPosizioni organizzative, è colpa grave il mancato controllo sugli atti dei propri funzionari.
Con la sentenza 19.09.2019 n. 350, la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la regione Toscana, ha precisato che il responsabile di posizione organizzativa che appone la propria firma agli atti predisposti dai funzionari senza operare mai alcun controllo, nemmeno a campione, è suscettibile di condanna per responsabilità sussidiaria a titolo di colpa grave, per omessa vigilanza e/o controllo.
Il fatto
Nel caso in esame, la Procura erariale, presso la Sezione Giurisdizionale della regione Toscana, ha instaurato un giudizio di responsabilità nei confronti di due dipendenti del comune di Cascina, rispettivamente nella qualità di funzionario e di Responsabile di Posizione Organizzativa del Settore “Macrostruttura 6-Educativo e Socio Culturale”; detto giudizio è scaturito dalla segnalazione, da parte del suddetto comune, di un possibile danno erariale, conseguente alla condotta, penalmente rilevante, posta in essere dal menzionato funzionario, fra l'altro destinatario di misura di custodia cautelare in carcere su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pisa, nonché di provvedimento di sospensione cautelare adottato dal Comune di Cascina.
Infatti, dall’attività investigativa espletata dalla Guardia di Finanza, nell’ambito del procedimento penale, era emerso che il funzionario, assegnato quale unico addetto all’unità operativa “Nidi, Progettazione Educativa e Diritto allo Studio”, si era appropriato di circa 400.000 euro, fra i 2012 ed il 2017, stanziati dall'Ente di appartenenza e dalla Regione Toscana per il potenziamento degli asili nido e per finanziare progetti sociali a favore di infanti disabili e/o in stato di disagio.
Con riferimento al citato danno, la Procura contabile ha individuato oltre la responsabilità principale e dolosa del funzionario –la cui condotta illecita, era stata ampiamente dimostrata dalle risultanze probatorie del procedimento penale–, anche quella sussidiaria, a titolo di culpa in vigilando, in capo al Responsabile del Settore in cui il reo operava, poiché non aveva esercitato sullo stesso alcun controllo, neanche a campione o saltuario.
Infatti, il Responsabile aveva consentito, o comunque agevolato, la condotta illecita del funzionario, apponendo, in maniera acritica ed automatica, la propria firma sui provvedimenti che quest'ultimo gli sottoponeva, ponendo in essere una condotta gravemente colposa di omesso controllo e vigilanza, reiterata per ben cinque anni.
Il Responsabile, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’impossibilità di avere, in qualche modo, contezza del disegno criminoso portato avanti dal funzionario, tant'è che, all’esito dell’attività istruttoria espletata nel parallelo procedimento penale, non era stata formulata alcuna ipotesi di reato nei suoi confronti, essendo emersa, invece, la sua totale estraneità rispetto ai fatti incriminati, escludendo, di conseguenza, qualsiasi responsabilità per culpa in vigilando.
Altresì, dall’esame degli atti istruttori, era emerso che la maggior parte degli episodi criminosi contestati si erano verificati successivamente all’erogazione delle somme da parte del Comune, ovvero in una fase in cui non avrebbe potuto esserci alcun controllo da parte del Responsabile.
Peraltro, da un lato gli atti prodotti dal funzionario erano stati predisposti al di fuori dei protocolli istituzionali, mediante documentazione ideologicamente e/o materialmente falsa, dall'altro, nel corso degli anni, non vi era mai stata alcuna contestazione sull'operato del funzionario da parte di terzi.
Altresì, l’assenza di culpa in vigilando derivava dal fatto che il Responsabile gestiva una macrostruttura con un elevato numero di servizi ed unità operative (almeno 11) e potendo contare su personale limitato: in tale contesto, di fronte irregolarità perpetrate prevalentemente al di fuori dell’orario di servizio ed all’esterno della sede di lavoro ed in assenza di segnali, anche minimi, che potessero far pensare a comportamenti illeciti del funzionario, tali da giustificare una vigilanza “straordinaria” sull’operato dello stesso, il controllo non avrebbe potuto essere diverso da quello di fatto esercitato.
Le considerazioni della Corte
La Corte, entrando nel merito, ha ritenuto che la pretesa erariale fosse meritevole di accoglimento nei confronti di entrambi i convenuti, ricorrendo tutti i presupposti della contestata responsabilità amministrativa.
Per quanto concerne la posizione del funzionario, il Collegio ha riconosciuto pacifica la ricorrenza del cd "rapporto di servizio" con l’Amministrazione danneggiata, nonché acclarate la sussistenza ed antigiuridicità delle condotte contestate, alla luce della valutazione complessiva degli atti di causa e di quelli derivanti dal parallelo procedimento penale –che ha portato alla condanna del funzionario alla pena di 6 anni di reclusione per i delitti di truffa e peculato, continuato ed in concorso con altri, nonché all'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici–, dai quali il giudice contabile è legittimato a trarre elementi utili al proprio convincimento (Corte Conti, Sez. giur. Lombardia n. 450/2012; Sez. giur. Friuli Venezia Giulia n. 270/2011).
Alla responsabilità principale, di carattere doloso, per il Collegio si è affiancata quella sussidiaria del Responsabile di Po: quest’ultimo, infatti, pur essendo rimasto del tutto estraneo alle vicende penali, sulla base degli atti e dei fatti esaminati, si è reso responsabile, a titolo di colpa grave, di omessa vigilanza e/o controllo.
Infatti, per ben cinque anni, egli ha firmato i provvedimenti di impegno/liquidazione predisposti dal funzionario, senza avvertire mai la necessità di svolgere controlli, nemmeno a campione, sull’attività preliminare ed istruttoria espletata. Considerato che la firma del Responsabile sulle determine comporta, a suo carico, la piena responsabilità dell’atto e dei relativi effetti, un controllo, anche saltuario e a campione, sarebbe stato opportuno, se non necessario, a prescindere ed indipendentemente da eventuali segnalazioni di anomalie e/o irregolarità da parte di terzi.
In conclusione, alla luce del considerevole arco temporale di reiterazione, le condotte omissive del Responsabile sono risultate, per la Corte, connotate da colpa grave, alla luce dell’estrema noncuranza e superficialità dimostrate per la salvaguardia delle risorse finanziarie del Comune di Cascina, nonché, più in generale, per la corretta utilizzazione delle stesse strumentale all’attuazione di valori di rilievo costituzionale, quali l'imparzialità ed il buon andamento della Pa (articolo 97 della Costituzione) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.10.2019).
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SENTENZA
4. Alla responsabilità principale, di carattere doloso, del Sig. RO. (per l’intero importo sopra visto) si affianca quella sussidiaria, a titolo di colpa grave, della convenuta CA..
A tal riguardo, va in primo luogo rilevata la pacifica sussistenza del cd rapporto di servizio tra l’Amministrazione danneggiata (Comune di Cascina) e la Sig.ra CA., quale Responsabile di Posizione Organizzativa Autonoma nell’ambito del Settore “Macrostruttura 6-Educativo e Socio Culturale” della predetta Amministrazione.
Per quanto concerne il profilo dell’illiceità delle condotte serbate, il Collegio, sulla base degli atti e fatti di causa, ritiene sicuramente di escludere, in armonia con quanto fatto dall’Organo requirente, una corresponsabilità dolosa della convenuta Ca..
Quest’ultima, infatti, è rimasta del tutto estranea alle vicende penali, venendo, del resto, pienamente scagionata in quella sede dallo stesso Ro. (vedasi interrogatorio reso al GIP in data 16.05.2017, ove il Ro. ha espressamente dichiarato “…Le determine venivano firmate dal Dirigente nel caso di specie la Dott.ssa Ca. che non era assolutamente consapevole di quello che facevo”).
Nondimeno, sulla base degli stessi atti e fatti, risulta configurabile una responsabilità della Sig.ra CA., a titolo di colpa grave per omessa vigilanza e/o controllo.
Risulta, infatti, che la medesima CA., per un considerevole lasso temporale (dal 2012 al 2017, epoca di svolgimento delle condotte illecite del Ro., secondo quanto emergente dai capi d’imputazione penale), si sia completamente affidata al Ro. stesso, firmando, in maniera del tutto acritica, i provvedimenti di impegno/liquidazione delle risorse dal medesimo istruiti e predisposti, senza avvertire mai la necessità di svolgere controlli, nemmeno a campione, sull’attività preliminare ed istruttoria espletata (rectius, che avrebbe dovuto essere espletata) dal medesimo (vedasi anche la relazione della Guardia di Finanza del 28.06.2017, prot. n. 0218909, con la documentazione contenuta nel dischetto informatico allegato).
Sul punto, è appena il caso di rimarcare che
colui il quale firma, nell’esercizio precipuo delle competenze relative all’incarico di responsabilità rivestito, determine comportanti l’attribuzione di risorse finanziarie pubbliche in favore di soggetti terzi, si assume, con la predetta sottoscrizione, la (piena) responsabilità dell’atto e dei relativi effetti.
Di qui la necessità di un controllo, anche saltuario e a campione, nel caso all’esame per contro del tutto omesso, sull’attività preliminare e propedeutica svolta dal responsabile del procedimento (o comunque sull’operato dello stesso).
Tutto ciò a prescindere ed indipendentemente dalla segnalazione di anomalie e/o irregolarità da parte di terzi.
Tale conclusione risulta invero confortata (anche) dalla particolare valenza degli interessi coinvolti (nello specifico, quello alla corretta utilizzazione delle risorse finanziarie pubbliche), strumentali all’attuazione di valori di rilievo anche costituzionale (imparzialità e buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost.).
Né può ritenersi, in superamento delle argomentazioni difensive sul punto, che tale controllo, nella fattispecie all’esame, non avrebbe potuto essere concretamente esercitato dalla Sig.ra CA., per essersi l’attività illecita del Sig. Ro. svolta prevalentemente al di fuori del rapporto di servizio (investendo, in particolare, la richiesta di rimborso, supportata da false motivazioni, delle somme erogate, a seguito di un’attività di erogazione che sarebbe risultata di per sé lecita).
A tal riguardo, il Collegio ribadisce che, per quanto emerso in sede penale, le condotte illecite del Sig. Ro. sono consistite essenzialmente nel:
   a) richiedere, con false motivazioni, a vari asili nido la restituzione di somme erogate in eccesso, al fine di creare una provvista di cui poi appropriarsi, una volta ottenuta la restituzione di quanto attribuito in eccesso rispetto al dovuto;
   b) riconoscere ad associazioni (TE.TA.) e/o cooperative (TR.) “compiacenti” contributi cui le stesse non avrebbero avuto diritto, per poi ottenere da tali soggetti le somme in questione.
In entrambi i casi, l’appropriazione “illecita” è risultata possibile per essere state le relative risorse previamente assegnate/liquidate con determine firmate, in assenza di qualsivoglia controllo, da parte della convenuta Ca..
La medesima assegnazione (e susseguente erogazione) risulta, invero, anch’essa illecita, in quanto avvenuta in favore di cooperative/associazioni “compiacenti”, non aventi titolo per beneficiarne, attesa la mancata presentazione e/o svolgimento dei relativi progetti, ovvero intervenuta in favore di soggetti (asili nido) astrattamente legittimati ad usufruirne, ma in concreto destinatari di contributi superiori al dovuto.
Risulta allora evidente come i controlli omessi dalla Sig.ra CA. abbiano consentito o quanto meno agevolato l’operazione illecita complessiva attuata dal Ro., partita con l’assegnazione di somme a soggetti terzi (illecita per le ragioni viste) e sfociata nella definitiva appropriazione (anch’essa illecita) da parte del Ro. stesso (beneficiario “finale” della medesima operazione).
Le condotte omissive serbate dalla Sig.ra CA. risultano, invero, connotate da colpa grave, attesa l’estrema noncuranza e superficialità mostrate per la salvaguardia delle risorse finanziarie del Comune di Cascina.
Tutto ciò anche alla luce del considerevole arco temporale di reiterazione delle condotte in questione e del mancato rinvenimento, nei fascicoli delle determine acquisiti presso il Comune di Cascina, di traccia alcuna di attività istruttoria (vedasi su tale ultimo punto pag. 6 della relazione della Guardia di Finanza del 28.06.2017, prot. n. 218909).
Nondimeno, il Collegio, in considerazione delle peculiari circostanze del caso concreto e del ruolo effettivamente rivestito nella vicenda de qua, ritiene di limitare la responsabilità sussidiaria della Sig.ra Ca. all’importo di euro 150.000,00.
5.
In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto, il Sig. RO.Al. va condannato al pagamento, in favore del Comune di Cascina, dell’importo di euro 372.863,25, a titolo di responsabilità principale di carattere doloso.
Nel contempo, la Sig.ra CA.Ga. va condannata al pagamento, in favore del Comune di Cascina, dell’importo di euro 150.000,00, a titolo di responsabilità sussidiaria per colpa grave.
Sugli importi per cui è condanna, da ritenersi già comprensivi di rivalutazione, vanno computati gli interessi, come da dispositivo.

PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTIIncentivi antievasione IMU e TARI solo se il bilancio è approvato entro il 31 dicembre.
Gli incentivi economici a favore dei dipendenti comunali per le attività connesse al recupero dei tributi erariali (Imu e Tari) possono essere corrisposti solo se l'ente approva tassativamente il bilancio di previsione entro il 31 dicembre dell'anno precedente.

È questa l'importante indicazione contenuta nel parere 18.09.2019 n. 52 della sezione regionale di controllo della Corte dei conti dell'Emilia Romagna.
Il quesito
Il comma 1091, articolo 1, della legge di bilancio 2019 ha previsto la possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di qualifica dirigenziale, derogando al limite previsto dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione vi è quella secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel».
Ciò premesso un ente locale ha chiesto alla Corte dei conti dell'Emilia Romagna se il termine per l'approvazione del bilancio debba intendersi solo con riferimento al 31 dicembre dell'anno di riferimento (così come indicato nell'articolo 163, comma 1, del Tuel) o può essere correttamente riferito al termine differito (come previsto dal successivo comma 3, dell'articolo 163 del Tuel), con specifica legge e/o decreti ministeriali.
La risposta
Per i giudici contabili la risposta al quesito formulato è nel senso che il termine per l'approvazione del bilancio è da intendersi il 31 dicembre dell'anno di riferimento e non anche il termine differito.
D'altronde «nell'ipotesi in cui il bilancio di previsione dell'ente non sia approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore, all'articolo 163 limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della destinazione di incentivi al personale. E ciò in base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità in cui versa quell'ente che non sia in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di previsione, dal che discende, ex lege, una gestione di tipo provvisorio dell'ente e limitata a specifiche attività».
Conclusioni
La posizione assunta dalla magistratura contabile emiliana spiazza molti enti locali che hanno seguito l'indicazione fornita dall'Ifel nella nota di approfondimento al comma 1091 della legge di bilancio 2019 dello scorso 28 febbraio (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 04.03.2019).
L'istituto, infatti, aveva ritenuto soddisfatta la condizione imposta dalla legge anche con l'approvazione del bilancio di previsione entro i termini prorogati dal decreto ministeriale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.10.2019).

PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTIIncentivi Imu solo con bilancio entro il 31 dicembre.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti dell'Emilia Romagna mette in seria crisi l'erogazione dell'incentivo Imu e Tari introdotto dall'ultima legge di bilancio.
Il parere 18.09.2019 n. 52 ha stabilito infatti che solo gli enti che hanno approvato il bilancio di previsione entro il 31 dicembre possono stanziare le somme previste per l'incentivazione del personale.
La norma della legge di bilancio
L'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018, dopo alcuni anni di assenza, aveva reintrodotto la possibilità per i Comuni di prevedere somme incentivanti in favore del personale addetto al raggiungimento degli obiettivi del settore entrate. Subordinando tuttavia questa facoltà ad alcune condizioni. In primo luogo, si tratta di una scelta facoltativa, rimessa alla discrezione degli enti locali interessati.
Inoltre, la destinazione di una somma non superiore al 5 per cento del maggior gettito accertato e riscosso relativo agli accertamenti Imu e Tari dell'esercizio fiscale precedente al potenziamento delle risorse comunali degli uffici entrate e al trattamento accessorio del personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, è subordinata all'approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico degli enti locali.
Il rispetto del termine di approvazione del bilancio
La norma aveva ingenerato dei dubbi sull'individuazione dei suddetti termini. In particolare per il bilancio di previsione, poiché l'articolo 151 del Dlgs 267/2000 stabilisce che il bilancio di previsione deve essere approvato entro il 31 dicembre dell'anno precedente, prevedendo tuttavia che «i termini possono essere differiti con decreto del ministro dell'Interno, d'intesa con il ministro dell'Economia e delle finanze, sentita la conferenza Stato-città e autonomie locali, in presenza di motivate esigenze. L'Ifel, nella nota del 28.02.2019, ritiene che la condizione richiesta dalla norma è comunque soddisfatta laddove l'ente approvi il bilancio entro i termini stabiliti dal decreto ministeriale di proroga.
La Corte dei conti dell'Emilia Romagna, con la deliberazione sopra richiamata, ha invece ritenuto che il termine per l'approvazione del bilancio è da intendersi il 31 dicembre dell'anno di riferimento di cui all'articolo 163, comma 1, del Dlgs 267/2000 e non anche il termine differito di cui al comma 3 del medesimo articolo. Ciò in quanto l'articolo 163 del Tuel limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della destinazione di incentivi al personale.
La Corte sostiene, infatti, che l'ente, nel caso di mancata approvazione del bilancio nel termine, versa in una fase di criticità in quanto non è in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo dell'approvazione del bilancio di previsione, dal che discende ex lege una gestione di tipo provvisorio e limitata a specifiche attività.
La conclusione è tranchant. L'ente che non ha rispettato il termine del 31 dicembre, pur rispettando il termine fissato dal decreto di proroga, non può stanziare per quell'anno (l'esercizio di riferimento) il fondo calcolato sugli accertamenti Imu e Tari. Mettendo fuori gioco la maggior parte dei Comuni italiani.
Considerazioni
Questa conclusione, a modesto parere di chi scrive, non tiene tuttavia conto che laddove il legislatore, per consentire agli enti di beneficiare di eventuali norme agevolative, ha voluto vincolare l'approvazione del bilancio di previsione alla data del 31 dicembre, lo ha fatto espressamente. Si pensi, ad esempio, al comma 905 dell'articolo 1 della medesima legge di bilancio, che ha concesso agli enti che approvano il bilancio entro il 31 dicembre di non applicare alcuni limiti di spesa e di essere dispensati da alcuni adempimenti, oppure all'analoga norma contenuta nell'articolo 21-bis, comma 2, del Dl 50/2017.
L'aver fatto riferimento genericamente al termine previsto dal Tuel è indice della volontà della norma di tenere conto di eventuali differimenti del termine, sovente dovuti peraltro a cause non imputabili agli enti locali.
Inoltre, seppure è vero che l'ente che non approva il bilancio entro il 31 dicembre si trova a operare nei primi mesi dell'anno successivo in esercizio provvisorio, tuttavia non si comprende come questa circostanza possa impedire all'ente di stanziare le somme relative al fondo con l'approvazione del bilancio di previsione (o meglio dopo l'approvazione del rendiconto dell'esercizio precedente), incidendo i vincoli dell'esercizio provvisorio sull'ente solo fino all'approvazione del documento contabile previsionale.
Una siffatta interpretazione appare molto penalizzante, considerando che spesso i Comuni sono costretti ad approvare il bilancio dopo il termine ordinario del 31 dicembre (peraltro sempre storicamente prorogato) a causa delle mancate certezze sulle risorse disponibili, definite solitamente dallo Stato a ridosso della fine dell'anno, con l'approvazione della legge di bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.09.2019).

PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTICon riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività connesse alla partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non corrisposti e tenuto conto del disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, il termine per l’approvazione del bilancio deve intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000.
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Il Sindaco del Comune di Sant’Agata Bolognese (BO) formula seguente richiesta di parere: con riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività connesse alla partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non corrisposti e tenuto conto del disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, “se il termine per l’approvazione del bilancio debba intendersi solo con riferimento al 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 o può essere correttamente riferito al termine differito, ai sensi dell’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, con apposita legge e/o decreti ministeriali”.
...
2.1. Passando al merito, la risposta al quesito formulato è nel senso che il termine per l’approvazione del bilancio è da intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento di cui all’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 e non anche il termine differito di cui all’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000.
2.2. Depone in tal senso la chiara disposizione di cui al citato art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, secondo la quale “1091. Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni che hanno approvato il bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, possono, con proprio regolamento, prevedere che il maggiore gettito accertato e riscosso, relativo agli accertamenti dell'imposta municipale propria e della TARI, nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata al trattamento economico accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP a carico dell'amministrazione, è attribuita, mediante contrattazione integrativa, al personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, anche con riferimento alle attività connesse alla partecipazione del comune all'accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non corrisposti, in applicazione dell'articolo 1 del decreto-legge 30.09.2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 02.12.2005, n. 248. Il beneficio attribuito non può superare il 15 per cento del trattamento tabellare annuo lordo individuale. La presente disposizione non si applica qualora il servizio di accertamento sia affidato in concessione.”.
Invero, l’inciso di cui alla norma citata consente la facoltà di destinare risorse per incentivi al personale per l’accertamento di imposte municipali alla condizione dell’approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267”, e cioè nei termini previsti dall’art. 163, comma 1, Tuel1, e dunque solo nel caso in cui il bilancio di previsione sia approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno precedente.
D’altro canto, nell’ipotesi in cui il bilancio di previsione dell’ente non sia approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore, all’art. 163 citato, limita l’attività gestionale dell’ente ad una serie di attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della destinazione di incentivi al personale.
E ciò in base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità in cui versa quell’ente che non sia in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di previsione, dal che discende, ex lege, una gestione di tipo provvisorio dell’ente e limitata a specifiche attività.
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   11. Se il bilancio di previsione non è approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno precedente, la gestione finanziaria dell'ente si svolge nel rispetto dei principi applicati della contabilità finanziaria riguardanti l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria. Nel corso dell'esercizio provvisorio o della gestione provvisoria, gli enti gestiscono gli stanziamenti di competenza previsti nell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione o l'esercizio provvisorio, ed effettuano i pagamenti entro i limiti determinati dalla somma dei residui al 31 dicembre dell'anno precedente e degli stanziamenti di competenza al netto del fondo pluriennale vincolato. 
   2. Nel caso in cui il bilancio di esercizio non sia approvato entro il 31 dicembre e non sia stato autorizzato l'esercizio provvisorio, o il bilancio non sia stato approvato entro i termini previsti ai sensi del comma 3, è consentita esclusivamente una gestione provvisoria nei limiti dei corrispondenti stanziamenti di spesa dell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione provvisoria. Nel corso della gestione provvisoria l'ente può assumere solo obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali esecutivi, quelle tassativamente regolate dalla legge e quelle necessarie ad evitare che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente. Nel corso della gestione provvisoria l'ente può disporre pagamenti solo per l'assolvimento delle obbligazioni già assunte, delle obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali esecutivi e di obblighi speciali tassativamente regolati dalla legge, per le spese di personale, di residui passivi, di rate di mutuo, di canoni, imposte e tasse, ed, in particolare, per le sole operazioni necessarie ad evitare che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente. 
   3. L'esercizio provvisorio è autorizzato con legge o con decreto del Ministro dell'interno che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 151, primo comma, differisce il termine di approvazione del bilancio, d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomia locale, in presenza di motivate esigenze. Nel corso dell'esercizio provvisorio non è consentito il ricorso all'indebitamento e gli enti possono impegnare solo spese correnti, le eventuali spese correlate riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma urgenza o altri interventi di somma urgenza. Nel corso dell'esercizio provvisorio è consentito il ricorso all'anticipazione di tesoreria di cui all'art. 222.
   4. All'avvio dell'esercizio provvisorio o della gestione provvisoria l'ente trasmette al tesoriere l'elenco dei residui presunti alla data del 1° gennaio e gli stanziamenti di competenza riguardanti l'anno a cui si riferisce l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria previsti nell'ultimo bilancio di previsione approvato, aggiornati alle variazioni deliberate nel corso dell'esercizio precedente, indicanti -per ciascuna missione, programma e titolo- gli impegni già assunti e l'importo del fondo pluriennale vincolato.
   5. Nel corso dell'esercizio provvisorio, gli enti possono impegnare mensilmente, unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi precedenti, per ciascun programma, le spese di cui al comma 3, per importi non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del bilancio di previsione deliberato l'anno precedente, ridotti delle somme già impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo accantonato al fondo pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese: a) tassativamente regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi; c) a carattere continuativo necessarie per garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti. 
   6. I pagamenti riguardanti spese escluse dal limite dei dodicesimi di cui al comma 5 sono individuati nel mandato attraverso l'indicatore di cui all'art. 185, comma 2, lettera i-bis).
   7. Nel corso dell'esercizio provvisorio, sono consentite le variazioni di bilancio previste dall'art. 187, comma 3-quinquies, quelle riguardanti le variazioni del fondo pluriennale vincolato, quelle necessarie alla reimputazione agli esercizi in cui sono esigibili, di obbligazioni riguardanti entrate vincolate già assunte, e delle spese correlate, nei casi in cui anche la spesa è oggetto di reimputazione l'eventuale aggiornamento delle spese già impegnate. Tali variazioni rilevano solo ai fini della gestione dei dodicesimi
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 18.09.2019 n. 52).

INCARICHI PROGETTUALI«No» al finanziamento delle sole spese di progettazione dell'opera senza le fasi successive.
Stop al finanziamento delle sole spese di progettazione svincolate dalle successive fasi di esecuzione dei lavori e finalizzazione dell'opera; l'affidamento di un incarico di progettazione va necessariamente correlato non solo a un'opera che sia stata programmata, ma anche a un'indicazione sulla effettiva reperibilità delle risorse necessarie per la sua realizzazione.

Con il parere 12.09.2019 n. 352, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia affronta, su richiesta di un Comune, la pratica diffusa tra gli enti, a fronte della mancanza di disponibilità di risorse per l'intera opera, di conferire un incarico per le sole spese relative alla progettazione, imputandole al titolo II, nella speranza di reperire in un momento successivo quelle necessarie per il finanziamento dell' opera intera.
Dopo le novità del Dm 01.03.2019, la contabilizzazione, tra gli investimenti, delle spese per il livello minimo di progettazione, richiede che i documenti di programmazione dell'ente, che definiscono gli indirizzi generali riguardanti gli investimenti e la realizzazione delle opere pubbliche (Dup, Defr o altri documenti di programmazione), individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione è destinata, prevedendone, altresì, le necessarie forme di finanziamento. Secondo i giudici contabili, la contabilizzazione deve discendere da una chiara e trasparente programmazione dell'opera da realizzare, dove l'indicazione «specifica» delle «necessarie» forme di finanziamento ha un ruolo di particolare rilievo.
In una fase successiva rispetto alla verifica del livello di progettazione minima, gli interventi sono inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici e le relative spese sono stanziate nel titolo II del bilancio di previsione, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva. Ciò che rileva, dunque, per la corretta contabilizzazione della spesa di progettazione è il riferimento agli stanziamenti «riguardanti l'opera complessiva» a cui la fase progettuale è funzionalmente e strutturalmente correlata.
Va evidenziato inoltre che la progettazione di un'opera, seppur articolata secondo livelli, non può prescindere da un quadro trasparente determinato a monte, relativo alla sua realizzazione e, sotto il profilo contabile, a una chiara previsione ed effettiva individuazione delle forme di finanziamento.
La Corte dei conti ritiene, pertanto, che il conferimento di un incarico relativo alle spese di progettazione, da contabilizzare tra le spese di investimento, vada inserito nell'ambito di una effettiva e concreta programmazione dell'opera, ove, di conseguenza, anche le risorse e i mezzi finanziari complessivi da utilizzare devono essere conosciuti o conoscibili ex ante, con un grado di attendibilità tale da evitare che si faccia ricorso a un affidamento non finalizzato al perseguimento di un concreto interesse pubblico.
Risulta, altresì, indispensabile, proseguono i giudici, l'accertamento della fattibilità e della finanziabilità dell'opera pubblica, quale condizione minima e imprescindibile per il conferimento di un incarico di progettazione, al fine di evitare una spesa di denaro pubblico inutile, nel rispetto del più generale criterio di diligenza, che deve sempre caratterizzare l'agire pubblico. Ciò vale anche nell'ipotesi in cui si decida di far rientrare l'affidamento dell'incarico tra le spese correnti.
Conferimento dell'incarico
Infine, i giudici si soffermano sulle ipotesi vagliate dalla giurisprudenza in tema di conferimento di incarichi subordinati alla concessione di finanziamenti per la realizzazione di un' opera pubblica. L'inserimento nel contratto d'opera professionale di una clausola di copertura finanziaria, in base alla quale l'ente pubblico territoriale subordina il pagamento del compenso al professionista alla concessione di un finanziamento, non consente di derogare alle procedure di spesa, che non possono essere differite al momento dell'erogazione del finanziamento; in mancanza di finanziamento, il rapporto obbligatorio non è riferibile all'ente ma intercorre tra il privato e l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno.
L'articolo 24, comma 8-bis, del Dlgs 50/2016, da ultimo, prevede che le stazioni appaltanti non possono subordinare la corresponsione dei compensi relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico-amministrative ad essa connesse, all'ottenimento del finanziamento dell'opera progettata. Nella convenzione stipulata con il soggetto affidatario sono previste le condizioni e le modalità per il pagamento dei corrispettivi (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.10.2019).
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La Sezione si pronuncia sul conferimento e sulla contabilizzazione di incarichi di progettazione, anche alla luce delle modifiche introdotte dal D.M. 01.03.2019 all’allegato 4/2 del d.lgs. n. 118/2011.
La Sezione evidenzia che per la corretta contabilizzazione della spesa di progettazione rileva il riferimento agli stanziamenti sull’opera complessiva, a cui la fase progettuale è funzionalmente e strutturalmente correlata.
Va, altresì, rimarcato che la progettazione di un’opera, seppur articolata secondo livelli, non può prescindere da un quadro trasparente e determinato a monte, relativamente alla sua realizzazione e, sotto il profilo contabile, relativamente ad una chiara previsione ed effettiva contezza delle relative forme di finanziamento.
Il conferimento di un incarico relativo alle spese di progettazione, secondo le regole predette e da contabilizzare tra le spese di investimento, pertanto, va inserito nell’ambito di una effettiva e concreta programmazione dell’opera, ove anche le risorse e i mezzi finanziari complessivi da utilizzare devono essere conosciuti o conoscibili ex ante, con un grado di attendibilità tale da evitare che si faccia ricorso ad un affidamento non funzionalizzato al perseguimento di un concreto interesse pubblico.
Risulta, altresì, indispensabile l’accertamento della fattibilità e della finanziabilità dell’opera pubblica, quale condizione minima e imprescindibile per il conferimento di un incarico di progettazione; ciò vale anche nell’ipotesi in cui si decida di far rientrare l’affidamento dell’incarico tra le spese correnti, dovendo l’ente, se del caso, valutare attentamente tale possibilità, pur sempre nel rispetto dei principi e delle regole contabili e del perseguimento dell’interesse pubblico della comunità amministrata.
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Il Sindaco del Comune di Trescore Balneario (BG) chiede un parere in merito al seguente quesito.
Il principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria di cui all’Allegato n. 4/2 del D.Lgs. 118/2011, così come modificato dal decimo decreto correttivo del 01.03.2019, al punto 5.3.14 prevede, con riferimento alla registrazione contabile delle spese per interventi inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici e nell’elenco annuale che “A seguito della validazione del livello di progettazione minima previsto dall’articolo 21 del d.lgs. 50 del 2016, gli interventi sono inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici e le relative spese sono stanziate nel Titolo II del bilancio di previsione. L’inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici consente l’iscrizione nel bilancio di previsione degli stanziamenti riguardanti l’ammontare complessivo della spesa da realizzare, nel rispetto del principio della competenza finanziaria cd. potenziata. Gli stanziamenti sono interamente prenotati a seguito dell’avvio del procedimento di spesa e sono via via impegnati a seguito dei contratti concernenti le fasi di progettazione successive al minimo o la realizzazione dell’intervento. Gli impegni sono imputati contabilmente nel rispetto del principio della competenza finanziaria cd. potenziata”.
Il nostro ente ha attualmente la disponibilità di risorse per le sole spese di progettazione (di livello minimo e successive al livello minimo) e non anche per il finanziamento dell’intera opera cui la progettazione si riferisce.
Considerate tali premesse e considerato che molto spesso per ottenere punteggi più elevati nell’ambito di finanziamenti a fondo perduto è necessario disporre di un progetto definitivo ed esecutivo, è possibile conferire un incarico per le sole spese relative alla progettazione imputandole al titolo II, nella speranza di reperire in un momento successivo le necessarie risorse per il finanziamento dell’intera opera?
”.
...
2.1. Il D.M. 01.03.2019 (pubblicato in G.U. 25.03.2019, n. 71), all’articolo 3, ha apportato diverse modifiche al principio contabile applicato, concernente la contabilità finanziaria di cui all’allegato 4/2 del d.lgs. n. 118/2011.
Tra le modifiche introdotte, va segnalato l’inserimento dei paragrafi 5.3.12, 5.3.13 e 5.3.14.
In particolare, il paragrafo 5.3.12 riguarda la registrazione contabile delle spese per il livello minimo di progettazione richiesto per l’inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici e nell’elenco annuale e prevede che “La spesa riguardante il livello minimo di progettazione, richiesto ai fini dell'inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici, è registrata nel bilancio di previsione prima dello stanziamento riguardante l'opera cui la progettazione si riferisce. Per tale ragione, affinché la spesa di progettazione possa essere contabilizzata tra gli investimenti, è necessario che i documenti di programmazione dell'ente, che definiscono gli indirizzi generali riguardanti gli investimenti e la realizzazione delle opere pubbliche (DUP, DEFR o altri documenti di programmazione), individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione è destinata, prevedendone altresì le necessarie forme di finanziamento. In tal caso, la spesa di progettazione "esterna", consistente in una delle fattispecie previste dall'art. 24, comma 1, esclusa la lettera a), del d.lgs. n. 50 del 2016, è registrata, nel rispetto della natura economica della spesa, al Titolo II della spesa, alla voce U.2.02.03.05.001 "Incarichi professionali per la realizzazione di investimenti" del modulo finanziario del piano dei conti integrato previsto dall'allegato 6 al presente decreto. I principi contabili riguardanti la progettazione esterna si applicano anche alle ipotesi di ricorso a una centrale di committenza o a soggetti aggregatori qualificati. Nel caso di progettazione "interna", di cui al comma 1, lettera a), dell'art. 24, d.lgs. n. 50 del 2016, le relative spese sono contabilizzate secondo la natura economica delle stesse al Titolo I o al Titolo II della spesa. La capitalizzazione delle spese riguardanti il livello minimo di progettazione è effettuata attraverso le scritture della contabilità economico patrimoniale e non richiede alcuna rilevazione in contabilità finanziaria. Nel caso in cui la copertura dell'intervento sia costituita da un contributo per il finanziamento dell'opera, comprensivo della spesa di progettazione, concesso nell'esercizio successivo a quello in cui è stata impegnata la spesa concernente la progettazione, per la quota riguardante la progettazione il contributo è gestito come entrata libera, in quanto il relativo vincolo è già stato realizzato e può essere destinato alla copertura di spese correnti”.
Il paragrafo 5.3.13 riguarda la registrazione contabile delle spese di progettazione riguardanti lavori di valore stimato, inferiore a 100.000 euro, prevedendo che “La spesa concernente gli interventi di valore stimato inferiore a 100.000 euro è stanziata in bilancio anche se detti interventi non sono inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici. In tali casi, la spesa di progettazione è registrata nel Titolo II della spesa, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel caso di progettazione interna che di progettazione esterna, in attuazione dell'art. 113, comma 1, del Codice, il quale prevede "Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti". In ogni caso, gli stipendi del personale dell'ente incaricato della progettazione sono classificati tra le spese di personale (spesa corrente). La capitalizzazione di tali spese è effettuata attraverso le scritture della contabilità economico patrimoniale e non richiede alcuna rilevazione in contabilità finanziaria”.
Infine, il nuovo paragrafo 5.3.14 –relativo alla registrazione contabile delle spese per gli interventi inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici e nell’elenco annuale– prevede che “A seguito della validazione del livello di progettazione minima previsto dall'articolo 21 del d.lgs. 50 del 2016, gli interventi sono inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici e le relative spese sono stanziate nel Titolo II del bilancio di previsione. L'inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici consente l'iscrizione nel bilancio di previsione degli stanziamenti riguardanti l'ammontare complessivo della spesa da realizzare, nel rispetto del principio della competenza finanziaria cd. potenziata. In particolare, nei casi in cui la copertura di tali spese risulti costituita da entrate esigibili nel medesimo esercizio in cui sono esigibili le spese correlate, nel bilancio di previsione gli stanziamenti di entrata e di spesa sono iscritti distintamente con imputazione ai singoli esercizi di esigibilità. Nei casi in cui la copertura di tali spese risulti costituita da entrate esigibili anticipatamente rispetto all’esigibilità delle spese correlate, nel bilancio di previsione è iscritto il fondo pluriennale vincolato di spesa. Gli stanziamenti sono interamente prenotati a seguito dell'avvio del procedimento di spesa e sono via via impegnati a seguito della stipula dei contratti concernenti le fasi di progettazione successive al minimo o la realizzazione dell'intervento. Gli impegni sono imputati contabilmente nel rispetto del principio della competenza finanziaria cd. potenziata. La spesa di progettazione riguardante i livelli successivi a quello minimo richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici è registrata nel titolo secondo della spesa, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel caso di progettazione interna che di progettazione esterna, in attuazione dell'art. 113, comma 1, del Codice, il quale prevede "Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti". In ogni caso, gli stipendi del personale dell'ente incaricato della progettazione sono classificati tra le spese di personale (spesa corrente). La capitalizzazione di tali spese è effettuata attraverso le scritture della contabilità economico patrimoniale e non richiede alcuna rilevazione in contabilità finanziaria”.
2.2. Dalle modifiche introdotte e sopra riportate, emerge che
per la contabilizzazione, tra gli investimenti, delle spese per il livello minimo di progettazione, è necessario che i documenti di programmazione dell'ente, che definiscono gli indirizzi generali riguardanti gli investimenti e la realizzazione delle opere pubbliche (DUP, DEFR o altri documenti di programmazione), individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione è destinata, prevedendone, altresì, le necessarie forme di finanziamento.
In tal caso, la spesa di progettazione "esterna", consistente in una delle fattispecie previste dall'art. 24, comma 1, esclusa la lettera a), del d.lgs. n. 50 del 2016, è registrata, nel rispetto della natura economica della spesa, al Titolo II della spesa, alla voce U.2.02.03.05.001 "Incarichi professionali per la realizzazione di investimenti" del modulo finanziario del piano dei conti integrato previsto dall'allegato 6 al presente decreto.
Nel caso di progettazione "interna", di cui al comma 1, lettera a), dell'art. 24, d.lgs. n. 50 del 2016, le relative spese sono contabilizzate secondo la natura economica delle stesse al Titolo I o al Titolo II della spesa.

Ne deriva che
la contabilizzazione in parola consegue ad una chiara e trasparente programmazione dell’opera da realizzare, rispetto a cui l’indicazione “specifica” delle “necessarie” forme di finanziamento ne costituisce parte integrante.
Le previsioni di cui al paragrafo 5.3.14 attengono, sotto il profilo cronologico, ad una fase successiva rispetto alla validazione del livello di progettazione minima, previsto dall'articolo 21 del d.lgs. 50 del 2016, con la conseguenza che, a seguito di tale validazione, gli interventi sono inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici e le relative spese sono stanziate nel Titolo II del bilancio di previsione.
In particolare, la spesa di progettazione riguardante i livelli successivi a quello minimo richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici è registrata nel Titolo II della spesa, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel caso di progettazione interna che di progettazione esterna. In ogni caso, gli stipendi del personale dell'ente incaricato della progettazione sono classificati tra le spese di personale (spesa corrente).
Ciò che rileva, dunque, per la corretta contabilizzazione della spesa di progettazione è il riferimento agli stanziamenti “riguardanti l’opera complessiva” a cui, in definitiva, la fase progettuale è funzionalmente e strutturalmente correlata, ai fini del rispetto delle previsioni dei principi contabili in parola.
In linea generale, inoltre, va evidenziato che
la progettazione di un’opera, seppur articolata secondo livelli, non può prescindere da un quadro trasparente e determinato a monte, relativamente alla sua realizzazione e, sotto il profilo contabile, relativamente ad una chiara previsione ed effettiva contezza delle relative forme di finanziamento.
La Sezione ritiene, pertanto, che il conferimento di un incarico relativo alle spese di progettazione, secondo le regole predette e da contabilizzare tra le spese di investimento, vada inserito nell’ambito di una effettiva e concreta programmazione dell’opera, ove, di conseguenza, anche le risorse e i mezzi finanziari complessivi da utilizzare devono essere conosciuti o conoscibili ex ante, con un grado di attendibilità tale da evitare che si faccia ricorso ad un affidamento –e quindi vengano utilizzate risorse pubbliche– non funzionalizzato al perseguimento di un concreto interesse pubblico.
2.3. Occorre, altresì, aggiungere che lo stesso D.M. 01.03.2019, a seguito delle previsioni normative di cui alla legge n. 145/2018 (articolo 1, commi 909-911), ha apportato modifiche anche in tema di formazione del Fondo Pluriennale Vincolato (FPV), evidenziando l’importanza del principio di correlazione dell’acquisizione delle risorse con il reale e monitorato programma di sviluppo della spesa stessa, ove assume particolare rilievo l’esatta e specifica declinazione delle fasi che attraversano l’arco temporale che va dall’inserimento dell’opera nel programma triennale fino alla esecuzione della stessa.
Sul punto, nella deliberazione della Sezione delle Autonomie n. 19/SEZAUT/2019/INPR, del 24.07.2019, si fa presente che “Le modifiche apportate dal predetto provvedimento anticipano i tempi di costituzione del FPV a quello dell'affidamento della progettazione successiva al livello minimo, consentendo la prenotazione dell’intero stanziamento di spesa iscritto in bilancio dopo l’inserimento dell’intervento nel programma triennale delle opere pubbliche. È quanto mai opportuno alla luce di queste novità ricordare che il Fondo funziona ed assolve al suo ruolo di contenitore dinamico dell’acquisizione ed impiego di risorse nella misura in cui realmente è correlato allo sviluppo del programma di spesa. Misuratore di efficacia di questo istituto è il suo effettivo utilizzo. Le modifiche apportate al principio contabile applicato impongono attenzione proprio su detto profilo, portando in primo piano la necessità di un costante monitoraggio dello sviluppo dei programmi di spesa per giustificare le ragioni della sua conservazione e per garantire il corretto utilizzo del FPV. È evidente, infatti, che più si dilata lo spazio temporale tra acquisizione delle risorse e utilizzo delle stesse, più cresce l’esigenza di monitoraggio. Questo spazio è teoricamente individuato nella declinazione delle fasi che attraversano l’arco temporale che va dall’inserimento dell’opera nel programma triennale fino alla esecuzione della stessa. Risulta, dunque, necessario che detto arco temporale venga mantenuto in limiti fisiologici affinché il complessivo sviluppo della filiera procedimentale non sbiadisca la natura tipica del FPV quale strumento di rappresentazione della programmazione e previsione delle spese pubbliche territoriali che possa evidenziare con trasparenza e attendibilità il procedimento di impiego delle risorse acquisite dall’ente. Detta esigenza risulta garantita se e nella misura in cui il tempo che trascorre identifica sempre il tempo dell’adempimento della prestazione contenuto dell’obbligazione in via di perfezionamento. Secondo la disciplina del riformato principio contabile la legittima conservazione delle risorse accantonate nel fondo a copertura di spese di investimento non impegnate, presuppone sempre e comunque due condizioni e cioè l’intero accertamento delle relative entrate e l’inserimento dell’intervento nel programma triennale, con l’eccezione dei lavori pubblici di importo tra 40 e 100mila euro. A queste condizioni indispensabili e contestualmente verificate si aggiungono talune qualificate situazioni alternative di seguito indicate quali l’impegno parziale del quadro economico sulla base di precise obbligazioni giuridicamente perfezionate ovvero l’attivazione delle procedure di affidamento dei livelli di progettazione successivi al minimo e l’attivazione delle procedure di affidamento dell’intervento da realizzare avviate dopo la validazione del progetto da porsi a base della gara stessa.”.
2.4. Le disposizioni del d.lgs. n. 50/2016 -da ultimo modificato dal D.L. n. 32/2019, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 55/2019– confermano tale impostazione, laddove, all’articolo 21, comma 1, si prevede che le amministrazioni aggiudicatrici adottano il programma triennale dei lavori e che tali programmi sono approvati nel rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il bilancio e, “per gli enti locali, secondo le norme che disciplinano la programmazione economico-finanziaria degli enti”.
Al successivo comma 3, l’articolo 21 stabilisce, altresì, che il programma triennale dei lavori pubblici e i relativi aggiornamenti annuali contengono i lavori il cui valore stimato sia pari o superiore a 100.000 euro e “indicano, previa attribuzione del codice unico di progetto.., i lavori da avviare nella prima annualità, per i quali deve essere riportata l'indicazione dei mezzi finanziari stanziati sullo stato di previsione o sul proprio bilancio, ovvero disponibili in base a contributi o risorse dello Stato, delle regioni a statuto ordinario o di altri enti pubblici…”.
Ancora, l’articolo 23 del d.lgs. n. 50/2016, nel prevedere che la progettazione in materia di lavori pubblici si articola secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici (progetto di fattibilità tecnica ed economica, progetto definitivo e progetto esecutivo), pone l’accento sulla rilevanza della quantificazione delle spese per la realizzazione dell’opera e del relativo cronoprogramma.
Ne deriva, dunque, che
la progettazione di un’opera pubblica non può costituire un’attività fine a sé stessa e svincolata dalle successive fasi di esecuzione dei lavori e finalizzazione dell’opera, con la conseguenza che l’affidamento di un incarico di progettazione va ontologicamente correlato non solo ad un’opera che sia stata programmata, ma anche ad un’indicazione sulla effettiva reperibilità delle risorse necessarie per la sua realizzazione.
Risulta, altresì, indispensabile l’accertamento della fattibilità e della finanziabilità dell’opera pubblica, quale condizione minima e imprescindibile per il conferimento di un incarico di progettazione, al fine di evitare una spesa di denaro pubblico inutile (vd. Corte dei conti Sicilia, Sez. App., 24/11/2008, n. 364) e nel rispetto del più generale criterio di diligenza, che deve sempre caratterizzare l’agere pubblico.
Ciò vale anche nell’ipotesi in cui si decida di far rientrare l’affidamento dell’incarico tra le spese correnti, dovendo l’ente, se del caso, valutare attentamente tale possibilità, pur sempre nel rispetto dei principi e delle regole contabili e del perseguimento dell’interesse pubblico della comunità amministrata.
2.5. Da ultimo, ed al solo fine di riferire circa le ipotesi vagliate dalla giurisprudenza in tema di conferimento di incarichi subordinati alla concessione di finanziamenti per la realizzazione di un'opera pubblica,
si rammenta che, ai sensi dell’articolo 191 del TUEL, “Gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente programma del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5… Fermo restando quanto disposto al comma 4, il terzo interessato, in mancanza della comunicazione, ha facoltà di non eseguire la prestazione sino a quando i dati non gli vengano comunicati” e che l’inserimento nel contratto d’opera professionale di una clausola di cd. copertura finanziaria –in base alla quale l’ente pubblico territoriale subordina il pagamento del compenso al professionista incaricato della progettazione di un’opera pubblica alla concessione di un finanziamento– non consente di derogare alle procedure di spesa, che non possono essere differite al momento dell’erogazione del finanziamento; in mancanza, il rapporto obbligatorio non è riferibile all’ente ma intercorre, ai fini della controprestazione, tra il privato e l’amministratore o funzionario che abbia assunto l’impegno (vd. Cass., 18/12/2014, n. 26657; Cass. civ., Sez. I, ord. 20/03/2018, n. 6970; Cass. civ., ord. 11/03/2019, n. 6919).
Si ricorda, infine, che ai sensi dell’articolo 24, comma 8-bis, del d.lgs. n. 50/2016 (comma aggiunto dall'art. 14, comma 1, lett. d), d.lgs. 19.04.2017, n. 56) “
Le stazioni appaltanti non possono subordinare la corresponsione dei compensi relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico-amministrative ad essa connesse all'ottenimento del finanziamento dell'opera progettata. Nella convenzione stipulata con il soggetto affidatario sono previste le condizioni e le modalità per il pagamento dei corrispettivi con riferimento a quanto previsto dagli articoli 9 e 10 della legge 02.03.1949, n. 143, e successive modificazioni”.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSullo scorrimento delle graduatorie dei concorsi pre-2019 in Corte dei conti vince il «sì».
Si possono scorrere le graduatorie dei concorsi banditi prima del 2019? Per la maggioranza delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti fin qui intervenute, tra cui in modo esplicito quella della Marche, la risposta è positiva; per i giudici contabili della Sardegna la risposta è negativa.
È questa l'ennesima occasione su cui una disposizione di legge, per la verità molto lacunosa tecnicamente, viene letta in modo differente dai giudici contabili, peraltro nell'assenza in questa occasione di indicazioni da parte dei ministeri. Il caso torna a sollevare ancora una volta la necessità di migliorare la tecnica di redazione delle leggi e di garantire omogeneità nelle interpretazioni.
Il nuovo quadro normativo
Sulla base delle disposizioni della legge di bilancio del 2019, e questo è un dato acclarato, le graduatorie dei concorsi banditi a partire dallo scorso 1° gennaio non potranno essere utilizzate per scorrimento né da parte degli enti che hanno indetto le selezioni concorsuali né da parte di altre amministrazioni.
Sulla base delle modifiche introdotte dalla legge di conversione del Dl 135/2018 le graduatorie dei concorsi banditi dal 2019 vanno comunque utilizzate per scorrimento per la sostituzione dei vincitori non assunti o decaduti o dimessi durante il periodo di validità della stessa. Con una deroga introdotta dalla legge di conversione del Dl 34/2019 il divieto di scorrimento per le assunzioni degli idonei non si applica al personale educativo e docente degli enti locali.
Il parere 06.09.2019 n. 41 della sezione regionale di controllo della Corte dei conti delle Marche (già sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10 settembre) ha opportunamente aggiunto che queste graduatorie possono comunque essere utilizzate per le assunzioni del personale a tempo indeterminato, in quanto la disposizione che lo consente (articolo 36 del Dlgs 165/2001) costituisce una norma speciale e non è quindi abrogata in modo implicito delle nuove disposizioni.
Questa stessa deliberazione in modo esplicito e facendo seguito a quanto implicitamente contenuto nelle pronunce delle sezioni regionali di controllo della Puglia (parere 09.07.2019 n. 72) e del Veneto (parere 22.05.2019 n. 113) chiarisce che il legislatore non ha introdotto un divieto di scorrimento delle graduatorie a tempo indeterminato per i concorsi banditi negli anni precedenti, ma solamente per quelli banditi a partire dal 2019. Con ciò smentendo il parere 03.07.2019 n. 36 dei giudici contabili della Sardegna.
È da considerare assodato che con la legge di bilancio è stata invertita la logica che ha ispirato il legislatore negli ultimi anni, cioè il favore per lo strumento dello scorrimento delle graduatorie. Ma, punto del contrasto, questa inversione si applica solamente per i concorsi del 2019 o si estende a tutti, con l'abrogazione implicita dell'articolo 3, comma 61, della legge 350/2003?
Effetti e interpretazioni di legge
È del tutto evidente che lo scorrimento delle graduatorie abbrevia i tempi in cui si porta a conclusione un'assunzione ed è molta "comoda" per l'ente, perché evita di dovere indire e attuare un concorso e, quindi, comporta oneri finanziari e organizzativi assai contenuti. Dall'altro lato, è del tutto evidente che gli idonei non sono dei vincitori e che la possibilità di attingere senza limiti numerici, tanto più se congiunto all'allungamento dei periodi di validità delle graduatorie, possono determinare rilevanti effetti distorsivi.
L'eccessiva durata delle graduatorie è stata tolta di mezzo dalla legge di bilancio, visto che dal 1° gennaio non sono più utilizzabili le graduatorie approvate fino a tutto il 2009, dal prossimo 30 settembre non lo saranno più quelle approvate negli anni dal 2010 al 2014 ed entro pochi anni si ritorna alla validità triennale di tutte le graduatorie. Ma l'utilizzazione delle graduatorie non ha limiti numerici.
È opportuno ricordare infine, richiamando le indicazioni dei giudici contabili marchigiani, che lo scorrimento delle graduatorie, sia da parte dell'ente che ha indetto il concorso sia da parte delle altre amministrazioni, è vietato per i posti di nuova istituzione o che risultano dalla trasformazione dei posti esistenti. Un divieto che peraltro deve essere chiarito dopo che con la legge Madia il rilievo delle dotazioni organiche è stato significativamente ridimensionato.
E, ancora, si deve ricordare che la possibilità di utilizzare per scorrimento graduatorie di altri enti sulla base di intese raggiunte dopo che la loro approvazione costituisce una deroga ai principi di carattere generale, quindi da applicare in via eccezionale, e comunque le amministrazioni si devono dare meccanismi predeterminati e trasparenti di scelta delle graduatorie da utilizzare, senza ad esempio poterne sovvertire l'ordine di merito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.09.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Graduatorie, largo agli idonei. Sì allo scorrimento per i bandi antecedenti al 2019. La Corte dei conti Marche sconfessa la sezione Sardegna.
Graduatorie, largo agli idonei Per i bandi antecedenti al 2019 è ancora possibile sia lo scorrimento delle graduatorie degli idonei, sia l'utilizzo delle graduatorie di altri enti.

Lo ha chiarito la Corte conti Marche nel parere 06.09.2019 n. 41.
In risposta ad alcuni quesiti sulla possibilità di scorrere le graduatorie, la sezione Marche della magistratura contabile si discosta, correttamente, dall'erronea interpretazione fornita dalla sezione Sardegna col parere 03.07.2019 n. 36, ammettendo che per i bandi antecedenti al 2019 sia ancora possibile sia lo scorrimento delle graduatorie degli idonei, sia l'utilizzo delle graduatorie di altri enti.
Nell'affrontare la questione della possibilità di scorrere le graduatorie degli idonei allo scopo di assumere a tempo determinato, invece, il parere della sezione Marche inciampa in evidenti equivoci. Esso afferma che «per le assunzioni a tempo determinato di idonei non vincitori di graduatorie a tempo indeterminato è possibile derogare all'obbligo di utilizzo delle graduatorie per i soli posti messi a concorso previsto dal combinato disposto dei commi 361 e 365 dell'art. 1 della legge n. 145 del 2018».
Quindi, per la sezione Marche, mentre i dipendenti a tempo indeterminato si possono assumere attingendo solo ai vincitori, al contrario i dipendenti a tempo determinato potrebbero essere assunti anche chiamando gli idonei non vincitori.
Questo perché «in sostanza, l'art. 36, comma 2, dlgs 165/2001 costituisce una normativa di carattere speciale rispetto alle previsioni della legge n. 145 del 2018, dettata da una ratio differente». La specialità di tale disposizione, secondo la magistratura contabile sarebbe «supportata non solo dalla interpretazione teleologica dell'intervento normativo che l'ha introdotta ma anche dalla stessa interpretazione letterale e sistematica della legge n. 145 del 2018, che ha abrogato solo alcune delle disposizioni contenute nel medesimo art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, ma non quella modificativa dell'art. 36, comma 2, dlgs 165/2001».
Tale impianto interpretativo non regge. L'articolo 36, comma 2, penultimo periodo, del dlgs 165/2001 dispone: «Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato».
È vero che la disposizione citata consente di sottoscrivere i contratti a termine sia coi vincitori, sia con gli idonei. Ma, altrettanto vero è che occorra, nel nuovo regime normativo, coordinare tale disposizioni con le previsioni contenute nell'articolo 1, comma 361, della legge 145/2018, ai sensi del quale a partire dalle procedure bandite nel 2019 si possono assumere solo i vincitori e non gli idonei (ferma la possibilità di scorrere le graduatorie quando per qualsiasi ragione il rapporto di lavoro con i vincitori non si sia costituito o si sia interrotto entro la vigenza delle graduatorie).
Lo scopo dichiarato dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001 è evitare il fenomeno del precariato. In un regime nel quale lo scorrimento delle graduatorie fino alla chiamata degli idonei è ammesso, un idoneo assunto a tempo determinato può contare su una futura assunzione a tempo indeterminato dovuta appunto allo scorrimento della graduatoria; dunque, la sua assunzione a termine attenua la «precarietà» insita in un contratto flessibile. Ma, nel nuovo regime, un idoneo non può vantare alcuna fondata aspettativa allo scorrimento della graduatoria a tempo indeterminato. Quindi, una sua assunzione con contratto a termine molto difficilmente precederebbe una successiva assunzione a tempo indeterminato.
Pertanto, la chiamata con contratto a termine di idonei di graduatorie a tempo indeterminato, esattamente all'opposto della tesi proposta dalla sezione Marche, finisce proprio per tradursi senza dubbio alcuno nella produzione di precariato pubblico, in aperta violazione della prescrizione normativa, che va vista nella combinazione tra articoli 1, comma 361, della legge 145/2018 e articolo 36, comma 2, penultimo periodo, del dlgs 165/2001, norma, quindi, da non poter in alcun modo considerare come «speciale», ma necessariamente da coordinare e integrare con le disposizioni della legge di Bilancio 2019 (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2019).
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Con nota a firma del Sindaco del Comune di Falconara Marittima (AN), pervenuta via PEC in data 08.08.2019 per il tramite del CAL, il Comune di Falconara Marittima ha avanzato a questa Corte una richiesta di parere, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003, concernente l’interpretazione della normativa vigente in materia di utilizzo di graduatorie concorsuali.
In particolare, l’Ente ha chiesto se:
   · alla luce della perdurante vigenza dell’art. 36, comma 2, penultimo capoverso, del decreto legislativo n. 165 del 2001, le graduatorie di concorsi, banditi successivamente al 01.01.2019 per posti a tempo indeterminato, possano essere correttamente utilizzate –nel rispetto dei limiti e vincoli delle norme contabili– per assunzioni a tempo determinato, domandando, altresì, in caso positivo, di specificare i limiti e le modalità procedurali sia nel caso di utilizzo di proprie graduatorie che di graduatorie di altri comuni;
   · alla luce delle vigenti norme, si ritiene ancora possibile l’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro ente formata a seguito di un bando pubblicato precedentemente al 01.01.2019, in quanto fuori dall’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018.
Al riguardo, l’Ente ha chiesto l’interpretazione di specifiche disposizioni di legge, quali l’art. 1, comma 363, della legge n. 145 del 2018; l’art. 4, comma 3-ter, del decreto-legge n. 101 del 2013; l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, facendo presente che la propria tesi interpretativa è favorevole per entrambe le questioni.
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Nel merito
1. Normativa di riferimento
Passando a trattare il merito della questione sottoposta al vaglio della Sezione, ferma restando la normativa in materia di vincoli di spesa e di vincoli assunzionali vigenti, in merito alla quale si rinvia alla costante giurisprudenza della Corte dei conti (ex multis, Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 09.07.2019 n. 72, Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 20.12.2018 n. 548), appare opportuno effettuare un sintetico excursus della normativa in applicazione.
1.1. Il d.l. 31.08.2013, n. 101, convertito in legge 30.10.2013, n. 125, recante “Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni”, ha introdotto, all’art. 4, una serie di disposizioni volte a consentire alle pubbliche amministrazioni di sottoscrivere contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. In particolare, il medesimo articolo:
   · ha modificato l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, introducendo l’ultimo periodo, ancora in vigore, che dispone: “Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l'applicazione dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato”;
   · ha previsto, al comma 3, che “per le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici e gli enti di ricerca, l'autorizzazione all'avvio di nuove procedure concorsuali, ai sensi dell'articolo 35, comma 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, è subordinata alla verifica: a) dell'avvenuta immissione in servizio, nella stessa amministrazione, di tutti i vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate; b) dell'assenza, nella stessa amministrazione, di idonei collocati nelle proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007, relative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di equivalenza”;
   · ha previsto, al comma 3-bis, che “per la copertura dei posti in organico, è comunque necessaria la previa attivazione della procedura prevista dall'articolo 33 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, in materia di trasferimento unilaterale del personale eccedentario”.
   · ha previsto, al comma 3-ter, che “resta ferma per i vincitori e gli idonei delle graduatorie di cui al comma 3 del presente articolo l'applicabilità dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350”;
   · ha disposto, al comma 3-quater, che “l'assunzione dei vincitori e degli idonei, nelle procedure concorsuali già avviate dai soggetti di cui al comma 3 e non ancora concluse alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è subordinata alla verifica del rispetto della condizione di cui alla lettera a) del medesimo comma”.
Fino alla legge n. 145 del 2018, gli interventi normativi hanno esteso la possibilità di utilizzo delle graduatorie concorsuali, mediante il loro scorrimento, per l’assunzione dei candidati idonei non vincitori.
In particolare, con il decreto-legge n. 101 del 2013, il legislatore ha limitato l’autorizzazione all’avvio di nuove procedure concorsuali, prevedendo preliminarmente la verifica di una serie di condizioni quali:
   a) l’avvenuta immissione in servizio, nella stessa Amministrazione, di tutti i vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate; e
   b) l’assenza, nella stessa Amministrazione, di idonei collocati nelle proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007, relative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di equivalenza.
Oltre a ciò, lo stesso corpo normativo ha previsto ulteriori condizioni, quali la previa attivazione della procedura prevista dall’articolo 33 del decreto legislativo n. 165 del 2001, in materia di trasferimento unilaterale del personale eccedentario.
Inoltre, veniva fatta salva, per i vincitori e gli idonei delle graduatorie di cui sopra, l’applicabilità dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, mentre anche l’assunzione dei vincitori e degli idonei, nelle procedure concorsuali già avviate dai soggetti di cui sopra e non ancora concluse alla data di entrata in vigore della legge di conversione, veniva subordinata alla verifica del rispetto della condizione dell’avvenuta immissione in servizio, nella stessa Amministrazione, di tutti i vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate.
Tali prescrizioni, inizialmente dettate per le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici e gli enti di ricerca, sono state estese anche agli enti locali dall’art. 3, comma 5-ter, del decreto-legge n. 90 del 2014, secondo cui i principi dell’art. 4, comma 3, del decreto-legge n. 101 del 2013, convertito, con modifiche, dalla legge n. 114 del 2014, si applicano alle amministrazioni di cui al comma 5 del medesimo art. 3 ovvero alle regioni e agli enti sottoposti al patto di stabilità interno.
Peraltro, la giurisprudenza ha riconosciuto un “generale favor dell’ordinamento per lo scorrimento di graduatorie ancora efficaci ai fini della copertura di posti vacanti nella pianta organica” (si veda, ex multis, Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 371/2018/PAR, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 14/2011, Sezione regionale di controllo per la Campania, deliberazione n. 158/2018/PAR).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace rappresenta ormai la regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico (TAR Lazio, sent. n. 3444/2012, TAR Campania, Napoli, sent. n. 366/2017, Consiglio di Stato, sent. n. 6247/2013), senza che tuttavia sia configurabile un diritto soggettivo all’assunzione in capo agli idonei per il solo fatto della disponibilità di posti in organico: infatti, l’Amministrazione deve sempre motivare le forme prescelte per il reclutamento, tenendo conto delle graduatorie vigenti e del fatto che “l’ordinamento attuale afferma un generale favore per l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei, che recede solo in presenza di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso” (Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 2011).
1.2. Successivamente, il comma 363 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018 ha modificato il decreto-legge n. 101 del 2013 sopra richiamato, abrogando la lettera b) del comma 3 e i commi 3-ter e 3-quater dell’art. 4.
In particolare, i commi 360-367 della citata legge, concernenti le modalità delle procedure concorsuali per il reclutamento del personale nelle pubbliche amministrazioni, hanno ammesso l’utilizzo delle graduatorie concorsuali solo per la copertura dei posti messi a concorso e hanno modificato, in via transitoria, i termini di vigenza delle graduatorie medesime. I commi in esame riguardano tutte le pubbliche amministrazioni (di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, e successive modificazioni), con esclusione delle assunzioni del personale scolastico (ivi compresi i dirigenti) e del personale delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica.
In particolare, il comma 360 ha esteso a tutte le procedure concorsuali delle pubbliche amministrazioni le modalità semplificate che verranno definite con il regolamento ministeriale di cui al precedente comma 300.
I commi 361 e 365 hanno previsto, con riferimento alle procedure concorsuali bandite dopo il 01.01.2019, che le relative graduatorie siano impiegate esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso, fermi restando i termini di vigenza delle medesime graduatorie.
Tali termini sono stati modificati, in via transitoria, dal successivo comma 362, che ha posto termini di durata specifici a seconda dell'anno di approvazione della graduatoria, con riferimento agli anni 2010-2018, mentre è stato confermato il termine già vigente di 3 anni per le graduatorie approvate a decorrere dal 01.01.2019. E’ stata, inoltre, esplicitamente confermata la possibilità, per le leggi regionali, di stabilire periodi di vigenza inferiori.
Infine, i commi 363 e 364 hanno abrogato alcune norme, ai fini del coordinamento con i principi citati.
Come evidenziato nel recente parere 03.07.2019 n. 36 della Sezione di controllo della Corte dei conti per la regione Sardegna, i due interventi normativi hanno una ratio differente: infatti, mente il primo (decreto-legge n. 101 del 2013) si colloca in un quadro normativo da cui emerge una preferenza per l’assunzione di personale mediante lo scorrimento di graduatorie, proprie o altrui, il secondo (legge n. 145 del 2018), con le disposizioni innanzi richiamate, ha introdotto una evidente discontinuità con gli interventi normativi precedenti: infatti, la disciplina dettata dall’art. 1, comma 361, della legge n. 145 del 2018, nel prevedere che le graduatorie dei concorsi siano utilizzate “esclusivamente” per la copertura dei posti messi a concorso, impedisce l’utilizzo della medesima graduatoria per la copertura di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a concorso, sia esso della medesima o di altra Amministrazione.
Lo scorrimento della graduatoria viene quindi limitato, a partire dal 2019, alla sola possibilità di attingere ai candidati “idonei” per la copertura di posti che, pur essendo stati messi a concorso, non siano stati coperti o siano successivamente divenuti scoperti nel periodo di permanente efficacia della graduatoria medesima.
Come rimarcato nella deliberazione sopra richiamata, “la regola introdotta dal menzionato art. 1, comma 361, della legge n. 145/2018, pertanto, determina una inversione di tendenza nella utilizzabilità delle graduatorie di concorso, non consentendo più lo scorrimento da parte di altre amministrazioni, né da parte della medesima Amministrazione che intendesse utilizzare una propria graduatoria, ancora efficace, per la copertura di un posto diverso da quelli messi a concorso. Il successivo art. 1, comma 363, nell’abrogare alcune norme che prevedevano la possibilità di utilizzare le graduatorie di altre amministrazioni, si pone in coerenza con la volontà legislativa espressa nella nuova regola generale di cui al comma 361: da un lato, infatti, si crea uno stretto collegamento tra graduatoria e posto messo a concorso; dall’altro, coerentemente, vengono abrogate le norme che prevedevano l’utilizzo della graduatoria per la copertura di posti diversi da quelli messi a concorso” (Sezione di controllo per la Sardegna, parere 03.07.2019 n. 36).
1.3. Si evidenzia che i sopra citati commi della legge n. 145 del 2018 sono stati modificati di recente dall’articolo 9-bis, comma 1, lettera a), del decreto-legge 14.12.2018, n. 135, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 11.02.2019, n. 12, dall'articolo 14-ter, comma 2, del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28.03.2019, n. 26 e dall’articolo 33, comma 2-bis, del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28.06.2019, n. 58.
In particolare, il comma 361 è stato modificato dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, che ha aggiunto, dopo le parole «a concorso», le seguenti: «nonché di quelli che si rendono disponibili, entro i limiti di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando il numero dei posti banditi e nel rispetto dell'ordine di merito, in conseguenza della mancata costituzione o dell'avvenuta estinzione del rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori. Le graduatorie possono essere utilizzate anche per effettuare, entro i limiti percentuali stabiliti dalle disposizioni vigenti e comunque in via prioritaria rispetto alle convenzioni previste dall'articolo 11 della legge 12.03.1999, n. 68, le assunzioni obbligatorie di cui agli articoli 3 e 18 della medesima legge n. 68 del 1999, nonché quelle dei soggetti titolari del diritto al collocamento obbligatorio di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 23.11.1998, n. 407, sebbene collocati oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso».
Il Collegio osserva come il primo periodo dell’ultima parte del comma 361, aggiunta dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, non introduce una deroga al principio di stretto collegamento tra graduatoria e posto messo a concorso, bensì, con un’endiadi, chiarisce il significato della locuzione “posti messi a concorso”, evidenziando come la stessa non coincida con il termine “vincitori”, comprendendo la possibilità di scorrimento delle graduatorie degli idonei nei casi in cui si verifichino vicende che possono portare alla mancata costituzione o alla estinzione anticipata del rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori.
Inoltre, a seguito delle modifiche apportate all’art. 1, comma 366, della legge n. 145 del 2018 ad opera del decreto-legge n. 34 del 2019, i commi 360, 361, 363 e 364 non si applicano alle assunzioni del personale educativo degli enti locali.
1.4. Infine, si evidenzia come il principio sancito dal comma 361 sopra citato non sia stato superato dal recente intervento normativo operato con la legge 19.06.2019, n. 56 (c.d. legge concretezza).
In particolare, l’articolo 3, comma 4, della legge 19.06.2019, n. 56 (c.d. legge concretezza), dispone che: “Al fine di ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, per il triennio 2019-2021, fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 1, comma 399, della legge 30.12.2018, n. 145, le amministrazioni di cui al comma 1” ovvero le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie e gli enti pubblici non economici, “possono procedere, in deroga a quanto previsto dal primo periodo del comma 3 del presente articolo e all'articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001, nel rispetto dell'articolo 4, commi 3 e 3-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125, nonché del piano dei fabbisogni definito secondo i criteri di cui al comma 2 del presente articolo: a) all'assunzione a tempo indeterminato di vincitori o allo scorrimento delle graduatorie vigenti, nel limite massimo dell'80 per cento delle facoltà di assunzione previste dai commi 1 e 3, per ciascun anno”.
L’art. 6 della medesima legge ha esteso l’applicazione delle disposizioni sopra richiamate anche agli enti locali, prevedendo che le stesse “recano norme di diretta attuazione dell’art. 97 della Costituzione e costituiscono principi generali dell’ordinamento” (comma 1) e che “le Regioni, anche per quanto concerne i propri enti e le amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle disposizioni della presente legge” (comma 4).
Il citato art. 3, come evidenziato nella rubrica, introduce “Misure per accelerare le assunzioni mirate e il ricambio generazionale nella pubblica amministrazione", intervenendo, tra l’altro, in materia di facoltà assunzionali, di procedure per le assunzioni, nonché di concorsi pubblici e di personale in disponibilità e assunzioni delle categorie protette. In particolare, il comma 4 del medesimo articolo reca norme transitorie, intese a ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, in deroga alla procedura di autorizzazione di cui all’art. 4, comma 3, primo periodo, ed alle norme sulla mobilità volontaria.
Ritiene questa Sezione che, con il richiamo contenuto nell’art. 3, comma 4, lettera a), della legge. n. 56 del 2019 allo “scorrimento delle graduatorie”, il legislatore magis dixit quam voluit, poiché l’intero inciso di tale comma, più sopra riportato, “Al fine di ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego...”, deve intendersi genericamente riferito allo snellimento delle procedure di reclutamento del personale, senza alcun intento di ripristinare la persistente valenza delle graduatorie pregresse.
A riprova di tale assunto, la citata legge n. 56 del 2019 ha espressamente derogato alle sole disposizioni riferentesi al preventivo espletamento delle procedure di mobilità e non anche alle più volte menzionate disposizioni della legge n. 145 del 2018 che hanno escluso (con la decorrenza che più innanzi sarà specificata) lo scorrimento delle graduatorie per le assunzioni a tempo indeterminato.
In ragione di tale conclusione, il parere può essere reso nei termini prospettati dalla richiedente Amministrazione.
2. L’utilizzo, per assunzioni a tempo determinato, di graduatorie di concorsi per posti a tempo indeterminato e l’art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001.
2.1. La legge n. 145 del 2018 stabilisce, dunque, un obbligo in capo alle amministrazioni pubbliche ai sensi dell'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 sulle modalità di utilizzo delle graduatorie di concorso per il reclutamento del proprio personale: attraverso la previsione dell'utilizzabilità delle graduatorie “esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso”, infatti, viene sostanzialmente eliminata tanto la possibilità di operare uno scorrimento delle graduatorie -nel periodo di vigenza delle stesse- per far fronte alla copertura di posti che si rendessero vacanti successivamente all'indizione del concorso, quanto la possibilità di utilizzo delle graduatorie -nel periodo di vigenza delle stesse- per la copertura di posti necessari ad altro Ente.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tale principio non possa trovare applicazione per le assunzioni a tempo determinato.
Il citato comma 363 dell'art. 1, infatti, ha abrogato alcune disposizioni dell'art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 125 del 2013, che permettevano lo scorrimento delle graduatorie e l'utilizzo di graduatorie di concorsi banditi da altre pubbliche amministrazioni, al fine di rendere operativo l'obbligo di cui al precedente comma 361.
La disposizione in esame, al contempo, non ha abrogato il comma 1 dell'art. 4 del richiamato decreto-legge n. 101 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 125 del 2013.
In particolare, l’art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 101 del 2013 ha modificato l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001, prescrivendo l'obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni, al fine di prevenire fenomeni di precariato, di procedere ad assunzioni a tempo determinato di vincitori e idonei collocati nelle graduatorie vigenti per concorsi a tempo indeterminato, proprie o approvate da altre amministrazioni, previo accordo con le stesse. Con riferimento all’utilizzo di graduatorie di altri enti, lo stesso art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 afferma che “È consentita l'applicazione dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato”.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte evidenziato come la disposizione citata, contenuta nell’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, come modificato dall’art. 4, comma 1, decreto-legge n. 101 del 2013, si collochi nell’ambito di una serie di disposizioni volte a limitare la possibilità per gli enti locali di utilizzare contratti di lavoro flessibile, in particolare, il tempo determinato, ribadendo che la regola generale per assumere è il contratto a tempo indeterminato, quale strumento ordinario per far fronte al fabbisogno di personale, mentre le assunzioni a tempo determinato possono avvenire soltanto per esigenze di carattere "esclusivamente" temporaneo o eccezionale.
In particolare, è stato affermato come la disposizione sopra richiamata “introduce un evidente favor per i contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, da utilizzare per dare risposta ai fabbisogni ordinari ed alle esigenze di carattere duraturo, nel rispetto delle norme contrattuali e della disciplina di settore. Al contempo, relega le forme contrattuali flessibili all’esclusivo soddisfacimento di esigenze di carattere temporaneo o eccezionale” (cfr. Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, n. 31/2017/PAR).
In tale quadro normativo si colloca la disposizione contenuta nel medesimo art. 36, comma 2, che, sempre nell'ottica di restringere la possibilità di ricorso a forme di lavoro flessibile, ha previsto la possibilità per le p.a., “al fine di prevenire il precariato”, di sottoscrivere contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. L'intento del legislatore è, quindi, quello di evitare, attraverso l’assunzione con contratti a tempo determinato di vincitori di concorsi per posti a tempo indeterminato, la creazione dei presupposti del precariato.
Infatti, il Dipartimento della Funzione pubblica, con la circolare n. 5/2013, ha chiarito che il lavoratore, che si trova all'interno di una graduatoria a tempo indeterminato, nel caso in cui sia assunto con contratto a termine potrà poi “essere assunto con rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità di altre procedure”, una volta verificate le condizioni per l'assunzione definitiva in ruolo.
Pertanto, per le assunzioni a tempo determinato di idonei non vincitori di graduatorie a tempo indeterminato è possibile derogare all'obbligo di utilizzo delle graduatorie per i soli posti messi a concorso previsto dal combinato disposto dei commi 361 e 365 dell'art. 1 della legge n. 145 del 2018.
In sostanza, l’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001 costituisce una normativa di carattere speciale rispetto alle previsioni della legge n. 145 del 2018, dettata da una ratio differente. Peraltro, come già sopra evidenziato, la specialità di tale disposizione è supportata non solo dalla interpretazione teleologica dell’intervento normativo che l’ha introdotta ma anche dalla stessa interpretazione letterale e sistematica della legge n. 145 del 2018, che ha abrogato solo alcune delle disposizioni contenute nel medesimo art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, ma non quella modificativa dell’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001.
2.2. L’Ente ha chiesto, altresì, di indicare i limiti e le modalità procedurali sia nel caso di utilizzo di proprie graduatorie sia nel caso di (eventuale) utilizzo di graduatorie di altri comuni.
Per quanto riguarda i limiti allo scorrimento di graduatorie, si rinvia alla costante giurisprudenza della Corte dei conti, che si è pronunciata più volte sulla necessità che i posti da coprire non siano di nuova istituzione o trasformazione ai sensi dell’art. 91, comma 4, d.lgs. 267/2001 e sulla identità di posti tra quello oggetto della procedura che ha dato luogo alla graduatoria e la nuova esigenza assunzionale (ex multis, Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione n. 72 del 2019 e la giurisprudenza ivi richiamata), nonché, nel caso di utilizzo di graduatorie di altri Enti, sulle condizioni del “previo accordo” tra le amministrazioni interessate (sul punto si rinvia al par. 4).
Relativamente alle modalità procedurali nel caso di utilizzo di graduatorie proprie e di altri comuni, si rammenta che tale decisione esula dalla funzione consultiva della Corte dei conti, concernente l’esame da un punto di vista astratto e su temi di carattere generale.
Pertanto, la decisione relativa alle modalità procedurali non può che essere rimessa alla valutazione dell’Ente, rientrando nella sfera di competenza amministrativa del singolo Comune e nella discrezionalità e responsabilità diretta degli organi di governo, fermo restando il rispetto dei principi di trasparenza ed imparzialità che devono ispirare le suddette procedure.
3. L’utilizzo, per assunzioni a tempo indeterminato, di graduatorie di concorsi per posti a tempo indeterminato e l’ambito di applicazione della legge n. 145 del 2018
3.1. Il secondo quesito riguarda la possibilità di attingere a graduatorie di altre amministrazioni per posti a tempo indeterminato. In particolare, l’Ente ha chiesto se sia ancora possibile l’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro Ente formata a seguito di un bando pubblicato precedentemente al 01.01.2019, in quanto fuori dall’ambito applicativo della richiamata legge n. 145 del 2018.
A tale riguardo, il Collegio evidenzia come
per i concorsi banditi successivamente al 01.01.2019, data di entrata in vigore della legge n. 145 del 2018, l’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro Ente non sia possibile né per le graduatorie proprie né per quelle di altro Ente (cfr. Sezione regionale di controllo per la Sardegna, parere 03.07.2019 n. 36).
Infatti, il citato comma 361 della legge n. 145 del 2018 ha eliminato sia la possibilità di operare lo scorrimento delle graduatorie per far fronte alla copertura di posti che si rendessero vacanti successivamente all’indizione del concorso sia la possibilità di utilizzo delle graduatorie per la copertura di posti necessari ad altro Ente.
Al contrario,
per i concorsi banditi antecedentemente al 31.12.2018, il Collegio ritiene che non si possa affermare lo stesso principio, dal momento che l'art. 1, comma 365, dispone che “la previsione di cui al comma 361 si applica alle graduatorie delle procedure concorsuali bandite successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.
3.2. Come sopra esposto, il principio sancito dal comma 361 citato è stato mitigato dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4 (si veda par. 1.3).
4. L’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro Ente
4.1. Le fattispecie su cui l’Ente ha richiesto il parere si pongono, quindi, al di fuori dell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018: la prima in quanto trattasi di utilizzo di graduatorie di concorsi a tempo indeterminato per assunzioni a tempo determinato, per il quale si applica la normativa speciale dettata dall’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001; la seconda in quanto trattasi di utilizzo, per assunzioni a tempo indeterminato, di graduatorie di procedure concorsuali a tempo indeterminato, bandite prima del 01.01.2019, per le quali, ai sensi del comma 365, non è applicabile il comma 361.
In entrambi i casi, trattandosi appunto di fattispecie non rientranti nell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018, si impone una precisazione per quanto concerne l’utilizzo di graduatorie di altri enti.
Come già sopra evidenziato, con riferimento alla prima fattispecie, lo stesso art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 consente l’utilizzo di graduatorie di altri enti, richiamando l’art. 3, comma 61, terzo periodo, della legge n. 350 del 2003.
Con riferimento alla seconda fattispecie, il comma 363 della legge n. 145 del 2018 ha abrogato alcune disposizioni contenute nel decreto-legge n. 101 del 2013, ovvero l’art. 1, lettera b), del comma 3 e i commi 3-ter e 3-quater dell’art. 4.
In particolare, l’art. 3, comma 3-ter, prevedeva che “resta ferma per i vincitori e gli idonei delle graduatorie di cui al comma 3 del presente articolo l'applicabilità dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350”. Il comma citato è stato abrogato a decorrere dal 01.01.2019.
Tuttavia, la legge n. 145 del 2018 non ha abrogato l’articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge n. 350 del 2003, che dispone: “In attesa dell'emanazione del regolamento di cui all'articolo 9 della legge 16.01.2003, n. 3, le amministrazioni pubbliche ivi contemplate, nel rispetto delle limitazioni e delle procedure di cui ai commi da 53 a 71, possono effettuare assunzioni anche utilizzando le graduatorie di pubblici concorsi approvate da altre amministrazioni, previo accordo tra le amministrazioni interessate”.
La sezione Sardegna, con parere 03.07.2019 n. 36, ha affermato che
non è possibile procedere allo scorrimento di graduatoria concorsuale formata da altro Ente pubblico, per l’assunzione di personale a tempo indeterminato, evidenziando come l’art. 3, comma 61, sebbene non espressamente abrogato dalla legge n. 145 del 2018, risulterebbe implicitamente abrogato in quanto incompatibile con la nuova regola generale di cui al comma 361 della legge n. 145 del 2018.
Il Collegio evidenzia, a tale riguardo, come
tale principio si possa applicare solo ai casi rientranti nell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018, ossia alle graduatorie delle procedure concorsuali bandite successivamente al 01.01.2019, per espressa previsione normativa (comma 365). Di conseguenza, l’art. 3, comma 61, della legge n. 350 del 2003 risulterebbe inapplicabile solo per dette graduatorie.
Tale soluzione interpretativa è avallata dall’interpretazione letterale delle disposizioni contenute nella legge n. 145 del 2018, nonché dalla stessa ratio dell’intervento normativo: infatti,
la legge n. 145 del 2018 prevede che le graduatorie dei concorsi siano utilizzate “esclusivamente” per la copertura dei posti messi a concorso, impedendo, per le graduatorie delle procedure concorsuali bandite successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge, l’utilizzo della graduatoria per la copertura di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a concorso, sia esso della medesima o di altra Amministrazione. Il principio espresso nel comma 361 ha uno specifico ambito applicativo, anche dal punto di vista temporale (comma 365), e non può che valere a prescindere da quale Amministrazione utilizzi la graduatoria, stante la generalità della previsione, che si riferisce all’utilizzo di graduatorie in generale.
Inoltre, il Collegio,
a conferma della perdurante vigenza dell’art. 3, comma 61, della legge n. 350 del 2003, evidenzia come lo stesso sia tuttora citato in diverse disposizioni (art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001; art. 1, comma 100, della legge n. 311 del 2004; art. 9, comma 4-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010); pertanto, tale articolo non risulterebbe inapplicabile in ogni caso, ma solo con riguardo alle fattispecie rientranti nel perimetro applicativo della legge n. 145 del 2018, in quanto non compatibile con la ratio del revirement normativo, risultando invece applicabile ai casi che si collocano al di fuori di esso (assunzioni a tempo determinato e assunzioni a tempo indeterminato in caso di utilizzo di graduatorie di bandi pubblicati prima del 01.01.2019).
4.2. Con specifico riferimento all’utilizzo di graduatorie di altri Enti, si evidenzia come le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti si siano più volte pronunciate sulla interpretazione del requisito normativo del “previo accordo” tra le amministrazioni interessate, necessario per la legittimità dell’assunzione del candidato idoneo in una graduatoria di concorso bandito da altro Ente, ai sensi dell’art. 3, comma 61, della legge n. 350 del 2003, affermando come tale previsione debba necessariamente raccordarsi con la previsione contenuta nell’art. 91, comma 4, del decreto legislativo n. 267 del 2001.
A tale riguardo, con deliberazione n. 3/2019/PAR, la Sezione regionale di controllo per il Piemonte ha affermato che “se l’utilizzo delle proprie graduatorie è escluso per i posti istituiti o trasformati dopo l’indizione del concorso da parte dello stesso ente, è evidente che tale limite vale anche per l’utilizzo delle altrui graduatorie” (cfr. anche Sezione regionale di controllo per l’Umbria, deliberazione n. 28/2018/PAR e Sezione regionale di controllo per il Piemonte, n. 114/2018).
Peraltro, è stato evidenziato come tale accordo con le altre Amministrazioni interessate, sebbene la normativa non lo imponga, dovrebbe, per ragioni di trasparenza, precedere l’indizione del concorso del diverso Ente o l’approvazione della graduatoria.
In tal senso, la Sezione regionale di controllo per l’Umbria, con deliberazione n. 124/2013, ha affermato che ciò che rileva è che “l’accordo stesso, che comunque deve intervenire prima dell’utilizzazione della graduatoria, si inserisca in un chiaro e trasparente procedimento di corretto esercizio del potere di utilizzare graduatorie concorsuali di altri Enti, così da escludere ogni arbitrio e/o irragionevolezza e, segnatamente, la violazione delle cennate regole di “concorsualità” per l’accesso ai pubblici uffici” (cfr. anche Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazioni nn. 189/2018 e 371/2018, che si sofferma anche sugli altri requisiti richiesti dall’ordinamento ai fini del corretto e legittimo utilizzo della graduatoria di altro Ente) (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 06.09.2019 n. 41).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEDanno erariale per incentivi tecnici «indebiti» anche senza peculato.
La percezione di incentivi tecnici in misura maggiore rispetto a quanto dovuto può risultare fonte di responsabilità per danno erariale anche se, per la medesima fattispecie, il tribunale abbia dichiarato l'assoluzione dal reato di peculato, stante l'autonomia dei giudizi penale e contabile che tutelano beni giuridici distinti ai diversi livelli del nostro ordinamento.

Tenuto conto di ciò, a pochi mesi di distanza dall'assoluzione dei convenuti pronunciata dal Tribunale penale di Firenze con la sentenza n. 704/2018, la Corte dei conti della Toscana con la sentenza 03.09.2019 n. 329 ha condannato il responsabile del servizio gestione del territorio e il responsabile dell'ufficio urbanistica di un Comune al pagamento di 5 mila euro pro-capite, oltre agli interessi legali, per aver percepito compensi superiori al dovuto, a titolo di corrispettivo per l'attività professionale avente a oggetto la redazione dello strumento urbanistico generale (cosiddetto regolamento urbanistico).
Il fatto
La questione vagliata con esiti opposti in sede di giustizia contabile e penale, riguardava la contestata parcella professionale per il lavoro svolto dai tecnici in ordine all'iter del nuovo strumento di governo del territorio, che aveva visto la partecipazione di cittadini e di varie associazioni di categoria ubicate sul territorio.
L'istruttoria del regolamento urbanistico, nelle due fasi di adozione con delibera di giunta e approvazione in sede consiliare, aveva comportato un lavoro complesso, comprendente la disamina dei 62 contributi/proposte, unitamente al rapporto ambientale contenente la relazione di sintesi della Vas (valutazione ambientale strategica), nonché ulteriori adempimenti imposti dalla normativa speciale di settore.
All'adozione della delibera di giunta era seguita un'ulteriore attività di partecipazione della cittadinanza con numerose osservazioni al regolamento urbanistico, che veniva definitivamente approvato con la delibera consiliare n. 61/2012.
Per l'attività svolta i due tecnici comunali hanno emesso una notula professionale con un incentivo eccedente, in violazione sia della legge regionale 5/1995, sia dell'articolo 5 della circolare del ministero dei Lavori pubblici 01.12.1969 n. 6679, secondo cui la maggiorazione dell'onorario professionale, in caso di progettazione interna, non avrebbe potuto essere superiore al 50 per cento.
La decisione
Per contro, l'onorario professionale degli imputati era stato aumentato del 70 per cento, dando luogo alla liquidazione di un indebito compenso che la Corte non ha esitato a qualificare come danno erariale.
Infatti, i giudici hanno scritto che nell'operato degli imputati si ravvisa «oltre alla condotta antigiuridica, il nesso di causalità e il danno erariale, perlomeno la colpa grave (se non il dolo eventuale) vista la chiara indicazione del dettato normativo».
Di qui la condanna a carico dei tecnici, ancorché il giudice penale, come si è detto, non abbia ravvisato nella loro condotta gli estremi del peculato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.10.2019).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOComporta responsabilità amministrativa l’erroneo calcolo degli oneri di urbanizzazione posti a carico dei privati ai quali è rilasciata la concessione edilizia. Il termine di prescrizione decorre dalla data di rilascio del titolo edilizio.
Fermo restando la concorrente responsabilità degli organi di governo dell’Ente, causa danno erariale la condotta del responsabile dell’ufficio tecnico che non abbia segnalato, tra l’altro, la necessità di adottare la delibera di adeguamento dei costi in esame sulla base delle variazioni ISTAT.
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FATTO
1. Con la sentenza n. 87/2017, depositata il 06.03.2017 e notificata il 15.05.2017 la Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per la Puglia, in parziale accoglimento della domanda risarcitoria in tal senso proposta dalla Procura regionale, ha condannato il sig. Fr.Ma., responsabile del Settore tecnico del Comune di Salve (LE), a pagare a quest’ultimo, la somma complessiva di euro 10.000,00, omnicomprensivi di rivalutazione monetaria, oltre interessi, in misura legale, fino al momento del soddisfo.
1.1. Le contestazioni della Procura, condivise dalla sentenza del giudice di primo grado attengono alla mancata applicazione nel Comune di Salve (LE), per il periodo dal 2008 al 2011, del corretto valore del costo di costruzione da utilizzare per la quantificazione del contributo finanziario a carico dei privati in sede di rilascio dei permessi di costruire.
1.2. La Sezione regionale, dopo avere affermato la concretezza e l’attualità del danno sin dalla data del rilascio del permesso di costruire ha accolto parzialmente la domanda attrice, rideterminando il danno addebitabile al Ma. in euro 16.839,77.
Ha sostenuto la Sezione che la parte di danno relativa al periodo interessato dagli aggiornamenti disposti dalla Giunta Comunale non può essere collegata completamente imputata al convenuto, essendo tali decisioni state assunte dall'organo di governo, e che pertanto nel periodo in cui sono intervenute le delibere di Giunta (aprile 2009 e giugno 2011), può quantificarsi pari a due terzi di quello prodottosi nel 2009 (2.927,06) ed alla metà di quello scaturito per l'anno 2011 (2.742,28).
Rilevato il recupero da parte del Comune, con riguardo alle pratiche edilizie del 2008 dell'importo di euro 3.090,61 e per quelle relative al 2009 dell'importo di euro 2.235,53, ha portato in diminuzione per intero dalla somma il primo importo ed il secondo in riduzione nei limiti della quota di danno addebitata al convenuto per l'anno 2009 ossia pari ad un terzo.
In applicazione del potere riduttivo dell'addebito ha, poi, rideterminato l'importo di danno nella misura di euro 10.000,00 comprensivi anche della rivalutazione monetaria maturata sino alla data di deposito in Segreteria della decisione; oltre gli interessi in misura legale, calcolati a decorrere dalla suddetta data sino al soddisfo.
2. Avverso la sentenza ha proposto appello il sig. Ma. rilevando vari motivi di gravame.
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DIRITTO
1. La presente fattispecie ha ad oggetto il danno causato al Comune di Salve (LE) a causa della mancata applicazione nel Comune di Salve (LE), per il periodo dal 2008 al 2011, del corretto valore del costo di costruzione da utilizzare per la quantificazione del contributo finanziario a carico dei privati in sede di rilascio dei permessi di costruire.
Con il primo motivo l’appellante lamenta, sostanzialmente, l’inattualità del danno, atteso che il Comune può ancora intervenire nel termine di prescrizione decennale per recuperare la differenza tra i costi di costruzione riscossi e quelli dovuti.
Il motivo non ha pregio, perché anche se ciò è vero, le relative partite contabili non risultano in atto incassate, né è certo se mai lo saranno: la concretezza e l’attualità del danno, infatti, risiede nella perdita dell’originaria fonte di credito per l’Ente Locale e poiché gli oneri di costruzione sono stati riscossi in misura inferiore al dovuto, il procedimento volto al recupero dei differenziali si appalesa, all’attualità, di esito incerto e non prevedibile, considerato che i contribuenti, per via del tempo trascorso, potrebbero più facilmente contestarne la legittimità.
La stessa giurisprudenza del giudice amministrativo ritiene che il costo di costruzione, sia una prestazione patrimoniale di natura impositiva che trova la sua ratio nell’incremento patrimoniale che il titolare del permesso di costruire consegue in dipendenza dell’intervento edilizio e che viene determinato al momento del rilascio della concessione, che costituisce il fatto costitutivo del relativo obbligo giuridico.
Relativamente alla dedotta assenza dell’elemento soggettivo della colpa grave rileva preliminarmente il Collegio che, alla luce della posizione rivestita dall’appellante, nel 2008, così come negli anni successivi, di responsabile del settore Tecnico del predetto comune, rientrava, senza alcun dubbio, tra i doveri e gli obblighi intestati a tale tipologia di funzionario, la vigilanza sull’ammontare degli introiti, da parte del Comune, relativi al settore di competenza.
Infatti, gli artt. 4 e 11 del D.L.vo n. 165/2001 e 111 del D.L.vo n. 267/2000 stabiliscono che agli amministratori spettano poteri di indirizzo politico, mentre ai dirigenti la relativa attuazione e la concreta gestione.
D’altronde, la normativa in materia, nazionale e regionale, prevedeva che il costo di costruzione venisse determinato periodicamente dalle Regioni e adeguato annualmente sulla base delle variazioni ISTAT.
E che gli adempimenti di cui trattasi rientrassero tra gli atti di gestione, trattandosi di autorizzazioni e concessioni edilizie da corredare, necessariamente con la determinazione del relativo quantum da versare, è fuor di dubbio.
Ma anche a voler considerare, per gli anni 2008 e 2010 l’inerzia dell’organo politico, che, secondo l’appellante, non avrebbe adottato la deliberazione annuale di adeguamento dei costi in questione, resta, pur sempre, inalterata la responsabilità del Martella il quale, in qualità di responsabile del settore, avrebbe dovuto segnalare tale inadempimento e sollecitarlo al fine di evitare le conseguenze dannose derivanti dal mancato adeguamento, nel tempo, del contributo in argomento.
In tal senso la sentenza deve essere confermata.
In ordine al quantum debetaur, invece, osserva il Collegio che la documentazione depositata nel corso del giudizio, dalla quale risulta per tabulas che il Comune ha già recuperato la somma di € 3.772,26, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2008, la somma di € 3.446,62, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2009; la somma di € 5.796,91, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2010; la somma di € 4.065,08, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2011, consente di potere dichiarare la cessazione della materia del contendere fino alla concorrenza della somma, di € 8.915,09.
Va infatti, nella determinazione del quantum, seguito il calcolo operato in sentenza (sulle cui modalità si è formato giudicato), e va tenuto conto che, ai fini della determinazione del danno al 21.12.2016 è già stato decurtato, con riguardo alle pratiche edilizie del 2008 l'importo di € 3.090,61 e per quelle relative al 2009 l'importo di € 2.235,53.
Pertanto dalla somma di € 10.000,00 (di cui è condanna) va detratta la somma di euro somma di € 681.65 (€ 3.772,26 – € 3.090,61) relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2008, la somma di € 403,69 (1/3 di € 3.446,62 – € 2.235,53) relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2009; la somma di € 5.796,91, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2010; la somma di € 2.032,84, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2011 ( pari ad ½ di € 4.065,08).
Per il resto, la sentenza deve essere confermata con il rigetto dell’appello, fermo restando che, con riferimento alla somma residua pari a € 1.084.91, l’interessato potrà far valere –in sede esecutiva– l’eventuale ulteriore recupero, da parte del Comune, della somma di cui è condanna.
Ogni ulteriore motivo non espressamente affrontato deve ritenersi assorbito e, in ogni caso, respinto.
Le spese sono compensate ai sensi dell’art. 31, comma 3 c.g.c.
P.Q.M.
La Corte dei Conti - Sezione Terza Centrale d’appello, definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, dichiara cessata la materia del contendere fino alla concorrenza di € 8.915,09.
Respinge l’appello e conferma la sentenza impugnata fino alla concorrenza di € 1084.91, nei termini di cui in motivazione (Corte dei Conti, Sez. III centrale d'appello, sentenza 27.06.2019 n. 127).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAE' illegittima l'ordinanza sindacale contingibile ed urgente circoscritta alla sola esigenza di ovviare allo “stato di totale abbandono e con gravi problemi sotto il profilo igienico-sanitario” di un fabbricato, peraltro comune a numerosi immobili sul territorio, senza il compimento di alcuna istruttoria volta a verificare la sussistenza all’attualità di fenomeni in grado di incidere, in concreto e con pregiudizio immediato, sulla sicurezza pubblica e non diversamente fronteggiabili con gli strumenti ordinari offerti dall’ordinamento.
Piuttosto, nella fattispecie l’intero assunto motivazionale su cui si basa il provvedimento gravato sembra fondarsi su mere presunzioni ed indimostrate asserzioni di ipotetici pericoli di crolli o cadute, pericoli igienici, d’instabilità, d’intralcio, etc., in assenza di alcun approfondito accertamento istruttorio, essendo di contro emerso che trattasi di immobile posto all’interno di un cortile totalmente circondato da una completa e solida recinzione in sbarre di ferro, dalla quale è distanziato di alcuni metri, con porte e finestre interamente murate, senza che risulti diversamente accertata la presenza di segni visibili di distacco di intonaci o cornicioni suscettibili di invadere la pubblica via.
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Giova ricordare che ai Sindaci non è concessa una discrezionalità indeterminata nell'ambito delle scelte amministrative aventi conseguenze sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, di modo che i poteri extra ordinem del Sindaco non possono in alcun caso decampare dai principi ordinamentali che costituiscono presupposto per l'emanazione di ordinanze contingibili e urgenti a tutela dell'incolumità pubblica e della sicurezza urbana (cfr. sentenza Corte Costituzionale n. 115 del 07.04.2011).
Al riguardo va ribadito, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza, che le ordinanze contingibili e urgenti costituiscono provvedimenti “extra ordinem”, a contenuto atipico e a carattere temporaneo, dotate di capacità derogatoria dell’ordinamento giuridico, la cui giustificazione si rinviene nell’esigenza di apprestare alla pubblica autorità adeguati strumenti per fronteggiare il verificarsi di situazioni caratterizzate da eccezionale urgenza, tali da non consentire l’utile e tempestivo ricorso alle alternative ordinarie offerte dall’ordinamento.
La possibilità di utilizzo, in via del tutto residuale, di tale strumento, recando con sé l’inevitabile compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli aventi un contenuto tipico e indicati dalle legge, impone il rigoroso rispetto di precisi presupposti, la cui ricorrenza l’Amministrazione è tenuta ad appurare attraverso un’accurata istruttoria, nel rispetto di limiti di carattere sostanziale e procedurale, non giustificandosi, altrimenti, la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi.
Per costante giurisprudenza, in particolare, presupposti indefettibili delle ordinanze de quibus sono costituiti:
   a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza);
   b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
   c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, diversi da quelli tipici indicati dalle legge.
Più nello specifico si è anche precisato che il potere di ordinanza di cui all'art. 54, D.Lgs. n. 267/2000 "può essere legittimamente esercitato, quale immanente prerogativa sindacale di provvedere in via d'urgenza e contingibile alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, nonché quando la violazione delle norme che tutelano i beni previsti dal Decreto del Ministero dell'Interno del 5 agosto 2008 -situazioni di degrado o isolamento, tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità, incuria ed occupazione abusiva di immobili, intralcio alla viabilità o alterazione del decoro urbano- non assuma rilevanza solo in sé stessa, poiché in tal caso soccorrono gli strumenti ordinari, ma qualora possa costituire la premessa per l'insorgere di fenomeni di criminalità suscettibili di minare la sicurezza pubblica, dato che, in tal caso, vengono in rilievo interessi che vanno oltre le normali competenze di polizia amministrativa locale. Soltanto nelle illustrate ipotesi il Sindaco dunque, in qualità di ufficiale di governo, assume il ruolo di garante della sicurezza pubblica e può provvedere, sotto il controllo prefettizio ed in conformità delle direttive del Ministero dell'interno, alle misure necessarie a prevenire o eliminare i gravi pericoli che la possano minacciare".
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1. Con l’odierno ricorso è controversa la legittimità dell’ordinanza sindacale, meglio distinta in epigrafe, con la quale il Sindaco del comune di Mondragone ha ingiunto ai ricorrenti -in quanto proprietari dell’immobile sito in Via ..., riportato in Catasto Fabbricati al Foglio 25, Particella 5427, versante in asserito stato di totale abbandono e con gravi problemi sotto il profilo igienico-sanitario- di provvedere, al fine di salvaguardare, tutelare e preservare la sicurezza ed il decoro urbano:
   “- al rifacimento delle facciate degli edifici ivi inclusa la tinteggiatura delle stesse, o delle parti deteriorate di essi e dei relativi balconi, il cui degrado arrechi pregiudizio all’incolumità delle persone per il rischio attuale di cedimento di parti di esse;
   - alla sostituzione degli infissi danneggiati prospicienti la pubblica via o luoghi di transito e sosta di pedoni e mezzi, nonché all’eliminazione di staffe, tasselli, che per le loro caratteristiche intrinseche, sporgenza, ed altezza possano arrecare pericolo alla pubblica incolumità;
   - a tenere ordinate e pulite le aree private visibili dagli gli spazi pubblici;
   - a garantire un’adeguata e sicura chiusura degli immobili inutilizzati, pulire le saracinesche e le soglie, togliere i rifiuti accumulatisi o gettati all’interno dell’immobile e pulire gli spazi rientranti rispetto alla proiezione lineare della facciata prospiciente la pubblica via;
   - di sostituire e/o eliminare i pluviali, le tubature o altri elementi esterni danneggiati prospicienti la pubblica via che possano arrecare pericolo all’incolumità pubblica ed alla sicurezza urbana, con obbligo di tenere, all’atto della contestazione la condotta omessa, ovvero di compiere o cessare il comportamento scorretto, ripristinando lo stato dei luoghi
”.
L’ordinanza è stata inoltre trasmessa al Prefetto della Provincia di Caserta, in dichiarata attuazione dell’art. 54, comma 4, del vigente D.Lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.).
A sostegno del gravame, con un unico articolato motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la complessiva illegittimità dell'azione amministrativa, per carenza dei requisiti e dei presupposti (segnatamente, del pericolo, della contingibilità e della necessità) per l'esercizio del potere di ordinanza extra ordinem.
...
4. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
4.1 Deve condividersi la prospettazione di parte ricorrente secondo la quale l’ordinanza impugnata si connota come esercizio della prerogativa sindacale di far fronte a situazioni di eccezionale urgenza, a tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, attraverso lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente di cui agli artt. 50, comma 5, e 54, comma 4, T.U.E.L..
Lo attestano –oltre al tenore del provvedimento, che ne impone l’esecuzione immediata al momento della contestazione e alla circostanza che lo stesso sia stato adottato dal Sindaco, piuttosto che dal dirigente comunale responsabile dell’attuazione del regolamento comunale di “Polizia urbana e convivenza civile”– il richiamo espresso all’art. 8 D.L. 24.02.2017 n. 14 convertito in L. 18.04.2017 n. 48, modificativo dell’art. 50 D.lgs. 267/2000, nonché all’art. 54 stesso D.lgs. 267/2000, in forza del quale l’atto è stato contestualmente all’adozione trasmesso al Prefetto della Provincia di Caserta.
4.2 Così previamente qualificata l’ordinanza in contestazione, gioverà ricordare che ai Sindaci non è concessa una discrezionalità indeterminata nell'ambito delle scelte amministrative aventi conseguenze sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, di modo che i poteri extra ordinem del Sindaco non possono in alcun caso decampare dai principi ordinamentali che costituiscono presupposto per l'emanazione di ordinanze contingibili e urgenti a tutela dell'incolumità pubblica e della sicurezza urbana (cfr. sentenza Corte Costituzionale n. 115 del 07.04.2011).
4.3 Al riguardo va ribadito, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza, che le ordinanze contingibili e urgenti costituiscono provvedimenti “extra ordinem”, a contenuto atipico e a carattere temporaneo, dotate di capacità derogatoria dell’ordinamento giuridico, la cui giustificazione si rinviene nell’esigenza di apprestare alla pubblica autorità adeguati strumenti per fronteggiare il verificarsi di situazioni caratterizzate da eccezionale urgenza, tali da non consentire l’utile e tempestivo ricorso alle alternative ordinarie offerte dall’ordinamento.
La possibilità di utilizzo, in via del tutto residuale, di tale strumento, recando con sé l’inevitabile compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli aventi un contenuto tipico e indicati dalle legge, impone il rigoroso rispetto di precisi presupposti, la cui ricorrenza l’Amministrazione è tenuta ad appurare attraverso un’accurata istruttoria, nel rispetto di limiti di carattere sostanziale e procedurale, non giustificandosi, altrimenti, la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi (cfr., ex multis Cons. Stato, sez. V, 26.07.2016, n. 3369; 22.03.2016, n. 1189; 25.05.2015, n. 2967; TAR Campania, sez. V, 09.11.2016, n. 5162; 10.09.2012, n. 3845; TAR Bari, sez. I, 24.03.2015, n. 479).
Per costante giurisprudenza, in particolare, presupposti indefettibili delle ordinanze de quibus sono costituiti:
   a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza);
   b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
   c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, diversi da quelli tipici indicati dalle legge (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 24.03.2017, n. 621, 09.11.2016, n. 5162 e 17.02.2016, n. 860; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 12.01.2016, n. 69; Cons. di St., sez. V, 26.07.2016, n. 3369).
4.4 Più nello specifico si è anche precisato che il potere di ordinanza di cui all'art. 54, D.Lgs. n. 267/2000 "può essere legittimamente esercitato, quale immanente prerogativa sindacale di provvedere in via d'urgenza e contingibile alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, nonché quando la violazione delle norme che tutelano i beni previsti dal Decreto del Ministero dell'Interno del 5 agosto 2008 -situazioni di degrado o isolamento, tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità, incuria ed occupazione abusiva di immobili, intralcio alla viabilità o alterazione del decoro urbano- non assuma rilevanza solo in sé stessa, poiché in tal caso soccorrono gli strumenti ordinari, ma qualora possa costituire la premessa per l'insorgere di fenomeni di criminalità suscettibili di minare la sicurezza pubblica, dato che, in tal caso, vengono in rilievo interessi che vanno oltre le normali competenze di polizia amministrativa locale. Soltanto nelle illustrate ipotesi il Sindaco dunque, in qualità di ufficiale di governo, assume il ruolo di garante della sicurezza pubblica e può provvedere, sotto il controllo prefettizio ed in conformità delle direttive del Ministero dell'interno, alle misure necessarie a prevenire o eliminare i gravi pericoli che la possano minacciare" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.10.2013, n. 5276).
4.5 Applicando alla fattispecie i richiamati principi giurisprudenziali, emerge come l'adozione della statuizione contingibile e urgente de qua sia stata circoscritta alla sola esigenza di ovviare al rappresentato “stato di totale abbandono e con gravi problemi sotto il profilo igienico-sanitario”, peraltro comune a numerosi immobili sul territorio, senza il compimento di alcuna istruttoria volta a verificare la sussistenza all’attualità di fenomeni in grado di incidere, in concreto e con pregiudizio immediato, sulla sicurezza pubblica e non diversamente fronteggiabili con gli strumenti ordinari offerti dall’ordinamento.
Piuttosto, l’intero assunto motivazionale su cui si basa il provvedimento gravato sembra fondarsi su mere presunzioni ed indimostrate asserzioni di ipotetici pericoli di crolli o cadute, pericoli igienici, d’instabilità, d’intralcio, etc., in assenza di alcun approfondito accertamento istruttorio, essendo di contro emerso che trattasi di immobile posto all’interno di un cortile totalmente circondato da una completa e solida recinzione in sbarre di ferro, dalla quale è distanziato di alcuni metri, con porte e finestre interamente murate, senza che risulti diversamente accertata la presenza di segni visibili di distacco di intonaci o cornicioni suscettibili di invadere la pubblica via.
5. In conclusione, il rilevato difetto dei sopra precisati presupposti fondamentali, legittimanti l’esercizio della potestà in argomento, determina l’illegittimità dell’ordinanza sindacale impugnata, che va pertanto annullata, con assorbimento delle ulteriori censure non esaminate e salvezza degli ulteriori atti (TAR Campania-Napoli, Sewz. V, sentenza 04.11.2019 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1.- Processo amministrativo – impugnazione – atto endoprocedimentale – autonoma impugnabilità – distinzioni.
   2.- Procedimento amministrativo – autotutela – “nuovo” termine di 18 mesi ex art. 6, comma 1, lett. d) della Legge 07.08.2015 n. 124 (c.d. Riforma Madia) – operatività – limiti.

  
1. La regola secondo la quale l'atto endoprocedimentale non è autonomamente impugnabile, giacché la lesione della sfera giuridica del suo destinatario è normalmente imputabile all'atto che conclude il procedimento, è di carattere generale: la possibilità di un'impugnazione anticipata è invece di carattere eccezionale e riconosciuta solo in rapporto a fattispecie particolari, ossia ad atti di natura vincolata idonei a conformare in maniera netta la determinazione conclusiva oppure in ragione di atti interlocutori che comportino un arresto procedimentale.
   2. Il nuovo termine di 18 mesi -introdotto dall'art. 6, comma 1, lett. d), della Legge 07.08.2015 n. 124 (c.d. Riforma Madia)– resta predicabile nella sua rigida previsione solo in relazione ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch'essi, successivi all'entrata in vigore della nuova disposizione.
Di contro, nel caso di provvedimenti già adottati il termine suddetto integra un parametro di riferimento per valutare la "ragionevolezza del termine" dell’intervento di riesame.
Il nuovo termine legislativamente predeterminato non sostituisce "in toto" il "termine ragionevole" (e indeterminato) il quale, presente fin dall'originaria formulazione della disposizione delineata dalla Legge n. 15 del 2005, continua a costituire il parametro normativo di riferimento laddove non possa trovare applicazione, "ratione temporis", il termine di mesi.
Peraltro, il termine "ragionevole" decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro
(massima free tratta da www.giustamm.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.11.2019 n. 7476 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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10. Né la concreta attivazione del potere di annullamento incontra ostacoli –come erroneamente sostenuto dall’appellato- nelle coordinate che, ai sensi dell’articolo 21-nonies della legge n. 241/1990, governano il legittimo esercizio del potere di autotutela; e ciò anche a voler prescindere dalla verosimile nullità dell’atto fatto oggetto di annullamento in autotutela per mancanza di elementi essenziali.
10.1 Ed, invero, deve, anzitutto, rilevarsi, come, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il nuovo termine di 18 mesi -introdotto dall'art. 6, comma 1, lett. d) della Legge 07.08.2015 n. 124 (c.d. Riforma Madia)– resta predicabile nella sua rigida previsione solo in relazione ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch'essi, successivi all'entrata in vigore della nuova disposizione.
10.2. Di contro, nel caso di provvedimenti già adottati il termine suddetto integra un parametro di riferimento per valutare la "ragionevolezza del termine" dell’intervento di riesame. Il nuovo termine legislativamente predeterminato non sostituisce "in toto" il "termine ragionevole" (e indeterminato) il quale, presente fin dall'originaria formulazione della disposizione delineata dalla Legge n. 15 del 2005, continua a costituire il parametro normativo di riferimento laddove non possa trovare applicazione, "ratione temporis", il termine di mesi 18 (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 29/05/2019, n. 3583; Cons. Stato, sez. IV, 18.07.2018, n. 4374; Cons. St., Sez. VI, 19.01.2017, n. 250; Id., Sez. IV, 09.06.2017, n. 2789; Id., Sez. VI, 13.07.2017, n. 3462; Id., Sez. VI, 18.07.2017, n. 3524; Id., Sez. VI, 20.07.2017, n. 3586; Id., Sez. III, 28.07.2017, n. 3780).
10.3. Vale, poi, soggiungere che il termine "ragionevole" decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro (Cons. Stato, Ad. Plen., 17.10.2017, n. 8), che nel caso in esame parrebbe coincidere con l’acquisizione del parere della Commissione multidisciplinare di vigilanza strutture ex legge regionale n. 41/2005 dell’AUSL Toscana Nord Ovest del 29.03.2018, in cui si trova affermato che le condizioni cliniche dei pazienti residenti presso la struttura Vi.So., risultati non completamente autosufficienti, non sono compatibili con l’autorizzazione al funzionamento rilasciata dall’Amministrazione e, altresì, nel verbale ispettivo trasmesso in data 18.05.2018, recante la segnalazione di violazione dell’art. 21, comma 1, lett. a), legge regionale n. 41/2005 per esercizio di struttura residenziale per ospiti non autosufficienti in assenza di autorizzazione.
10.4. Del pari deve ritenersi compiutamente assolto l’onere esigibile dall’Amministrazione di motivare la propria scelta in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro, tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Ed, invero, fermo restando che tale onere deve ritenersi qui attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati, non può essere sottaciuto come l’Amministrazione abbia, ancorché in via sintetica, adeguatamente rappresentato le rilevanti esigenze pubblicistiche che hanno ispirato il proprio atto di ritiro, evidenziando la necessità di recuperare coerenza all’azione svolta dall’operatore qui in rilievo con i parametri che declinano le condizioni di appropriatezza delle forme di assistenza predicabili in ambito sociale ed assistenziale.
E’, infatti, chiaramente esposto nel corpo degli atti gravati in prime cure che l’intervento in autotutela si è reso necessario nel momento in cui l’Amministrazione ha acquisito conoscenza del fatto che la struttura assistenziale avesse interpretato la d.d. 132/2013 come una nuova e diversa autorizzazione che la abilitava ad operare sulla base di requisiti diversi e mai fatti oggetto di accertamento.
A fronte di quanto appena esposto appare di tutta evidenza non solo l’adeguatezza motivazionale dell’atto qui in rilievo ma anche l’intrinseca ragionevolezza della scelta adottata siccome posta a presidio di rilevanti esigenze pubblicistiche a fronte delle quali gli interessi antagonistici azionati dall’appellato non possono che restare recessivi. E tanto anche in ragione della difficoltà di immaginare nel caso qui in rilievo un affidamento tutelabile a conservare un titolo autorizzatorio recante, in mancanza di qualsivoglia verifica sul possesso dei relativi requisiti, un così significativo ampliamento del perimetro delle autorizzazioni già in godimento.

ATTI AMMINISTRATIVI: Il riconoscimento del diritto di accesso postula -indipendentemente dalla natura formalmente pubblica o privata del soggetto che ha formato o che detiene i documenti di interesse e dalla consistenza pubblicistica o privatistica del relativo regime operativo- che si versi in un contesto assoggettato alla applicazione dei principi di parità di trattamento e di trasparenza: il che accade (nella logica dell'art. 97 Cost.) solo in presenza di attività (autoritativa o paritetica, esercitata in forma pubblicistica o mercé il ricorso alle regole del diritto privato) "di interesse pubblico" (cfr. art. 22, comma 1, lett. e) L. n. 241 del 1990, che scolpisce una nozione "allargata" di "pubblica amministrazione"; e cfr., altresì, l'art. 1, comma 1-bis, quanto all'attività amministrativa resa in forma "non autoritativa", nonché il comma 1-ter, quanto ai "soggetti privati" che, in quanto "preposti all'esercizio di attività amministrative", sono tenuti al rispetto dei "criteri e dei principi di cui al comma 1" e, quindi, alla imparzialità, alla pubblicità ed alla trasparenza; cfr. anche, sotto il profilo processuale, l'art. 7, comma 2 cod. proc. amm.).
Solo entro questi limiti –che sono strettamente legati al perimetro delle attività di interesse pubblico o, se si preferisce, lato sensu, “amministrative” affidate al soggetto di diritto privato da disposizioni legislative speciali- il diritto di accesso può essere esercitato nei confronti di soggetti privati "gestori di pubblici servizi" (cfr. art. 23 L. n. 241 del 1990).
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Come di recente statuito dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2019, n. 6603) “….il riconoscimento del diritto di accesso postula -indipendentemente dalla natura formalmente pubblica o privata del soggetto che ha formato o che detiene i documenti di interesse e dalla consistenza pubblicistica o privatistica del relativo regime operativo- che si versi in un contesto assoggettato alla applicazione dei principi di parità di trattamento e di trasparenza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 17.03.2017, n. 1213): il che accade (nella logica dell'art. 97 Cost.) solo in presenza di attività (autoritativa o paritetica, esercitata in forma pubblicistica o mercé il ricorso alle regole del diritto privato) "di interesse pubblico" (cfr. art. 22, comma 1, lett. e) L. n. 241 del 1990, che scolpisce una nozione "allargata" di "pubblica amministrazione"; e cfr., altresì, l'art. 1, comma 1-bis, quanto all'attività amministrativa resa in forma "non autoritativa", nonché il comma 1-ter, quanto ai "soggetti privati" che, in quanto "preposti all'esercizio di attività amministrative", sono tenuti al rispetto dei "criteri e dei principi di cui al comma 1" e, quindi, alla imparzialità, alla pubblicità ed alla trasparenza; cfr. anche, sotto il profilo processuale, l'art. 7, comma 2 cod. proc. amm.)".
Solo entro questi limiti –che sono strettamente legati al perimetro delle attività di interesse pubblico o, se si preferisce, lato sensu, “amministrative” affidate al soggetto di diritto privato da disposizioni legislative speciali- il diritto di accesso può essere esercitato nei confronti di soggetti privati "gestori di pubblici servizi" (cfr. art. 23 L. n. 241 del 1990).
Con riferimento a quest’ultima categoria soggettiva, nel cui novero va ricondotta anche RAI S.p.a., l’applicazione dell’istituto del diritto di accesso e, più in generale, dei principi di pubblicità e trasparenza (di cui l’accesso costituisce la prima e fondamentale, ma non unica, declinazione), è subordinata al ricorrere di un’attività di natura pubblicistica e, dunque, alla condizione dell’inerenza dei documenti pretesi a siffatta attività, come si ricava, agevolmente, dal comma 1-ter dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990 (come introdotto dall'art. 1, comma 37, L. 06.11.2012, n. 190), secondo cui “1-ter. I soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1 (tra i quali vi sono i principi di pubblicità e trasparenza, ndr.), con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla presente legge.” (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 30.10.2019 n. 12486 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONERichiesta di retrocessione di una parte di un terreno che la proprietà aveva venduto prima della dichiarazione di pubblica utilità.
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Espropriazione per pubblica utilità – Cessione volontaria – Vendita terreno – Antecedente l’apertura di una formale procedura ablatoria – Non è tale.
La vendita di un terreno avvenuta prima della apertura di una formale procedura ablatoria mediante dichiarazione di pubblica utilità non può essere assimilata alla cessione volontaria prevista dalla normativa sugli espropri, e ciò per la semplice ragione che l'atto traslativo non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che la cessione volontaria di cui all’art. 12, l. n. 865 del 1971 costituisce un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale contratto di compravendita di diritto privato, sono:
a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio;
b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12, l. n. 865 del 1971;
c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione.
Ne consegue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati, non potendosi escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione (Cass. 22.01.2018, n. 1534; id. 22.05.2009, n. 11955; Cons. St., sez. IV, 27.07.2016, n. 3391).
Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare. Senza l’apertura di una formale procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per la semplice ragione che la cessione non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione di cui all’art. 12, l. n. 865 del 1971 va quindi ricondotta ad una modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti – tra cui la determinazione del prezzo di cessione - alla disciplina contenuta in norme di legge imperative (Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015, n. 1768; id. 03.03.2015, n. 1035; Cass., S.U., 13.02.2007, n. 3040).
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti su indicati, la conclusione del contratto di cessione rimane comunque soggetta alla disciplina del contratto privatistico, non essendo caratterizzata dalla posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica espropriante bensì dall’incontro paritetico delle volontà (Cass. 17.11.2000, n. 14901).
Traslando i superiori principi all’odierno gravame, non può che rilevarsi l’assenza di un requisito essenziale perché possa ritenersi integrata la fattispecie tipica della cessione volontaria di cui all’art. 12, l. n. 865 del 1971, ovvero quel collegamento necessario tra una procedura espropriativa per pubblica utilità e quella modalità alternativa di conclusione della medesima procedura costituita dalla cessione volontaria dell’immobile espropriando (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.10.2019 n. 7445 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
2.3 La cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971 costituisce invero un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale contratto di compravendita di diritto privato, sono:
   a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio;
   b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971;
   c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione. Ne consegue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati, non potendosi escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione (cfr. Cass. 22.01.2018, n. 1534; Id. 22.05.2009, n. 11955; negli stessi termini, Cons. Stato, sez. IV, 27.07.2016, n. 3391).
Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare.
Senza l’apertura di una formale procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per la semplice ragione che la cessione non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (cfr. Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971 va quindi ricondotta ad una modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti –tra cui la determinazione del prezzo di cessione- alla disciplina contenuta in norme di legge imperative (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015, n. 1768; Id. 03.03.2015, n. 1035; Cass. S.U. 13.02.2007, n. 3040).
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti su indicati, la conclusione del contratto di cessione rimane comunque soggetta alla disciplina del contratto privatistico, non essendo caratterizzata dalla posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica espropriante bensì dall’incontro paritetico delle volontà (cfr. Cass. 17.11.2000, n. 14901).

URBANISTICA: Le convenzioni urbanistiche, ancorché le si voglia qualificare come contratti pubblici, sono riconducibili ad accordi sostitutivi di atti amministrativi, soggetti, ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990, alle norme di diritto privato.
Secondo la giurisprudenza, l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione e/o del costo di costruzione assume natura convenzionale e trova causa nella convenzione di lottizzazione laddove sia fatto oggetto di una convenzione urbanistica, e la relativa debenza deve essere valutata e rapportata alla intera operazione, la cui complessiva remuneratività “costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma a base dell’accordo e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni assunti ”.
E' stato anche puntualizzato che “La causa della convenzione urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, in particolare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale della convenzione, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione” e che , inoltre, “non è affatto escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative”.
Altresì, le convenzioni urbanistiche, ancorché le si voglia qualificare come contratti pubblici, sono riconducibili ad accordi sostitutivi di atti amministrativi, soggetti, ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990, alle norme di diritto privato; esse vanno pertanto considerate, a tutti gli effetti ed al di là della rilevanza pubblicistica dell’oggetto del contratto, strumenti contrattuali di natura negoziale, mediante i quali le parti possono legittimamente assumersi obblighi che vanno al di là di quelli previsti dal legislatore, con l’unico limite della meritevolezza, richiesta dall’art. 1322 c.c.
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9. Il ricorso è meritevole di accoglimento.
10. E’ infondata, anzitutto, l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dai resistenti, i quali assumono che in qualità di semplici firmatari della Convenzione Edilizia, e non già anche di richiedenti e di titolari delle concessioni edilizie rilasciate in attuazione della medesima, non sarebbero gravati dall’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione: il Comune avrebbe piuttosto dovuto rivolgersi alla Da. s.r.l., peraltro ormai non più esistente, a seguito del deposito di bilancio di liquidazione e di cancellazione dal registro delle imprese, avvenuta il 16.01.2006.
11. L’eccezione è infondata in considerazione del fatto, correttamente evidenziato dal Comune, che i resistenti, sottoscrivendo la Convenzione del 30.03.2000, si sono assunti personalmente l’obbligo incondizionato di corrispondere gli oneri di urbanizzazione.
In particolare, proprio il fatto che nella Convenzione i resistenti si sono assunti l’obbligo in questione anche per i propri aventi causa, senza specificare che tale obbligo sarebbe venuto a cessare con la cessione della proprietà dei fondi e/o con il subentro di altro soggetto negli obblighi previsti dalla Convenzione, evidenzia che la volontà delle parti era, precisamente, quella di individuare in modo certo il soggetto debitore degli oneri di urbanizzazione, a prescindere da quelle che sarebbero state le vicende relative alla proprietà dei fondi compresi nel Piano Esecutivo Convenzionato, ed in tal senso gli odierni resistenti si sono assunti spontaneamente l’obbligo, evidentemente a fronte di una ritenuta complessiva remuneratività della operazione.
11.1. Giova ricordare, a questo punto, che secondo la giurisprudenza, l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione e/o del costo di costruzione assume natura convenzionale e trova causa nella convenzione di lottizzazione laddove sia fatto oggetto di una convenzione urbanistica, e la relativa debenza deve essere valutata e rapportata alla intera operazione, la cui complessiva remuneratività “costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma a base dell’accordo e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni assunti (cfr. Cons. Stato, IV, 15.02.2019, n. 1069)” (C.d.S., Sez. IV, 04.10.2019, n. 6668).
E' stato anche puntualizzato che “La causa della convenzione urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, in particolare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale della convenzione, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione (Cons. Stato, V, 26.11.2013, n. 5603)” e che , inoltre, “non è affatto escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative” (C.d.S., Sez. IV, 04.10.2019, n. 6668).
11.2. Il Collegio non ritiene di doversi discostarsi da tale orientamento, anche per la ragione che le convenzioni urbanistiche, ancorché le si voglia qualificare come contratti pubblici, sono riconducibili ad accordi sostitutivi di atti amministrativi, soggetti, ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990, alle norme di diritto privato (tra le più recenti: C.d.S., Sez. II, 29/07/2019 n. 5304; Consiglio di Stato sez. IV, 07/05/2015, n. 2313; Consiglio di Stato sez. IV, 26/09/2013, n. 4810); esse vanno pertanto considerate, a tutti gli effetti ed al di là della rilevanza pubblicistica dell’oggetto del contratto, strumenti contrattuali di natura negoziale, mediante i quali le parti possono legittimamente assumersi obblighi che vanno al di là di quelli previsti dal legislatore, con l’unico limite della meritevolezza, richiesta dall’art. 1322 c.c..
11.3. Il fatto che nel caso di specie vengano in considerazione obblighi che, in mancanza di una convenzione edilizia, spetterebbero ordinariamente, in base alla legge, solo al titolare della concessione edilizia, non toglie dunque legittimità né efficacia alla previsione contenuta nella Convenzione stipulata tra il Comune di Cercenasco e gli odierni resistenti, in base alla quale questi ultimi si sono assunti l’obbligo incondizionato di provvedere al pagamento degli oneri di urbanizzazione.
11.4. Va dunque respinta l’eccezione preliminare di carenza di legittimazione passiva, sollevata dai resistenti
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 30.10.2019 n. 1091 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 16, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce che il privato può assolvere all’obbligo di concorrere nelle spese di urbanizzazione realizzando direttamente, a scomputo, opere di urbanizzazione “con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
E' dunque evidente che, affinché il costo delle opere di urbanizzazione sia portato a scomputo degli oneri di urbanizzazione, è necessario che il Comune esprima una preventiva approvazione sul progetto delle opere e sul relativo computo metrico, all’evidente scopo di garantire che le opere portate a scomputo siano realizzate in maniera adeguata, e che il costo sia correttamente valorizzato.

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13. Infondata è anche la pretesa dei ricorrenti a vedersi accreditare la somma di € 25.836,27 da essi asseritamente sostenuta per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria.
13.1. L’art. 16, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, infatti, che il privato può assolvere all’obbligo di concorrere nelle spese di urbanizzazione realizzando direttamente, a scomputo, opere di urbanizzazione “con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”: è dunque evidente che, affinché il costo delle opere di urbanizzazione sia portato a scomputo degli oneri di urbanizzazione, è necessario che il Comune esprima una preventiva approvazione sul progetto delle opere e sul relativo computo metrico, all’evidente scopo di garantire che le opere portate a scomputo siano realizzate in maniera adeguata, e che il costo sia correttamente valorizzato.
13.2. Nella specie i resistenti nulla hanno prodotto per dimostrare che lo scomputo del costo delle opere di urbanizzazione da essi realizzate era stato approvato preventivamente dal Comune, di guisa che, in teoria, nulla a detto titolo dovrebbe loro essere riconosciuto. Il Comune, tuttavia, con il ricorso introduttivo del giudizio ha portato in deduzione del dovuto l’importo di £. 11.000.000, che in effetti rappresenta la valorizzazione delle opere di urbanizzazione primaria oggetto di scomputo, quantificate in sede di approvazione del PEC.
13.3. La pretesa dei resistenti di vedersi interamente accreditare, a scomputo e/o in compensazione di quanto dovuto, l’intero costo delle opere di urbanizzazione realizzate dalla Da. s.r.l., è pertanto infondata
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 30.10.2019 n. 1091 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAmmissione con riserva alle prove di un concorso.
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Concorso – Prove – Ammissione con riserva – Superamento – Conseguenza - Definizione del ricorso nel merito – Interesse - Permane.
L’ammissione con riserva alle prove di un concorso, anche quando il concorrente le abbia superate e risulti vincitore del concorso, è un provvedimento cautelare che non fa venir meno l’interesse alla definizione del ricorso nel merito, poiché tale ammissione è subordinata alla verifica della fondatezza delle sue ragioni e, cioè, “con riserva” di accertarne la definitiva fondatezza nel merito, senza, però, pregiudicare nel frattempo la sua legittima aspirazione a sostenere le prove, aspirazione che sarebbe irrimediabilmente frustrata se la sentenza a lui favorevole sopraggiungesse all’esaurimento della procedura concorsuale e fosse quindi, a quel punto, inutiliter data, vanificando l’effettività della tutela giurisdizionale (1).
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   (1) Cons. St., sez. III, 18.01.2017, n. 209; id. 06.05.2016, n. 1839; id. 16.06.2015, n. 3038.
La Sezione ha ritenuto di non poter condividere il diverso orientamento (Cons. St., sez. VI, 25.07.2019, n. 5263; 01.04.2019, n. 2155) che, in relazione all’ammissione con riserva di studenti alla frequenza della facoltà a numero di chiuso di medicina, ossia a fattispecie di natura comunque selettiva, pur non rilevando il testo dell’art. 4, comma 2-bis, d.l. 30.06.2005, n. 115, ha affermato che nondimeno “nel caso di specie, vi sia ugualmente una situazione di affidamento, con avvio in buona fede di un articolato percorso di studio, quasi completato, che merita un trattamento non dissimile a quello previsto dal sopra richiamato art. 4-bis quando vi sia stato il conseguimento di una abilitazione professionale o di un titolo nei casi ivi previsti”.
La Sezione ha ritenuto che siffatta “apertura” giustificata essenzialmente dall’esigenza di tutela dell’affidamento nello specifico e peculiare caso degli studenti di medicina, non possa essere considerata espressiva di un principio generale che giunga ad estendere in via analogica la prescrizione normativa di cui all’art. 4, comma 2-bis, cit., all’intero ambito delle procedura selettive. Ne risentirebbe in modo inaccettabile il principio della par conditio, e ancor prima il principio del pubblico concorso, posto che si generebbe, in forza di una mera delibazione del fumus e del periculum in mora in sede giudiziaria, una corsia parallela di accesso alla professioni e ai pubblici impieghi, pur quando la sentenza definitiva, nel pieno contradditorio tra le parti, abbia infine accertato che le ragioni del ricorrente, beneficiario della tutela cautelare, siano del tutto infondate.
La tutela cautelare non è la rimozione di un ostacolo procedurale interposto dall’amministrazione, ma è solo l’effetto della protezione interinale di una posizione giuridica, in guisa che il tempo del processo non abbia a compromettere definitivamente le utilità cui il ricorrente aspira.
La Sezione ha escluso che la frequenza con profitto e il superamento dell’esame finale, abbiamo di fatto ed ex post sancito che il bene della vita è meritato; o, ancora, che sarebbe irragionevole negare il conseguimento del titolo agli appellanti in considerazione della cronica carenza di medici di base.
Siffatte argomentazioni obliterano che, alla luce del principio del pubblico concorso, l’attribuzione del “bene della vita” è frutto della competizione fra più aspiranti, in un quadro di regole trasparenti in cui “più meritevoli” sono considerati solo coloro che legittimamente superano il concorso, talché consentire ad alcuni di ottenere il predetto bene, senza passare dal vittorioso esito di una competizione, non può che costituire un pregiudizio per gli altri aspiranti, i cui posti sono attinti.
La cronica carenza dei medici, inoltre, sotto il profilo strettamente giuridico, non rileva. E’ compito del legislatore, ove le procedure selettive non siano sufficienti ad assicurare adeguate coperture, individuare soluzioni e rimedi per un reclutamento straordinario che eventualmente tenga conto dell’esistenza di medici già formati seppur all’esito di un percorso avviatosi in forza di provvedimenti giurisdizionale di natura cautelare (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 29.10.2019 n. 7410 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIAggiudicazione di un appalto, indetto per la scelta dell'offerta economicamente più vantaggiosa con il metodo off/on.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economicamente più vantaggiosa - Metodo off/on – Limiti.
E’ legittimo il metodo off/on per la scelta dell'offerta economicamente più vantaggiosa, sebbene non tutte le voci rientranti nell'offerta tecnica si prestano, in generale, ad essere vagliate con tale metodo (che, nello specifico, ha comportato l'appiattimento della valutazione sul solo aspetto economico, trasformando la gara nella scelta del prezzo più basso) (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che non è in discussione la possibilità di aggiudicare l’appalto con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa utilizzando criteri di valutazione incentrati sul metodo “on/off”.
Del resto l’ANAC nelle Linee Guida n. 2, in materia di “Offerta economicamente più vantaggiosa” (approvate con la delibera n. 1005 del 21.09.2016 e aggiornate con la delibera n. 424 del 02.05.2018), ha chiarito che «Per le forniture e per taluni servizi, ovvero quando non è necessario esprimere una valutazione di natura soggettiva, è possibile attribuire il punteggio anche sulla base tabellare o del punteggio assoluto. In questo caso, sarà la presenza o assenza di una data qualità e l’entità della presenza, che concorreranno a determinare il punteggio assegnato a ciascun concorrente per un determinato parametro. Anche in questo caso si attribuisce il punteggio 0 al concorrente che non presenta il requisito richiesto e un punteggio crescente (predeterminato) al concorrente che presente il requisito richiesto con intensità maggiore».
Tuttavia nelle predette linee guida è stato specificato altresì che i criteri di valutazione devono «consentire un effettivo confronto concorrenziale sui profili tecnici dell’offerta, scongiurando situazioni di appiattimento delle stesse sui medesimi valori, vanificando l’applicazione del criterio del miglior rapporto qualità/prezzo».
Ciò -a ben vedere- è quanto è accaduto nel caso in esame per effetto della combinazione del previsto metodo di attribuzione dei punteggi “on/off” con la mancata previsione dell’obbligo di allegare documentazione tecnica a corredo dell’offerta e con la mancata nomina di una commissione incaricata di verificare quanto dichiarato dai concorrenti.
L’impostazione della lex specialis ha, di fatto, vanificato la valutazione dell’elemento qualitativo, perché tutti i concorrenti hanno dichiarato il possesso delle caratteristiche richieste per i dispositivi offerti in gara, così ottenendo il massimo punteggio tecnico previsto (70 punti), con l’effetto di trasformare il criterio di aggiudicazione prescelto dalla lex specialis in quello del prezzo più basso (perché l’unico elemento determinante per l’aggiudicazione dell’appalto in contestazione è risultato il prezzo offerto da ciascun corrente) e di rinviare alla fase della stipula e/o dell’esecuzione del contratto la verifica di quanto dichiarato dal concorrente aggiudicatario in merito alle caratteristiche del dispositivo offerto in gara, così unificando due momenti (quello relativo alla gara vera e propria e quello del controllo del prodotto offerto dal concorrente aggiudicatario) che la legislazione in materia di contratti pubblici vuole e tiene autonomi e distinti (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 29.10.2019 n. 140 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAGli atti di determinazione e liquidazione del contributo di concessione in relazione a un dato intervento edilizio non hanno natura provvedimentale, in quanto inidonei a incidere autonomamente sulle posizioni giuridiche degli interessati, dato che svolgono una funzione essenzialmente ricognitiva di un debito, relativa ad un rapporto obbligatorio.
Esse sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo pur avendo ad oggetto l'accertamento di un rapporto di credito che prescinde dall'esistenza e dall'impugnazione di atti determinativi della pubblica amministrazione, non essendo soggette alle regole delle azioni di annullamento.
L'azione volta alla declaratoria d'insussistenza o della diversa entità del debito contributivo per oneri di urbanizzazione può, quindi, essere intentata, qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri, a prescindere dall'impugnazione o esistenza degli atti con cui viene richiesto il pagamento.
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Il Collegio non ignora gli arresti giurisprudenziali che ancorano la determinazione del contributo di concessione, avuto riguardo alla disciplina, legislativa e regolamentare, applicabile, a quella vigente al momento del rilascio del titolo edilizio, piuttosto che alla data della richiesta del titolo abilitativo.
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9. È utile premettere che gli atti di determinazione e liquidazione del contributo di concessione in relazione a un dato intervento edilizio, come reiteratamente chiarito da questo Consiglio di Stato, dalle cui risultanze non è motivo di discostarsi, non hanno natura provvedimentale, in quanto inidonei a incidere autonomamente sulle posizioni giuridiche degli interessati, dato che svolgono una funzione essenzialmente ricognitiva di un debito, relativa ad un rapporto obbligatorio. Esse sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo pur avendo ad oggetto l'accertamento di un rapporto di credito che prescinde dall'esistenza e dall'impugnazione di atti determinativi della pubblica amministrazione, non essendo soggette alle regole delle azioni di annullamento (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. VI, sentenze nn. 2294 e 3298 del 2015).
L'azione volta alla declaratoria d'insussistenza o, come in questo caso, della diversa entità del debito contributivo per oneri di urbanizzazione può, quindi, essere intentata, qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri, a prescindere dall'impugnazione o esistenza degli atti con cui viene richiesto il pagamento (cfr., oltre alle due sentenze cit. supra, Cons. Stato, Sez. V, n. 5072/2014; nonché Sez. IV, n. 1504/2015).
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La tematica del regime giuridico applicabile agli oneri concessori è stata variamente affrontata dalla giurisprudenza, sia allo scopo di individuare l’esatta decorrenza del termine di prescrizione del diritto alla relativa riscossione da parte del Comune, sia, più genericamente, per perimetrarne la consistenza ove si siano succedute nel tempo discipline del tutto diverse, non necessariamente di favore.
Il Collegio non ignora a tale proposito gli arresti giurisprudenziali che ancorano la determinazione del contributo di concessione, avuto riguardo alla disciplina, legislativa e regolamentare, applicabile, a quella vigente al momento del rilascio del titolo edilizio, piuttosto che alla data della richiesta del titolo abilitativo (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3379; Cons. Stato, Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; TRGA Bolzano 02.11.2016, n. 305; nonché, di recente, TRGA, Sez. di Bolzano, 26.09.2019, n. 227)
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 25.10.2019 n. 7290 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul concetto di "ristrutturazione edilizia" con riguardo alla disciplina normativa vigente tra il 2003 e il 2013.
La giurisprudenza ha chiarito, con riguardo alla disciplina normativa vigente tra il 2003 e il 2013, che il concetto di ristrutturazione edilizia comprende la demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma, nel senso che oltre al volume debbano essere rispettate le linee essenziali della sagoma. Per effetto della normativa introdotta dall'art. 1 del d.lgs. 27.12.2002, n. 301, applicabile alla fattispecie, il vincolo della fedele ricostruzione è venuto meno, così estendendosi ulteriormente il concetto della ristrutturazione edilizia, che, per quanto riguarda gli interventi di ricostruzione e demolizione ad essa riconducibili, resta distinta dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda, quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito.
In particolare, è stato affermato che, se anche dall’art. 3 è stato espunto il riferimento alla “fedele ricostruzione”, occorre però considerare con rigore i criteri della medesima volumetria e sagoma, in virtù della modifica dell'istituto. Se quindi con la modifica introdotta dal d.lgs. n. 301 del 2002 la nozione di ristrutturazione è stata ulteriormente estesa, al fine di conservare una logica normativa è necessaria una interpretazione rigorosa e restrittiva del mantenimento della sagoma precedente. Proprio perché non vi è più il limite della “fedele ricostruzione” per la ristrutturazione si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti le linee fondamentali per sagoma e volumi. Anche escludendo il superato criterio della fedele ricostruzione, esigenze di interpretazione logico sistematica della nuova normativa inducono a ritenere che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi.
Rispetto alla definizione contenuta nell’art. 3, non viene poi considerata in contraddizione la previsione dell’art. 10, comma 1, lettera c), del D.P.R. 380 del 2001, che richiede il permesso di costruire per “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso” (testo vigente al 30.05.2006, data di rilascio del permesso di costruire impugnato).
Infatti, sulla base di tale differente disciplina la giurisprudenza ha individuato due ipotesi di ristrutturazione edilizia: la ristrutturazione edilizia cd. “conservativa”, che può comportare anche l'inserimento di nuovi volumi o modifica della sagoma; la ristrutturazione edilizia cd. “ricostruttiva”, attuata mediante demolizione, anche parziale, e ricostruzione, che deve rispettare il volume e la sagoma dell’edificio preesistente, con la conseguenza che, in difetto, viene a configurarsi una nuova costruzione.
Tra la norma, che definisce la ristrutturazione edilizia, e quella relativa agli interventi soggetti a concessione edilizia, non vi è contraddizione, poiché il legislatore nazionale -a fronte delle due tipologie di ristrutturazione edilizia- non ha affatto escluso che quest'ultima possa comportare anche modifiche di volume o di sagoma, ma ha escluso che possano aversi queste ultime modifiche nel caso di ristrutturazione caratterizzata da demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato, in cui è richiesta la ricostruzione di un fabbricato identico per sagoma e volume.
In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
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Con il primo motivo si sostiene l’errore del giudice di primo grado rispetto alla qualificazione della ristrutturazione, deducendo che la fattispecie della ristrutturazione edilizia non possa ritenersi limitata alla demolizione e ricostruzione con assoluto rispetto della sagoma e del volume preesistenti, non essendo più contenuto nell’art. 3 del D.P.R. 380 del 2001 il riferimento alla “fedele ricostruzione”; inoltre, ad avviso della parte appellante, la volumetria originaria era stata calcolata con esclusione del sottotetto qualificato dalle NTA come volume tecnico.
Tale motivo di appello non è suscettibile di accoglimento.
Ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, nel testo vigente al momento di rilascio del permesso di costruire impugnato in primo grado, gli “interventi di ristrutturazione edilizia”, erano definiti “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Il testo previgente modificato dal d.lgs. 27.12.2002 n. 301 prevedeva nella ristrutturazione edilizia la “successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente”.
Già in base a tale dato testuale delle disposizioni riportate la ricostruzione difensiva non può essere condivisa, in quanto la eliminazione operata dal d.lgs. 301 del 2002 riguarda “l’area di sedime” e “le caratteristiche dei materiali”, essendo invece confermato il rispetto sia della sagoma che del volume, mentre il rispetto della sagoma è stato eliminato solo successivamente con il d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla l. 09.08.2013, n. 98.
La giurisprudenza ha chiarito, con riguardo alla disciplina normativa vigente tra il 2003 e il 2013, che il concetto di ristrutturazione edilizia comprende la demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma, nel senso che oltre al volume debbano essere rispettate le linee essenziali della sagoma. Per effetto della normativa introdotta dall'art. 1 del d.lgs. 27.12.2002, n. 301, applicabile alla fattispecie, il vincolo della fedele ricostruzione è venuto meno, così estendendosi ulteriormente il concetto della ristrutturazione edilizia, che, per quanto riguarda gli interventi di ricostruzione e demolizione ad essa riconducibili, resta distinta dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda, quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito (Cons. Stato Sez. IV, 09.07.2010, n. 4462).
In particolare, è stato affermato che, se anche dall’art. 3 è stato espunto il riferimento alla “fedele ricostruzione”, occorre però considerare con rigore i criteri della medesima volumetria e sagoma, in virtù della modifica dell'istituto. Se quindi con la modifica introdotta dal d.lgs. n. 301 del 2002 la nozione di ristrutturazione è stata ulteriormente estesa, al fine di conservare una logica normativa è necessaria una interpretazione rigorosa e restrittiva del mantenimento della sagoma precedente. Proprio perché non vi è più il limite della “fedele ricostruzione” per la ristrutturazione si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti le linee fondamentali per sagoma e volumi. Anche escludendo il superato criterio della fedele ricostruzione, esigenze di interpretazione logico sistematica della nuova normativa inducono a ritenere che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi (Cons. Stato Sez. IV, 09.08.2018, n. 4880; id. 30.05.2013 n. 2972).
Rispetto alla definizione contenuta nell’art. 3, non viene poi considerata in contraddizione la previsione dell’art. 10, comma 1, lettera c), del D.P.R. 380 del 2001, che richiede il permesso di costruire per “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso” (testo vigente al 30.05.2006, data di rilascio del permesso di costruire impugnato).
Infatti, sulla base di tale differente disciplina la giurisprudenza ha individuato due ipotesi di ristrutturazione edilizia: la ristrutturazione edilizia cd. “conservativa”, che può comportare anche l'inserimento di nuovi volumi o modifica della sagoma; la ristrutturazione edilizia cd. “ricostruttiva”, attuata mediante demolizione, anche parziale, e ricostruzione, che deve rispettare il volume e la sagoma dell’edificio preesistente, con la conseguenza che, in difetto, viene a configurarsi una nuova costruzione.
Tra la norma, che definisce la ristrutturazione edilizia, e quella relativa agli interventi soggetti a concessione edilizia, non vi è contraddizione, poiché il legislatore nazionale -a fronte delle due tipologie di ristrutturazione edilizia- non ha affatto escluso che quest'ultima possa comportare anche modifiche di volume o di sagoma, ma ha escluso che possano aversi queste ultime modifiche nel caso di ristrutturazione caratterizzata da demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato, in cui è richiesta la ricostruzione di un fabbricato identico per sagoma e volume (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 20.04.2017, n. 1847; id. 02.02.2017, n. 443).
In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia (Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015 n. 1763).
Applicando tali consolidati orientamenti giurisprudenziali, si deve ritenere che, nel caso di specie siano stati superati i limiti della ristrutturazione edilizia tramite demolizione e ricostruzione del fabbricato.
Risulta chiaramente già dagli elaborati progettuali allegati al permesso di costruire la realizzazione di un organismo edilizio diverso per volumetria e sagoma rispetto a quello preesistente.
Infatti, al posto di un edificio di due piani fuori terra con un’altezza nei diversi punti di 6.80 metri e di 7.40 metri più il sottotetto, è stata assentita la realizzazione di un edificio di tre piani di altezza complessiva di 10,20 metri, comprensivo del sottotetto.
Inoltre, il verificatore nominato nel giudizio di primo grado ha dato espressamente atto nella relazione di un aumento della sagoma in orizzontale di circa il 46%
Con riferimento alla volumetria il verificatore ha considerato il sottotetto, di complessivi 350,15 metri cubi, pur avendo un altezza inferiore ai metri 2,40, un volume residenziale essendo munito di finestre e balconi.
Ritiene il Collegio che sulla base di tali risultanze di fatto correttamente il giudice di primo grado abbia ravvisato una nuova costruzione, facendo anche riferimento alle NTA del PRG che ammettono nella zona B gli interventi di ristrutturazione e di sostituzione edilizia a parità di volume ed altezza, disposizione palesemente non rispettata nel caso di specie, essendo stata mutata l’altezza dell’edificio.
Inoltre la realizzazione del piano, qualificato come sottotetto nel progetto, con finestre e una balconata lungo la facciata dell’edificio comporta anch’essa la modifica della sagoma dell’edificio, ricostruito nella sostanza con l’innalzamento di un piano.
L’evidente mutamento della sagoma dell’edificio comporta la irrilevanza, quindi, delle deduzioni della difesa appellante circa il calcolo del volume preesistente da cui nel progetto era stato sottratto il precedente volume tecnico del sottotetto e le contestazioni circa la natura di volume tecnico del sottotetto, senza considerare che nel progetto approvato è previsto un volume complessivo di 146,81 metri cubi (rispetto ai precedenti 168,95), ma con un totale di volumi tecnici per 685 metri cubi, di cui 350,15 metri cubi di sottotetto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 25.10.2019 n. 7289 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAConformemente alla costante giurisprudenza di questo Consiglio, la nozione di volume tecnico corrisponde a un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa.
I volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza.
Anche la giurisprudenza della Cassazione penale ha più volte affermato che sono volumi tecnici quelli strettamente necessari a contenere ed a consentire la sistemazione di quelle parti degli impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione (serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda età), che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche.
Si è anche specificato che per l'identificazione della nozione di “volume tecnico”, assumono valore tre ordini di parametri, il primo, positivo, di tipo funzionale, relativo al rapporto di strumentalità necessaria del manufatto con l'utilizzo della costruzione alla quale si connette; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono potere essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro lato ad un rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
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Con l’ulteriore motivo di appello si contesta, infatti, la considerazione del volume del sottotetto come volume residenziale da parte del giudice di primo grado, sostenendo che correttamente è stato qualificato dal Comune come volume tecnico, in base alle norme di attuazione del PRG che considerano i sottotetti come volumi tecnici se di altezza inferiore ai 2,40 di altezza e comunque tale limite sarebbe previsto anche dalla legge regionale n. 15 del 2000 per la trasformazione dei sottotetti.
Una tale interpretazione non può essere accolta.
In primo luogo, la norma tecnica di attuazione prevede che dal volume lordo fuori terra “possano” essere dedotti i volumi tecnici, tra cui i volumi delle coperture a tetto se di altezza non superiore a metri 2,50 ed altezza minima non superiore a metri 2,00.
Tale norma deve essere, quindi, applicata conformemente alla costante giurisprudenza di questo Consiglio, per cui la nozione di volume tecnico corrisponde a un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa (Cons. Stato Sez. VI, 17.05.2017, n. 2336; Sez. IV 31.08.2016, n. 3724).
I volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2019, n. 2101).
Anche la giurisprudenza della Cassazione penale ha più volte affermato che sono volumi tecnici quelli strettamente necessari a contenere ed a consentire la sistemazione di quelle parti degli impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione (serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda età), che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche; si è anche specificato che per l'identificazione della nozione di “volume tecnico”, assumono valore tre ordini di parametri, il primo, positivo, di tipo funzionale, relativo al rapporto di strumentalità necessaria del manufatto con l'utilizzo della costruzione alla quale si connette; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono potere essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro lato ad un rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti (Cass. pen, Sez. III, 17.11.2010, n. 7217; id, 27.05.2016, n. 22255).
Inoltre, ai sensi della legge regionale, 28.11.2000, n. 15, art. 3, comma 1, lettera c), è ammesso il recupero abitativo del sottotetto, quando “l'altezza media interna, calcolata dividendo il volume interno lordo per la superficie interna lorda”, non sia inferiore a metri 2,20. “In caso di soffitto non orizzontale, fermo restando le predette altezze medie, l'altezza della parete minima non può essere inferiore a metri 1,40”.
Nel caso di specie, l’altezza del sottotetto è indicata in progetto tra i metri 2 e i metri 2,50, con evidente possibilità di un successivo recupero, in base alla legge n. 15 del 2000.
Ne deriva che in alcun modo il volume del sottotetto, inoltre di 300 metri cubi complessivi, di gran lunga superiore al volume del resto dell’edificio, avrebbe potuto essere calcolato come volume tecnico, ai fini rispetto della identità di sagoma e di volume richiesto per la ristrutturazione edilizia.
Trattandosi di intervento di nuova costruzione, per la costante giurisprudenza di questo Consiglio, era, dunque, soggetto ai limiti delle distanze tra gli edifici (Cons. Stato, sez. IV, 30.05.2013 n. 2972; 12.02.2013 n. 844) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 25.10.2019 n. 7289 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante giurisprudenza, ai fini dell’applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione ex novo di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi.
In particolare la sopraelevazione deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante.
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Con il terzo motivo di appello, peraltro, si sostiene che non sussisterebbe la violazione delle distanze ravvisata dal giudice di primo grado, in quanto le NTA del PRG del Comune di Marcianise per la zona B consentirebbero la costruzione sul confine di proprietà in caso di lotti circostanti edificati sul confine o non edificati; ciò avrebbe consentito il superamento della distanza minima di 5 metri, in quanto fino all’altezza dell’edificio confinante sarebbe stata applicabile la prima parte disposizione, per la parte del sottotetto sarebbe stata applicabile la parte della norma di attuazione relativi ai fondi non edificati.
Tale interpretazione non può trovare accoglimento.
E’ infatti evidente che l’unica interpretazione consentita da tale norma tecnica è quella seguita dal giudice di primo grado, per cui nel caso di specie la distanza inferiore ai 5 metri è ammessa solo fino all’altezza dell’edificio confinante; per il resto l’edificio è realizzato in violazione delle distanze, potendo il riferimento a lotti inedificati contenuto nella detta norma di attuazione essere riferita solo ad un lotto integralmente non edificato, non alla inedificazione della parte sovrastante un edificio.
Per costante giurisprudenza, infatti, ai fini dell’applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione ex novo di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi; in particolare la sopraelevazione deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 28.11.2018, n. 6738) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 25.10.2019 n. 7289 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAllo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se esso sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione «sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione».
Pertanto il mancato annullamento d’ufficio non rileva più autonomamente, e non si giustifica nella asserita rilevata carenza dell’interesse pubblico contrapposto; bensì risulta assorbito nella scelta di concludere il procedimento con una conferma, nel senso novativo sopra richiamato, del permesso edilizio originario, sostituendolo con uno nuovo che, rivalutati, in fatto e in diritto, i relativi contenuti, li ha comunque avallati.
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11. Infine, il Comune di Ricadi, a difesa dell’esito confermativo del titolo edilizio originario, invoca la mancanza di interesse pubblico al richiesto annullamento, espressamente previsto dall’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 nella versione vigente ratione temporis.
Nel caso di specie, tuttavia, come ricordato dal TAR, il provvedimento n. 187 del 09.11.2009, pur conseguendo all’avvio di un procedimento di annullamento in autotutela, indirettamente stimolato dalle semplici richieste di chiarimento avanzate dal Pa., si è concretizzato in un atto reiterativo della scelta precedente.
Esso tuttavia, conseguendo ad una nuova istruttoria, peraltro con attenzione mirata alla rilevata incongruità dello scomputo degli indici edificatori pregressi, non ne mutua acriticamente il contenuto, ma ne rinnova la scelta contenutistica, spostando su di sé i vizi eventualmente già sottesi a quella originaria.
11.1. A tale riguardo, come reiteratamente affermato da questo Consiglio di Stato, dalle cui risultanze non è motivo di discostarsi, allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre proprio verificare se esso sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione «sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione» (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.04.2018, n. 2172; Sez. IV, 14.04.2014, n. 1805; id., 12.02.2015, n. 758; 29.02.2016, n. 812; 12.10.2016, n. 4214; nonché 27.01.2017, n. 357).
Pertanto il mancato annullamento d’ufficio non rileva più autonomamente, e non si giustifica nella asserita rilevata carenza dell’interesse pubblico contrapposto; bensì risulta assorbito nella scelta di concludere il procedimento con una conferma, nel senso novativo sopra richiamato, del permesso edilizio originario, sostituendolo con uno nuovo che, rivalutati, in fatto e in diritto, i relativi contenuti, li ha comunque avallati (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 25.10.2019 n. 7285 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Codice del terzo settore (d.lgs. n. 117/2017) – Sedi di enti del terzo settore e locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali – Compatibilità con tutte le destinazioni d’uso urbanistico – Fattispecie: gestione di attività turistiche di interesse sociale.
E' illegittimo il provvedimento con il quale il comune inibisce ad una associazione del terzo settore la prosecuzione dell’attività di sosta camper su di un’area.
Invero, sussiste la violazione e falsa applicazione degli articoli 2 e 32 della legge n. 383 del 2000.
Ai sensi di tale normativa, confermata dall’art. 71 del codice del terzo settore (
D.Lgs. 03.07.2017 n. 117), le associazioni di promozione sociale, che svolgono attività senza fini di lucro, possono svolgere la propria attività in qualsiasi immobile, area o zona del territorio comunale, a prescindere dalla destinazione urbanistica impressa all’area stessa e senza che ciò determini un mutamento della destinazione d’uso dell’immobile o dell’area utilizzati.
Ne consegue che il Comune non può imporre, così come avvenuto con il provvedimento gravato, la formazione di un piano di lottizzazione convenzionato con la determinazione di aree per parcheggi e spazi pubblici.
Peraltro, il provvedimento gravato risulta irragionevole, atteso che l’ospitalità dei camper dura solo per circa cinque mesi l’anno, al termine dei quali l’area torna libera da ogni mezzo, senza che si realizzi alcuna modifica permanente dei luoghi o la realizzazione di una struttura ricettiva permanente necessitante di titoli edilizi.
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1.- Oggetto di impugnativa è il provvedimento con il quale il Comune di Roseto degli Abruzzi inibisce all’Associazione ricorrente la prosecuzione dell’attività di sosta camper sull’area distinta in catasto al foglio 55, particella n. 33
2.- I motivi di ricorso rispondono alla medesima direttrice logica e possono essere, pertanto, trattati congiuntamente.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli articoli 2 e 32 della legge n. 383 del 2000.
Ai sensi di tale normativa, confermata dall’art. 71 del codice del terzo settore, le associazioni di promozione sociale, che svolgono attività senza fini di lucro, possono svolgere la propria attività in qualsiasi immobile, area o zona del territorio comunale, a prescindere dalla destinazione urbanistica impressa all’area stessa e senza che ciò determini un mutamento della destinazione d’uso dell’immobile o dell’area utilizzati.
Ne consegue che il Comune non può imporre, così come avvenuto con il provvedimento gravato, la formazione di un piano di lottizzazione convenzionato con la determinazione di aree per parcheggi e spazi pubblici. Peraltro, il provvedimento gravato sarebbe irragionevole, atteso che l’ospitalità dei camper dura solo per circa cinque mesi l’anno, al termine dei quali l’area torna libera da ogni mezzo, senza che si realizzi alcuna modifica permanente dei luoghi o la realizzazione di una struttura ricettiva permanente necessitante di titoli edilizi.
Parte ricorrente lamenta -secondo motivo- l’incompetenza del Comune ad inibire un’attività di promozione sociale regolarmente affiliata alla Federazione nazionale liberi circoli, a sua volta iscritta ex art. 7 L. 383/2000 al registro delle associazioni di promozione sociale, tenuto presso la Presidenza del consiglio dei Ministri.
Inoltre, il provvedimento muove da un erroneo presupposto di fatto -terzo motivo- ovvero che l’area in cui sorge il camping, in quanto trasformata in un’area turistica e ricettiva, necessiterebbe della dotazione di parcheggi e di altri spazi pubblici da destinare al verde. Il Comune omette di considerare che la ricorrente si limita a mettere a disposizione degli utenti del campeggio un’area di terreno ove vanno a sostare massimo trenta camper per un periodo limitato della stazione estiva.
Infine -quarto motivo- è dedotta la violazione degli articoli 2, 3, 9 e 18, perché il provvedimento determina l’inibizione dell’attività esercitata in precedenza autorizzata.
3.- Il ricorso è fondato.
L’art. 2, recante l’individuazione delle associazioni di promozione sociale, e l’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000- il quale prevedeva che la sede delle associazioni di promozione sociale ed i locali nei quali si svolgono le relative attività sono compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee (previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968) indipendentemente dalla destinazione urbanistica- sono stati abrogati dall'art. 102, comma 1, lett. a), D.Lgs. 03.07.2017, n. 117, a decorrere dal 03.08.2017, ai sensi di quanto disposto dall'art. 104, comma 3, del medesimo D.Lgs. n. 117/2017.
Il disposto normativo recato dal sopra citato articolo 2 è stato riprodotto nell’art. 71, comma 1, del D.Lgs. 03/07/2017, n. 117, recante il codice del terzo settore, laddove prevede che: <<le sedi degli enti del Terzo settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica>>.
L’art. 5 del d.lgs. 117/2017, dopo aver qualificato come enti del terzo settore quelli che “esercitano in via esclusiva o principale una o più attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” elenca in modo tassativo una serie di attività che si considerano di interesse generale, purché svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano l'esercizio.
Orbene, tra le attività incluse nell’elenco, che sono considerate di interesse generale, vi è la “gestione di attività turistiche di interesse sociale” (art. 5, comma 1, lett. k) ovvero quelle attività perseguite da enti privati “costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”.
Tali attività, in considerazione della meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di promozione sociale, possono essere localizzabili in tutte le parti del territorio urbano, essendo compatibile con ogni destinazione d'uso urbanistico, e a prescindere dalla destinazione d'uso edilizio impresso specificamente e funzionalmente all’area (in senso conforme: Cons. Stato Sez. V Sent., 15/01/2013, n. 181).
Ciò in virtù delle previsioni dell’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000 e dell’art. 71 del d.lgs. 117/2017, disposizioni che, in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 della Costituzione), "intendono promuovere e favorire le associazioni private che realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi” (art. 1 della L. 06/06/2016, n. 106, recante la delega al Governo per la riforma del terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale).
Illustrato il quadro normativo di riferimento, occorre allora verificare se l’Associazione ricorrente si occupi di “gestione di attività turistiche di interesse sociale” senza scopo di lucro ovvero persegua “attività di utilità sociale”, mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi.
Come emerge dallo Statuto dell’Associazione Ca.cl.Ro.Ma.Bl. (allegato 10 del fascicolo di parte ricorrente), si tratta di ente senza fini di lucro, che ha una finalità di promozione del turismo in campeggio.
Ciò emerge dall’art. 2 dello Statuto ove, tra gli scopi perseguiti dall’associazione, ci sono, tra gli altri, quelli di: “promuovere, coordinare e tutelare l’attività campeggistica, il turismo itinerante, l’associazionismo ricreativo e culturale tra quanti esercitano il turismo all’aria aperta, con particolare riferimento all’assistenza ed alla propaganda turistica”; “sollecitare la collaborazione degli operatori pubblici e privati, degli enti pubblici e privati, degli organi di informazione interessati al turismo campeggistico ed itinerante, per l’integrazione di tale attività nel turismo in generale, anche con accordi commerciali a favore dei soci”.
E’ pertanto da escludere l’esercizio, da parte della ricorrente, di un attività diretta a ricavare introiti commerciali con carattere di stabilità.
Né si evince dallo Statuto un nesso diretto tra la concessione del diritto a stazionare nel parcheggio e il versamento di un corrispettivo, atteso che all’associazione sono ammessi tutti i cittadini di qualsiasi età che ne accettino lo Statuto.
Il camping non è quindi una struttura ricettiva propriamente detta, non riservata ai soci e aperta al pubblico, ma si tratta di un’area messa a disposizione dei soli soci, il che consente di configurare l’attività svolta come attività di promozione sociale ovvero di attività turistica di interesse sociale.
Al riguardo, il Comune non ha contestato che il Ca.Ro.Ma.bl. non avesse i requisiti per essere considerato come associazione di promozione sociale o che li avesse persi per non aver ottenuto l’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore (art. 4, comma 1, del d.lgs. 117/2017).
Né ha allegato concreti elementi dai quali desumere che la situazione di fatto non fosse in realtà conforme a quella di diritto, ovvero che il campeggio nominalmente associazione senza fini di lucro destinata ai soli soci, operasse in realtà come struttura aperta al pubblico. Non consta documentazione fiscale o di altro tipo, da cui risulti appunto un’attività di tipo commerciale, né esistono agli atti, sotto forma di verbali di ispezione o simili, esiti di accertamenti o verifiche in tal senso.
Al contrario, non risulta che il Comune abbia mai mosso rilievi al camping, né quando si è trattato di emettere un avviso di accertamento per il pagamento della TARI per gli anni 2015 e 2018 (all. 14 e 15 al fascicolo di parte ricorrente), né quando a mezzo della società in house Ru.Re. s.p.a. è stato autorizzato l’allaccio al collettore comunale delle acque reflue domestiche provenienti da wc, lavandini e docce a servizio dell’area adibita a parcheggio per camper (all. 16 ricorrente).
In definitiva, non avendo il Comune contestato che la ricorrente svolgesse attività di interesse generale ovvero attività turistica di interesse sociale, il provvedimento gravato è illegittimo, per violazione della fonte normativa gerarchicamente superiore (art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000 e art. 71 del d.lgs. 117/2017), laddove pretende, per l’utilizzo dell’area in questione, di applicare la norma di natura regolamentare (art. 17 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G.), che impone il piano di lottizzazione privato di cui all’art. 23 della legge 18/1983, con il rispetto della viabilità e dei parcheggi e degli altri spazi pubblici previsti all’interno delle singole perimetrazioni.
Il Comune avrebbe dovuto considerare l’area sede del camping, come compatibile con tutte le destinazioni d'uso omogenee.
In proposito, non coglie nel segno l’interpretazione della legge statale fornita dall’ente locale secondo la quale solo i “locali” e non le “aree” beneficerebbero del regime agevolativo e derogatorio alla disciplina urbanistica in materia di destinazioni d’uso.
Invero, osserva il Collegio, l’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000 e l’ art. 71 del d.lgs. 117/2017 si riferiscono non solo ai “locali”, ma anche alle “sedi”. Quest’ultime, per le attività come quella di sosta dei camper, che può essere ontologicamente svolta solo all’aperto, non possono che farsi coincidere con le aree scoperte.
Appare, peraltro, irragionevole subordinare l’attività di camping al piano di lottizzazione convenzionata, non risultando contestata la circostanza che l’attività esercitata non implica l’installazione di costruzioni o di altri manufatti inamovibili. La ricorrente, infatti, si limita a metter a disposizione ai propri associati l’area per lo stazionamento temporaneo (nel solo periodo estivo) dei camper (strutturati in modo da servire come abitazioni durante la sosta).
L’attività svolta dalla ricorrente sembra dunque compatibile con quella dei campeggi temporanei disciplinata dall’art. 8 della legge regionale 23.10.2003, n. 16, secondo la quale: <<1. le associazioni senza scopo di lucro che operano per finalità ricreative, culturali, religiose o sociali possono usufruire, esclusivamente per i propri associati, di aree appositamente messe a disposizione dal Comune o da privati per periodi di sosta di non più di trenta giorni, purché forniti di mezzi autonomi di pernottamento e le presenze non superino le cento unità giornaliere.
2. L'autorizzazione viene concessa dal Comune purché siano assicurate le attrezzature indispensabili per garantire il rispetto delle norme igienico-sanitarie e, comunque, nel rispetto di tutte le altre prescrizioni contenute nell'autorizzazione stessa, volte alla salvaguardia dei valori naturali ed ambientali
>>.
Contrariamente a quanto affermato dal Comune la norma regionale appena citata non può essere interpretata nel senso di non consentire l’utilizzazione di aree a prescindere dalla loro destinazione urbanistica, perché la legge regionale n. 16/2003, recante la disciplina delle strutture ricettive all’aria aperta, prevede che l’autorizzazione comunale debba verificare la sussistenza delle seguenti due condizioni:
   a) il rispetto delle norme igienico sanitarie (art. 8, comma 2, L.R. cit.), quali ad esempio l’allaccio alla rete fognaria comunale (requisito comprovato dalla ricorrente);
   b) la salvaguardia dei valori naturali e ambientali.
4.- In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, assorbita ogni altra doglianza, il provvedimento impugnato che inibisce alla ricorrente la prosecuzione dell’attività di sosta camper per mancanza del piano di lottizzazione convenzionata, è illegittimo e deve essere, pertanto, annullato (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 25.10.2019 n. 519 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIResponsabilità della P.A. per condotta che ha ingenerato nel privato un legittimo affidamento.
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Risarcimento danni – Contributi e finanziamenti – Inserimento in graduatoria – Espunzione dopo anni – Responsabilità per violazione del legittimo affidamento.
Sussiste la responsabilità della Pubblica amministrazione per violazione dei canoni di correttezza e buona fede ex art. 1337 c.c. laddove, dopo aver ammesso a finanziamento un’iniziativa imprenditoriale inserendola nella relativa graduatoria per la fruizione delle risorse all’uopo stanziate, solo a distanza di anni, in sede di rendicontazione dell’attività svolta, il soggetto pubblico rappresenti che questa non rientrava fra quelle ammissibili in base alla normativa europea di riferimento.
In tale ipotesi, infatti, il carattere doveroso e vincolato per la P.A. dell’attività consistente nell’evitare l’indebita erogazione di risorse pubbliche (ovvero, ove le stesse siano state già erogate, nel loro recupero), non esclude che per effetto della pregressa condotta della stessa Amministrazione possa essersi formato in capo al privato un ragionevole affidamento nella legittimità del riconoscimento dei contributi in proprio favore, tale da indurlo a portare avanti l’iniziativa imprenditoriale e a sostenere i relativi oneri nella legittima convinzione che gli stessi sarebbero stati coperti dalle risorse pubbliche (1).

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   (1) La Sezione ha premesso di aderire all’indirizzo secondo cui la revoca del contributo pubblico costituisce un atto dovuto per l’Amministrazione concedente, che è tenuta a porre rimedio alle conseguenze sfavorevoli derivanti all’Erario per effetto di un’indebita erogazione di contributi pubblici” quando risulti che il beneficio sia stato accordato in assenza dei presupposti di legge, “essendo l’interesse pubblico all’adozione dell’atto in re ipsa quando ricorra un indebito esborso di danaro pubblico con vantaggio ingiustificato per il privato” (Cons. St., sez. III, 13.05.2015, nn. 2380 e 2381).
Nella fattispecie, la Sezione ha però ravvisato gli estremi della colpa della P.A. nella stessa circostanza, addotta in giudizio dalla stessa a sostegno della legittimità della propria determinazione di non erogare il finanziamento, della chiarezza delle disposizioni che individuavano gli interventi ammissibili a contributo e nell’onere degli interessati di esserne a conoscenza: circostanze che, se opponibili al richiedente, a fortiori dovevano valere per la stessa amministrazione fin dalla fase dell’esame delle istanze ammissibili.
Né, secondo la Sezione, il legittimo affidamento poteva essere escluso nella specie per il fatto che il bando riservasse in capo all’Amministrazione un potere di rideterminazione e anche decurtazione del contributo nella fase di rendicontazione, atteso che tale previsione logicamente riguardava il controllo sulle attività svolte e non quello sull’ammissibilità delle domande di contributo, che doveva essere svolto a monte della formazione della graduatoria dei soggetti ammessi (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 24.10.2019 n. 7246 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio – Ordinanza di demolizione – Preventiva verifica della sanabilità – Non è prevista – Artt. 27, 31 e 36 d.P.R. n. 380/2001.
In presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all’autorità comunale, prima di emanare l’ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380/2001: tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31 dello stesso d.P.R. che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l’abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dal citato art. 36 che rimette all’esclusiva iniziativa della parte interessata l’attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato (cfr., fra le ultime, TAR Campania, Napoli, sez. II, 12.07.2019, n. 3864) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 24.10.2019 n. 823 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICI: Procedure di affidamento in condizioni di somma urgenza – Art. 163, c. 7, d.lgs. n. 50/2016 – Recesso da parte dell’amministrazione aggiudicatrice – Pagamento del valore delle opere già eseguite
Ai sensi dell’art. 163, comma 7, D.Lgs. 50/2016, nelle le procedure di affidamento in condizioni di somma urgenza, anche quando le amministrazioni aggiudicatrici recedano dal contratto, è fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese eventualmente già sostenute per l’esecuzione della parte rimanente, nei limiti delle utilità conseguite (TAR Abruzzo-L’Aquila, sentenza 24.10.2019 n. 506 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Commistione tra requisiti soggettivi di partecipazione e requisiti oggettivi di valutazione delle offerte.
Il divieto di commistione tra requisiti soggettivi di partecipazione e requisiti oggettivi di valutazione delle offerte deve essere applicato secondo criteri di proporzionalità, ragionevolezza e adeguatezza, non potendo negarsi la legittimità di criteri di valutazione che possano premiare le caratteristiche organizzative dell’impresa sotto il profilo ambientale, così come sotto i profili della tutela dei lavoratori e delle popolazioni interessate e della non discriminazione, al fine di valorizzare la compatibilità e sostenibilità ambientale della filiera produttiva e distributiva dei prodotti che costituiscono, comunque, l’oggetto dell’appalto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 23.10.2019 n. 2214 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2.2. Quanto al secondo motivo, osserva il Collegio che:
   - la lex specialis prevede l’attribuzione di un punteggio pari a 4 punti, sui 100 complessivi, per il possesso della certificazione SA 8000, ossia di una certificazione dell’impegno etico e sociale dell’azienda nello svolgimento dell’attività di impresa, volta a certificare alcuni aspetti della gestione aziendale, tra cui il rispetto dei diritti umani, dei diritti dei lavoratori, della sicurezza e salubrità nei posti di lavoro, della filiera di produzione dei lavoratori, dei consumatori;
   - tale previsione non può ritenersi in contrasto con il divieto di commistione tra requisiti di partecipazione e criteri di valutazione dell’offerta, atteso che il criterio in parola risulta in linea con il disposto di cui all’art. 95, comma 6, lett. a) del d.lgs. n. 50/2016, che consente di utilizzare quali elementi di valutazione dell’offerta tecnica “certificazioni e attestazioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, quali OSHAS 18001, caratteristiche sociali, ambientali, contenimento dei consumi energetici e delle risorse ambientali dell'opera o del prodotto, caratteristiche innovative, commercializzazione e relative condizioni”;
   - la giurisprudenza condivisa dal Collegio (cfr. C.d.S., Sez. III, n. 1635/2019; TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, n. 1869/2018) ha chiarito che
il divieto di commistione tra requisiti soggettivi di partecipazione e requisiti oggettivi di valutazione delle offerte deve essere applicato secondo criteri di proporzionalità, ragionevolezza e adeguatezza, non potendo negarsi la legittimità di criteri di valutazione che possano premiare le caratteristiche organizzative dell’impresa sotto il profilo ambientale, così come sotto i profili della tutela dei lavoratori e delle popolazioni interessate e della non discriminazione, al fine di valorizzare la compatibilità e sostenibilità ambientale della filiera produttiva e distributiva dei prodotti che costituiscono, comunque, l’oggetto dell’appalto;
   - secondo la stessa giurisprudenza
l’art. 95, comma 13, del d.lgs. n. 50/2016 già consentiva alle amministrazioni di indicare criteri premiali per la valutazione dell’offerta che potevano essere relativi, oltre che al maggior rating di legalità dell’impresa, anche al “minor impatto sulla salute e sull’ambiente”; parimenti il comma 6 del medesimo articolo, allorché elenca gli elementi che possono costituire criteri valutativi, non esclude il richiamo a caratteristiche proprie e soggettive dell’impresa: tale possibilità è stata già confermata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sez. III, n. 4283/2018) secondo la quale il principio della netta separazione tra criteri soggettivi di prequalificazione e criteri di aggiudicazione della gara deve essere interpretato cum grano salis, consentendo alle stazioni appaltanti, nei casi in cui determinate caratteristiche soggettive del concorrente, in quanto direttamente riguardanti l’oggetto del contratto, possano essere valutate anche per la selezione dell’offerta, di prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione dell’offerta tecnica di tipo soggettivo, concernenti la specifica attitudine del concorrente;
   - peraltro, le predette considerazioni valgono a maggior ragione qualora i criteri in questione non siano preponderanti nella determinazione complessiva del punteggio tecnico, come accade nella vicenda di cui è causa, in cui il peso ponderale di 4 punti su 100 complessivi e 70 attribuibili all’offerta tecnica, assegnato nella lettera di invito al possesso della certificazione SA 8000, non costituisce il 22% del punteggio tecnico, contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente, ma si avvicina al 5,72%;
   - inoltre, la censurata previsione della lex specialis si giustifica anche alla luce delle indicazioni contenute nelle linee guida ANAC n. 2, secondo le quali: “Si deve anche considerare che con l’elenco di cui all’art. 95, viene definitivamente superata la rigida separazione tra requisiti di partecipazione e criteri di valutazione che aveva caratterizzato a lungo la materia della contrattualistica pubblica. Nella valutazione delle offerte possono essere valutati profili di carattere soggettivo introdotti qualora consentano di apprezzare meglio il contenuto e l'affidabilità dell’offerta o di valorizzare caratteristiche dell’offerta ritenute particolarmente meritevoli; in ogni caso, devono riguardare aspetti, quali quelli indicati dal Codice, che incidono in maniera diretta sulla qualità della prestazione.
Naturalmente, anche in questo caso, la valutazione dell’offerta riguarda, di regola, solo la parte eccedente la soglia richiesta per la partecipazione alla gara, purché ciò non si traduca in un escamotage per introdurre criteri dimensionali. Al comma 13 dell’art. 95 viene anche stabilito che, compatibilmente con il rispetto dei principi che presidiano gli appalti pubblici, le stazioni appaltanti possono inserire nella valutazione dell’offerta criteri premiali legati al rating di legalità, all’impatto sulla sicurezza e salute dei lavoratori, a quello sull’ambiente
”.
La censura, pertanto, va respinta.

EDILIZIA PRIVATACome noto, con l’art. 31 del DPR 380/2001 il legislatore statale ha dettato innanzi tutto la regola secondo cui l’opera abusiva acquisita al patrimonio comunale deve essere demolita e ha consentito, in via di eccezione a tale regola, ai singoli Comuni –con attribuzione della relativa competenza al consiglio comunale– di utilizzare, anziché demolire, l’opera abusiva quando ritengano l’esistenza di un interesse pubblico alla conservazione e la prevalenza di esso sul concorrente interesse, anch’esso pubblico, al ripristino della conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia.
Ne consegue che l’opera abusiva acquisita al patrimonio comunale debba, di regola, essere demolita e che possa essere conservata, in via eccezionale, soltanto se, con autonoma deliberazione del consiglio comunale relativa alla singola opera, si ritenga, sulla base di tutte le circostanze del caso, l’esistenza di uno specifico interesse pubblico alla conservazione della stessa e la prevalenza di questo sull’interesse pubblico al ripristino della conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia, nonché l’assenza di un contrasto della conservazione dell’opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.
Peraltro, la facoltà riconosciuta ai Comuni di non demolire le opere abusive in discorso deve implicare un’analisi puntuale delle caratteristiche di ognuna di esse, rispettosa dei canoni individuati dalla legge statale, che sola può garantire uniformità sull’intero territorio nazionale.

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Il Collegio ritiene di prendere le mosse dalla disamina del secondo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti lamentano la violazione di legge per carenza del presupposto cui la norma, richiamata dal Comune nel provvedimento impugnato, àncora la possibilità di non procedere alla demolizione del bene abusivo e cioè la ricorrenza di “prevalenti interessi pubblici” alla sua conservazione.
Il motivo coglie nel segno.
Come noto, con l’art. 31 del DPR 380/2001 il legislatore statale ha dettato innanzi tutto la regola secondo cui l’opera abusiva acquisita al patrimonio comunale deve essere demolita e ha consentito, in via di eccezione a tale regola, ai singoli Comuni –con attribuzione della relativa competenza al consiglio comunale– di utilizzare, anziché demolire, l’opera abusiva quando ritengano l’esistenza di un interesse pubblico alla conservazione e la prevalenza di esso sul concorrente interesse, anch’esso pubblico, al ripristino della conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia.
Ne consegue che l’opera abusiva acquisita al patrimonio comunale debba, di regola, essere demolita e che possa essere conservata, in via eccezionale, soltanto se, con autonoma deliberazione del consiglio comunale relativa alla singola opera, si ritenga, sulla base di tutte le circostanze del caso, l’esistenza di uno specifico interesse pubblico alla conservazione della stessa e la prevalenza di questo sull’interesse pubblico al ripristino della conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia, nonché l’assenza di un contrasto della conservazione dell’opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.
Peraltro, la facoltà riconosciuta ai Comuni di non demolire le opere abusive in discorso deve implicare un’analisi puntuale delle caratteristiche di ognuna di esse, rispettosa dei canoni individuati dalla legge statale, che sola può garantire uniformità sull’intero territorio nazionale (cfr. Corte Cost., 05/06/2018, nr. 140).
Operate tali premesse, deve dunque ritenersi che nel caso qui in esame difettino, in violazione di legge, quei prevalenti interessi pubblici alla conservazione del bene che avrebbero potuto legittimamente sorreggere la delibera comunale in oggetto. La decisione del Comune è difatti imperniata, sostanzialmente, sulla pendenza di un contenzioso in ordine all’ordine di demolizione dell’immobile in precedenza adottato, e sulle conseguenze negative, di carattere patrimoniale, che potrebbero derivare dall’eventuale accoglimento del ricorso del controinteressato, autore dell’opera abusiva.
Ora, se è vero che il legislatore, nel dettare la norma di cui al comma V citato, non ha operato una selezione “a monte” del novero degli interessi pubblici che possono giustificare la scelta di non rimuovere l’opera abusiva, è d’altro canto vero che un’interpretazione della disposizione in esame coerente con la sua ratio (in precedenza sinteticamente illustrata sulla scorta dei canoni ermeneutici offerti dalla Corte Costituzionale) non può conciliarsi con una scelta di mantenimento del bene fondata su una situazione di carattere del tutto transeunte, quale la pendenza di un contenzioso relativo all’ordine di demolizione del bene (il ricorso, peraltro, alla data odierna risulta rinunciato).
E’ infatti evidente che solo un interesse pubblico concretantesi in una situazione di carattere permanente può ritenersi “prevalente” rispetto agli interessi contrapposti, ed è dunque suscettibile di giustificare la conservazione, in via definitiva, del bene, avuto riguardo alla circostanza –già evidenziata- che la mancata demolizione deve considerarsi un’eccezione rispetto alla regola generale che è quella della rimessione in pristino.
Né a diverse conclusioni può portare la considerazione di quanto osservato dall’Amministrazione circa il fatto che alla demolizione avrebbero potuto procedere gli stessi ricorrenti, nella qualità di comproprietari del bene (non responsabili dell’abuso). Tale circostanza, difatti, non elide certo l’illegittimità del provvedimento impugnato per carenza dei presupposti che in base alla legge lo devono giustificare.
Alla luce della fondatezza del secondo motivo di ricorso, risulta assorbita la necessità di procedere al vaglio degli ulteriori motivi di impugnazione.
3. Il ricorso deve, dunque, essere accolto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 23.10.2019 n. 1124 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1.- Provvedimento amministrativo – interpretazione – ipotesi dubbie.
   2.- Provvedimento amministrativo – interpretazione – modulazioni defensionali della p.A. – preclusione dei nova – limiti.
   1. In ipotesi dubbie deve essere privilegiata l’esegesi che, nel rispetto della latitudine semantica consentita dalla formulazione letterale dell’atto amministrativo, ne preservi la legittimità: milita in tal senso il principio generale di conservazione dei valori giuridici; inoltre, una tale interpretazione meglio si conforma con il principio speciale, proprio del diritto amministrativo, dell’economicità dell’azione amministrativa, di cui costituisce, per così dire, un riflesso ermeneutico.
   2. L’interpretazione attribuita ad un atto amministrativo rientra nelle mere difese che, ai sensi del C.P.A., non scontano limiti né preclusioni, argomentandosi, a contrario, ex art. 104 C.P.A.. Peraltro, l’Amministrazione interessata a difendere la legittimità di un provvedimento può anche mutare, nel corso del giudizio, le proprie prospettazioni difensive, ove queste non integrino eccezioni in senso tecnico-giuridico.
Le considerazioni in punto di mutatio libelli, infatti, attengono alla formulazione della domanda di giustizia, mentre l’Amministrazione interessata alla reiezione dell’istanza demolitoria svolta dal ricorrente può ottenere il proprio obiettivo processuale, ossia il rigetto dell’iniziativa giurisdizionale avanzata ex adverso, anche modificando le proprie (mere) difese, senza con ciò incorrere in preclusioni, limitazioni o divieti di nova.
Allorché, infatti, l’Amministrazione tende alla mera conferma dello status quo e non sollecita, quindi, la modificazione per via giudiziaria dell’assetto degli interessi delineato nel provvedimento, la modulazione delle (mere) difese in corso di causa non determina un mutamento dell’oggetto del giudizio, rappresentato dallo scrutinio dei vizi di illegittimità, come delineati nel ricorso
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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8. Il ricorso, peraltro, è infondato anche nel merito.
9. Valgono, in proposito, le seguenti ragioni.
10. In primo luogo, il Tar, interpretando in maniera letterale il decreto impugnato, ha ritenuto che con lo stesso sia stato semplicemente fissato il tetto massimo della tariffa, lasciando per il resto libere le parti di individuarne, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, la concreta misura.
10.1. Sul fondamento di tale esegesi il Tar ha accolto il ricorso, condannando l’Amministrazione regionale al risarcimento dei danni sull’assunto dell’illegittimità del decreto de quo.
10.2. Il Collegio osserva che, a ben vedere, del decreto può darsi una diversa esegesi, sulla scorta di un approccio logico-sistematico che tenga, altresì, conto della peculiare situazione per cui è causa.
10.3. In particolare, nel verbale del gruppo di lavoro per la determinazione delle tariffe di accesso in discarica del 09.12.2002, richiamato dal decreto ed allo stesso allegato, si precisa che “la tariffa comunicata dalla E. Gi. e pari a € 34,3636/tonnellata può essere considerata il prezzo limite massimo di accesso in discarica”: è, pertanto, ragionevole assumere che l’Amministrazione abbia inteso condividere la proposta di prezzo avanzata dal gestore, espressamente qualificandola, ad ogni buon conto, come limite insuperabile (ossia, appunto, come tariffa “massima”).
10.4. Oltretutto, un’interpretazione del genere è da preferirsi in quanto secundum legem: in ipotesi dubbie, invero, deve essere privilegiata l’esegesi che, nel rispetto della latitudine semantica consentita dalla formulazione letterale dell’atto amministrativo, ne preservi la legittimità.
10.5. Milita in tal senso il principio generale di conservazione dei valori giuridici; inoltre, una tale interpretazione meglio si conforma con il principio speciale, proprio del diritto amministrativo, dell’economicità dell’azione amministrativa, di cui costituisce, per così dire, un riflesso ermeneutico.
10.6. Il Collegio, peraltro, osserva che la Regione, nel corso del giudizio di prime cure, ha propugnato un’esegesi del decreto analoga a quella fatta propria dal Tar, sostenendo, tuttavia, la legittimità della previsione, da parte del decreto de quo, di una tariffa “massima”.
10.7. Nel ricorso in appello, invece, la Regione sostiene che la tariffa indicata nel decreto sia fissa e rigida, a nulla rilevando l’apposizione dell’aggettivo “massima”.
10.8. Tale oggettiva distonia defensionale, tuttavia, non esonda in inammissibilità o, comunque, in infondatezza dell’appello.
10.9. Anzitutto, parte appellata niente ha osservato in proposito.
10.10. Inoltre, l’interpretazione attribuita ad un atto amministrativo rientra nelle mere difese che, ai sensi del c.p.a. (applicabile ratione temporis al presente grado di giudizio), non scontano limiti né preclusioni (arg. a contrario ex art. 104 c.p.a.).
10.11. Invero, l’Amministrazione interessata a difendere la legittimità di un provvedimento può anche mutare, nel corso del giudizio, le proprie prospettazioni difensive, ove queste non integrino eccezioni in senso tecnico-giuridico.
10.12. Le considerazioni in punto di mutatio libelli, infatti, attengono alla formulazione della domanda di giustizia, mentre l’Amministrazione interessata alla reiezione dell’istanza demolitoria svolta dal ricorrente può ottenere il proprio obiettivo processuale, ossia il rigetto dell’iniziativa giurisdizionale avanzata ex adverso, anche modificando le proprie (mere) difese, senza con ciò incorrere in preclusioni, limitazioni o divieti di nova.
10.13. Allorché, infatti, l’Amministrazione tende alla mera conferma dello status quo e non sollecita, dunque, la modificazione per via giudiziaria dell’assetto degli interessi delineato nel provvedimento, la modulazione delle (mere) difese in corso di causa non determina un mutamento dell’oggetto del giudizio, rappresentato, come noto, dallo scrutinio dei vizi di illegittimità come delineati nel ricorso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.10.2019 n. 7153 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Gli ingegneri ed architetti, iscritti ad altre forme di previdenza, devono comunque iscriversi alla gestione separata INPS.
Gli ingegneri e gli architetti, che siano iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie e che non possano conseguentemente iscriversi all'INARCASSA, rimanendo obbligati verso quest'ultima soltanto al pagamento del contributo integrativo in quanto iscritti agli albi, sono tenuti comunque ad iscriversi alla Gestione separata presso l'INPS, in quanto la ratio universalistica delle tutele previdenziali cui è ispirato l'art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, induce ad attribuire rilevanza, ai fini dell'esclusione dell'obbligo di iscrizione di cui alla norma d'interpretazione autentica contenuta nell'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011 (conv. con l. n. 111/2011), al solo versamento di contributi suscettibili di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale, ciò che invece non può dirsi del c.d. contributo integrativo, in quanto versamento effettuato da tutti gli iscritti agli albi in funzione solidaristica.
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CONSIDERATO IN FATTO:
1.La Corte d'appello di Caltanissetta, confermando la sentenza del Tribunale di Enna, ha dichiarato l'ing. Ba.Gi.Pr. non tenuto all'iscrizione alla gestione separata INPS in relazione all'attività libero-professionale svolta in concomitanza con l'attività di lavoro dipendente per la quale risultava iscritto presso altra gestione assicurativa obbligatoria.
...
RITENUTO IN DIRITTO
4. L'Inps denuncia, con il primo motivo, violazione dell'art. 2, comma 26, L. n. 335/1995, dell'art. 18, comma 12, DL n. 98/2011 conv. in L. 111/2011; nonché in connessione dell'art. 3 L. n. 179/1958; degli artt. 10 e 21 L. n. 6/1981; degli artt. 7, 23 e 37 statuto Inarcassa del 28/07/1995 applicabile ratione temporis.
Ha censurato la sentenza per avere affermato l'insussistenza dell'obbligo di iscrizione alla Gestione separata e del pagamento della contribuzione in capo agli ingegneri ed architetti che svolgono attività di lavoro subordinato (in forza della quale godano di tutela previdenziale presso Inps ex Inpdap) e contestualmente attività di lavoro autonomo professionale per la quale non sussiste obbligo di iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza degli ingegneri ed architetti- INARCASSA, senza considerare che l'art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995 deve trovare applicazione nella fattispecie, essendo presenti i presupposti richiesti: esercizio di attività professionale soggetta all'iscrizione all'albo; assenza di obbligo di iscrizione alla cassa professionale, per effetto del divieto posto dall'art. 7 dello Statuto in ragione del concomitante esercizio dell'attività dipendente con diversa copertura assicurativa.
Con il secondo motivo l'Istituto denuncia violazione dell'art. 3, comma 9, L. n. 335/1995 e dell'art. 18, comma 12, DL n. 98/2011 conv. in L. n 111/2011;   nonché dell'art. 2 DPR n 322/1998 ribadendo l'infondatezza dell'eccezione di prescrizione relativa ai contributi del 2007, questione ritenuta assorbita dalla Corte.
5. La questione principale, oggetto del ricorso, concerne l'obbligo di iscrizione alla Gestione separata presso I'INPS degli ingegneri e degli architetti, iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie, e che non possono iscriversi ad INARCASSA, alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo in quanto iscritti agli albi, cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio.
6. Il motivo è fondato, essendosi ormai consolidato il principio di diritto secondo cui gli ingegneri e gli architetti, che siano iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie e che non possano conseguentemente iscriversi all'INARCASSA, rimanendo obbligati verso quest'ultima soltanto al pagamento del contributo integrativo in quanto iscritti agli albi, sono tenuti comunque ad iscriversi alla Gestione separata presso l'INPS, in quanto la ratio universalistica delle tutele previdenziali cui è ispirato l'art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, induce ad attribuire rilevanza, ai fini dell'esclusione dell'obbligo di iscrizione di cui alla norma d'interpretazione autentica contenuta nell'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011 (conv. con l. n. 111/2011), al solo versamento di contributi suscettibili di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale, ciò che invece non può dirsi del c.d. contributo integrativo, in quanto versamento effettuato da tutti gli iscritti agli albi in funzione solidaristica (Cass. n. 30344 del 2017, cui ha dato seguito, a seguito di ordinanza interlocutoria di questa Sesta sezione n. 19124 del 2018, Cass. n. 32166 del 2018).
6. Non essendosi la Corte di merito conformata all'anzidetto principio di diritto, la sentenza impugnata va cassata, in accoglimento del primo motivo, restando assorbito il secondo motivo (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 17.10.2019 n. 26469).

EDILIZIA PRIVATAIn generale il provvedimento implicito è configurabile unicamente allorquando l'Amministrazione pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali attraverso un comportamento conseguente ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente.
Peraltro, in materia di edilizia, se per un verso la trasformazione di un bene privato presuppone la previa specifica istanza progettuale dello stesso diretto interessato, rispetto alla quale la mera rappresentazione grafica appare all’evidenza insufficiente, per un altro verso nessun rilievo può riconoscersi al principio suddetto, non avendo la p.a. adottato alcuna fase istruttoria tale da ingenerare l’invocato affidamento.
A conferma di ciò va richiamato il consolidato principio per cui l’attività sanzionatoria della p.a. concernente l'attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell'intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell'irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare.
Inoltre, costituisce jus receptum il principio a mente del quale l’ordine di demolizione è atto vincolato, per la cui adozione non è necessaria la valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né la comparazione di questi con gli interessi privati coinvolti, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.
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3. In proposito assumono rilievo preminente le considerazioni svolte dalla giurisprudenza prevalente, anche della sezione, in merito all’inammissibilità del titolo edilizio implicito.
In generale il provvedimento implicito è configurabile unicamente allorquando l'Amministrazione pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali attraverso un comportamento conseguente ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 27/04/2015 , n. 2112).
Peraltro, in materia di edilizia, se per un verso la trasformazione di un bene privato presuppone la previa specifica istanza progettuale dello stesso diretto interessato, rispetto alla quale la mera rappresentazione grafica appare all’evidenza insufficiente, per un altro verso nessun rilievo può riconoscersi al principio suddetto, non avendo la p.a. adottato alcuna fase istruttoria tale da ingenerare l’invocato affidamento.
A conferma di ciò va richiamato il consolidato principio per cui l’attività sanzionatoria della p.a. concernente l'attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell'intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell'irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 06.09.2017, n. 4243).
Inoltre, costituisce jus receptum il principio a mente del quale l’ordine di demolizione è atto vincolato, per la cui adozione non è necessaria la valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né la comparazione di questi con gli interessi privati coinvolti, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 17.07.2018, n. 4368).
3.1 Tali principi assumono preminente rilievo sia in generale, in termini di inammissibilità del principio invocato del titolo edilizio implicito, sia in relazione al caso di specie, laddove il provvedimento è basato su adeguata istruttoria e motivazione, consistenti nella descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro illegittimità, oltre che nel rispetto delle formalità tese a garantire la partecipazione procedimentale, senza che la parte ne abbia approfittato.
Parimenti irrilevante è la invocazione del certificato di agibilità del 04.02.1984, atto dotato di presupposti specifici e di funzione propria, senza che in quest’ultima possa annoverarsi anche quella di titolo abilitativo implicito in sanatoria. Peraltro, nel caso di specie il contenuto del certificato è generico, nel fare rinvio a quanto assentito dal titolo edilizio, cosicché non potrebbe in ogni caso integrare e confermare le carenze della relazione tecnica illustrativa dell’intervento progettato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.10.2019 n. 7059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea generale va ribadito che deve ritenersi legittimo l'ordine di demolizione in caso di variazioni essenziali e che anche gli interventi edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire soggiacciano alla sanzione demolitoria, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, si debba applicare la sanzione pecuniaria.
Se nel caso di specie nessun elemento risulta invocato a quest’ultimo riguardo, né lo sarebbe logicamente a fronte della evidenziata autonoma rilevanza, neppure è invocabile la soglia del due per cento.
Invero, il legislatore, con la modifica apportata dall'art. 5, comma 2, lett. a), num. 5), del d.l. 13.05.2011 n. 70, convertito in l. 12.07.2011 n. 106, ha ridotto il campo di applicazione dell'art. 34 t.u. edilizia. Proprio l'assenza di una compiuta definizione della categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto a fissare una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito edilizio.
Si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito edilizio.
L'ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente circoscritto alla materia edilizia e non opera, dunque, nel caso di interventi su immobili “vincolati”; inoltre presuppone il rispetto del relativo presupposto (cfr. art. 34, comma 2-ter: “ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”).
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A fronte della risalenza del manufatto assume rilievo dirimente, in linea di diritto, il principio a mente del quale la sanzione ripristinatoria costituisce atto vincolato, per la cui adozione non è necessaria la valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né la comparazione di questi con gli interessi privati coinvolti, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.
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3.2 Del pari priva di fondamento è l’invocazione della natura di variazione essenziale a fronte del rispetto della soglia del due per cento. Infatti, la consistenza, la dimensione e la funzionalità del rilevante manufatto ne escludono in radice l’invocata qualificazione. Trattasi infatti di un manufatto di rilevanti dimensioni (m 10,50 x 9,40 = mq 98,70 x 5,00 = mc 493,50), dotato di autonomia funzionale quale capannone suscettibile di autonomo e specifico utilizzo, realizzato in muratura e quindi non ipotizzabile in termini di precarietà.
Peraltro, in linea generale va ribadito che deve ritenersi legittimo l'ordine di demolizione in caso di variazioni essenziali e che anche gli interventi edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire soggiacciano alla sanzione demolitoria, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, si debba applicare la sanzione pecuniaria (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 04/06/2018, n. 3371). Se nel caso di specie nessun elemento risulta invocato a quest’ultimo riguardo, né lo sarebbe logicamente a fronte della evidenziata autonoma rilevanza, neppure è invocabile la soglia del due per cento.
Come già evidenziato dalla sezione (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI, 30/03/2017, n. 1484), il legislatore, con la modifica apportata dall'art. 5, comma 2, lett. a), num. 5), del d.l. 13.05.2011 n. 70, convertito in l. 12.07.2011 n. 106, ha ridotto il campo di applicazione dell'art. 34 t.u. edilizia. Proprio l'assenza di una compiuta definizione della categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto a fissare una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito edilizio.
Si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito edilizio. L'ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente circoscritto alla materia edilizia e non opera, dunque, nel caso di interventi su immobili “vincolati”; inoltre presuppone il rispetto del relativo presupposto (cfr. art. 34, comma 2-ter: “ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”).
Nel caso di specie la rilevanza dimensionale ed autonoma esclude in radice l’applicabilità di tale disposizione. Né può essere invocata, nella presente sede sanzionatoria, l’eventuale conformità urbanistica, previgente ed attuale, in assenza di una domanda di accertamento di conformità.
3.3 Infine, relativamente al terzo ed ultimo ordine di rilievi, a fronte della risalenza del manufatto assume rilievo dirimente, in linea di diritto, il principio a mente del quale la sanzione ripristinatoria costituisce atto vincolato, per la cui adozione non è necessaria la valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né la comparazione di questi con gli interessi privati coinvolti, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 17.07.2018, n. 4368) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.10.2019 n. 7059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l'ambito più o meno ampio della discrezionalità dell'amministrazione.
Con specifico riferimento all'elemento psicologico la colpa della pubblica amministrazione viene individuata nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l'amministrazione.
In tale contesto, pertanto, escludere in radice l’illegittimità dell’atto che avrebbe causato il danno comporta in radice l’impossibilità di ritenere sussistente la responsabilità risarcitoria.
In materia, infatti, il diritto al risarcimento del danno presuppone una condotta non iure che abbia determinato, nel patrimonio del danneggiato, la lesione di una situazione soggettiva meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico; nello specifico ambito della responsabilità civile della pubblica amministrazione per atto amministrativo illegittimo, la responsabilità risarcitoria postula, più specificamente, una spendita viziata del potere che, esorbitando dallo schema sostanziale e procedimentale delineato dalla legge attributiva, abbia leso almeno colposamente un interesse legittimo del privato, vulnerandone la sfera giuridica.
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1. L’appello principale è prima facie fondato, sotto tutti i profili dedotti.
2. Infatti, dall’analisi della documentazione prodotta emerge la censurata contraddittorietà della sentenza appellata che, dopo aver respinto la domanda di annullamento ed i relativi vizi di legittimità dedotti, ha contraddittoriamente accolto la domanda risarcitoria.
2.1 In proposito, già in linea di diritto assume rilievo il principio a mente del quale l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l'ambito più o meno ampio della discrezionalità dell'amministrazione; con specifico riferimento all'elemento psicologico la colpa della pubblica amministrazione viene individuata nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l'amministrazione (cfr. ad es. Consiglio di Stato , sez. III , 04.03.2019, n. 1500).
In tale contesto, pertanto, escludere in radice l’illegittimità dell’atto che avrebbe causato il danno comporta in radice l’impossibilità di ritenere sussistente la responsabilità risarcitoria.
In materia, infatti, il diritto al risarcimento del danno presuppone una condotta non iure che abbia determinato, nel patrimonio del danneggiato, la lesione di una situazione soggettiva meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico; nello specifico ambito della responsabilità civile della pubblica amministrazione per atto amministrativo illegittimo, la responsabilità risarcitoria postula, più specificamente, una spendita viziata del potere che, esorbitando dallo schema sostanziale e procedimentale delineato dalla legge attributiva, abbia leso almeno colposamente un interesse legittimo del privato, vulnerandone la sfera giuridica (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. V, 30/11/2018, n. 6819).
2.2 Nel caso di specie il contrasto emerge altresì nei confronti della domanda formulata, come peraltro rilevabile dalla stessa sentenza che, in primo luogo sul punto, afferma che “può essere ora esaminata la domanda di danno con cui l’interessato chiede condannarsi il solo comune di Imperia al risarcimento del danno per l’illegittimità dell’azione amministrativa”; subito dopo, contraddittoriamente, si afferma che “in ordine all’illegittimità dell’atto impugnato in principalità (la cosiddetta fiscalizzazione dell’abuso) il collegio si è pronunciato con quanto esposto sin qui, sì che non v’è motivo di rimeditare la decisione” e poi che invece “gli altri profili dedotti a corredo della domanda risarcitoria sono invece fondati”.
Né a diversa soluzione si può giungere in relazione alla parte della sentenza che ha censurato la mancata adozione di un atto di sospensione lavori, sia per mancanza di qualsiasi specifica contestazione a monte sulla illegittimità di tale comportamento, sia a fronte del conseguente vizio, in termini processuali, di ultrapetizione, nei termini compiutamente censurati dal Comune appellante.
Inoltre, in termini invero dirimenti, erra il Giudice di prime cure laddove ha ritenuto che fosse doverosa l’adozione di un atto di sospensione lavori “attesa l’immediata esecutorietà della decisione di primo grado”; al riguardo, infatti, proprio l’esecutività della statuizione giurisdizionale produce effetti diretti ed immediati, per norma e principio consolidati, senza alcuna necessità di essere intermediata da un atto cautelare comunale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.10.2019 n. 7057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 38 DPR 380/2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall'origine in assenza di titolo, per tutelare un certo affidamento del privato, sì da ottenere la conservazione d'un bene che è pur sempre sanzionato.
Il fondamento del regime sanzionatorio più mite riservato dalla norma agli interventi edilizi realizzati in presenza di un titolo abilitativo che solo successivamente sia stato dichiarato illegittimo rispetto al trattamento ordinariamente previsto per le ipotesi di interventi realizzati in originaria assenza del titolo va quindi rinvenuto nella specifica considerazione dell'affidamento riposto dall'autore dell'intervento sulla presunzione di legittimità e comunque sull'efficacia del titolo assentito.
A tal fine, all'amministrazione si impone di verificare se i vizi formali o sostanziali siano emendabili, ovvero se la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari. In presenza degli anzidetti presupposti per convalidare l'atto, «l'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36» del testo unico (art. 38, comma 2, del d.P.R. 380 del 2001).
La norma in definitiva ha previsto tre possibili rimedi:
   a) la sanatoria della procedura nei casi in cui sia possibile la rimozione dei vizi della procedura amministrativa, con conseguente non applicazione di alcuna sanzione edilizia;
   b) nel caso in cui non sia possibile la sanatoria, l'Amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione in forma specifica della demolizione;
   c) soltanto nel caso in cui non sia possibile applicare la sanzione in forma specifica, in ragione della natura delle opere realizzate, l'Amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione pecuniaria nel rispetto delle modalità sopra indicate. Si tratta di una gradazione di sanzioni modulata alla luce della gravità della violazione della normativa urbanistica.
Secondo l'interpretazione della norma coerente alla ricordata ratio, il concetto di possibilità di ripristino non è inteso come "possibilità tecnica", occorrendo comunque valutare l'opportunità di ricorrere alla demolizione, dovendosi comparare l'interesse pubblico al recupero dello status quo ante con il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del privato incolpevole che aveva confidato nell'esercizio legittimo del potere amministrativo; la scelta di escludere la sanzione demolitoria, infatti, laddove adeguatamente motivata ed accompagnata alle indicazioni contenute nell'annullamento, appare quella maggiormente rispettosa di tutti gli interessi coinvolti nella singola controversia ed anche del principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, di diretta derivazione dal diritto dell'Unione Europea, principio che impone all'Amministrazione il perseguimento del pubblico interesse col minor sacrificio possibile dell'interesse privato.
Invero, la corretta interpretazione di tale nozione di "impossibilità" ha dato luogo a dibattiti anche dottrinali; in proposito, coerentemente a quanto sopra evidenziato, appare ragionevole l'opzione ermeneutica a mente della quale l'individuazione dei casi di impossibilità non può arrestarsi alla mera impossibilità (o grave difficoltà), tecnica, potendo anche trovare considerazione ragioni di equità o al limite di opportunità. Al riguardo, si è ritenuto che, nel caso di opere realizzate sulla base di titolo annullato, la loro demolizione debba essere considerata quale extrema ratio, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi riscontrati.
In definitiva, l'art. 38 rappresenta "speciale norma di favore" che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato l'opera abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo, tutelando l'affidamento del privato che ha avviato i lavori in base a titolo ottenuto.
In tale ambito, a seguito di annullamento di titolo abilitativo edilizio -secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi- l'Amministrazione non può dirsi vincolata ad adottare misure ripristinatorie, dovendo anzi la scelta -tipicamente discrezionale quale essa sia, nel senso della riedizione o della demolizione- essere adeguatamente motivata. Incidentalmente va evidenziato come tale approfondito onere motivazionale trovi conferma nell’orientamento espresso dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio in tema di annullamento in autotutela di titolo in sanatoria illegittimamente rilasciato.
Nel procedere a tale rilevante attività valutativa la p.a., sulla scorta delle indicazioni di principio sin qui richiamate, deve, per un verso, verificare l’emendabilità dei vizi e, per un altro verso, se la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari.
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3. Passando all’analisi dell’appello incidentale, lo stesso appare infondato sotto tutti i profili dedotti, sia di carattere sostanziale che procedimentale.
3.1 Con riferimento al primo motivo concernente il difetto dei presupposti applicativi della norma di cui all’art. 38 t.u. edilizia, in linea generale va ribadito quanto già approfondito dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. ad es. sez. VI, 28.11.2018, n. 6753): l’art. 38 cit. si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall'origine in assenza di titolo, per tutelare un certo affidamento del privato, sì da ottenere la conservazione d'un bene che è pur sempre sanzionato (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. VI 09.04.2018 n. 2155 e 10.05.2017 n. 2160).
3.1.1 Il fondamento del regime sanzionatorio più mite riservato dalla norma agli interventi edilizi realizzati in presenza di un titolo abilitativo che solo successivamente sia stato dichiarato illegittimo rispetto al trattamento ordinariamente previsto per le ipotesi di interventi realizzati in originaria assenza del titolo va quindi rinvenuto nella specifica considerazione dell'affidamento riposto dall'autore dell'intervento sulla presunzione di legittimità e comunque sull'efficacia del titolo assentito.
A tal fine, all'amministrazione si impone di verificare se i vizi formali o sostanziali siano emendabili, ovvero se la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari. In presenza degli anzidetti presupposti per convalidare l'atto, «l'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36» del testo unico (art. 38, comma 2, del d.P.R. 380 del 2001).
La norma in definitiva ha previsto tre possibili rimedi:
   a) la sanatoria della procedura nei casi in cui sia possibile la rimozione dei vizi della procedura amministrativa, con conseguente non applicazione di alcuna sanzione edilizia;
   b) nel caso in cui non sia possibile la sanatoria, l'Amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione in forma specifica della demolizione;
   c) soltanto nel caso in cui non sia possibile applicare la sanzione in forma specifica, in ragione della natura delle opere realizzate, l'Amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione pecuniaria nel rispetto delle modalità sopra indicate. Si tratta di una gradazione di sanzioni modulata alla luce della gravità della violazione della normativa urbanistica.
Secondo l'interpretazione della norma coerente alla ricordata ratio, il concetto di possibilità di ripristino non è inteso come "possibilità tecnica", occorrendo comunque valutare l'opportunità di ricorrere alla demolizione, dovendosi comparare l'interesse pubblico al recupero dello status quo ante con il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del privato incolpevole che aveva confidato nell'esercizio legittimo del potere amministrativo; la scelta di escludere la sanzione demolitoria, infatti, laddove adeguatamente motivata ed accompagnata alle indicazioni contenute nell'annullamento, appare quella maggiormente rispettosa di tutti gli interessi coinvolti nella singola controversia ed anche del principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, di diretta derivazione dal diritto dell'Unione Europea, principio che impone all'Amministrazione il perseguimento del pubblico interesse col minor sacrificio possibile dell'interesse privato.
Invero, la corretta interpretazione di tale nozione di "impossibilità" ha dato luogo a dibattiti anche dottrinali; in proposito, coerentemente a quanto sopra evidenziato, appare ragionevole l'opzione ermeneutica a mente della quale l'individuazione dei casi di impossibilità non può arrestarsi alla mera impossibilità (o grave difficoltà), tecnica, potendo anche trovare considerazione ragioni di equità o al limite di opportunità. Al riguardo, si è ritenuto che, nel caso di opere realizzate sulla base di titolo annullato, la loro demolizione debba essere considerata quale extrema ratio, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi riscontrati (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 16.03.2010, n. 1535).
In definitiva, l'art. 38 rappresenta "speciale norma di favore" che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato l'opera abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo (cfr. in tal senso Consiglio di Stato, sez. IV, 14.12.2002, n. 7001), tutelando l'affidamento del privato che ha avviato i lavori in base a titolo ottenuto.
In tale ambito, a seguito di annullamento di titolo abilitativo edilizio -secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi- l'Amministrazione non può dirsi vincolata ad adottare misure ripristinatorie, dovendo anzi la scelta -tipicamente discrezionale quale essa sia, nel senso della riedizione o della demolizione- essere adeguatamente motivata. Incidentalmente va evidenziato come tale approfondito onere motivazionale trovi conferma nell’orientamento espresso dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (cfr. decisione n. 982017) in tema di annullamento in autotutela di titolo in sanatoria illegittimamente rilasciato.
Nel procedere a tale rilevante attività valutativa la p.a., sulla scorta delle indicazioni di principio sin qui richiamate, deve, per un verso, verificare l’emendabilità dei vizi e, per un altro verso, se la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari.
3.1.2 Nel caso di specie il Comune ha svolto una valutazione che, oltre ad apparire corroborata da elementi istruttori sufficienti (nei limiti di sindacato giurisdizionale sugli aspetti di dettaglio tecnico), appare coerente ai principi suddetti.
Sul primo versante, la valutazione contestata si basa su di un duplice approfondimento tecnico: quello predisposto dalla parte interessata (depositata in data 31.03.2015), seguito dalla verifica degli uffici comunali, redatta in data 28.05.2015, rispetto ai quali nessun elemento di manifesta illogicità o travisamento dei fatti emerge dalla perizia di parte appellata.
Sul secondo versante il provvedimento impugnato ha svolto una attenta ricostruzione della vicenda contenziosa, acquisendo tutti i relativi elementi, giungendo ad una soluzione che si muove ben all’interno dei binari tracciati, anche con riferimento alla nozione di “possibilità” come sopra intesa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.10.2019 n. 7057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vicino controinteressato non è un soggetto cui debba essere inviata la comunicazione di avvio del procedimento per un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7 l. 241/1990, pur se egli già si sia opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante.
Infatti, ove sia in corso di valutazione un iter edilizio su di un immobile limitrofo, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento.
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3.3 Se con riferimento al terzo motivo vanno richiamate le considerazioni svolte sub punto 3.1.2 in relazione alla specifica adeguatezza dell’istruttoria e della motivazione posta a fondamento della determinazione contestata, in relazione al quarto motivo, concernente la violazione delle garanzie partecipative, va ribadito il consolidato principio (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 10.04.2014, n. 1718) a mente del quale il vicino controinteressato non è un soggetto cui debba essere inviata la comunicazione di avvio del procedimento per un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7 l. 241 cit., pur se egli già si sia opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante; infatti, ove sia in corso di valutazione un iter edilizio su di un immobile limitrofo, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.10.2019 n. 7057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reiterazione di un’istanza di sanatoria e riadozione dell’ordine di demolizione.
La presentazione di una (ennesima) istanza di sanatoria non impone al Comune di riadottare l’ordine di rimessione in pristino all’esito della delibazione (negativa) della predetta istanza, come invece ritenuto di regola dalla giurisprudenza, giacché un tale onere non sussiste a fronte della ripetuta reiterazione di identiche istanze del privato, volte nella sostanza a paralizzare per un tempo indeterminato la potestà sanzionatoria dell’Amministrazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.10.2019 n. 2188 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2. Il ricorso introduttivo e i ricorsi per motivi aggiunti sono improcedibili per sopravventa carenza di interesse.
2.1. Come eccepito dalla difesa del Comune di Milano –cfr. pagg. 20-21 e 25-26 della memoria depositata in data 11.06.2019– con il provvedimento comunale, datato 12.12.2018, è stata dichiarata l’improcedibilità/inammissibilità della s.c.i.a. e della comunicazione di mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da laboratorio a residenza, presentata dai ricorrenti in data 03.12.2018 (all. 32 del Comune).
La mancata impugnazione del predetto atto comunale rende privo di interesse lo scrutinio del merito dei ricorsi proposti nella presente sede, atteso che l’eventuale annullamento degli atti impugnati non potrebbe superare l’arresto procedimentale, quale atto non meramente confermativo (sulla distinzione tra atto confermativo in senso proprio e meramente confermativo e relative differenze, cfr. Consiglio di Stato, IV, 27.01.2017, n. 357; TAR Lombardia, Milano, II, 08.01.2019, n. 36; 10.05.2018, n. 1242), ormai divenuto definitivo e inoppugnabile.
2.2. A rafforzare un tale esito concorre anche la mancata impugnazione dell’atto comunale del 27.08.2018, con cui è stata respinta l’istanza di permesso di costruire a sanatoria, in quanto il bene risultava già acquisito al patrimonio comunale (all. 26 del Comune).
Inoltre va richiamata la sentenza di questa Sezione n. 739/2016 del 15.04.2016, passata in giudicato, che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso rivolto avverso la sospensione dei lavori e il contestuale ordine di demolizione della scala in ferro e dei ballatoi; risulta rilevante anche la sentenza, sempre di questa Sezione, n. 1647/2017 del 18.07.2017, appellata ma non sospesa, che ha respinto il ricorso avverso il provvedimento del 27.12.2016, che non ha accolto l’istanza di condono presentata in data 26.09.2016 sempre con riguardo ai medesimi interventi (cfr. all. 16 del Comune); infine, appare rilevante anche la sentenza, sempre di questa Sezione, n. 344/2019 del 20.02.2019, appellata ma non sospesa, che ha respinto il ricorso avverso il provvedimento di diniego delle dd.ii.aa., datate 10 e 17.11.2015, in variante dell’intervento oggetto della d.i.a. dell’agosto 2014, in quanto le stesse erano state presentate quando i ricorrenti non erano ancora proprietari dell’immobile e dell’area interessata dall’intervento edilizio.
2.3. Ad abundantiam va specificato che, nella fattispecie de qua, la presentazione di una (ennesima) istanza di sanatoria non impone al Comune di riadottare l’ordine di rimessione in pristino all’esito della delibazione (negativa) della predetta istanza, come invece ritenuto di regola dalla giurisprudenza di questa Sezione (cfr., ex multis, TAR Lombardia, Milano, II, 03.05.2019, n. 1003), giacché un tale onere non sussiste a fronte della ripetuta reiterazione di identiche istanze del privato, volte nella sostanza a paralizzare per un tempo indeterminato la potestà sanzionatoria dell’Amministrazione.

EDILIZIA PRIVATA: In ambito urbanistico ed edilizio, incombe sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole l’onere di fornire adeguata dimostrazione del proprio assunto, con la conseguenza che laddove ciò non avvenga il fatto non si può ritenere provato.
A rafforzare tale conclusione, concorre anche la regola che la situazione di fatto di un immobile non è mai idonea a fondare un titolo che possa legittimarne l’assetto anche da un punto di vista giuridico.

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L
’ordinanza di ripristino, quale atto di carattere del tutto vincolato, si pone come conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività degli interventi e non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso.
A fronte della pacifica inottemperanza all’ordine di demolizione, deve essere applicato l’art. 31, comma 4, del D.P.R. n. 380 del 2001 secondo cui “l’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all’interessato, costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”; ne consegue che l’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e costituisce effetto automatico dell’omessa ottemperanza all’ingiunzione a demolire, essendo il formale provvedimento di acquisizione funzionale all’immissione nel possesso e alla trascrizione nei registri immobiliari.
L’esclusiva acquisizione del sedime su cui è posto l’immobile non impone poi una specifica motivazione al proposito, diversamente da quanto avviene per l’acquisizione di un’area più consistente rispetto a quella su cui è stato realizzato l’abuso.

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3.2. Dalla descrizione delle opere realizzate dalle parti ricorrenti –che hanno dato luogo ad un nuovo organismo edilizio in assenza dei presupposti necessari titoli abilitativi (cui consegue l’applicabilità dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001)– emerge con evidenza che la destinazione effettiva impressa all’immobile è di carattere residenziale, in quanto struttura ospitante studenti, mentre la destinazione legittimamente assentita è produttiva (laboratorio), come riconosciuto anche dagli stessi ricorrenti nelle loro richieste di sanatoria (cfr. all. 29 e 31 del Comune; cfr. altresì la descrizione dell’immobile contenuta nel decreto di trasferimento n. 2646/2016 del Giudice civile dell’esecuzione, all. 9 al ricorso).
La documentazione prodotta in giudizio dalle parti dimostra, dunque, in maniera inequivocabile la originaria destinazione produttiva dell’immobile, non rilevando eventuali difformi indicazioni contenute presso la Conservatoria dei registri immobiliari, dove vengono registrati atti di provenienza privata, che in quanto tali non possono variare il contenuto degli atti pianificatori ed essere opposti all’Ente pubblico estraneo al rapporto sottostante.
Pertanto, non si può che ribadire come, in ambito urbanistico ed edilizio, incomba sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole l’onere di fornire adeguata dimostrazione del proprio assunto, con la conseguenza che laddove ciò non avvenga il fatto non si può ritenere provato. A rafforzare tale conclusione, concorre anche la regola che la situazione di fatto di un immobile non è mai idonea a fondare un titolo che possa legittimarne l’assetto anche da un punto di vista giuridico (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 11.06.2019, n. 1320).
3.3. Inoltre non può essere trascurata la circostanza che gli interventi realizzati hanno determinato anche una violazione delle distanze tra costruzioni, in particolare rispetto all’edificio posto in Via ... n. 39, con la conseguente non sanabilità di un tale abuso (sulla inderogabilità delle distanze tra edifici, da ultimo, Consiglio di Stato, V, 11.09.2019, n. 6136; II, 23.05.2019, n. 3367).
3.4. Da quanto evidenziato in precedenza, risulta pienamente legittimo l’operato del Comune di Milano, che dapprima ha ordinato la demolizione degli interventi abusivi e poi, preso atto dell’inottemperanza del privato al predetto ordine, ha disposto l’acquisizione del bene al patrimonio comunale, con successiva demolizione.
Difatti, l’ordinanza di ripristino, quale atto di carattere del tutto vincolato, si pone come conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività degli interventi e non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 21.01.2019, n. 112; 06.08.2018, n. 1946; 02.05.2018, n. 1190).
A fronte della pacifica inottemperanza all’ordine di demolizione, deve essere applicato l’art. 31, comma 4, del D.P.R. n. 380 del 2001 secondo cui “l’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all’interessato, costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”; ne consegue che l’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e costituisce effetto automatico dell’omessa ottemperanza all’ingiunzione a demolire, essendo il formale provvedimento di acquisizione funzionale all’immissione nel possesso e alla trascrizione nei registri immobiliari (cfr. Consiglio di Stato, VI, 25.06.2019, n. 4336).
L’esclusiva acquisizione del sedime su cui è posto l’immobile non impone poi una specifica motivazione al proposito, diversamente da quanto avviene per l’acquisizione di un’area più consistente rispetto a quella su cui è stato realizzato l’abuso (cfr., sul punto, TAR Lombardia, Milano, II, 03.05.2018, n. 1198)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.10.2019 n. 2188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze.
Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio.
Altresì, “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare".
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Secondo una consolidata giurisprudenza, “le osservazioni formulate dai proprietari interessati nei confronti di uno strumento urbanistico generale costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione”.
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Secondo una consolidata giurisprudenza, la reformatio in peius della disciplina urbanistica è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l’amministrazione in ordine ad una diversa “zonizzazione” dell’area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
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7. Entrando in medias res, occorre prendere l’abbrivio dalla disamina del primo motivo di ricorso.
7.1. In linea generale va premesso che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio” (Consiglio di Stato, sez. I, 29.01.2015, n. 283/2015).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza dell’intestato Tribunale secondo cui “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 09.12.2016, n. 2328; cfr., inoltre, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 03.12.2018, n. 2715; Id., 03.12.2018, n. 2718; Id., 21.01.2019, n. 119; Id., 05.07.2019, n. 1557).
7.2. Nel caso di specie, il Comune delimita un comparto (denominandolo “m_1”) al cui interno sono inserite l’area della ricorrente (“m1_11_s1”), l’area di proprietà della controinteressata e l’area all’interno della quale si trova la cascina Colcellace (“m1_7_1”) (cfr. tavola 12 del Piano delle Regole e dei servizi del P.G.T. - documento n. 5 di parte resistente).
Tale ambito è regolato dalla previsione di cui all’articolo 41 del P.d.R. che, al comma 1, detta gli “obiettivi generali da attuare con la realizzazione degli interventi”, consistenti:
   a) nella ridefinizione del bordo urbano esistente valorizzando il rapporto con la spazio aperto di scala sopracomunale;
   b) nell’incremento delle dotazioni di aree per servizi di uso pubblico;
   c) nella realizzazione dei nuovi insediamenti in continuità con quelli esistenti;
   d) nella realizzazione di connessioni tra le grandi aree di pregio ambientale poste attorno all’edificato della città e le aree verdi e gli spazi di interesse generale all’interno della città consolidata;
   e) nella definizione di percorsi per la mobilità lenta;
   f) nella realizzazione di spazi parti di uso pubblico valorizzando gli elementi del paesaggio agrario presenti (cfr. documento n. 6 di parte resistente).
In sostanziale coerenza con gli obiettivi di cui alle lettere b), c) ed f), il P.G.T. prevede, da un lato, un pur limitato completamento degli edifici produttivi collocati sulla via Firenze, e, dall’altro, l’ampliamento (rectius: revisione) dell’area a standard a tutela della limitrofa cascina Colcellate (cfr., fogli 146 ss. del P.d.R. – Disposizioni di attuazione; documento n. 6 di parte resistente).
In particolare, le regole all’attenzione del Collegio prevedono che lo spazio aperto di interesse generale sia collocato a sud del campo della modificazione sulla via Alessandrini. All’interno si colloca l’accesso alle superfici fondiarie, uno spazio adibito a parcheggio ed uno spazio verde. Al contrario, gli edifici sono collocati a nord “e rappresentato un completamento degli edifici esistenti su via Firenze” (cfr., foglio 146 del P.d.R. – Disposizioni di attuazione; documento n. 6 di parte resistente).
7.3. La regolazione urbanistica comunale descritta risulta esente dai vizi denunciati da parte ricorrente. Infatti, la conformazione dell’area a standard (e, in generale, dell’intero comparto) non può ritenersi affetto da illogicità od irrazionalità.
La fascia in esame è, infatti, collocata –con scelta ragionevole- in aderenza al nucleo della cascina ove sussistono le esigenze di tutela individuate dal P.G.T. come specifico obiettivo da perseguire nell’ambito. Inoltre, risultano insussistenti i vizi denunciati attesa la ragionevolezza della decisione di incrementare le dotazioni di uso pubblico anche con funzione di tutela e valorizzazione della cascina e del paesaggio agrario circostante.
Esigenza perseguibile mediante “un’operazione unitaria che coinvolga l’intero perimetro e che consenta la concentrazione delle aree fondiarie a nord e la cessione di aree a servizi a sud” (controdeduzioni all’osservazione n. 116 della ricorrente; documento n. 9 di parte resistente).
7.4. Neppure irragionevole risulta la scelta di consentire l’accesso all’area produttiva attraverso la via Alessandrini, attraversando, quindi, lo spazio pubblico destinato a standard. Come spiegato dalla difesa comunale e condiviso dal Collegio, la scelta risulta del tutto logica in quanto concentra nello spazio aperto posto a sud del campo sulla via Alessandrini, i necessari servizi di interesse generale per l’intero comparto.
In tal modo, lo spazio pubblico accentra tutti i servizi e da esso si consente l’accesso sia ai futuri nuovi edifici sia alla cascina medesima, senza intervenire mediante nuove opere, come il prolungamento di via Vicenza (ipotizzato dalla ricorrente).
7.5. La ragionevolezza della decisione comunale non risulta scalfita dalle censure che investono le controdeduzioni formulate dall’Amministrazione in replica all’osservazione presentata dalla ricorrente.
Si consideri che, secondo una consolidata giurisprudenza, “le osservazioni formulate dai proprietari interessati nei confronti di uno strumento urbanistico generale costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione” (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 03.12.2018, n. 2714; Id., 03.01.2019, n. 7).
Nel caso di specie, l’Amministrazione indica, pur sinteticamente, le ragioni ostative all’accoglimento dell’osservazione evidenziando: a) il contrasto con gli obiettivi del Documento di Piano e del Piano delle regole; b) la regolamentazione dei diritti edificatori; c) la concentrazione di un unico accesso alle aree e l’impossibilità di una diversa soluzione che interessa un altro campo della modificazione; d) la conformità della previsione di cui all’articolo 41 del P.d.R. alle disposizioni vigenti.
7.6. L’Amministrazione fornisce, quindi, risposta alle deduzioni delle ricorrente che può non essere condivisa dalla stessa ma che non risulta “stereotipata” o inconferente. Né può ritenersi necessario nel caso di specie uno sforzo motivazionale ulteriore rispetto a quello profuso dall’Amministrazione. Va, infatti, considerato che la scelta dell’Ente non risulta ex se illegittima soltanto perché difforme dalle previgenti regolazioni urbanistiche dell’area.
Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza, la reformatio in peius della disciplina urbanistica è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l’amministrazione in ordine ad una diversa “zonizzazione” dell’area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., da ultimo, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 21.01.2019, n. 119, e giurisprudenza ivi citata al punto 2.3; cfr. inoltre, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 30.05.2019, n. 1235).
Situazioni che non ricorrono nel caso di specie con conseguente insussistenza di limiti alla decisione urbanistica e di peculiari motivazioni da parte dell’Amministrazione.
7.7. In definitiva, il primo motivo di ricorso deve ritenersi privo di fondamento (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.10.2019 n. 2176 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Approvazione del piano attuativo quale presupposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio – Urbanizzazione dell’area – Non costituisce, di per sé, motivo sufficiente a superare la prescrizione.
L’urbanizzazione dell’area, di per sé, non è sufficiente a superare la prescrizione della preventiva approvazione del piano attuativo; la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche nell’ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione.
E ciò, in quanto l’esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.04.2016, n. 1434)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.10.2019 n. 2176 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L’urbanizzazione dell’area “di per sé non è sufficiente a superare la prescrizione della preventiva approvazione del piano attuativo, giacché nel caso in cui l’edificazione della zona sia avvenuta in modo disomogeneo è comunque necessario un intervento che consenta di restituire efficienza allo sviluppo urbanistico, riordinando e recuperando le aree interessate”.
Sicché, “anche in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione”.
E “ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata”.
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8. Passando al secondo motivo di ricorso, osserva il Collegio come lo stesso sia infondato per le ragioni di seguito esposte.
8.1. L’urbanizzazione dell’area dedotta da parte ricorrente “di per sé non è sufficiente a superare la prescrizione della preventiva approvazione del piano attuativo, giacché nel caso in cui l’edificazione della zona sia avvenuta in modo disomogeneo è comunque necessario un intervento che consenta di restituire efficienza allo sviluppo urbanistico, riordinando e recuperando le aree interessate” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 22.05.2019, n. 1147).
Lo afferma lo stesso Consiglio di Stato osservando come “anche in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione”.
E “ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.04.2016, n. 1434).
8.2. Declinato tali principi al caso di specie, non si ritiene illegittima la decisione comunale di subordinare lo sviluppo del comparto ad un piano attuativo attesa la sussistenza della necessità di garantire, come spiegato dalla difesa comunale, l’ordinato sviluppo del territorio, mediante la realizzazione di un definitivo ed equilibrato assetto urbanistico dell’intero comparto. Esigenza che legittima il ricorso alla pianificazione attuativa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.10.2019 n. 2176 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICAInosservanza di prescrizioni a tutela dell’ambiente e provvedimenti ripristinatori della P.A..
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Ambiente - Valutazione di impatto ambientale - Prescrizioni finalizzate all’eliminazione o alla mitigazione degli impatti sfavorevoli sull’ambiente - Accertamento di un profilo di responsabilità del destinatario - Necessità.
In materia di valutazione di impatto ambientale (V.I.A.), qualora la legislazione regionale consenta di subordinare l’esclusione di un progetto dalla relativa procedura a specifiche prescrizioni finalizzate all’eliminazione o alla mitigazione degli impatti sfavorevoli sull’ambiente, prevedendo la possibilità di provvedimenti sanzionatori e ripristinatori dell’amministrazione in caso di inosservanza delle prescrizioni stesse, l’adozione di questi ultimi non può prescindere dall’accertamento di un profilo di responsabilità del destinatario, quanto meno con riguardo alla sussistenza di un nesso causale tra la condotta da questi tenuta e il pregiudizio ambientale (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che anche in queste ipotesi la normativa interna va interpretata in conformità agli orientamenti consolidati della giurisprudenza nazionale ed eurounitaria relative alla responsabilità cd. ambientale, per cui in materia di misure di riparazione ambientale è necessario almeno l’accertamento, anche per presunzioni, della esistenza di un nesso di causalità tra l’attività degli operatori cui sono dirette le misure di riparazione e l’inquinamento di cui trattasi.
Di conseguenza, l’amministrazione non può emettere i provvedimenti in questione nei confronti di un soggetto che sia subentrato nell’esercizio dell’impianto in un momento successivo a quello in cui le prescrizioni ambientali avrebbero dovuto essere adempiute e che non abbia concorso nella loro inosservanza né abbia avuto in concreto la possibilità di avvedersene e porvi rimedio (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 15.10.2019 n. 7033 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pergotenda retrattile non può considerarsi nuova costruzione. Il Consiglio di Stato supporta la propria decisione citando il Glossario dell'edilizia libera.
La “pergotenda” è un’opera che, secondo il condivisibile orientamento di questa Sezione, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, non necessità di titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle caratteristiche costruttive e della sua funzione.
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR 06/06/2001, n. 380 e 15 della L.R. 06/06/2008, n. 16 (applicabile ratione temporis), sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”, che determinano una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”, mentre una struttura leggera destinata ad ospitare pannelli retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche.
L'opera principale non è, infatti, l’intelaiatura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che l’intelaiatura medesima si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Quest'ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi una “nuova costruzione”, anche laddove per ipotesi destinata a rimanere costantemente chiusa, posto che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, per il carattere retrattile della tenda e dei pannelli, onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie.
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La presente controversia ha ad oggetto l’appello proposto nei confronti della sentenza 6319/2018 con cui il Tar Lazio ha respinto l’originario ricorso; quest’ultimo era stato proposto dall’odierna parte appellante, avverso la determinazione dirigenziale numero 1454 del 06.10.2016, recante ordine di demolizione degli interventi di ristrutturazione edilizia abusivi consistenti nella realizzazione di una pergotenda ritraibile di m 9 per m 4,30 di altezza variabile da m 2,60 a m 2,25 circa, comandata elettricamente, tamponata su due lati con pannelli di vetro scorrevole richiudibili a pacchetto; il terrazzo risulta arredato con tavoli e sedie da giardino e sono stati installati due climatizzatori.
...
1. L’appello è fondato sotto un assorbente profilo, concernente la qualificazione degli abusi in contestazione, con conseguente applicabilità del principio di cui all’art. 74 cod. proc. amm.
2. Come si evince dall’impugnata ordinanza di demolizione e dalla documentazione depositata in giudizio con i relativi allegati fotografici, l’odierna appellante ha installato sul terrazzo di un’unità abitativa di sua proprietà una struttura così individuata dal provvedimento: pergotenda retraibile di mt. 9,00 x 4,30 H altezza varabile da mt 2,60 a 2,25 circa, comandata elettricamente, tamponata su due lati con pannelli di vetro scorrevole richiudibili a pacchetto.
3. Trattasi quindi, secondo la stessa definizione della p.a., di una “pergotenda”, ovvero di un’opera che, secondo il condivisibile orientamento di questa Sezione, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, non necessità di titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle caratteristiche costruttive e della sua funzione (Cons. Stato, Sez. VI, 2206/2019, 4777/2018, 306/2017, 1619/2016).
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR 06/06/2001, n. 380 e 15 della L.R. 06/06/2008, n. 16 (applicabile ratione temporis), sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”, che determinano una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”, mentre una struttura leggera destinata ad ospitare pannelli retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche.
L'opera principale non è, infatti, l’intelaiatura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che l’intelaiatura medesima si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Quest'ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi una “nuova costruzione”, anche laddove per ipotesi destinata a rimanere costantemente chiusa, posto che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, per il carattere retrattile della tenda e dei pannelli, onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie.
4. L’esposta conclusione trova conforto anche nell’allegato al D.M. 02/03/2018 avente ad oggetto il “glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222”, il quale, al n. 50, include le pergotende tra gli interventi realizzabili in regime di edilizia libera.
5. Piuttosto, in termini di delimitazione della nozione di pergotenda, con i caratteri predetti risulterebbero incompatibili i condizionatori e/o i climatizzatori, di cui, peraltro, nel caso di specie la p.a., premessa l’irrilevanza di ingombro edilizio, non ne ha accertato e dimostrato l’allaccio ed il funzionamento (l’atto impugnato parla genericamente di “istallati due climatizzatori”).
Se quindi nel caso di specie non risultano provati l’allaccio ed il funzionamento dei climatizzatori, in linea generale va precisato come sia evidente che gli stessi apparecchi, laddove funzionanti, darebbero vita ad uno spazio destinato ad un utilizzo ben più ampio e continuativo rispetto alla nozione di transitorietà e precarietà della vera e propria pergotenda.
6. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va accolto in parte qua; per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.10.2019 n. 6979 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATARealizzazione di un campo-boe e tutela dei valori paesaggistici.
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Paesaggio – Tutela – Campo-boe - Specchio acqueo prospiciente il territorio costiero vincolato con il d.m. 27.08.1980 – Esclusione.
Lo specchio acqueo prospiciente il territorio costiero vincolato con il d.m. 27.08.1980, in cui dovrebbe essere realizzato un campo-boe, non è coinvolto nella tutela dei valori paesaggistici (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che in tal senso convergono sia argomenti di carattere testuale, basati sul contenuto, la descrizione e l’estensione del vincolo ministeriale, sia argomenti di natura teleologica e funzionale
Sotto il primo profilo, si consideri che nel decreto ministeriale si giustifica il «notevole interesse pubblico» della zona costiera del Comune di San Vero Milis non solo perché essa rientra nel più ampio complesso naturalistico del Sinis, caratterizzato da «un paesaggio spiccatamente desertico con lande spoglie all’interno ed imponenti sistemi di dune altissime», ma -in particolare– perché nel territorio costiero, in cui «è presente un sistema di stagni di importanza rilevante», sono presenti delle «ampie spiagge bianchissime che si estendono a perdita d’occhio, insieme agli altri cordoni di sabbia che si estendono alle spalle» e alle «garighe costiere contornate dalla macchia mediterranea».
L’eccezionale valore naturalistico del complesso territoriale costiero, sopra descritto, non può non estendersi anche allo spazio del mare prospiciente la costa, quantomeno nei limiti in cui la realizzazione di opere nello specchio acqueo possa compromettere lo specifico oggetto della tutela come descritto dall’art. 1, l. 29.06.1939, n. 1497 (norma in base alla quale, ratione temporis, il vincolo è stato apposto, come si evince anche dalla proposta formulata dalla Commissione per la tutela delle bellezze naturali della Provincia di Oristano, allegata al decreto ministeriale); e, in specie, possa compromettere le «bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze» (n. 4 dell’art. 1 cit.).
Ne deriva come conseguenza che l’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004, contrariamente a quanto nella fattispecie ritenuto dalla ricorrente (e dalla Regione), è necessaria anche per gli interventi e i progetti di opere che debbano eseguirsi nella parte del mare a ridosso del territorio costiero vincolato, anch’essi potenzialmente in grado di pregiudicare il mantenimento dei valori paesaggistici tutelati (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 14.10.2019 n. 782 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
10.1. - Preliminarmente, tuttavia, occorre chiarire che non è condivisibile l’affermazione secondo cui lo specchio acqueo prospiciente il territorio costiero vincolato con il D.M. 27.08.1980, in cui dovrebbe essere realizzato il campo-boe della ricorrente, non sarebbe coinvolto nella tutela dei valori paesaggistici. In tal senso convergono sia argomenti di carattere testuale, basati sul contenuto, la descrizione e l’estensione del vincolo ministeriale, sia argomenti di natura teleologica e funzionale.
Sotto il primo profilo, si consideri che nel decreto ministeriale si giustifica il «notevole interesse pubblico» della zona costiera del Comune di San Vero Milis non solo perché essa rientra nel più ampio complesso naturalistico del Sinis, caratterizzato da «un paesaggio spiccatamente desertico con lande spoglie all’interno ed imponenti sistemi di dune altissime», ma -in particolare– perché nel territorio costiero, in cui «è presente un sistema di stagni di importanza rilevante», sono presenti delle «ampie spiagge bianchissime che si estendono a perdita d’occhio, insieme agli altri cordoni di sabbia che si estendono alle spalle» e alle «garighe costiere contornate dalla macchia mediterranea».
10.2. - L’eccezionale valore naturalistico del complesso territoriale costiero, sopra descritto, non può non estendersi anche allo spazio del mare prospiciente la costa, quantomeno nei limiti in cui la realizzazione di opere nello specchio acqueo possa compromettere lo specifico oggetto della tutela come descritto dall’articolo 1 della legge 29.06.1939, n. 1497 (norma in base alla quale, ratione temporis, il vincolo è stato apposto, come si evince anche dalla proposta formulata dalla Commissione per la tutela delle bellezze naturali della Provincia di Oristano, allegata al decreto ministeriale); e, in specie, possa compromettere le «bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze» (n. 4 dell’art. 1 cit.).
10.3. - Ne deriva come conseguenza che l’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, contrariamente a quanto nella fattispecie ritenuto dalla ricorrente (e dalla Regione), è necessaria anche per gli interventi e i progetti di opere che debbano eseguirsi nella parte del mare a ridosso del territorio costiero vincolato, anch’essi potenzialmente in grado di pregiudicare il mantenimento dei valori paesaggistici tutelati.
10.4. - In tale prospettiva si colloca anche l’orientamento della giurisprudenza, puntualmente richiamata anche dalla difesa dell’amministrazione, sia di primo grado (cfr. TAR Campania, Salerno, Sezione I, 24.10.2012, n. 1926), sia del giudice di appello (si veda Consiglio di Stato, Sezione VI, 31.08.2004, n. 5723).
11. - Devono essere poi disattese anche le censure basate sulla preesistente compromissione del territorio (presenza nel medesimo spazio acqueo di diverse boe, presenza di edifici e dei detriti delle vecchie abitazioni dei pescatori), posto che da tempo si è affermato che la situazione di degrado di una determinata zona soggetta a vincolo paesaggistico non giustifica il sostanziale abbandono degli obiettivi di tutela ma, anzi, impone all’autorità preposta un maggiore rigore nella valutazione della compatibilità di ulteriori interventi (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 03.03.2014, n. 961; VI, 14.10.2015, n. 4750).

APPALTIValutazione degli elementi progettuali che non modificano l’oggetto dell’appalto ma ottimizzano il risultato finale dell’intervento.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto lavori – Offerta – Offerta migliorativa dell’opera – Offerta che non modifica l’oggetto dell’appalto – Non può essere qualificata offerta di opera aggiuntiva rispetto a quella posta a base di gara – E’ compatibile con il divieto di cui all’art. 95, comma 14-bis, d.lgs. n. 50 del 2016 nei limiti stabiliti dalla lex specialis.
Per opera aggiuntiva si deve intendere un intervento che modifichi in senso quantitativo e/o qualitativo l’identità strutturale e/o funzionale dell’opera oggetto dell’appalto, con il risultato di falsare il confronto concorrenziale, laddove invece, gli accorgimenti progettuali volti alla valorizzazione ed alla implementazione dell’opera in senso estetico e/o prestazionale, che non ne modifichino sostanzialmente identità e dimensioni, devono essere sussunti nel genus delle migliorie e/o della varianti, e come tali sono compatibili con il divieto di cui all’art. 95, comma 14-bis, d.lgs. n. 50 del 2016, purché contenuti nei limiti stabiliti dalla lex specialis (1).
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   (1) Il Tar ha osservato innanzi tutto che l’art. 95, comma 14-bis, d.lgs. n. 50 del 2016 non sanziona con l’esclusione dalla gara la ditta che abbia proposto opere aggiuntive rispetto a quelle oggetto di gara, ma si rivolge alla stazione appaltante, precludendo l’attribuzione di un apposito punteggio; conseguentemente ha ritenuto manifestamente infondata la censura con cui la ricorrente pretende di correlare la sanzione escludente alla offerta di opere ritenute aggiuntive rispetto a quelle poste a base di gara.
Ha chiarito il Tar che le soluzioni progettuali proposte non possono essere qualificate opere aggiuntive rispetto a quella descritta dal progetto esecutivo, ma costituiscono una miglioria coerente con gli obiettivi perseguiti dall’amministrazione comunale; pertanto sono compatibili con il divieto di cui all’art. 95, comma 14-bis, d.lgs. n. 50 del 2016.
Nel caso di specie la ricorrente, con un’unica ed articolata censura, aveva denunciato che le ditte collocate ai primi due posti della graduatoria di gara avrebbero previsto nelle proprie offerte la realizzazione di opere aggiuntive rispetto ai lavori oggetto dell’appalto, consistenti nel risanamento strutturale ai fini del miglioramento sismico di un ponte di importanza strategica, avendo rispettivamente proposto la realizzazione “di un parcheggio pubblico sottostante l’impalcato con bacheche informative di metallo, fioriere, illuminazione”, nonché “di un parco e di un parco giochi con pavimentazione e allestimenti di varia natura” (TAR Molise, sentenza 14.10.2019 n. 340 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIn caso di contrasto tra le indicazioni grafiche del piano regolatore generale e le prescrizioni normative, sono queste ultime a prevalere, in quanto in sede di interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono solo chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
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8.3. Neppure merita di essere condivisa la tesi dell’appellante secondo la quale gli elaborati grafici prevalgono sulla parte normativa del PRG.
Al contrario, la giurisprudenza dominante (ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 19.03.2013, n. 2158) di questo Consiglio ritiene che in caso di contrasto tra le indicazioni grafiche del piano regolatore generale e le prescrizioni normative, sono queste ultime a prevalere, in quanto in sede di interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono solo chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
Nella fattispecie, peraltro, la parte normativa non è redatta in modo tale da impedire di accedere ad una sua autonoma interpretazione, sicché non può farsi leva sulla portata ausiliaria della parte grafica del piano. Pertanto, nessun onere di impugnazione poteva validamente invocarsi in capo all’appellata in relazione alla deliberazione consiliare 15.11.2005, n. 43 (CGARS, sentenza 11.10.2019 n. 892 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO – Emissioni sonore – Condominio – Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone – Configurabilità della fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 659 cod. pen. – Elementi soggettivi e oggettivi – Rumori siano idonei ad arrecare disturbo a un gruppo indeterminato di persone – Superamento della normale tollerabilità delle emissioni sonore – Fattispecie: canto di tre galli nel cortile del complesso condominiale.
Per la configurabilità della fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 659 cod. pen., non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che i rumori siano idonei ad arrecare disturbo a un gruppo indeterminato di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio.
Nel caso di specie, l’elemento oggettivo del reato risulta ampiamente comprovato dovendosi ritenere superata la normale tollerabilità delle emissioni sonore, soprattutto nella fascia notturna, e ciò alla luce della prolungata estensione temporale dei fatti, che hanno provocato, a più di un condomino, disturbi del sonno debitamente documentati.
Le obiezioni sull’assenza della “suitas” della condotta e dell’elemento soggettivo non risultano pertinenti, potendosi anzi affermare che la condotta del ricorrente rimasto indifferente alle sollecitazioni ricevute negli anni, appare inquadrabile più nell’alveo del dolo eventuale che in quello della colpa. Fattispecie: tre galli nel cortile del complesso condominiale che erano soliti cantare di giorno e di notte, alla vista della luce naturale, dei lampioni e dei fari delle automobili.
Tale situazione, prolungatasi per diversi anni, nonostante le proteste degli interessati e i richiami formali dell’amministratore di condominio, provocava non pochi disagi ai condomini, impedendo loro di dormire regolarmente e di compiere durante il giorno le ordinarie attività domestiche senza fastidi, al punto che un condomino decideva per questo di cambiare casa
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.10.2019 n. 41601 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Il nuovo codice degli appalti (d.lgs. n. 50 del 2016) ha eliminato la categoria dell'aggiudicazione provvisoria.
L'art. 32 del d.lgs. n. 50 del 2016 -al fine di assicurare con la massima celerità la certezza delle situazioni giuridiche ed imprenditoriali - ha del tutto eliminato la tradizionale categoria dell'aggiudicazione provvisoria, ma distingue solo tra: la 'proposta di aggiudicazione', che è quella adottata dal seggio di gara, ai sensi dell'art. 32, co. 5, e che ai sensi dell'art. 120, co. 2-bis ultimo periodo del codice del processo amministrativo non costituisce provvedimento impugnabile; la 'aggiudicazione' tout court che è il provvedimento conclusivo di aggiudicazione.
Il che elimina in radice la possibilità che un atto adottato dalla stazione appaltante nell'ambito della procedura di gara possa essere ragionevolmente confuso per "aggiudicazione provvisoria", proprio perché, a partire dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016, la figura dell'aggiudicazione provvisoria risulta ormai espunta dall'ordinamento
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.10.2019 n. 6904 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICA: Effetti dell’annullamento giurisdizionale di previsioni urbanistiche.
In presenza di un annullamento giurisdizionale delle previsioni urbanistiche rivivono provvisoriamente le previgenti regole fino all’adozione di una determinazione da parte del Comune che potrebbe, in ipotesi, estrinsecarsi nell’accettazione dell’assetto conseguente alla reviviscenza.
Tesi questa che pare conciliare il rigore dogmatico della tesi che regola i rapporti tra le due discipline in termini di reviviscenza con l’esigenza (parimenti rilevante) di non ritenere la previgente normativa ad applicazione obbligata preservando il potere/dovere comunale di rieditare il potere di conformazione del territorio anche in conseguenza dell’assetto che si crea per effetto dell’annullamento delle prescrizioni nei limiti dello specifico oggetto del giudizio e, quindi, della sentenza.
In tal modo, si consente all’Amministrazione di intervenire anche al fine di assoggettare le aree ad una regolazione comune evitando la policromia regolatoria che potrebbe, in ipotesi, crearsi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.10.2019 n. 2116 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Con ricorso depositato in data 21.07.2011 la società So.Ma.Ge. s.r.l. (successivamente Pe. s.r.l.) impugna il P.G.T. del comune di Gallarate approvato con delibera del Consiglio comunale del 15.03.2001 e pubblicata sul B.U.R. del 18.05.2011, in relazione alle previsioni relative all’ambito territoriale “AT_05” e all’articolo 10 delle N.T.A. del documento di piano.
2. In punto di fatto, la ricorrente deduce:
   a) di essere proprietaria di un’area sita a Gallarate, via ..., n. 24, contraddistinta in catasto al foglio 9, mappali nn. 1919 - 5213 - 5545 - 5546 - 5547 - 5748, edificabile – in base alle previsioni del previgente P.R.G. – per interventi con destinazione commerciale e terziaria ed assoggettata a piano attuativo;
   b) di presentare una proposta di piano attuativo in data 02.07.2010 con istanza di autorizzazione paesaggistica rigettata con provvedimento del 15.11.2010 che viene impugnato con ricorso straordinario al Capo dello Stato;
   c) di non ricevere riscontro in ordine alla proposta di piano attuativo stante la decisione del comune di Gallarate di sospendere ogni determinazione in seguito all’adozione del P.G.T.;
   d) di formulare osservazioni al P.G.T. adottato rimaste prive di riscontro stante l’intervenuta approvazione del P.G.T. che si limita ad escludere dall’ambito AT_5 un’area di proprietà di terzi.
3. La ricorrente articola quattro motivi di ricorso.
3.1. Con il primo motivo (rubricato: “Illegittimità per travisamento dei fatti, carenza di istruttoria e ingiustizia manifesta”), la società lamenta l’erroneità della classificazione che muove dalla considerazione che l’area sia dismessa diversamente dallo stato reale della stessa.
3.2. Con il secondo motivo (rubricato: “Illegittimità per irragionevolezza, difetto di motivazione e ingiustizia manifesta”), la società deduce l’impossibilità di realizzare gli interventi edificatori previsti per il comparto atteso che, sottraendo la percentuale destinata a superficie permeabili (40 per cento) e quelle soggetto ad obbligo di cessione (50 per cento), ne consegue che la sola superficie realizzabile sia pari al 10 per cento.
Inoltre, nota come la realizzazione di parcheggi privati –per come imposti dal P.G.T.– comporti la necessità di edificare strutture interrate di almeno dieci piani. Inoltre, la ricorrente contesta le prescrizione dettate in tema di impostazione generale di progetto.
3.3. Con il terzo motivo (rubricato: “Illegittimità per violazione di legge, irragionevolezza e ingiustizia manifesta”), la ricorrente contesta le previsioni che impongono oneri suppletivi per il comparto ritenuti esorbitanti rispetto allo stesso.
3.4. Con il quarto motivo (rubricato: “Illegittimità per violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere per ragionevolezza”), la ricorrente deduce l’illegittimità della previsione che consente di derogare alle previsioni di piano demandando tale valutazione ad un nucleo di valutazione che verifichi l’onerosità degli interventi proposti e la compatibilità con l’assetto del territorio.
4. Le Amministrazioni intimate (comune di Gallarate, regione Lombardia e provincia di Varese) non si costituiscono in giudizio nonostante la rituale notificazione.
5. In vista dell’udienza di merito straordinario del 24.09.2019 la parte deposita istanza di trattazione congiunta della causa con il ricorso R.G. 2451/2015 proposto dalla società avverso la variante approvata dal comune di Gallarate nel 2015 avente “contenuti dispositivi del tutto analoghi a quelli del Piano di Governo del territorio impugnato”.
La società ricorrente deposita, inoltre, memoria difensiva finale con la quale evidenzia la permanenza dell’interesse alla decisione del ricorso stante la ritenuta reviviscenza delle previsioni generali in caso di accoglimento del ricorso avverso la variante del 2005 e, di conseguenza, l’interesse ad ottenere, in caso di accoglimento di entrambi i ricorsi, che l’area sia regolata dalle previsioni urbanistiche antecedenti al P.G.T. del 2011. Nel merito la società insiste nel motivo di ricorso articolato nell’atto introduttivo del giudizio.
6. All’udienza di merito straordinario del 24.09.2019 il Collegio avvisa la parte ricorrente della necessità di valutare la sussistenza dei presupposti per la declaratoria di improcedibilità del ricorso stante la nuova regolazione urbanistica dettata per l’area dalla variante del 2005. Parte ricorrente insiste sulla richiesta di differimento della causa per decisione congiunta con quella di cui alla variante approvata dal comune di Gallarate nel 2015 o sulla decisione della causa ritenendo non sussistenti i presupposti per la declaratoria di improcedibilità prospettata dal Collegio.
7. Osserva il Collegio come il ricorso non possa essere deciso nel merito difettando, allo stato, l’essenziale presupposto dell’interesse a ricorrere che, costituendo una condizione dell'azione e consistendo nell'utilità concreta ed attuale ritraibile dalla stessa, deve essere sussistente per tutta la durata del processo (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 26.04.2019, n. 932).
7.1. Nel caso di specie la decisione di merito del ricorso non determinerebbe alcuna utilità diretta ed immediata nella sfera giuridica di parte ricorrente. Infatti, anche l’eventuale decisione di accoglimento non sprigionerebbe effetti sulla realtà sostanziale avendo il comune di Gallarate adottato una nuova variante generale.
Anche accedendo alla tesi di Mo. s.r.l. (incentrata sulla reviviscenza delle previgenti prescrizioni urbanistiche), si osserva come una simile decisione potrebbe determinare il conseguimento di una effettiva utilità per la parte ricorrente solo in caso di eventuale duplice annullamento della regolazione urbanistica. L’interesse fatto valere in giudizio troverebbe realizzazione, infatti, solo in caso di accoglimento del ricorso avverso la nuova variante (che, come spiegato, regola attualmente la zona) e di accoglimento di questo ricorso. In considerazione di quanto esposto, deve escludersi il potere/dovere del Collegio di pronunciare una decisione sul merito del ricorso.
8. Un maggior approfondimento si impone in ordine alla tematica relativa alla necessità di disporre il rinvio della decisione per trattazione congiunta con il ricorso R.G. 2450/2015 proposto dalla società avverso la variante approvata dal comune di Gallarate nel 2015 ed avente “contenuti dispositivi del tutto analoghi a quelli del Piano di Governo del territorio impugnato”.
8.1. Simile rinvio può accordarsi solo accedendo alla tesi della c.d. reviviscenza delle prescrizioni urbanistiche previgenti in caso di annullamento delle attuali da parte del Giudice amministrativo. Evidente, infatti, come l’alternativa tra decisione sul rito del presente ricorso per sopravvenuta carenza di interesse o differimento della decisione della lite /sospensione del giudizio dipenda dalla non adesione o adesione del Collegio alla tesi secondo la quale l’annullamento della nuova disciplina determini la reviviscenza della previgente.
8.2. Sul punto, osserva il Collegio come parte della giurisprudenza aderisca a simile tesi osservando che “
l’eventuale annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento di approvazione [della] variante implicherebbe la reviviscenza della disciplina introdotta da quella precedente, sicché permane l’interesse di parte ricorrente a coltivare [l’impugnazione]" (TAR per la Liguria – sez. I, 30.08.2018, n. 683; TAR per la Puglia - sede di Bari, Sez. II, 20.03.2012, n. 580; TAR per il Veneto, sez. I, 08.02.1996, n. 156; TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II, 02/11/2000, n. 8874).
Dello stesso avviso si mostra parte della giurisprudenza del Giudice d’Appello a partire dalla decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 7 del 02.04.1984 secondo cui “
l'annullamento di una previsione contenuta in una variante ad un piano regolatore generale comporta la reviviscenza della destinazione preesistente”. La tesi trova conferma nella giurisprudenza successiva del Consiglio di Stato secondo cui “l'adozione da parte dell'amministrazione di una nuova variante al piano regolatore, operando con effetti “ex nunc” non fa venir meno l'interesse della parte incisa dalla variante precedente a vederla annullata, ben potendo il privato ottenere in tal modo l'affermazione del principio di diritto applicabile alla fattispecie e la declaratoria dell’illegittimità degli effetti pregiudizievoli “medio tempore” verificatisi e di conseguirne, quindi, l'eventuale ristoro” (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.02.1998 n. 312; cfr., inoltre, Consiglio di Stato, Sez. V, 22.02.2007, n. 954; Id., sez. IV, 06.05.2004, n. 2800, con ulteriori citazioni; Id., Sez. V, del 27.03.2000, n. 1749; Id., Sez. V, 23.09.1997, n. 1008; Id., Sez. V, 06.10.1997, n. 1110; Id., Sez. IV, 15.11.1988, n. 868).
Le pronunce citate muovono, quindi, dall’esatto rilievo secondo cui
le nuove prescrizioni urbanistiche hanno effetto ex nunc; al contrario, l’annullamento giurisdizionale le rimuove, di norma, sin dal momento di sprigionarsi dell’effettualità propria del provvedimento (per una deroga a simile principio, pur non operante nel caso di specie, si veda: Consiglio di Stato, sez. VI, 10.05.2011, n. 27552; TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 12.10.2018, n. 2265).
La combinazione tra le differenti portate effettuali dei due atti sul piano temporale comporta, quindi, la reviviscenza della precedente disciplina urbanistica.
8.3. Di diverso avviso si mostra altra parte della giurisprudenza secondo cui “
allorché nelle more del giudizio di impugnazione di una prescrizione urbanistica intervenga altro strumento, completamente sostitutivo del precedente, più nessun interesse a discutere sul precedente strumento urbanistico può residuare, e ciò anche quando il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata, palesandosi altrimenti un’eventuale pronuncia sul primo atto inutiliter data” (TAR per la Lombardia, Sez. II, 30.07.2018, n. 1877 che richiama TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 15.03.2018, n. 731; Id., Sez. I, 26.06.2017, n. 1435; Consiglio di Stato, Sez. IV, 03.06.2010, n. 3538).
Tale giurisprudenza introduce un’eccezione nella ipotesi in cui lo scrutinio degli atti sia funzionale alla deliberazione dell’eventuale domanda risarcitoria precisando, tuttavia, che la disposizione di cui all’articolo 34 c.p.a. “deve applicarsi in via restrittiva e quindi si può accertare l’illegittimità degli atti ai fini risarcitori soltanto laddove la relativa domanda sia stata proposta nello stesso giudizio, oppure quando la parte ricorrente dimostri che ha già incardinato un separato giudizio di risarcimento o che è in procinto di farlo; in mancanza di tali adempimenti il ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (cfr., ex multis, TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1471; 14.03.2017, n. 621; 26.07.2016, n. 1501)” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 15.03.2018, n. 731; negli stessi termini cfr., inoltre, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 01.02.2019, n. 222).
8.4. La sentenza da ultimo citata (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 15.03.2018, n. 731) si riferisce, tuttavia, ad una ipotesi in cui il nuovo strumento urbanistico non è oggetto di impugnazione. In un simile caso, è evidente come la regolamentazione dell’area dipenda dalle nuove prescrizioni che, in quanto non impugnate, risultano definitive. Diversa è un’ipotesi come quella all’attenzione del Collegio ove l’interesse alla decisione risulta, allo stato, non attuale ma potrebbe divenire tale in caso di accoglimento del ricorso avverso la variante che è pertanto pregiudiziale rispetto al primo ricorso.
8.5. Va, inoltre, considerato che
la mancata reviviscenza della previgenti previsioni urbanistiche determinerebbe, come evidente, un vuoto di regolazione. Un vuoto che, invero, non sembrerebbe potersi colmare attraverso l’applicazione della regola di cui all’articolo 9 del D.P.R. 380 del 2001 che riguarda il diverso caso di Comuni sprovvisti dello strumento urbanistico e non di Comuni il cui strumento sia annullato in sede giurisdizionale (cfr., TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II-quater, 28.01.2019, n. 1049 che esclude la reviviscenza delle previgenti prescrizioni e l’applicazione della regola in esame in una fattispecie in cui le previsioni del P.R.G. non si ritengono perfezionate stante la loro mancata approvazione finale; soluzione che, a contrario, non dovrebbe applicarsi laddove lo strumento previgente sia regolarmente approvato, deponendo, quindi, per la tesi della reviviscenza di tale regolazione).
8.6. Né sembra al Collegio argomento risolutivo quello fondato sulla doverosità dell’intervento comunale che risulterebbe imposto dalla ritenuta applicazione della regola di cui all’articolo 9 del D.P.R. 380 del 2001. Un simile impostazione non tiene, invero, conto che anche, laddove si ipotizzasse la reviviscenza delle previgenti disposizioni urbanistiche, graverebbe, in ogni caso, sul Comune l’obbligo di provvedere alla nuova regolazione, se ritenuto necessario. Infatti,
costituisce ius receptum il principio secondo cui l'effetto immediato dell'annullamento di uno strumento urbanistico consiste nel dovere dell'Amministrazione di riesercitare la propria potestà di pianificazione del territorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 22.08.2013, n. 4255; Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.06.2004, n. 3563; Consiglio di Stato, Sez. V, 23.04.2001, nr. 2415).
Lo conferma la recente sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 20.03.2019, n. 1831 che osserva, in primo luogo, come “l
a reviviscenza della precedente disciplina di piano, conseguente all’effetto retroattivo dell’annullamento giurisdizionale, ha […] solo carattere provvisorio, specie se tale annullamento riguardi non già il nuovo strumento urbanistico nella sua integralità e ab imis (è il caso per esempio affrontato da Cons. Stato, sez. V, 02.08.2013, n. 4054, con richiamo a numerosi precedenti) bensì una sua previsione puntuale”.
Aggiunge il Giudice d’Appello che, “
in tale ipotesi, come rilevato dalla giurisprudenza richiamata dallo stesso Comune (TAR per la Toscana, 10.12.2009, n. 3267), si pongono evidenti problemi di coordinamento e compatibilità con l’impianto complessivo della disciplina generale. L’annullamento fa quindi contestualmente sorgere in capo all’Amministrazione l’obbligo di rideterminarsi, rinnovando il segmento procedimentale annullato e quindi riesercitando la propria potestà di pianificazione del territorio (Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2011, n. 133, che richiama altresì sez. IV, 07.06.2004, n. 3563; sez. V, 23.04.2001, nr. 2415)”.
Conclude il Consiglio di Stato: “
ne deriva che -quand’anche l’Amministrazione si determinasse ad accettare l’assetto conseguente alla reviviscenza, in parte qua, della disciplina previgente- si tratterebbe pur sempre di una forma di riedizione dell’attività amministrativa la cui legittimità va scrutinata in rapporto alle indicazioni conformative contenute nella sentenza di annullamento”.
8.7. In sostanza,
in presenza di un annullamento giurisdizionale delle previsioni urbanistiche rivivono provvisoriamente le previgenti regole fino all’adozione di una determinazione da parte del Comune che potrebbe, in ipotesi, estrinsecarsi nell’accettazione dell’assetto conseguente alla reviviscenza.
Tesi questa che pare conciliare il rigore dogmatico della tesi che regola i rapporti tra le due discipline in termini di reviviscenza con l’esigenza (parimenti rilevante) di non ritenere la previgente normativa ad applicazione obbligata preservando il potere/dovere comunale di rieditare il potere di conformazione del territorio anche in conseguenza dell’assetto che si crea per effetto dell’annullamento delle prescrizioni nei limiti dello specifico oggetto del giudizio e, quindi, della sentenza. In tal modo, si consente all’Amministrazione di intervenire anche al fine di assoggettare le aree ad una regolazione comune evitando la policromia regolatoria che potrebbe, in ipotesi, crearsi.
8.8. In ragione di quanto esposto,
paiono, quindi, preferibili le argomentazioni che sorreggono il primo degli orientamenti esaminati pur con le ulteriori precisazioni esposte nel presente provvedimento.
9. L’affermata sussistenza di una possibile reviviscenza delle previgenti disposizioni urbanistiche impone, quindi, di adottare un’ordinanza di sospensione del giudizio ex articolo 79, primo comma, c.p.a. Infatti, la non attualità e la ipoteticità dell'interesse ad agire discende, come spiegato, dall’essere simile interesse condizionato dall’esito dell’altro giudizio.
Sussiste, quindi, un legame di pregiudizialità tra i due giudizi che si traduce nella doverosità della sospensione del presente in attesa della definizione del giudizio condizionante la reviviscenza della pregressa disciplina sostanziale e, per l’effetto, dell’interesse processuale all’annullamento della stessa azionato nel presente giudizio (cfr., per la necessità della sospensione in simili casi, le argomentazioni di Cassazione civile, sez. lavoro, 23.11.2007, n. 24434).
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
Sospende il giudizio.

EDILIZIA PRIVATA: Divisione di fabbricati abusivi – Atti di scioglimento della comunione – Atti mortis causa e inter vivos – Atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù – Atti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali – Disciplina vigente.
L’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 è applicabile anche agli atti di scioglimento della comunione. Restano fuori dal campo di applicazione dell’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, così come –d’altra parte– dal campo di applicazione dell’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 (e prima dell’art. 17, comma 1, della legge n. 47 del 1985), gli atti mortis causa e, tra quelli inter vivos, gli atti privi di efficacia traslativa reale (ossia quelli ad effetti meramente obbligatori), gli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù (espressamente esclusi dalle richiamate disposizioni) e gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali (artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985).
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Atti di scioglimento delle comunioni relativi ad edifici abusivi o a loro parti – Scioglimento della comunione ordinaria (comproprietà) – Nullità – Applicazione e limiti.
Gli atti di scioglimento delle comunioni relativi ad edifici, o a loro parti, sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità prevista dall’art. 46 del D.P.R. 380/2001, comma 1, (già art. 17 della L. 47/1985) e dall’art. 40, secondo comma, della legge n. 47 del 1985 per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici realizzati prima della entrata in vigore della legge n. 47 del 1985 dai quali non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ovvero ai quali non sia unita copia della domanda di sanatoria corredata dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione o dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che la costruzione dell’opera è stata iniziata in data anteriore al 01.09.1967.
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Diritti reali sugli edifici abusivi – Atto di scioglimento della comunione ereditaria – Natura di negozio inter vivos – Divisione contrattuale – Differenza con la divisione testamentaria – Natura di atto mortis causa – Trasmissibilità iure ereditatis e limiti tra coheredes – Eliminazione dell’abuso edilizio.
L’atto di scioglimento della comunione ereditaria costituisce un negozio inter vivos, allo stesso modo dell’atto di scioglimento della comunione ordinaria. Mentre, la divisione testamentaria costituisce certamente un atto mortis causa, perché scaturisce dalla volontà del testatore e produce i propri effetti, ipso iure, con la morte del testatore e con l’apertura della successione; la divisione contrattuale, invece, non può che essere un negozio tra vivi, in quanto scaturisce dalla volontà degli eredi ed i suoi effetti sono indipendenti dall’evento della morte del de cuius.
Né può ritenersi illogico che al de cuius sia consentito –mediante il testamento– dividere tra i futuri eredi l’edificio abusivo di cui è proprietario, mentre agli eredi sia vietato dividere tra loro il medesimo edificio con apposito contratto divisorio.
La ratio delle disposizioni di cui all’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 è, infatti, quella di rendere i diritti reali sugli edifici abusivi “non negoziabili” con atto tra vivi e, nel contempo, di assicurare –a garanzia della certezza e della stabilità dei rapporti giuridici– la loro trasmissibilità iure ereditatis. Gli eredi subentrano nella medesima posizione del defunto ed acquistano, perciò, il fabbricato abusivo nel medesimo stato di fatto e di diritto in cui era posseduto dal de cuius.
È naturale allora che, come il de cuius non avrebbe potuto alienare l’immobile abusivo a terzi o dividerlo con l’eventuale comproprietario di esso, così –ove l’edificio abusivo cada in comunione ereditaria– anche i coheredes non possano alienare a terzi o dividere tra loro il fabbricato abusivo edificato dal loro dante causa, essendo tale immobile destinato a rimanere in comunione fino a quando non sia sanato (ove possibile) o fino a quando l’abuso edilizio non sia materialmente eliminato.

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Divisione endoesecutiva e endoconcorsuale di un fabbricato abusivo – Atti sottratti alla comminatoria di nullità – Processo di espropriazione – Garanzie dei creditori – Domanda di sanatoria dell’abuso.
In materia urbanistica, la divisione endoesecutiva e quella endoconcorsuale di un fabbricato abusivo va ricompresa tra gli atti sottratti alla comminatoria di nullità di cui agli artt. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40 della legge n. 47 del 1985. Inoltre, il giudizio di divisione endoesecutiva non è affatto autonomo dal processo di espropriazione, ma si trova in rapporto di “strumentalità necessaria” rispetto ad esso.
Sicché la possibilità di espropriare i fabbricati abusivi, nell’ambito delle procedure esecutive individuali e concorsuali, è necessaria per assicurare ai creditori di chi è proprietario esclusivamente di fabbricati abusivi la medesima tutela giurisdizionale dei diritti che è assicurata ai creditori di chi è proprietario di fabbricati urbanisticamente legittimi, risultando così implicata dai principi costituzionali di cui agli artt. 3, primo comma e 24 Cost. e coerente con essi.
Deve pertanto escludersi che le disposizioni di cui agli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985 pongano norme che possano essere definite “eccezionali” e che l’interpretazione di esse incontri limiti di sorta. Impedire la divisione dell’edificio privo di legittimità urbanistica vorrebbe dire, perciò, ridurre l’espropriazione forzata alla vendita della quota indivisa, indirizzandola così verso esiti economicamente irrisori quanto al possibile ricavato.
In definitiva, deve ritenersi che, con le disposizioni di cui agli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, la legge ha inteso esentare dalla comminatoria di nullità tutti gli atti finalizzati a portare a termine la procedura esecutiva immobiliare, individuale o concorsuale. In tal senso depongono le disposizioni eccettuative in esame, laddove esse prevedono, in favore dell’aggiudicatario dell’immobile abusivo, la riapertura dei termini per presentare domanda di sanatoria dell’abuso (quando consentita).

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Opere edilizie abusive – Scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria)- Divisione effettuata nell’ambito di esproprio o procedura concorsuale.
In forza delle disposizioni eccettuative di cui all’art. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, lo scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria) relativa ad un edificio abusivo che si renda necessaria nell’ambito dell’espropriazione di beni indivisi (divisione c.d. “endoesecutiva o nell’ambito del fallimento (ora, liquidazione giudiziale) e delle altre procedure concorsuali (divisione c.d. “endoconcorsuale”) è sottratta alla comminatoria di nullità prevista, per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi, dall’art. 46, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e dall’art. 40, comma 2, della legge 28.02.1985, n. 47.
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Fabbricato abusivo – Domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria) – Divisione giudiziale della comunione – Compravendite e atti traslativi immobiliari – Estremi del permesso/concessione o atti ad essi equipollenti – Mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia Nullità – Rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio -Sanabilità – Presupposti – Giurisprudenza.
Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall’art. 46 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e dall’art. 40, comma 2, della legge 28.02.1985, n. 47, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 cod. civ., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale.
La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio. Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato»
(Cass., Sez. Un., n. 8230 del 22/03/2019).
Trattasi di una nullità che costituisce la sanzione per la violazione di norme imperative in materia urbanistico-ambientale, dettate a tutela dell’interesse generale all’ordinato assetto del territorio, ciò spiega perché tale nullità sia rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio (cfr. Cass. Sez. Un., n. 23825 del 11/11/2009; Cass., Sez. 2, n. 6684 del 07/03/2019).
Seppur la nullità scaturisca dalla mancata dichiarazione nell’atto degli estremi del titolo abilitativo dell’edificio, e non dal carattere illecito dell’edificio in sé (la nullità, tuttavia, non è impedita dalla dichiarazione di un titolo abilitativo inesistente; mentre la mancata dichiarazione del titolo abilitativo esistente può essere emendata –ex art. 46, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 3, della legge n. 47 del 1985– con atto successivo che contenga la dichiarazione prescritta).

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Divisione parziale o totale dell’asse ereditario – Esclusione dell’immobile abusivo – Diritti dei coeredi – Art. 713 c.c..
Allorquando tra i beni costituenti l’asse ereditario vi siano edifici abusivi, ogni coerede ha diritto, ai sensi all’art. 713 del Codice civile, comma 1, di chiedere e ottenere lo scioglimento giudiziale della comunione ereditaria per l’intero complesso degli altri beni ereditari, con la sola esclusione degli edifici abusivi, anche ove non vi sia il consenso degli altri condividenti (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 07.10.2019 n. 25021 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di un vincolo paesaggistico, ove per l’intervento edilizio non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica, l’ordine demolizione costituisce atto vincolato, a prescindere da quale sia il titolo edilizio necessario per l’intervento e quindi anche ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto paesaggistico circostante..
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.”
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La giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato.
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento.
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1. Il presente giudizio verte sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione e ripristino adottata dal Comune di Lumezzane a seguito dell’accertamento della realizzazione, in difformità rispetto al titolo edilizio, di un sopralzo del sottotetto di una porzione del fabbricato di proprietà dei ricorrenti.
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16. Con l’ultimo motivo è denunciata l’inconferenza del richiamo, contenuto nella motivazione del provvedimento avversato, alla localizzazione del manufatto in area soggetta a vincolo paesistico ai sensi dell’articolo 142, comma 1, lett. c), d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Secondo i ricorrenti la difformità nella realizzazione del sopralzo non creerebbe infatti alcun danno al bene tutelato, ovvero al fiume nella cui fascia di rispetto si trova l’abitazione, non incidendo in alcun modo sul suo alveo, sulla regimazione delle acque o sulla loro portata e deflusso. Aggiungono che l’immobile in questione non ha alcun valore storico, tipologico, simbolico e ha uno scarso valore percettivo.
17. La doglianza è priva di pregio.
18. Va evidenziato, infatti, che in presenza di un vincolo paesaggistico, ove per l’intervento edilizio non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica, l’ordine demolizione costituisce atto vincolato, a prescindere da quale sia il titolo edilizio necessario per l’intervento e quindi anche ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto paesaggistico circostante (TAR Campania, Napoli, sez. III, 29.05.2019, n. 2881).
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.”
19. Inoltre quanto alla supposta irrilevanza paesistica dell’opera, “la giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato” (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 01.07.2019, n. 1523).
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 07.10.2019 n. 865 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha reiteratamente sancito la natura pertinenziale della piscina di ridotte dimensioni e cioè:
   - “La realizzazione di una piscina prefabbricata di dimensioni relativamente modeste in rapporto all’edificio a destinazione residenziale, sito in zona agricola, rientra nell’ambito delle pertinenze […] Ciò che rileva, infatti, è che sussista un rapporto pertinenziale tra un edificio preesistente e l’opera da realizzare e tale rapporto sia oggettivo nel senso che la consistenza dell’opera deve essere tale da non alterare in modo significativo l’assetto del territorio e deve inquadrarsi nei limiti di un rapporto adeguato e non esorbitante rispetto alle esigenze di un effettivo uso normale del soggetto che risiede nell’edificio principale”;
   - “Una piscina prefabbricata, di dimensioni normali, annessa ad un fabbricato ad uso residenziale sito in zona agricola, ha natura obiettiva di pertinenza e costituisce un manufatto adeguato all’uso effettivo e quotidiano del proprietario dell’immobile principale”.
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6.2.2. Occorre pertanto stabilire se la piscina della società Il Gi. abbia o meno carattere pertinenziale rispetto all’immobile abitativo ad essa attiguo.
La giurisprudenza ha reiteratamente sancito la natura pertinenziale della piscina di ridotte dimensioni: “La realizzazione di una piscina prefabbricata di dimensioni relativamente modeste in rapporto all’edificio a destinazione residenziale, sito in zona agricola, rientra nell’ambito delle pertinenze […] Ciò che rileva, infatti, è che sussista un rapporto pertinenziale tra un edificio preesistente e l’opera da realizzare e tale rapporto sia oggettivo nel senso che la consistenza dell’opera deve essere tale da non alterare in modo significativo l’assetto del territorio e deve inquadrarsi nei limiti di un rapporto adeguato e non esorbitante rispetto alle esigenze di un effettivo uso normale del soggetto che risiede nell’edificio principale” (TAR Sicilia, Palermo, III, 13.02.2015 n. 441); “Una piscina prefabbricata, di dimensioni normali, annessa ad un fabbricato ad uso residenziale sito in zona agricola, ha natura obiettiva di pertinenza e costituisce un manufatto adeguato all’uso effettivo e quotidiano del proprietario dell’immobile principale” (TAR Liguria, Genova, I, 21.07.2014 n. 1142; cfr: TAR Puglia, Lecce, I, 01.06.2018 n. 931; II, 14.01.2019 n. 40; Consiglio di Stato, V, 16.04.2014 n. 1951).
Del resto, in termini sostanzialmente equivalenti si è recentemente espresso anche questo Tribunale (TAR Umbria, Perugia, I, 09.04.2019 n. 193) alla luce della disciplina regionale di cui all’art. 118, c. 1, lett. d), L.R. 1/2015 e 21, c. 3, lett. o), R.R. 2/2015.
Considerata la presenza, nel caso di specie, degli indici individuati dalla giurisprudenza sopra riportata (in particolare: dimensioni relativamente modeste, adeguatezza all’uso normale da parte del proprietario dell’abitazione, difetto di autonoma utilizzabilità), la piscina realizzata dalla società ricorrente deve considerarsi stabilmente destinata al servizio e/o all’ornamento del fabbricato principale, in modo da integrare una pertinenza di esso (TAR Umbria, sentenza 07.10.2019 n. 509 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva negoziale – Frazionamento – Mutazione della destinazione giuridica – Classamento degli immobili – Destinazione turistico alberghiera – Confisca dei manufatti e attribuzione al patrimonio del Comune – Offerta in vendita dei singoli lotti abusivamente frazionati – Artt. 30, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Integra il reato di lottizzazione abusiva negoziale non solamente l’avvenuta cessione di una porzione immobiliare in maniera tale che, attraverso il suo frazionamento attuato per via contrattuale, ne sia irreversibilmente mutata la destinazione giuridica, ma, trattandosi di un reato di pericolo anche il compimento di atti che siano astrattamente idonei a dare corso ad una trasformazione del territorio diversa da quella divisata con gli strumenti di programmazione urbanistica adottati dagli organi competenti; atti fra i quali vi è anche, in caso di lottizzazione negoziale, la offerta in vendita dei singoli lotti abusivamente frazionati (nel senso della integrazione del reato anche attraverso la sola offerta in vendita: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 10.05.2017, n. 22961).
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Confisca di un immobile abusivamente lottizzato nei confronti dei terzi acquirenti – Buona fede – Onere della prova.
In materia urbanistica, la confisca di un immobile abusivamente lottizzato può essere disposta anche nei confronti dei terzi acquirenti, qualora nei confronti degli stessi siano riscontrabili quantomeno profili di colpa nell’attività precontrattuale e contrattuale svolta, per non aver assunto le necessarie informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e sulla compatibilità dell’intervento con gli strumenti urbanistici. Il mancato riscontro di tale atteggiamento soggettiva in capo agli acquirenti esclude la confiscabilità degli immobili da costoro acquistati. Ciò posto, invece, è corretta la conferma della confisca degli immobili offerti in vendita (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2019 n. 40781 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di repressione dell’abusivismo edilizio, non sussiste alcun termine decadenziale poiché è orientamento costante della giurisprudenza amministrativa quello secondo cui le opere realizzate senza titolo (quindi abusive) costituiscono illecito permanente, salve le rare ipotesi (che qui non vengono dedotte) in cui può essere salvaguardato l’affidamento del privato rispetto all’atteggiamento ingiustificatamente inerte serbato per lunghissimo tempo dell’amministrazione pubblica.
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Riguardo al secondo profilo di doglianza, va ricordato che, in materia di repressione dell’abusivismo edilizio, non sussiste alcun termine decadenziale, poiché è orientamento costante della giurisprudenza amministrativa (anche di questo Tribunale), quello secondo cui le opere realizzate senza titolo (quindi abusive) costituiscono illecito permanente, salve le rare ipotesi (che qui non vengono dedotte) in cui può essere salvaguardato l’affidamento del privato rispetto all’atteggiamento ingiustificatamente inerte serbato per lunghissimo tempo dell’amministrazione pubblica (cfr. tra le ultime, TAR Marche, 26/04/2019 n. 270; 27/04/2018 n. 318; 20/02/2015 n. 141) (TAR Marche, sentenza 04.10.2019 n. 620 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della valutazione circa la necessità del permesso di costruire di un’opera e della presupposta autorizzazione paesaggistica, nonché della conseguente sanzione, è necessario considerare nello specifico come essa è realizzata (forma, dimensioni, ecc.).
Pertanto l'Amministrazione ha l'onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria, che rilevi esattamente le opere compiute, il perché non ritenga che si tratti di una struttura realizzabile in regime di edilizia libera.

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Il gazebo in legno di facile rimozione, dunque non stabilmente infissa al suolo e a carattere non permanente, può rientrare a buon titolo tra gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici, ai sensi dell’art. 6, comma 1°, lett. e-quinquies), del D.P.R. n. 380/2001, in coordinamento con quanto stabilito dall’art. 3, comma 1°, lett. e.1), trattandosi di struttura che non amplia il preesistente edificio, ma di un manufatto separato a servizio dello stesso, realizzato in area pertinenziale.
Il glossario delle opere libere, di cui al D.M. del 02.03.2018 prevede, altresì, che il gazebo realizzabile senza titoli edificatori debba essere di limitate dimensioni e non stabilmente ancorato al suolo.
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Le apparecchiature per il contenimento dei consumi energetici (pannelli solari) rientrano nell’attività di edilizia libera, ai sensi dell’art. 6, comma 1°, lett. e-quater), del D.P.R. n. 380/2001, e come tali sono contemplate nel glossario delle opere libere, di cui al D.M. del 02.03.2018.
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La tettoia e il muro di contenimento necessitano delle autorizzazioni.
La prima -nel caso di specie- è un’opera in legno stabilmente ancorata al suolo (dunque a carattere permanente e, perciò, a modifica dello stato dei luoghi) e di dimensioni medie (mq 15,00); le predette caratteristiche rendono la struttura suscettibile di alterare l’assetto del territorio e di incidere sul carico urbanistico in termini volumetrici.
Quanto al muro, esso è descritto quale opera “di considerevoli dimensioni” e realizzata fuori terra; perciò, per l’impatto che essa ha sul territorio e sull’assetto urbanistico, necessita dei titoli edificatori.
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Va, invece, esaminato nel merito il contenuto dell’ordinanza n. 60/2018, impugnata con i motivi aggiunti.
Essa ingiunge la demolizione del cancello posto sulla particella 1650 (in quanto realizzato senza autorizzazione edilizia e paesaggistica), di un gazebo e di una tettoia (in quanto realizzati senza titoli edilizi e paesaggistici), di apparecchiature per i consumi energetici poste sulla copertura dell’edificio (in quanto realizzate in assenza di titoli e non rientranti nella tipologia di cui all’all. A del D.P.R. n. 31/2017, punto 6), di un muro di contenimento (in quanto realizzato in totale difformità dalla D.I.A. in data 11.10.2004 e successiva variante, peraltro priva di efficacia perché carente di autorizzazioni paesaggistiche e archeologiche).
In proposito il Collegio rileva:
   1. Il cancello è stato realizzato sulla particella 1650, che l’ordinanza n. 35/2018, annullata d’ufficio, aveva ritenuto costituire parte della strada pubblica di proprietà comunale. Quest’affermazione è stata corretta nell’ordinanza n. 60/2018, ivi riconoscendosi la proprietà dei ricorrenti sulla particella 1650, in forza di contratto di cessione stipulato il 07.06.1980, conseguito alla sdemanializzazione dell’area.
Tuttavia l’ordinanza n. 60/2018 ingiunge la demolizione del cancello ritenendo necessari per la sua installazione titoli edilizi e paesaggistici. Né l’ordinanza n. 35/2018, né l’ordinanza n. 60/2018 descrivono le dimensioni e la forma dell’opera, per la cui installazione non sarebbero necessarie autorizzazioni qualora essa non sia –per dimensioni e conformazione– idonea ad alterare la sagoma dell’edificio o l’assetto urbanistico del territorio (art. 22, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 380/2001).
Orbene, ai fini della valutazione circa la necessità del permesso di costruire di un’opera e della presupposta autorizzazione paesaggistica, nonché della conseguente sanzione, è necessario considerare nello specifico come essa è realizzata (forma, dimensioni, ecc.); pertanto l'Amministrazione ha l'onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria, che rilevi esattamente le opere compiute, il perché non ritenga che si tratti di una struttura realizzabile in regime di edilizia libera (cfr. Cons. St., VI, 29.11.2018 n. 6798; id. n. 5781/2018; n. 2715/2018; n. 2701/2018).
   2. Il gazebo è descritto come opera in legno di facile rimozione, dunque non stabilmente infissa al suolo e a carattere non permanente. Essa, pertanto, può rientrare a buon titolo tra gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici, ai sensi dell’art. 6, comma 1°, lett. e-quinquies), del D.P.R. n. 380/2001, in coordinamento con quanto stabilito dall’art. 3, comma 1°, lett. e.1), trattandosi di struttura che non amplia il preesistente edificio, ma di un manufatto separato a servizio dello stesso, realizzato in area pertinenziale (cfr. Cass. pen., III, 02.10.2018 n. 54692); il glossario delle opere libere, di cui al D.M. del 02.03.2018 prevede, altresì, che il gazebo realizzabile senza titoli edificatori debba essere di limitate dimensioni e non stabilmente ancorato al suolo.
   3. Le apparecchiature per il contenimento dei consumi energetici (pannelli solari), la cui installazione era stata comunicata all’Amministrazione il 16.03.2004, rientrano nell’attività di edilizia libera, ai sensi dell’art. 6, comma 1°, lett. e-quater), del D.P.R. n. 380/2001, e come tali sono contemplate nel glossario delle opere libere, di cui al D.M. del 02.03.2018.
L’installazione delle predette opere (cancello, gazebo e impianti ecologici) non richiede, dunque, preventivi titoli edificatori o nulla osta.
Diversamente, la tettoia e il muro di contenimento necessitano delle autorizzazioni. La prima è un’opera in legno stabilmente ancorata al suolo (dunque a carattere permanente e, perciò, a modifica dello stato dei luoghi) e di dimensioni medie (mq 15,00); le predette caratteristiche rendono la struttura suscettibile di alterare l’assetto del territorio e di incidere sul carico urbanistico in termini volumetrici (cfr.: TAR Campania, Napoli, III, 27.6.2018 n. 4282; Salerno, II, 02.01.2019 n. 1).
Quanto al muro, esso è descritto quale opera “di considerevoli dimensioni” e realizzata fuori terra; perciò, per l’impatto che essa ha sul territorio e sull’assetto urbanistico, necessita dei titoli edificatori (Cons. St., VI, 09.07.2018 n. 4169; TAR Veneto, II, 21.06.2018 n. 663; TAR Piemonte, II, 07.02.2018 n. 160; Cass. pen., III, 21.11.2018 n. 55366).
In conclusione, delle opere per le quali l’ordinanza n. 60/2018 ingiunge la demolizione solo il gazebo, il cancello e le apparecchiature tecnologiche sono insuscettibili di titoli edificatori. Perciò sul punto il provvedimento deve essere annullato, mentre può essere confermato per il resto (TAR Lazio-Latina, sentenza 04.10.2019 n. 564 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione da parte dei ricorrenti di un’istanza di “permesso di costruire” in sanatoria postuma rispetto agli interventi contestati, implica acquiescenza rispetto alla necessità del titolo abilitativo edilizio e smentisce pertanto la sostenibilità dell’assunto circa la riconducibilità del manufatto contestato ad una delle tipologie di c.d. edilizia libera.
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Il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti completo ed ultimato, e non anche per la sanatoria di opere a farsi, dal momento che la doppia conformità deve sussistere oltre che con riguardo alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del manufatto che deve quindi necessariamente precedere e non seguire la domanda di sanatoria.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto il permesso di costruire.
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2.1 Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
Preliminarmente, quanto all’assoggettabilità degli interventi al previo rilascio del permesso di costruire, la presentazione da parte dei medesimi ricorrenti di un’istanza di “permesso di costruire” in sanatoria postuma rispetto agli interventi contestati, implica acquiescenza rispetto alla necessità del titolo abilitativo edilizio e smentisce pertanto la sostenibilità dell’assunto circa la riconducibilità del manufatto contestato ad una delle tipologie di c.d. edilizia libera.
In ogni caso parte ricorrente, nel riconoscere la non conformità del manufatto alla normativa urbanistico edilizia vigente nel Comune di Fossacesia, ha dichiarato, inammissibilmente, di voler ottenere una sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 condizionata alla “riconduzione a conformità” dell’intervento abusivo con caratteristiche diverse sì da renderlo assentibile ai sensi della locale disciplina urbanistica ed edilizia.
Una tale domanda non è all’evidenza riconducibile allo schema legale tipico della sanatoria di cui all’art. 36 d.p.r. n. 38072001 che presuppone il completamento e l’ultimazione dell’intervento in tutte le sue componenti sì da renderne verificabile la doppia conformità prima della definizione della istanza e non successivamente.
Ed infatti, il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti completo ed ultimato, e non anche per la sanatoria di opere a farsi, dal momento che la doppia conformità deve sussistere oltre che con riguardo alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del manufatto che deve quindi necessariamente precedere e non seguire la domanda di sanatoria.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto il permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. V, 11.10.2005, n. 5495) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 04.10.2019 n. 233 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La riconducibilità di una struttura alla categoria di “pergola” si verifica se trattasi di  strutture in legno o metallo costituite da elementi verticali portanti e “aperte su tutti i lati e non coperte”.
Sul punto peraltro il Consiglio di Stato, nel delineare i tratti distintivi delle diverse tipologie di strutture realizzabili all’aperto, ha affermato che il pergolato ha una funzione ornamentale, è realizzato in una struttura leggera in legno o in altro materiale di minimo peso, deve essere facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, e funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
Dalla pergola si distingue poi il gazebo quale una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili, che può essere realizzato sia come struttura temporanea, sia in modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o ampi terrazzi.
Diversamente la veranda, realizzabile su balconi, terrazzi, attici o giardini, è caratterizzata quindi da ampie superfici vetrate che all’occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro, per essa, dal punto di vista edilizio, determina un aumento della volumetria dell’edificio e una modifica della sua sagoma e necessita quindi del permesso di costruire.
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2.2 Di qui correttamente l’istanza di sanatoria avente ad oggetto una struttura asseritamente amovibile è stata valutata dall’amministrazione comunale sulla base delle caratteristiche dell’intervento concretamente realizzato, consistente nella chiusura della terrazza a livello dell’abitazione di proprietà dei ricorrente attraverso l’installazione di una struttura in legno chiusa lateralmente da infissi e copertura.
Sicché legittimamente è stata esclusa la riconducibilità della struttura alla categoria di “pergola” assentibile ai sensi dell’art. 6, comma 1, del regolamento edilizio, a tenore del quale, esse sono configurabili quali strutture in legno o metallo costituite da elementi verticali portanti e “aperte su tutti i lati e non coperte”, mentre nella specie trattasi di una struttura annessa all’abitazione dei ricorrenti e dotata di copertura e di chiusure laterali.
Sul punto peraltro il Consiglio di Stato, nel delineare i tratti distintivi delle diverse tipologie di strutture realizzabili all’aperto, ha affermato che il pergolato ha una funzione ornamentale, è realizzato in una struttura leggera in legno o in altro materiale di minimo peso, deve essere facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, e funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 5409 del 29.09.2011).
Dalla pergola si distingue poi il gazebo quale una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili, che può essere realizzato sia come struttura temporanea, sia in modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o ampi terrazzi.
Diversamente la veranda, realizzabile su balconi, terrazzi, attici o giardini, è caratterizzata quindi da ampie superfici vetrate che all’occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro, per essa, dal punto di vista edilizio, determina un aumento della volumetria dell’edificio e una modifica della sua sagoma e necessita quindi del permesso di costruire (cfr C.d.S. sez. VI, n. 306/2017) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 04.10.2019 n. 233 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza del tutto consolidata, l'impugnativa del provvedimento di acquisizione gratuita, non preceduta dalla tempestiva impugnazione dell'ordinanza di demolizione relativa ad opere abusive, nonché del diniego di sanatoria delle medesime, comporta che non possano essere denunciati eventuali vizi di tale atto presupposto in sede di gravame avverso l'atto applicativo che lo richiami.
Nei casi di mancata impugnazione del provvedimento presupposto deve pertanto essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell'area di sedime, salvo che non si facciano valere vizi propri della misura acquisitiva.

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CONSIDERATO:
   - che l'impugnata constatazione di inottemperanza con acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza all'ordine di demolizione, né in senso ostativo all'acquisizione può assumere rilevanza l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della misura, stante la natura interamente vincolata del provvedimento, sicché risulta necessario solo che in detto atto siano esattamente individuate ed elencate le opere e le relative pertinenze urbanistiche.
Per giurisprudenza del tutto consolidata -da cui il Tar non ravvisa ragioni per discostarsi- l'impugnativa del provvedimento di acquisizione gratuita, non preceduta dalla tempestiva impugnazione dell'ordinanza di demolizione relativa ad opere abusive, nonché del diniego di sanatoria delle medesime, comporta che non possano essere denunciati eventuali vizi di tale atto presupposto in sede di gravame avverso l'atto applicativo che lo richiami.
Nei casi di mancata impugnazione del provvedimento presupposto deve pertanto essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell'area di sedime, salvo che non si facciano valere vizi propri della misura acquisitiva (ex multis,Tar Umbria, 20.06.2017, n. 470; Tar Emilia Romagna, Bologna, II, 13.05.2015, n. 458; Tar Campania, Napoli, III, 03.02.2015, n. 640; Tar Puglia, Bari, III, 16.05.2014, n. 621) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.10.2019 n. 231 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di reati edilizi con l'acquisizione al patrimonio del Comune dell'immobile abusivo viene meno l'interesse alla revoca o alla sospensione dell'ordine di demolizione da parte del precedente proprietario, ormai terzo estraneo alle vicende giuridiche dell'immobile».
Infatti, «
L'interesse, quale condizione di ammissibilità dell'impugnazione, sussiste solo se il gravame è idoneo ad eliminare una decisione pregiudizievole per l'impugnante determinando per il medesimo una situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente (fattispecie di richiesta al giudice dell'esecuzione di revoca di ordine di demolizione di opera abusiva già demolita dal medesimo richiedente).
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In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
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La questione della natura sanzionatoria penale dell'ordine di demolizione relativamente alle sentenze Cedu è mal posta.
Nessuna equiparazione può, infatti, logicamente farsi tra la demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino (riporta il territorio alla condizione iniziale, prima dell'abuso) del bene leso, la demolizione.
Inoltre,
la demolizione dell'immobile, attualmente prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa anche dalla eventuale alienazione a terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti del venditore.
Il tempo trascorso dalla realizzazione della costruzione abusiva alla demolizione dell'opera non rileva, pertanto, per la considerazione della violazione di norme interne e Cedu, poiché fondamentalmente la ricorrente non ha adempiuto sia all'ordine di demolizione del Comune e sia a quello della sentenza.
Inoltre
il tempo potrebbe rilevare solo per un eventuale abuso di necessità per le esigenze abitative.
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In materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'imposizione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso e non ha finalità punitive, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso, e non comportando la violazione del principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande Stevens c. Italia del 04.03.2014.
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5. Il ricorso è inammissibile, principalmente per mancanza di interesse in quanto l'immobile è stato acquisito al patrimonio del Comune (come evidenziato dalla stessa ricorrente nel ricorso in cassazione e nella memoria di replica) e, comunque, per manifesta infondatezza dei motivi (art. 606, comma 3, del cod. proc. pen.).
5.1. L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio disponibile del Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal giudice con la sentenza di condanna, e con la sua successiva esecuzione ad opera del Pubblico ministero, ostandovi soltanto la delibera consiliare che abbia stabilito l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive. (Sez. 3, n. 1904 del 18/12/2006 - dep. 23/01/2007, Turianelli, Rv. 235645).
L'acquisizione al patrimonio del Comune come principale effetto fa venire meno l'interesse della ricorrente alla revoca o alla sospensione dell'ordine di demolizione. Il bene, infatti, ormai è di proprietà del Comune e sullo stesso nessun interesse giuridico può essere rivendicato dalla ricorrente, responsabile dell'illecito edilizio (in tal senso già Sez. 3, 07.03.2017 - udienza del 06.10.2016 - n. 10964, Brio, non massimata e Sez. 3, n. 45432 del 25/05/2016 - dep. 27/10/2016, Ligorio, Rv. 26813301; vedi ora espressamente Sez. 3, del 01.08.2019, n. 35203, Centioni, non massimata).
Può, quindi, esprimersi il seguente principio di diritto: «
In tema di reati edilizi con l'acquisizione al patrimonio del Comune dell'immobile abusivo viene meno l'interesse alla revoca o alla sospensione dell'ordine di demolizione da parte del precedente proprietario, ormai terzo estraneo alle vicende giuridiche dell'immobile».
Infatti, «L'interesse, quale condizione di ammissibilità dell'impugnazione, sussiste solo se il gravame è idoneo ad eliminare una decisione pregiudizievole per l'impugnante determinando per il medesimo una situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente (fattispecie di richiesta al giudice dell'esecuzione di revoca di ordine di demolizione di opera abusiva già demolita dal medesimo richiedente)» (Sez. 3, n. 24272 del 24/03/2010 - dep. 24/06/2010, Abagnale, Rv. 24768501; vedi anche Sez. 6, n. 17686 del 07/04/2016 - dep. 28/04/2016, Conte, Rv. 26717201).
6. Comunque il ricorso è manifestamente infondato anche nel merito, poiché in materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015 - dep. 09/09/2015, Formisano, Rv. 264736; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011 - dep. 19/05/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336).
6.1. La questione della natura sanzionatoria penale dell'ordine di demolizione relativamente alle sentenze Cedu è mal posta.
Nessuna equiparazione può, infatti, logicamente farsi tra la demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino (riporta il territorio alla condizione iniziale, prima dell'abuso) del bene leso, la demolizione (vedi Cass. Sez. 3, 22/10/2009, n. 48925, Viesti; Cass. Sez. 3, 11/02/2016, n. 5708, Wolgar).
6.2. Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa anche dalla eventuale alienazione a terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti del venditore (Sez. 3, 28/03/2007, n. 22853, Coluzzi).
Il tempo trascorso dalla realizzazione della costruzione abusiva alla demolizione dell'opera non rileva, pertanto, per la considerazione della violazione di norme interne e Cedu, poiché fondamentalmente la ricorrente non ha adempiuto sia all'ordine di demolizione del Comune e sia a quello della sentenza.
6.3. Inoltre il tempo potrebbe rilevare solo per un eventuale abuso di necessità per le esigenze abitative, ma tale prospettazione risulta assente nel ricorso e genericamente richiamata (senza nessuna specificazione) nella memoria di replica.
Le questioni personali e familiari della ricorrente non sono rappresentate, quindi, a questa Corte, che pertanto non può verificare (in linea del tutto teorica, stante l'inammissibilità del ricorso, per mancanza di motivi specifici -autosufficienza-) l'incidenza sul caso della recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 21.04.2016, Ivanova e Cherkezov V/Bulgaria, ricorso 46577/15. La violazione o no, nella fattispecie concreta, dell'art. 8 della convenzione europea, sotto il profilo della proporzionalità, tra l'abuso -se di dimensioni tali da farlo ritenere di necessità- e gli interessi generali della comunità al rispetto delle norme.
7. Non sussiste neanche una violazione del principio del ne bis in idem, e conseguentemente di esecuzione di un giudicato ingiusto, come già deciso da questa Corte di Cassazione con decisione che deve riaffermarsi: «In materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'imposizione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso e non ha finalità punitive, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso, e non comportando la violazione del principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande Stevens c. Italia del 04.03.2014» (Sez. 3, n. 51044 del 03/10/2018 - dep. 09/11/2018, M, Rv. 27412801) (Corte di cassazione, Sez. II penale, sentenza 02.10.2019 n. 40396).
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Al riguardo sei legga anche:
  
● L. B. Molinaro, Dopo la Corte Europea anche la Cassazione “apre” all’“abuso di necessità” (28.10.2019 - link a www.filodiritto.com).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistico-edilizi – Opere accessorie e complementari e superfetazioni successive – Carattere abusivo dell’originaria costruzione – Abusiva prosecuzione delle opere – Inesistenza di un titolo – Ordine di demolizione – Restitutio in integrum dello stato dei luoghi – Art. 31, c. 9, D.P.R. n. 380/2001 (T.U.E.) – Giurisprudenza.
In materia urbanistica, a prescindere dall’inesistenza di un titolo che disponga la demolizione delle opere abusive successivamente eseguite, quando queste non siano fisicamente separate dall’originaria opera di cui è stata ingiunta la demolizione, vale il principio secondo cui l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto dall’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda l’edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all’esercizio dell’azione penale e/o alla condanna, atteso che l’obbligo di demolizione si configura come un dovere di “restitutio in integrum” dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell’originaria costruzione (Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016, dep. 2017, Molinari, relativa ad un caso in cui il giudice dell’esecuzione, con provvedimento ritenuto legittimo, aveva respinto la richiesta, formulata dal proprietario del piano primo di un edificio, di revoca o modifica dell’ordine di demolizione del piano terreno, disposto con sentenza nei confronti del responsabile dell’abuso; Sez. 3, n. 21797 del 27/04/2011, Apuzzo, concernente un’ipotesi in cui sul manufatto abusivo erano stati eseguiti interventi che ne avevano determinato ulteriori aumenti volumetrici; Sez. 3, n. 2872 del 11/12/2008, dep. 2009, Corimbi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2019 n. 40074 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo della distanza tra pareti finestrate e necessità che sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro.
Il principio affermato dal Consiglio di Stato, secondo il quale la distanza fra pareti di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e tutte le pareti finestrate, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, vuole dire che la distanza deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quelle principali e prescindendo dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Ma tale principio, così come gli analoghi principi della giurisprudenza di legittimità, implica pur sempre che sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento
(Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 24471 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
4. Il secondo motivo del ricorso principale è fondato.
La Corte d'appello di Milano, nell'esame della fattispecie, ha riconosciuto che, nella specie, l'intervento edilizio realizzato dalla Fa. doveva avvenire secondo la previsione dell'art. 9, n. 2, del d.m. 02.04.1968, recepito dalle NTA del Piano regolatore generale del Comune di Milano, approvato il 26.02.2000.
In relazione a tale norma -che impone una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- la corte d'appello ha richiamato principi consolidati nella giurisprudenza della Suprema Corte, sui quali non è il caso di soffermarsi:
la norma è integrativa della disciplina del codice civile sulle distanze; non è derogabile in sede locale (Cass. n. 1556/2005; n. 19554/2009); il giudice ha la potestà di disapplicare la norma regolamentare difforme ed applicare le distanze previste dal d.m. 1444 quale norma di relazione immediatamente efficace nei rapporti fra privati (Cass., S.U. n. 14953/2011).
La corte, quindi, è passata dal piano dei principi a quello della fattispecie concreta, rilevando innanzitutto che «il rispetto della distanza di 10 metri non può escludersi nel caso in esame in considerazione del fatto che gli edifici non potrebbero considerarsi "antistanti"».
Al fine di giustificare tale affermazione ha ritenuto di poter trovare appiglio nel principio secondo il quale la "distanza fra pareti di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e tutte le pareti finestrate, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731)".
Quindi ha richiamati i principi di giurisprudenza sui punti di misurazione delle distanze, per concludere perentoriamente che, nel caso di specie, alla luce delle misurazioni effettuate dal consulente tecnico, «la distanza tra l'edificio eretto dalla Fa. e quello di proprietà degli appellati non rispetto la distanza di dieci metri, il che rende evidente l'esistenza della violazione in cui Fa. s.r.l. è incorsa sotto il profilo in esame».
5. Secondo la ricostruzione della sentenza impugnata la proprietà Za. consiste «in un complesso edilizio a destinazione residenziale ed artigianale collocato in fregio alla via ... civico 10, che occupa quindi la parte nord ovest del lotto e da un secondo edificio a destinazione artigianale, che si innesta ad angolo retto ed occupa il suo lato lungo il rimanente confine nord».
Si può dare per acquisito:
   a) che Fa. ha costruito in aderenza rispetto al muro dell'edificio a destinazione artigianale per poi realizzare le pareti finestrate a distanza inferiore a 10 metri dal muro su cui ha costruito in aderenza;
   b) che la parete finestrata è stata edificata dalla Fa. interamente sul lato nord dell'edificio di fronte all'edificio a destinazione artigianale, posto sul confine fra i due lotti e sul cui muro avanzato la Fa. ha costruito in aderenza per tutta la sua altezza;
   c) che le pareti finestrate sono state edificate in arretramento rispetto a tale muro: si legge nella sentenza che l'edificio eretto dalla Fa. s.r.l. edificate in posizione arretrata «a partire dal primo piano fuori terra (alla quota di + mt. 5,20) e per i successivi, per una lunghezza di mt. 13 sul totale di mt. 24 di lunghezza»;
   d) che fra le facciate finestrate dell'edificio la facciata finestrata del fabbricato degli originari attori esiste uno sfasamento di 0,72 cm..
6.
L'art. 9 del d.m. 1444/1968 prescrive la distanza minima tra parete e parete finestrata. È pacifico che l'art. 9 è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantesi sia finestrata (Cass., S.U., n. 1486/1997; n. 1984/1999) e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del muovo edificio o dell'edificio preesistente (Cass. n. 13547/2011), o che si trovi alla medesima altezza o diversa altezza rispetto all'altro (Cass. n. 8383/1999).
Finalità della norma è la salvaguardia dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine fra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata (Cass. n. 20574/1997).
La «antistanza» va intesa come circoscritta alle porzioni di pareti che si fronteggiano in senso orizzontale. Nel caso in cui i due edifici siano contrapposti solo per un tratto (perché dotati di una diversa estensione orizzontale o verticale, o perché sfalsati uno rispetto all'altro, il giudice che accerti la violazione delle distanze deve disporre la demolizione «fino al punto in cui i fabbricati si fronteggiano» (Cass. n. 4639/1997).
La Suprema Corte ha osservato che,
ai fini dell'art. 9 del d.min. n. 1444/1968, due fabbricati, per essere antistanti, non devono essere necessariamente paralleli, ma possono fronteggiarsi con andamento obliquo, purché «fra le facciate dei due edifici sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento» (Cass. n. 4175/2001).
Non danno luogo a pareti antistanti gli edifici posti ad angolo retto, né quello in cui sono opposti gli spigoli a potersi toccare se prolungati idealmente uno verso l'altro. Poiché lo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. è quello di impedire intercapedini nocive, «la norma non trova applicazione quando i fabbricati non si fronteggiano, ma sono disposti ad angolo retto in modo da non avere parti tra loro contrapposte» (Cass. n. 4639/1997). Le distanze fra edifici non si misurano perciò in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare (Cass. n. 9649/2016).
Con riferimento all'analoga materia di "pareti frontistanti" vigente in materia antisismica «
la giurisprudenza di questa corte ha avuto modo di affermare che la disposizione contenuta nella L. n. 1684 del 1962, art. 6, n. 4 -a norma della quale l'area posta tra edifici e sottratta al pubblico transito deve avere la larghezza minima di sei metri misurata tra i muri frontali- attiene a tutte le ipotesi in cui i muri perimetrali di costruzioni finitime si trovino in posizione antagonista, idonea a provocare, in caso di crollo di uno degli edifici, danni a quello finitimo: pertanto la presenza nei detti muri perimetrali di spigoli o angoli non esula dalla sfera di applicazione della detta norma, in quanto ogni angolo o spigolo è formato da due linee che, sul piano costruttivo, costituiscono vere e proprie "fronti", le quali, a loro volta, realizzano rispetto all'opposta costruzione, quella posizione antagonista la cui potenzialità viene eliminata o attenuata dal rispetto della distanza minima.
Ha, però, soggiunto che tale principio trova applicazione nel caso in cui le due rette che si dipartano dall'angolo secondo le direttrici dei lati di questo vadano ad intersecare il perimetro della costruzione che si vuole opposta, mentre, qualora tali linee non attraversino idealmente il corpo dell'edificio vicino, non v'è antagonismo tra le costruzioni, ne' sussiste quella frontalità che la norma in oggetto prevede come presupposto dell'osservanza della distanza di sei metri a scopo di prevenzione antisismica tra i segmenti perimetrali degli edifici
» (Cass. n. 14606/2007).
È stato anche chiarito che «
l'art. 9, n. 2, del d.m. n. 1444 del 1968 non impone di rispettare in ogni caso una distanza minima dal confine, ma va interpretato, in applicazione del principio di prevenzione, nel senso che tra una parete finestrata e l'edificio antistante va mantenuta la distanza di mt. 10, con obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione fino ad una distanza di mt. 5 dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, abbia a sua volta osservato una distanza di almeno mt. 5 dal confine.
Ove, invece, il preveniente abbia posto una parete finestrata ad una distanza inferiore a detto limite, il vicino non sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino alla distanza di mt. 10 dalla parete stessa, ma potrà imporre al preveniente di chiudere le aperture e costruire (con parete non finestrata) rispettando la metà della distanza legale dal confine, ed eventualmente procedere all'interpello di cui all'art. 875, comma 2, c.c., qualora ne ricorrano i presupposti
» (Cass. n. 4848/2019; n. 3340/2002).
7. La corte d'appello non si è attenuta a tali principi.
Il principio affermato dal Consiglio di Stato (sent. n. 7731/2010), utilizzato dalla corte d'appello quale criterio guida nella valutazione della fattispecie, vuole dire che la distanza deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quelle principali e prescindendo dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela. Ma tale principio, così come gli analoghi principi della giurisprudenza di legittimità, implica pur sempre che «sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento» (Cass. n. 4715/2001).
Al contrario la corte di merito, dopo avere descritto la posizione dei fabbricati, ha ravvisato la violazione della norma senza verificare se, in dipendenza della edificazione Fa. in aderenza fino al colpo del muro cieco del preesistente edificio destinato a laboratorio, vi fosse una effettiva e attuale posizione di frontalità fra due facciate, nel senso che facendo avanzare idealmente in linea retta una facciata verso il fabbricato vicino, le due facciate si sarebbero incontrate almeno in un punto (Cass. n. 2548/1972; n. 3480/1972; n. 9649/2016).
Si ribadisce che la corte di merito non ha ravvisato la violazione nel fatto in sé dell'avere la Fa. costruito in aderenza sul muro cieco preesistente, ma nel minore arretramento dell'edificio una volta raggiunto il colmo del tetto; tanto ha fatto non in applicazione dei principi della prevenzione integrati con le previsioni di cui all'art. 9 del d.min. 02.04.1969 (Cass. n. 3340/2002 cit.), ma avuto riguardo alla situazione attuale dei fabbricati, così dome delineatasi per effetto della edificazione in aderenza.
In questo senso, però, è stata completamente omessa dalla corte d'appello
la verifica di un'attuale situazione di frontalità fra le due facciate, costituente l'essenziale «presupposto per l'operatività dell'art. 9 del d.min. 02.04.1968, n. 1444» (Cass. n. 4715/2001, cit.).

EDILIZIA PRIVATA: Natura di pertinenza di una piscina condominiale.
E’ qualificabile come pertinenza una piscina condominiale allocata in un’area di sedime diversa da quella progettuale.
D’altra parte una piscina, collocata in una proprietà privata e posta al servizio esclusivo della stessa, non ha una sua autonomia immobiliare ed è, invece, destinata a determinare un qualcosa che si pone al servizio dell'immobile principale è vicenda effettivamente abbastanza evidente.
La natura pertinenziale determina l’inapplicabilità della regola demolitoria valevole per le variazioni essenziali, dovendo invece imporre una considerazione in concreto della procedura da adottare, una volta assodata la reale natura delle opere.
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1. - L’appello è fondato e merita accoglimento entro i termini di seguito precisati.
2. - Con il primo motivo di impugnazione, contenuto nel ricorso introduttivo in primo grado e reiterato in appello, Ba. S. Gi. contestava le motivazioni del primo giudice in merito alle censure proposte avverso il diniego opposto dal Comune di Genova alla istanza di accertamento di conformità relativa alla variante introdotta nel corso dei lavori autorizzata con permesso di costruire 17/08/2004, relativo alla complessiva sistemazione del parco pertinenziale di Villa Candida, compresa la piscina condominiale di proprietà.
Il TAR aveva infatti respinto le censure dedotte sulla base di più argomenti, ossia: a) la piscina sarebbe stata realizzata su un’area di sedime diversa da quella individuata nel permesso di costruire 548/2004; b) la diversa localizzazione della piscina sull’area di sedime prevista dal p.d.c. costituirebbe una totale difformità rispetto al titolo; c) il diniego di accertamento di conformità era corretto perché i lavori della piscina si ponevano in contrasto con il vincolo a destinazione pubblica previsto nella convenzione di lottizzazione del 1991.
Avverso la ricostruzione del primo giudice, la ricorrente evidenzia, per un verso, come la localizzazione della piscina, realizzata in prossimità della localizzazione progettuale originaria doveva essere considerata in un contesto complessivo, visto che l’oggetto del permesso di costruire del 2004 era tutto il parco di Villa Candida e la sistemazione delle aree interne, rispetto alle quali la piscina e la sua positura all’interno del compendio, costituivano elementi pertinenziali di minor rilevanza; per altro verso, la relativamente diversa positura della piscina sull’area non poteva integrare una totale difformità ai sensi degli artt. 33, comma 1, D.P.R. 380/2001 e 44, comma 1, L.R. 16/2008 non assimilabile ad alcuna delle fattispecie di totale difformità ma soprattutto in quanto a sensi dell’art. 44 comma 3, L.R. 16/2008 una totale difformità era esclusa –come dedotto da Ba. S. Gi.- dalla natura pertinenziale della piscina.
2.1. - La doglianza deve essere condivisa.
Occorre evidenziare come la natura pertinenziale o meno di un manufatto sia valutabile sulla scorta di una giurisprudenza del tutto consolidata, che evidenzia come l'accezione civilistica di pertinenza sia più ampia di quella applicata nella materia urbanistico-edilizia.
Va così ricordato che la pertinenza urbanistico-edilizia è configurabile allorquando sussista un oggettivo nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole e sussista una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa in cui esso inerisce.
A differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto "carico urbanistico" proprio in quanto esauriscono la loro finalità nel rapporto funzionale con l'edificio principale (da ultimo Cons. Stato, II, 22.07.2019, n. 5130; id., IV, 02.02.2012, n. 615; id., V, 13.06.2006, n. 3490).
La detta giurisprudenza continua a mantenere valore anche a seguito dell’adozione del Testo unico dell’edilizia che, all’art. 3, individua la nozione di pertinenza, facendo riferimento al titolo necessario alla loro realizzazione, qualora si tratti di interventi “che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale”, permettendo di chiarire la portata del dettato normativo nei casi dubbi.
Nella situazione in esame, ritiene il Collegio che possa ritenersi assodata la natura pertinenziale dell’opera oggetto di demolizione, ossia la piscina allocata in un’area di sedime diversa da quella progettuale, sulla base di due distinte considerazioni.
In primo luogo, va effettivamente rilevato come l’oggetto del permesso di costruire del 2004 aveva una consistenza del tutto maggiore, riguardando l’intero parco di Villa Candida e la sistemazione delle aree interne. In una ottica di proporzionalità o normalità, che è sempre presente nella valutazione giurisdizionale sulla natura pertinenziale delle opere (si veda, in tema di piscine, Cons. Stato, II, 03.09.2019, n. 6068; id., V, 13.10.1993, n. 1041), appare quindi erroneo attribuire un valore esclusivo ed autonomo alla realizzazione della piscina e al suo collocamento all’interno del compendio, quando complessivamente l’impatto del manufatto deve essere mediato con la considerazione complessiva delle opere autorizzate dal permesso di costruire.
In secondo luogo, non va sottaciuta la rilevanza dell’assenso espresso, mediante autorizzazione alla proposta variante, dalla Soprintendenza ai beni architettonici (prot. 21.02.2006 n. 2056) che implicitamente evidenziava la carenza di fatti lesivi per i beni superindividuali dalla stessa tutelati.
Conclusivamente, se può apparire scontato “che una piscina, collocata in una proprietà privata e posta al servizio esclusivo della stessa, non abbia una sua autonomia immobiliare e sia invece destinata appunto a determinare un qualcosa che si pone al servizio dell'immobile principale è vicenda effettivamente abbastanza evidente” (Cons. Stato, IV, 08.08.2006, n. 4780), è del pari vero che la natura pertinenziale determina l’inapplicabilità della regola demolitoria valevole per le variazioni essenziali, dovendo invece imporre una considerazione in concreto della procedura da adottare, una volta assodata la reale natura delle opere.
3. - L’accoglimento, in parte qua, del primo motivo di diritto, incidendo radicalmente sul presupposto degli atti oggetto di impugnativa, ne determina l’annullamento, con assorbimento delle restanti censure, salvo restando l’obbligo dell’amministrazione di rideterminarsi sulle istanza proposte dalla parte appellante.
4. - L’appello va quindi accolto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.10.2019 n. 6576 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Obbligo di contribuzione nelle convenzioni urbanistiche.
Il principio generale, secondo cui l'obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all'effettivo esercizio dello ius aedificandi, non opera rispetto ai casi in cui la partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisca oggetto di un'obbligazione non già imposta ex lege, ma assunta contrattualmente nell'ambito di un rapporto di natura pubblicistica correlato alla pianificazione territoriale.
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... per la riforma della sentenza 13.03.2018 n. 718 del Tar per la Lombardia, Sede di Milano, Sezione Seconda.
...
1. Il Tar per la Lombardia, Sede di Milano, Sezione Seconda, con la sentenza 13.03.2018, n. 718, ha accolto il ricorso proposto dalla Pe.Re s.r.l. (ora Re.Im. s.r.l.) e, per l’effetto, ha condannato il Comune di Bernareggio al pagamento, in favore della ricorrente, delle somme di cui in motivazione (somme a suo tempo versate per le opere non effettivamente realizzate, a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria e di contributo per lo smaltimento dei rifiuti, per un totale di euro 198.555,92), maggiorate degli interessi legali dalla domanda giudiziale sino al soddisfo.
Di talché, il Comune di Bernareggio –nel premettere, tra l’altro, come la convenzione urbanistica del 1998 abbia previsto che il rilascio della prima concessione edilizia facesse insorgere un obbligo complessivo di pagamento degli oneri secondari, mentre non avrebbe mai previsto che l’obbligo potesse ridursi in proporzione a quanto effettivamente edificato entro il periodo di validità della convenzione– ha proposto il presente appello, articolando i seguenti motivi di impugnativa:
   - la sentenza sarebbe erronea laddove ha escluso l’acquiescenza mostrata dall’appellata quale evidente conseguenza della stipula di una nuova convenzione urbanistica in data 20.02.2018, relativa al comparto D, che rimodulava per questa parte gli accordi urbanistici, disciplinando sostanzialmente le stesse edificazioni previste dalla convenzione del 1998 e dalla SCIA del 16.10.2013 per cui erano stati già versati i relativi oneri;
   - la convenzione del 20.02.2018 non ha affrontato il tema della restituzione delle somme versate in precedenza, né contiene clausole di riserva relative all’esito del giudizio allora pendente al Tar, sicché la Società avrebbe implicitamente rinunciato a coltivare l’azione ed il relativo preteso diritto di rimborso, autovincolandosi a rispettare i nuovi accordi convenzionali per il comparto D;
   - rispetto ad alcune bozze iniziali della convenzione, in cui l’appellata espressamente chiedeva venisse inserito il rimborso degli oneri oggetto del contenzioso, in compensazione degli oneri dovuti, oppure una clausola di salvezza degli esiti del presente giudizio, nella versione finale approvata e sottoscritta non risulterebbe nulla di tutto questo, per cui la modifica delle bozze e l’accettazione della versione finale da parte dell’appellata assumerebbero un significato inequivoco;
   - la sentenza appellata sarebbe erronea laddove riconosce il diritto in capo all’appellata alla restituzione degli oneri secondari e della tassa di smaltimento proporzionalmente alle quote di superficie lorda non effettivamente edificate rispetto a quanto in origine autorizzato, atteso che, secondo una giurisprudenza costante, il contenuto della convenzione urbanistica, una volta sottoscritta, sarebbe vincolante tra le parti anche qualora preveda oneri più elevati di quelli tabellari usualmente previsti nel caso di rilascio di permessi singoli;
   - negli interventi soggetti a pianificazione attuativa e convenzione urbanistica non sussisterebbe un principio generale di rigida proporzionalità tra quanto si edifica e quanto si deve pagare;
   - il principio pacta sunt servanda opererebbe persino quando non si edifichi un metro cubo, mentre, nel caso di specie, si sarebbe edificato il 97% del totale;
   - non potrebbe sostenersi l’inesistenza di differenze sostanziali tra permesso semplice e convenzione urbanistica, in quanto, in tal modo, il privato potrebbe sottrarsi liberamente ed unilateralmente ai propri obblighi, lasciando all’amministrazione comunale complesse problematiche di “buco di cassa”, nonostante la trasformazione territoriale sia avvenuta per la quasi totalità;
   - gli oneri secondari sarebbero stati quantificati di comune accordo in sede di rilascio del permesso di costruire del 2009, in attuazione di un superiore legame contrattuale che ha vincolato l’operatore a corrispondere tutte le somme come esattamente calcolate secondo l’accordo convenzionale, per il solo effetto della presentazione di una concessione edilizia e senza alcun vincolo proporzionale all’edificazione in conclusione realizzata;
   - la convenzione del 1998 avrebbe previsto che il semplice rilascio della concessione edilizia per attuare le volumetrie convenzionate comporti l’obbligo di pagare tutti gli oneri concordati;
   - in via subordinata, dovrebbe essere fatto valere il diritto del Comune di Bernareggio di estinguere parzialmente, mediante compensazione ex art. 1241 c.c., eventuali crediti vantati dalla appellata in relazione al credito vantato dal Comune in riferimento agli oneri secondari e alla tassa smaltimento che la Società si è impegnata a versare, sempre in relazione al comparto D, con la convenzione urbanistica del 2018.
...
2. L’appello è fondato e va di conseguenza accolto.
In particolare, sono fondate le doglianze -in relazione alle quali non assumono rilievo le eccezioni di inammissibilità formulate dalla Re.Im. s.r.l.- secondo cui la convenzione del 1998 avrebbe previsto che il semplice rilascio della concessione edilizia per attuare le volumetrie convenzionate comporti l’obbligo di pagare tutti gli oneri concordati, per cui, in base al principio pacta sunt servanda, l’appellata avrebbe dovuto pagare integralmente i detti oneri sebbene non avesse ultimato l’edificazione prevista dalla convenzione.
A tale conclusione si perviene attraverso un’analisi sistematica, e non atomistica, della complessiva operazione posta in essere, onde individuare, in ragione degli interessi pubblici (di titolarità del Comune di Bernareggio) e privati (di titolarità dell’imprese stipulante) tutelati dalle parti, i diritti e le obbligazioni a loro carico che in essa trovano la propria fonte e la propria giustificazione causale.
2.1. In linea generale, occorre chiarire che
gli impegni assunti in sede convenzionale -al contrario di quanto si verifica in caso rilascio del singolo titolo edilizio, in cui gli oneri di urbanizzazione e di costruzione a carico del destinatario sono collegati alla specifica trasformazione del territorio oggetto del titolo, con la conseguenza che ove, in tutto o in parte, l’edificazione non ha luogo, può venire in essere un pagamento indebito fonte di un obbligo restitutorio- non vanno riguardati isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell'operazione, che costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni assunti (Cons. Stato, IV, 15.02.2019, n. 1069).
La causa della convenzione urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, quindi, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione (Con. Stato, Sez. V, 26.11.2013, n. 5603).
Inoltre, occorre sottolineare che
non è affatto escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative.
La giurisprudenza di questa Sezione, pertanto, con sentenza n. 6339 del 12.11.2018, ha affermato che
il principio generale, secondo cui l’obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all’effettivo esercizio dello ius aedificandi, non vale rispetto ai casi in cui la partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisce oggetto di un’obbligazione non già imposta ex lege, ma assunta contrattualmente nell’ambito di un rapporto di natura pubblicistica correlato alla pianificazione territoriale.
2.2. L’esegesi della convenzione stipulata in data 08.04.1998 tra il Comune di Bernareggio e la Pr.Ro. s.p.a. (cui è succeduta la Società appellata) porta ad affermare che, nella fattispecie in esame, l’impresa avrebbe dovuto versare, a seguito del rilascio della prima concessione edilizia, l’intera somma per oneri di urbanizzazione secondaria e per tassa di smaltimento rifiuti, sicché, contrariamente a quanto statuito dal giudice di primo grado, nessun obbligo restitutorio grava sul Comune di Bernareggio.
Nelle premesse alla convenzione, costituenti parte integrante dell’atto, gli stipulanti hanno rappresentato che:
   - il Comune di Bernareggio, con deliberazione del Consiglio Comunale n. 3 del 15.02.1980, ha adottato un Piano delle aree da destinare ad insediamenti produttivi (P.I.P.) ai sensi dell’art. 27 della legge n. 865 del 1971;
   - il suddetto P.I.P. è stato approvato ai sensi di legge;
   - il Comune, conseguentemente, intende dare esecuzione allo stesso assegnando in proprietà le aree a favore dei soggetti interessati alla realizzazione delle opere previste dal P.I.P.;
   - la società Pr.Ro. s.p.a. ha chiesto ed intende accettare l’assegnazione in proprietà di alcune aree oltre individuate, assumendo tutte le conseguenti obbligazioni, giusta delibera n. 76 del 28.11.1997.
Pertanto, il Comune di Bernareggio, ai sensi dell’art. 2 della convenzione, ha trasferito ed assegnato in proprietà alla Pr.Ro. s.p.a. un’area, facente parte del P.I.P., convenzionalmente denominata lotto 1 e l’assegnatario, ai sensi dell’art. 3, si è impegnato a realizzare e mantenere sulla detta area tutte le costruzioni di cui al progetto e relative descrizioni.
Ciò che maggiormente interessa in questa sede, però, è il contenuto del combinato disposto degli artt. 4 e 7 della convenzione.
L’art. 4 stabilisce che “la domanda di concessione edilizia per realizzare le opere di cui al presente art. 3 dovrà essere presentata entro e non oltre dieci anni da oggi, salvo proroga da concedersi dietro valutazione dell’Autorità Comunale in caso di giustificato ritardo” e che “la domanda di concessione edilizia potrà riguardare, anziché tutte le opere previste dal progetto, parte di dette opere purché la consistenza delle stesse non sia inferiore a …”, mentre l’art. 7 dispone che “a fronte del rilascio della concessione edilizia di cui al precedente art. 4 l’assegnatario corrisponderà al Comune il 100% degli oneri afferenti l’urbanizzazione secondaria e lo smaltimento rifiuti solidi urbani”.
Di talché,
l’opzione ermeneutica più plausibile, in quanto più coerente con la lettera e con la ratio dell’accordo stipulato, è quella di ritenere che l’obbligazione di pagamento del 100% degli oneri di urbanizzazione e di smaltimento rifiuti solidi urbani abbia la propria fonte nel rilascio della concessione edilizia e sia perciò dovuta nella sua interezza, ancorché l’edificazione prevista non sia poi completamente realizzata dall’impresa.
Decorsi dieci anni dalla stipula della convenzione, il Comune, con deliberazione del Consiglio Comunale n. 23 del 22.04.2009, con ampia motivazione, ha concesso una proroga dei termini di validità della convenzione, ai sensi dell’art. 4 della stessa, limitatamente al tempo massimo necessario previsto dalle norme in materia di edificazione corrispondente a 3 anni, nonché l’ulteriore spazio temporale dalla data di scadenza della validità della convenzione alla data di rilascio del permesso di costruire.
La decisione è stata assunta:
ritenuta la opportunità di prorogare per le motivazioni sopra esposte il termine di validità della convenzione, al solo fine di consentire il completamento delle attività edilizie oggetto della richiesta di permesso di costruire pervenuta al prot. n. 5956 del 20/04/2009 in quanto senza la proroga del termine di validità della convenzione mancherebbe il presupposto per l’edificazione nell’ambito del PIP;
considerato inoltre che la proroga della convenzione viene concessa limitatamente al tempo massimo necessario previsto dalle norme in materia di edificazione corrispondente a 3 anni, nonché l’ulteriore spazio temporale dalla data di scadenza della validità della convenzione alla data di rilascio del permesso di costruire
”.
Il permesso di costruire è stato rilasciato in data 23.06.2009, sicché in tale data è sorta l’obbligazione a carico dell’impresa per il pagamento integrale degli oneri di urbanizzazione secondaria e tassa di smaltimento dei rifiuti.
In tale contesto la sentenza di primo grado ha rappresentato come la ricorrente abbia affermato che:
   - la SLP (superficie lorda di pavimento) prevista dal permesso di costruire del 2009 e in relazione alla quale sono stati corrisposti a suo tempo gli oneri di urbanizzazione secondaria e il contributo per lo smaltimento dei rifiuti era pari a 16.685,76 mq;
   - a seguito delle varianti al titolo, la superficie in progetto si è ridotta a 13.420,41 mq, dei quali 1.853,40 mq imputabili al lotto D, non realizzato;
   - la superficie non effettivamente realizzata, rispetto a quanto previsto dal permesso di costruire originario, ammonterebbe a mq 4.896,74 (al netto di due atti di cessione di volumetria agli acquirenti degli immobili effettivamente realizzati, per complessivi mq 220,00);
   - conseguentemente, la società sarebbe creditrice del Comune per il complessivo importo di euro 189.944,54 derivante dalla somma dei maggiori oneri di urbanizzazione secondaria (la parte ha poi precisato l’importo del credito in euro 198.555,92).
In senso contrario a tale conclusione va, tuttavia, ribadito che, a fronte “del rilascio della concessione edilizia di cui al precedente art. 4” era, ormai, sorta l’obbligazione per l’assegnatario di corrispondere al Comune “il 100% degli oneri afferenti l’urbanizzazione secondaria e lo smaltimento rifiuti solidi urbani”, e in tale momento, alla stregua della chiara previsione dell’art. 7 della convenzione, non solo era sorto l’obbligo ma era stata definitivamente cristallizzata la determinazione del suo importo.
In relazione a tali premesse, in un contesto convenzionale nel quale –come anticipato- l’obbligo di contribuzione non è indissolubilmente correlato alla esatta misura dell’effettivo esercizio dello ius aedificandi, vicende successive al rilascio della concessione, quali parziali varianti in diminuzione della superficie in progetto, non altrimenti recuperata, non assumono pattiziamente rilievo ai fini della riduzione del quantum debeatur; né viene in considerazione, nella fattispecie, l’ipotesi estrema in cui tutto l’intervento edificatorio previsto dalla convenzione divenga del tutto o in misura largamente prevalente irrealizzabile.
La Re.Im. s.r.l., nelle proprie memorie difensive, nel sostenere di non essere tenuta al pagamento degli oneri per la parte non edificata, ha, poi, posto in rilievo che il Comune ha impedito di proseguire nell’edificazione, ritenendo (a torto, secondo la prospettazione dell’impresa) che la sopraggiunta norma del piano territoriale di coordinamento provinciale della Provincia di Monza e Brianza fosse a ciò di impedimento, sicché l’inadempimento della convenzione, in caso di incompatibilità con il PTCP, sarebbe imputabile all’Amministrazione, ovvero l’inadempimento sarebbe quantomeno giustificato da impossibilità sopravvenuta della prestazione.
La tesi non è persuasiva.
Con provvedimento del 09.08.2013, emesso in relazione a un’istanza di permesso di costruire in variante presentata dalla società Pe.Re s.r.l., il Comune ha affermato che la proroga del permesso di costruire non può essere concessa in quanto non motivata da fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso.
La realizzazione dell’intervento sarebbe stata poi preclusa dalla sopravvenienza del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) di Monza e della Brianza, che avrebbe reso l’area inedificabile.
Il ricorso proposto dalla Re.Im. Srl e dalla Pe.Re srl per l’annullamento della deliberazione del Consiglio provinciale della Provincia di Monza e della Brianza n. 16 del 10.07.2013, avente ad oggetto l’approvazione del Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Monza e della Brianza è stato dichiarato in parte improcedibile ed in parte respinto con la sentenza del Tar per la Lombardia, Sede di Milano, Sezione Seconda, 30.06.2017, n. 1474 e avverso tale sentenza non risulta proposto appello.
Pertanto –fermo quanto detto circa la particolare natura del sinallagma nel caso della presente convenzione, che la rende nel caso di specie insensibile alle predette parziali riduzioni della superficie edificata-
deve ritenersi che l’obbligazione di integrale pagamento degli oneri non si sia estinta neppure a seguito di una qualche forma di risoluzione, totale o parziale, della convenzione per impossibilità sopravvenuta dovuta a causa non imputabile ai sensi degli artt. 1463 o 1464 c.c., non essendo stata integrata alcuna di tali fattispecie risolutorie; parimenti è da escludere che si sia in presenza di un inadempimento della convenzione imputabile al Comune.
In proposito va ribadito che il PTCP della Provincia di Monza e della Brianza, come rilevato, è stato approvato ben oltre dieci anni dopo la stipula della convenzione in data 08.04.1998.
Di talché, l’impossibilità di eseguire per intero l’edificazione può essere imputata all’imprenditore, il quale, ai sensi del richiamato art. 4 della convenzione stessa ben avrebbe potuto e dovuto chiedere la concessione o le concessioni per tutti gli interventi nel termine di dieci anni originariamente previsto e completare tempestivamente la loro realizzazione (o eventualmente, per effetto, della proroga, realizzare tempestivamente tutte le opere a seguito dell’effettivo rilascio della prima concessione).
3. Per tutto quanto esposto, assorbite le ulteriori doglianze, l’appello proposto dal Comune di Bernareggio deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso proposto in primo grado dalla Re.Im. s.r.l. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.10.2019 n. 6561 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria condizionato alla realizzazione di interventi volti a eliminare gli abusi.
Un provvedimento di accertamento di conformità in sanatoria condizionato all’eliminazione degli abusi si palesa abnorme in quanto la previsione che l’immobile sia accertato conforme a condizione che in futuro siano eliminati gli abusi rilevati (nella fattispecie tra l’altro già accertati definitivamente con una sentenza) si pone in contrasto con la stessa natura dell’atto di accertamento di conformità.
Invero, la giurisprudenza ha chiarito che la sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 può essere rilasciata solo previa verifica della doppia conformità dell’intervento edilizio alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento abusivo, sia al momento della presentazione della domanda; essa presuppone quindi la già avvenuta esecuzione delle opere e il permesso di costruire in sanatoria non può pertanto essere subordinato alla realizzazione di ulteriori interventi, sia pur finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio: la conformità agli strumenti urbanistici deve già sussistere
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 2088 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
B.1 Venendo all’esame del primo ricorso per motivi aggiunti, diretto contro il provvedimento dei SUAP Associato Lomazzo prot. 1520 del 06.03.2017 (recante l’annullamento in autotutela del permesso di costruire in sanatoria prot. 7212 del 10.11.2015) e contro la conseguente ordinanza di demolizione del Comune di Cermenate n. 1/17 dell’11.04.2017, il motivo 6.a), con il quale la ricorrente fa valere vizi di illegittimità derivata dagli atti impugnati in via principale, è infondato in quanto quegli atti sono venuti meno e i nuovi provvedimenti si reggono su profili autonomi, oggetto delle doglianze che ora verranno esaminate.
B.2 Il motivo 6.b è infondato.
In primo luogo occorre precisare che
l’atto di autotutela impugnato ha per oggetto un provvedimento di accertamento di conformità in sanatoria condizionato all’eliminazione degli abusi.
L’atto annullato si palesa abnorme in quanto la previsione che l’immobile sia accertato conforme a condizione che in futuro siano eliminati gli abusi rilevati (e già accertati definitivamente con una sentenza) si pone in contrasto con la stessa natura dell’atto di accertamento di conformità.
Infatti la giurisprudenza ha chiarito che “la sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 può essere rilasciata solo previa verifica della doppia conformità dell’intervento edilizio, alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento abusivo, sia al momento della presentazione della domanda. Essa presuppone quindi la già avvenuta esecuzione delle opere. Il permesso di costruire in sanatoria non può pertanto essere subordinato alla realizzazione di ulteriori interventi, sia pur finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici o compatibili con il paesaggio: la conformità agli strumenti urbanistici deve già sussistere
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.11.2015 n. 1239; Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 15.10.2009, n. 941; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.11.2010, n. 7311; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.10.2014, n. 2523; 13.08.2015, n. 1900).
Si tratta quindi di un atto con sviamento dalla causa tipica e che correttamente l’Amministrazione comunale ha ritenuto di dover rimuovere in autotutela, in quanto non conforme allo schema legale tipico; il deposito, poi, da parte della ricorrente, di una perizia rivelatrice dell’impossibilità di demolizione delle opere abusive, successiva ad altri atti con i quali la ricorrente si era invece impegnata a demolire dette opere, è solo un motivo ulteriore che ha reso palese all’amministrazione che la ricorrente non aveva intenzione di ricondurre lo stato di fatto allo stato di diritto.
Neppure a tale atto di autotutela è possibile applicare le regole dettate dall'art. 15 del DPR 380/2001 per la dichiarazione di decadenza del permesso di costruire per mancata esecuzione dei lavori nei termini, in quanto
l’atto di accertamento di conformità non abbisogna, per sua natura, di termini di esecuzione dei lavori.
Venendo poi all’affermazione secondo la quale l’amministrazione avrebbe effettuato con il suddetto atto una nuova valutazione della situazione di fatto e di diritto dell’immobile tale da superare quanto stabilito nella sentenza del TAR Lombardia, Milano, sez. II 19/02/2015 n. 514, deve escludersi che questa sia stata l’intenzione dell’amministrazione, che nell’atto ribadisce più volte l’intenzione di dare esecuzione alla sentenza.
Per quanto riguarda le ulteriori contestazioni di merito relative alla legittimità della realizzazione del fabbricato posto sul mappale n. 651 e 829, occorre in linea generale precisare che il giudizio di impugnazione dell’atto di annullamento dell’accertamento di conformità e del conseguente ordine di demolizione, non può estendersi all’accertamento della legittimità o dell’idoneità del Permesso di Costruire a Sanatoria n. 2015- CER/104 del 10.11.2015 prot. n. 7212 annullato, a ripristinare la situazione quo ante, né tanto meno può essere utilizzato per contestare il provvedimento prot. n. 5782/2012 del 19.11.2012, con il quale è stata respinta la prima richiesta di accertamento di conformità e l’ordinanza di demolizione prot. n. 3688 del 22.02.2013 del Comune di Cermenate, ormai divenuti inoppugnabili. Osta a tale conclusione la natura impugnatoria del giudizio amministrativo ed il principio di autosufficienza dei motivi sulla base dei quali l’amministrazione ha adottato l’atto impugnato.
Così relativamente alle distanze legali tra le costruzioni e dalla strada, occorre precisare che la ricorrente intende conservare le “prescrizioni imposte dal titolo edilizio che, ora, si intende illegittimamente rimuovere”. In merito il profilo di impugnazione è inammissibile in quanto non è indicato alcuna ragione giuridica in base alla quale tali distanze debbano essere confermate.
Per quanto riguarda, invece, “la questione della fascia di rispetto stradale”, come dice la ricorrente, il motivo è inammissibile. Infatti il provvedimento impugnato si limita ad affermare che sussiste un interesse pubblico ad evitare “una riduzione della fascia di rispetto della strada”, mentre la ricorrente contesta la mancata applicazione dell’art. 6.3 delle NTA in una situazione specifica senza indicare di quale situazione si tratti e senza che l’atto contesti l’abuso. E’ intuibile che la ricorrente faccia riferimento ai vizi individuati negli atti precedenti che però sono ormai divenuti definitivi.
Anche la questione relativa all’insussistenza della dedotta violazione delle distanze legali ex art. 9 del DM LL.PP. 1444/1968 è inammissibile in quanto la questione dell’idoneità dell’arretramento della parete finestrata a rimuovere il vizio è superata dall’affermata impossibilità di demolizione per danno alla parte conforme, accertata dai tecnici della ricorrente.
A ciò si aggiunge che,
secondo l’orientamento di questo Tribunale in materia di distanze tra costruzioni (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26/06/2019 n. 1484), l’adozione di misure alternative alla demolizione al fine di ricondurre la situazione di fatto a quella di diritto si scontra con l’art. 36 del DPR 380/2001, il quale dispone che il permesso in sanatoria può essere ottenuto se l’intervento abusivo risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità). L’accertamento della doppia conformità costituisce quindi condicio sine qua non per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ex multis: Cons. Stato, VI, 02.01.2018, n. 2; 20.11.2017, n. 5327; 13.10.2017, n. 4759; 18.07.2016, n. 3194; Cons. Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
Per quanto riguarda poi il profilo della dedotta violazione del principio di proporzionalità nella sanzione, in quanto l’amministrazione vorrebbe “far demolire un intiero fabbricato per la quasi totalità regolare per il solo fatto che non sia tecnicamente possibile demolire la porzione irregolare”, occorre rammentare quanto stabilito dalla sentenza TAR Lombardia, Milano, sez. II 19/02/2015 n. 514 passata in giudicato.
La sentenza, al punto 42, afferma che "Per quanto concerne infine l’argomentazione che lamenta la mancata valutazione della possibilità di applicazione della sanzione pecuniaria, si rileva che, come detto sopra, il manufatto oggetto di causa è stato realizzato in totale assenza di titolo; e che, quindi, trova applicazione nel caso di specie l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale disciplina specificante il trattamento sanzionatorio riservato a questa tipologia di abusi, prevedendo, quale unica misura, la demolizione".
L’istanza redatta dalla ricorrente in data 07.10.2016 è supportata dalla perizia dell’ing. Vi. (doc. 7 e 8 della ricorrente) secondo la quale alla fattispecie è applicabile l’art. 34 del DPR 380/2001, relativo agli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, in quanto la rimozione delle strutture portanti verticali non permetterebbe alle travi che sorreggono le porzioni rimanenti delle solette di avere appoggio.
Tale tesi tuttavia si pone in contrasto con quanto già affermato dalla sentenza citata, che ha già espressamente specificato che l’abuso oggetto del giudizio rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 e non nell’art. 34 del medesimo corpo normativo, con la conseguenza che su tale questione si è già formato il giudicato esplicito che impedisce di riproporre la questione in un nuovo giudizio.
Alla stessa conclusione della sentenza, e ponendo essa a fondamento del suo ragionamento, è giunto il Comune di Cermenate nel parere pervenuto allo Sportello Unico di Lomazzo in data 16.11.2016 prot. 8237 (doc. 2 e 3 della ricorrente) il quale evidenzia come l’art. 34, c. 2, del DPR 380/2001 non sia applicabile alla diversa fattispecie di edificio realizzato in assenza di titolo abilitativo.
B.3 Anche il motivo 6c) è infondato.
Quanto all’esercizio del potere di autotutela, occorre precisare che il decorso di un certo tempo tra l’emanazione dell’atto di accertamento di conformità condizionato alla demolizione degli abusi, avvenuta in data 10.11.2015, ed il suo annullamento del 06/03/2017 è stato determinato anche dal fatto che la ricorrente prima si è impegnata a realizzare le demolizioni e poi ha dichiarato, con perizia depositata in data 31.01.2017, che la demolizione del capannone non poteva essere eseguita senza danno per la parte conforme.
Quindi il mutamento della posizione comunale e dello Sportello unico di Lomazzo è dipeso dalla modifica dell’atteggiamento della parte ricorrente la quale, chiamata a giustificare l’inadempimento ai termini delle demolizioni, ha sorprendentemente cambiato la sua posizione, rendendosi indisponibile all’eliminazione dell’abuso relativo alla distanza legale.
A ciò si aggiunge che, come chiarito nel ricorso per motivi aggiunti, l’istanza di accertamento di conformità presentata dalla ricorrente era volta proprio a superare gli effetti della pronuncia del TAR adito resa tra le parti.
Non è quindi possibile ritenere che sussista un affidamento meritevole di tutela nella ricorrente.
B.4 Anche il motivo 7.a), che ha per oggetto l'ordinanza comunale di demolizione n. 1/17 emanata a seguito dell’annullamento in autotutela dell’atto di accertamento di conformità in sanatoria condizionato, è infondato.
L'art. 2, comma 1, del DPR 160/2010 stabilisce, tra l'altro, che "è individuato il SUAP quale unico soggetto pubblico di riferimento territoriale per tutti i procedimenti che abbiano ad oggetto l'esercizio di attività produttive e di prestazione di servizi, e quelli relativi alle azioni di localizzazione, realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o riconversione, ampliamento o trasferimento, nonché cessazione o riattivazione delle suddette attività".
L'art. 4, poi, prevede che "i comuni possono esercitare le funzioni inerenti al SUAP in forma singola o associata tra loro" (comma 5), nonché "salva diversa disposizione dei comuni interessati e ferma restando l'unicità del canale di comunicazione telematico con le imprese da parte del SUAP, sono attribuite al SUAP le competenze dello sportello unico per l'edilizia produttiva" (comma 6).
La giurisprudenza (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 06.11.2009 n. 1585), seppur in epoca anteriore alla su indicata disciplina ma con considerazioni che appaiono comunque coerenti con la normativa in esame, ha chiarito che
la trasmissione della pratica al SUAP non implica recesso del Comune dalle proprie prerogative e responsabilità, giacché lo Sportello Unico non rappresenta un nuovo centro di competenze, ma, com’è noto, un modulo organizzativo e procedimentale composito, una sorta di “procedimento di procedimenti” nel quale confluiscono gli atti e gli adempimenti facenti capo a diverse competenze, e richiesti dalle norme in vigore perché l'insediamento produttivo possa legittimamente essere realizzato; in questo senso, quelli che erano, in precedenza, autonomi provvedimenti, ciascuno dei quali veniva adottato sulla base di un procedimento a sé stante, diventano “atti istruttori” al fine dell'adozione dell'unico provvedimento conclusivo, titolo per la realizzazione dell'intervento richiesto.
In sostanza
la legge attribuisce al SUAP una competenza ad adottare i provvedimenti di amministrazione attiva relativi alle imprese, realizzando un ufficio comune a più amministrazioni che costituisce un centro unico di riferimento per i titolari di impresa. Tra di essi rientra anche la cessazione dell’attività d’impresa, nel senso che lo sportello è il punto unico per la presentazione delle comunicazioni relative alla chiusura dell’impresa.
Negli atti relativi alla cessazione dell’attività, a differenza di quanto afferma la ricorrente, non rientra l’adozione di un provvedimento repressivo di abusi edilizi, trattandosi di un procedimento ad iniziativa d’ufficio, i cui effetti sull’attività economica sono del tutto eventuali ed indiretti.

EDILIZIA PRIVATACiò che viene sanzionato -nella misura massima di € 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed in quei particolari (e circoscritti) "edifici" specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che l’abuso sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della norma, non avendo la ricorrente provveduto alla demolizione dopo l’entrata in vigore della norma citata.
Per l’inconfigurabilità, in simili casi, di una violazione del principio di irretroattività delle norme che introducono misure sanzionatorie si è espresso di recente il Consiglio di Stato, assegnando rilievo decisivo alla circostanza che la mancata esecuzione dell’ordine di demolizione si collochi in epoca successiva all’entrata in vigore del menzionato art. 31, comma 4-bis.
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D. Con il terzo ricorso per motivi aggiunti la ricorrente ha impugnato l'ordinanza comunale n. 3 del 16.11.2017, notificata in data 17.11.2017, recante irrogazione di sanzione pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, del DPR 380/2001 nella misura massima pari ad € 20.000,00, e la delibera di giunta comunale n. 217 del 30.10.2017 recante approvazione dei criteri per la determinazione ed applicazione delle sanzioni ex art. 31, comma 4-bis, del DPR 380/2001.
Il motivo n. 11), di invalidità derivata è infondato a causa della reiezione di tutti i motivi precedenti.
Anche il motivo n. 12), secondo il quale la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis, del DPR 380/2001 non può essere applicata ad abusi realizzati prima dell'entrata in vigore della stessa, è infondato.
La giurisprudenza alla quale il Collegio si conforma (TAR Campania, Salerno, Sez. I n. 1045 del 06.07.2018) ha chiarito che ciò che viene sanzionato -nella misura massima di Euro 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed in quei particolari (e circoscritti) "edifici" specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che l’abuso sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della norma, non avendo la ricorrente provveduto alla demolizione dopo l’entrata in vigore della norma citata.
Per l’inconfigurabilità, in simili casi, di una violazione del principio di irretroattività delle norme che introducono misure sanzionatorie si è espresso di recente il Consiglio di Stato (Sez. VI, 16/04/2019 n. 2484), assegnando rilievo decisivo alla circostanza che la mancata esecuzione dell’ordine di demolizione si collochi in epoca successiva all’entrata in vigore del menzionato art. 31, comma 4-bis (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 2088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di acquisizione di opere abusive al patrimonio comunale ha come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione, con la conseguenza che, trattandosi di atto dovuto, lo stesso non è subordinato ad alcuna valutazione sulla compatibilità delle opere con gli interessi urbanistici e ambientali e sull'utilizzabilità delle stesse a fini pubblici, e risulta sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione.
Trattandosi di atto vincolato, di natura sanzionatoria, rientra nella competenza dirigenziale prevista dall’art. 107, c. 3, del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente: g) tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale.
In merito la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che “decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla notificazione dell'ordinanza di demolizione della costruzione abusiva, se l'inottemperanza non sia giustificata, si verifica automaticamente l'acquisizione al patrimonio del comune di tale costruzione, nonché dell'area di sedime e di quella ulteriore necessaria ai fini urbanistico-edilizi; la suddetta acquisizione al patrimonio del Comune, si precisa, è infatti atto dovuto sottoposto esclusivamente all'accertamento della volontaria inottemperanza e del decorso dei termini prescritti”.
L’esclusione della competenza consiliare si radica quindi nel fatto che l’acquisto è un effetto ex lege che sottrae tale tipo di acquisto alle scelte discrezionali fondamentali riservate al consiglio comunale dall’art. 42 del D.Lgs. 267/2000.
Ed infatti la giurisprudenza ha specificato che il provvedimento dirigenziale di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive nonché del terreno sottostante e circostante costituisce atto dichiarativo dell'intervenuta acquisizione ex lege in conseguenza dell'inutile decorso del termine fissato dall'art. 7 della l. n. 47 del 1985 al trasgressore per l'ottemperanza all'ingiunzione di demolizione.
Oltre alla natura dichiarativa dell’atto la giurisprudenza riconosce anche la natura sanzionatoria del medesimo atto. Infatti l'acquisizione gratuita al patrimonio del comune dell'area sulla quale insiste la costruzione abusiva non è una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, bensì costituisce una sanzione autonoma che consegue ad un duplice ordine di condotte, poste in essere da chi, dapprima esegue un'opera abusiva e, poi, non adempie all'obbligo di demolirla.
Né l’esistenza di un potere di determinare l'ulteriore area che può essere acquisita in quanto «necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive» (art. 31, c. 3, DPR 380/2001), può comportare il mutamento della natura dell’atto in considerazione della natura di accertamento tecnico della scelta da effettuare. L’acquisizione al patrimonio comunale degli immobili abusivi rientra quindi tra le competenze gestionali della dirigenza.
La competenza del consiglio comunale può radicarsi, invece, ai sensi dell’art. 31, c. 5, del DPR 380/2001, in un momento successivo in quanto, dopo l’adozione dell’ordinanza di demolizione e dell'ulteriore provvedimento sanzionatorio di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva, come conseguenza della mancata esecuzione dell'ordine di demolizione, residua l'eventualità che il Consiglio Comunale possa, con apposita delibera, escludere la demolizione dell'opera acquisita al patrimonio comunale (ravvisando l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al suo mantenimento e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici) e si configura quale alternativa all'ulteriore ordinanza di demolizione in danno delle opere abusive gratuitamente acquisite.
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E. Venendo all’esame del quarto ricorso per motivi aggiunti, con cui la ricorrente ha impugnato l’acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale e l’ordine di sgombero dei locali, il motivo n. 14), di invalidità derivata, è infondato, a seguito della reiezione dei precedenti motivi.
Il motivo n. 15), fondato sull’incompetenza del dirigente ad adottare un provvedimento di acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio comunale, è infondato.
Il provvedimento di acquisizione di opere abusive al patrimonio comunale ha come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione, con la conseguenza che, trattandosi di atto dovuto, lo stesso non è subordinato ad alcuna valutazione sulla compatibilità delle opere con gli interessi urbanistici e ambientali e sull'utilizzabilità delle stesse a fini pubblici, e risulta sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione.
Trattandosi di atto vincolato, di natura sanzionatoria, rientra nella competenza dirigenziale prevista dall’art. 107, c. 3, del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente: g) tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale.
In merito la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. V 26.01.2000, n. 341) ha chiarito che “decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla notificazione dell'ordinanza di demolizione della costruzione abusiva, se l'inottemperanza non sia giustificata, si verifica automaticamente l'acquisizione al patrimonio del comune di tale costruzione, nonché dell'area di sedime e di quella ulteriore necessaria ai fini urbanistico-edilizi; la suddetta acquisizione al patrimonio del Comune, si precisa, è infatti atto dovuto sottoposto esclusivamente all'accertamento della volontaria inottemperanza e del decorso dei termini prescritti” (Sez. V, 23.01.1991, n. 66; cfr. anche Sez. V, 20.04.1994, n. 333).
L’esclusione della competenza consiliare si radica quindi nel fatto che l’acquisto è un effetto ex lege che sottrae tale tipo di acquisto alle scelte discrezionali fondamentali riservate al consiglio comunale dall’art. 42 del D.Lgs. 267/2000.
Ed infatti la giurisprudenza ha specificato che il provvedimento dirigenziale di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive nonché del terreno sottostante e circostante costituisce atto dichiarativo dell'intervenuta acquisizione ex lege in conseguenza dell'inutile decorso del termine fissato dall'art. 7 della l. n. 47 del 1985 al trasgressore per l'ottemperanza all'ingiunzione di demolizione (TAR Sicilia, Palermo, III, 02/08/2018 n. 1745; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 04.06.2012, n. 4610).
Oltre alla natura dichiarativa dell’atto la giurisprudenza riconosce anche la natura sanzionatoria del medesimo atto. Infatti l'acquisizione gratuita al patrimonio del comune dell'area sulla quale insiste la costruzione abusiva non è una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, bensì costituisce una sanzione autonoma che consegue ad un duplice ordine di condotte, poste in essere da chi, dapprima esegue un'opera abusiva e, poi, non adempie all'obbligo di demolirla.
Né l’esistenza di un potere di determinare l'ulteriore area che può essere acquisita in quanto «necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive» (art. 31, c. 3, DPR 380/2001), può comportare il mutamento della natura dell’atto in considerazione della natura di accertamento tecnico della scelta da effettuare. L’acquisizione al patrimonio comunale degli immobili abusivi rientra quindi tra le competenze gestionali della dirigenza.
La competenza del consiglio comunale può radicarsi, invece, ai sensi dell’art. 31, c. 5, del DPR 380/2001, in un momento successivo in quanto, dopo l’adozione dell’ordinanza di demolizione e dell'ulteriore provvedimento sanzionatorio di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva, come conseguenza della mancata esecuzione dell'ordine di demolizione, residua l'eventualità che il Consiglio Comunale possa, con apposita delibera, escludere la demolizione dell'opera acquisita al patrimonio comunale (ravvisando l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al suo mantenimento e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici) e si configura quale alternativa all'ulteriore ordinanza di demolizione in danno delle opere abusive gratuitamente acquisite (cfr., ex multis, Tar Campania, Napoli, IV, 23/05/2019 n. 2758) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 2088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Disciplina applicabile per la determinazione del contributo di concessione e della monetizzazione degli standard.
Il contributo di concessione va determinato con riferimento alla disciplina, legislativa e regolamentare, vigente al momento del rilascio del titolo edilizio, che segna il perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda della tipologia di titolo edilizio).
La rideterminazione del contributo di costruzione può effettuarsi solo in caso di errore di calcolo rispetto al contributo dovuto in base alla situazione di fatto e alla disciplina vigente al tempo del rilascio del titolo; principio valevole anche in caso di monetizzazione di standard, in quanto la fonte dell’obbligazione è comunque costituita dal provvedimento assentivo dell’intervento, sia esso un atto espresso del Comune o un atto privato rispetto al quale l’Amministrazione non esercita alcun potere inibitorio.
A non diversa conclusione può condurre la ritenuta applicazione delle nuove disposizioni del P.G.T. operante in regime di salvaguardia; infatti, occorre considerare che la normativa relativa alle misure di salvaguardia ha lo scopo di evitare la realizzazione di interventi che nelle more dell'approvazione degli strumenti urbanistici adottati possono compromettere l'assetto del territorio programmato dal Comune, vanificandone la sua concreta attuazione e, proprio per ovviare a tali inconvenienti, la legge ha stabilito che a decorrere dalla data della deliberazione di adozione dei piani regolatori generali e fino all'emanazione del decreto di approvazione il dirigente dell'ufficio comunale sia obbligato a sospendere ogni determinazione in ordine ai progetti che risultino in contrasto con le relative previsioni.
Le misure di salvaguardia sono, quindi, unicamente finalizzate ad evitare l’immediata realizzazione di interventi che ledano le scelte programmatorie del Comune quali risultanti dall’adozione del nuovo piano, ma non si traducono in una applicazione anticipata delle previsioni contenute in quest’ultimo; in particolare, ove l’intervento risulti in sé legittimo e, come tale, si sottragga alla preclusione temporanea di cui all’articolo 12, comma 3, del D.P.R. 380/2001, non può neppure configurarsi la ratio sottesa alle misure di salvaguardia al solo fine di dare attuazione anticipata alle diverse regole in tema di determinazione degli standards e quantificazione del contributo di costruzione
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Il contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione per le opere oggetto di una concessione in variante dev’essere calcolato sommando le opere dei due titoli edilizi assentiti (concessione originaria e variante), scomputando quanto già pagato al momento del rilascio del titolo originario.
Per la concessione in variante, però, la quota percentuale della parte del contributo commisurato al costo di costruzione delle opere ad essa riferite deve essere calcolata con riferimento alle norme vigenti al momento del rilascio della variante stessa e, come detto, limitatamente alle opere che ne costituiscono oggetto, escludendo cioè quelle già considerate (e quantificate) al momento del rilascio della concessione originaria.
Con la concessione in variante il Comune deve quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il corrispondente contributo non in relazione all'intero complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo parametro vigente al momento del rilascio del titolo in variante.
Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già versata dalla società ricorrente.
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MASSIMA
11. In relazione al secondo motivo di ricorso vanno richiamati, in primo luogo, i principi posti a sostegno dell’ordinanza cautelare n. 1325/2018. Punto d’abbrivio per la disamina del motivo è, infatti, il consolidato principio secondo cui “il contributo di concessione va determinato con riferimento alla disciplina, legislativa e regolamentare, vigente al momento del rilascio del titolo edilizio, che segna il perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda della tipologia di titolo edilizio)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2015, n. 2294; nello stesso senso, ex plurimis: Id., Sez. IV, 07.06.2012, n. 3379; Id., Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; Id, Sez. V, 13.06.2003, n. 3332; v., inoltre, nella giurisprudenza della Sezione, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 31.08.2018, n. 2039).
La rideterminazione del contributo di costruzione può effettuarsi solo in caso di errore di calcolo rispetto al contributo dovuto in base alla situazione di fatto e alla disciplina vigente al tempo del rilascio del titolo (cfr., Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.06.2017, n. 2821).
Principio valevole anche in caso di monetizzazione di standards, in quanto la fonte dell’obbligazione è comunque costituita dal provvedimento assentivo dell’intervento, sia esso un atto espresso del Comune o un atto privato rispetto al quale l’Amministrazione non esercita alcun potere inibitorio. Aspetto che, pertanto, rende indifferente ai fini in esame la differente natura di tale pretesa rispetto a quella relativa al costo di costruzione (cfr., Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.12.2012, nn. 6706, 6707 e 6708, nonché l’ulteriore giurisprudenza richiamata nell’ordinanza cautelare n. 1325/2018 della Sezione).
11.1. Secondo l’elaborazione effettuata al precedente punto la quantificazione degli standards deve, quindi, determinarsi in ragione della normativa vigente all’epoca della formazione dell’effettivo titolo che costituisce la fonte o il presupposto di tale obbligazione. Inoltre, a non diversa conclusione può condurre la ritenuta applicazione delle nuove disposizioni del P.G.T. operante in regime di salvaguardia; infatti, occorre considerare che “la normativa relativa alle misure di salvaguardia ha lo scopo di evitare la realizzazione di interventi che nelle more dell'approvazione degli strumenti urbanistici adottati possono compromettere l'assetto del territorio programmato dal Comune, vanificandone la sua concreta attuazione e […], proprio per ovviare a tali inconvenienti, la legge ha stabilito che a decorrere dalla data della deliberazione di adozione dei piani regolatori generali e fino all'emanazione del decreto di approvazione il dirigente dell'ufficio comunale sia obbligato a sospendere ogni determinazione in ordine ai progetti che risultino in contrasto con le relative previsioni” (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.01.2014, n. 257).
Le misure di salvaguardia sono, quindi, unicamente finalizzate ad evitare l’immediata realizzazione di interventi che ledano le scelte programmatorie del Comune quali risultanti dall’adozione del nuovo piano, ma non si traducono in una applicazione anticipata delle previsioni contenute in quest’ultimo.
In particolare, ove l’intervento risulti in sé legittimo e, come tale, si sottragga alla preclusione temporanea di cui all’articolo 12, comma 3, del D.P.R. 380/2001, non può neppure configurarsi la ratio sottesa alle misure di salvaguardia al solo fine di dare attuazione anticipata alle diverse regole in tema di determinazione degli standards e quantificazione del contributo di costruzione.
11.3. Declinando i principi esposti al caso all’attenzione del Collegio si osserva che la pretesa comunale si riferisce ad un complesso intervento attuato in forza di una pluralità di titoli edilizi.
In particolare, secondo l’Amministrazione comunale, “l’operatore, con le d.i.a. in variante essenziale, ed in particolare con l’ultima d.i.a. del 2014, [apporta] modifiche progettuali incidenti sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, con modifica dei prospetti, (pag. 2 d.i.a.; relazione tecnica progettista all. doc. 9); tale variante essenziale comporta il ricalcolo del contributo concessorio. L’intervento edilizio, da ultimo legittimato con d.i.a. 2014, risulta dunque soggetto alle disposizioni del PGT, adottato in data 14.07.2010 ed entrato in vigore dal 21.11.2012” (foglio 4 della memoria conclusiva del comune di Milano).
11.3.1. La prospettazione comunale non è, tuttavia, condivisibile.
Gli interventi legittimati con le denunce di inizio attività del 29.03.2011 e del 25.05.2012 risultano, infatti, assoggettate alla previgente disciplina operante sul territorio comunale e non alle disposizioni del nuovo P.G.T., adottato in data 14.07.2010 ed entrato in vigore dal 21.11.2012. Come spiegato in precedenza, le nuove disposizioni non operano retroattivamente né simili regole possono qualificarsi come misure di salvaguardia per le ragioni esposte al punto 11.2 della presente sentenza a cui si rinvia.
11.3.2. Un diverso discorso vale per gli interventi realizzati in forza della denunce di inizio attività del 30.11.2012 e del 04.08.2014, trattandosi di titoli formatisi dopo l’entrata in vigore dello strumento urbanistico. Tale circostanza non comporta, tuttavia, l’applicazione della previsione di cui all’articolo 9.1.1. del P.G.T. all’insieme delle opere realizzate anche in forza di titoli precedenti all’entrata in vigore dello strumento urbanistico. Diversamente opinando, si determinerebbe l’applicazione di una nuova e diversa normativa per un intervento regolato da una cornice diversa.
In tale situazione, opera, al contrario, il principio affermato dalla sentenza del TAR per il Molise, sez. I, 05.03.2018, n. 118 (richiamata, in memoria difensiva finale, anche da parte ricorrente), secondo cui “il contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione per le opere oggetto di una concessione in variante dev’essere calcolato sommando le opere dei due titoli edilizi assentiti (concessione originaria e variante), scomputando quanto già pagato al momento del rilascio del titolo originario. Per la concessione in variante, però, la quota percentuale della parte del contributo commisurato al costo di costruzione delle opere ad essa riferite deve essere calcolata con riferimento alle norme vigenti al momento del rilascio della variante stessa e, come detto, limitatamente alle opere che ne costituiscono oggetto, escludendo cioè quelle già considerate (e quantificate) al momento del rilascio della concessione originaria. Con la concessione in variante il Comune deve quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il corrispondente contributo non in relazione all'intero complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo parametro vigente al momento del rilascio del titolo in variante. Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già versata dalla società ricorrente” (cfr., inoltre, TAR per la Sardegna, sez. II, 28.11.2013, n. 780).
Ne consegue che l’eventuale pretesa comunale può fondarsi solo sui nuovi titoli e sull’incidenza delle opere con essi assentite senza effettuare alcun computo complessivo delle opere (e di conseguenza delle somme ritenute dovute).
In ragione di quanto esposto, il provvedimento comunale deve essere annullato, fatte salve le ulteriori eventuali determinazioni dell’Amministrazione da effettuarsi nel rispetto dei principi affermati dalla presente sentenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 2085 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn ordine alla legittimazione ad impugnare il silenzio serbato dal Comune sull'istanza presentata volta ad ottenere l'attuazione degli obblighi previsti dalla convenzione di lottizzazione stipulata, sul piano generale è sufficiente rilevare che:
   “a) gli accordi di lottizzazione convenzionata rivestono una finalità pubblica, in quanto strumento regolativo dell’ordinato assetto urbanistico del territorio in funzione dell’interesse della collettività;
   b) non può pertanto essere attribuita alla convenzione di lottizzazione il solo obiettivo di regolamentazione meramente privatistica di interessi riservata esclusivamente alle parti della convenzione, rilevando in senso contrario il preminente interesse al governo del territorio che tramite essa viene perseguito;
   c) da ciò ne consegue che i soggetti residenti nelle aree del territorio comunale coinvolte dagli accordi convenzionali, pur essendo terzi rispetto alla convenzione, possono vantare una qualificata pretesa soggettiva, individuabile più propriamente nella situazione giuridica dell’interesse legittimo, all’osservanza da parte dell’autorità comunale degli obblighi di realizzazione e di gestione delle opere pubbliche previste dalla convenzione di lottizzazione;
   d) pertanto, in linea di principio anche il singolo proprietario è ben legittimato a veder garantita l’attuazione delle previsioni delle convenzioni concluse in materia di lottizzazione, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150”.
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... per l'annullamento per la dichiarazione di illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Reggello sull'istanza presentata da At.Fo. in data 14.05.2018 volta ad ottenere l'attuazione degli obblighi previsti dalla convenzione di lottizzazione stipulata in data 27.07.2004 e per l'accertamento dell'obbligo del Comune di Reggello di provvedere all'esercizio dei diritti e dei poteri derivanti dalla predetta convenzione nonché di quelli aventi ad oggetto la repressione degli abusi realizzati dagli attuatori della predetta convenzione.
...
1- I Sigg. Fo. e Mo. hanno proposto ricorso avverso il silenzio serbato dal Comune di Reggello sulla loro istanza volta ad ottenere l’attuazione degli obblighi previsti dalla convenzione di lottizzazione stipulata tra il predetto Comune e l’Im.Ma. & Fi. S.r.l.
Nelle more del giudizio, il Comune ha provveduto sull’istanza, dal che consegue la declaratoria di improcedibilità del ricorso (come richiesto dagli stessi ricorrenti i quali hanno anche domandato che siano loro liquidate le spese di giudizio).
A tale richiesta si è opposta la difesa del Comune di Reggello, che ha domandato la compensazione delle spese di lite.
Il Collegio è dunque chiamato ad accertare la c.d. soccombenza virtuale al fine di decidere in ordine alle spese.
2 – Il ricorso è fondato alla luce delle considerazioni che seguono.
In ordine alla legittimazione dei ricorrenti ad impugnare il silenzio serbato dal Comune, negata dalla difesa comunale, sul piano generale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 09.01.2019 n. 199), è sufficiente rilevare che:
   “a) gli accordi di lottizzazione convenzionata rivestono una finalità pubblica, in quanto strumento regolativo dell’ordinato assetto urbanistico del territorio in funzione dell’interesse della collettività;
   b) non può pertanto essere attribuita alla convenzione di lottizzazione il solo obiettivo di regolamentazione meramente privatistica di interessi riservata esclusivamente alle parti della convenzione, rilevando in senso contrario il preminente interesse al governo del territorio che tramite essa viene perseguito;
   c) da ciò ne consegue che i soggetti residenti nelle aree del territorio comunale coinvolte dagli accordi convenzionali, pur essendo terzi rispetto alla convenzione, possono vantare una qualificata pretesa soggettiva, individuabile più propriamente nella situazione giuridica dell’interesse legittimo, all’osservanza da parte dell’autorità comunale degli obblighi di realizzazione e di gestione delle opere pubbliche previste dalla convenzione di lottizzazione;
   d) pertanto, in linea di principio anche il singolo proprietario è ben legittimato a veder garantita l’attuazione delle previsioni delle convenzioni concluse in materia di lottizzazione, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150
”.
Al caso in esame non si attaglia la giurisprudenza, invocata dalla difesa comunale, secondo cui gli acquirenti dei lotti, non essendo parti della convenzione, non possono vantare pretese derivanti dal regolamento contrattuale (cfr. TAR Toscana, I, n. 156472018).
Nella fattispecie in esame, rilevano invece i seguenti elementi:
   a) come emerge dalla planimetria allegata alla convenzione di lottizzazione di cui trattasi, l’intervento di urbanizzazione interessava una strada poderale per metà di proprietà dei ricorrenti;
   b) come risulta dalla C.T.U. resa nel contenzioso civile promosso dai ricorrenti nei confronti della ditta lottizzante (cfr. doc. 6), non solo il previsto allargamento stradale non è stato realizzato ma il manufatto costruito non rispetta la distanza di 5 metri dal confine della proprietà dei ricorrenti;
   c) l’istanza presentata al Comune è motivata anche con riferimento alle esigenze di tutela dell’igiene e della salute dei residenti sull’area interessata (che sarebbero state compromesse dalla mancata attuazione delle opere previste in convenzione), come già segnalato al Comune dall’A.S.L. di Firenze (cfr. doc. 7-9).
Nel contesto sopra descritto, anche alla luce della recente giurisprudenza sopra citata, non sembra possibile negare ai ricorrenti la qualità di portatori di un interesse qualificato e differenziato, tale da legittimarli ad impugnare il silenzio mantenuto dal Comune sull’istanza volta a chiedere l’attuazione degli obblighi previsti dalla convenzione.
Nel merito, il ricorso è certamente fondato, sussistendo l’obbligo del Comune, quanto meno, a determinarsi espressamente sulle richieste avanzate nella predetta istanza, salva la discrezionalità nel definire le concrete misure da adottare. Né vale opporre che il Comune si è comunque determinato con la nota del 27.06.2019, il che ha solo determinato l’improcedibilità del ricorso, anteriormente proposto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 01.10.2019 n. 1304 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

LAVORI PUBBLICIAvvalimento della certificazione SOA.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Avvalimento certificazione S.O.A. - Specifica indicazione dei mezzi – Necessità.
Anche nel caso di avvalimento concernente la certificazione S.O.A. è necessaria la specifica indicazione dei mezzi, compresi tra quelli che hanno consentito all'ausiliaria di ottenere la certificazione, messi a disposizione dell'impresa ausiliata (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che l’attestazione S.O.A., il cui possesso è ammesso possa anche integrarsi per relationem ricorrendo all’istituto dell’avvalimento, non si connota (solo) quale requisito di ordine economico-finanziario. Ai sensi dell’art. 84, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016 le attestazioni rilasciate dagli appositi organismi autorizzati dall’ANAC, infatti, non provano unicamente il possesso dei requisiti di qualificazione di cui al comma 1, lett. b) (capacità economica e finanziaria) dell’art. 83, d.lgs. n. 50 del 2016, ma si riferiscono anche alle capacità tecniche e professionali della lettera c) del comma 1 del medesimo articolo.
Se da un lato la qualificazione dell’avvalimento come di mera garanzia, quindi non comportante l’obbligo di specificazione nel relativo contratto delle risorse messe a disposizione, deve essere esclusa, dall’altro va in ogni caso rilevato che l’indicazione dei mezzi aziendali messi a disposizione per l’esecuzione dell’appalto è necessaria a pena di esclusione anche se l’avvalimento riguarda l’attestazione SOA, che pure viene rilasciata previa verifica della complessiva capacità tecnico–organizzativa ed economico–finanziaria dell’impresa (C.d.S., V, n. 4973/2017; n. 2316/2017; n. 2226/2017; n. 852/2017; n. 2384/2016; n. 264/2016).
In sostanza, il possesso da parte dell’impresa ausiliaria dell’attestazione S.O.A. non accompagnato da un contratto che indichi specificamente quali mezzi e risorse vengono messi a disposizione dell’ausiliata non consente che la stazione appaltante possa confidare su un impegno contrattuale certo e vincolante per le proprie aspettative di buona esecuzione del servizio. In altre parole, l'avvalimento di attestazione in questione non può risolversi in un prestito meramente cartolare e astratto del requisito di partecipazione, ma deve essere soddisfatto concretamente e con specificazioni controllabili dalla stazione appaltante.
Questa conclusione si pone in coerente continuità con il criterio direttivo che ha ispirato la previsione dell’ultimo periodo dell’art. 89, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, enunciato quanto all’istituto dell’avvalimento dalla direttiva europea n. 2014/24/UE sulle procedure di affidamento degli appalti nei settori ordinari (art. 1, comma 1, lett. zz) secondo cui l’istituto in questione deve essere disciplinato “nel rispetto dei princìpi dell’Unione europea e di quelli desumibili dalla giurisprudenza amministrativa in materia, imponendo che il contratto di avvalimento indichi nel dettaglio le risorse e i mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui l’oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara, e rafforzando gli strumenti di verifica circa l’effettivo possesso dei requisiti e delle risorse oggetto di avvalimento da parte dell’impresa ausiliaria nonché circa l’effettivo impiego delle risorse medesime nell’esecuzione dell’appalto (…)” (TRGA Trentino Alto Adige, sentenza 01.10.2019 n. 121 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
III) Ciò premesso, il thema decidendum della controversia, focalizzato nel primo motivo, attiene essenzialmente al contenuto che deve assumere un contratto di avvalimento riguardante il possesso del requisito dell’attestazione S.O.A. In particolare la materia del contendere ha riguardo alla sussistenza di un obbligo legale di indicare espressamente, in modo determinato e specifico, le risorse e i mezzi oggetto di prestito in un contratto di avvalimento a mezzo del quale l’impresa ausiliaria mette a disposizione dell’impresa avvalente il requisito dell’attestazione S.O.A.
Nella fattispecie in esame non assume peraltro la rilevanza pretesa dall’amministrazione resistente e dall’aggiudicataria la distinzione, riconosciuta dalla giurisprudenza (ex multis: C.d.S., sez. V, n. 6693/2018; n. 1216/2018) tra avvalimento cosiddetto di garanzia, che ha ad oggetto i requisiti di carattere economico-finanziario e, in particolare, il fatturato globale o specifico e che ricorre nel caso in cui l’ausiliaria metta a disposizione dell’ausiliata la propria solidità economica e finanziaria, e avvalimento definito tecnico od operativo, che ha ad oggetto i requisiti di capacità tecnico-professionale e che ricorre nel caso in cui l’ausiliaria si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata le proprie risorse tecnico-organizzative indispensabili per l’esecuzione del contratto di appalto.
E’ ben vero che l’avvalimento di garanzia non comporta che il relativo contratto si riferisca “alla messa a disposizione di beni da descrivere ed individuare con precisione, ma è sufficiente che dalla ridetta dichiarazione emerga l’impegno contrattuale a prestare ed a mettere a disposizione dell’ausiliata la complessiva solidità finanziaria ed il patrimonio esperienziale” diversamente dall’avvalimento tecnico od operativo rispetto al quale “sussiste sempre l’esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di risorse determinate: onde è imposto alle parti di indicare con precisione i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto”.
Tuttavia l’attestazione S.O.A., richiesta dal punto 2.2, lett. B) del bando di gara e il cui possesso è ammesso possa anche integrarsi per relationem ricorrendo all’istituto dell’avvalimento, non si connota (solo) quale requisito di ordine economico-finanziario. Ai sensi dell’art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016 le attestazioni rilasciate dagli appositi organismi autorizzati dall’ANAC, infatti, non provano unicamente il possesso dei requisiti di qualificazione di cui al comma 1, lettera b) (capacità economica e finanziaria) dell’art. 83 del d.lgs. n. 50/2016, ma si riferiscono anche alle capacità tecniche e professionali della lettera c) del comma 1 del medesimo articolo.
Va, quindi, confutata la ricostruzione, proposta dall’amministrazione resistente e dalla controinteressata, tendente a sostenere che, nel caso di specie, in ragione delle caratteristiche delle lavorazioni oggetto dell’appalto e delle risorse in concreto possedute dall’aggiudicataria, si tratterebbe in realtà soltanto di un avvalimento di (mera) garanzia, che come tale non implica la specificazione delle risorse messe a disposizione.
Il ragionamento finisce per cozzare irrimediabilmente con il sistema unico di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici, che non tollera deroghe in relazione ai singoli casi concreti, stabilito dal citato art. 84 secondo cui i requisiti di qualificazione per la partecipazione ad una gara sono provati dalle attestazioni SOA le quali, come si è detto, riguardano sia la capacità economica e finanziaria sia le capacità tecniche e professionali. La stessa lex specialis, del resto, quanto ai requisiti di qualificazione/partecipazione, ha prescritto, nella fattispecie in esame, il possesso, anche per relationem, dell’attestazione SOA in categoria OG3 senza ammettere modalità alternative né con riferimento al profilo economico e finanziario, né a quello tecnico e professionale.
Se da un lato la qualificazione dell’avvalimento in questione come di mera garanzia, quindi non comportante l’obbligo di specificazione nel relativo contratto delle risorse messe a disposizione, deve essere esclusa, dall’altro va in ogni caso rilevato che l’indicazione dei mezzi aziendali messi a disposizione per l’esecuzione dell’appalto è necessaria a pena di esclusione anche se l’avvalimento riguarda l’attestazione SOA, che pure viene rilasciata previa verifica della complessiva capacità tecnico–organizzativa ed economico–finanziaria dell’impresa (C.d.S., V, n. 4973/2017; n. 2316/2017; n. 2226/2017; n. 852/2017; n. 2384/2016; n. 264/2016).
In sostanza, il possesso da parte dell’impresa ausiliaria dell’attestazione SOA non accompagnato da un contratto che indichi specificamente quali mezzi e risorse vengono messi a disposizione dell’ausiliata non consente che la stazione appaltante possa confidare su un impegno contrattuale certo e vincolante per le proprie aspettative di buona esecuzione del servizio. In altre parole, l'avvalimento di attestazione in questione non può risolversi in un prestito meramente cartolare e astratto del requisito di partecipazione, ma deve essere soddisfatto concretamente e con specificazioni controllabili dalla stazione appaltante.
Questa conclusione si pone in coerente continuità con il criterio direttivo che ha ispirato la previsione dell’ultimo periodo dell’art. 89, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, enunciato quanto all’istituto dell’avvalimento dalla direttiva europea n. 2014/24/UE sulle procedure di affidamento degli appalti nei settori ordinari (art. 1, comma 1, lett. zz) secondo cui l’istituto in questione deve essere disciplinato “nel rispetto dei princìpi dell’Unione europea e di quelli desumibili dalla giurisprudenza amministrativa in materia, imponendo che il contratto di avvalimento indichi nel dettaglio le risorse e i mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui l’oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara, e rafforzando gli strumenti di verifica circa l’effettivo possesso dei requisiti e delle risorse oggetto di avvalimento da parte dell’impresa ausiliaria nonché circa l’effettivo impiego delle risorse medesime nell’esecuzione dell’appalto (…)”.
Non giova alla amministrazione neppure il riferimento alla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 23 del 04.11.2016, tra l’altro precedente all’introduzione dell’ultimo periodo dell’art. 89, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, secondo la quale non si configura la nullità del contratto di avvalimento nel caso in cui una parte dell’oggetto, pur non essendo puntualmente determinato sia “agevolmente determinabile dal tenore complessivo del documento”. Nella fattispecie in esame rileva che non solo una parte ma l’intero oggetto del contratto non sia “agevolmente determinabile”, visto che il “documento” non individua in alcun modo risorse e attrezzature messe a disposizione.
Il contratto di avvalimento stipulato dall’aggiudicataria è, quindi, irrimediabilmente inidoneo ad attribuirle il requisito dell’attestazione S.O.A. riferita alla categoria prevalente OG3 di cui è priva, non inducendo a diversa conclusione, come si è visto, neppure le argomentazioni difensive circa la capacità in proprio, in concreto asseritamente più che adeguata, posseduta per l’esecuzione del tipo di appalto in esame. Si tratta, infatti, di una mera circostanza di fatto che, dovendo il requisito di qualificazione essere provato dall’attestazione SOA, di per sé non vale ad escludere l’obbligo di determinare, ove oggetto di avvalimento, le risorse e i mezzi oggetto di prestito.
L’inadeguatezza del contratto di avvalimento prodotto in gara dalla società Da D. rispetto alle previsioni dell’art. 89, comma 1, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 neppure risulta sanabile mediante l’invocato soccorso istruttorio processuale. A tacere del fatto che, in realtà, diversamente da quanto ritenuto dall’amministrazione, la documentazione versata in sede processuale dall’aggiudicataria non vale ad integrare quanto inadeguatamente prodotto in sede di gara, in ogni caso la limitazione del soccorso istruttorio nel corso della procedura di gara ai casi di mancata presentazione o sottoscrizione del contratto di avvalimento prevista dalla lex specialis impedisce di utilizzare il rimedio in sede processuale con riferimento ad un contratto di avvalimento carente.

EDILIZIA PRIVATAOpposizione alla decisione assunta in sede di conferenza di servizi dalle Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità.
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Conferenza di servizi – Dissenso - Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità - Individuazione.
Le Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini cui è riservata l’opposizione in sede di Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 14-quinquies, l. n. 241 del 1990, devono identificarsi –anche alla luce del combinato disposto degli artt. 14-quinquies e 17, comma 2, della stessa l. n. 241 del 1990- in quelle amministrazioni alle quali norme speciali attribuiscono una competenza diretta, prevalentemente di natura tecnico-scientifica, e ordinaria ad esprimersi attraverso pareri o atti di assenso comunque denominati a tutela dei suddetti interessi così detti “sensibili”, e tale attribuzione non si rinviene, di regola e in linea generale, nelle competenze comunali di cui all’art. 13, d.lgs. n. 267 del 2000, né tra le competenze in campo sanitario demandate al Sindaco e al Comune dal testo unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934, né tra le altre funzioni fondamentali (proprie o storiche) dei Comuni, fatta salva, comunque, la necessità di una verifica puntuale, da condursi caso per caso, della insussistenza di norme speciali, statali o regionali che, anche in via di delega, attribuiscano siffatte funzioni all’ente comunale (1).
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   (1) La Sezione ha affermato la tesi che esclude la “legittimazione” dei Comuni, che abbiano manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi, a sollevare opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies, l. n. 241 del 1990 a tutela di interessi così detti “sensibili”.
E ciò essenzialmente perché un siffatto potere non può rinvenire un suo adeguato fondamento attributivo nella generale competenza del Comune, quale ente esponenziale della collettività rappresentata, a “tutelare” tutti gli interessi ad essa facenti capo, essendo invece necessaria, come si evince dalla lettera stessa della disposizione, un’apposita “preposizione”, con norma speciale, all’esercizio di funzioni, eminentemente tecnico-scientifiche (art. 17, comma 2, l. n. 241 del 1990), di tutela di quegli interessi “sensibili”, preposizione che, riguardo ai Comuni, di regola non si rinviene nella legislazione di settore che provvede alla allocazione delle funzioni amministrative ai sensi dell’art. 118 Cost..
Tuttavia, anche in considerazione del non infrequente ricorso, in specie nella legislazione regionale in materia ambientale, a ciò abilitata dalla legge nazionale, a forme di delega di funzioni di tutela agli enti locali e, in taluni casi, tra questi, anche ai Comuni, non appare possibile enunciare in questa sede una conclusione in termini assoluti, valida una per volta per tutte e per tutti i casi applicativi, che neghi in radice e a priori un siffatto potere di opposizione comunale, potere che potrebbe invece ravvisarsi come sussistente allorquando la pertinente legislazione speciale di settore, statale e, soprattutto, regionale, abbia attribuito o delegato talune competenze (propriamente) di tutela ambientale ai Comuni.
Alla luce di questa impostazione interpretativa, dunque, codesta Presidenza dovrà, ogni qual volta pervenga un’opposizione comunale ex art. 14-quinquies, al fine di poter motivatamente escludere la legittimazione comunale e dichiarare inammissibile l’opposizione, operare un’attenta analisi specifica della disciplina di settore applicabile, alla luce delle coordinate ermeneutiche qui elaborate.
Ha poi affermato la sezione che la “preposizione” di un ente pubblico (o di organi e uffici di pubbliche amministrazioni) alla cura (più nello specifico alla “tutela”) di determinati beni-interessi pubblici richieda un’attribuzione specifica di competenza mediante norme speciali di settore, e dunque debba distinguersi dalla generale competenza, riconosciuta per tradizionale assunto dottrinario ai Comuni in quanto enti storicamente preesistenti allo stesso ordinamento costituzionale vigente, di una generale “rappresentanza” esponenziale di tutti gli interessi riconducibili alla collettività organizzata nel rispettivo ambito territoriale, rappresentanza che trova fondamento, dunque, non già e non necessariamente in specifici riconoscimenti normativi, ma trae origine dalla natura stessa dell’ente locale, e che tuttavia recede di fronte a specifiche attribuzioni di competenze settoriali fondate su norme speciali.
Una traccia normativa ulteriore che corrobora questa impostazione può rinvenirsi nella generale previsione dell’art. 17, l. n. 241 del 1990, che distingue e qualifica in termini “
forti”, rispetto all'ordinaria attività consultiva, le valutazioni tecniche di organi od enti appositi, ove richieste per disposizione espressa di legge o di regolamento per l'adozione di un provvedimento, valutazioni qualificate dalla legge (comma 2) non superabili e imprescindibili nel procedimento nel caso in cui debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.
Questa previsione, relativa ai pareri “qualificati” di amministrazioni “tecniche”, presenta, sotto il profilo soggettivo, un’area di parziale sovrapponibilità a quella, contenuta nell’art. 14-quinquies, riguardante i pareri (e gli atti di assenso comunque denominati) delle amministrazione preposte alla tutela di tali interessi. Può invero ritenersi che “le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” (di cui all’art. 14-quinquies) si identifichino tendenzialmente con quelle, contemplate dal comma 2 dell’art. 17 della stessa l. n. 241 del 1990, “preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini”, le cui valutazioni tecniche sono non surrogabili, a norma del comma 2 ora citato.
Questo rilievo consente inoltre di focalizzare un altro profilo, pure essenziale per la risposta al quesito proposto: al fine del soddisfacimento del concetto di “preposizione” (alle funzioni di tutela ... etc.) utile agli effetti dell’art. 14-quinquies in esame, non basterà una norma (di fonte statale o regionale, a seconda dei casi) di attribuzione o di delega di funzioni di tutela in quanto tali, ma occorrerà che queste funzioni di tutela (attribuite o delegate) si concretizzino e debbano esprimersi proprio attraverso la pronuncia di pareri tecnici (potenzialmente ostativi e non surrogabili) o di atti di assenso comunque denominati potenzialmente impeditivi dell’approvazione del progetto di intervento in conferenza di servizi.
In tal senso sembra condivisibile la traccia argomentativa rinvenibile nella sentenza di questo Consiglio (sez. VI, 10.09.2008, n. 4333), richiamata nella relazione, che ha riservato alle "amministrazioni specificamente preposte" alla cura di siffatti interessi sensibili la legittimazione alla rimessione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Sembra sotto questo profilo corretta l’impostazione suggerita da codesta Presidenza, secondo la quale l’opposizione ex art. 14-quinquies debba essere riservata alle sole amministrazioni specificamente ed ordinariamente deputate alla cura di determinati interessi sensibili (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 30.09.2019 n. 2534 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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parere
OGGETTO: Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per il coordinamento amministrativo. Richiesta di parere sulla “Legittimazione del comune dissenziente a proporre opposizione avverso la determinazione conclusiva della conferenza di servizi, ai sensi dell'articolo 14-quinquies, della legge 07.08.1990, n. 241, come introdotto dall'articolo 7 del decreto legislativo 30.06.2016, n. 127.
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Premesso:
1. Riferisce l’Amministrazione richiedente che le pervengono numerose opposizioni, ai sensi dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, formulate da amministrazioni comunali a vario titolo chiamate ad esprimersi in seno a conferenze di servizi aventi ad oggetto impianti od opere da autorizzare da parte di amministrazioni prevalentemente regionali (ad es., impianti di smaltimento di rifiuti, impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile, opere di mitigazione del rischio idrogeologico, etc.), sicché è emersa la questione della possibilità, per le amministrazioni comunali che hanno manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi di primo livello, di attivare lo strumento dell’opposizione davanti al Consiglio dei ministri previsto dall’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, come introdotto dal decreto legislativo n. 127 del 2016.
2. Dopo aver raffrontato il nuovo regime introdotto dalla riforma del 2016 con quello previgente e dopo aver illustrato le opposte tesi che sono state al riguardo prospettate –dichiarando di optare per la tesi negativa– la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha posto i seguenti due quesiti:
2.a. In linea generale, se le amministrazioni comunali possano a pieno titolo rientrare tra i soggetti deputati alla cura di taluni interessi sensibili e, dunque, risultare conseguentemente legittimate a sollevare opposizione ai sensi dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990;
2.b. con particolare riguardo al procedimento AIA, se valgano le eventuali stesse limitazioni di cui al punto A oppure se, fermo restando il ricorrere di talune condizioni, le amministrazioni comunali possano eccezionalmente ricorrere —e in questa ipotesi in quali evenienze— allo strumento oppositivo di cui alla citata disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo.
Considerato:
1. Anticipando (in estrema sintesi) il risultato dell’indagine, è parere della Sezione -riguardo al primo quesito, di carattere generale- che sia sostanzialmente da condividersi la tesi, sostenuta da codesta Presidenza del Consiglio, che esclude la “legittimazione” dei Comuni, che abbiano manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi, a sollevare opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990 a tutela di interessi così detti “sensibili” (ossia, secondo il testo qui pertinente del medesimo art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, gli interessi di “tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini”).
E ciò essenzialmente perché un siffatto potere non può rinvenire un suo adeguato fondamento attributivo nella generale competenza del Comune, quale ente esponenziale della collettività rappresentata, a “tutelare” tutti gli interessi ad essa facenti capo, essendo invece necessaria, come si evince dalla lettera stessa della disposizione, un’apposita “preposizione”, con norma speciale, all’esercizio di funzioni, eminentemente tecnico-scientifiche (cfr. art. 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990), di tutela di quegli interessi “sensibili”, preposizione che, riguardo ai Comuni, di regola non si rinviene nella legislazione di settore che provvede alla allocazione delle funzioni amministrative ai sensi dell’art. 118 della Costituzione.
Tuttavia, anche in considerazione del non infrequente ricorso, in specie nella legislazione regionale in materia ambientale, a ciò abilitata dalla legge nazionale, a forme di delega di funzioni di tutela agli enti locali e, in taluni casi, tra questi, anche ai Comuni, non appare possibile enunciare in questa sede una conclusione in termini assoluti, valida una per volta per tutte e per tutti i casi applicativi, che neghi in radice e a priori un siffatto potere di opposizione comunale, potere che potrebbe invece ravvisarsi come sussistente allorquando la pertinente legislazione speciale di settore, statale e, soprattutto, regionale, abbia attribuito o delegato talune competenze (propriamente) di tutela ambientale ai Comuni.
Alla luce di questa impostazione interpretativa, dunque, codesta Presidenza dovrà, ogni qual volta pervenga un’opposizione comunale ex art. 14-quinquies, al fine di poter motivatamente escludere la legittimazione comunale e dichiarare inammissibile l’opposizione, operare un’attenta analisi specifica della disciplina di settore applicabile, alla luce delle coordinate ermeneutiche qui elaborate.
2. Fatta questa premessa chiarificatrice e precisante, ritiene la Sezione, come anticipato, che un primo criterio orientativo per la soluzione del quesito si rinvenga nella stessa lettera della disposizione oggi recata dal testo dell’art. 14-quinquies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, che attribuisce il potere di proporre opposizione dinanzi al Consiglio dei Ministri avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza alle “amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” (a condizione che abbiano espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza).
Il participio “preposte”, infatti, riveste un suo significato proprio, idoneo a designare non già una generica e generale rappresentanza di interessi riconoscibile sul piano politico all’ente territoriale, ma una specifica e puntuale attribuzione normativa di competenza amministrativa, di solito caratterizzata da una netta connotazione tecnica, in favore di determinati enti e plessi amministrativi, che presentano sotto questo profilo un’apposita specializzazione nella cura di determinati interessi “sensibili” (tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini).
3. In prima approssimazione e in sintesi, può ritenersi che la “preposizione” di un ente pubblico (o di organi e uffici di pubbliche amministrazioni) alla cura (più nello specifico alla “tutela”) di determinati beni-interessi pubblici richieda un’attribuzione specifica di competenza mediante norme speciali di settore, e dunque debba distinguersi dalla generale competenza, riconosciuta per tradizionale assunto dottrinario ai Comuni in quanto enti storicamente preesistenti allo stesso ordinamento costituzionale vigente, di una generale “rappresentanza” esponenziale di tutti gli interessi riconducibili alla collettività organizzata nel rispettivo ambito territoriale, rappresentanza che trova fondamento, dunque, non già e non necessariamente in specifici riconoscimenti normativi, ma trae origine dalla natura stessa dell’ente locale, e che tuttavia recede di fronte a specifiche attribuzioni di competenze settoriali fondate su norme speciali.
4. Una traccia normativa ulteriore che corrobora questa impostazione può rinvenirsi nella generale previsione dell’art. 17 della legge n. 241 del 1990, che distingue e qualifica in termini “forti”, rispetto all'ordinaria attività consultiva, le valutazioni tecniche di organi od enti appositi, ove richieste per disposizione espressa di legge o di regolamento per l'adozione di un provvedimento, valutazioni qualificate dalla legge (comma 2) non superabili e imprescindibili nel procedimento nel caso in cui debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.
Questa previsione, relativa ai pareri “qualificati” di amministrazioni “tecniche”, presenta, sotto il profilo soggettivo, un’area di parziale sovrapponibilità a quella, contenuta nell’art. 14-quinquies, riguardante i pareri (e gli atti di assenso comunque denominati) delle amministrazione preposte alla tutela di tali interessi. Può invero ritenersi che “le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” (di cui all’art. 14-quinquies) si identifichino tendenzialmente con quelle, contemplate dal comma 2 dell’art. 17 della stessa legge n. 241 del 1990, “preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini”, le cui valutazioni tecniche sono non surrogabili, a norma del comma 2 ora citato.
Questo rilievo consente inoltre di focalizzare un altro profilo, pure essenziale per la risposta al quesito proposto: al fine del soddisfacimento del concetto di “preposizione” (alle funzioni di tutela ... etc.) utile agli effetti dell’art. 14-quinquies in esame, non basterà una norma (di fonte statale o regionale, a seconda dei casi) di attribuzione o di delega di funzioni di tutela in quanto tali, ma occorrerà che queste funzioni di tutela (attribuite o delegate) si concretizzino e debbano esprimersi proprio attraverso la pronuncia di pareri tecnici (potenzialmente ostativi e non surrogabili) o di atti di assenso comunque denominati potenzialmente impeditivi dell’approvazione del progetto di intervento in conferenza di servizi.
In tal senso sembra condivisibile la traccia argomentativa rinvenibile nella sentenza di questo Consiglio (sez. VI, 10.09.2008, n. 4333), richiamata nella relazione, che ha riservato alle "amministrazioni specificamente preposte" alla cura di siffatti interessi sensibili la legittimazione alla rimessione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Sembra sotto questo profilo corretta l’impostazione suggerita da codesta Presidenza, secondo la quale l’opposizione ex art. 14-quinquies debba essere riservata alle sole amministrazioni specificamente ed ordinariamente deputate alla cura di determinati interessi sensibili.
5. Conforta la tesi negativa anche la considerazione della “storia” recente della disciplina della conferenza di servizi, anteriormente alla riforma del 2016, che aiuta altresì a penetrare la ratio dell’istituto: come bene evidenziato anche nella richiesta di parere, nel regime anteriore alla riforma del 2016 (si veda l’antevigente art. 14-quater, comma 3), era inconfigurabile un potere del Comune di provocare l’esame dell’affare da parte del Consiglio dei Ministri facendo valere un interesse “sensibile” oppositivo alla realizzazione del progetto.
Il “ricorso” a questo rimedio era infatti riservato, in termini speculari rispetto al regime attuale, non già all’amministrazione contraria alla conclusione positiva della conferenza, bensì all’amministrazione procedente che intendesse superare il parere negativo di un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini, parere negativo che determinava un effetto ostativo alla conclusione positiva della conferenza e impeditivo dell’approvazione del progetto, dinanzi al quale l’amministrazione procedente, interessata invece alla conclusione positiva della conferenza, non aveva altro rimedio se non la rimessione dell’affare alla sede “politica” del Consiglio dei Ministri.
6. La competenza del Consiglio dei Ministri (che si esprime in un atto di alta amministrazione connotato da discrezionalità amministrativa, in veste quasi sostitutiva della ordinaria sede tecnico-discrezionale: cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.05.2012, n. 3039: Id., 15.01.2013, n. 220; sez. IV, 12.06.2014, n. 2999; sez. VI, 04.02.2014, n. 505, sez. IV, 24.08.2017, n. 4062; Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 12.07.2019, n. 18829) “scattava” dunque solo a fronte di un parere negativo vincolante, non ordinariamente superabile, opposto da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini. E dunque, nel sistema della conferenza di servizi antevigente alla riforma introdotta dal decreto legislativo 30.06.2016, n. 127 in attuazione dell’articolo 2 della legge di delega 07.08.2015, n. 124, la competenza sussidiaria del Consiglio dei Ministri poteva attivarsi solo se “innescata” (indirettamente) da un’amministrazione titolare di un siffatto potere di “veto”, ossia di pronuncia di un parere (o di un diniego di un atto di assenso) vincolante (in senso negativo) l’esito del procedimento.
Orbene, in quel sistema ai Comuni non sembra sia stato mai riconosciuto un siffatto potere di veto tramite un parere negativo vincolante a tutela dei ripetuti interessi “sensibili” (l’art. 14-quater, comma 3, della legge n. 241 del 1990 nel testo antevigente alla riforma del 2016 prevedeva che “ove venga espresso motivato dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la questione, in attuazione e nel rispetto del principio di leale collaborazione e dell'articolo 120 della Costituzione, è rimessa dall’amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, che ha natura di atto di alta amministrazione”; la norma peraltro contemplava espressamente il caso del dissenso motivato “espresso da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria competenza”, ma non considerava il caso di dissenso manifestato da un Comune).
7. La ratio della riforma di cui al d.lgs. n. 127 del 2016 -che ha ribaltato quel sistema, privilegiando l’esito positivo della conferenza di servizi e onerando della rimessione dell’affare al Consiglio dei Ministri non più l’amministrazione procedente, ma quella preposta alla tutela di interessi sensibili il cui parere negativo sia stato giudicato superabile nel meccanismo di prevalenza quali-quantitativa che caratterizza il modulo decisionale della conferenza di servizi– risiede nello snellimento e nell’accelerazione dei procedimenti, con deflazione del carico gravante sul Consiglio dei Ministri, anche in considerazione del fatto che la rimessione dell’affare amministrativo alla suddetta sede “politica” (di alta amministrazione connotata da discrezionalità amministrativa e non più tecnica) dovrebbe costituire l’eccezione e non la regola, trattandosi pur sempre di una deroga alla regola generale di riserva del provvedimento di gestione agli organi amministrativi ordinari e non al vertice dell’indirizzo politico-amministrativo.
Sarebbe dunque paradossale una soluzione interpretativa che, ammettendo per la prima volta una tale competenza comunale di “veto” ostativo alla conclusione della conferenza di servizi per profili di tutela di interessi “sensibili” e la conseguente legittimazione a opporsi alla decisione favorevole dinanzi al Consiglio dei Ministri, finirebbe per complicare il quadro regolatorio di riferimento e per rallentare, anziché snellire i procedimenti, in evidente contraddizione con la ratio sottesa alla riforma.
8. Così fissate le linee argomentative generali che definiscono la logica di base del presente parere, occorre ora indagare più nel dettaglio l’ambito e la natura delle possibili competenze riconoscibili in capo ai Comuni nelle materie di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali, della salute e della pubblica incolumità dei cittadini: ed invero, come già preannunciato nel par. 1, la vastità e l’eterogeneità delle fonti di possibili attribuzioni di competenze comunali non consentono di enunciare in termini assoluti in questa sede una regola di necessaria esclusione della legittimazione comunale a proporre opposizione; una tale conclusione, come tratteggiata nei precedenti paragrafi, vale sicuramente in linea di massima, ma non esime dalla necessità di effettuare un approfondimento analitico caso per caso alla luce anche della specifica legislazione regionale applicabile.
La Sezione potrà, dunque, in questa sede solo dettare l’impostazione generale di tale indagine, ma essa, per la sua ampiezza, non potrà certo concludersi in termini esaustivi, residuando comunque uno spazio di ulteriore verifica caso per caso che dovrà necessariamente essere compiuta da codesta Presidenza nel singolo procedimento concreto.
8.1 Occorre in primo luogo operare una fondamentale distinzione, nell’ambito delle competenze degli enti locali, tra le funzioni così dette storiche, “proprie” e/o “fondamentali” [art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.; Corte cost., sentenze n. 179 del 2019, n. 160 del 2016, n. 378 del 2000, nn. 83 del 1997 e 286 del 1997], nonché le funzioni speciali attribuite da particolari norme, e la generale competenza di rappresentanza degli interessi della popolazione locale.
Al riguardo, come condivisibilmente annotato dalla Presidenza nella richiesta di parere, non va confuso l’ambito della legittimazione procedimentale e anche processuale (sotto il profilo della legittimazione a ricorrere dinanzi al Giudice amministrativo), riconosciuta al Comune in termini molto ampi a “tutela” di tutte le situazioni soggettive di carattere collettivo e di interesse generale locale facenti capo alla comunità territoriale rappresentata, con l’attribuzione specifica (preposizione) di competenze “tecniche” di tutela di particolari beni-interessi pubblici.
È noto e incontroverso che è consentito, ad esempio, ai Comuni di impugnare dinanzi al Giudice amministrativo provvedimenti dell’autorità statale o regionale che, operando una riorganizzazione territoriale degli uffici, possano determinare una riduzione della prestazione dei servizi offerti a livello comunale (si pensi ai noti e numerosi casi di chiusura di strutture sanitarie pubbliche, di posti di polizia, di uffici postali, di uffici giudiziari, di plessi scolastici, etc.), ma non si è mai per questo sostenuto che i Comuni fossero titolari di una corrispondente funzione amministrativa propria di tutela (sanitaria, di pubblica sicurezza, in materia postale, giudiziaria, scolastica, etc.).
La legittimazione dei Comuni a impugnare atti e provvedimenti di altre amministrazioni (soprattutto statali) storicamente è stata sempre ammessa sulla base della previsione generale (poi rifluita nell’art. 26 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato di cui al regio decreto n. 1054 del 1924) che accordava il ricorso a tutti gli “individui o enti morali giuridici” titolari di un interesse che fosse oggetto di atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante.
Su questa base è stata sempre ripetuta in giurisprudenza la massima secondo cui al Comune, quale ente territoriale esponenziale di una determinata collettività di cittadini, istituzionalmente legittimato a curarne e a difenderne gli interessi e a promuoverne lo sviluppo, deve riconoscersi la legittimazione ad agire contro tutti gli atti ritenuti in qualche modo lesivi di quegli interessi.
Ma tale legittimazione ad agire non implica affatto, evidentemente, il riconoscimento di una corrispondente competenza di amministrazione attiva comunale in quelle materie e su quegli interessi.
8.2. Operata questa fondamentale chiarificazione, occorre adesso richiamare il quadro costituzionale di riferimento per l’attribuzione delle funzioni agli enti locali territoriali.
L’art. 114, secondo comma della Costituzione, nel testo risultante dalla riforma introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, prevede che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. L’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la disciplina delle materie “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”. L’art. 118, nei commi primo e secondo, stabilisce che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
8.3. A livello di legge ordinaria deve essere menzionato, benché sostanzialmente superato dalla riforma costituzionale del 2001, il decreto legislativo n. 112 del 1998 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15.03.1997, n. 59), che, all’art. 3 (Conferimenti alle regioni e agli enti locali e strumenti di raccordo), commi 1 e 2, anticipando per certi aspetti la riforma del titolo V della Costituzione, stabiliva che “Ciascuna regione, ai sensi dell'articolo 4, commi 1 e 5, della legge 15.03.1997, n. 59, entro sei mesi dall'emanazione del presente decreto legislativo, determina, in conformità al proprio ordinamento, le funzioni amministrative che richiedono l'unitario esercizio a livello regionale, provvedendo contestualmente a conferire tutte le altre agli enti locali, in conformità ai principi stabiliti dall'articolo 4, comma 3, della stessa legge n. 59 del 1997, nonché a quanto previsto dall'articolo 3 della legge 08.06.1990, n. 142” e che “2. La generalità dei compiti e delle funzioni amministrative è attribuita ai comuni, alle province e alle comunità montane, in base ai principi di cui all'articolo 4, comma 3, della legge 15.03.1997, n. 59, secondo le loro dimensioni territoriali, associative ed organizzative, con esclusione delle sole funzioni che richiedono l'unitario esercizio a livello regionale”.
8.4. Viene dunque in rilievo soprattutto il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recante il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, il quale stabilisce, all’art. 3, commi 2 e 5, che “2. Il comune è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo” e che “5. I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della regione, secondo il principio di sussidiarietà”.
L’art. 13 (Funzioni) prevede che “1. Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
L’art. 50, comma 5, prevede poi il potere del sindaco, quale rappresentante della comunità locale, di emanare ordinanze contingibili e urgenti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale (o in relazione all'urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche).
L’art. 112 (Servizi pubblici locali) prevede che “1. Gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”.
8.5. L’art. 11 della legge 05.05.2009, n. 42 (recante Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione) prevedeva, tra i princìpi e criteri direttivi concernenti il finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane, che i decreti legislativi attuativi del federalismo fiscale dovessero classificare le spese relative alle funzioni di comuni, province e città metropolitane, in: “1) spese riconducibili alle funzioni fondamentali ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, come individuate dalla legislazione statale; 2) spese relative alle altre funzioni”.
8.6. Il decreto legislativo 26.11.2010, n. 216 (Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province), all’art. 3, ha previsto che “fino alla data di entrata in vigore della legge statale di individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Città metropolitane e Province, le funzioni fondamentali ed i relativi servizi presi in considerazione in via provvisoria, ai sensi dell'articolo 21 della legge 05.05.2009, n. 42, sono: a) per i Comuni: 1) le funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo, nella misura complessiva del 70 per cento delle spese come certificate dall'ultimo conto del bilancio disponibile alla data di entrata in vigore della legge 05.05.2009, n. 42; 2) le funzioni di polizia locale; 3) le funzioni di istruzione pubblica, ivi compresi i servizi per gli asili nido e quelli di assistenza scolastica e refezione, nonché l'edilizia scolastica; 4) le funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti; 5) le funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell'ambiente, fatta eccezione per il servizio di edilizia residenziale pubblica e locale e piani di edilizia nonché per il servizio idrico integrato; 6) le funzioni del settore sociale”, mentre le “funzioni nel campo della tutela ambientale” sono attribuite dal n. 5) della lettera b) del comma 1 alle Province.
8.7. Il decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, all’art. 14 (Patto di stabilità interno ed altre disposizioni sugli enti territoriali), comma 27 (come modificato dall’art. 19 del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012), stabilisce che “sono funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: a) organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) l'organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall'articolo 118, quarto comma, della Costituzione; h) edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia municipale e polizia amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali, nell'esercizio delle funzioni di competenza statale; l-bis) i servizi in materia statistica”.
9. Le norme, costituzionali e di legge ordinaria, sopra passate in rassegna, dimostrano che i Comuni in generale non sono preposti –nel senso tecnico e specifico del termine– ad alcuna delle funzioni di “tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” di cui all’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990.
Naturalmente, secondo il disegno istituzionale chiaramente delineato nell’art. 118 Cost., la legge nazionale e la legge regionale, ciascuna per le materie rientranti nella rispettiva competenza legislativa, possono attribuire le funzioni amministrative, per assicurarne l'esercizio unitario, alle Regioni, alle Province, alle Città metropolitane, in attuazione dei principi di differenziazione e adeguatezza (che bilanciano e fanno da contrappeso al principio di sussidiarietà verticale).
Ne consegue, come già avvertito nei paragrafi 1 e 8, che la seguente disamina, che non può evidentemente spingersi fino alla verifica delle leggi regionali di tutte le Regioni, non può escludere del tutto il caso –per il quale si deve dunque lasciare aperto uno spazio ipotetico residuale– in cui le leggi regionali, nelle materie di competenza legislativa regionale (o in caso di delega delle funzioni di tutela prevista nella legge statale), possano aver attribuito talune competenze di tutela ai Comuni.
Si segnala, a mero titolo di esempio, la legge della Regione Piemonte n. 42 del 2000, che ha delegato ai Comuni le funzioni, in materia di bonifica dei siti inquinati, di approvazione del progetto e di autorizzare degli interventi previsti, nonché in tema di realizzazione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale, che costituiscono sicuramente competenze di tutela ambientale.
E tuttavia, anche in un caso del genere, in cui si assiste a una delega regionale di funzioni di tutela ambientale in favore dei Comuni, occorre rilevare –come già chiarito nel par. 4, ultimo periodo- che una siffatta attribuzione non pare rilevante e risolutiva ai fini della proponibilità dell’opposizione al Consiglio dei Ministri ex art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, poiché, a tal fine, si deve trattare non già di competenze “qualsiasi”, purché in materia di tutela ambientale, ma occorre che si tratti, evidentemente, di competenze a pronunciare pareri o atti di assenso comunque denominati in conferenze di servizi per progetti, interventi o attività da approvare o autorizzare. Nell’esempio proposto della legge regionale del Piemonte, invero, la tutela delegata in materia di bonifica dei siti inquinati pone il Comune delegato nella posizione di autorità procedente e non di autorità chiamata a rendere un parere o un atto di assenso comunque denominato, e dunque non rileva ai fini del presente quesito.
10. Fatte queste ulteriori considerazioni di carattere generale, che avvertono (nuovamente) della necessità che sia condotta caso per caso una verifica puntuale circa l’eventuale sussistenza di attribuzioni comunali, anche delegate, di funzioni di tutela di “interessi sensibili”, che si traducano nel potere di rendere pareri o atti di assenso comunque denominati (ma a particolare connotazione tecnica), occorre ora procedere a una disamina più di dettaglio con riguardo alla principale legislazione di settore nelle materie della tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini.
10.1. Guardando alla “tutela ambientale”, occorre fare riferimento soprattutto al decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, recante Norme in materia ambientale.
10.1.a. Volendo svolgere una rapida disamina dei principali istituti di tutela disciplinati in detto decreto legislativo, seguendo l’ordine del suo indice sommario, emerge in primo luogo che, in materia di V.I.A., di V.A.S. e di A.I.A., l’art. 7 prevede (comma 6) che “In sede regionale, l'autorità competente ai fini della VAS e dell'AIA è la pubblica amministrazione con compiti di tutela, protezione e valorizzazione ambientale individuata secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle Province autonome” e che (comma 7) “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano disciplinano con proprie leggi e regolamenti le competenze proprie e quelle degli altri enti locali in materia di VAS e di AIA”; l’art. 7-bis, analogamente, stabilisce per la V.I.A. (comma 5) che “In sede regionale, l'autorità competente è la pubblica amministrazione con compiti di tutela, protezione e valorizzazione ambientale individuata secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle Province autonome” e che (comma 8) “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano disciplinano con proprie leggi o regolamenti l'organizzazione e le modalità di esercizio delle funzioni amministrative ad esse attribuite in materia di VIA, nonché l'eventuale conferimento di tali funzioni o di compiti specifici agli altri enti territoriali sub-regionali”.
Ai fini che qui interessano le eventuali attribuzioni ai Comuni di talune delle ora dette funzioni non parrebbero rilevanti sotto il profilo della legittimazione a proporre l'opposizione ex art. 14-quinquies, poiché si tratterebbe di funzioni di autorità precedente e non di autorità titolare di poteri di rendere atti di assenso comunque denominati. Tuttavia, nel caso in cui il Comune fosse delegato alla conclusione di un procedimento di valutazione di impatto ambientale, che si conclude con un atto che diviene presupposto per l’autorizzazione dell’intervento, non potrebbe evidentemente negarsi la legittimazione comunale ad opporsi nel caso in cui l’autorità che ha indetto la conferenza di servizi (ad es., la Provincia o la Regione) ritenga di poter superare la V.I.A. negativa e di poter comunque pervenire (non interessa qui se legittimamente o illegittimamente) a una conclusione favorevole della conferenza.
10.1.b. In materia di difesa del suolo l’art. 62 (Competenze degli enti locali e di altri soggetti) prevede che “1. I comuni, le province, i loro consorzi o associazioni, le comunità montane, i consorzi di bonifica e di irrigazione, i consorzi di bacino imbrifero montano e gli altri enti pubblici e di diritto pubblico con sede nel distretto idrografico partecipano all'esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del suolo nei modi e nelle forme stabilite dalle regioni singolarmente o d'intesa tra loro, nell'ambito delle competenze del sistema delle autonomie locali”.
Sembra tuttavia che si tratti di competenze di tutela di regola concentrate in capo alle apposite Autorità di bacino distrettuale istituite per ciascun distretto idrografico.
10.1.c. In materia di tutela delle acque dall’inquinamento l’art. 75 (Competenze), comma 1, lettera b), stabilisce che “le regioni e gli enti locali esercitano le funzioni e i compiti ad essi spettanti nel quadro delle competenze costituzionalmente determinate e nel rispetto delle attribuzioni statali”.
In tema di autorizzazione agli scarichi è dunque possibile che sussistano, in base alle pertinenti leggi regionali, attribuzioni comunali. Ma non sembra che tali funzioni autorizzatorie possano assumere la consistenza specifica e tecnica che è necessaria agli effetti del meccanismo della conferenza di servizi. L’eventuale diniego comunale sembra superabile con gli ordinari mezzi decisionali della conferenza di servizi e non può, dunque, dare ingresso a un potere comunale di opposizione dinanzi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
10.1.d. In materia di servizio idrico integrato e di gestione dei rifiuti il “codice ambiente” prevede sostanzialmente compiti gestionali dei relativi servizi, non compiti di tutela.
10.1.e. Neppure in materia di tutela dell’aria si rinvengono in capo ai Comuni specifici compiti di tutela, al di là del monitoraggio, di solito svolto in collaborazione con le Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente o con le Aziende sanitarie locali, in disparte i poteri di ordinanza
10.1.f. Le funzioni di tutela ambientale a livello locale sono state del resto tradizionalmente attribuite alle Province, enti territoriali di area vasta: il TUEL (d.lgs. n. 267 del 2000), all’art. 19, attribuisce alla provincia “le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale nei seguenti settori: a) difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione delle calamità; b) tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche; ... e) protezione della flora e della fauna parchi e riserve naturali; ... g) ... disciplina e controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche e sonore; h) servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale”. Tali attribuzioni non risultano peraltro escluse dalla legge 07.04.2014, n. 56 (recante Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni).
10.2. Guardando alla “tutela paesaggistico-territoriale”, essa, riferita [pur nell’improprietà lessicale della disposizione) alla tutela paesaggistica e non alla ordinaria “tutela” (recte: “vigilanza”) in materia edilizia e urbanistica (di cui al capo I del titolo IV - Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia - del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001), sicuramente spettante ai Comuni, ma irrilevante agli effetti dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990 qui in esame], deve osservarsi, come già rilevato, che, nel testo normativo speciale di riferimento, costituito dal codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, le “funzioni amministrative di tutela dei beni paesaggistici sono esercitate dallo Stato e dalle regioni secondo le disposizioni di cui alla Parte terza del presente codice” (art. 5, comma 6) e (art. 146, comma 6) “La regione esercita la funzione autorizzatoria in materia di paesaggio avvalendosi di propri uffici dotati di adeguate competenze tecnico-scientifiche e idonee risorse strumentali. Può tuttavia delegarne l'esercizio, per i rispettivi territori, a province, a forme associative e di cooperazione fra enti locali come definite dalle vigenti disposizioni sull'ordinamento degli enti locali, agli enti parco, ovvero a comuni, purché gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia, in modo che sia sempre assicurato un livello di governo unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite”.
In ogni caso, nel procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica è tuttora previsto il parere vincolante degli organi periferici ministeriali. Deve dunque escludersi che, tecnicamente, il Comune possa dirsi “preposto” alla tutela dei beni paesaggistici e del paesaggio, agli effetti dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990.
10.3. Analoghe conclusioni devono a fortiori valere per le funzioni di tutela dei beni culturali, pacificamente riservate agli organi statali (art. 5 cit. e parte seconda, titolo primo, del codice di settore)
10.4. Riguardo alle funzioni di tutela della salute ritiene la Sezione che analoghe considerazioni debbano valere in relazione alle funzioni in materia di igiene e sanità riconosciute al Sindaco dagli artt. 216 e 217 del testo unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934, in tema di lavorazioni insalubri, e al Comune dagli artt. 218 ss. stesso testo unico, in tema di igiene degli abitati urbani e rurali e delle abitazioni.
Come si chiarirà anche nei paragrafi 13 ss., a proposito del secondo quesito proposto da codesta Presidenza, tali poteri sindacali e comunali devono infatti essere correttamente inquadrati nel più ampio contesto normativo di riferimento, come si è evoluto ed è oggi vigente; essi, in particolare, in presenza di competenze statali e regionali fondate su titoli speciali di attribuzione normativa di tutela ambientale, devono ritenersi recessivi rispetto ai pareri e agli atti di assenso o di diniego provenienti dalle autorità tecniche, e ciò anche in relazione alle già richiamate previsioni dell’art. 17 della legge n. 241 del 1990, che rendono non superabili (e imprescindibili) le valutazioni tecniche di organi od enti appositi richieste per l'adozione di un provvedimento allorquando tali valutazioni debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini, nonché in base al già richiamato (par. 8.4) art. 13 del TUEL (ove si precisa che spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, “salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”).
10.5. Sempre in materia sanitaria, non costituisce idonea preposizione ai fini dell’art. 14-quinquies in esame la norma, richiamata anche nella relazione della Presidenza del Consiglio, contenuta nell’art. 50, comma 5, del TUEL: essa prevede infatti un potere straordinario del sindaco, quale rappresentante della comunità locale, di emanare ordinanze contingibili e urgenti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica, potere però, come detto, straordinario e come tale inidoneo a fondare un titolo di preposizione specifica alla tutela ordinaria di quegli interessi; il potere sindacale de quo, invero, si pone ed opera “a valle” dell’ordinaria funzione di tutela sanitaria ed ambientale, quale rimedio “di chiusura” del sistema, per il caso in cui debba farsi fronte ad eventuali situazioni imprevedibili che, eccedendo il quadro dell’ordinarietà della gestione e cura di quegli interessi, richiedano interventi contingibili e urgenti per porre rimedio a eventi che li minaccino o pregiudichino; si tratta, dunque, di un potere che non riguarda il momento (ex ante) della valutazione e dell’approvazione dei progetti degli interventi e delle attività potenzialmente idonee a incidere sui suddetti profili sanitari e ambientali.
10.6. Riguardo alle funzioni di tutela della pubblica incolumità dei cittadini, in disparte le funzioni di ordinanza contingibile e urgente del Sindaco, non rilevanti, per quanto detto sopra, ai fini della questione all’esame del Collegio, occorre domandarsi se le numerose funzioni comunali che direttamente o indirettamente attengono alla tutela della pubblica incolumità dei cittadini siano tali da poter fondare la legittimazione comunale a proporre l’opposizione contemplata dall’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990.
A giudizio della Sezione la risposta deve al riguardo essere negativa, poiché, in particolar modo in questo campo, emerge e viene in rilievo quella particolare connotazione tecnica e specialistica delle funzioni di tutela –presa in considerazione dal ripetuto art. 14-quinquies– di cui si è già detto sopra nei paragrafi 4, ultimo periodo, e 9, ultimo periodo, connotazione che sembra mancare affatto nelle competenze comunali in esame, appartenendo, invece, a speciali corpi e complessi organizzativi statali (ad es., Vigili del fuoco) e di altre amministrazioni (si pensi alla Protezione civile).
Non v’è dubbio sul fatto che anche i Comuni partecipino, e con compiti di indubbio rilievo, alla “filiera” territoriale del sistema di protezione civile, ma con compiti e funzioni di primo intervento, oltre che di monitoraggio e di allerta, gestionali e organizzativi, ma mai tecnici in quel senso proprio di cui agli artt. 14-quinquies e 17, comma 2, della legge n. 241 del 1990.
11. Concludendo sul primo quesito, la Sezione ritiene che in linea di massima debba escludersi una competenza comunale idonea a legittimare la proposizione dell’opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, ma che tale possibilità non possa essere esclusa a priori con assoluta certezza, residuando comunque la possibilità che essa possa trovare il suo fondamento in attribuzioni o deleghe di funzioni di tutela ad opera di leggi statali o regionali settoriali. Con l’ulteriore corollario conclusivo per cui codesta Presidenza, pur nell’ambito delle coordinate interpretative generali qui fornite, tendenzialmente negative di una siffatta competenza comunale, dovrà in ogni caso, riguardo al singolo affare concreto, svolgere una puntuale disamina sulla legislazione settoriale e regionale applicabile alla fattispecie.
12. Con il secondo quesito specifico codesta Presidenza ha domandato, con particolare riguardo al procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.), se valgano le eventuali stesse limitazioni sopra dette oppure se, fermo restando il ricorrere di talune condizioni, le amministrazioni comunali possano eccezionalmente ricorrere —e in questa ipotesi in quali evenienze— allo strumento oppositivo di cui alla citata disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo.
13. Più nel dettaglio codesta Presidenza ha osservato che, ai sensi dell’art. 29-quater del decreto legislativo n. 152 del 2006 (codice dell'ambiente), nel combinato disposto con gli artt. 216 e 217 del testo unico delle leggi sanitarie, la posizione del Comune in seno alla conferenza preordinata al rilascio della autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.) appare “connotata da elementi di una certa particolarità”, poiché è previsto (comma 6 dell’art. 29-quater) che siano acquisite nell'ambito della conferenza dei servizi “le prescrizioni del sindaco di cui agli articoli 216 e 217 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265” e che (comma 7) “In presenza di circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione di cui al presente titolo, il sindaco, qualora lo ritenga necessario nell'interesse della salute pubblica, può, con proprio motivato provvedimento, corredato dalla relativa documentazione istruttoria e da puntuali proposte di modifica dell'autorizzazione, chiedere all’autorità competente di riesaminare l'autorizzazione rilasciata ai sensi dell'articolo 29-octies”.
14. Anche rispetto a questa tematica specifica, come riferisce la Presidenza, si sarebbero proposte due soluzioni alternative, l’una affermativa della piena legittimazione delle amministrazioni comunali a sollevare, sempre e comunque, il ridetto strumento dell’opposizione ai sensi dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, dal momento che il Sindaco agirebbe come autorità sanitaria ai sensi e per gli effetti di cui ai citati artt. 216 e 217 del testo unico leggi sanitarie del 1934, l’altra, invece, tendente a configurare questa ipotesi come eccezionale e comunque limitata al potere di richiedere “determinate cautele”, senza il potere di “preventiva inibitoria”, limitata dunque a un parere sul quomodo, mediante l’indicazione di specifiche modalità o misure ritenute necessarie per la tutela della salute dei residenti, con esclusione del dissenso sull’an, ossia del potere di opporre veti assoluti sulla fattibilità in sé del singolo impianto.
15. Osserva al riguardo la Sezione che il caso specifico sottoposto a parere con il secondo quesito rappresenta un esempio applicativo degli indirizzi sopra formulati e può agevolmente risolversi alla stregua di tali criteri interpretativi: ai fini della “legittimazione” a proporre l’opposizione non basta una qualsiasi attribuzione di funzioni di tutela ambientale e sanitaria, ma occorre una particolare attribuzione di competenza, caratterizzata altresì da quelle connotazioni tecniche e specialistiche evincibili dal parallelo tra il testo dell’art. 14-quinquies e quello dell’art. 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990.
L’esame delle norme recate dagli artt. 29-quater del decreto legislativo n. 152 del 2006 e 216-217 del testo unico delle leggi sanitarie dimostra, alla luce della condivisibile prospettazione operata da codesta Presidenza delle modifiche normative successivamente intervenute, che le competenze attribuite dalle suddette disposizioni al Sindaco del Comune nel cui territorio ricade l’insediamento di un’industria insalubre non presentano più le suddette caratterizzazioni di specificità e tecnicità, tali da renderle idonee a legittimare all’opposizione ex art. 14-quinquies in esame. Rispetto ad esse, infatti, da un lato opera la prevalenza della competenza tecnica rimessa dalla norma speciale all’autorità decidente o ad altre autorità tecniche chiamate ad esprimersi in sede di conferenza di servizi (ARPA, ASL, Vigili del fuoco, etc.), dall’altro lato opera la delimitazione introdotta dalla disciplina speciale della procedura di A.I.A. contenuta nel così detto “codice ambiente” del 2006, che comporta necessariamente l’esclusione che la conclusione favorevole della conferenza di servizi, basata sui pareri tecnici favorevoli, possa essere impedita dal dissenso del Sindaco, espresso in base all’art. 216 del ripetuto testo unico del 1934.
16. Vengono in rilievo, sotto questo profilo, da un lato il già citato art. 19 del TUEL, nella parte in cui, come si è visto ai par. 8.4 e 10.4, chiarisce che le funzioni amministrative generali spettanti al Comune sono da valere salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze; dall’altro lato l’art. 14-quater del d.lgs. n. 152 del 2006, che non consente logicamente di ipotizzare come ancora applicabile un potere inibitorio del Sindaco, ammettendo solo eventuali poteri di richiedere prescrizioni e il riesame successivo dell’A.I.A. in caso di sopravvenienze e di emissioni ritenute insalubri che si discostino dai valori e dai parametri approvati.
17. I commi 6 e 7 del citato art. 14-quater prevedono, rispettivamente, che “Nell'ambito della Conferenza dei servizi di cui al comma 5, vengono acquisite le prescrizioni del sindaco di cui agli articoli 216 e 217 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265, etc.” e che “In presenza di circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione di cui al presente titolo, il sindaco, qualora lo ritenga necessario nell'interesse della salute pubblica, può, con proprio motivato provvedimento, corredato dalla relativa documentazione istruttoria e da puntuali proposte di modifica dell'autorizzazione, chiedere all'autorità competente di riesaminare l'autorizzazione rilasciata ai sensi dell'articolo 29-octies”.
Appare dunque evidente che, sotto il primo profilo (comma 6), la partecipazione del Sindaco alla conferenza di servizi non può assumere carattere ostativo della (eventuale) conclusione favorevole (che deve fondarsi evidentemente sui pareri e sugli altri atti di assenso tecnici delle amministrazioni preposte in modo specifico e ordinario alla tutela ambientale e sanitaria), ma deve limitarsi a richiedere le prescrizioni di cui agli artt. 216 e 217 del testo unico delle leggi sanitarie; e che, sotto il secondo profilo (comma 7), il Sindaco non ha più il potere di inibire successivamente la prosecuzione dell’attività, ma può solo, a fronte di circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione, chiedere all'autorità competente di riesaminare l'autorizzazione.
18. In tal senso paiono condivisibili le conclusioni prospettate da codesta Presidenza, che mostra di aderire alla tesi restrittiva, secondo la quale “non sembra essere ulteriormente consentita neppure la "successiva inibitoria" ex art. 217, primo comma, TULS, ma soltanto la "richiesta di riesame" del provvedimento AIA già rilasciato”, poiché il potere del Sindaco di cui agli artt. 216 e 217 del r.d. n. 1254 del 1934 “sembra essere stato ridisegnato o meglio fortemente ridimensionato dalla stessa normativa in tema di AIA”, essendo passato “da un potere misto di "preventiva inibitoria" e "determinate cautele" da impartire (art. 216, sesto comma, TULS, cit.) ... a sole prescrizioni (ossia quelle che prima erano considerate le "determinate cautele")”, nonché da un potere di "successiva inibitoria" ex art. 217, primo comma, TULS, a un potere di "richiesta di riesame" del provvedimento AIA già rilasciato.
Risultano condivisibili le indicazioni in tal senso provenienti dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, richiamate nella richiesta di parere (Cons. Stato, sez. IV, 15.12.2011, n. 6612), secondo le quali il Comune non possiede né strumenti, né competenze per accertare “in proprio” le condizioni sanitarie di una industria insalubre ed è tenuto ad attenersi alle prescrizioni dell'autorità sanitaria, pena lo stravolgimento dell'ordine delle competenze.
19. Non sembra, invece, condivisibile la proposta conclusiva prospettata da codesta Presidenza, riguardo alla tipologia di affari in esame, secondo la quale “l'eventuale valutazione (negativa) espressa dalla amministrazione comunale in difformità rispetto al parere (positivo) della ASL dovrebbe essere analiticamente istruita e motivata, ai fini del riconoscimento della legittimazione di cui in questa sede si discute, soprattutto in termini di sicura inattendibilità della posizione manifestata dalla amministrazione istituzionalmente competente alla tutela della salute”.
Una tale soluzione, oltre che di complessa e incerta applicazione pratica, non pare persuasiva poiché anticipa al procedimento amministrativo quel giudizio di legittimità, sotto il profilo del non eccesso di potere per inattendibilità manifesta dell’esercizio della discrezionalità tecnica dell’organo specialistico (nell’esempio, la ASL), che appartiene in realtà al processo e al sindacato giurisdizionale sull’esercizio della funzione dell’organo tecnico.
In sostanza, in un caso del genere, il Comune potrà se del caso agire dinanzi al Tar, in forza della sua ampia legittimazione ad agire (di cui qui si è detto nel par. 8.1), avverso la conclusione favorevole della conferenza di servizi e il provvedimento di A.I.A. nella parte in cui abbiano acquisito e condiviso un parere tecnico (nell’esempio, della ASL) in realtà affetto da illegittimità per eccesso di potere per erroneo uso della discrezionalità tecnica, ma non potrà logicamente per tali motivi essere ammesso a proporre l’opposizione ex art. 14-quinquies di cui si discute. Un siffatto giudizio di inattendibilità delle conclusioni cui è pervenuto l’organo tecnico, dunque, non può essere rimesso a codesta Presidenza per essere usato come criterio per decidere in sede amministrativa dell’ammissibilità o della inammissibilità dell’opposizione comunale.
20. In conclusione,
le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini cui è riservata l’opposizione in sede di Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, devono identificarsi –anche alla luce del combinato disposto degli artt. 14-quinquies e 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990- in quelle amministrazioni alle quali norme speciali attribuiscono una competenza diretta, prevalentemente di natura tecnico-scientifica, e ordinaria ad esprimersi attraverso pareri o atti di assenso comunque denominati a tutela dei suddetti interessi così detti “sensibili”, e tale attribuzione non si rinviene, di regola e in linea generale, nelle competenze comunali di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 267 del 2000, né tra le competenze in campo sanitario demandate al Sindaco e al Comune dal testo unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934, né tra le altre funzioni fondamentali (proprie o storiche) dei Comuni, fatta salva, comunque, la necessità di una verifica puntuale, da condursi caso per caso, della insussistenza di norme speciali, statali o regionali che, anche in via di delega, attribuiscano siffatte funzioni all’ente comunale.

EDILIZIA PRIVATA: Inserimento di balconi.
L'inserimento dei balconi, pur non comportando un aumento di volumetria o di superficie utile, varia l'aspetto estetico dell'edificio, comportando, quindi, un apprezzabile mutamento nel “prospetto” dell'edificio stesso.
Siffatte opere devono considerarsi soggette a permesso di costruire, a norma dell'art. 10 D.P.R. n. 380 del 2001 che vi assoggetta oltre gli interventi di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica anche quelli di ristrutturazione edilizia, tra i quali appaiono sussumibili gli interventi che determinano modifiche dei prospetti.
Da ciò consegue, sul piano della qualificazione dell’intervento, che mentre la mera apertura può in particolari casi essere ricondotta all’attività di restauro e risanamento conservativo, così non può affermarsi per il balcone aggettante che, modificando sempre e sistematicamente l’aspetto esterno, configura una ristrutturazione edilizia, in quanto, muta, seppure in parte, gli elementi tipologici formali e strutturali dell'organismo preesistente
(TAR Lombardia-Milano, Sez II, sentenza 30.09.2019 n. 2059 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1) Il ricorso è fondato.
La questione centrale del presente ricorso è la qualificazione dell’intervento realizzato dal vicino della ricorrente, consistente nella creazione di un balcone che prospetta sul cortile interno.
L’immobile in base alla disciplina urbanistica comunale è incluso nel “Tessuto Storico e Nuclei Frazionali”, la cui regolamentazione è posta nell’art. 55 delle NTA del PGT, che nell’ambito degli interventi di risanamento conservativo prevede la possibilità di “dare nuovi allineamenti e dimensioni alla partitura delle finestre ed introdurre nuove aperture solo sulle facciate interne purché queste non abbiano pregevoli connotati architettonici”.
Ritiene la ricorrente che l’intervento si ponga in contrasto con la suddetta disposizione, che permette nuove aperture, ma non la realizzazione di nuovi balconi.
Sarebbe anche errata la qualificazione dell’intervento come opera di restauro e risanamento e verrebbero altresì violate le norme in materia di distanza tra edifici, cioè l’art. 9 del DM 1444/1968 e l’art. 6 delle NTA del PGT.
2) Ad avviso del Collegio la tesi della ricorrente sulla qualificazione dell’intervento e sulla interpretazione della normativa pianificatoria locale, è fondata.
L’art. 55.6, c. 3), delle NTA del PGT del Comune di Santa Maria della Versa ammette interventi di risanamento conservativo al fine di salvaguardare il “valore storico-ambientale dell’edificio da conseguire attraverso la conservazione della distribuzione, della tecnologia edilizia e della morfologia dell’edificio”.
La disposizione alla lett. h) prevede la possibilità di “dare nuovi allineamenti e dimensioni alla partitura delle finestre ed introdurre nuove aperture solo sulle facciate interne purché queste non abbiano pregevoli connotati architettonici”.
Ritiene il Collegio che il dato testuale della disposizione deponga univocamente nel senso che il riferimento sia solo a nuove aperture, cioè le classiche finestre o affacci, che non modificano lo stato di fatto preesistente, a differenza del balcone che realizza un aggetto prima inesistente.
La facoltà di nuove aperture di cui al sopra citato art. 55 si ricollega proprio alla finalità dell’attività di risanamento conservativo di quella zona, cioè di permettere opere che qualifichino gli stabili, conservandone però la morfologia originaria, che può non essere mutata con l’apertura di una finestra (sempre che, come dice la norma, si tratti di facciate interne che non abbiano pregevoli connotati architettonici), mentre varia sicuramente se viene modificato il contorno con un balcone aggettante.
L'inserimento dei balconi, pur non comportando un aumento di volumetria o di superficie utile, varia l'aspetto estetico dell'edificio, comportando, quindi, un apprezzabile mutamento nel “prospetto” dell'edificio stesso. E’ stato rilevato in giurisprudenza che siffatte opere devono considerarsi soggette a permesso di costruire, a norma dell'art. 10 D.P.R. n. 380 del 2001, che vi assoggetta oltre gli interventi di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica anche quelli di ristrutturazione edilizia, tra i quali appaiono sussumibili gli interventi che determinano modifiche dei prospetti (v. TAR Puglia, Bari, Sez. III, 01.04.2019 n. 470).
Da ciò consegue, sul piano della qualificazione dell’intervento, che mentre la mera apertura può in particolari casi essere ricondotta all’attività di restauro e risanamento conservativo, così non può certamente affermarsi per il balcone aggettante che, modificando sempre e sistematicamente l’aspetto esterno, configura una ristrutturazione edilizia, in quanto, muta, seppure in parte, gli elementi tipologici formali e strutturali dell'organismo preesistente.
Secondo l’orientamento consolidato infatti sono annoverabili tra gli interventi di restauro o di risanamento conservativo soltanto le opere di recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle quali apportano un consolidamento, un rinnovo o l'inserimento di nuovi elementi costitutivi, a condizione che siano complessivamente rispettate tipologia, forma e struttura dell'edificio
(ex multis Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.12.2016 n. 5358). Il che consente di prescindere dall’approfondimento della novella legislativa del 2017, in quanto successiva alla vicenda oggetto della presente controversia (v. su questa tematica v. TAR Lazio, Sez. II, 20.09.2019 n. 11155).
Si verte invece nell’ipotesi di ristrutturazione edilizia, secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), quando l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Nel caso di specie, il balcone è creato ex novo e integra, comportando la modifica del prospetto dell’edificio, un intervento di ristrutturazione edilizia.
Sul punto l’orientamento giurisprudenziale è consolidato: la modifica dei prospetti viene qualificata come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi degli artt. 3, c. 1, lett. d) e 10, c. 1, lett. c) del T.U. 06.06.2001, n. 380, non potendo viceversa configurarsi un mero intervento di manutenzione
(Consiglio di Stato, sez. VI, 04/10/2011 n. 5431; TAR Napoli, (Campania), sez. VII, 07/06/2012, n. 2717; TAR Napoli, (Campania) sez. IV, 28/11/2017, n. 5643; TAR Bari, (Puglia) sez. III, 01/04/2019, n. 470; da ultimo anche questa sezione 06/09/2018, n. 2049).
Stante la fondatezza delle censure imperniate sull’errata qualificazione dell’intervento edilizio e sull’ingiustificata decisione di assentire le opere in forza dell’art. 55 della NTA del PGT, le ulteriori censure possono essere assorbite.
3) Il ricorso va quindi accolto, con conseguente annullamento degli atti impugnati e obbligo dell’Amministrazione di riesaminare l’istanza della ricorrente, tenendo conto della presente decisione.

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d’uso di un magazzino.
La gestione di un magazzino è assimilabile all’attività produttiva quando ha a oggetto le materie prime o i semilavorati destinati a essere impiegati nel ciclo produttivo, mentre, di contro, si inserisce nella fase della commercializzazione quando finge da deposito di prodotti finiti pronti per essere immessi nel mercato; ne consegue che l’attività di stoccaggio di prodotti finiti (alimenti) in attesa della loro spedizione ai destinatari finali (i.e. coloro che acquistano i prodotti via web o telefono) deve essere qualificata come commerciale.
Non essendo in contestazione che l’immobile ove venivano stoccati detti prodotti avesse originariamente destinazione produttiva, nella fattispecie è verificato un cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante ai sensi dell’articolo 52, comma 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 che determina un aumento del carico urbanistico, come si ricava dall’articolo 5 D.M. 1444/1968, e giustifica la debenza di un maggior contributo di costruzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.09.2019 n. 2055 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
Dalla documentazione in atti si evince incontrovertibilmente che l’attività svolta da Eu. S.r.l. nell’immobile di proprietà della società In. S.p.A. sia di vendita all’ingrosso di alimenti: si vedano, in particolare, il contratto di locazione stipulato da Eu.Im. S.r.l. e Eu. S.r.l. in cui si dà esplicitamente atto che l’immobile locato sarà destinato a deposito e magazzino per il commercio all’ingrosso, e alla dichiarazione di inizio attività presentata da Eu. S.r.l. per vendita all’ingrosso di alimentari (docc. 6 e 7 fascicolo di In. S.p.A.).
Né può negarsi che l’attività ivi svolta non sia commerciale, limitandosi la società Eu. S.r.l. a stoccare gli alimenti in attesa della loro spedizione ai destinatari finali (i.e. coloro che acquistano i prodotti via web o telefono). Infatti, come la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire, la gestione di un magazzino è assimilabile all’attività produttiva quando ha a oggetto le materie prime o i semilavorati destinati a essere impiegati nel ciclo produttivo, mentre, di contro, si inserisce nella fase della commercializzazione quando finge da deposito di prodotti finiti pronti per essere immessi nel mercato (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 6388/2018).
Dunque, poiché Eu. S.r.l. stoccava nell’immobile per cui è causa prodotti finiti (alimenti) l’attività da essa svolta deve essere qualificata come commerciale.
Ora, non essendo in contestazione che l’immobile di via ... avesse originariamente destinazione produttiva, ne consegue che si è verificato un cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante ai sensi dell’articolo 52, comma 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 (cfr., sentenza n. 1536/2015 della Sezione). Il mutamento da artigianale/produttivo a commerciale determina, infatti, un aumento del carico urbanistico come si ricava dall’articolo 5 D.M. 1444/1968 (cfr., TAR Toscana, Sez. III, sentenza n. 309/2018) e giustifica la debenza di un maggior contributo di costruzione.
Peraltro, ai fini del calcolo dell’aumento del contributo di costruzione dovuti da proprietario e utilizzatore del bene, correttamente l’Amministrazione ha tenuto conto, oltre che della parte destinata a magazzino, anche della superficie lorda occupata dalla celle frigorifere, dagli uffici e dai locali accessori, in quanto vani tutti strettamente funzionali all’attività commerciale medesima, e ha applicato le tabelle per l’attività commerciale, quale è quella svolta da Eu. S.r.l.. Sicché, non vi è stato alcun errore di quantificazione del dovuto.
Infine, la pendenza del ricorso promosso da Eu. S.r.l. avverso analoga ingiunzione di pagamento emessa nei suoi confronti dal Comune non incide in alcun modo sulla legittimità dell’atto qui impugnato. Peraltro, quel giudizio risulta estinto per perenzione.
Né è causa di illegittimità il fatto che l’ingiunzione di pagamento ordini alla società In. S.p.A. il versamento di €uro 303.103,01 a titolo di oneri di urbanizzazione e costi di costruzione, mentre nella nota del 21.07.2001 la stessa somma capitale è richiesta solamente a titolo di oneri di urbanizzazione, facendo salvo il successivo calcolo del costo di costruzione.
Invero, la suddetta nota è un mero atto endoprocedimentale e non l’atto conclusivo del procedimento; peraltro, l’ingiunzione di pagamento, proprio perché qualifica la somma ivi indicata come definitiva e non più come parziale, è più favorevole alla ricorrente, che dunque non ha interesse a dolersene.
In conclusione, il ricorso è infondato e per questo viene respinto.

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza costante, "la realizzazione di una recinzione non richiede un idoneo titolo edilizio solo in presenza di una trasformazione che, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale, con la conseguenza che la distinzione tra esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios ex art. 831 cod. civ. va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto".
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Secondo la costante giurisprudenza, in forza di quanto previsto dagli artt. 22 e 37, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, l'applicabilità della sanzione pecuniaria è, difatti, limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa segnalazione certificata di inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici vigenti.
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Per pacifico principio giurisprudenziale, l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo, essendo un atto dovuto e vincolato, deve considerarsi come dotato di un'adeguata e sufficiente motivazione qualora contenga la descrizione delle opere abusive e la constatazione della loro abusività.
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Il sig. -OMISSIS- ha impugnato l’ordinanza n. -OMISSIS-con cui il Comune di -OMISSIS- gli ha ordinato di rimuovere una recinzione e il provvedimento del -OMISSIS-, di inibitoria della scia in sanatoria, presentata il 04.03.2014, articolando le seguenti doglianze: ...
...
Le censure non sono fondate.
Per giurisprudenza costante, "la realizzazione di una recinzione non richiede un idoneo titolo edilizio solo in presenza di una trasformazione che, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale, con la conseguenza che la distinzione tra esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios ex art. 831 cod. civ. va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto" (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 14.06.2018, n. 3661).
Nel caso di specie, la circostanza che la recinzione sia costituita da blocchi prefabbricati in calcestruzzo è già di per sé sola sufficiente ad escludere l’assenza di modifica dell’assetto del territorio.
Non può neppure ritenersi che l’opera in questione sia realizzabile in forza di una scia e che trovi conseguentemente applicazione la sola sanzione pecuniaria.
L’opera contrasta, difatti, con la previsione di cui all’art. 51, c. 3, delle nta, secondo cui nelle zone urbanistiche EE le recinzioni fisse devono essere realizzate integralmente in legno o con montanti in legno direttamente infissi nel ruolo e rete metallica di altezza non superiore a 150 cm.
Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, quanto contestato con i provvedimenti impugnati circa le caratteristiche costruttive della recinzione realizzata dal sig. -OMISSIS- in zona agricola non deriva da mere valutazioni estetiche dell’amministrazione ma è previsto in una disposizione vincolante, contenuta nelle nta del prg.
Deve, pertanto, escludersi che potesse essere irrogata la sola sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria: secondo la costante giurisprudenza, in forza di quanto previsto dagli artt. 22 e 37, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, l'applicabilità della sanzione pecuniaria è, difatti, limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa segnalazione certificata di inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici vigenti (Cons. Stato Sez. VI, 24.05.2013, n. 2873; Tar Piemonte, sent. n. 70/2019; n. 1296/2018).
In considerazione della natura vincolata del potere esercitato –in un contesto in cui la scia è stata presentata dal sig. -OMISSIS- a fronte di lavori già eseguiti ed a seguito della comunicazione di avvio del procedimento demolitorio– e della correttezza del contenuto dispositivo dei provvedimenti impugnati, la censura con cui viene dedotta la violazione del principio del contraddittorio non può portare all’annullamento della nota con cui il Comune si è pronunciato sulla scia del 04.03.2014, così come previsto dall’art. 21-octies, l. n. 241/1990.
Non sussiste, infine, il lamentato difetto di motivazione: per pacifico principio giurisprudenziale, l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo, essendo un atto dovuto e vincolato, deve considerarsi come dotato di un'adeguata e sufficiente motivazione qualora contenga la descrizione delle opere abusive e la constatazione della loro abusività (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato sez. VI, 30/04/2019, n. 2823).
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata è esente da questo vizio, indicando con precisione l’opera abusiva e le disposizioni violate, senza che assuma alcun rilievo il richiamo ad un parere, pur non necessario.
Per le ragioni esposte il ricorso è, dunque, infondato e deve essere respinto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 30.09.2019 n. 1013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' costante la giurisprudenza nell'affermare la natura reale o “propter rem” delle obbligazioni di pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione (nonché delle sanzioni per ritardato pagamento) sicché le stesse, caratterizzate dalla stretta inerenza alla res e destinate a circolare unitamente ad essa per il carattere dell'ambulatorietà che le contraddistingue, gravano anche sull'acquirente nel caso di trasferimento del bene.
Invero, ribadendo un costante principio giurisprudenziale, l'obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di urbanizzazione e la natura reale dell'obbligazione riguardano i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione e quelli che realizzano l'edificazione, nonché i loro aventi causa.
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6.1. La controversia de qua ruota intorno alla natura della obbligazioni di pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Il Collegio, al riguardo, rammenta che è costante la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.11.2011, n. 6333; Id., sez. IV, 23.11.2018, n. 6624; Cass. civ., sez. II, 09.06.2011, n. 12571; Id. sez. III, 17.06.1996, n. 5541) nell'affermare la natura reale o “propter rem” delle obbligazioni di pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione (nonché delle sanzioni per ritardato pagamento, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.04.2011, n. 2037), sicché le stesse, caratterizzate dalla stretta inerenza alla res e destinate a circolare unitamente ad essa per il carattere dell'ambulatorietà che le contraddistingue, gravano anche sull'acquirente nel caso di trasferimento del bene.
Invero, ribadendo un costante principio giurisprudenziale, l'obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di urbanizzazione e la natura reale dell'obbligazione riguardano i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione e quelli che realizzano l'edificazione, nonché i loro aventi causa (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2019 n. 3141)
(CGARS, sentenza 30.09.2019 n. 848 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATACirca la prescrizione per la riscossione degli oneri di urbanizzazione, risulta pacifica l'applicazione dell'ordinario termine decennale ex art. 2946 c.c..
Al riguardo, detto termine decorre dalla data in cui il credito può essere fatto valere, ossia dal momento del rilascio della concessione, poiché è da tale momento che l'amministrazione determina (o può determinare) i relativi importi e che, di conseguenza, il relativo diritto può esser fatto valere (art. 2935 c.c.).

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8. Quanto alla dedotta prescrizione per la riscossione degli oneri di urbanizzazione, premesso che risulta pacifica l'applicazione dell'ordinario termine decennale ex art. 2946 c.c., il Collegio deve osservare che:
   a) detto termine decorre dalla data in cui il credito può essere fatto valere, ossia dal momento del rilascio della concessione, poiché è da tale momento che l'amministrazione determina (o può determinare) i relativi importi e che, di conseguenza, il relativo diritto può esser fatto valere (art. 2935 c.c.) (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 05.07.2018, n. 4123; Id., sez. IV, 26.02.2013, n. 1188; Id., 03.10.2012, n. 5201; Id., 19.01.2009, n. 216)
(CGARS, sentenza 30.09.2019 n. 848 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: 1.- Criminalità – Enti locali – art. 143 TUEL - scioglimento degli organi elettivi ed amministrativi per infiltrazioni di stampo mafioso - elementi sintomatici.
2.- Criminalità – Enti locali – scioglimento degli organi elettivi ed amministrativi per infiltrazioni di stampo mafioso – garanzie procedimentali – limiti.
   1. Gli elementi sintomatici del condizionamento criminale devono caratterizzarsi per concretezza ed essere, anzitutto, assistiti da un obiettivo e documentato accertamento nella loro realtà storica; per univocità, intesa quale loro chiara direzione agli scopi che la misura di rigore è finalizzata a prevenire; per rilevanza, che si caratterizza per l’idoneità all’effetto di compromettere il regolare svolgimento delle funzioni dell’ente locale.
L’art. 143 del T.U.E.L., al comma 1 (nel testo novellato dall’art. 2, comma 30, della l. n. 94 del 2009), richiede infatti che gli elementi capaci di evidenziare la sussistenza di un rapporto tra l’organizzazione mafiosa e gli amministratori dell’ente considerato infiltrato devono essere «concreti, univoci e rilevanti» ed assumere una valenza tale da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati.
La coesistenza di elementi oggettivi ed elementi soggettivi è indubbiamente necessaria ad integrare la fattispecie dell’art. 143 del T.U.E.L.: gli uni e gli altri devono convergere non in una rappresentazione statica e dicotomica, ma dinamica e sinergica: la vita politica e amministrativa di un ente, infatti, nella sua complessità, non può essere letta e valutata in modo esasperatamente analitico, sicché, se è vero che elementi oggettivi e soggettivi devono sussistere entrambi, è anche vero che essi devono essere letti insieme, secondo una connessione che, per quanto non assolutamente certa, deve apparire almeno altamente probabile e assistita da una valida spiegazione razionale, rispetto alla quale tutte le altre spiegazioni risultino meno plausibili.
Se è vero che il mero disordine amministrativo o che semplici prassi quanto meno opinabili o addirittura estese sequenze di atti illegittimi adottati dall’ente locale non bastano, in sé, a giustificare la misura dissolutoria, non si può negare però che le irregolarità nella gestione dei pubblici appalti, possano costituire un indice significativo della grave compromissione che l’esercizio delle funzioni amministrative risente per effetto della penetrazione diffusa delle logiche mafiose all’interno dell’apparato politico e amministrativo locale, ad ogni livello.
   2. L’avvio del procedimento, di cui all’art. 143 del T.U.E.L., non deve essere preceduto dalla comunicazione, di cui all’art. 7 della l. n. 241 del 1990, né da particolari guarentigie procedimentali non solo per il tipo di interessi coinvolti che non concernono, se non indirettamente, le persone, ma la complessiva rappresentazione operativa dell’ente locale e, quindi, in ultima analisi, gli interessi dell’intera collettività comunale, ma anche perché la difesa delle ragioni degli amministratori coinvolti e dei componenti del consiglio disciolto, scaturenti dal principio del giusto procedimento, è comunque assicurata –per quanto posticipata– alla sede del controllo giurisdizionale: è dunque sul piano della tutela giurisdizionale che si sposta, essenzialmente, il controllo sull’emissione di queste misure preventive, straordinarie ed eccezionali, tutela giurisdizionale.
A fronte, infatti, di una misure caratterizzate dal fatto di costituire la reazione dell’ordinamento alle ipotesi di attentato all’ordine ed alla sicurezza pubblica, non è ipotizzabile alcuna violazione dell’art. 97 Cost. per l’assenza o per la diminuzione delle garanzie partecipative, dato che la disciplina del procedimento amministrativo è rimessa alla discrezionalità del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri principi costituzionali, tra i quali non è compreso quello del “giusto procedimento” amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt. 24 e 113 Cost.
(massima free tratta da www.giustamm.it - Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 26.09.2019 n. 6435 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIIl diritto europeo osta a una normativa nazionale che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente può subappaltare a terzi.
La Corte di giustizia UE ha dichiarato che la normativa europea in materia di appalti pubblici deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.
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Contratti pubblici – Subappalto – Limiti alla quota subappaltabile – Automaticità – Esclusione
La direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici, che abroga la direttiva 2004/18/CE, come modificata dal regolamento delegato (UE) 2015/2170 della Commissione, del 24 novembre 2015, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi (1).
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   (1) I. – Secondo la Corte di giustizia UE, la direttiva 2014/24/UE, in materia di appalti pubblici, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.
   II. – La questione pregiudiziale era stata sollevata dal Tar per la Lombardia, sez. I, ordinanza 19.01.2018, n. 148 (in Riv. giur. edilizia, 2018, I, 263, nonché oggetto della News US, in data 06.02.2018, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti, sulla quale si veda infra, par. e).
La questione è sorta nell’ambito di un contenzioso avviato da un’impresa esclusa da una procedura ristretta, indetta ai sensi dell'art. 61 del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) per l'affidamento dei lavori di ampliamento di una corsia autostradale. In particolare l’impresa è stata esclusa dalla procedura di gara per aver superato la percentuale del 30% prevista come limite al subappalto dalla normativa nazionale.
   III. – Con la sentenza in rassegna, la Corte di giustizia, dopo aver analizzato la normativa interna ed europea, ha osservato che:
      a) la direttiva 2014/24/UE:
         a1) persegue l’obiettivo di garantire il rispetto, nell’aggiudicazione degli appalti pubblici, in particolare, della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi e dei principi che ne derivano, in particolare la parità di trattamento, la non discriminazione, la
proporzionalità e la trasparenza, nonché di garantire che l’aggiudicazione degli appalti pubblici sia aperta alla concorrenza;
         a2) a tal fine, prevede espressamente, all’art. 63, par. 1, la possibilità per gli offerenti di fare affidamento, a determinate condizioni, sulle capacità di altri soggetti, per soddisfare determinati criteri di selezione degli operatori economici;
         a3) analogamente alla abrogata direttiva 2004/18/CE, prevede la possibilità, per gli offerenti, di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, purché le condizioni da essa previste siano soddisfatte;
      b) in materia di appalti pubblici, pertanto, è interesse dell’Unione europea che l’apertura di un bando di gara alla concorrenza sia la più ampia possibile e il ricorso al subappalto può favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici. Infatti, durante la vigenza della direttiva 2004/18/CE, la Corte ha stabilito che una clausola che impone limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si tratterebbe, è incompatibile con tale direttiva;
      c) l’art. 71 della direttiva 2014/24/UE, pur ricalcando il tenore dell’art. 25 della direttiva 2004/18/CE, prevede che:
         c1) le amministrazioni aggiudicatrici possano chiedere o essere obbligate dallo Stato membro a chiedere all’offerente di informarla sulle intenzioni in materia di subappalto;
         c2) l’amministrazione aggiudicatrice possa, a determinate condizioni, trasferire i pagamenti dovuti direttamente al subappaltatore per i servizi, le forniture o i lavori forniti al contraente principale;
         c3) le amministrazioni aggiudicatrici possono verificare o essere obbligate dagli Stati membri a verificare se sussistano motivi di esclusione dei subappaltatori in relazione alla partecipazione a un’organizzazione criminale, alla corruzione o alla frode;
      d) tuttavia, dalla presenza di una disciplina più specifica su alcuni aspetti del subappalto non si può dedurre che gli Stati membri dispongano della facoltà di limitare il ricorso al subappalto a una parte dell’appalto fissata in maniera astratta e in una determinata percentuale dello stesso;
         d1) a tale conclusione non si può pervenire dall’applicazione del principio di trasparenza, muovendo dalla considerazione che in Italia il subappalto ha da sempre costituito uno degli strumenti di attuazione di intenti criminosi;
         d2) la Corte ha già dichiarato che il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici;
         d3) tuttavia, anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare siffatto fenomeno, una restrizione quale quella attuata nel procedimento principale eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo;
         d4) durante tutta la procedura, le amministrazioni aggiudicatrici devono rispettare i principi di aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 18 della direttiva 2014/24/UE, tra i quali figurano, in particolare, i principi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità;
         d5) la normativa nazionale vieta in modo generale e astratto il ricorso al subappalto che superi una percentuale fissa dell’appalto pubblico, cosicché tale divieto si applica indipendentemente dal settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall’identità dei subappaltatori e non lascia alcuno spazio a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore;
         d6) ne consegue che, per tutti gli appalti, una parte rilevante dei lavori, delle forniture o dei servizi interessati deve essere realizzata dall’offerente stesso, sotto pena di vedersi automaticamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto, anche nel caso in cui l’ente aggiudicatore sia in grado di verificare le identità dei subappaltatori interessati e ove ritenga, in seguito a verifica, che siffatto divieto non sia necessario al fine di contrastare la criminalità organizzata nell’ambito dell’appalto in questione;
         d7) misure meno restrittive sarebbero idonee a raggiungere l’obiettivo perseguito dal legislatore italiano e il diritto italiano prevede già numerose attività interdittive espressamente finalizzate a impedire l’accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel paese;
         d8) pertanto, una restrizione al ricorso al subappalto come quella di cui trattasi nel procedimento principale non può essere ritenuta compatibile con la direttiva 2014/24/UE.
   IV. – Per completezza si segnala che:
      e) la questione pregiudiziale, come anticipato, è stata sollevata dal Tar per la Lombardia, sez. I, ordinanza 19.01.2018, n. 148, cit., secondo cui:
         e1) “Va rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), l’articolo 71 della direttiva 2014/24 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014, il quale non contempla limitazioni quantitative al subappalto, e il principio eurounitario di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’articolo 105, comma 2, terzo periodo, del decreto legislativo18 aprile 2016, n. 50, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture”;
         e2) la previsione del limite generale del 30% per il subappalto, con riferimento all’importo complessivo del contratto, sia per il contratto di lavori, sia per quello di servizi e forniture, impedendo agli operatori economici di subappaltare a terzi una parte cospicua delle opere (70%), può rendere più difficoltoso l’accesso delle imprese, in particolar modo di quelle di piccole e medie dimensioni, agli appalti pubblici, così ostacolando l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi e precludendo, peraltro, agli stessi acquirenti pubblici l’opportunità di ricevere offerte più numerose e diversificate;
         e3) è dubbio che la misura della limitazione del 30% dell’importo complessivo del contratto possa rappresentare lo strumento più efficace e utile al soddisfacimento dell’obiettivo di assicurare l’integrità del mercato dei contratti pubblici e tale misura risulterebbe sproporzionata anche avuto riguardo alle finalità di deterrenza dell’infiltrazione criminale in quanto già oggetto di adeguata considerazione mediante altri strumenti previsti dall’ordinamento giuridico;
      f) dinanzi alla Corte di giustizia UE pende analoga questione sollevata dal Consiglio di Stato, sez. VI, ordinanza 11.06.2018, n. 3553 (in Guida al dir., 2018, fasc. 29, 84, con nota di TOMASSETTI, e in Riv. giur. edilizia, 2018, I, 857, nonché oggetto della News US, in data 15.06.2018, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo il quale “Va rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), gli artt. 25 della Direttiva 2004/18 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31.03.2004 e 71 della Direttiva 2014//24 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26.02.2014, che non contemplano limitazioni per quanto concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare ai subappaltatori, nonché il principio eurounitario di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’art. 118 commi 2 e 4, del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del trenta per cento dell’importo complessivo del contratto e l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un ribasso non superiore al venti per cento”.
La questione sollevata dal Consiglio di Stato si differenzia da quella sollevata dal Tar per la Lombardia per due profili:
         f1) il Tar per la Lombardia ha sollevato una questione pregiudiziale relativamente alla vigente disciplina di cui all’art. 105 del d.lgs. n. 50 del 2016, mentre la sesta sezione del Consiglio di Stato ha proceduto relativamente alla disposizione previgente applicabile ratione temporis;
         f2) l’ordinanza del Consiglio di Stato, oltre alla questione della quota di prestazione subappaltabile, ha rimesso anche la questione dell’ulteriore limite al ribasso di prezzo praticabile nei confronti del subappaltatore (disposizione presente oltre che nel d.lgs. n. 163 del 2006 anche nel d.lgs. n. 50 del 2016, ma non tenuta in considerazione dal Tar per la Lombardia);
      g) sul subappalto in generale:
         g1) con riferimento alla disciplina di cui all’art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006 si vedano: N. CENTOFANTI, M. FAVAGROSSA e P. CENTOFANTI, Il subappalto, Padova, 2012; A. GUARNIERI, D. TESSERA, commento all’art. 118, in Commentario al codice dei contratti pubblici, a cura di G. F. FERRARI, G. MORBIDELLI, Milano, 2013; A. DI RUZZA, C. LINDA, commento all’art. 118, in Codice dell'appalto pubblico, a cura di S. BACCARINI, G. CHINÈ, R. PROIETTI, Milano, 2015, 1366 ss.; D. GALLI e C. GUCCIONE, Contratti pubblici: «avvalimento» e subappalto in Giornale dir. amm., 2015, 127; C. SADILE, Il subappalto dei lavori pubblici, Milano, 2014;
         g2) con riferimento alla disciplina di cui all’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016 si vedano: MANCINI G., Brevi note sui limiti di ammissibilità del subappalto ai sensi dell'art. 105 del nuovo codice degli appalti in Riv. trim. appalti, 2016, 711; M. GENTILE, Il subappalto nel «nuovo» codice: aumentano limiti, vincoli e dubbi applicativi in Appalti & Contratti, 2016, fasc. 6, 43; R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1488 ss.;
         g3) con riferimento alla disciplina successiva al correttivo al Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 56 del 2017) si vedano: GENTILE M., Il correttivo allarga <con moderazione> le maglie del subappalto in Appalti & Contratti, 2017, fasc. 7, 15; G. BALOCCO, La riforma del subappalto e principio di concorrenza in Urbanistica e appalti, 2017, 621; G.A. GIUFFRE’, Le novità in tema di subappalto in Il correttivo al Codice dei contratti pubblici, a cura di M.A. SANDULLI, M. LIPARI, F. CARDARELLI, Milano, 2017, p. 331;
      h) sulla compatibilità con il diritto europeo dei limiti al subappalto posti dalla legislazione italiana:
         h1) in dottrina spunti specifici sul tema sono offerti da M. MARTINELLI, La capacità economica e finanziaria, in Il nuovo diritto degli appalti pubblici a cura di R. GAROFOLI, M.A. SANDULLI, Milano, 2005, 633 (ove si evidenzia che “la giurisprudenza comunitaria appare orientata a riconoscere la possibilità di ricorrere al subappalto oltre i limiti eventualmente stabiliti dalla normativa interna, allorché i requisiti di capacità del terzo subappaltatore siano stati valutati in corso di gara dall’amministrazione aggiudicatrice…in tal caso, infatti, vi sono tutte le garanzie che l’appalto venga effettivamente eseguito da soggetti dotati di adeguata qualificazione”), M. E. COMBA, L'esecuzione delle opere pubbliche - Con cenni di diritto comparato, Torino, 2011, 61 ss., R. CARANTA, I contratti pubblici, Torino, 2012, 364, che, evidenziati i limiti al subappalto della legislazione italiana, stigmatizza che “si tratta di limiti tout court in contrasto con il diritto europeo”;
         h2) il tema è anche affrontato nell’ambito dei pareri resi dal Consiglio di Stato sul nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016), reso sul progetto di nuovo codice dei contratti pubblici, e sul correttivo allo stesso (d.lgs. n. 56 del 2017), reso sul progetto di decreto correttivo al codice: nel parere n. 855/2016 il Consiglio di Stato aveva osservato, in relazione all’art. 105, che il legislatore nazionale potrebbe porre, in tema di subappalto, limiti di maggior rigore rispetto alle direttive europee, che non costituirebbero un ingiustificato goldplating, ma sarebbero giustificati da pregnanti ragioni di ordine pubblico, di tutela della trasparenza e del mercato del lavoro; nel parere n. 782 del 2017 il Consiglio di Stato, pur partendo dalla premessa che “questo Consesso non ignora la giurisprudenza della C. giust. UE, e, segnatamente, da ultimo, la decisione C. giust. UE, III, 14.07.2016 C-406/14 (ma v. anche C. giust.UE, 10.10.2013 C-94/12; Id., 18.03.2004 C-314/01), secondo cui il diritto europeo non consente agli Stati membri di porre limiti quantitativi al subappalto”, afferma che “tuttavia, tale giurisprudenza eurounitaria si è appunto formata in relazione alla previgente direttiva 2004/18” e conclude nel senso che “la complessiva disciplina delle nuove direttive, più attente, in tema di subappalto, ai temi della trasparenza e della tutela del lavoro, in una con l’ulteriore obiettivo, complessivamente perseguito dalle direttive, della tutela delle micro, piccole e medie imprese, può indurre alla ragionevole interpretazione che le limitazioni quantitative al subappalto, previste da legislatore nazionale, non sono in frontale contrasto con il diritto europeo”;
         h3) quanto alla giurisprudenza europea si vedano, tra le altre:
- Corte di giustizia UE, sez. IV, 20.09.2018, C-546/16, Montte SL, (in Appalti & Contratti, 2018, fasc. 10, 68), secondo cui, tra l’altro, “L’art. 66 direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che autorizza le amministrazioni aggiudicatrici ad imporre, nel capitolato d'oneri di una gara d'appalto con procedura aperta, requisiti minimi per la valutazione tecnica, cosicché le offerte presentate che, al termine di tale valutazione, non raggiungono una soglia di punteggio minima prestabilita sono escluse dalle fasi successive dell'aggiudicazione dell'appalto, e ciò a prescindere dal numero di offerenti restanti”, “La direttiva 2014/24/Ue del parlamento europeo e del consiglio 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/Ce, deve essere interpretata nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che autorizza le amministrazioni aggiudicatrici ad imporre, nel capitolato d'oneri di una gara d'appalto con procedura aperta, requisiti minimi per la valutazione tecnica, cosicché le offerte presentate che, al termine di tale valutazione, non raggiungono una soglia di punteggio minima prestabilita sono escluse dalla successiva valutazione fondata sia su criteri tecnici sia sul prezzo”;
- Corte di giustizia UE, sez. V, 05.04.2017, C-298/2015, Borta UAB, secondo cui “per gli appalti pubblici di rilievo transfrontaliero, anche se sotto la soglia di applicazione delle direttive europee, è interesse dell'Unione che l'apertura della procedura alla concorrenza sia la più ampia possibile, e il ricorso al subappalto, che può favorire l'accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo. Pertanto, una disposizione nazionale, che preveda che in caso di ricorso a subappaltatori per eseguire un appalto pubblico di lavori, l'aggiudicatario sia tenuto a realizzare l'opera principale, come descritta dall'amministrazione aggiudicatrice, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi”;
- Corte di giustizia UE, sez. IV, 27.10.2016, C-292/15, GmbH (oggetto della News US, in data 08.11.2016), secondo la quale “l’articolo 5, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 1370/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23.10.2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia, deve essere interpretato nel senso che, nel corso di una procedura di aggiudicazione di un appalto di servizio pubblico di trasporto di passeggeri con autobus, l’articolo 4, paragrafo 7, di tale regolamento -che prevede la limitazione del ricorso al subappalto (commisurata in funzione dei chilometri tabellari)– deve ritenersi applicabile a tale appalto. L’articolo 4, paragrafo 7, del regolamento n. 1370/2007, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che l’amministrazione aggiudicatrice stabilisca nella misura del 70% la quota di fornitura diretta da parte dell’operatore a cui è affidata la gestione e la prestazione di un servizio pubblico di trasporto di passeggeri con autobus, come quello oggetto del procedimento principale”;
- Corte di giustizia UE, sez. III, 14.07.2016, C-406/14, Wroclaw (in Foro it., 2016, IV, 389), secondo cui “la direttiva 2004/18/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, come modificata dal regolamento (Ce) 2083/2005 della commissione, del 19.12.2005, deve essere interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse proprie”;
- Corte di giustizia UE, sez. X, 22.10.2015, C-425/2014, Edilux – Sicef (in Appalti & Contratti, 2015, fasc. 12, 90 (m), con nota di CANAPARO, Riv. corte conti, 2015, fasc. 5, 381, Giur. it., 2016, 1459 (m), con nota di CRAVERO, Giornale dir. amm., 2016, 318 (m), con nota di VINTI) secondo cui “le norme fondamentali e i principi generali del Tfue, segnatamente i principi di parità di trattamento e di non discriminazione nonché l'obbligo di trasparenza che ne deriva, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una disposizione di diritto nazionale in forza della quale un'amministrazione aggiudicatrice possa prevedere che un candidato o un offerente sia escluso automaticamente da una procedura di gara relativa a un appalto pubblico per non aver depositato, unitamente alla sua offerta, un'accettazione scritta degli impegni e delle dichiarazioni contenuti in un protocollo di legalità, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, finalizzato a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici; tuttavia, nei limiti in cui tale protocollo preveda dichiarazioni secondo le quali il candidato o l'offerente non si trovi in situazioni di controllo o di collegamento con altri candidati o offerenti, non si sia accordato e non si accorderà con altri partecipanti alla gara e non subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad altre imprese partecipanti alla medesima procedura, l'assenza di siffatte dichiarazioni non può comportare l'esclusione automatica del candidato o dell'offerente da detta procedura”;
      i) sul c.d. subappalto necessario cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9 (in Foro it., 2016, III, 65, con nota di CONDORELLI; Contratti Stato e enti pubbl., 2015, fasc. 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti, 2016, 167, con nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm., 2016, 365 (m), con nota di GALLI, CAVINA; Nuovo dir. amm., 2016, fasc. 3, 53, con nota di NARDOCCI), che ha inteso risolvere il contrasto giurisprudenziale in tema di subappalto necessario, escludendo dunque l'obbligatorietà dell'indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell'offerta, anche nell'ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili previste dall'art. 107, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, che disciplina i requisiti di partecipazione alla gara; cfr. anche A. SENATORE, Il subappalto necessario nella prospettiva evolutiva del d.leg. n. 50/2016 in Urbanistica e appalti, 2017, 456;
      j) sul riparto della competenza legislativa fra Stato e regioni specie avuto riguardo al subappalto, Corte cost., 17.12.2008, n. 411 (in Foro amm. CDS 2009, 5, 1192 con nota di CASALINI; Corriere giur., 2009, 640, con nota di MUSOLINO; Urbanistica e appalti, 2009, 301, con nota di CONTESSA);
      k) la validità del limite del 30% per la parte di opera oggetto di subappalto è stata oggetto di rilievo della Commissione europea, mediante la lettera di costituzione in mora 2018/2273 del 24.01.2019, con la quale è stato contestato, in relazione ad alcune disposizioni del codice, il non corretto recepimento delle direttive europee. In particolare, ad avviso della Commissione: nelle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE non vi sono disposizioni che consentano un siffatto limite obbligatorio all’importo dei contratti pubblici che può essere subappaltato; al contrario, le direttive si basano sul principio secondo cui occorre favorire una maggiore partecipazione delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, e il subappalto è uno dei modi in cui tale obiettivo può essere raggiunto, e pertanto un limite quantitativo al subappalto non può essere imposto in astratto, ma solo caso per caso in relazione alla particolare natura della prestazione da svolgere;
      l) con il d.l. 18.04.2019, n. 32, “Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici” (cd. “Sblocca cantieri”), convertito con modificazioni in l. 14.06.2019, n. 55 (oggetto della News normativa, n. 74 del 10.07.2019, alla quale si rinvia per approfondimenti e, in particolare, al contributo di DE NICTOLIS, Le novità sui contratti pubblici recate dal d.l. n. 32/2019, ivi richiamato), il legislatore interno è intervenuto sulla disciplina del subappalto al fine di superare i rilievi della Commissione europea.
Il d.l. n. 32 del 2019 recava nella versione originaria un parziale adeguamento dell’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016 ai rilievi della Commissione europea in quanto modificava il limite generale del subappalto, portandolo dal 30% al 50% dell’importo contrattuale. Non veniva accolto, invece, il rilievo della Commissione europea relativo al limite del subappalto per le opere di cui all’art. 89, comma 11 (art. 105, comma 5), ritenendosi tale limite giustificato dalla particolare natura delle prestazioni (secondo la Commissione europea sono consentiti limiti quantitativi del subappalto giustificati dalla particolare natura della prestazione).
Tali previsioni non sono state convertite in legge.
In sede di conversione, la l. n. 55 del 2019 ha operato sul subappalto un intervento transitorio, dando una parziale e temporanea risposta alla procedura di infrazione, senza novellare il codice, ma limitandosi a sospendere l’efficacia di alcune norme e a derogarne altre.
Con specifico riferimento al subappalto, si prevede, all’art. 1, comma 18, del citato d.l., che “nelle more di una complessiva revisione del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, fino al 31.12.2020, in deroga all'articolo 105, comma 2, del medesimo codice, fatto salvo quanto previsto dal comma 5 del medesimo articolo 105, il subappalto è indicato dalle stazioni appaltanti nel bando di gara e non può superare la quota del 40 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture. Fino alla medesima data di cui al periodo precedente, sono altresì sospese l'applicazione del comma 6 dell'articolo 105 e del terzo periodo del comma 2 dell'articolo 174, nonché le verifiche in sede di gara, di cui all'articolo 80 del medesimo codice, riferite al subappaltatore”.
Viene, pertanto, imposto, come limite quantitativo del subappalto, il 40% dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi e forniture, in deroga all’art. 105, comma 2, del codice, che resta in vigore, e solo temporaneamente, fino al 31.12.2020. Anche in sede di conversione è stato confermato il limite al subappalto per le opere di cui all’art. 89, comma 11, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Con la pronuncia in rassegna la Corte di giustizia non esclude la possibilità per gli Stati membri di adottare limiti al subappalto anche più stringenti rispetto a quelli utilizzati dal legislatore interno, per contrastare la criminalità organizzata, ma richiede che tali limiti non siano generalizzati e applicati in modo aprioristico, ma oggetto di una valutazione casistica. Il c.d. sblocca cantieri non sembra, sotto questo profilo, adattarsi pienamente alla pronuncia in rassegna (Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. V, sentenza 26.09.2019, C-63/18 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Potere della P.A. di non procedere all’aggiudicazione della gara e disporre la revoca.
Anche in materia di procedure ad evidenza pubblica e contratti della pubblica amministrazione, l’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione di non procedere affatto all’aggiudicazione della gara e di disporne la revoca deve trovare fondamento in specifiche ragioni di pubblico interesse che devono essere chiaramente indicate e non risultare manifestamente irragionevoli ed esige quindi una motivazione adeguata e convincente circa i contenuti e l’esito della necessaria valutazione dei contrapposti interessi, a tutela del legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha partecipato alla gara, rispettandone le regole e organizzandosi in modo da vincerla.
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6.1. Deve anzitutto rammentarsi che con il provvedimento gravato la stazione appaltante ha reiterato la revoca della gara in oggetto nella quale Om. era stata dichiarata aggiudicataria provvisoria.
6.2. Va inoltre evidenziato, in linea generale, come,
anche in materia di procedure ad evidenza pubblica e contratti della pubblica amministrazione, l’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione di non procedere affatto all’aggiudicazione della gara e di disporne la revoca deve trovare fondamento in specifiche ragioni di pubblico interesse che devono essere chiaramente indicate e non risultare manifestamente irragionevoli (Cons. di Stato, III, 15.05.2012, n. 2805; id., III, 16.02.2012, n. 833) ed esige quindi una motivazione adeguata e convincente circa i contenuti e l’esito della necessaria valutazione dei contrapposti interessi, a tutela del legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha partecipato alla gara, rispettandone le regole e organizzandosi in modo da vincerla.
6.3. Come già accennato nella parte in fatto, in applicazione di tali principi il Tribunale amministrativo aveva annullato la prima revoca del procedimento di gara (con la sentenza n. 1205/2018, passata in giudicato), ritenendo appunto che la sua stringata motivazione non desse contezza delle effettive ragioni che avevano indotto Aeroporti all’adozione dell’atto gravato: non erano, infatti, chiarite le concrete ragioni per le quali il modello operativo posto a base della gara revocata fosse inadatto o inadeguato a garantire la convenienza rispetto al nuovo modello, in termini di soddisfazione delle sopravvenute esigenze, neppure peraltro adeguatamente rappresentate effettivamente come tali, nei pochi mesi conseguenti alla pubblicazione del bando e dirompenti al punto tale da imporre l’abbandono della vecchia procedura per addivenire ad una nuova gara; motivazioni tanto più necessarie in presenza di puntuali contestazioni da parte della Om. tese a smentire l’esistenza in radice di quelle sopravvenienze e a rimarcare che le diverse modalità di gestione che avrebbero dovuto sorreggere la nuova gara erano in realtà già presenti nella gestione in corso.
6.4. Tanto premesso, il Collegio qui rileva che correttamente il primo giudice ha ritenuto il provvedimento adottato in sede di riesercizio del potere esente dai vizi di carenza di motivazione riscontrati nella revoca originaria.
6.5. Ed infatti, Aeroporti ha compiutamente rappresentato nel provvedimento reiterativo le ragioni di interesse pubblico che, alla luce di circostanze di fatto, sopravvenute ed imprevedibili al momento della pubblicazione del bando, giustificavano la revoca della gara in questione e ne sconsigliavano la prosecuzione.
6.6. In particolare, quanto alle sopravvenienze, la stazione appaltante ha evidenziato, in primo luogo, come il considerevole aumento del traffico di passeggeri sugli scali pugliesi, di cui Aeroporti ha potuto avere compiutamente contezza solo al termine dell’anno 2017, si sia nel tempo attestato su livelli assai rilevanti rispetto agli incrementi previsti e del tutto inattesi, registrando un aumento stabile dell’8,4 per cento nel 2017 rispetto all’anno precedente (a fronte di un tasso di crescita previsto per il 2016, sulla base di una valutazione ex ante effettuata dal gestore aeroportuale, pari al 2,6 per cento).
Inoltre, la nuova revoca ha richiamato a suo fondamento la comunicazione (solo dopo la pubblicazione del bando di gara) delle nuove (e più restrittive) policy aziendali da parte di due delle principali compagnie aeree operanti negli scali pugliesi (l’ungherese Wi.Air e l’irlandese Ry.) in base alle quali, con riguardo al trasporto dei bagagli a mano, i passeggeri senza imbarco prioritario avrebbero dovuto imbarcare il secondo bagaglio in stiva.
6.7. Non può poi condividersi quanto assume l’appellante circa l’asserita mancata dimostrazione da parte della stazione appaltante dell’incidenza di tali circostanze sulla gara revocata: al contrario, il provvedimento impugnato contiene una puntuale disamina delle concrete ragioni per cui tali sopravvenienze erano idonee a riflettersi sull’organizzazione del servizio di gestione dei mezzi aeroportuali.
6.7.1. Il provvedimento gravato evidenzia, infatti, come il contestuale verificarsi di tali circostanze imponessero al gestore aeroportuale di avere la disponibilità di un numero maggiore di mezzi sempre tutti efficienti e fruibili e disponibili anche contemporaneamente durante le operazioni da compiere sotto bordo, anche in considerazione degli esigui tempi di transito degli aeromobili e dell’incidenza delle compagnie anzidette sul totale del traffico degli aeroporti di Bari e Brindisi, precisando ad ulteriore riprova che, nelle more dell’espletamento della gara per l’affidamento del servizio full service, Aeroporti si fosse già dovuta dotare di mezzi in aggiunta a quelli attualmente di sua proprietà da destinarsi ai predetti scali.
In presenza di una siffatta modifica degli elementi di fatto rispetto a quelli considerati al momento dell’indizione della precedente, si imponeva, dunque, o era quanto meno opportuna una revisione delle modalità di gestione del servizio, poiché, come testualmente si legge nel provvedimento impugnato, “una tale disponibilità di mezzi ed efficienza di gestione possono essere garantite soltanto mediante un contratto full service che preveda anche il noleggio dei mezzi, oltre che la loro manutenzione, e che imponga all’appaltatore stringenti obblighi di servizio in tal senso, quali ad esempio: i) l’obbligo di assicurare e garantire sempre un numero prefissato di mezzi giornalieri; ii) l’obbligo di ridurre la frequenza dei guasti; iii) l’obbligo di ridurre il tempo di indisponibilità dei mezzi”.
Al fine di disporre di mezzi ulteriori rispetto a quelli già in dotazione, più nuovi e in stato di continua e piena efficienza sì da sopperire alle mutate esigenze, la stazione appaltante si è determinata a modificare le modalità di svolgimento del servizio mediante una gestione full service che comprendesse anche il noleggio e ogni tipo di manutenzione sia ordinaria sia straordinaria dei mezzi di rampa, precisando al contempo che si trattava di un servizio diverso da quello oggetto della precedente gara, nella quale l’oggetto e l’importo stimato si riferivano solo ed esclusivamente alla manutenzione ordinaria mentre quella straordinaria era solo eventuale e rimessa alla preventiva valutazione e richiesta della stazione appaltante, potendo essere oggetto di affidamento diretto da parte di quest’ultima.
In sintesi, solo una modalità di gestione full service garantiva più elevati livelli di servizio (così evitando l’applicazione delle penali previste dai contratti di handling), posto che la disponibilità costante di tutti i mezzi di rampa assicura la puntualità dei voli in partenza e diminuisce pure gli spostamenti degli stessi tra le varie piazzole di sosta aeromobili, con conseguente riduzione dei possibili rischi derivanti da eventuali interferenze con altri mezzi presenti contestualmente su dette piazzole: di tutti questi profili il provvedimento di revoca gravato dà compiutamente contezza.
6.8. In conclusione, come rilevato dal primo giudice, Aeroporti ha, dunque, individuato nell’esigenza di assicurare, alla luce dei nuovi fabbisogni, una migliore e più efficace organizzazione e operatività del servizio e, per tale via, l’efficienza e la sicurezza degli scali aeroportuali i concreti motivi di interesse pubblico che imponevano la revoca della gara in oggetto, al contempo precisando che gli interessi privati dell’impresa, anche in considerazione dello status della procedura al momento della revoca e dell’assenza di effetti già consolidatisi nella propria sfera giuridica, non potevano che assumere carattere recessivo.
Del resto, l’interesse dell’appellante ben poteva essere soddisfatto mediante la partecipazione della concorrente alla nuova gara indetta all’esito della revoca della precedente, evenienza tuttavia non verificatasi.
6.9. Pertanto, alla luce delle precedenti considerazioni, il primo giudice ha a ragione rilevato che la Om. si fosse limitata ad affermare genericamente che il nuovo provvedimento fosse inficiato dai medesimi vizi della revoca originaria senza però fornire prova alcuna, neanche indiziaria, né dell’insussistenza e della non incidenza delle sopravvenienze né dell’asserita identità dell’oggetto della nuova gara e di quella precedente: ed ha quindi concluso, con statuizioni esenti dalle censure dedotte, che da un lato nel fare riferimento agli affidamenti diretti cui Aeroporti ha dovuto fare ricorso per la manutenzione straordinaria dei mezzi nelle more dell’espletamento della nuova procedura, l’appellante avesse implicitamente ammesso l’inadeguatezza del precedente modello operativo su cui si fondava la gara revocata (così smentendo l’assunto secondo cui detti affidamenti dimostravano che la revoca in questione fosse in effetti solo volta a rimuovere gli esiti del confronto concorrenziale a favore di una concorrente non gradita); dall’altro che le due gare non avessero affatto lo stesso oggetto posto che, come evincibile dal raffronto tra i due capitolati, la nuova procedura aveva un oggetto ben più ampio, comprensivo sia dell’attività di noleggio sia della manutenzione straordinaria, che nella prima gara costituiva un servizio a richiesta non remunerato dal canone dovuto all’affidataria.
Risultano parimenti generiche e indimostrate, assurgendo così a mere affermazioni di principio, le doglianze di parte appallante circa l’inutile aggravamento della spesa pubblica con riguardo ai prezzi accordati per le singole prestazioni di manutenzione, asseritamente maggiori di quelli già corrisposti al gestore uscente.
7. Sono poi infondate le critiche nei confronti della sentenza di prime cure laddove il Tribunale amministrativo ha respinto le censure sollevate dalla Om. riguardo all’asserita lesione delle garanzie procedimentali ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 stante l’omessa comunicazione di avvio del procedimento della seconda revoca da parte di Aeroporti.
7.1. Come recentemente statuito dalla giurisprudenza anche di questa Sezione (cfr. Cons. di Stato, V, 14.12.2018, n. 7056),
va anzitutto osservato come le invocate garanzie procedimentali non trovano applicazione per gli atti meramente procedimentali, tra cui deve annoverarsi l’aggiudicazione provvisoria, che fa nascere in capo all’interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del procedimento stesso, ma non costituisce il provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, avendo, per sua natura, un’efficacia destinata ad essere superata (all’esito dell’aggiudicazione definitiva): a conferma di tale ricostruzione deve aggiungersi che con l’entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50) l’aggiudicazione provvisoria è stata sostituita dalla “proposta di aggiudicazione” (art. 33) che a fortiori postula la non definitività dell’atto. Pertanto, ai fini del suo ritiro, non vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento ovvero di preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. n. 241 del1990.
7.2. Vero è che, nel caso di specie, la stazione appaltante non ha solo revocato l’aggiudicazione provvisoria, ma l’intera procedura di gara: tuttavia, per un verso non può ignorarsi che al momento dell’intervenuta revoca era soltanto intervenuta una proposta di aggiudicazione a favore della prima classificata nella graduatoria provvisoria (la cui revoca o mancata conferma, secondo la giurisprudenza, non è qualificabile alla stregua di un esercizio del potere di autotutela, sì da richiedere un raffronto tra l’interesse pubblico e quello privato sacrificato: cfr. Cons. di Stato, V, 14.12.2018, n. 7056); per altro verso l’appellante non ha dimostrato quale ulteriore e concreta utilità avrebbe potuto apportare in caso di instaurazione del contraddittorio procedimentale né ha indicato quali elementi avrebbe potuto fornire al fine di determinare diversamente la stazione appaltante e indurla alla conservazione degli atti di gara, posto che, come già rilevato, non ha comprovato nemmeno in giudizio né l’insussistenza e ininfluenza delle sopravvenienze né l’identità dell’oggetto dei due affidamenti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.09.2019 n. 6432 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è costante nel ritenere che la variante in senso proprio al titolo edilizio comporti “modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione”; mentre la variante essenziale, caratterizzata da “incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario”, sulla base dei parametri indicati dall'art. 32 del T.U. 380/2001 costituisca un permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario.
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La costante giurisprudenza afferma che nel caso di variante semplice rimangono i termini di efficacia originari del titolo, mentre nel caso della variante essenziale valgono nuovi termini indicati nel nuovo titolo.
Pertanto, si deve ritenere, pena la violazione della disciplina relativa ai termini di efficacia del titolo edilizio, che la variante non essenziale non possa comunque più intervenire quando siano già scaduti i termini originari.
Inoltre, la decadenza del titolo edilizio è considerata effetto legale del verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine, sì che il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo.
Ne deriva che la decadenza, intervenuta per il superamento dei termini previsti per la realizzazione della costruzione, comporta la impossibilità di realizzare la “parte non eseguita” dell’opera a suo tempo assentita, e la necessità del rilascio di un nuovo titolo edilizio per le opere ancora da eseguire.
Una volta intervenuta la decadenza, chiunque intenda completare la costruzione necessita di un nuovo ed autonomo titolo edilizio, che deve provvedere a richiedere, sottoponendosi ad un nuovo iter procedimentale, volto sia a verificare la coerenza di quanto occorre ancora realizzare con le prescrizioni urbanistiche vigenti nell’attualità, sia, se del caso a provvedere al “ricalcolo del contributo di costruzione”.
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Ritiene il Collegio che tale motivo di appello sia infondato.
Risulta, infatti, evidente dalla documentazione agli atti di causa e anche dalla relazione del consulente tecnico nominato nel giudizio di primo grado che il permesso di costruire dell’8 ottobre 2007 sia del tutto autonomo dal precedente.
Ciò risulta in fatto sia dalla nuova istruttoria effettuata dall’Amministrazione, di cui dà atto lo stesso Comune nella nota del Responsabile del procedimento, prot. n. 12110 del 03.07.2008, allegata alla relazione del C.T.U. e citata dal giudice di primo grado sia dalle sostanziali modifiche di sagoma, di prospetti e di cubatura introdotte rispetto al progetto originario, secondo quanto indicato dal consulente.
Il parametro normativo per la definizione di varianti cd. essenziali che comportano il rilascio di un nuovo titolo edilizio è costituito dall’art. 32 del D.P.R. 380 del 2001 che, nel testo allora vigente indicava le varianti essenziali come quelle “mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968; b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato; c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza; d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito; e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali".
La giurisprudenza è costante nel ritenere che la variante in senso proprio al titolo edilizio comporti “modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione”; mentre la variante essenziale, caratterizzata da “incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario”, sulla base dei parametri indicati dall'art. 32 del T.U. 380/2001 costituisca un permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario (Consiglio di Stato sez. VI 30.03.2017 n. 1484).
Peraltro, nel caso di specie, a monte la configurabilità di una variante è esclusa anche dalla circostanza che la concessione edilizia rilasciata il 30.01.1997 era scaduta senza che fossero mai stati completati i lavori né concessa una proroga prima della scadenza del titolo.
Infatti, la concessione edilizia rilasciata il 30.01.1997 prevedeva i termini di 12 mesi per l’inizio dei lavori e di 36 mesi per l’ultimazione dalla data del rilascio, aveva quindi perso efficacia il 30.01.2000.
L’immobile non è stato realizzato nel termine previsto dall’originario titolo edilizio; infatti l’atto del 22.11.2005 di “voltura e rinnovo” della concessione ha fatto riferimento, quale presupposto per la sua adozione, “al ritardo sulle lavorazioni dovuto alla particolare complessità delle opere geotecniche”; a tale data, quindi, i lavori non erano ancora terminati.
L’art. 4 della legge 28.01.1977 n. 10, da cui era disciplinata la concessione rilasciata nel 1997, disponeva che l’atto di concessione indicasse i termini di inizio e di ultimazione dei lavori. Inoltre, prevedeva: “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno; il termine di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni e può essere prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti estranei alla volontà del concessionario, che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione. Un periodo più lungo per l'ultimazione dei lavori può essere concesso esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive; ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.
Qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata
”.
Analoga disciplina è contenuta nell’art. 15 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, per cui “il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari”.
Inoltre, in base al comma 3 della medesima disposizione, “la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante denuncia di inizio attività (ora SCIA) ai sensi dell'articolo 22. Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione”. Infine “il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
Tale disciplina comporta che a seguito della concessione edilizia del 30.01.1997, scaduta senza che fosse presentata alcuna richiesta di proroga prima della scadenza, in alcun modo si potesse configurare una variante; né, in difetto di proroga tempestiva, avrebbero potuto essere salvati gli effetti di un titolo edilizio già scaduto.
La costante giurisprudenza afferma, altresì, che nel caso di variante semplice rimangono i termini di efficacia originari del titolo, mentre nel caso della variante essenziale valgono nuovi termini indicati nel nuovo titolo (Cons. Stato Sez. VI, 20.11.2017, n. 5324; Sez. IV, 11.10.2017, n. 4704).
Pertanto, si deve ritenere, pena la violazione della disciplina relativa ai termini di efficacia del titolo edilizio, che la variante non essenziale non possa comunque più intervenire quando siano già scaduti i termini originari.
Inoltre, la decadenza del titolo edilizio è considerata effetto legale del verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine, sì che il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo.
Ne deriva che la decadenza, intervenuta per il superamento dei termini previsti per la realizzazione della costruzione, comporta la impossibilità di realizzare la “parte non eseguita” dell’opera a suo tempo assentita, e la necessità del rilascio di un nuovo titolo edilizio per le opere ancora da eseguire.
Una volta intervenuta la decadenza, chiunque intenda completare la costruzione necessita di un nuovo ed autonomo titolo edilizio, che deve provvedere a richiedere, sottoponendosi ad un nuovo iter procedimentale, volto sia a verificare la coerenza di quanto occorre ancora realizzare con le prescrizioni urbanistiche vigenti nell’attualità, sia, se del caso a provvedere al “ricalcolo del contributo di costruzione” (Cons. Stato sez. IV 11.04.2014 n. 1747).
Infine, i provvedimenti abilitativi in materia edilizia sono tipizzati dal legislatore (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 25.09.2019 n. 6424 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ENTI LOCALI: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Responsabilità per i danni causati dai cani randagi – Responsabilità solidale del Comune e dell’Azienda Unità Sanitaria – Legge quadro nazionale n. 281/1991 – Rischio per l’incolumità della popolazione – FAUNA – Randagismo – Eventuale pericolosità degli animali – DIRITTO SANITARIO – Compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi – RISARCIMENTO DANNI – Responsabilità del Comune e ASL.
L’attribuzione per legge ad uno o più determinati enti pubblici del compito della cattura e della custodia degli animali vaganti o randagi (e cioè liberi e privi di proprietario) può infatti considerarsi il fondamento della responsabilità per i danni eventualmente arrecati alla popolazione dagli animali suddetti, anche sotto l’aspetto della responsabilità civile. Non può invece ritenersi sufficiente, a tal fine, l’attribuzione di generici compiti di prevenzione del randagismo, e a maggior ragione di semplici compiti di controllo delle nascite della popolazione canina e felina.
Tali ultime competenze, in particolare, non possono ritenersi direttamente riferibili alla prevenzione dello specifico rischio per l’incolumità della popolazione derivante dalla eventuale pericolosità degli animali randagi, e non possono quindi fondare una responsabilità civile per i danni da questi ultimi arrecati, avendo ad oggetto il solo controllo “numerico” della popolazione canina, a fini di igiene e profilassi e, al più, una solo generica e indiretta prevenzione dei vari inconvenienti legati al randagismo. Poiché la legge quadro statale n. 281/1991 non indica direttamente a quale ente spetta il compito di cattura e custodia dei cani randagi, ma rimette alle Regioni la regolamentazione concreta della materia, occorre analizzare la normativa regionale, caso per caso
(Cass. 12495/2017).
Nella specie, ai sensi della L.R. Lazio 21.10.1997, n. 34, art. 2, comma 1, lett. b), e art. 3, comma 3, lett. a), sussiste la responsabilità solidale del Comune di Ceprano e dell’Azienda Unità Sanitaria Locale Frosinone per i danni causati a terzi da cani randagi, dei quali l’uno e l’altra non abbiano assicurato la cattura e la custodia. Tale competenza in relazione alla cattura e custodia dei cani vaganti non è in alcun modo condizionata al fatto che il Comune od altri enti o privati cittadini segnalino l’esistenza di cani randagi da accalappiare (Cass. civ. Sez. III, 20.06.2017, n. 15167)
(Corte di Cassazione, Sez. III civile, ordinanza 24.09.2019 n. 23633 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIConsultazioni preliminari di mercato.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Gara - Consultazioni preliminari di mercato – Natura.
L'istituto delle consultazioni preliminari di mercato è una semplice pre-fase di gara, non finalizzata all'aggiudicazione di alcun contratto, risolvendosi in uno strumento a disposizione della stazione appaltante con cui è possibile avviare un dialogo informale con gli operatori economici e/o con soggetti comunque esperti dello specifico settore di mercato onde acquisire quelle informazioni di cui è carente per giungere ad una migliore consapevolezza relativamente alle disponibilità e conoscenze degli operatori economici rispetto a determinati beni o servizi (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che in tale ottica, le consultazioni preliminari ben possono costituire lo strumento attraverso il quale accertare l'eventuale infungibilità di beni, prestazioni, servizi, che costituisce la premessa necessaria per derogare al principio della massima concorrenzialità nell'affidamento dei contratti pubblici.
Al riguardo, con le proprie linee guida n. 8 del 13.09.2017, l'ANAC ha condivisibilmente chiarito che per fare luogo all'affidamento mediante procedura negoziata senza pubblicazione di bando spetta alla stazione appaltante verificare rigorosamente l'esistenza dei presupposti che giustifichino l'infungibilità del prodotto o servizio che si intende acquistare.
L’adozione di scelte limitative del confronto concorrenziale si giustifica solo se sostenuta da specifica motivazione sulla sostanziale impossibilità della stazione appaltante, rigorosamente accertata, di soddisfare le proprie esigenze rivolgendosi indistintamente al mercato.
Le consultazioni di mercato possono costituire, dunque, "lo strumento per acquisire le informazioni necessarie per svolgere la richiamata istruttoria e per fondare la conseguente motivazione" ovvero per validare le conoscenze già aliunde acquisite.
In tale ultima evenienza è di tutta evidenza come le determinazioni acquisite devono essere incontrovertibili, sì da rendere addirittura inutile il sondaggio pubblico dovendo altrimenti risultare strutturalmente cedevoli a fronte di un possibile diverso esito del sondaggio in questione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 23.09.2019 n. 6302 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
Com’è noto, l’art 66 del codice dei contratti pubblici, riferito alle “Consultazioni preliminari di mercato”, nel recepire la direttiva 2014/24/UE (artt. 40 e 41) così dispone: 1. Prima dell'avvio di una procedura di appalto, le amministrazioni aggiudicatrici possono svolgere consultazioni di mercato per la preparazione dell'appalto e per lo svolgimento della relativa procedura e per informare gli operatori economici degli appalti da esse programmati e dei requisiti relativi a questi ultimi.
2. Per le finalità di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici possono acquisire consulenze, relazioni o altra documentazione tecnica da parte di esperti, di partecipanti al mercato nel rispetto delle disposizioni stabilite nel presente codice, o da parte di autorità indipendenti. Tale documentazione può essere utilizzata nella pianificazione e nello svolgimento della procedura di appalto, a condizione che non abbia l'effetto di falsare la concorrenza e non comporti una violazione dei principi di non discriminazione e di trasparenza.
Il successivo art. 67, relativo alla “Partecipazione precedente di candidati o offerenti”, stabilisce: 1. Qualora un candidato o un offerente o un'impresa collegata a un candidato o a un offerente abbia fornito la documentazione di cui all'articolo 66, comma 2, o abbia altrimenti partecipato alla preparazione della procedura di aggiudicazione dell'appalto, l'amministrazione aggiudicatrice adotta misure adeguate per garantire che la concorrenza non sia falsata dalla partecipazione del candidato o dell'offerente stesso. La comunicazione agli altri candidati e offerenti di informazioni pertinenti scambiate nel quadro della partecipazione del candidato o dell'offerente alla preparazione della procedura o ottenute a seguito di tale partecipazione, nonché la fissazione di termini adeguati per la ricezione delle offerte costituisce minima misura adeguata.
2. Qualora non sia in alcun modo possibile garantire il rispetto del principio della parità di trattamento, il candidato o l'offerente interessato è escluso dalla procedura. In ogni caso, prima di provvedere alla loro esclusione, la amministrazione aggiudicatrice invita i candidati e gli offerenti, entro un termine comunque non superiore a dieci giorni, a provare che la loro partecipazione alla preparazione della procedura di aggiudicazione dell'appalto non costituisce causa di alterazione della concorrenza.
3. Le misure adottate dall'amministrazione aggiudicatrice sono indicate nella relazione unica prevista dall'articolo 99 del presente codice.
Nella lettura giurisprudenziale più accreditata del quadro normativo sopra richiamato (sintetizzata da ultimo nel parere licenziato dal CdS, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, Adunanza di Sezione del 17.01.2019) si è evidenziato che l'istituto delle consultazioni preliminari di mercato è una semplice pre-fase di gara, non finalizzata all'aggiudicazione di alcun contratto, risolvendosi in uno strumento a disposizione della stazione appaltante con cui è possibile avviare un dialogo informale con gli operatori economici e/o con soggetti comunque esperti dello specifico settore di mercato onde acquisire quelle informazioni di cui è carente per giungere ad una migliore consapevolezza relativamente alle disponibilità e conoscenze degli operatori economici rispetto a determinati beni o servizi.
In tale ottica, le consultazioni preliminari ben possono costituire lo strumento attraverso il quale accertare l'eventuale infungibilità di beni, prestazioni, servizi, che costituisce la premessa necessaria per derogare al principio della massima concorrenzialità nell'affidamento dei contratti pubblici. Al riguardo, con le proprie linee guida n. 8 del 13.09.2017, l'ANAC ha condivisibilmente chiarito che per fare luogo all'affidamento mediante procedura negoziata senza pubblicazione di bando spetta alla stazione appaltante verificare rigorosamente l'esistenza dei presupposti che giustifichino l'infungibilità del prodotto o servizio che si intende acquistare.
Coerentemente, il comma 8 dell’art. 31 della Legge Regionale n. 4/2010, prevede che prima di procedere all’acquisizione di beni infungibili è necessario avviare una specifica istruttoria intesa ad accertare se sussistono ragioni di natura tecnica o artistica ovvero attinenti alla tutela dei diritti di esclusiva in grado di confermare se sul mercato sia presente un’unica impresa in grado di garantire la fornitura con il grado di perfezione tecnica richiesto.
In definitiva, l'adozione di scelte limitative del confronto concorrenziale si giustifica solo se sostenuta da specifica motivazione sulla sostanziale impossibilità della stazione appaltante, rigorosamente accertata, di soddisfare le proprie esigenze rivolgendosi indistintamente al mercato.
Le consultazioni di mercato possono costituire, dunque, "lo strumento per acquisire le informazioni necessarie per svolgere la richiamata istruttoria e per fondare la conseguente motivazione" ovvero per validare le conoscenze già aliunde acquisite.
In tale ultima evenienza è di tutta evidenza come le determinazioni acquisite devono essere incontrovertibili, sì da rendere addirittura inutile il sondaggio pubblico dovendo altrimenti risultare strutturalmente cedevoli a fronte di un possibile diverso esito del sondaggio in questione.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Ricorso per la declaratoria dell’illegittimità del silenzio serbato su un’istanza di interpretazione autentica delle NTA.
L’elemento decisivo a favore dell’inammissibilità del ricorso per la declaratoria dell’illegittimità del silenzio serbato su un’istanza diretta al consiglio comunale di interpretazione autentica di una norma delle NTA di un PGT è che non sussiste l’obbligo di provvedere richiesto dall’art. 31 del c.p.a., secondo il quale “Decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere”.
Infatti, l’art. 13, c. 14-bis, della L.R. 12/2005 stabilisce che “I comuni, con deliberazione del consiglio comunale analiticamente motivata, possono procedere alla correzione di errori materiali, a rettifiche e a interpretazioni autentiche degli atti di PGT non costituenti variante agli stessi”.
La norma evidentemente considera facoltativo questo strumento, come d’altronde lo è sempre il potere di interpretazione autentica di atti normativi da parte dell’organo che ha posto in essere le norme da interpretare; il titolare della potestà normativa ha piena discrezionalità sia nello stabilire se i dubbi in merito all’applicabilità della norma siano oggettivi o soggettivi, sia nella scelta tra l’atto interpretativo e quello modificativo delle norme
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.09.2019 n. 1997 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.2 Per quanto riguarda l’eccezione di inammissibilità del rito del silenzio in quanto utilizzato per ottenere l’adozione di un atto amministrativo normativo o generale, qual è un atto interpretativo delle NTA comunali (nel senso della natura normativa delle NTA comunali Consiglio di stato, Adunanza Generale, parere 06.06.2012 n. 2735), occorre precisare che la giurisprudenza più recente (Cons. Stato, IV, 17/12/2018 n. 7090) ha evidenziato che la contrapposizione tra l’orientamento prevalentemente negativo (cfr. cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2017, n. 6096; id., sez. V, 09.03.2015, n. 1182; id., sez. IV, 22.06.2011, n. 3798; id., 07.07.2009, n. 4351), che argomenta dalla impossibilità di individuare specifici “destinatari” degli atti in questione in capo ai quali possa radicarsi una posizione giuridica qualificata e differenziata, definibile come di interesse legittimo, e l’orientamento positivo (CGA sent. 19.04.2012 n. 396), secondo il quale dal punto di vista testuale non vi è alcun indice di una preclusione normativa all’esperibilità del rito sul silenzio rispetto agli atti generali e che il problema sia piuttosto quello di verificare con attenzione l’effettiva sussistenza di una posizione giuridica legittimante in capo a coloro i quali, in relazione alla propria qualità di possibili futuri destinatari delle previsioni regolamentari o generali da adottarsi (ad esempio, in quanto rientranti in una particolare categoria o in possesso di particolari requisiti), possono dirsi specificamente interessati all’adozione degli stessi, è più apparente che reale, perché traslare il problema dalla natura dell’atto alla posizione giuridica del ricorrente, non sposta più di tanto il problema in quanto “proprio in ragione dell’ordinario rivolgersi di tali atti a una pluralità indifferenziata di soggetti destinatari, non individuabili ex ante e destinati anche a cambiare nel corso del tempo, è molto complessa e delicata l’opera di individuazione dei requisiti della legittimazione e dell’interesse a ricorrere in capo a chi si attivi per l’adozione di provvedimenti di tal natura”.
2.3 L’elemento decisivo a favore dell’inammissibilità del ricorso è che non sussiste l’obbligo di provvedere richiesto dall’art. 31 del c.p.a., secondo il quale “Decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere”.
Infatti l’art. 13, c. 14-bis, della L.R. 12/2005 invocato dal ricorrente, stabilisce che “I comuni, con deliberazione del consiglio comunale analiticamente motivata, possono procedere alla correzione di errori materiali, a rettifiche e a interpretazioni autentiche degli atti di PGT non costituenti variante agli stessi”. La norma evidentemente considera facoltativo questo strumento, come d’altronde lo è sempre il potere di interpretazione autentica di atti normativi da parte dell’organo che ha posto in essere le norme da interpretare. Il titolare della potestà normativa ha piena discrezionalità sia nello stabilire se i dubbi in merito all’applicabilità della norma siano oggettivi o soggettivi, sia nella scelta tra l’atto interpretativo e quello modificativo delle norme.
2.4 Ad abundantiam occorre notare che, anche a voler ritenere che l’azione nei confronti del silenzio-rifiuto sia proponibile, in conformità all’ampio tenore letterale dell’art. 31, comma 1, del codice del processo amministrativo, con riguardo ad un potere ufficioso (problema che si è posto anche Consiglio di Stato, adunanza plenaria sentenza 29.07.2011 n. 15 par. 6.1.1.), anche la legittimazione e l’interesse a ricorrere risultano inesistenti. Il ricorrente infatti radica la propria legittimazione nel fatto di aver presentato una domanda ed aver ricevuto diverse interpretazioni non condivise dalla struttura amministrativa, ed il proprio interesse a ricorrere nell’intenzione di ripresentare correttamente la domanda di autorizzazione del suo progetto edilizio.
Tuttavia la mera presentazione di un’istanza non può creare un obbligo di risposta se l’istante non è titolare di una posizione di interesse legittimo differenziata e qualificata (in tal senso Cons. Stato, sez. VI, 25.01.2008, n. 215; Cons. Stato, sez. V, 25.02.2009, n. 1116; Cons. Stato, sez. VI, 12.11.2009, n. 7057), né il fatto di aver presentato altre domande già respinte e fondate su un’interpretazione normativa non condivisa, permette di riconoscere nel ricorrente una posizione differenziata, se non a costo di trasformare l'istanza di interpretazione proposta al consiglio comunale in una richiesta mascherata di autotutela delle precedenti risposte dell’ufficio tecnico, in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale che da sempre ritiene insufficienti a legittimare l’azione contro il silenzio inadempimento la richiesta di riesame di atti sfavorevoli (ex plurimis Cons. Stato, VI, 27/07/2017, n. 3758).
L’inammissibilità della domanda contro il silenzio si estende anche alla correlativa domanda risarcitoria in quanto impedisce l’accertamento della posizione giuridica tutelata.

ATTI AMMINISTRATIVI: 1.- Pubblica Amministrazione – Responsabilità –illecito aquiliano c.d. da illegittima attività amministrativa – atto amministrativo illegittimo generale – atti esecutivi - indebita sottrazione al mercato degli affidamenti di pubblici servizi – perdita di “chance”.
La fattispecie costitutiva dell’illecito aquiliano c.d. da illegittima attività amministrativa -così come si è venuta delineando nell’evoluzione giurisprudenziale in materia di azione risarcitoria contro la pubblica Amministrazione- potrebbe, in astratto, non essere interamente compiuta al momento dell’adozione di un atto amministrativo illegittimo generale, avente cioè natura regolamentare e programmatica, ove questo sia, in sé, privo di autonoma efficacia lesiva, in quanto necessitante allo scopo di distinti successivi atti esecutivi. In ipotesi, gli atti esecutivi potrebbero essere elementi necessari a “completare” la fattispecie oggettiva dell’illecito causativo di responsabilità, sia quanto alla condotta dannosa che quanto al danno risarcibile.
In particolare, gli atti amministrativi esecutivi, illegittimi perché viziati da illegittimità derivata dall’atto amministrativo generale (dovendosi poi distinguere, nei singoli casi, se si tratti di invalidità ad effetto caducante o ad effetto viziante), potrebbero, volta a volta, risultare necessari per dare luogo ad una compiuta fattispecie di illecito, consentendo di individuare i soggetti titolari degli interessi legittimi incisi dall’attività amministrativa illegittima e/o di concretizzare le conseguenze pregiudizievoli da questa prodotti nella sfera patrimoniale di tali soggetti.
Con la precisazione che il danno risarcibile in caso di illegittima attività amministrativa comportante l’indebita sottrazione al mercato degli affidamenti di pubblici servizi mantiene sempre la medesima natura, che è quella di danno c.d. da perdita della chance (di partecipare ad uno o più procedimenti di evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi, qualora l’impresa abbia la seria probabilità di conseguire un risultato utile all’esito di tale partecipazione); piuttosto, la sua quantificazione -pur continuando ad essere equitativa, in quanto danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare (arg. ex art. 1226 cod. civ.)- diviene tuttavia riferibile al singolo servizio oggetto della convenzione di affidamento diretto, piuttosto che ad un numero indeterminato di servizi affidabili in forza della sola deliberazione di indirizzo (nello specifico, della giunta regionale).
In sintesi, si può affermare che, nel caso di adozione di un atto amministrativo generale e programmatico seguito dall’adozione di atti esecutivi, l’illegittimità del primo e l’illegittimità derivata dei secondi danno luogo ad un’unitaria fattispecie di illecito produttiva di responsabilità della pubblica amministrazione, potendosi verificare, in concreto, che gli elementi costitutivi della relativa fattispecie risultino integrati sin dal momento dell’adozione dell’atto generale ovvero che, volta a volta, necessitino, allo scopo, dell’adozione degli atti esecutivi, nei termini su enunciati
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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5. I primi tre profili di censura, da trattare congiuntamente perché connessi, sono infondati.
5.1. In primo luogo, l’assunto sub 1) è smentito dalla formulazione della domanda di cui al ricorso n. 1337/2013 così come proposto dinanzi al Tar, in quanto questo individua causa petendi e petitum della domanda risarcitoria nell’adozione delle deliberazioni della G.R. n. 516/2009 e, per quanto qui rileva, n. 751/2009 e nel loro annullamento con la sentenza n. 458/2013, a sostegno dell’affermazione circa “l’evidente ed incontestabile obbligo della Regione Puglia di risarcire Me. per il danno patito a causa dell’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa consumatosi con l’adozione delle citate deliberazioni n. 516 e n. 751 del 2009”; nel conseguente “affidamento diretto dei predetti servizi in favore di InnovaPuglia”, con convenzioni e relativi atti deliberativi, rispetto ai quali la “DGR 751/2009 costituisce il presupposto fondante la decisione di avvalersi di InnovaPuglia senza ricorrere a procedure di evidenza pubblica”; nella portata “dei successivi atti adottati dalla Regione per dare esecuzione alle attività previste dalla deliberazione n. 751/2009” di atti “meramente ricognitivi e reiterativi della convenzione generale approvata con la stessa deliberazione”; negli “affidamenti che la Regione Puglia, a partire dal 2009 e sino ad oggi, ha continuato a disporre in favore di Innovapuglia ai fini dello svolgimento di ulteriori prestazioni ancorché non espressamente contemplate dalla delibera DGR n. 751/2009” (sui quali ultimi si tornerà infra), ma sempre nella prospettiva che si sia trattato di rapporti “perfezionati in ragione (e secondo il regolamento negoziale) della convenzione generale oggetto di approvazione con la DGR n. 751/2009”.
5.1.1. Date tali allegazioni (precisate con la memoria depositata il 04.06.2015), non è decisivo, come sostenuto dalla ricorrente, che la condotta illecita, nel presente giudizio, venga individuata, piuttosto che nell’adozione della deliberazione della giunta, nella stipulazione, da parte dei dirigenti regionali, delle diverse convenzioni di affidamento diretto dei servizi mediante l’utilizzo dello schema di convenzione approvato con la deliberazione di G.R. n. 751/2009: si tratta comunque di atti negoziali esecutivi, la cui illegittimità è derivata dall’illegittimità di tale ultima deliberazione, la quale -come detto nel ricorso introduttivo della stessa Megatrend- ha costituito “la fonte di legittimazione negoziale degli organi regionali a contrarre” con InnovaPuglia.
Le determinazioni dirigenziali a contrarre e/o la stipulazione delle singole convenzioni di affidamento sono condotte che rinvengono la propria efficacia lesiva della posizione soggettiva dell’impresa, operante nello stesso settore di attività ed aspirante all’affidamento dei medesimi servizi, nell’atto generale presupposto e perciò sono condotte inidonee ad interrompere la relazione di interdipendenza esistente tra la deliberazione di indirizzo (di individuazione della società ritenuta in house e di approvazione della convenzione-tipo per l’affidamento diretto dei servizi regionali) ed i singoli affidamenti diretti (che si assumono produttivi di danno), la quale comporta la riconducibilità causale del danno lamentato alla prima, sia pure per il tramite dei secondi.
5.2. E’ vero piuttosto che la fattispecie costitutiva dell’illecito aquiliano c.d. da illegittima attività amministrativa -così come si è venuta delineando nell’evoluzione giurisprudenziale in materia di azione risarcitoria contro la pubblica amministrazione- potrebbe, in astratto, non essere interamente compiuta al momento dell’adozione di un atto amministrativo illegittimo generale, avente cioè natura regolamentare e programmatica, ove questo sia, in sé, privo di autonoma efficacia lesiva, in quanto necessitante allo scopo di distinti successivi atti esecutivi.
5.2.1. In ipotesi, gli atti esecutivi potrebbero essere elementi necessari a “completare” la fattispecie oggettiva dell’illecito causativo di responsabilità, sia quanto alla condotta dannosa che quanto al danno risarcibile.
In particolare, gli atti amministrativi esecutivi, illegittimi perché viziati da illegittimità derivata dall’atto amministrativo generale (non rileva qui se si tratti di invalidità ad effetto caducante o ad effetto viziante), potrebbero, volta a volta, risultare necessari per dare luogo ad una compiuta fattispecie di illecito, consentendo di individuare i soggetti titolari degli interessi legittimi incisi dall’attività amministrativa illegittima e/o di concretizzare le conseguenze pregiudizievoli da questa prodotti nella sfera patrimoniale di tali soggetti.
Con la precisazione che il danno risarcibile in caso di illegittima attività amministrativa comportante l’indebita sottrazione al mercato degli affidamenti di pubblici servizi mantiene sempre, contrariamente a quanto assume l’appellante, la medesima natura, che è quella di danno c.d. da perdita della chance (di partecipare ad uno o più procedimenti di evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi, qualora l’impresa abbia -secondo la ricostruzione di tale tipologia di danno, di cui si dirà- la seria probabilità di conseguire un risultato utile all’esito di tale partecipazione); piuttosto, la sua quantificazione -pur continuando ad essere equitativa, in quanto danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare (arg. ex art. 1226 cod. civ.)- diviene tuttavia riferibile al singolo servizio oggetto della convenzione di affidamento diretto, piuttosto che ad un numero indeterminato di servizi affidabili in forza della sola deliberazione di indirizzo della giunta regionale.
5.2.2. In sintesi, si può affermare che, nel caso di adozione di un atto amministrativo generale e programmatico seguito dall’adozione di atti esecutivi, l’illegittimità del primo e l’illegittimità derivata dei secondi danno luogo ad un’unitaria fattispecie di illecito produttiva di responsabilità della pubblica amministrazione, potendosi verificare, in concreto, che gli elementi costitutivi della relativa fattispecie risultino integrati sin dal momento dell’adozione dell’atto generale ovvero che, volta a volta, necessitino, allo scopo, dell’adozione degli atti esecutivi, nei termini su enunciati.
5.3. Siffatta conclusione così come le, pur corrette, deduzioni dell’appellante sopra sintetizzate sub 2) e 3) – rispettivamente in punto di portata generale, regolamentare e programmatica della deliberazione della G.R. n. 751/2009 ed in punto di non “deducibilità” delle singole convenzioni attuative nel giudizio che ebbe ad oggetto quest’ultima deliberazione di giunta- non valgono a superare la portata del giudicato di rigetto formatosi sulla domanda risarcitoria avanzata in quel giudizio di annullamento.
In proposito va fatta applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza per l’individuazione dell’ambito oggettivo del giudicato, e segnatamente di quello per il quale allorquando due giudizi tra le stesse parti vertano sullo stesso rapporto giuridico e uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento già compiuto in ordine a una situazione giuridica e la soluzione di una questione di fatto o di diritto che abbiano inciso su un punto fondamentale comune ad entrambe le cause e abbiano costituito la logica premessa contenuta nel dispositivo della sentenza passata in giudicato, precludono nel secondo giudizio il riesame del punto accertato nel primo (cfr. Cass. sez. III, 03.03.2004, n. 4352 e, di recente, id., sez. II, 21.02.2019, n. 5138).
5.3.1. Orbene, la portata unitaria del fatto costitutivo dell’illecito aquiliano cui dà luogo, secondo quanto detto sopra, l’attività amministrativa consistita in un atto amministrativo generale illegittimo, seguito da atti esecutivi viziati da illegittimità derivata, comporta che i due giudizi tra le stesse parti aventi ad oggetto rispettivamente, in ordine cronologico successivo, il primo ed i secondi, vertano sul medesimo rapporto giuridico e che abbiano quale punto fondamentale comune l’illegittimità dell’atto amministrativo generale e la sua potenzialità lesiva della situazione giuridica soggettiva della parte privata presente in entrambi i giudizi.
In sintesi, le due azioni risarcitorie trovano fondamento in fatti costitutivi che non sono tra loro totalmente diversi (come nei precedenti in cui si è esclusa la preclusione nascente dal giudicato, per essere distinto l’oggetto della domanda o perché comunque la pretesa trovava fondamento in fatti costitutivi diversi: cfr. Cons. Stato, IV, 17.11.2015, n. 5223, citata dalla ricorrente) ma coincidenti, sia pure parzialmente.
5.3.2. Nel caso di specie, l’ambito oggettivo del giudicato è delineato dalla sentenza di questa Sezione V, 13.03.2014, n. 1181, in termini tali da doversi escludere che esso consentisse la (ri)proposizione della domanda risarcitoria per l’illegittimità (derivata) delle convenzioni esecutive della deliberazione n. 751/2009 dichiarata illegittima e perciò annullata, perché la decisione ha escluso, in radice, l’efficacia lesiva nei confronti di Megatrend (quindi, la sussistenza di un “danno ingiusto”, effetto) dell’atto di indirizzo favorevole ad InnovaPuglia.
La sentenza infatti ha respinto l’appello incidentale, con il quale era stata riproposta la pretesa risarcitoria di Me. connessa al ristoro delle attività sottratte alle ordinarie dinamiche concorrenziali, in termini di perdita di chance concorrenziali, già disattesa dal tribunale amministrativo regionale con la sentenza del 02.04.2013, n. 458, espressamente condividendo le argomentazioni del primo giudice “quanto ad assenza di prova specifica del danno” ed osservando che “[…] quando si chiede il risarcimento da perdita di chance, si fa valere il danno associato alla perdita di una probabilità non trascurabile di conseguire il risultato utile, con la conseguenza che l'istanza non può essere accolta ove il danneggiato non dimostri, anche in via presuntiva, ma con serietà ed adeguatezza, l'esistenza dei concreti presupposti per la realizzazione del risultato sperato; va quindi dedotta una probabilità di successo maggiore del 50%, statisticamente valutabile con giudizio prognostico ex ante, in base agli elementi di fatto forniti dal danneggiato, e alla mancanza di tale prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., atteso che l'applicazione di tale norma richiede che risulti provata o comunque incontestata l'esistenza di un danno risarcibile ed è diretta a far fronte all'impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 04.09.2013, n. 4408).
Nel caso di specie, non essendovi alcuna dimostrazione di una probabilità di successo maggiore del 50%, da parte dell’appellante incidentale, di poter ottenere i servizi che sono stati illegittimamente chiusi alle dinamiche concorrenziali, la relativa domanda risarcitoria non può essere accolta
”.
5.3.3. La sentenza, quindi, ha escluso la risarcibilità del danno da perdita di chance non per la natura di atto generale a contenuto programmatorio della deliberazione impugnata né per la mancata stipulazione (o per la mancata deduzione in giudizio della stipulazione) delle convenzioni attuative, bensì perché è mancata la prova da parte di Megatrend di avere una “probabilità di successo maggiore del 50%” (così irrevocabilmente individuata la chance rilevante) in riferimento a tutti “i servizi che sono stati illegittimamente chiusi alle dinamiche concorrenziali”.
La portata preclusiva di tale statuizione è evidente, in quanto riferisce il difetto di prova ad un punto fondamentale comune sia a quel giudizio che al presente, vale a dire la (mancanza di) efficacia lesiva nei confronti di Megatrend della deliberazione illegittima con riferimento a tutti i servizi regionali ivi contemplati o ad essa riconducibili. Costituendo tale deliberazione l’antecedente logico-giuridico necessario delle determinazioni dirigenziali e/o convenzioni che nel presente giudizio si assumono viziate da illegittimità derivata, la mancanza di prova “del danno” risarcibile (id est, del “danno ingiusto”) nei confronti della ricorrente così come accertata nella sentenza passata in giudicato, rende impossibile, in forza del principio del ne bis in idem, colmare tale lacuna probatoria, fornendo nel presente giudizio la prova dell’evento di danno in riferimento a ciascuno dei servizi, poi fatto oggetto di specifico affidamento.
5.4. La riferibilità della pronuncia di questa Sezione n. 1181/2014 a tutte le attività sottratte alle dinamiche concorrenziali in forza della deliberazione impugnata con l’azione di annullamento è confermata da altra sentenza intervenuta tra le stesse parti, parimenti passata in giudicato, secondo quanto appresso.
5.4.1. Con ricorso per ottemperanza ai sensi dell’art. 112 Cod. proc. amm. proposto dinanzi al Tar per la Puglia la società Megatrend, nel denunciare l’(asserita) inerzia della Regione Puglia nel conformarsi alla sentenza n. 458/2013, aveva infatti richiesto ancora una volta la condanna della regione al ristoro dei danni subiti con riferimento sia “alla perdita delle chanches contrattuali di Megatrend di risultare aggiudicataria a seguito di gara pubblica delle attività già oggetto di affidamento in favore di InnovaPuglia” sia ad un’(asserita) elusione del giudicato.
Già la sentenza di primo grado del 07.07.2016, n. 864, nell’escludere tale ultima fattispecie, aveva ritenuto formato il giudicato di rigetto sulla domanda risarcitoria per perdita di chance contrattuali, in forza delle sentenze n. 458/2013 e n. 1181/2014.
La sentenza di questa Sezione, 27.07.2017, n. 3704, decidendo l’appello proposto in sede di ottemperanza, l’ha respinto anche nella parte in cui contestava la “ratifica” da parte della Regione Puglia dei rapporti contrattuali pregressi, conclusi con InnovaPuglia, quando questa non era un soggetto in house , motivando che “sotto questo profilo, risulta dirimente la considerazione secondo cui, essendosi questi rapporti ormai svolti, non c’è più interesse da parte di Megatrend ad ottenerne la caducazione o l’accertamento della inefficacia. I relativi servizi, già espletati, non potrebbero, infatti, essere oggi oggetto di gara. Potrebbe al più residuare un profilo risarcitorio (in termini di danno da perdita della chance, per non esserci stata la gara in conseguenza dell’illegittimo affidamento diretto illo tempore disposto a favore di InnovaPuglia).
Questo tipo di danno, tuttavia, è riconducibile al provvedimento originariamente impugnato e, dunque, oggi anche la correlata pretesa risarcitoria è coperta dal giudicato che aveva respinto, per difetto di prova, la domanda di risarcimento del danno provocato dal provvedimento annullato
”.
Anche tale sentenza evidenzia, quindi, il rapporto di pregiudizialità logico-giuridica esistente, nel caso concreto, tra la pronuncia riguardante la domanda risarcitoria dei danni causati dall’atto deliberativo generale e la presente pronuncia, non potendosi reputare esistente, in riferimento ai servizi pubblici via via affidati, quella “probabilità di successo maggiore del 50%” che è stata esclusa in riferimento ai medesimi servizi unitariamente considerati come oggetto della deliberazione di giunta.
5.5. Come argomentato nella memoria di replica dell’appellante, è tuttora controverso l’indirizzo interpretativo secondo cui la risarcibilità del danno da perdita di chance sia condizionata alla prova certa di una probabilità di successo almeno pari al 50%. Tuttavia, la preclusione nascente dal giudicato impedisce di riconsiderare, nel presente giudizio, sia la statuizione in diritto contenuta nella sentenza n. 1181/2014 sia l’accertamento in fatto che ne sta a fondamento (circa la mancata dimostrazione delle probabilità di aggiudicazione, da parte di Me., di gare pubbliche aventi ad oggetto i servizi informatici affidati in house a InnovaPuglia, in misura superiore alla soglia del 50%), per le ragioni sopra esposte.
5.6. Per tali ragioni, va confermata la sentenza appellata di inammissibilità della domanda risarcitoria per violazione del principio del ne bis in idem.
6. Al punto sub 4) del ricorso in appello si sostiene, in subordine, che tale conclusione non sarebbe riferibile a quegli affidamenti diretti ad InnovaPuglia che non rinverrebbero il loro immediato presupposto nell’atto deliberativo generale, perché estranei all’elenco delle 14 tipologie di attività analiticamente descritte nelle schede contrassegnate con le sigle da INP001 a INP0014 allegate alla stessa deliberazione.
La censura non merita favorevole apprezzamento.
6.1. Il ricorso depositato il 18.10.2013 è proposto per la “condanna della Regione Puglia al risarcimento del danno ingiusto conseguente all’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, così come accertato e dichiarato dal TAR Puglia–Bari, sez. I, con sentenza n. 458/2013 del 02.04.2013” (come da intestazione) e nella parte espositiva, come già detto, la deliberazione di giunta n. 751/2009 è individuata come l’effettiva fonte del danno lamentato, in quanto “presupposto fondante la decisione di avvalersi di InnovaPuglia senza ricorrere a procedure di evidenza pubblica” ed in quanto anche gli affidamenti relativi a servizi (asseritamente) ivi non contemplati, risulterebbero “perfezionati in ragione (e secondo il regolamento negoziale) della convenzione generale oggetto di approvazione con la DGR n. 751/2009”; parimenti, nella memoria depositata il 04.06.2015, pur essendosi precisato che il danno lamentato sarebbe da imputarsi in via diretta ed immediata, non tanto alla predetta deliberazione (ed all’altra precedentemente impugnata, adottata col n. 516/2009), bensì agli atti dirigenziali recanti l’affidamento diretto ad InnovaPuglia, si continua ad individuare questi ultimi come attuativi di quelle deliberazioni.
Da qui la novità della prospettazione contenuta nell’atto di appello.
6.2. Correlato a tale profilo di inammissibilità risulta quello, dirimente, dovuto all’assoluta genericità della domanda.
Ed invero, proprio in ragione del fatto che negli scritti del primo grado la ricorrente non aveva nettamente distinto gli affidamenti diretti aventi ad oggetto i servizi contemplati nell’allegato alla deliberazione n. 751/2009 da quelli riguardanti servizi (asseritamente) diversi ed ulteriori, né in tali scritti né in quelli del giudizio di appello si rinviene indicazione alcuna riguardante tali ultimi servizi, né quanto alla loro individuazione né quanto alle ragioni dell’asserita loro non riconducibilità all’elenco di cui alla ridetta deliberazione di giunta.
Si tratta di elementi di fatto costitutivi della domanda risarcitoria che la ricorrente aveva l’onere di allegare già con il ricorso introduttivo, previo eventuale accesso agli atti, e la cui mancata indicazione dà luogo ad una lacuna che non può essere colmata in giudizio mediante attività istruttoria (in particolare, con l’ordine di esibizione o con la verificazione o la CTU su cui si insiste con l’atto d’appello) che avrebbe finalità “esplorative”, oltre che inammissibilmente integrative degli atti di parte.
7. In conclusione, l’appello va respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.09.2019 n. 6225 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI FORNITUREPrincipio di equivalenza negli appalti di fornitura.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Appalto fornitura - Principio di equivalenza – Applicabilità - Limiti.
L’ambito di applicazione del principio di equivalenza è piuttosto ampio e permea l’intera disciplina dell’evidenza pubblica, atteso che la possibilità di ammettere a seguito di valutazione della stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche equivalenti a quelle richieste risponde al principio del favor partecipationis e costituisce espressione del legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione (1).
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   (1) La Sezione ha preliminarmente evidenziato l’importanza che la formulazione della lex specialis, sotto il profilo della univocità e completezza dei parametri valutativi, assume ai fini della legittimità della procedura di valutazione e della “elasticità” consentita alla Commissione di gara nell’apprezzamento delle offerte tecniche.
Ha ricordato la Sezione che le valutazioni qualitative della Commissione di gara, a salvaguardia della par condicio dei concorrenti, debbano svolgersi nell’ambito del perimetro delineato dalla lex specialis, quanto in particolare alle caratteristiche dei prodotti offerti, non potendo una valutazione positiva degli aspetti tecnici dell’offerta, operata dalla Commissione, sovrapporsi alla definizione contenuta nella disciplina di gara. L’esplicazione del principio di concorrenza non è incondizionata ma temperata da quello, altrettanto cogente, di tutela della par condicio, ed il punto di incontro tra le relative esigenze è dato dalla disciplina di gara, che fissa –in termini, a seconda dei casi, più o meno rigidi– i limiti entro i quali deve svolgersi il confronto concorrenziale (Cons. St., sez. III, n. 747 del 2018).
Occorre tuttavia considerare che, a dare elasticità al parametro valutativo, così tutelando la massima partecipazione al confronto concorrenziale, interviene il principio di c.d. equivalenza funzionale.
Secondo l’art. 68, d.lgs. n. 50 del 2016, che attua nell’ordinamento nazionale l’art. 42 della direttiva 2014/24/UE, le “specifiche tecniche” (qui da intendersi in senso lato, alla stregua di parametri di definizione dell’offerta tecnica) sono indicate nella lex specialis secondo diverse modalità (comma 3): “in termini di prestazioni o di requisiti funzionali … a condizione che i parametri siano sufficientemente precisi da consentire agli offerenti di determinare l'oggetto dell'appalto e agli enti aggiudicatori di aggiudicare l'appalto” (lettera a); ovvero “mediante riferimento a specifiche tecniche e, in ordine di preferenza, alle norme nazionali che recepiscono norme europee, alle valutazioni tecniche europee, alle specifiche tecniche comuni, alle norme internazionali, ad altri sistemi tecnici di riferimento adottati dagli organismi europei di normalizzazione o, se non esiste nulla in tal senso, alle norme nazionali, alle omologazioni tecniche nazionali o alle specifiche tecniche nazionali in materia di progettazione, di calcolo e di realizzazione delle opere e di uso delle forniture; ciascun riferimento contiene la menzione “o equivalente”” (lett. b); oppure, sostanzialmente, abbinando specifiche tecniche dell’uno e dell’altro dei tipi predetti (lett. c) e d).
Il comma 5 prevede che un’offerta non può essere respinta perché non conforme alle prescrizioni di cui al comma 3, lett. b), previste dalla lex specialis, qualora l’offerente provi che “le soluzioni proposte ottemperano in maniera equivalente ai requisiti definiti dalle specifiche tecniche”.
Il successivo comma 6 aggiunge che un’offerta non può essere respinta qualora risulti conforme ad una “norma nazionale che recepisce una norma europea, a una omologazione tecnica europea, ad una specifica tecnica comune, ad una norma internazionale o a un riferimento tecnico elaborato da un organismo europeo di normalizzazione” [in sostanza, alle specifiche tecniche di cui al comma 3, lett. b)], se tali specifiche “contemplano le prestazioni o i requisiti funzionali … prescritti” dalla lex specialis.
Inoltre, in ogni caso, secondo il comma 4, “Salvo che siano giustificate dall’oggetto dell’appalto, le specifiche tecniche non menzionano una fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare caratteristico dei prodotti o dei servizi forniti da un operatore economico specifico, né fanno riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un’origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti. Tale menzione o riferimento sono autorizzati, in via eccezionale, nel caso in cui una descrizione sufficientemente precisa e intelligibile dell'oggetto dell'appalto non sia possibile applicando il paragrafo 3. Una siffatta menzione o un siffatto riferimento sono accompagnati dall'espressione “o equivalente””.
Quanto appena ricordato evidenzia l’importanza che la formulazione della lex specialis, sotto il profilo della univocità e completezza dei parametri valutativi, assume ai fini della legittimità della procedura di valutazione e della “elasticità” consentita alla Commissione di gara nell’apprezzamento delle offerte tecniche.
La Sezione ha poi ricordato che il principio di equivalenza trova applicazione indipendentemente da espressi richiami negli atti di gara o da parte dei concorrenti, in tutte le fasi della procedura di evidenza pubblica e “l’effetto di “escludere” un’offerta, che la norma consente di neutralizzare facendo valere l’equivalenza funzionale del prodotto offerto a quello richiesto, è testualmente riferibile sia all’offerta nel suo complesso sia al punteggio ad essa spettante per taluni aspetti … e la ratio della valutazione di equivalenza è la medesima quali che siano gli effetti che conseguono alla difformità” (Cons. St., sez. III, n. 6721 del 2018).
Ha aggiunto che l’art. 68, comma 7, d.lgs. n. 50 del 2016 non onera i concorrenti di un’apposita formale dichiarazione circa l’equivalenza funzionale del prodotto offerto, potendo la relativa prova essere fornita con qualsiasi mezzo appropriato; la commissione di gara può effettuare la valutazione di equivalenza anche in forma implicita, ove dalla documentazione tecnica sia desumibile la rispondenza del prodotto al requisito previsto dalla lex specialis (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 18.09.2019 n. 6212 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
19. Il Collegio osserva anzitutto che il TAR, nella sentenza appellata, è partito da una premessa condivisibile, affermando che nelle gare d'appalto vige il principio interpretativo che vuole privilegiata, a tutela dell'affidamento delle imprese, l’interpretazione letterale del testo della lex specialis, dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una sua obiettiva incertezza.
Occorre infatti evitare che il procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale, posto che l’interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt. 1362 e ss., c.c., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale (cfr. tra le altre, Cons. Stato, n. 7/2013; III, n. 3715/2018; V, n. 4684/2015).
20. Ne discende che le valutazioni qualitative della Commissione di gara, a salvaguardia della par condicio dei concorrenti, debbano svolgersi nell’ambito del perimetro delineato dalla lex specialis, quanto in particolare alle caratteristiche dei prodotti offerti, non potendo una valutazione positiva degli aspetti tecnici dell’offerta, operata dalla Commissione, sovrapporsi alla definizione contenuta nella disciplina di gara. L’esplicazione del principio di concorrenza non è incondizionata ma temperata da quello, altrettanto cogente, di tutela della par condicio, ed il punto di incontro tra le relative esigenze è dato dalla disciplina di gara, che fissa –in termini, a seconda dei casi, più o meno rigidi– i limiti entro i quali deve svolgersi il confronto concorrenziale (cfr. Cons. Stato, III, n. 747/2018).
21. Occorre tuttavia considerare che, a dare elasticità al parametro valutativo, così tutelando la massima partecipazione al confronto concorrenziale, interviene il principio di c.d. equivalenza funzionale.
Secondo l’art. 68 del d.lgs. 50/2016, che attua nell’ordinamento nazionale l’art. 42 della direttiva 2014/24/UE, le “specifiche tecniche” (qui da intendersi in senso lato, alla stregua di parametri di definizione dell’offerta tecnica) sono indicate nella lex specialis secondo diverse modalità (comma 3): “in termini di prestazioni o di requisiti funzionali … a condizione che i parametri siano sufficientemente precisi da consentire agli offerenti di determinare l'oggetto dell'appalto e agli enti aggiudicatori di aggiudicare l'appalto” (lettera a); ovvero “mediante riferimento a specifiche tecniche e, in ordine di preferenza, alle norme nazionali che recepiscono norme europee, alle valutazioni tecniche europee, alle specifiche tecniche comuni, alle norme internazionali, ad altri sistemi tecnici di riferimento adottati dagli organismi europei di normalizzazione o, se non esiste nulla in tal senso, alle norme nazionali, alle omologazioni tecniche nazionali o alle specifiche tecniche nazionali in materia di progettazione, di calcolo e di realizzazione delle opere e di uso delle forniture; ciascun riferimento contiene la menzione “o equivalente”” (lettera b); oppure, sostanzialmente, abbinando specifiche tecniche dell’uno e dell’altro dei tipi predetti (lettere c) e d).
Secondo il comma 5, un’offerta non può essere respinta perché non conforme alle prescrizioni di cui al comma 3, lettera b), previste dalla lex specialis, qualora l’offerente provi che “le soluzioni proposte ottemperano in maniera equivalente ai requisiti definiti dalle specifiche tecniche”.
Secondo il comma 6, un’offerta non può essere respinta qualora risulti conforme ad una “norma nazionale che recepisce una norma europea, a una omologazione tecnica europea, ad una specifica tecnica comune, ad una norma internazionale o a un riferimento tecnico elaborato da un organismo europeo di normalizzazione” (in sostanza, alle specifiche tecniche di cui al comma 3, lettera b)), se tali specifiche “contemplano le prestazioni o i requisiti funzionali … prescritti” dalla lex specialis.
Inoltre, in ogni caso, secondo il comma 4, “Salvo che siano giustificate dall’oggetto dell’appalto, le specifiche tecniche non menzionano una fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare caratteristico dei prodotti o dei servizi forniti da un operatore economico specifico, né fanno riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un’origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti. Tale menzione o riferimento sono autorizzati, in via eccezionale, nel caso in cui una descrizione sufficientemente precisa e intelligibile dell'oggetto dell'appalto non sia possibile applicando il paragrafo 3. Una siffatta menzione o un siffatto riferimento sono accompagnati dall'espressione “o equivalente””.
22. Quanto appena ricordato evidenzia l’importanza che la formulazione della lex specialis, sotto il profilo della univocità e completezza dei parametri valutativi, assume ai fini della legittimità della procedura di valutazione e della “elasticità” consentita alla Commissione di gara nell’apprezzamento delle offerte tecniche.
23. La sentenza appellata ha preso posizione in ordine alla portata applicativa del principio di equivalenza funzionale, riconoscendone la centralità nel sistema, ma affermandone l’inapplicabilità alla gara in questione (in relazione all’offerta Si., il cui prodotto differisce sotto diversi aspetti dalle caratteristiche indicate nei sottoparametri di valutazione) in mancanza di una previsione nella lex specialis, ovvero di una esplicita dichiarazione o evidenziazione da parte del concorrente.
Tale punto è contestato dagli appellanti incidentali, i quali prospettano le loro tesi sul presupposto che detti parametri contemplino, anche se talvolta attraverso il riferimento a determinate specifiche caratteristiche o modalità operative del prodotto da fornire, l’indicazione delle prestazioni o dei requisiti funzionali richiesti (riconducibili all’art. 86, comma 3, lettera a), cit).
L’appellante principale sostiene invece che i parametri si collocano al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 86, cit., in quanto limitato ai requisiti di partecipazione o di ammissibilità dell’offerta.
24. Il Collegio osserva che secondo la giurisprudenza prevalente di questa Sezione, l’ambito di applicazione del principio di equivalenza è piuttosto ampio, essendo stato affermato che:
   - il principio di equivalenza “permea l’intera disciplina dell’evidenza pubblica e la possibilità di ammettere a seguito di valutazione della stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche equivalenti a quelle richieste risponde al principio del favor partecipationis (ampliamento della platea dei concorrenti) e costituisce altresì espressione del legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione” (cfr. Cons. Stato, III, n. 4364/2013; n. 4541/2013; n. 5259/2017; n. 6561/2018);
   - trova applicazione indipendentemente da espressi richiami negli atti di gara o da parte dei concorrenti, in tutte le fasi della procedura di evidenza pubblica e “l’effetto di “escludere” un’offerta, che la norma consente di neutralizzare facendo valere l’equivalenza funzionale del prodotto offerto a quello richiesto, è testualmente riferibile sia all’offerta nel suo complesso sia al punteggio ad essa spettante per taluni aspetti … e la ratio della valutazione di equivalenza è la medesima quali che siano gli effetti che conseguono alla difformità” (cfr. Cons. Stato, III, n. 6721/2018);
   - l’art. 68, comma 7, del d.lgs. 50/2016 non onera i concorrenti di un’apposita formale dichiarazione circa l’equivalenza funzionale del prodotto offerto, potendo la relativa prova essere fornita con qualsiasi mezzo appropriato; la commissione di gara può effettuare la valutazione di equivalenza anche in forma implicita, ove dalla documentazione tecnica sia desumibile la rispondenza del prodotto al requisito previsto dalla lex specialis (cfr. Cons. Stato, III, n. 2013/2018; n. 747/2018).
In questo senso, risultano condivisibili, in linea di principio, le argomentazioni delle appellanti incidentali.

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Esecuzione di lavori in terreni vincolati – Cambio destinazione d’uso -Manufatti da rurale a residenziale – Assenza dell’autorizzazione paesaggistica – Reati paesaggistici – Differenza tra difformità parziale e totale – Irrilevanza – Disciplina urbanistica e paesaggistica – Art. 181, D.Leg.vo 42/2004 – Configurabilità.
La disposizione contenuta all’art. 181, D.Leg.vo 42/2004 punisce l’esecuzione dei lavori in assenza dell’autorizzazione paesaggistica «o in difformità di essa», senza che assuma rilievo la distinzione tra le ipotesi di difformità parziale e totale rilevante invece nella disciplina urbanistica.
Ai soli fini del reato urbanistico, integra l’ipotesi di difformità totale c.d. qualitativa che, per l’art. 31, comma 1, prima parte, T.U.E. ricorre quando gli interventi «comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso».
Sia per quanto riguarda le caratteristiche tipologiche degli organismi edilizi oggetto d’intervento (trasformazione da depositi rurali ad edifici di civile abitazione) sia quanto al conseguente diverso utilizzo –peraltro vietato dallo strumento urbanistico– è indiscutibile che nel caso di specie si sia realizzato quell’allud pro alio che integra gli estremi della contravvenzione urbanistica ritenuta e non possa parlarsi soltanto di parziale difformità
(Cass. Sez. 3, n. 40541 del 18/06/2014, Cinelli e aa.).

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Permesso di costruire – Assenza, totale difformità o variazione essenziali – Ordinanza di sospensione dei lavori – Ingiunzione a demolire – Art. 31, c. 3, T.U.E.
Nel caso interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazione essenziali, il provvedimento richiamato dalla norma è quello dell’ingiunzione a demolire di cui all’art. 31, comma 3, T.U.E.
Decorso il suddetto termine di quarantacinque giorni dall’ordinanza di sospensione dei lavori, sia che venga emanata l’ingiunzione a demolire (o altro provvedimento previsto in caso di differente inosservanza), sia che il comune non adotti invece alcun provvedimento, la sospensione dei lavori perde efficacia, trattandosi di provvedimento cautelare che il legislatore ha appunto costruito come funzionale all’adozione, in tempi contenuti e predeterminati, dei provvedimenti sanzionatori definitivi di competenza dell’autorità amministrativa.

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Reati edilizi – Direttore dei lavori – Responsabilità – Assenza dal cantiere – Onere di vigilanza – Permane anche dopo l’ordine di sospensione dei lavori – Dovere di contestare le irregolarità riscontrate – Rinuncia all’incarico da parte del tecnico – Cantiere sia sottoposto a sequestro – Artt. 27, 29, 31 e 44 D.P.R. 380/2001.
In tema di reati edilizi, l’assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l’onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all’incarico.
Pertanto, l’obbligo di vigilanza che l’art. 29, D.P.R. 380/2001 pone in capo al direttore dei lavori circa la conformità delle opere al permesso di costruire, con la conseguente responsabilità penale nel caso di reati da altri commessi senza che intervenga quella forma di dissociazione prevista dal comma 2 della disposizione, permane sino a che non venga comunicata la formale conclusione dell’intervento ovvero sino a che il tecnico non rinunci all’incarico, e non viene meno in caso di adozione dell’ordinanza di sospensione dei lavori di cui all’art. 27, comma 3, D.P.R. 380/2001 salvo che –e fintanto che– il cantiere sia sottoposto a sequestro.

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Conformità delle opere al permesso di costruire – Responsabilità del Direttore dei lavori anche in caso di assenza dal cantiere – Omessa (diligente) vigilanza – GIURISPRUDENZA.
Sussiste, in capo al direttore dei lavori una posizione di garanzia per il rispetto della normativa urbanistica ed edilizia, addebitandogli le conseguenze penali dell’omesso controllo sulla corretta esecuzione delle opere rispetto al permesso di costruire (art. 29, comma 1, d.P.R. 380 del 2001), ed imponendogli altresì di “dissociarsi” dalla condotta illecita da altri commessa, anche se trattisi del suo stesso committente.
In particolare, «il direttore dei lavori non è responsabile qualora abbia contestato agli altri soggetti la violazione delle prescrizioni del permesso di costruire, con esclusione delle varianti in corso d’opera, fornendo al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale contemporanea e motivata comunicazione della violazione stessa. Nei casi di totale difformità o di variazione essenziale rispetto al permesso di costruire, il direttore dei lavori deve inoltre rinunciare all’incarico contestualmente alla comunicazione resa al dirigente» (art. 29, comma 2, T.U.E.).
Se quest’ultima disposizione prevede una causa personale di non punibilità che vale esclusivamente per il reato nella forma omissiva e che consente al professionista di sfuggire all’applicazione delle sanzioni qualora adempia alle prescrizioni previste nel tassativo modello legale, essa –letta unitamente alla norma contenuta nel primo comma– individua invece una vera e propria posizione di garanzia che fonda la penale responsabilità del direttore dei lavori nel caso di condotta da altri commessa.
Non si tratta, tuttavia, di una responsabilità oggettiva, essendo sempre necessario che il tecnico, volutamente o per negligenza, non ponga in essere quanto gli si impone. Certamente negligente è la condotta del direttore dei lavori che si disinteressi del cantiere ove riveste tale formale qualità
(Sez. 3, n. 7406 del 15/01/2015, Crescenzi; Sez. 3, n. 34602 del 17/06/2010, Ponzio)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2019 n. 38479 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA – Qualificazione giuridica di bosco – Nozione di bosco ai fini penali – AGRICOLTURA – Lavori di bonifica agraria in area boschiva – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Trasformazione bosco a prato – Assenza della autorizzazione paesaggistica – Rimessione in pristino dello stato dei luoghi – D.lgs. n. 227/2001 – Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 18.05.2001, n. 227, deve qualificarsi come bosco –meritevole di protezione ai sensi dell’art. 181 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42– ogni terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da macchia mediterranea, purché aventi un’estensione non inferiore a mq. duemila, con larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore al 20 per cento (Sez. 3, n. 32807 del 23/04/2013, Timori; Sez. 3, n. 1874 del 16/11/2006, dep. 2007, Monni).
Le leggi regionali possono dettare una diversa disciplina ai fini dell’individuazione delle zone assoggettate a vincolo paesaggistico e classificate “bosco” e, ai fini penali, tale nozione deve intendersi in senso normativo e non naturalistico, in quanto finalizzata ad evitare deturpamenti “a macchia” di aree boschive.
La disposizione normativa prende in considerazione le caratteristiche di tutte le aree omogenee limitrofe a quelle interessate dalla opere, e non solo queste ultime, giacché in tal caso si potrebbero realizzare senza autorizzazione interventi di modifica di territori aventi estensione inferiore ai 2000 metri quadrati, ancorché limitrofi a più ampie aree omogenee ed aventi copertura boschiva, ciò che la normativa citata ha appunto voluto vietare
(Cass. Sez. 3, n. 28135 del 11/01/2012, Galluccio; Sez. 3, n. 28928 del 18/05/2011, Sardu)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2019 n. 38471 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Impugnazione proposta dal solo imputato – Principio del divieto della “reformatio in peius” Poteri e limiti del giudice di appello – Ipotesi di aggravamento per specie o quantità della pena – Art. 597, comma 3, cod. proc. pen. – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Ordine di demolizione della costruzione abusiva – Pene accessorie – Applicazione d’ufficio – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela dei beni paesaggistici e ambientali.
In tema di “reformatio in peius”, nel caso di impugnazione proposta dal solo imputato, l’ordinamento processuale impone al giudice di appello, di attenersi alle ipotesi di aggravamento –per specie o quantità– della pena, di applicazione di nuova o più grave misura di sicurezza, di pronunzia di proscioglimento con formula meno favorevole o di revoca di benefici; in detto divieto non è compreso l’ordine di demolizione della costruzione abusiva, impartito dal giudice ai sensi dell’art. 7 legge 28.02.1985 n. 47 (oggi D.P.R. n. 380/2001), trattandosi non di pena accessoria, ma di sanzione amministrativa di tipo ablatorio, consequenziale alla sentenza di condanna e la cui irrogazione costituisce atto dovuto.
Del resto, è altrettanto pacifico che la previsione di cui all’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice di appello, le pene accessorie che, ex art. 20 cod. pen., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa.
È pertanto legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice di appello, tramite il procedimento di correzione di errore materiale, delle pene accessorie non applicate in primo grado. Sicché, il divieto della “reformatio in peius”, previsto dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. quando appellante è il solo imputato, non impedisce che il giudice d’appello ordini la rimessione in pristino dello stato dei luoghi prevista in caso di sentenza di condanna dall’art. 181, comma 2, d.lgs. 42 del 2004, allorquando, per mera omissione, la stessa non sia stata disposta con la sentenza di primo grado, trattandosi di sanzione amministrativa la cui irrogazione costituisce atto dovuto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2019 n. 38471 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Verifica dell’anomalia: quando è possibile la motivazione per relationem.
Nelle gare pubbliche la valutazione con cui la P.A. faccia proprie le ragioni addotte dall'impresa a giustificazione della propria offerta anomala, considerando attendibili le spiegazioni fornite, non deve essere corredata da un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute accettabili, o espressiva di ulteriori apprezzamenti, potendo il giudizio favorevole essere espresso per relationem alle giustificazioni presentate dal concorrente.
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La tesi attorea, per quanto suggestiva, non può essere condivisa.
È pur vero, infatti, che la voce relativa alla presenza del galleggiante è contenuta all’interno del paragrafo 1, rubricato “caratteristiche di minima richieste”, con la conseguenza che, ad una prima lettura, sembrerebbero ascriversi a tale categoria tutte le specifiche declinazioni tecniche contenute nei sotto paragrafi pur sempre compresi nell’elencazione interna al suddetto paragrafo.
Pur tuttavia, tale approdo ermeneutico viene, però, smentito dal fatto che il capitolato tecnico, quanto alla definizione delle caratteristiche tecniche, reca un solo paragrafo ed in esso risultano incluse oltre alle caratteristiche tecniche di base della cartuccia monouso –da ritenersi dunque caratteristiche di minima in senso stretto– anche caratteristiche aggiuntive (tra cui la presenza del galleggiante meccanico) ed elementi accessori, che si collocano al di fuori del perimetro dei requisiti minimi essenziali, come d’altronde è fatto palese dalla previsione di un punteggio premiante che, opinando diversamente, non avrebbe ragione d’essere.
Va, dunque, confermata la decisione di prime cure nella parte in cui ha rilevato che il galleggiante meccanico –non compreso nell’offerta della ditta aggiudicataria– costituiva una “caratteristica aggiuntiva” del prodotto offerto –e non “di minima”– rilevando, come tale, solo ai fini dell’attribuzione di un punteggio aggiuntivo.
Ne discende che i chiarimenti resi dalla stessa stazione appaltante, lungi dal riflettere un contenuto innovativo e modificativo degli assetti regolatori mutuabili dalla disciplina di gara, si mantengono, contrariamente a quanto dedotto, nei limiti della funzione interpretativa della previsione capitolare.
D’altronde, è noto che, a fronte di una clausola cui si riconnette una portata escludente, e a fronte del carattere non univoco della disposizione in essa racchiusa, l'interprete deve conformare la propria attività interpretativa al criterio del favor partecipationis, favorendo l'applicazione della disposizione che consenta la massima partecipazione possibile alla procedura (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. III, 07/03/2019, n. 1577).
Del pari, non possono essere condivise le ulteriori argomentazioni censoree che involgono l’assegnazione alla controinteressata, per la voce “caratteristiche aggiuntive”, di 5 punti.
Anche in questo caso il costrutto giuridico dell’appellante riposa su una controversa interpretazione della disciplina di gara, muovendo dall’assunto secondo cui il disciplinare di gara, all’articolo 6, premiasse la presenza –secondo il criterio “on/off”- del galleggiante di tipo meccanico con l’assegnazione di un punteggio di 10 punti.
Sul punto, però, rileva il Collegio che la clausola in argomento, nel suo significato letterale, non è di univoca lettura nel senso sopra prospettato.
E ciò per due circostanze: da un lato richiama le “caratteristiche aggiuntive” e, dall’altro, indica che il punteggio di 10 è un punteggio massimo, circostanza questa evidentemente incompatibile con la lettura offerta dall’appellante secondo cui il criterio applicativo dovesse intendersi incentrato sulla metodica “on/off”, ammettendo, viceversa, una graduazione di punteggio.
È noto che l'interpretazione delle clausole del bando deve essere letterale, non essendo consentito rintracciarvi significati ulteriori e procedere con estensione analogica. Tanto in ragione di esigenze di certezza connesse alla necessità che la via del procedimento ermeneutico non conduca a un effetto, indebito, di integrazione delle regole di gara aggiungendo significati del bando in realtà non chiaramente e sicuramente rintracciabili nella sua espressione testuale (Cons. Stato, V, 12.09.2017, n. 4307).
A tutela dell'affidamento dei partecipanti ad una gara pubblica, della par condicio dei concorrenti e dell'esigenza della più ampia partecipazione, l'amministrazione può legittimamente discostarsi in via di interpretazione dalle norme della lex specialis solo in presenza di una sua obiettiva incertezza (cfr. Consiglio di Stato sez. III, 15/01/2019, n. 389; Cons. St., sez. V, 29.10.2018, n. 6132; id., sez. III, 18.06.2018, n. 3715).
Orbene, nell’applicazione delle richiamate coordinate di riferimento –ed a fronte della non univocità del dato letterale valorizzato dall’appellante che risulta non essere in rapporto di sintonia, nel significato proposto, con gli ulteriori elementi letterali pur contenuti nella medesima disposizione (id est riferimento alla voce “caratteristiche aggiuntive” e previsione di un punteggio “massimo”)- appare coerente l’approccio esegetico privilegiato dalla stazione appaltante che ha ritenuto il punteggio de quo come complessivamente riferito a tutte le caratteristiche tecniche che componevano la voce delle “caratteristiche aggiuntive” (“grandi capacità, pre-gelificate, ecc.”), assegnando all’espresso richiamo al galleggiante, in essa contenuto, la valenza di un dato esemplificativo.
Ed, infatti, in una visione sistemica, appare più aderente alla complessiva disciplina di gara la valorizzazione della previsione della voce “caratteristiche aggiuntive” come elenco aperto di possibili qualità aggiuntive che gli operatori avrebbero potuto offrire e che coerentemente meritavano di essere premiate concorrendo, così come il galleggiante, a giustificare l’assegnazione di un punteggio aggiuntivo.
Nella detta prospettiva, il seggio di gara, pur rilevando la mancanza del galleggiante nel prodotto offerto dalla controinteressata, ha inteso, comunque, premiare, con il riconoscimento di un punteggio di 5 punti (all’appellante sono stati riconosciuti 10 punti), il possesso di altre qualità in ragione di valutazioni che, ricadendo nell’alveo della discrezionalità tecnica, restano sindacabili nei limiti della manifesta illogicità e ragionevolezza, qui non in rilievo.
Infine, nemmeno hanno pregio le residue censure che involgono la pretesa insufficienza del corredo motivazionale delle valutazioni afferenti al giudizio di congruenza dell’offerta presentata dall’aggiudicataria.
Vale premettere che l’intero sub procedimento di verifica risulta ricostruito in ragione dei verbali della gara e dei documenti depositati dall’aggiudicataria in prime cure e che, ciò nondimeno, il ventaglio delle censure articolato è rimasto circoscritto ai soli profili afferenti alla motivazione.
Tanto premesso, rileva il Collegio che, anche in questo caso, il giudice di prime cure ha fatto buon governo dei principi che governano la disciplina di settore.
È, infatti, ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui la valutazione con cui l'Amministrazione faccia proprie le ragioni addotte dall'impresa a giustificazione della propria offerta anomala, considerando attendibili le spiegazioni fornite, non deve necessariamente essere corredata da un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute accettabili o espressiva di ulteriori apprezzamenti e, pertanto, il giudizio favorevole di non anomalia, non richiedendo una motivazione puntuale ed analitica, può essere espresso semplicemente per relationem nelle stesse giustificazioni presentate dal concorrente (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 05/03/2019, n. 1518; Consiglio di Stato, sez. III, 18/12/2018 , n. 7128).
È di tutta evidenza, avuto riguardo al caso di specie, come, anche in ragione della sequenzialità degli adempimenti che hanno caratterizzato il procedimento qui in rilievo, come il positivo superamento del giudizio tragga diretto alimento dalle informazioni fornite dall’impresa offerente i cui dati sono stati evidentemente condivisi dalla stazione appaltante che, sulla scorta di essi, ed indipendentemente dall’uso di formule sacramentali, ha favorevolmente concluso il relativo procedimento, determinandosi coerentemente con i suddetti arresti procedimentali.
L'infondatezza dei motivi dedotti con l'appello principale comporta il rigetto anche della domanda di risarcimento danni in forma specifica o, in subordine, per equivalente, nonché del danno curriculare e del danno da ritardo. È noto, infatti, che l'illegittimità del provvedimento impugnato è condizione necessaria per accordare il risarcimento richiesto; la reiezione della parte impugnatoria del gravame impedisce infatti che il danno stesso possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dall'Amministrazione (Cons. St., sez. V, 01.10.2015, n. 4588; id., sez. IV, 29.12.2014, n. 6417; id., sez. V, 05.12.2014, n. 6013; id. 27.08.2014, n. 4382; id. 13.01.2014, n. 85; id., sez. IV, 17.09.2013, n. 4628; id., sez. V, 15.01.2013, n. 176) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 17.09.2019 n. 6206 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPer costante giurisprudenza, per la realizzazione di verande, tettoie, pergolati, pensiline e gazebi, è necessario il permesso di costruire o la S.c.i.a, ove si alteri la sagoma dell’edificio; difettino i requisiti tipici delle pertinenze e degli interventi precari; le strutture siano infisse al suolo; si determini l’aumento della superficie utile; ovvero, le opere non siano facilmente amovibili e di modeste dimensioni e non abbiano natura puramente ornamentale.
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6.5.1. Al riguardo, il Collegio evidenzia che:
   a) non si ravvisa il dedotto errore, atteso che il primo giudice, nella pagina n. 6 della citata sentenza, fa riferimento alla autorizzazione n. 51 del 04.08.1994 esclusivamente per ricordare la sussistenza del titolo edilizio per l’avvenuta realizzazione del portale in pietra;
   b) per converso, la dichiarazione, peraltro effettuata in via meramente incidentale, in ordine alla condivisione del rilievo della illegittimità ha riguardato correttamente l’autorizzazione n. 4 del 04.11.1998 (v. pag. n. 9 della sentenza Tar);
   c) a prescindere dall’individuazione dello specifico oggetto della richiamata D.I.A. del 17.02.2003, è pacifico che la presente controversia attiene (quanto meno in parte) all’opera realizzata sulla particella 796, non rilevando in questa sede quanto insistente sulla particella 1014, come correttamente statuito nella pronuncia impugnata;
   d) per costante giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, n. 306 del 2017; sez. IV, n. 2864 del 2016; sez. VI, n. 1619 del 2016; sez. VI, n. 1777 del 2014; Cass. pen., sez. III, 20.06.2013, n. 26952; 25.10.2012, n. 41698; 25.01.2012, n. 3093), per la realizzazione di verande, tettoie, pergolati, pensiline e gazebi, è necessario il permesso di costruire o la S.c.i.a, ove si alteri la sagoma dell’edificio; difettino i requisiti tipici delle pertinenze e degli interventi precari; le strutture siano infisse al suolo; si determini l’aumento della superficie utile; ovvero, le opere non siano facilmente amovibili e di modeste dimensioni e non abbiano natura puramente ornamentale;
   e) nel caso di specie l’opera non presenta natura precaria, atteso che, da quanto emerge dalla approfondita istruttoria posta a fondamento dell’impugnato provvedimento, trattasi di un capanno o manufatto di mq 16,53 (4,35 x 3,80), con pareti in calcestruzzo armato, con copertura di lastre di zinco, pavimentato;
   f) pertanto, condividendo quanto statuito sul punto dal primo giudice, atteso che i connotati strutturali di detto manufatto denotano una destinazione naturale a fornire una utilità prolungata nel tempo, la struttura può essere ritenuta di carattere residenziale, determinando incremento di volumetria (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.09.2019 n. 6194 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

CONSIGLIERI COMUNALILa parità di genere nella giunta comunale prevale sullo statuto.
Il rispetto della parità di genere nella composizione delle giunte comunali è insuperabile. La natura fiduciaria della carica di assessore non può giustificare la limitazione di un eventuale interpello alle sole donne appartenenti allo stesso partito o alla stessa coalizione che ha espresso il primo cittadino. In altre parole va adeguatamente comprovata, certificata da parte del sindaco, l'accidentale situazione di obiettiva e assoluta impossibilità di rispettare la percentuale di genere femminile nella composizione dell'organo politico-amministrativo. Sono in gioco i principi costituzionali di uguaglianza tra tutti i cittadini e di democraticità della Repubblica nell'avvalersi di competenze e capacità, ma anche i principi di legalità, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.

Con la sentenza 17.09.2019 n. 1578, il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, ha affrontato il delicato tema della parità tra i generi, soffermandosi su alcuni dei profili più sensibili di concreta applicazione: l'esercizio delle funzioni democratico-rappresentative dei cittadini.
La vicenda
Alcuni consiglieri comunali di minoranza si sono rivolti al Tar per ottenere l'annullamento dei decreti con i quali il sindaco della loro cittadina aveva provveduto a designare la giunta municipale indicando come assessori tre uomini e una sola donna.
Secondo i ricorrenti, il sindaco, oltre a non rispettare il dettato normativo, non avrebbe svolto alcuna effettiva attività istruttoria, non potendosi realmente desumere quale procedura avesse posto in atto per acquisire la disponibilità da parte di persone di genere femminile. Non solo, il sindaco neppure avrebbe dato conto di rinunce all'incarico assessorile, tanto all'interno della stessa maggioranza consiliare, che della società civile tutta.
La decisione
Il Tar ha ammesso che solo l'effettiva impossibilità di assicurare la presenza dei due generi nella misura stabilita dalla legge giustifica deroghe a questi principi. Inattuabilità che però deve essere comprovata attraverso un'accurata e approfondita istruttoria e una conforme e puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori. L'impossibilità di rispettare la percentuale di rappresentanza di genere deve risultare in concreto, in modo circostanziato e inequivoco e deve avere un carattere tendenzialmente oggettivo.
Non è pensabile che mere situazioni soggettive o contingenti -come ad esempio quelle che possano derivare dall'applicazione di disposizioni statutarie relative al funzionamento degli organi comunali ovvero che attengano alle modalità di elezione degli stessi ovvero dipendenti dalla mancanza di candidati all'interno del partito o della coalizione vincitrice delle elezioni, o comunque di piena ed esclusiva fiducia del sindaco- possano legittimare la deroga alla effettiva applicazione della normativa.
Nel caso in cui lo statuto comunale non preveda la figura dell'assessore esterno, per la piena attuazione del principio di pari opportunità tra uomini e donne l'ente dovrà dunque procedere a modifiche statutarie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.10.2019).
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SENTENZA
1. Fr.Ca., Al.Fi. e An.Gi.Ma., in qualità di cittadini e di consiglieri comunali di minoranza di Castrolibero hanno adìto questo Tribunale allo scopo di ottenere l’annullamento dei decreti nn. 10936, 10938, 10939 e 10941 del 14.06.2018 con i quali il Sindaco ha provveduto a designare la Giunta Municipale dell’ente indicando tra gli assessori tre uomini e una rappresentante femminile, così violando, secondo la prospettazione contenuta nel ricorso, l’art. 1, comma 137, della Legge 56/2014 che fa obbligo, nel caso di comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, di garantire una rappresentanza di genere nella misura del 40%.
2. Oltre a non rispettare il dettato normativo, sostengono i ricorrenti, il Sindaco non avrebbe svolto alcuna attività istruttoria, non potendosi desumere quale procedura abbia posto in atto per acquisire l’eventuale disponibilità per lo svolgimento delle funzioni assessorili da parte di persone di genere femminile; neppure avrebbe dato conto di eventuali rinunce all’incarico de quo tanto all’interno della stessa maggioranza consiliare quanto nella società civile.
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6. Nel merito è palese la fondatezza del ricorso per violazione del menzionato referente normativo.
6.1. La natura fiduciaria della carica assessorile non può giustificare, infatti, la limitazione di un eventuale interpello -di cui in ogni caso non vi è alcuna prova- alle sole persone appartenenti allo stesso partito o alla stessa coalizione di quella che ha espresso il Sindaco, soprattutto in realtà locali niente affatto estese, come quella di cui ci si occupa, ciò tanto più in considerazione del principio alla cui attuazione è finalizzata la norma in questione. Nessuna prova, inoltre, è stata effettivamente fornita in ordine a una adeguata istruttoria svolta per reperire, per la nomina di assessore femminile, idonee personalità nell’ambito territoriale di riferimento.
6.2. Deve quindi ritenersi che non risulti provata quella situazione di obiettiva ed assoluta impossibilità di rispettare la percentuale di genere femminile nella composizione della giunta comunale fissata dal legislatore, condizione che, in una logica di contemperamento dei principi costituzionali che vengono in gioco costituisce il “limite intrinseco, logico–sistematico, di operatività della norma in questione” (Consiglio di Stato, Sez. V, 406/2016).
7. Nemmeno può, da ultimo, convenirsi con l’approccio ermeneutico sostenuto nel ricorso, teso a configurare in chiave non immediatamente precettiva la più volte enunciata disposizione di legge, impostazione che appare eccessivamente svalutativa del relativo disposto normativo, rispondente a specifici valori di rango costituzionale, sinteticamente riassumibili nella necessità di assicurare la parità di genere.
7.1. E’ pertanto palesemente infondata, ad avviso del Collegio, la questione di legittimità della norma stessa prospettata dall’amministrazione con riferimento agli artt. 5 e 97 della Costituzione.
7.2. Ciò tanto più se si tiene conto che rientra nella esclusiva discrezionalità del legislatore nazionale la scelta delle modalità ritenute più idonee ed adeguate per rendere tendenzialmente effettivo, anche nell’accesso alle cariche elettive, il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, assicurando pari opportunità per la partecipazione alla concreta gestione della cosa pubblica, finalità cui è preordinata in modo non macroscopicamente illogico o irragionevole la fissazione di una soglia percentuale minima di rappresentanza di genere all’interno della giunta comunale, la quale, quindi, neppure può ritenersi lesiva delle prerogative delle autonomie locali attesa, tra l’altro, la proclamata unità e indivisbilità della Repubblica.
8. Il ricorso, per quanto osservato, è fondato.

APPALTI: Soccorso istruttorio per carenze che affliggono l’offerta economica e quella tecnica.
Le carenze che affliggono l’offerta economica e quella tecnica non sono colmabili per il tramite del soccorso istruttorio; e invero, l'art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, seppure con una formulazione a contrario -che fa salva tra l'altro la ipotesi, innovativa, della mancanza, dell'incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo, sanabili con il c.d. soccorso istruttorio oneroso- ha escluso, in linea di continuità con l'interpretazione degli arti. 38 e 46 del previgente d.lgs. n. 163 del 2006, che possano essere oggetto di sanatoria mediante soccorso istruttorio la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale riguardanti l'offerta tecnica ed economica, nonché le carenze della documentazione che non consentano l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa, ipotesi tutte che concretano mancanze non sanabili (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 16.09.2019 n. 1980 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.7. Né le carenze che affliggono la offerta economica e quella tecnica della aggiudicataria, sotto i due concorrenti profili sopra evidenziati, sarebbero stati colmabili per il tramite del soccorso istruttorio.
E, invero, l'art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, seppure con una formulazione a contrario -che fa salva tra l'altro la ipotesi, innovativa, della mancanza, dell'incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo, sanabili con il c.d. soccorso istruttorio oneroso- ha escluso, in linea di continuità con l'interpretazione degli arti. 38 e 46 del previgente d.lgs. n. 163 del 2006, che possano essere oggetto di sanatoria mediante soccorso istruttorio la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale “riguardanti l'offerta tecnica ed economica, nonché le carenze della documentazione che non consentano l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa, ipotesi tutte che concretano mancanze non sanabili” (CdS, III, 08.05.2017, n. 2093; TAR Lombardia, I, 05.11.2018, n. 2500; TAR Campania, I, 10.01.2019, n. 152).

EDILIZIA PRIVATA: 1.- Edilizia ed Urbanistica – “volume utile” – nozione – rilievo ai fini edilizi e paesaggistici – differenza.
La nozione di superficie e volume utile rilevante a fini urbanistici deve considerarsi esclusivamente in relazione all’estensione dei diritti edificatori, laddove nei giudizi paesistici è utile solo il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell'insieme paesistico: ne consegue che un volume irrilevante ai fini urbanistici può integrare un ingombro lesivo del paesaggio, e, come tale, classificabile come utile in base ai parametri estetici attraverso cui viene data protezione al vincolo paesistico.
Si tratta, quindi, di qualificazioni che interessano le superfici e i volumi di qualsiasi natura, in quanto rileva la loro percepibilità come ingombro alla visuale ovvero la modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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14. Nel merito il ricorso è infondato.
15. I motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente stante la loro evidente connessione logica.
16. Il gravato provvedimento della Soprintendenza, cui correttamente si è adeguata l’Amministrazione civica, come anticipato, ha ritenuto insussistenti le condizioni di legge per procedere alla richiesta di autorizzazione paesaggistica in sanatoria limitatamente al pergolo ligneo a giorno, al relativo pavimento, al muretto a parziale contorno e, infine, ai telai in anticorodal.
17. Parte ricorrente, viceversa, ritiene in primis, che le opere in questione non sarebbero soggette alla tutela paesaggistica, non costituendo una nuova superficie utile ai sensi del DPR 31/2017, All. A) -lettere A19, A10 e A12.
La Soprintendenza, poi, non solo non avrebbe rispettato l’obbligo di comunicazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis L. 241/1990 espressamente richiamato dall’art. 146, comma 8, del D.lgs 42/2004, ma avrebbe violato l’obbligo di puntuale istruttoria e motivazione del provvedimento. Il parere della Soprintendenza, infine, risulterebbe in contrasto con le valutazioni della Commissione Paesaggistica.
18. Le censure in questione non meritano favorevole apprezzamento.
19. Premesso che risulta incontestato che le opere insistano su area sottoposta a vincolo paesaggistico (ex D.M del 01.08.1985, ex lett. a), comma 1, art. 142, del dlgs 42/2004 ed ex art. 38, comma 3, delle NTA del PPTR), l'art. 167, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004 prevede il possibile accertamento postumo della compatibilità paesaggistica solo nei seguenti tassativi casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria (art. 3 D.P.R. 06.06.2001, n. 380, T.U. Edilizia).
19.1. In tali ipotesi non rientrano le opere realizzate dal ricorrente dato che la creazione della zona d’ombra a giorno realizzata con materiale ligneo e sovrastante cannucciato, delimitata da un muretto e realizzata lungo il lato sud del lotto di intervento, in adiacenza al trullo in uno alla relativa pavimentazione, attesa l’effettiva e non irrilevante percettibilità visiva –anche a distanza- dell’intervento e, soprattutto, la modifica dell’originarie caratteristiche morfologiche dell’area (cfr. la documentazione fotografica in atti), integrano certamente aumento di superficie utile con conseguente obbligo di rimozione ex art. 167 Dlgs 42/2004.
20. Al riguardo, infatti, non rileva la circostanza che l’intervento predetto non sia stato considerato dall’Autorità comunale preposta ai fini urbanistici quale aumento di superficie.
20.1. La nozione di superficie e volume utile, infatti, rilevante a fini urbanistici viene considerata esclusivamente in relazione all’estensione dei diritti edificatori, laddove nei giudizi paesistici è utile solo il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell'insieme paesistico (conforme, TAR Firenze, sez. III, 22/02/2019, n. 276)
Ne consegue che un volume irrilevante ai fini urbanistici può integrare un ingombro lesivo del paesaggio, e, come tale, classificabile come utile in base ai parametri estetici attraverso cui viene data protezione al vincolo paesistico. Si tratta, quindi, di qualificazioni che interessano le superfici e i volumi di qualsiasi natura, “in quanto rileva la loro percepibilità come ingombro alla visuale ovvero la modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio” (ex multis, TAR Friuli Venezia Giulia, 31/05/2019 n. 239).
21. D’altra parte, l’Amministrazione ha correttamente e dettagliatamente motivato in ordine all’incidenza dell’intervento progettato dal punto di vista paesistico, precisando che la zona d’ombra a giorno va a modificare l’originaria conformazione morfotipologica del trullo in pietra, “identificato nella sua preesistenza come elemento isolato e ben percettibile esternamente su tutti i lati e pertanto tipologicamente compromesso dalla presenza della suddetta struttura lignea, che, tra l’altro non risulta essere allineata né orizzontalmente né verticalmente ai preesistenti gradoni lapidei conformanti la costruzione originaria”.
22. In riferimento, invece, alla realizzazione del pavimento in gres (ceramica), al muretto di calcestruzzo sagomato e ai telai in anticorodal (alluminio), a dispetto delle valutazioni effettuate dalla Commissione locale per il paesaggio (il cui parere, tuttavia, è consultivo e non esplica alcun effetto vincolante rispetto alle valutazioni della Soprintendenza, cfr. TAR Campania, Napoli sez. III, 03/09/2018 n. 5317), dalla documentazione fotografica versata in atti se ne desume l’immediata percettività e la natura paesaggisticamente impattante degli stessi perché composti da materiali non tradizionali e diversi rispetto a quelli tipici dei luoghi.
23. Per quanto sopra, non può trovare applicazione alla fattispecie in esame l’Allegato A del DPR 31/2017 ove sono indicati gli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica.
23.1. Quanto al pavimento in gres, la lettera A10 dell’Allegato A al dpr 31/2017, sebbene riguardi opere di manutenzione ed adeguamento di spazi esterni, limita, tuttavia, l’esclusione dall’autorizzazione paesaggistica ad opere diverse da quelle realizzate nel caso in esame (manufatti esistenti, quali marciapiedi, banchine stradali, aiuole, componenti di arredo urbano), e in ogni caso eseguite “nel rispetto delle caratteristiche morfo-tipologiche, dei materiali e delle rifiniture preesistenti e dei caratteri tipici del contesto locale”, che l’utilizzo del gres (più precisamente ceramica, come indicato nella relazione allegata all’istanza di accertamento di conformità), non è idoneo a garantire.
23.2. Inconferente è poi il richiamo alla disposizione contenuta nella lettera A12 in considerazione della modifica non insignificante degli assetti planimetrici e vegetazionali esistenti in precedenza.
23.3. Neppure il pergolato, delimitato da un muretto (ove in sede di sopralluogo disposto dal Comune di Manfredonia è stata riscontrata la presenza di un piano di lavoro su cui sono posizionati un lavello e una cucina) può farsi rientrare nella disciplina della lettera A 19 dell’allegato A al dpr 31/2017, riferendosi tale ultima disposizione esclusivamente ai pergolati realizzati in legno per il ricovero di attrezzi agricoli (là dove, al contrario, il ricorrente ha dichiarato l’utilizzazione dello stesso per la preparazione del cibo) e ancorati al suolo senza opere di fondazione o opere murarie (mentre nel caso in esame, è stato realizzato un muretto con anima di calcestruzzo in funzione di chiusura del pergolato).
23.4. Le connotazioni strutturali del muretto, peraltro, determinano l’inapplicabilità del procedimento autorizzatorio semplificato previsto per gli interventi di lieve entità di cui Allegato B, lettera B21, del citato dpr 31/2017, che si riferisce, invece, precipuamente alla diversa ipotesi dei muri di cinta o di contenimento del terreno.
23.5. In ogni caso, le singole opere realizzate non possono essere isolatamente considerate, ma deve effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione ai fini della corretta tutela del paesaggio (conforme, TAR Napoli, sez. VI, 12/05/2016, n. 2433).
Il che conduce ad escludere che la zona d’ombra (pergolato e opere connesse) possa essere ritenuta irrilevante sul piano della tutela paesaggistica e della modifica dell'assetto del territorio ovvero che possa essere ricompreso sotto lo scudo degli interventi di minima importanza di cui all’art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, proprio nella considerazione delle significative modifiche all’originario assetto del territorio che l’intervento oggetto di causa ha effettivamente prodotto (TAR Napoli, sez. II, 16/07/2019, n. 3917).
24. Ne deriva l'infondatezza di ogni ulteriore doglianza articolata in ricorso, non potendosi ritenere, per le ragioni anzidette, il provvedimento della Soprintendenza impugnato ed il conseguenziale atto comunale, affetti da illogicità o da insufficienza motivazionale. Sicché, la carica ostativa prodotta dal richiamato art. 167, comma 4 rende del tutto ininfluente l’indicazione da parte del ricorrente della possibile parziale utilizzazione di materiali diversi rispetto a quelli originariamente previsti in progetto (rimozione dei telai in anticorodal e rivestimento del muretto con materiale diverso dal cemento).
25. Né coglie nel segno la lamentata violazione da parte della Soprintendenza delle garanzie partecipative: trattandosi, infatti, di attività vincolata, in quanto le opere realizzate non rientrano nelle ipotesi dei commi 4 e 5 dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 il provvedimento emanato non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato, con conseguente operatività dell’art. 21-octies L. 241/1990 (Consiglio di Stato sez. IV, 03/09/2019, n. 6073).
Tanto più che l’art. 167 dlgs 42/2004, sulla cui base è stato richiesto dal ricorrente l’accertamento ex post di conformità paesaggistica, -a differenza della diversa ipotesi disciplinata dall’art. 146, comma 8, Dlgs 42/2004- non prevede a carico della Soprintendenza la comunicazione di preavviso di rigetto, che, invece, spetta, piuttosto, al termine del procedimento, all’autorità competente alla gestione del vincolo paesaggistico ai fini accertamento della compatibilità paesaggistica (ex art. 167, comma 5, dlgs 42/2004), e la cui violazione non è stata lamentata nel caso in esame.
26. Per le suesposte ragioni il ricorso va rigettato (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 15.09.2019 n. 1218 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Assenza di trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile – Dovere di custodia e di vigilanza – Sussiste – Committente e detentore del bene – Rischio specifico – Responsabilità di tutte le ingerenze dannose, dolose o colpose – Responsabilità ex art. 2051 c.c. – Giurisprudenza.
In materia di appalti, non viene meno per il committente e detentore del bene il dovere di custodia e di vigilanza e, con esso, la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. laddove non vi sia il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera appaltata (Cass., 14/05/2018, n. 11671), quest’ultimo d’altro canto rispondendo anche dei danni cagionati a terzi dal preposto o dall’ausiliario della cui opera, ancorché non alle proprie dipendenze, si avvalga nell’espletamento della propria attività di adempimento dell’obbligazione, assumendo il rischio connaturato alla relativa utilizzazione nell’attuazione della propria obbligazione (cuius commoda eius et incommoda, ovvero dell’appropriazione o “avvalimento” dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione), essendo pertanto responsabile di tutte le ingerenze dannose, dolose o colpose, che a costui, sulla base di un nesso di occasionalità necessaria (v. Cass., 17/05/2001, n. 6756; Cass., 15/02/2000, n. 1682), siano state rese possibili in virtù della posizione conferitagli nell’adempimento dell’obbligazione medesima rispetto al danneggiato, e che integrano il “rischio specifico” a tale stregua assunto (Cass., 12/10/2018, n. 25373 ).
Pertanto, mentre l’art. 2053 c.c. indica come soggetto responsabile il proprietario, e quindi il titolare del diritto reale o della concessione che legittima il controllo giuridico sul bene», l’«art. 2051 c.c. considera responsabile il custode dell’edificio», e “la qualifica di proprietario e quella di custode … non coincidono necessariamente”
(Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 05.09.2019 n. 22163 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Conoscenza dei nominativi dei soggetti che hanno chiesto di effettuare il sopralluogo in una procedura di gara.
La mera conoscenza dei nominativi dei soggetti che hanno chiesto di effettuare il sopralluogo non integra violazione dell’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, nelle procedure aperte, in relazione all’«elenco dei soggetti che hanno presentato offerte, fino alla scadenza del termine per la presentazione delle medesime» (art. 53, comma 2, lett. a), poiché la richiesta di sopralluogo o la proposizione di quesiti circa le sue modalità alla stazione appaltante non costituisce elemento infallibilmente sintomatico, anche per altri soggetti eventualmente interessati a partecipare, di certa futura partecipazione alla gara né, ancor meno, immediata manifestazione di volontà partecipativa o forma equipollente di offerta (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.09.2019 n. 6097 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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6.2. Bene ha rilevato la sentenza impugnata, con statuizione che va immune da censura, come la lamentata violazione dell’art. 53 del codice dei contratti pubblici si collegava alla circostanza che l’Azienda avrebbe consentito ai potenziali concorrenti di conoscere quali fossero le imprese, che avevano partecipato alla gara, attraverso la pubblicazione delle richieste di sopralluogo sul portale EmPULIA.
6.3. Questa pubblicazione, come ben rammenta la sentenza qui impugnata, era espressamente contemplata dal disciplinare di gara (combinato disposto dei punti 2.6.1 e 2.8.2).
6.4. La lex specialis aveva infatti previsto, al punto 2.8.2, che «la richiesta di sopralluogo deve essere inoltrata, tramite EmPULIA, utilizzando la funzionalità “Chiarimenti” con l’indicazione del nominativo e della qualifica della persona incaricata del sopralluogo» e, al precedente punto 2.6.1., aveva disciplinato tale funzionalità e aveva disposto che «le risposte ad eventuali quesiti in relazione alla presente gara saranno pubblicate sul Portale EmPULIA entro il 19/10/2017», sicché, come ha osservato il primo giudice, le richieste di sopralluogo e le relative risposte sarebbero state pubblicate sul portale EmPULIA, in base alle previsioni appena richiamate, senza prescrizione di anonimato.
6.5. La qui dedotta violazione del principio di anonimato, in asserita violazione dell’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016, si è perciò realizzata per effetto di queste previsioni o, a tutto concedere, con la pubblicazione delle richieste e delle risposte sul portale, momento nel quale, secondo la tesi dell’appellante stessa, l’asserita segretezza dei partecipanti sarebbe stata in concreto compromessa e, cioè, entro il 19.10.2017, con la conseguenza che il ricorso, notificato solo il successivo 05.02.2018, è irrimediabilmente tardivo.
6.6. La corretta statuizione di irricevibilità del ricorso in parte qua non è in nessun modo incrinata dalle contrarie argomentazioni dell’appellante, che si è limitata ad affermare, semplicemente, che era corretto e tempestivo avanzare la censura a chiusura del procedimento concorsuale (p. 19 del ricorso), mentre è evidente, al contrario, che la qui contestata violazione della segretezza si sarebbe consumata, al più tardi, al momento della pubblicazione delle richieste di sopralluogo e non già a chiusura della gara, sicché la relativa censura è irrimediabilmente tardiva, come ha statuito il primo giudice, con motivazione che va quindi anche essa immune da censura.
6.7. Né giova osservare in senso contrario, come fa l’appellante nella propria memoria di replica depositata il 12.07.2019, che era necessario attendere l’esatto perimetro dei presentatori dell’offerta perché, se l’effetto perturbatore sul regolare svolgimento della gara era dato dalla stessa pubblicazione dei nominativi delle imprese che intendevano partecipare al sopralluogo, era in quel momento che la lesività anche potenziale della lesione sul regolare svolgimento della gara, siccome denunciata dalla ricorrente, poteva dirsi cristallizzata e non solo dopo la formale presentazione delle offerte.
6.8. È evidente che, secondo la stessa prospettazione dell’appellante, la sola conoscenza di tali nominativi può influenzare negativamente la presentazione delle offerte sicché delle due l’una: o l’effetto perturbatore della gara è immediato, con la conseguenza che le previsioni della lex specialis dovevano essere immediatamente impugnate, o non sussiste perché la presentazione delle offerte non può essere influenzata dalla mera conoscenza dei nominativi delle imprese che hanno chiesto di partecipare al sopralluogo prima e con il mero intento di partecipare alla gara.
6.9. La tesi dell’appellante, per la sua stessa prospettazione, perciò non sfugge ad una secca alternativa di irricevibilità o, per converso, di infondatezza.
7. E invero essa è infondata anche nel merito perché la mera conoscenza dei nominativi dei soggetti che hanno chiesto di effettuare il sopralluogo non integra violazione dell’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, nelle procedure aperte, in relazione all’«elenco dei soggetti che hanno presentato offerte, fino alla scadenza del termine per la presentazione delle medesime» (art. 53, comma 2, lett. a), poiché la richiesta di sopralluogo o la proposizione di quesiti circa le sue modalità alla stazione appaltante non costituisce elemento infallibilmente sintomatico, anche per altri soggetti eventualmente interessati a partecipare, di certa futura partecipazione alla gara né, ancor meno, immediata manifestazione di volontà partecipativa o forma equipollente di offerta.

ESPROPRIAZIONEAlla Corte costituzionale la disciplina regionale sull’inserimento dell’opera nel programma dei lavori pubblici e conseguente proroga del vincolo espropriativo.
Il Tar per la Lombardia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 (“Legge per il governo del territorio”), nella parte in cui stabilisce che i vincoli preordinati all’espropriazione, di durata quinquennale, non decadono quando l’opera sia inserita, prima della scadenza del quinquennio, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Tale previsione sarebbe, infatti, violativa dei principi fondamentali della materia e sarebbe stata dettata oltre i limiti della competenza concorrente delle regioni a statuto ordinario, avendo essa dato luogo, in assenza di indennizzo, ad un’ipotesi di attuazione del vincolo espropriativo –volta ad impedirne la decadenza– difforme dalla disciplina statale la quale, diversamente, ricollega tale effetto di mantenimento dell’efficacia del vincolo ad un serio inizio della procedura espropriativa.
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Espropriazione per pubblico interesse – Vincolo preordinato all’esproprio – Reiterazione – Regione Lombardia – Effetti della previsione dell’opera nel piano triennale dei lavori pubblici – Questione non manifestamente infondata di costituzionalità
È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui, in violazione dei limiti alla propria competenza legislativa concorrente definiti dall’art. 117 Cost. e comunque dei principi fondamentali relativi ai limiti del potere espropriativo discendenti dall’art. 42 Cost., attribuisce all’inserimento della previsione della realizzazione di un’opera pubblica nella programmazione triennale di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016 l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo quinquennale preordinato all’esproprio per la sua esecuzione (1).
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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna il Tar per la Lombardia dubita della legittimità costituzionale –in relazione agli artt. 42 e 117 Cost., oltre che con riferimento all’art. 1 del Primo protocollo della C.E.D.U.– dell’art. 9, comma 12, l.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 nella parte in cui stabilisce che l’inserimento dell’opera nel programma triennale dei lavori pubblici previsto dall’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016, ove intervenuto nel periodo di efficacia quinquennale del vincolo, impedisce la decadenza dello stesso vincolo. L’ordinanza evidenzia come la previsione di cui trattasi violerebbe le regole che connotano l’esercizio del potere ablatorio, ivi compreso l’obbligo di erogazione di un indennizzo in caso di espropriazione di valore, fermo restando che il programma triennale dei lavori pubblici sarebbe uno strumento inidoneo ad integrare il presupposto del “serio avvio della procedura espropriativa” che la Corte costituzionale ha considerato necessario per l’attuazione
del vincolo medesimo. Il Tar rimettente, adìto per l’annullamento degli atti della procedura espropriativa, con sentenza non definitiva n. 736 del 2019 ha dichiarato talune doglianze in parte inammissibili e in parte infondate ed ha riservato all’ordinanza in rassegna lo scrutinio dei dubbi di legittimità costituzionale.
   II. – Il ragionamento del Ter si articola nelle seguenti considerazioni:
      a) il riparto di competenze tra disciplina statale e disciplina regionale stabilito all’art. 117, terzo comma, Cost., non consentirebbe al legislatore regionale (e, segnatamente, a quello di una regione a statuto ordinario) titolare della potestà legislativa concorrente, di individuare ipotesi di “attuazione” del vincolo espropriativo –idonee ad impedirne la decadenza per superamento del termine di efficacia quinquennale– ulteriori rispetto a quelle dettate dalla disciplina statale;
      b) l’assetto normativo statale ha mutuato le regole previgenti (già contenute nella legge n. 1187 del 1968 in tema di durata dei vincoli) ed i principi espressi da Corte cost. 20.05.1999, n. 179 (in Foro it., 1999, I, 1705, con nota di BENINI, all’esito di questioni sollevate da Cons. Stato, ad. plen., 25.09.1996, n. 20, in Foro it., 1997, III, 4) in tema di reiterazione del divieto di edificazione, così compendiati:
         b1) il potere espropriativo è ammesso solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge, a condizione che l’assoggettamento all’attività ablatoria sia limitato nel tempo e che, a fronte di una pur possibile indeterminatezza temporale del vincolo, il proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della proprietà (Corte cost. 22.12.1989, n. 575, in Foro it., 1990, I, 1130);
         b2) la decadenza del vincolo per superamento del quinquennio di efficacia è preclusa dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione” (quale quella data dall’approvazione di un piano attuativo o di provvedimento che dichiari la pubblica utilità dell’opera);
         b3) la reiterazione del vincolo è ammessa all’esito di un procedimento che preveda la garanzia partecipativa per i proprietari interessati e che sia concluso con un provvedimento motivato che tenga conto, in particolar modo, delle esigenze di soddisfacimento degli standard;
         b4) la reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio deve dar luogo ad un indennizzo ancorché, come chiarito da Cons. Stato, ad. plen., n. 7 del 2007 (in Foro it., 2007, III, 350, con nota di TRAVI), per la legittimità della reiterazione non sia necessaria la puntuale quantificazione, da parte dell’Amministrazione, dell’effettivo danno subìto da parte del proprietario inciso;
      c) una previsione quale quella contenuta nell’art. 9, comma 12, l.r. cit., secondo cui “I vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della Pubblica Amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi hanno la durata di cinque anni, decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso. Detti vincoli decadono qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione […]”, violerebbe: I) le regole di riparto di competenze costituzionalmente stabilite (art. 117 Cost.); II) l’art. 1 del Primo protocollo della C.E.D.U. poiché integrerebbe l’ipotesi di una espropriazione di valore non indennizzata;
III) i principi fondamentali in materia espropriativa dettati dall’art. 42 Cost. e dal d.P.R. n. 327 del 2001;
      d) in particolare: la scelta del legislatore regionale di considerare l’inserimento dell’opera –nel termine di efficacia del vincolo– nel piano triennale dei lavori pubblici previsto dall’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016 inteso quale strumento di attuazione della volontà espropriativa, per un verso, non sarebbe conforme al perimetro della competenza legislativa concorrente delle regioni a statuto ordinario e, per altro verso, non sarebbe sincronizzabile con l’assetto dei principi statali posti alla base dell’attribuzione del potere espropriativo per pubblica utilità;
      e) in tal senso deve essere evidenziato che la legge regionale di cui trattasi avrebbe previsto un “atipico” procedimento espropriativo fondato su un potere ablatorio esercitabile con uno strumento –il programma triennale dei lavori pubblici che preveda la realizzazione anche dell’opera oggetto del vincolo in scadenza– inidoneo ad integrare il presupposto del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione” in considerazione che:
         e1) le modalità di adozione, declinate da apposita normativa di dettaglio, non garantiscono –malgrado l’obbligo della sua preliminare pubblicazione ai sensi del predetto art. 21 d.lgs. n. 50 del 2016– l’esercizio di una vera e propria partecipazione del privato al procedimento, in presenza di un atto che, così come è configurato dalla legislazione regionale, dà l’avvio al procedimento espropriativo;
         e2) si tratterebbe di uno strumento –previsto dalla disciplina nazionale dei contratti pubblici– la cui funzione è connessa fondamentalmente alla programmazione finanziaria, di bilancio ed all’assetto organizzativo dell’attività dell’ente chiamato alla realizzazione dell’opera;
         e3) non offre alcuna garanzia circa il fatto che l’opera sia effettivamente realizzata, non comportando alcun impegno di spesa e non essendo previsto alcun termine di efficacia entro cui i lavori debbano essere conclusi;
         e4) le previsioni del programma possono essere reiterate nel tempo senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo;
         e5) conseguentemente, esso svuoterebbe, di fatto, completamente di contenuto il diritto di proprietà;
         e6) la connotazione attribuita al piano quale strumento di attuazione del vincolo preordinato all’esproprio (ciò che, in realtà, non è come tale neppure previsto dalla disciplina statale sulla programmazione dei lavori pubblici), violerebbe anche il fondamentale presupposto, introdotto in recepimento del principio individuato da Corte cost. n. 179 del 1999, cit., e trasfuso nell’art. 39 del d. P.R. n. 327 del 2001, secondo cui “nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità, commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto”.
III. – Si segnala per completezza quanto segue:
      f) sui rapporti tra disciplina C.E.D.U. e ordinamento interno in materia espropriativa: Corte cost., 24.10.2007, n. 348 (in Corriere giur., 2008, 185, con note di LUCIANI, CONTI; Immobili & dir., 2008, 1, 54, con nota di SCAGLIONE; Giur. it., 2008, 565, con note di CONFORTI, CALVANO; Arch. locazioni, 2008, 25, con nota di SCRIPELLITI; Urbanistica e appalti, 2008, 163 (m), con nota di MIRATE; Riv. giur. urbanistica, 2007, 356, con nota di CORVAJA; Dir. uomo, 2007, 3, 105, con note di DONATI, GULLOTTA, SACCUCCI; Giornale dir. amm., 2008, 25 (m), con note di RANDAZZO, MAZZARELLI, PACINI; Riv. dir. internaz., 2008, 197, con note di GAJA, CANNIZZARO, PADELLETTI, SACCUCCI; Resp. civ. e prev., 2008, 52, con nota di MIRATE; Giust. civ., 2008, I, 51 (m), con nota di DUNI, STELLA) e 24.10.2007, n. 349 (in Foro it. 2008, I, 39);
      g) sulla indeterminatezza temporale del vincolo espropriativo, v. Corte cost. n. 575 del 1989, cit., secondo cui:
         g1) “è propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata in relazione alle effettive esigenze urbanistiche. Tale possibilità, tuttavia, darebbe luogo ad un sistema non conforme ai principi affermati nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo venga protratto a tempo indeterminato senza la previsione di indennizzo”;
         g2) “i due requisiti della temporaneità e della indennizzabilità sono difatti tra loro alternativi, per cui l'indeterminatezza temporale dei vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli indefinitamente nel tempo anche se con diversa destinazione o con altri mezzi, é costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà secondo i principi affermati nelle sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968”;
      h) sulla possibilità per l’amministrazione espropriante di reiterare i vincoli urbanistici scaduti:
         h1) con riferimento all’obbligo di indennizzo: Corte cost. n. 179 del 1999, cit. –e, in diretta linea di continuità con questa, 09.05.2003, n. 148 in Foro it., 2003, I, 1955 con nota di BENINI e 18.12.2001, n. 411, id., 2002, I, 2252, con nota di CIAMPA– secondo cui “E' costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 42, comma terzo, Cost., il combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, comma 1, l. 19.11.1968, n. 1187 (Modifica ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), nella parte in cui consente all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all'espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo, in quanto -posto che il problema di un indennizzo a seguito di vincoli urbanistici (come alternativa non eludibile tra previsione di indennizzo ovvero di un termine di durata massima dell'efficacia del vincolo) si può porre sul piano costituzionale quando si tratta di vincoli che a) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni, b) superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge, c) superino sotto un profilo quantitativo la normale tollerabilità secondo una concezione della proprietà, che resta regolata dalla legge per i modi di godimento ed i limiti preordinati alla funzione sociale (art. 42, comma secondo, Cost.); che la reiterazione in via amministrativa dei vincoli urbanistici decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale; che essi assumono, invece, carattere certamente patologico, in assenza di previsione alternativa di indennizzo e fermo che l'obbligo di indennizzo opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia), quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga "sine die" o all'infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, e cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza; e che restano al di fuori dell'ambito della indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni (ivi compresi i vincoli ambientali-paesistici), i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile- una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico, avente le anzidette caratteristiche, se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all'espropriazione (o al serio inizio dell’attività preordinata all'espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi), dalla previsione di un indennizzo”;
         h2) sulla alternatività tra temporaneità e indennizzabilità del vincolo preordinato all’esproprio: Corte cost. 29.04.1982, n. 82 (in Regioni, 1982, 681, con nota di BARDUSCO e in Riv. giur. edilizia, 1982, I, 421, con nota di ALPA) secondo cui, in linea con la sentenza n., 55 del 1968, è stata posta un’alternativa nel senso che la Corte “ha ritenuto come necessaria la previsione di un indennizzo ovvero quella di un termine di durata dell'efficacia del vincolo. Data questa alternativa, pacificamente riconosciuta in dottrina e giurisprudenza, il legislatore correttamente si è limitato a fissare, per l'efficacia del vincolo, un termine massimo di durata”;
         h3) con riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento con cui è reiterato il vincolo: Cons. Stato, Ad. plen. 24.05.2007, n. 7 (in Foro it., 2007, III, 350 con nota di TRAVI; Guida al dir., 2007, 24, 73 con nota di FORLENZA; Riv. amm., 2007, 5-6, 461 con nota di CACCIAVILLANI; Corriere merito, 2007, 1092, con nota di VELTRI; Urbanistica e appalti, 2007, 1113, con nota di CARBONELLI; Giornale dir. amm., 2007, 1174, con nota di MAZZARELLI; Resp. e risarcimento, 2007, 7, 95, con nota di PAPPALARDO; Quaderni centro documentaz., 2007, 3, 242, con nota di COLLACCHI ) secondo cui:
I) “l'esercizio del potere di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio decaduto per decorrenza del termine quinquennale può essere esercitato unicamente sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che escluda un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti”;
II) “per valutare l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti di reiterazione di vincoli preordinati all'esproprio occorre distinguere se questi riguardano o meno una pluralità di aree, se riguardano solo una parte già incisa da vincoli decaduti, se, infine, la reiterazione sia disposta (o meno) per la prima volta sull'area”;
III) “si ha adeguato supporto motivazionale dell'atto di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio qualora l'amministrazione, nell'evidenziare l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, abbia a seguito di specifica istruttoria, tenuto conto delle seguenti circostanze:
   1) in caso di reiterazione disposta con riguardo o meno una pluralità di aree, nell'ambito dell'adozione di una variante generale o comunque riguardante una consistente parte del territorio comunale, si devono distinguere le ipotesi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un'area ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico) e quelle in cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una consistente parte del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli preordinati all'esproprio (necessari per l'adeguamento degli standard, a seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Tale distinzione ha ragion d'essere perché solo nell'ipotesi in cui vengono reiterati «in blocco» i vincoli decaduti, già riguardanti una pluralità di aree, la sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dalla perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard (indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l'assenza di un intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
   2) in caso di reiterazione disposta con riguardo solo ad una parte delle aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l'altra parte non è disposta la reiterazione in quanto il vincolo venga impresso su nuovi terreni. Tale scelta, pur costituendo senz'altro un'anomalia della funzione pubblica, deve fondarsi, pena il profilarsi di un intento vessatorio nei confronti dei proprietari delle aree riassoggettate a vincolo, su una motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico che giustifichino il vantaggio di chi non è più coinvolto nelle determinazioni di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all'esproprio;
   3) in caso di reiterazione disposta per la prima volta, può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni; di converso, quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, l'autorità urbanistica deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, evidenziano le ragioni, con riferimento al rispetto degli standard, alle esigenze della spesa, agli specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali, che diano conto dell'attuale sussistenza dell'interesse pubblico
”;
   IV) “secondo il quadro normativo vigente antecedentemente al testo unico sugli espropri approvato con il d.P.R. n. 327 del 2001, valeva il principio che, in caso di atti di reiterazione dei vincoli preordinati all'esproprio, imponeva l'obbligo di un'adeguata motivazione (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, d.P.R. cit.), nella quale l'amministrazione doveva indicare la ragione che l'avevano indotta a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la precedente scelta si era appuntata, evidenziando, a tal fine, l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, ciò in quanto tale specie di determinazione è destinata ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio”;
   V) la deliberazione riguardante la reiterazione del vincolo espropriativo non necessita di copertura finanziaria volta a garantire il pagamento del corrispondente indennizzo (“la delibera impugnata in primo grado non doveva essere preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’”);
         h4) sulla copertura finanziaria dell’indennizzo: cfr. Tar per la Sicilia, sez. III, 10.07.2012, n. 1464, secondo cui “La relazione economico-finanziaria richiesta dall'art. 30 della legge 17.08.1942 n. 1150 non costituisce elemento essenziale del piano regolatore generale, potendo essa sopravvenire in un momento successivo, e cioè allorché il Comune deve deliberare circa l'espropriazione delle aree private ai sensi dell'art. 18 della legge citata; pertanto, è a fortiori pienamente valido il piano regolatore generale che difetti di adeguate previsioni economico-finanziarie. La previsione succitata deve essere ormai letta alla luce dell’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali introdotto dapprima con il d.lgs. n. 77 del 1995 e, successivamente, con il d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli enti locali), le cui disposizioni costituiscono oggetto del rinvio cd. «dinamico» disposto dal legislatore regionale con l’art. 1 della l.r. n. 48 del 1991. Ne deriva che ogni preesistente previsione normativa di carattere finanziario e contabile deve essere ricondotta al sistema ordinamentale che regola la spesa dell’ente territoriale la quale, come è noto non prescinde da specifiche forma di programmazione all’uopo previste (si pensi, fra tutte, al programma triennale dei lavori pubblici ed all’elenco annuale dei lavori, i quali contemplano strumenti progettuali e piani economici che involgono anche spese per indennizzi espropriativi)";
         h5) sull’inapplicabilità del criterio della edificabilità di fatto alle “aree bianche” e relativo regime indennitario: Cass. civ., sez. I, 29.10.2015, n. 22992 (in Foro it., 2015, 5, I, 1690) secondo cui “Ai fini della determinazione dell'indennità, il regime urbanistico, nel senso dell'edificabilità o inedificabilità, di un'area al momento del decreto di esproprio, è definibile, nell'ipotesi in cui l'originario vincolo di inedificabilità sia scaduto per decorso del termine quinquennale, tenendo conto della reiterazione del vincolo, che può dare diritto ad una speciale indennità, tuttavia distinta da quella di esproprio, restando inapplicabile il criterio dell'edificabilità di fatto, riservato all'ipotesi in cui al momento del concludersi della vicenda ablatoria persista, riguardo alla stessa area, una situazione di carenza di pianificazione”;
      i) sulla natura e finalità del programma triennale dei lavori pubblici: C. conti, sez. contr. Reg. Campania, 06.06.2018, n. 77/18, secondo cui l’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016 “pone a carico delle amministrazioni aggiudicatrici l’obbligo di adottare il programma biennale degli acquisti dei beni e dei servizi e il programma triennale dei lavori pubblici, nonché i relativi aggiornamenti annuali. Tali programmi «sono approvati nel rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il bilancio e, per gli enti locali, secondo le norme che disciplinano la programmazione economico-finanziaria degli enti»”; sulla correlazione tra programma triennale e strumenti finanziari, v. Allegato n. 4/1 al d.lgs. n. 118 del 2011, “principio contabile applicato concernente la programmazione di bilancio”, punti 5.4., 8.2., 9.8);
      j) sul rapporto tra programma triennale dei lavori pubblici e vincoli urbanistici: Tar per la Sicilia, sez. I, 30.09.2008, n. 1234, secondo cui “ai sensi dell’art. 10 T.U. cit., qualora la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica utilità non sia prevista dal piano urbanistico generale, il vincolo preordinato all'esproprio può essere disposto, ove espressamente se ne dia atto, su richiesta dell'interessato ai sensi dell' articolo 14, comma 4, della legge 07.08.1990, n. 241, ovvero su iniziativa dell'amministrazione competente all'approvazione del progetto, mediante una conferenza di servizi, un accordo di programma, una intesa ovvero un altro atto, anche di natura territoriale, che in base alla legislazione vigente comporti la variante al piano urbanistico. Ritiene il Collegio che l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche di cui alla delibera del C.C. cit. integri la previsione dell’ultima parte della normativa richiamata, comportando la concretizzazione ad opera della P.A. della previsione meramente conformativa prevista dal P.R.G. cui il privato, pur avendone il potere, non ha dato seguito”;
      k) sulla distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi, preso atto che nei casi “limite” la giurisprudenza non è univoca, si veda, di recente:
         k1) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 04.04.2018, n. 205, secondo cui il vincolo posto dal piano regolatore per la realizzazione di attrezzature pubbliche o ad uso pubblico deve essere qualificato come espropriativo e non conformativo: “La decisione di primo grado, nella parte in cui ritiene che la destinazione di tale terreno alla realizzazione di attrezzature pubbliche e di uso pubblico possa «essere realizzata anche da un privato», pecca, in particolare, per astrattezza, dovendosi realizzare detta destinazione in regime di libero mercato nel contesto economico sociale tipico dei piccoli comuni della Sicilia”;
         k2) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 24.09.2015 n. 610, secondo cui “Un vincolo non può ritenersi conformativo ogni qualvolta le iniziative edilizie consentite dallo strumento urbanistico non siano suscettibili di operare in regime di libero mercato”, sicché va “condiviso- nel caso di specie- il giudizio formulato dal primo Giudice circa la natura sostanzialmente ‘espropriativa’ dei vincoli urbanistici apposti sull’area di proprietà degli odierni appellati. A nulla rilevando, nel senso ‘conformativo’ ex adverso invocato dalla difesa dell’Amministrazione Comunale, il fatto che la disposizione delle norme di attuazione consentiva la possibilità che la scuola dell’obbligo, alla quale era destinata l’edificazione sull’area, potesse essere realizzata anche da privati, considerato che la tipologia di uso e/o di iniziativa economica che così viene individuata riguarda un’opera per l’esercizio di un’ attività: quella relativa all’insegnamento obbligatorio, che anche a voler comprendere forme di esercizio da parte di ‘privati’, non manifesta -né allo stato, né entro un arco di tempo ragionevolmente determinato- una elasticità e dinamicità della domanda tali da consentire al privato, che non voglia esso stesso intraprendere l’iniziativa, di poter disporre sul ‘mercato’ dell’area così destinata”;
         k3) Cons. Stato, sez. IV, 23.04.2013, n. 2254, secondo cui “La destinazione a verde pubblico attrezzato ha di regola natura conformativa dovendo però verificarsi, caso per caso, alla stregua della concreta disciplina urbanistica posta dallo strumento generale, se questa comporti la preclusione pressoché totale di ogni attività edilizia, con conseguente svuotamento sostanziale del diritto di proprietà: solo in tale ultima ipotesi può affermarsi il suo carattere espropriativo”;
         k4) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 19.12.2008, n. 1113, secondo cui sono fuori dello schema ablatorio i vincoli che importano una destinazione di contenuto specifico realizzabile ad iniziativa privata o promiscua (pubblico-privato) che non comportino, quindi, necessariamente espropriazioni o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica.
Nel sistema delineato dalla Costituzione e dalla C.E.D.U. la norma conformatrice dello jus aedificandi non costituisce annullamento del diritto di proprietà e dunque non è riguardata con sfavore (nei limiti della ragionevolezza e del rispetto della natura stessa dei luoghi), mentre la norma ablatoria è considerata eccezione di stretto diritto al principio fondamentale della inviolabilità della proprietà. Tale eccezione è legata alla sussistenza di motivi di interesse pubblico tali da necessitare una deviazione dalla funzione propria della proprietà e quindi una finalizzazione di essa a scopi non economica-mente conformi con tale diritto.
Sotto questo profilo la distinzione tra norme conformative e norme ablatorie non può più seguire i criteri tradizionali elaborati dalla giurisprudenza amministrativa sino ad oggi. Si deve, infatti, avere riguardo al tasso di deviazione dalla finalità ordinaria della area in questione rispetto alla sua vocazione naturale, che è sicuramente quella di dare luogo ad un opus economicamente e commercialmente idoneo a procurare il massimo profitto al proprietario. La norma conformativa, che impone standard di distanze, cubatura, altezza, tipologia etc., si inserisce in un mercato immobiliare omogeneo, stabilendo restrizioni uguali per gli appartenenti alla classe (proprietari della zona omogenea) e determinando, quindi, i parametri di mercato (valore dell’immobile realizzabile e quindi dell’area edificabile) in relazione alle restrizioni omogenee.
Si tratta, nel mercato che si crea, di vincoli economici esterni, accettabili e compatibili con l’economia di mercato e con i principi di uguaglianza, nella misura in cui operino, sostanzialmente, come limiti esterni allo jus aedificandi. Non costituisce, giuridicamente, una restrizione del diritto di proprietà la diminuzione di valore di un’area sita, ad esempio, in zona umida e malsana, rispetto alla analoga area sita in collina, o di un’area allocata distante dal mare rispetto ad una posta nelle vicinanze della riva, atteso, appunto, che tali limitazioni sono insite ed ontologicamente connaturate alle aree stesse.
Allo stesso modo, non costituisce restrizione al diritto di proprietà ed allo jus aedificandi l’obbligo conformativo che opera quale limite generale, quasi natura-le, alle facoltà della classe di aree insistenti in zona omogenea. L’interesse pubblico, quindi, opera ab extrinseco non incidendo sul diritto di proprietà, ma sulla sua valorizzazione di mercato, a fronte di un potere conformativo, eccezionale ma accettabile, riconosciuto per il bene della collettività.
Viceversa, ove ci si trovi innanzi ad una potestà conformativa che imponga realizzazioni difformi dalla naturale destinazione dell’area, ne consegue, di fatto, l’ablazione di una precisa facoltà inerente al diritto di proprietà. In tal caso non giova la considerazione che l’opus necessario (ad esempio un parcheggio) possa anche essere realizzato dal medesimo privato, poiché è fin troppo evidente che la diminuzione di valore dell’opera realizzabile non risponde ad una conformazione omogenea del mercato della zona, ma ad un intervento autoritario del pubblico che si propone quale terzo indefettibile del successivo rapporto.
In altri termini, se l’opera realizzabile, sia pure con le limitazioni dovute alla conformazione, può comunque essere posta sul mercato scontando il meccanismo usuale della do-manda ed offerta per la determinazione del prezzo, la destinazione indefettibile ad opera o servizio pubblico individua, necessariamente e senza possibilità di eccezione, il soggetto (pubblico) cui l’opera stessa non potrà che essere destinata. In tal guisa che l’opera non è finalizzata ad essere posta sul mercato, ma necessariamente ad esser posta a disposizione di un solo soggetto. Ciò anche nella ipotesi in cui l’opera sia realizzata dallo stesso privato, magari in convenzione con il soggetto pubblico, poiché ciò che rileva non è chi materialmente la realizzi (il privato o il pubblico dopo l’espropriazione), ma chi concretamente può essere il solo destinatario della sua utilizzazione.
Non vi è mercato, come è noto, quando uno dei contraenti si pone in posizione di monopolio (nel caso monopolista per l’acquisto). Corollario di questa impostazione è che l’area in questione, se effettivamente serve allo scopo di realizzare gli standard urbanistici, non potrà, alla fine, che essere espropriata, proprio in virtù del fatto che su di essa non può che essere realizzata altro che l’opera in questione asservita ad un interesse pubblico e riferita all’ente pubblico
”;
         k5) seguono un approccio parzialmente difforme: Cons. Stato, sez. IV, 07.01.2019, n. 112 secondo cui “La destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione di un vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per definire i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale, ponendo limitazioni in funzione dell'interesse pubblico generale che non danno diritto ad indennizzo, trattandosi di limiti non ablatori, ma derivanti da destinazioni realizzabili anche dall'iniziativa privata, in regime di economia di mercato”;
      l) in dottrina, si veda:
         l1) sulla disciplina vincolistica: W. PELINO, A. BARTONE, I vincoli sostanzialmente espropriativi: la prolungata compressione dello jus aedificandi tra indennizzi, perequazione e compensazione, in Riv. amm., 2000, 8, 2, 811-824; V. CARBONE, I. NASTI, Vincoli urbanistici speciali, conformazione della proprietà ed espropriazioni anomale: un segnale dalle Sezioni Unite, in Corriere giur., 2001, 869-874; R. CONTI, Occupazione acquisitiva, usurpativa e reiterazione di vincoli espropriativi, in Urbanistica e appalti, 2002, 12, 1437-1444; G. LAVITOLA, Urbanistica e tutela della proprietà tra Corte Costituzionale, Consiglio di Stato e testo unico sull'espropriazione, in Riv. giur. edilizia, 2002, 1, 3, 59-78; R. IANNOTTA, (In tema di) vincoli espropriativi scaduti in mancanza di previsione di durata e di indennizzo, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 5, 1506; S. ANTONIAZZI, Le conseguenze della reiterazione di vincoli espropriativi e di inedificabilità, secondo la più recente giurisprudenza amministrativa: gli obblighi di motivazione e di indennizzo nonché di nuova pianificazione dell'area priva di destinazione urbanistica, in Riv. giur. edilizia, 2004, 6, 1, 1975-1984; P. LORO, Il risarcimento da reiterazione dei vincoli secondo la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in Riv. amm., 2004, 7, 780-786; M. GHILONI, Nuovi strumenti di gestione del territorio: riflessi sui vincoli espropriativi e sulla realizzazione dei servizi pubblici, in Arch. giur. oo.pp., 2005, 68, 6, 679-689; M. M. CARBONELLI, La reiterazione dei vincoli di pianificazione urbanistica: il paso doble di Plenaria e Corte Costituzionale, in Urbanistica e appalti, 2007, 9, 1118-1125; F. G. SCOCA, Amministrazione pubblica e diritto amministrativo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Dir. amm., 2012, 1-2, 21 ss; G. PAGLIARI, M. SOLINI, G. FARRI, Regime della proprietà privata tra vincoli e pianificazione dall'unità d'Italia ad oggi, in Riv. giur. edilizia, 2015, 6, 282;
         l2) sui termini per l‘adozione della dichiarazione di pubblica utilità: M. BORGO, M. MORELLI, L’acquisizione e l’utilizzo di immobili da parte della p.a., Milano, 2012, 55 ss.;
         l3) sulle questioni di giurisdizione in materia espropriativa, ancorché inerente alla disciplina anteriore al Codice del processo amministrativo: R. VILLATA, Problemi attuali della giurisdizione amministrativa, Milano, 2009, 23 ss.;
         l4) sul procedimento ablatorio nelle diverse disposizioni regionali: N. CENTOFANTI, Diritto di costruire, pianificazione urbanistica, espropriazione, Milano, 2010, I, 1635 ss.;
         l5) sulla reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio: G. CERISANO – R. DAMONTE, in L’espropriazione per pubblica utilità nel nuovo testo unico (a cura di F. CARINGELLA – G. DE MARZO, MILANO), 2005, 95 ss.; L. MARUOTTI, Vincoli derivanti da piani urbanistici, in CARINGELLA – DE MARZO – DE NICTOLIS – MARUOTTI, L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2006, 155 ss.;
         l6) sulla ratio, ruolo e finalità del programma triennale dei lavori pubblici: L. PETRANGELI PAPINI, La programmazione e la progettazione dei lavori pubblici, in Appalti urbanistica edilizia, 2000, 12, 643-662; G. FORMICHELLA, Lavori pubblici. La programmazione dei lavori pubblici negli Enti locali. I principi, le procedure, gli aspetti positivi e gli spunti problematici, in Nuova rass., 2001, 17-18, 1857-1870; A. MATARAZZO, Lavori pubblici. Brevi annotazioni operative in tema di programmazione dei lavori pubblici, in Nuova rass., 2001, 17-18, 1871-1874; E. BARUSSO, Le competenze degli organi dell’Ente Locale, Santarcangelo di Romagna, 2001, 127 ss.; G. PESCE, Effetti del programma triennale delle opere pubbliche e valutazione di fattibilità dell'intervento, in Urbanistica e appalti, 2003, 4, 442-447; A. PAGANO, Programma triennale dei lavori pubblici, Commento a d.m. Infrastrutture e trasporti 09.06.2005, in Urbanistica e appalti, 2005, 8, 914; D.GHIANDONI, E. MASINI, Le principali novità del programma oo.pp. 2019/2021, in Azienditalia, 2018, 10, 1247; P. LEONCINO, La contabilizzazione delle opere pubbliche, in Azienditalia, 2019, 6, 885;
      m) sui poteri regionali in materia espropriativa:
         m1) in dottrina v.: G. BERGONZINI, La potestà legislativa della Regione in tema di esproprio finalizzato alla realizzazione di opere pubbliche di interesse regionale, in Dir. regione, 2002, 2-3, 493-505; M. MUTI, Il testo unico sull'espropriazione per pubblica utilità: prime riflessioni sul riparto di competenze legislative alla luce della riforma del titolo V della Costituzione, in Riv. amm., 2002, 3, 1, 169-204; N. MACCABIANI, La Corte “compone” e “riparte” la competenza relativa al “governo del territorio”, in Riv. giur. edilizia, 2005, 5, 209; G. CERISANO, in L’espropriazione, cit., 14 ss.; R. DE NICTOLIS, in CARINGELLA – DE MARZO – DE NICTOLIS – MARUOTTI, L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2006, 22 ss.; V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2019, 1091 ss., ove è evidenziato che “le regole di riparto delle funzioni legislative tra Stato e Regione sono modulate in ragione della particolare nozione […] di espropriazione dettata dall’art. 42 Cost. […]. Quest’ultima, infatti, non costituisce una materia inclusa negli elenchi dell’art. 117 Cost. Se, infatti, la materia si identifica alla luce dell’oggetto e delle finalità perseguite dal legislatore, risulta evidente come l’espropriazione non abbia un oggetto definito, ma esso è individuato in relazione alla specifica finalità perseguita. Si tratta, pertanto, di una «materia strumentale» che rientra nelle altre materie di cui all’art. 117 Cost. a seconda dell’ambito in cui il potere espropriativo è esercitato”.
Tale assetto è stato confermato dall’art. 5 del d.P.R. n. 327 del 2001 il quale prevede che “Le Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà legislativa concorrente, in ordine alle espropriazioni strumentali alle materie di propria competenza, nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale nonché dei principi generali dell'ordinamento giuridico desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico”;
         m2) in relazione ai poteri delle Regioni a statuto speciale in materia espropriativa, v. M.T. SEMPREVIVA, Criteri indennitari e Regioni a statuto speciale, in Urbanistica e appalti, 1999, 6, 610-612;
         m3) secondo la giurisprudenza, le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano, esercitano “la propria potestà legislativa in materia di espropriazione per pubblica utilità nel rispetto dei rispettivi statuti e delle relative norme di attuazione, anche con riferimento alle disposizioni del titolo V, parte seconda, della Costituzione per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite” (Corte cost., 02.07.2014, n. 187, in Foro it., 2015, I, 1175, con nota di MENTO), fermo restando l’obbligo delle stesse di conformarsi ai principi che traggono supporto dal testo fondamentale e caratterizzano l’ordinamento giuridico dello Stato (in tal senso, Corte cost., 30.07.1984, n. 231, in Foro it., 1985, I, 46, con nota di PIETROSANTI e in Regioni, 1984, 1413, con nota di SORACE) (TAR Lombardia–Brescia, Sez. II, ordinanza 14.08.2019 n. 740 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Revoca del bando di gara.
In ragione della natura giuridica di atto provvisorio ad effetti instabili, tipica dell'aggiudicazione provvisoria, e della non tutelabilità processuale di quest'ultima ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990, rientra nel potere discrezionale dell'amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara;
Nelle gare pubbliche la decisione della Pubblica amministrazione di procedere alla revoca dell'aggiudicazione provvisoria non è da classificare come attività di secondo grado (diversamente dal ritiro dell'aggiudicazione definitiva), atteso che, nei confronti di tale determinazione, l'aggiudicatario provvisorio vanta solo un'aspettativa non qualificata o di mero fatto alla conclusione del procedimento: pertanto, l'assenza di una posizione di affidamento in capo all'aggiudicatario provvisorio, meritevole di tutela qualificata, attenua l'onere motivazionale facente carico alla Pubblica amministrazione, in occasione del ritiro dell'aggiudicazione provvisoria, anche con riferimento alla indicazione dell'interesse pubblico giustificativo dell'atto di ritiro; è poi evidente che, rimanendo immutata la consistenza della posizione soggettiva con la quale interferisce l’esercizio del potere di ritiro della P.A., alle medesime conclusioni deve giungersi nel caso in cui il potere di revoca abbia ad oggetto l’intera procedura di gara
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.08.2019 n. 5597 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
4. l’appello è fondato e, pertanto, va accolto.
4.1. Vale, anzitutto, qui ribadire che la res controversa si innesta su un precedente giudizio, definito con sentenza n. 1046 del 10.04.2012, con la quale il TAR per la Lombardia, sede di Milano, su ricorso dell’odierna appellata, annullava:
   - la deliberazione di aggiudicazione, atteso che “l’offerta tecnica del raggruppamento aggiudicatario (…) si poneva in difformità rispetto al progetto definitivo, in violazione della legge di gara e dell’articolo 93, comma 5, del codice dei contratti pubblici”;
   - il provvedimento di revoca degli atti di gara, assunto in dichiarata ottemperanza della ordinanza cautelare del medesimo giudice del 15.07.2011, atteso che la proroga dell’inizio dei lavori, necessaria per ottenere il finanziamento regionale, “era già stata concessa sin dal 04.11.2011; sebbene tale circostanza sia stata comunicata soltanto il 10.11.2011, era dovere istruttorio dell’amministrazione acquisire compiutamente informazioni circa la sussistenza dei presupposti di fatto del provvedimento di ritiro”.
4.2. Tanto premesso, il Collegio non condivide la premessa da cui prende abbrivio la traiettoria argomentativa del giudice di prime cure secondo cui il richiamato decisum ha, altresì, “….inequivocabilmente sancito il diritto della attuale ricorrente (seconda in graduatoria) all’aggiudicazione dell’appalto” e allo stesso tempo “…consumato, dunque, la potestà discrezionale della stazione appaltante di procedere al ritiro degli atti di gara, quanto meno fino al momento in cui non fosse stata ripristinata la situazione controversa nei termini dettati della sentenza”, al punto da concretare “l’obbligo di aggiudicare l’appalto alla società ricorrente”.
Vale, di contro, osservare che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, la sentenza n. 1046 del 10.04.2012 non aveva affatto veicolato in favore della ricorrente né in sede risarcitoria, e neppure come effetto conformativo, il bene della vita agognato (id est, aggiudicazione dell’appalto) limitandosi a dichiarare l’illegittimità dell’aggiudicazione pronunciata in favore della controinteressata (oltre che ad annullare gli atti di ritiro della gara) senza riconoscere, al contempo, in capo alla Co., un intangibile diritto all’aggiudicazione.
4.3. A tal riguardo, è appena il caso di soggiungere che il riferimento alla “massima utilità sostanziale” cui pure accenna la pronuncia, esaurisce i suoi effetti, nell’economia della suddetta sentenza, nel graduare l’interesse della parte ricorrente rispetto al ventaglio delle censure formulate, arrestando la decisione dinanzi alla positiva delibazione di quella, in potenza, idonea ad assicurare il massimo delle utilità conseguibili (nella specie l’esclusione dell’aggiudicataria).
4.4. Tanto implicava, dunque, una regressione del procedimento ad una fase in cui la Co., già classificatasi seconda, per effetto della esclusione della precedente aggiudicataria, poteva ritenersi (in via di fatto) aggiudicataria provvisoria, rimanendo, comunque, immutato, salvo che i profili coperti dal giudicato, lo ius poenitendi istituzionalmente spettante all’Autorità procedente (Consiglio di Stato, Sez. V n. 1559 del 20.04.2016), chiamata, in via ordinaria, in mancanza di sopravvenienze, a concludere il procedimento.
4.5. Vale, poi, soggiungere che, in ragione di quanto appena evidenziato, gli atti che componevano il suddetto procedimento, come emendato dal TAR, risultavano contraddistinti da effetti provvisori ed instabili, poiché soggetti all’approvazione della stazione appaltante ai sensi dell’art. 12, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 (allora vigente), solo dopo la quale poteva essere disposta l’aggiudicazione definitiva (tale approvazione può essere peraltro implicita in quest’ultimo provvedimento).
La procedura di gara si conclude, infatti, solo con l’aggiudicazione definitiva e, pur restando ancora salva la facoltà per la stazione appaltante di manifestare il proprio ripensamento -in questo caso ai sensi dell’art. 11, comma 9, d.lgs. n. 163 del 2006 secondo le forme proprie dell’autotutela decisoria- per contro, prima di questo momento l’amministrazione resta libera di intervenire sugli atti di gara con manifestazioni di volontà di segno opposto a quello precedentemente manifestato senza dovere sottostare a dette forme (cfr. ex multis CdS, Sez. V, n. 107 del 04.01.2019).
In altri termini –in ragione della natura giuridica di atto provvisorio ad effetti instabili, tipica dell'aggiudicazione provvisoria, e della non tutelabilità processuale di quest'ultima ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della l. n. 241 del 1990 (ex multis, Consiglio di Stato sez. V, 09/11/2018, n. 6323; Cons. Stato, V, 20.08.2013, n. 4183)- rientra nel potere discrezionale dell'amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 09/11/2018, n. 6323; Consiglio di Stato sez. V, 04/12/2017, n. 5689; Consiglio di Stato sez. III, 07/07/2017, n. 3359; Cons. Stato, VI, 06.05.2013, n. 2418; in termini, Cons. Stato, IV, 12.01.2016, n. 67).
In siffatte evenienze questa Sezione ha tra l’altro evidenziato che, nelle gare pubbliche, la decisione della Pubblica amministrazione di procedere alla revoca dell'aggiudicazione provvisoria non è da classificare come attività di secondo grado (diversamente dal ritiro dell'aggiudicazione definitiva), atteso che, nei confronti di tale determinazione, l'aggiudicatario provvisorio vanta solo un'aspettativa non qualificata o di mero fatto alla conclusione del procedimento: pertanto, l'assenza di una posizione di affidamento in capo all'aggiudicatario provvisorio, meritevole di tutela qualificata, attenua l'onere motivazionale facente carico alla Pubblica amministrazione, in occasione del ritiro dell'aggiudicazione provvisoria, anche con riferimento alla indicazione dell'interesse pubblico giustificativo dell'atto di ritiro (cfr. Consiglio di Stato , sez. III , 06/03/2018 , n. 1441).
E’ poi evidente che, rimanendo immutata la consistenza della posizione soggettiva con la quale interferisce l’esercizio del potere di ritiro della P.A., alle medesime conclusioni deve giungersi nel caso in cui il potere di revoca abbia ad oggetto l’intera procedura di gara.

APPALTICome è noto, motivazioni di carattere finanziario, ed in particolare sopravvenute difficoltà economiche, possono indubbiamente costituire valide ragioni di revoca degli atti di una gara e ciò viepiù a dirsi rispetto a manifestazioni di ius poenitendi che non impattano su una situazione di affidamento qualificato, quale quello espresso dall’aggiudicazione definitiva, qui non in rilievo.
6. E, poi, di tutta evidenza come non possa fare argine al legittimo esercizio del potere di revoca, che involge esclusivamente l’apprezzamento dei profili di permanenza delle condizioni di fatto e di diritto che reggevano l’atto pubblico e le esigenze di interesse pubblico che lo stesso era chiamato a soddisfare, l’antidoverosità del contegno serbato dalla stazione appaltante nel corso della vicenda amministrativa, rilevante semmai a fini risarcitori sotto il diverso paradigma della responsabilità cd. precontrattuale. E’ infatti evidente che sia ben possibile far derivare conseguenze risarcitorie in danno dell’amministrazione dalla (legittima) adozione di un provvedimento di revoca, così come è possibile che la revoca di un atto amministrativo possa risultare legittima e giustificata anche se sia stata la stessa amministrazione a dare luogo ai presupposti legali della revoca.

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La concorde giurisprudenza amministrativa nega, in mancanza di un’aggiudicazione definitiva, la configurabilità dell’indennizzo ex art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990.
La natura giuridica di atto provvisorio ad effetti instabili, tipica dell'aggiudicazione provvisoria, spiega la non tutelabilità processuale di quest'ultima ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della l. n. 241 del 1990: la sua revoca (ovvero, la sua mancata conferma) non è infatti qualificabile alla stregua di un esercizio del potere di autotutela, tale cioè da richiedere un raffronto tra l'interesse pubblico e quello privato sacrificato, non essendo prospettabile alcun affidamento del destinatario, dal momento che l'aggiudicazione provvisoria non è l'atto conclusivo del procedimento.

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5.2. Orbene, ritiene il Collegio che la determinazione assunta dall’Azienda appellante si dispieghi nell’ottica di una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico che, anche sulla scorta di elementi sopravvenuti, ha fatto emergere un mutato quadro esigenziale in cui assumono prevalenza ragioni di contenimento della spesa.
5.3. Tale correzione dell’agere pubblico, anche in ragione degli elementi in cui impinge, non può dirsi né manifestamente illogico né irragionevole siccome, viceversa, giustificato dal necessario e dinamico adeguamento dell'azione amministrativa alla salvaguardia del pubblico interesse.
5.4. Come è noto, motivazioni di carattere finanziario, ed in particolare sopravvenute difficoltà economiche, possono indubbiamente costituire valide ragioni di revoca degli atti di una gara (cfr. ex multis Sez. III, 29.07.2015, n. 3748; Cons. Stato, sez. III, 26.09.2013, n. 4809) e ciò viepiù a dirsi rispetto a manifestazioni di ius poenitendi che non impattano su una situazione di affidamento qualificato, quale quello espresso dall’aggiudicazione definitiva, qui non in rilievo.
6. E, poi, di tutta evidenza come non possa fare argine al legittimo esercizio del potere di revoca, che involge esclusivamente l’apprezzamento dei profili di permanenza delle condizioni di fatto e di diritto che reggevano l’atto pubblico e le esigenze di interesse pubblico che lo stesso era chiamato a soddisfare, l’antidoverosità del contegno serbato dalla stazione appaltante nel corso della vicenda amministrativa, rilevante semmai a fini risarcitori sotto il diverso paradigma della responsabilità cd. precontrattuale. E’ infatti evidente che sia ben possibile far derivare conseguenze risarcitorie in danno dell’amministrazione dalla (legittima) adozione di un provvedimento di revoca, così come è possibile che la revoca di un atto amministrativo possa risultare legittima e giustificata anche se sia stata la stessa amministrazione a dare luogo ai presupposti legali della revoca (cfr. CdS n. 697 del 28.01.2019).
6.1. Pur tuttavia, la parte appellata non ha qui proposto la distinta domanda di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale con la conseguenza che, ai sensi dell’articolo 101 del c.p.a., ne resta interdetta la cognizione.
6.2. Né in considerazione di quanto fin qui detto è configurabile un indennizzo ex art. 21-quinquies della legge n. 241/1990.
La concorde giurisprudenza amministrativa (ex aliis Consiglio di Stato sez. III, 07/07/2017, n. 3359; Consiglio di Stato, Sez. V n. 1559 del 20.4.2016; Sez. III, 04/09/2013, n. 4433) nega, in mancanza di un’aggiudicazione definitiva, la configurabilità dell’indennizzo ex art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990.
La natura giuridica di atto provvisorio ad effetti instabili, tipica dell'aggiudicazione provvisoria, spiega la non tutelabilità processuale di quest'ultima ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della l. n. 241 del 1990 (ex multis, Cons. Stato, V, 20.08.2013, n. 4183): la sua revoca (ovvero, la sua mancata conferma) non è infatti qualificabile alla stregua di un esercizio del potere di autotutela, tale cioè da richiedere un raffronto tra l'interesse pubblico e quello privato sacrificato, non essendo prospettabile alcun affidamento del destinatario, dal momento che l'aggiudicazione provvisoria non è l'atto conclusivo del procedimento (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 09/11/2018, n. 6323)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.08.2019 n. 5597 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIVietato l'accesso civico generalizzato agli atti di gara. Il Consiglio di Stato cambia parere.
La legge propende per l'esclusione assoluta della disciplina dell'accesso civico generalizzato in riferimento agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici.

Dopo numerose pronunce di opposto tenore, la V Sez. del Consiglio di Stato prende posizione con la sentenza 02.08.2019 n. 5503, le cui conclusioni sono però diametralmente opposte rispetto a quelle formulate a giugno dalla III Sez. con la sentenza 05.06.2019 n. 3780.
Il caso
Il Tar Toscana ha accolto il ricorso avverso il diniego opposto da un Comune all'ostensione della documentazione inerente l'esecuzione di un servizio in quanto, pur applicandosi ai contratti d'appalto l'articolo 53 del Dlgs 50/2016, la materia degli appalti pubblici non sarebbe esclusa dall'ambito di applicazione dell'articolo 5 del Dlgs 33/2013 in quanto il successivo articolo 5-bis elenca in modo tassativo gli ambiti sottratti alla regola generale della trasparenza senza contemplare fra le materie escluse quella degli appalti pubblici.
La quinta sezione del Consiglio di Stato ha espresso un diverso avviso e ha ritenuto fondato il motivo di appello. I giudici hanno premesso che l'accesso ai documenti amministrativi è regolato da tre diversi sistemi, ciascuno caratterizzato da propri presupposti, limiti ed eccezioni: l'accesso documentale, l'accesso civico e l'accesso civico generalizzato.
Ciascun istituto è pari ordinato rispetto all'altro e opera nel proprio ambito, sicché non vi è assorbimento dell'una fattispecie in un'altra; e nemmeno opera il principio dell'abrogazione tacita o implicita a opera della disposizione successiva nel tempo, tale che l'uno sostituisca l'altro. La diretta conseguenza è che nel caso in cui l'opzione dell'istante sia espressa per un determinato modello, resta precluso qualificare diversamente l'istanza stessa al fine di individuare la disciplina applicabile.
La questione
La questione è se l'articolo 53 del codice degli appalti, che tratta dell'accesso agli atti, escluda l'applicabilità dell'accesso civico, posto che la giurisprudenza dei Tar si è sul punto divisa. Per dare risposta, la quinta sezione legge l'articolo 5-bis del Dlgs 33/2013 nella sua interezza e non solo per quanto previsto dal comma 3: i primi due commi si occupano dei limiti legali all'accesso civico generalizzato, che operano nel presupposto della legittimazione soggettiva generalizzata, quindi data a «chiunque», senza dover dimostrare la titolarità di una determinata situazione soggettiva.
Il comma 3 si distingue dai commi 1 e 2 perché fissa, non i limiti relativi all'accesso generalizzato consentito a chiunque, bensì le eccezioni assolute, a fronte delle quali la trasparenza recede, tra le quali i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti. Eccezione che i giudici di Palazzo Spada ritengono riferita a tutte le ipotesi in cui vi sia una disciplina vigente che regoli specificamente il diritto di accesso, in riferimento a determinati ambiti o materie o situazioni.
L'indirizzo della terza sezione
Le conclusioni cui perviene la quinta sezione sono diametralmente opposte a quelle cui è giunta la terza con la sentenza n. 3780/2019, che ha escluso la possibilità di riferire il comma 3 ad intere «materie» sostenendo che, diversamente interpretando, significherebbe escludere l'intera materia relativa ai contratti pubblici da una disciplina, qual è quella dell'accesso civico generalizzato, che mira a garantire il rispetto di un principio fondamentale, il principio di trasparenza ricavabile direttamente dalla Costituzione.
Il Dlgs 97/2016, che ha introdotto l'accesso civico ispirandosi al «Freedom of information act» (Foia) riconoscendolo a ogni cittadino, ha proprio l'obiettivo di favorire forme diffuse di controllo nel perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche, promuovendo così la partecipazione al dibattito pubblico.
La terza sezione evidenzia che una interpretazione conforme ai canoni dell'articolo 97 della Costituzione deve valorizzare l'impatto «orizzontale» dell'accesso civico, non limitabile da norme preesistenti (e non coordinate con il nuovo istituto), ma soltanto dalle prescrizioni «speciali» e interpretabili restrittivamente, che la stessa nuova normativa ha introdotto al suo interno.
Il no all'accesso civico generalizzato della quinta sezione
L'impostazione della terza sezione è dunque di tutt'altra natura rispetto alla quinta, che insiste sul fatto che le eccezioni assolute della disciplina dell'accesso civico generalizzato prescindono dalla riferibilità a determinati settori o materie altrimenti disciplinati dall'ordinamento e che questa modalità di accesso non possa ritenersi prevalente rispetto alle altre.
Insiste poi nel ritenere che il legislatore ben avrebbe potuto inserire l'accesso civico nel codice dei contratti col «correttivo» del 2017; che si tratta di atti formati e depositati nell'ambito di procedimenti interamente assoggettati a una disciplina speciale e a sé stante che peraltro attua specifiche direttive europee di settore, le quali si preoccupano già di assicurare la trasparenza e la pubblicità negli affidamenti pubblici; che il perseguimento di buona parte delle finalità di rilevanza pubblicistica poste a fondamento della disciplina in tema di accesso civico generalizzato è assicurato, nel settore dei contratti pubblici, da altri mezzi, quali i compiti di vigilanza e controllo attribuiti all'Anac o l'accesso civico «semplice» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.09.2019).

APPALTIEquivalenza con limiti. NON APRE A OFFERTE INAPPROPRIATE.
Il principio di equivalenza contenuto nelle specifiche tecniche non può essere impiegato per ammettere offerte inappropriate.

Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 25.07.2019 n. 5258 in relazione allo spettro applicativo del principio di equivalenza.
I giudici di Palazzo Spada riprendono i contenuti della giurisprudenza che in passato si era occupata della disciplina delle specifiche tecniche contenute nei capitolati d'appalto riaffermando che nell'ambito dei paesi appartenenti all'Unione Europea, come è evidente dai commi 4, 5 e 6, dell'articolo 68 del dlgs n. 163 del 2006 che recepì le direttive Ue di allora, oggi corrispondente all'art. 68 del dlgs n. 50 del 2016, «il presidio dell'equivalenza è diretto ad evitare che le norme obbligatorie, le omologazioni nazionali e le specifiche tecniche potessero essere artatamente utilizzate per operare indebite espulsioni di concorrenti, con il pretesto di una non perfetta corrispondenza delle soluzioni tecniche richieste».
Però, precisano i giudici, il principio non può assolutamente essere invocato per ammettere offerte tecnicamente inappropriate. Il principio di equivalenza delle specifiche tecniche è infatti diretto ad assicurare che la valutazione della congruità tecnica non si risolva in una mera verifica formalistica, ma consista nella conformità effettiva e sostanziale dell'offerta alle specifiche tecniche inserite nella lex specialis.
Con riguardo al caso sottoposto all'esame dei giudici, si precisa quindi che il principio «non può essere postumamente invocato nel differente caso che l'offerta comprenda una soluzione la quale, sul piano oggettivo funzionale e strutturale, non rispetta affatto le caratteristiche tecniche obbligatorie, previste nel capitolato di appalto per i beni oggetto di fornitura».
Nel caso di specie la previsione del peso del prodotto, lungi dal configurare uno standard tecnico-normativo dettagliato passibile d'equivalenza, valeva a definire in termini generali l'oggetto della fornitura. Il richiamo al principio di equivalenza in un siffatto caso avrebbe avuto l'effetto di distorcere l'oggetto del contratto rendendo sostanzialmente indeterminato l'oggetto dell'appalto (articolo ItaliaOggi del 06.09.2019).
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SENTENZA
2.2.2. Il principio di equivalenza ha, per consolidata giurisprudenza, lo scopo di evitare che, attraverso la previsione di specifiche tecniche eccessivamente dettagliate -in alcuni casi addirittura “nominative”, con indicazione ad esempio di un singolo brevetto, marchio o provenienza- risulti irragionevolmente limitato il confronto competitivo fra gli operatori economici, e in particolare vengano precluse offerte aventi oggetto sostanzialmente corrispondente a quello richiesto e tuttavia formalmente privo della specifica prescritta.
Si afferma in proposito, secondo condivisibile orientamento, che il principio “trova applicazione nel senso che qualora siano inserite nella lex di gara specifiche tecniche a tal punto dettagliate da poter individuare un dato prodotto in maniera assolutamente precisa (con una fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare, con riferimento a un marchio, a un brevetto) (…), per favorire la massima partecipazione, deve essere data la possibilità della proposta che ottemperi in maniera equivalente agli stessi requisiti” (Cons. Stato, III, 11.07.2016, n. 3029).
In tale contesto “il riferimento negli atti di gara a specifiche certificazioni tecniche non consente alla stazione appaltante di escludere un concorrente respingendo un’offerta se questa possiede una certificazione equivalente e se il concorrente dimostra che il prodotto offerto ha caratteristiche tecniche perfettamente corrispondenti allo specifico standard richiesto” (Cons. Stato, III, 02.03.2018, n. 1316; 11.09.2017, n. 4282).
In ragione di ciò, proprio alla luce della ratio sottesa al principio di equivalenza, presupposto essenziale perché detto principio possa essere richiamato e trovare applicazione è che, sul piano qualitativo, si sia in presenza di una specifica in senso propriamente tecnico, e cioè di uno standard -espresso in termini di certificazione, omologazione, attestazione, o in altro modo- capace di individuare e sintetizzare alcune caratteristiche proprie del bene o del servizio, caratteristiche che possono tuttavia essere possedute anche da altro bene o servizio pur formalmente privo della specifica indicata.
D’altra parte il principio trova ragione di applicazione in presenza di specifiche tecniche aventi un grado di dettaglio potenzialmente escludente, a fronte cioè di uno standard tecnico-normativo capace d’impedire la partecipazione alla gara proprio perché - atteso il livello della sua specificità - presenta un portato selettivo: al fine d’impedire che tale selezione si risolva in termini irragionevolmente formalistici, finendo con il produrre un effetto anticompetitivo, la previsione di un siffatto standard deve essere affiancata dalla necessaria clausola d’equivalenza.
2.2.3. Quanto sopra vale a escludere che nel caso di specie detto principio sia invocabile in relazione all’elemento controverso.
Quest’ultimo consiste infatti nella mera “grammatura”, e cioè nel peso richiesto per il prodotto: ciò conduce a respingere l’assunto che, sul piano qualitativo, si sia in presenza di una specifica riconducibile a standard tecnici -del tipo delle certificazioni, attestazioni, omologazioni e similari- soggetto all’applicazione del principio d’equivalenza.
D’altra parte la specifica, consistente esclusivamente nell’indicazione della grammatura prescritta, non presenta una grado di dettaglio di per sé potenzialmente escludente, risolvendosi nella semplice indicazione del peso richiesto dall’amministrazione per il prodotto oggetto della fornitura.
Per tali ragioni l’indicazione di tale requisito, più che configurare uno standard tecnico-normativo di dettaglio, vale a definire in termini generali, per il tramite di una grandezza comune (i.e., il peso) la tipologia categoriale del bene, descrivendo cioè l’oggetto della fornitura.
In tale contesto, perciò, non assume pertinente rilevanza il principio di equivalenza delle specifiche tecniche, essendosi in presenza della mera definizione dell’oggetto della convenzione, in termini generali, attraverso l’indicazione del peso del prodotto.
In relazione allo spettro applicativo del principio di equivalenza la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, che il Collegio condivide, ha posto in risalto che “nell’ambito dei paesi appartenenti all’Unione Europea, come è evidente dai commi 4, 5 e 6, del cit. articolo [i.e., art. 68 d.lgs. n. 163 del 2006, oggi corrispondente all’art. 68 d.lgs. n. 50 del 2016], il predetto presidio [i.e., dell’equivalenza] è diretto ad evitare che le norme obbligatorie, le omologazioni nazionali e le specifiche tecniche potessero essere artatamente utilizzate per operare indebite espulsioni di concorrenti, con il pretesto di una non perfetta corrispondenza delle soluzioni tecniche richieste. Ma il principio non può assolutamente essere invocato per ammettere offerte tecnicamente inappropriate. Il principio di equivalenza delle specifiche tecniche è infatti diretto ad assicurare che la valutazione della congruità tecnica non si risolva in una verifica formalistica, ma nella conformità sostanziale dell’offerta delle specifiche tecniche inserite nella lex specialis (cfr. Consiglio di Stato sez. III 02.03.2018 n. 1316) (…). Ma il principio non può essere postumamente invocato nel differente caso che l’offerta comprenda una soluzione la quale, sul piano oggettivo funzionale e strutturale, non rispetta affatto le caratteristiche tecniche obbligatorie, previste nel capitolato di appalto per i beni oggetto di fornitura” (Cons. Stato, III, 28.09.2018, n. 5568).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001 definisce gli interventi di ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”, cioè quelli che “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti”.
Laddove quindi viene realizzato un quid novi, conseguente alla modifica della volumetria o dei prospetti, le opere possono essere assentite solo con il permesso di costruire, a differenza degli interventi di ristrutturazione edilizia c.d. “leggera” o degli interventi c.d. minori, la cui esecuzione è subordinata a SCIA.
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Le opere che comportano una variazione dei prospetti integrano un essenziale presupposto per l’ascrivibilità dell’intervento alla fattispecie di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001.
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2.1 I primi due motivi vertono sul fuoco della questione, cioè la qualificazione dell’intervento realizzato sul “rustico”.
Sostiene il ricorrente che si tratterebbe di ristrutturazione c.d. “leggera”, in quanto è stata modificata solo la sagoma, ma non i prospetti, ovvero il profilo estetico-architettonico dell’edificio.
Secondo la tesi dell’Ufficio tecnico comunale le opere hanno comportato una modifica dei prospetti e la variazione della sagoma edificata in senso orizzontale e verticale.
La tesi del ricorrente non può essere condivisa.
L’art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001 definisce gli interventi di ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”, cioè quelli che “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti”.
Laddove quindi viene realizzato un quid novi, conseguente alla modifica della volumetria o dei prospetti, le opere possono essere assentite solo con il permesso di costruire, a differenza degli interventi di ristrutturazione edilizia c.d. “leggera” o degli interventi c.d. minori, la cui esecuzione è subordinata a SCIA.
Nel caso in esame dal raffronto grafico tra l’edificio preesistente e quello realizzato si evince che il risultato finale è un organismo diverso rispetto al precedente, con diversa sagoma e prospetti. In effetti il piano terra e il primo piano sono differenti per impianto e forma, e soprattutto –aspetto decisivo– il profilo estetico-architettonico dell’edificio risulta modificato, come si evince dalla tavole del prospetto Est (cfr. doc 2 del Comune). Contrariamente da quanto affermato dal ricorrente, le opere hanno comportato una variazione dei prospetti, così integrando un essenziale presupposto per l’ascrivibilità dell’intervento alla fattispecie di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001.
Non viene contestato il dato della variazione della volumetria, seppur in diminuzione, in quanto gli spazi sono stati collocati in modo diverso e sono ridotti. Tuttavia la sola variazione della volumetria già di per sé riconduce l’intervento alla categoria della ristrutturazione c.d. “pesante”, stante il testo della norma che parla letteralmente di modifica della volumetria complessiva, senza dare rilievo alla distinzione tra aumento o diminuzione della stessa, in quanto in entrambi i casi l’organismo edilizio viene modificato nella sua consistenza materiale, snaturandone le caratteristiche dell'edificio originario.
I due motivi vanno quindi respinti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.07.2019 n. 1694 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - COMPETENZE GESTIONALISulle esclusioni dalla gara decide il dirigente e non la giunta.
L'adozione del provvedimento di esclusione dal procedimento di gara compete al dirigente. Per gli enti locali, questa prerogativa trova una puntuale disciplina nell'articolo 107 del decreto legislativo 267/2000; agli organi politici compete, invece, una mera competenza residuale, di indirizzo e controllo, ma non su atti gestionali.

Ciò è quanto precisa il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 16.07.2019 n. 4997.
La vicenda
Nelle procedure d'appalto (come di concorso) gli atti gestionali sono di esclusiva competenza della dirigenza e non dell'organo politico. La giunta comunale (articolo 48 Dl 267/2000) ha una competenza di indirizzo e controllo e quindi su atti che si situano in un ambito differente rispetto a quello della gestione.
Il Consiglio di Stato ha respinto l'appello avverso il provvedimento di esclusione da una gara (il Collegio non ha ritenuto persuasivi neppure gli altri motivi d'appello). Il ricorrente riteneva che la competenza sulle esclusioni rientrasse tra le prerogative giuntali.
La sentenza, al di là della precisazione ovvia, sotto il profilo pratico/operativo ha riproposto la questione non definitivamente chiarita in tema di poteri decisori, e quindi di competenza sull'adozione dei provvedimenti «interni», del procedimento d'appalto, a valenza esterna. Si pensi, per tutti, ai provvedimenti di esclusione post verifica formale dei requisiti o post verifica dell'anomalia dell'offerta nel caso in cui la procedura sia caratterizzata dalla presenza di un responsabile unico del procedimento non dirigente.
Dal disegno del codice dei contratti e secondo le indicazioni delle linee guida dell'Anac (n. 3 espressamente dedicate al Rup e ai bandi tipo) emerge la centralità del Rup (a prescindere dalla categoria di appartenenza, infatti, questo può essere anche un funzionario non necessariamente un dirigente) con attribuzione di poteri decisori e quindi anche di una competenza ad adottare atti «intermedi» (come le esclusioni adottate in corso di procedimento) ma direttamente lesivi e quindi «a valenza esterna».
Il codice dei contratti, in sostanza, avrebbe creato un modello operativo diverso da quello declinato, in generale, per il responsabile del procedimento previsto dalla legge 241/1990. In quest'ultimo caso, qualora il responsabile del procedimento non coincida con il dirigente/responsabile del servizio, deve limitarsi a predisporre la proposta di provvedimento per il soggetto competente (articolo 6, comma 1, lett. e), della legge 241/1990).
Nel caso del Rup funzionario, e quindi tecnicamente di un soggetto che non è legittimato ad adottare atti a valenza esterna, questi poteri decisori sembrerebbero confermati, almeno quale competenza residuale ovvero qualora gli atti di gara non dispongano diversamente. L'aspetto pratico/operativo, evidentemente, non è di poco conto e nelle gestioni dei procedimenti di gara si assiste, oggettivamente, a comportamenti diversi.
Considerazioni
Se l'affermazione del giudice di Palazzo Spada dovesse assumersi come assoluta, evidentemente, negli enti locali non vi sarà spazio per poteri decisori del Rup nella fase endoprocedimentale (del procedimento contrattuale). Questo aspetto dovrebbe trovare un esplicito chiarimento. E in questo senso, il prossimo regolamento attuativo, a cui è stata assegnata la prossima disciplina delle competenze del Rup, dovrebbe chiarire necessariamente quale sia l'ambito concreto delle azioni/provvedimento che il responsabile unico può compiere/adottare.
Sono questioni, come si può facilmente intuire, estremamente delicate che non possono che essere risolte per norma. In questo senso va registrata positivamente la scelta della legge regionale della Sardegna sugli appalti 8/2018 con la quale è stato chiarito che il responsabile unico del procedimento (nella legge denominato «responsabile di progetto») non può adottare atti a valenza esterna se non è dirigente. Riabilitando, in sostanza, l'applicazione delle norme della legge 241/1990 e dell'articolo 107 del decreto legislativo 267/2000 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.07.2019).

APPALTIInapplicabile il soccorso istruttorio se manca la firma su un elemento dell'offerta tecnica.
La sottoscrizione personale dell'offerta tecnica e degli elementi che la compongono assume «valenza di assunzione di paternità e manifestazione di volontà di prendere parte alla specifica procedura» (oltre che a formalizzare i diversi impegni assunti in caso di aggiudicazione) e non può essere suscettibile di soccorso istruttorio ai sensi dell'articolo 83, comma 9, del Dlgs n. 50/2016, che espressamente estromette, dal suo campo di applicazione, le offerte tecniche.

È quanto ribadisce il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la sentenza 04.07.2019 n. 8849.
Il fatto Per quanto qui di interesse, la ricorrente lamentava l'illegittimità, sotto diversi profili, dell'aggiudicazione di una procedura ristretta per l'affidamento di un servizio. In particolare, secondo parte ricorrente, tale illegittimità derivava, ex multis, dal fatto che la stazione appaltante aveva considerato con riferimento all'offerta tecnica dell'aggiudicataria il curriculum del tecnico responsabile della manutenzione, nonostante lo stesso non fosse stato firmato.
La decisione Il Tar, nell'accogliere il ricorso, ha preliminarmente specificato come «l'omissione della firma dei partecipanti alla gara in una riunione temporanea costituenda su un elemento dell'offerta tecnica» proprio in quanto incidente sulla certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso non può essere considerata «mera irregolarità formale sanabile con il soccorso istruttorio ai sensi dell'articolo 83, comma 9, del Dlgs n. 50/2016, essendo ciò anche coerente con il principio di par condicio tra i concorrenti, e senza che sia necessaria ai fini dell'esclusione una espressa previsione della legge di gara».
Il Giudice di prime cure -rigettando le difese dell'aggiudicataria, la quale sosteneva che «la Commissione di gara avrebbe dovuto qualificare la mancata sottoscrizione del c.v. del Responsabile della manutenzione come una irregolarità certamente sanabile [], con conseguente invito all'odierna controinteressata a provvedere alla regolarizzazione»- ha poi evidenziato come l'esclusione del partecipante alla gara, in tali ipotesi, non si pone neanche in contrasto col principio di tassatività delle clausole di esclusione dalle procedure previsto dall'articolo 83, comma 8, del Dlgs n. 50/2016, «il quale si riferisce ai criteri di selezione dei concorrenti e non riguarda le modalità di formulazione delle offerte, ivi comprese quelle tecniche», che sono espressamente sottratte alla sfera di applicazione del soccorso istruttorio.
In buona sostanza, il Tar, richiamando costante giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia, ha specificato come la certezza della provenienza dell'offerta è assicurata proprio dalla sottoscrizione del documento contenente la manifestazione di volontà, con cui l'impresa partecipante «fa propria la dichiarazione contenuta nel documento, vincolandosi ad essa ed assumendone le responsabilità; il difetto di sottoscrizione invalida la manifestazione contenuta nell'offerta, e legittima l'esclusione dalla gara pur in assenza di espressa previsione della lex specialis» (Consiglio di Stato, Sezione III, 25.07.2018 n. 4546; Sezione V, 27.11.2017 n. 5552).
I Giudici amministrativi, infine, hanno sottolineato come con riferimento alle procedure comparative e di massa, caratterizzate dalla presenza di un numero ragguardevole di partecipanti il soccorso istruttorio non possa essere invocato, quale parametro di legittimità dell'azione amministrativa, «tutte le volte in cui si configurino in capo al singolo partecipante obblighi di correttezza -specificati attraverso il richiamo alla clausola generale della buona fede, della solidarietà e dell'autoresponsabilità- rivenienti il fondamento sostanziale negli articoli 2 e 97 Cost., che impongono che quest'ultimo sia chiamato ad assolvere oneri minimi di cooperazione», tra cui proprio il dovere di fornire informazioni non reticenti e complete, di compilare moduli e di presentare documenti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.07.2019).
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SENTENZA
Questa Sezione ha già avuto modo di precisare che
l’omissione della firma dei partecipanti alla gara in una riunione temporanea costituenda su un elemento dell’offerta tecnica, proprio in quanto incidente sulla certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso, non può essere considerata mera irregolarità formale sanabile con il soccorso istruttorio ai sensi dell’art. 83 comma 9 del d.lgs. n. 50/2016, essendo ciò anche coerente con il principio di par condicio tra i concorrenti, e senza che sia necessaria ai fini dell’esclusione una espressa previsione della legge di gara (cfr. sentenza 07.06.2019 n. 7470, e la giurisprudenza ivi citata).
Tale ultima precisazione è legata alla constatazione che
l’esclusione del partecipante alla gara, in tali ipotesi, non si pone neanche in contrasto col principio di tassatività delle clausole di esclusione dalle procedure previsto dall’articolo 83, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016, il quale si riferisce ai criteri di selezione dei concorrenti e non riguarda le modalità di formulazione delle offerte, ivi comprese quelle tecniche, che sono espressamente sottratte alla sfera di applicazione del soccorso istruttorio (Cons. St., sez. III, 25.07.2018 n. 4546; vedi anche Id., sez. V, 27/11/2017 n. 5552: “la certezza della provenienza dell'offerta è assicurata dalla sottoscrizione del documento contenente la manifestazione di volontà, con cui l'impresa partecipante «fa propria la dichiarazione contenuta nel documento», vincolandosi ad essa ed assumendone le responsabilità; il difetto di sottoscrizione invalida la manifestazione contenuta nell'offerta, e legittima l'esclusione dalla gara pur in assenza di espressa previsione della lex specialis”).
D’altra parte, non può non condividersi la giurisprudenza che precisa che “
con riferimento alle procedure comparative e di massa, caratterizzate dalla presenza di un numero ragguardevole di partecipanti, il soccorso istruttorio non può essere invocato, quale parametro di legittimità dell'azione amministrativa, tutte le volte in cui si configurino in capo al singolo partecipante obblighi di correttezza -specificati attraverso il richiamo alla clausola generale della buona fede, della solidarietà e dell'autoresponsabilità- rivenienti il fondamento sostanziale negli artt. 2 e 97 Cost., che impongono che quest'ultimo sia chiamato ad assolvere oneri minimi di cooperazione, quali il dovere di fornire informazioni non reticenti e complete, di compilare moduli, di presentare documenti” (cfr. Cons. St., sez. III, 04/01/2019 n. 96).

APPALTILe fasi del procedimento possono essere affidate a più figure ma la responsabilità unitaria resta al Rup.
Le stazioni appaltanti possono "scindere" il procedimento contrattuale assegnando fasi della procedura a specifici sub-responsabili di procedimento a condizione che la responsabilità del procedimento rimanga, in modo unitario, in capo al Rup. Senza duplicare, pertanto, la figura del responsabile unico del procedimento.
In questo senso si esprime la sentenza 09.07.2019 n. 166 della Corte Costituzionale sulle norme della legge della Regione Sardegna 8/2018 (Nuove norme in materia di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture).
L'unicità del Rup
La sentenza della Consulta che ha affrontato la censura di incostituzionalità di alcune norme della legge della regione Sardegna contiene spunti di rilevante interesse pratico.
In primo luogo, netta l'affermazione (in relazione al comma 2 dell'articolo 34) secondo cui nella legge regionale non si assiste allo sdoppiamento della figura del Rup (nella legge individuato come «responsabile di progetto») ma, piuttosto a una «scissione/scomposizione» delle funzioni. Il riferimento è alla prevista facoltà delle stazioni appaltanti di individuare dei responsabili per (o di) fasi del procedimento e, precisamente, un «un responsabile per le fasi di programmazione, progettazione ed esecuzione e un altro responsabile per la fase di affidamento» (articolo 34, comma 2, della Lr 8/2018).
Nella sentenza viene richiamato il precedente della Corte -sentenza n. 43 del 201- espresso in relazione a una simile disposizione di una legge della Regione Umbria, censurata dallo Stato per gli stessi profili. Nel caso di specie la Corte osservava che nell'ambito del procedimento contrattuale le stazioni appaltanti «possono individuare sub-procedimenti senza che ciò incida sulla unicità del centro di responsabilità».
In sostanza, anche in relazione al procedimento amministrativo che conduce (in via potenziale) all'assegnazione dell'appalto, è possibile attuare una distinzione tra le diverse incombenze tutte riconducibili al Rup assegnando le stesse a sub-responsabili di procedimento.
La condizione essenziale è, e rimane, la riconducibilità a un unico centro della responsabiltà complessiva. Momento di sintesi che si deve realizzare nel Rup. Con riferimento alla legge regionale della Sardegna, «l'unicità del centro di responsabilità procedimentale è garantita dal "responsabile di progetto", il quale coordina l'azione dei responsabili per fasi, se nominati (…), anche con funzione di supervisione e controllo».
Quindi, conclude la sentenza, «la disposizione impugnata non è, dunque, in contrasto con il principio di responsabilità unica, posto dall'invocato art. 31, comma 1, del nuovo codice dei contratti a tutela di unitarie esigenze di trasparenza e funzionalità della procedura di gara, preordinata alla corretta formazione della volontà contrattuale dell'amministrazione, e di accentramento del regime della responsabilità dei funzionari».
Le norme abrogate
Diverso epilogo deve essere registrato, invece, in relazione alle altre 3 disposizioni impugnate che la Corte ritiene incostituzionali.
È incostituzionale il comma 1 dell'articolo 37 della legge regionale (e in via consequenziale i commi 2, 3, 4 e 8) diretto a introdurre nella regione un sistema "parallelo" a quello dell'Anac sulla nomina dei componenti delle commissioni giudicatrici (da uno specifico albo regionale).
Nella sentenza si puntualizza –con una affermazione che risulta quasi sconfessata dalla recente sospensione apportata con la legge 55/2019 al sistema di nomina dall'albo)- che «la sottrazione della scelta dei commissari di gara alle stazioni appaltanti rappresenta una radicale innovazione del nuovo codice dei contratti chiaramente ispirata a finalità di trasparenza, imparzialità, tutela della concorrenza e prevenzione di reati» e che pur incidendo sull'organizzazione amministrativa, deve però «essere ricondotta alle competenze esclusive statali della tutela della concorrenza e dell'ordine pubblico». Quindi si tratta di un ambito sottratto a prerogative di legislazione regionale.
Analoga conclusione per i commi 1 e 3 dell'articolo 39 della legge in cui è prevista la possibilità della giunta isolana di introdurre linee guida e codice regionale di buone pratiche. Queste disposizioni, risultando estranee all'ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione e riconducibili alla materia statutaria dei lavori pubblici regionali, vanno censurate in quanto contrastano con la disposizione del codice dei contratti pubblici «che, nell'attribuire all'Anac la regolazione dei medesimi aspetti della procedura pubblica e della fase negoziale ed esecutiva» costituisce «esplicazione della tutela della concorrenza e dell'ordinamento civile». Effettivamente, anche in questo caso si tratta di affermazione in controtendenza rispetto all'impoverimento delle prerogative dell'Anac intervenuto a opera della legge 55/2019.
Norma che viene abrogata è anche quella diretta a introdurre un "autonomo" sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti (articolo 45 della legge regionale). Secondo i giudici, la disposizione «introducendo un non meglio precisato sistema di qualificazione affidato alla Giunta regionale, parallelo e distinto rispetto a quello nazionale, pur incidendo sull'organizzazione amministrativa, deve essere ricondotta alle competenze esclusive statali della tutela della concorrenza e dell'ordine pubblico» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.07.2019).

EDILIZIA PRIVATAIllegittimo il provvedimento negativo implicito adottato senza preavviso.
La risposta negativa all'istanza di un privato non può essere implicitamente contenuta in un altro provvedimento del Comune che non preavvisi dell’intendimento maturato sulla reiezione.

È quanto afferma il TAR Liguria, Sez. I, con la sentenza 03.07.2019 n. 585.
Il caso
Un Comune, con provvedimento, ordinava l’immediata demolizione di strutture destinate ai bagnanti estivi in proprietà di una società in nome collettivo (Snc) poiché questa aveva sempre disatteso innumerevoli provvedimenti che ne richiedevano la rimozione e ricollocazione durante alcune stagioni annuali. Tuttavia, la società, con apposita istanza, aveva chiesto l’apertura dello stabilimento in questione per tutto l’anno solare, volendo creare un centro elioterapico.
L’amministrazione, lasciando priva di riscontro l’istanza della società, rispondeva implicitamente con esito negativo, imponendo la demolizione delle strutture, al fine di porre rimedio ai ripetuti abusi edilizi, come motivato in provvedimento poiché, nel bilanciamento degli interessi contrapposti, considerava prevalente l’ovviare alla protratta situazione d’illegittimità in cui versava la Snc, piuttosto che dar corso al procedimento aperto tramite istanza della stessa.
La società adiva quindi il Tribunale amministrativo per la Liguria lamentando, con vari motivi di ricorso, l’illegittimità del provvedimento demolitorio, adottato in assenza di un riscontro dell’istanza presentata.
La decisione
Il Giudice di prime cure, nell’accogliere il ricorso, ha evidenziato che «la Pa avrebbe dovuto quanto meno preavvisare la parte dell’intendimento maturato sulla reiezione dell’istanza» e ancora, continua il Tar, «a diversa conclusione non può indurre la possibilità di scriminare la violazione procedimentale ai sensi dell’articolo 21-octies della legge 241/1990, posto che non si tratta di un’attività vincolata, essendo infatti discrezionale la potestà comunale di valutare la possibilità di assentire l’utilizzo elioterapico dell’azienda, così come negarla».
Con il ricorso presentato, il Tribunale adito è stato anche chiamato a pronunciarsi circa il vizio di incompetenza del quale, secondo parte ricorrente, sarebbe affetto il provvedimento impugnato. A dire della società, infatti, il provvedimento, essendo stato firmato dal vice-prefetto in sostituzione degli organi politici (Sindaco, Giunta comunale e Consiglio comunale), violerebbe l’articolo 107 del Dlgs 267 del 2000 che, per quel che concerne l’attività di gestione degli affari del Comune, attribuirebbe la competenza di tali provvedimenti alla Dirigenza comunale.
Il Collegio, nell’accogliere anche tale motivo di ricorso, ha ricordato che «la giurisprudenza non dubita che un’ingiunzione a demolire derivi dall’esercizio di un potere gestorio nel quale non sono individuabili tratti politici» di tal che il Sindaco (e per esso il vice-Prefetto) non aveva alcun titolo a sottoscrivere il provvedimento.
Il provvedimento amministrativo implicito
Con l’espressione ‘atto implicito’ s’intende l’atto che risulta da un altro atto che lo presuppone o da un comportamento dell’autorità. Diversamente dall’atto tacito, nel quale vi è una totale assenza di esternazione della manifestazione volitiva dell’Amministrazione (silenzio-assenso), l’atto implicito è sorretto da una manifestazione di volontà, sia pur desumibile da altri atti o comportamenti.
La figura del provvedimento amministrativo implicito nasce dall’esigenza di individuare un provvedimento impugnabile anche ove sia assente un provvedimento esplicito.
Il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza 5758/2002 e, ancor più recentemente con sentenza 589 del 24.01.2019, ha chiarito, in via definitiva, quando è ammissibile un provvedimento amministrativo implicito e quali sono i requisiti necessari.
Nello specifico:
   «a) che debba pregiudizialmente esistere, a monte, una manifestazione espressa di volontà (affidata ad un atto amministrativo formale o anche ad un comportamento a sua volta concludente), da cui possa desumersi l’atto implicito: e ciò in quanto la rilevanza relazionale dei comportamenti amministrativi deve essere apprezzata, in termini necessariamente contestualizzati, nel complessivo quadro dell’azione amministrativa;
   b) che, per un verso, la manifestazione di volontà a monte provenga da un organo amministrativo competente e nell’esercizio delle sue attribuzioni e, per altro verso, nella stessa sfera di competenza rientri l’atto implicito a valle (non palesandosi, in difetto, lecita la valorizzazione del nesso di presupposizione);
   c) che non sia normativamente imposto il rispetto di una forma solenne, dovendo operare il generale principio di libertà delle forme (arg. ex art. 21-septies cit.);
   d) che dal comportamento deve desumersi in modo non equivoco la volontà provvedimentale, dovendo esistere un collegamento esclusivo e bilaterale tra atto implicito e atto presupponente, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile di quello espresso (non potendo attivarsi, in difetto, il meccanismo inferenziale di necessaria implicazione);
   e) che, in ogni caso, emergano ex factis (avuto riguardo al concreto andamento dell’iter procedimentale e alle effettiva acquisizioni istruttorie: si veda Cons. Stato, sez. V, n. 1034/2018 cit.) gli elementi necessari alla ricostruzione del potere esercitato
» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.07.2019).

APPALTI: Mancata firma digitale dell'offerta nelle procedure on-line, scontro tra i TAR sulla regolarizzazione.
La carenza della firma digitale dell'offerta economica nelle procedure telematiche può essere regolarizzata?

È questa la problematica affrontata in due sentenze che giungono a soluzioni diametralmente opposte. Il TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 02.07.2019 n. 8605 ritiene che l'offerta debba essere esclusa, il TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 17.06.2019 n. 539 propende per la possibilità di ammettere il soccorso istruttorio integrativo data la sicura riconducibilità dell'offerta all'appaltatore.
La querelle sulla sottoscrizione delle offerte
Le due sentenze hanno affrontato, pressoché, la stessa identica problematica giungendo a soluzioni opposte. Secondo la sentenza del giudice capitolino la presenza della marcatura temporale e non anche della sottoscrizione con firma digitale rende l'offerta economica "anonima" rendendo impossibile –salvo ammettere la violazione del par condicio tra i competitori- ogni forma di soccorso istruttorio integrativo (articolo 83, comma 9, del codice dei contratti).
Per il Tar Lazio, mentre la marcatura temporale «è un servizio specificamente volto ad associare data e ora certe e legalmente valide ad un documento informatico, consentendo, quindi, di attribuirgli una validazione temporale opponibile a terzi» (Dlgs 82/2005), e può «essere utilizzato anche su files non firmati digitalmente, parimenti garantendone una collocazione temporale certa e legalmente valida», la firma digitale rappresenterebbe l'unico "strumento" idoneo a esprimere e «rendere manifesta (…) la provenienza e l’integrità di un documento informatico» (articolo 1, comma 1, lettera s) del Dlgs 82/2005).
Per effetto di quanto, la mancata apposizione della firma digitale sul documento informatico relativo all'offerta economica «bensì della sola marcatura temporale, consente di attribuire certezza legale solo quanto a data e ora della relativa formazione, ma non anche a proposito della relativa provenienza ed integrità».
La decisione opposta
Di diverso avviso il Tar Cagliari con una lettura maggiormente condivisibile. Secondo le ragioni della ricorrente -che sono state ritenute persuasive dal giudice isolano- il «difetto di firma digitale, nelle gare gestite con procedure telematiche, non può integrare una legittima causa di esclusione dalla gara».
In un procedimento telematico, infatti, la carenza non determina (come potrebbe accadere nel procedimento cartaceo tradizionale) nessun dubbio sulla provenienza dell'offerta e sul conseguente impegno/manifestazione di volontà che la sottoscrizione esprime.
Nel caso di specie, la gestione telematica richiedeva una pre-fase di accreditamento degli operatori a un sistema informatico con rilascio di credenziali personali.
Il giudice, in questo caso, ha condiviso le riflessioni espresse ribadendo che, pur vero che le domande di partecipazione o le offerte, prive di sottoscrizione, devono normalmente essere considerate inammissibili e devono normalmente essere escluse dalla procedura di gara, nel caso di procedure telematiche l'intensità della carenza deve essere valutata, però, dal Rup con minor rigore.
Nella sentenza, infatti, si rileva che la giurisprudenza del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi, cui ha aderito anche l'Anac «non sempre è arrivata alle rigorose conclusioni (…), ritenendo di dover escludere l'irrilevanza giuridica, e quindi l'inammissibilità, di offerte prive di sottoscrizione (o con la sottoscrizione solo di alcuni dei soggetti dell'atto) quando, in base alle circostanze concrete, l'offerta risultava con assoluta certezza riconducibile e imputabile a un determinato soggetto o operatore economico» (in tal senso il Consiglio di Stato, sezione V, 21.11.2016 n. 4881).
In questi casi, venendo meno il pericolo dell'anonimato (che priverebbe di ogni garanzia la stazione appaltante in ordine anche alla successive fasi dell'appalto), l'interesse dell'amministrazione «a non escludere un concorrente che è identificabile con assoluta certezza sulla base di altri elementi comunque acquisiti alla procedura» diventa prevalente. Da qui, l'esigenza che il Rup avvii il soccorso istruttorio integrativo (articolo 83, comma 9, del codice dei contratti) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.07.2019).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIConcessione di beni e servizi, il Consiglio di Stato individua i parametri che fanno la differenza.
L'assenza di obblighi tariffari e di gestione vincolanti per il privato nonché di effettivi poteri di indirizzo e controllo dell'ente locale sulla gestione sono elementi che consentono di qualificare la concessione di un teatro come rapporto che ha a oggetto un bene e non un servizio.

Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 28.06.2019 n. 4463 ha individuato in modo analitico gli elementi che distinguono le concessioni di beni da quelle di servizi, analizzando il caso di una struttura teatrale affidata da un Comune a un operatore privato, a seguito di una gara.
Il caso
L'amministrazione aveva definito specifiche linee di indirizzo il cui obiettivo era quello di selezionare un concessionario qualificato per garantire un uso del bene rispettoso della sua funzione. Nelle linee di indirizzo e negli atti attuativi, il Comune non aveva definito né obblighi tariffari né di gestione vincolanti per il privato, non stabilendo nemmeno poteri di indirizzo, vigilanza e intervento sul servizio dell'ente concedente: in questo quadro, quindi, non erano stati configurati quegli specifici elementi che concorrono a caratterizzare la concessione di un pubblico servizio.
La decisione
A favore della qualificazione del percorso come concessione di un bene i magistrati amministrativi hanno rilevato anche la scelta dell'amministrazione di garantire al futuro concessionario l'esercizio in totale autonomia delle attività teatrali nella struttura, connotando in questo modo una previsione del tutto incompatibile con la determinazione di concedere un servizio pubblico (dovendo invece in questo caso regolare la prestazione in un servizio qualitativamente adeguato rispetto a ben individuate esigenze degli utenti).
L'utilizzo, nella gara per la concessione, del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, è stato valutato dai giudici amministrativi come coerente con l'obiettivo di una corretta utilizzazione di un bene avente una specifica funzione e con l'evidente scopo di non vanificare l'intervento di restauro sostenuto dall'amministrazione e la conseguente decisione di concederlo in uso, non adeguatamente rappresentati da un criterio fondato sul solo corrispettivo economico.
La caratterizzazione dell'attività
Anche la richiesta di una proposta artistica e gestionale formulata in termini largamente programmatici, mediante l'identificazione di obiettivi ottimali di carattere tendenziale e «di vetrina», non si configura come obbligo di servizio, non essendo correlabile a parametri di valutazione suscettibili di essere oggettivamente misurati.
Il Consiglio di Stato ha chiarito, infatti, che affinché siano definiti dei veri e propri obblighi di servizio, gli atti di gara (il capitolato in particolare) devono descrivere gli impegni connotandoli con un contenuto concreto e puntuale, di cui può essere valutato l'assolvimento da parte dell'obbligato, anche in vista di una loro eventuale coercibilità e della sanzionabilità dell'inadempimento.
Anche la precisazione di obblighi di un numero minimo di alzate di sipario e di spettacoli riservato all'amministrazione non permette di rilevare che la corrispondente attività del gestore costituisca il tramite per raggiungere un fine sociale a favore della collettività, trattandosi, piuttosto, di impegni correlati all'effettiva messa a frutto del bene e alla volontà dell'ente concedente di potersene, ogni tanto, avvalere senza sopportare la corrispondente spesa.
La sentenza ha evidenziato, quindi, come questi obblighi correlati a macro-finalizzazioni relative all'utilizzo del bene, sia singolarmente che complessivamente considerati, sono del tutto inidonei a rivelare l'esistenza di una concessione di servizio, e di un «obbligo di esercizio», anche perché carenti di qualsiasi elemento di corredo che consenta di rinvenire la proiezione esterna della sottostante utilitas pubblica, che va collegata non a impegni di carattere singolare, bensì a un programma dettagliato di gestione nel tempo, rispetto al quale rileva non solo il vincolo del privato, ma anche la previsione in capo all'ente concedente di poteri di indirizzo, vigilanza e intervento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.07.2019).

APPALTIRegole più semplici per l'avvalimento infragruppo.
Adempimenti formali meno stringenti in caso di ricorso all'avvalimento infragruppo, non sussistendo, in questa ipotesi, l'obbligo di stipulare un contratto con l'impresa ausiliaria, con le risorse necessarie, perché appartiene alla stessa compagine societaria. Sarà sufficiente una dichiarazione unilaterale del concorrente che attesti il legame giuridico e economico.

È questo il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 27.06.2019 n. 4418, che accorda, così, all'istituto giuridico dell'avvalimento infragruppo un regime probatorio e documentale semplificato.
La vicenda
Il ricorrente aveva impugnato l'aggiudicazione del servizio di gestione, distribuzione e fornitura di medicinali a un raggruppamento temporaneo di impresa per via dell'assenza dei requisiti di qualificazione richiesti dalla lex specialis di gara. L'operatore economico affidatario ha utilizzato, impropriamente, l'avvalimento per la dimostrazione del possesso della certificazione di qualità, ricorrendo al requisito di una impresa collegata. In particolare, ha eccepito la genericità della dichiarazione di avvalimento, senza specificazione delle dotazioni e delle risorse umane che vengono messe a disposizione, configurandosi quale prestito solo cartolare, non in linea con le disposizioni del codice degli appalti.
La decisione
Il ricorso è stato respinto: per i giudici di Palazzo Spada fondamentale è il rapporto di collegamento societario intercorrente tra le imprese ai fini della prova semplificata del possesso del requisito di qualificazione richiesto. L'avvalimento è uno strumento di derivazione comunitaria che abilita le imprese carenti di determinati requisiti tecnici, economici e finanziari a partecipare alle procedure di gara mediante utilizzo delle capacità e mezzi di altri soggetti economici. Rappresenta una deroga al principio di personalità dei requisiti di partecipazione e rilevante è il rapporto tra l'ausiliato e l'ausiliario, legati da un vincolo di responsabilità solidale. L'interpretazione del collegio è elaborata proprio sulla situazione di collegamento tra imprese caratterizzate da una unitaria compagine societaria.
Nel caso esaminato, l'aggiudicatario ha così dimostrato in modo valido -con l'appartenenza al gruppo poiché ha attinto il requisito da una società collegata- che l'avvalimento è effettivo semplicemente con la messa a disposizione della struttura produttiva e organizzativa in capo alla quale è stato attribuito il sistema di qualità.
Nelle «gare pubbliche l'appartenenza al gruppo societario e dunque il collegamento in senso ampio rappresenta un possibile fattore genetico e giustificativo, dell'avvalimento da parte di un concorrente dei requisiti posseduti da un altro soggetto». In virtù del legame che intercorre tra gli operatori economici, l'avvalimento è perimetrato dai minimi margini di concretezza e serietà. Non è richiesto un contratto, analitico e strutturato, ma è sufficiente la dichiarazione a comprova del solo vincolo esistente.
È bene sottolineare che questa affermazione ha trovato copertura normativa nell'articolo 49, comma 2, lettera g), del Dlgs 163/2006 ma oggi non è riprodotta nel nuovo codice contenuto nel Dlgs 50/2016, e, per questo, l'orientamento di Palazzo Spada, che tuttavia è riferito a un fattispecie contrattuale bandita sotto il vecchio codice, discorda con la giurisprudenza più recente che ha ritenuto non più ammissibile la deroga all'obbligo di produrre il contratto di avvalimento tra soggetti appartenenti al medesimo gruppo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.07.2019).

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza, ai sensi dell’art. 31 t.u. edilizia, il titolo per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri immobiliari è costituito dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, ma per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento, che faccia proprio l’esito del verbale.
Il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine demolitorio non costituisce, infatti, un provvedimento amministrativo; esso, in particolare, non comporta di per sé effetti ulteriori rispetto a quelli consistenti nella mera descrizione della realtà; non si tratta, cioè, di un provvedimento amministrativo che possa immutare la posizione giuridica dell'interessato, avendo il verbale solo il fine di rappresentare -con fede privilegiata allorquando, come nel caso di specie, sia compilato da pubblico funzionario- lo stato dei luoghi.
Il verbale di accertamento in questione costituisce solo il presupposto fattuale e giuridico sulla cui base dovranno essere adottati i successivi provvedimenti amministrativi che il competente Ufficio Comunale, quale autorità dotata di poteri di amministrazione attiva, dovrà adottare, primo tra tutti l’accertamento formale dell’inottemperanza, ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, comma 4, che costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ne consegue che il verbale costituisce atto propedeutico all'adozione del successivo provvedimento formale di accertamento dell’inottemperanza e dichiarativo dell'acquisizione e, previa individuazione dell'area da acquisire, dispositivo della trascrizione.
Pertanto tale verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva invece ravvisabile soltanto eventualmente nell’atto formale di accertamento ex art. 31, co. 4, del d.p.r. n. 380/2001, con cui l’autorità amministrativa recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla polizia municipale e forma il titolo ricognitivo idoneo all’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio comunale.
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8- Il ricorso è inammissibile laddove impugna il verbale di accertamento dei VV.UU., in quanto atto non autonomamente impugnabile.
Secondo la giurisprudenza, ai sensi dell’art. 31 t.u. edilizia, il titolo per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri immobiliari è costituito dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, ma per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento, che faccia proprio l’esito del verbale (TAR Sicilia, Catania, sez. II, 24.04.2018, n. 837; TAR Catania, sez. I, 23.04.2015, n. 1118; TAR Napoli, (Campania), sez. VII, 11.05.2017, n. 2550; TAR Roma, (Lazio), sez. I, 04.05.2016, n. 5123).
Il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine demolitorio non costituisce, infatti, un provvedimento amministrativo; esso, in particolare, non comporta di per sé effetti ulteriori rispetto a quelli consistenti nella mera descrizione della realtà; non si tratta, cioè, di un provvedimento amministrativo che possa immutare la posizione giuridica dell'interessato, avendo il verbale solo il fine di rappresentare -con fede privilegiata allorquando, come nel caso di specie, sia compilato da pubblico funzionario- lo stato dei luoghi.
Il verbale di accertamento in questione costituisce solo il presupposto fattuale e giuridico sulla cui base dovranno essere adottati i successivi provvedimenti amministrativi che il competente Ufficio Comunale, quale autorità dotata di poteri di amministrazione attiva, dovrà adottare, primo tra tutti l’accertamento formale dell’inottemperanza, ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, comma 4, che costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ne consegue che il verbale costituisce atto propedeutico all'adozione del successivo provvedimento formale di accertamento dell’inottemperanza e dichiarativo dell'acquisizione e, previa individuazione dell'area da acquisire, dispositivo della trascrizione (in termini TAR Campania, Napoli, sez. VII, 11.05.2017; TAR Napoli, sez. III, 01.12.2016, n. 5556).
Pertanto tale verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva invece ravvisabile soltanto eventualmente nell’atto formale di accertamento ex art. 31, co. 4, del d.p.r. n. 380/2001, con cui l’autorità amministrativa recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla polizia municipale e forma il titolo ricognitivo idoneo all’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio comunale (cfr. TAR Sicilia Catania sez. II 02.04.2018 n. 837 e giurisprudenza ivi richiamata; cfr. anche TAR Campania Salerno sez. II 18.03.2016, n. 692) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 25.06.2019 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL’atipico ordine del Comando dei vigili urbani –contenuto nel verbale– "di non toccare assolutamente i manufatti oggetto dell'accertamento di inottemperanza" viola il principio per il quale gli atti amministrativi sono "tipici e nominati" e devono essere adottati nell'esercizio di uno specifico potere attribuito all'autorità procedente da una precisa norma di legge.
Il principio di tipicità e nominatività degli atti amministrativi trova fondamento in esigenze legate alla tutela del principio di legalità a garanzia che ad ogni interesse pubblico vada correlato uno specifico potere in capo all’amministrazione in modo da determinare, in esito al procedimento, un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato concretamente perseguito; e ciò vale soprattutto per "gli atti incidenti negativamente sui terzi".
Ebbene l'impugnato "ordine di non demolire", in attesa della futura acquisizione e in assenza di una delibera comunale che dichiari la sussistenza di interesse pubblico al mantenimento dell’opera, è un provvedimento non previsto da alcuna norma di legge, dal che la sua illegittimità o meglio la sua nullità, per l’assenza nell’ordinamento di una norma attributiva di simili poteri all’amministrazione nella specifica fase di cui si discute.
Infatti, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 prevede un'articolata disciplina per la demolizione delle opere realizzate in assenza di permesso di costruire o in totale difformità ovvero con variazioni essenziali.
Dapprima l'autorità comunale ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di un termine di novanta giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale "il bene e l'area di sedime vengono acquisiti, di diritto e gratuitamente, al patrimonio del Comune".
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (da tenere distinto, per come su detto, dal verbale della polizia municipale di accertamento ricognitivo) costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari; infine, l'opera acquisita è demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Recentemente la Corte di Cassazione ha chiarito che financo l’acquisizione gratuita al patrimonio, in assenza di una delibera comunale di dichiarazione dell’interesse pubblico al mantenimento dell’opera, non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, in quanto il trasferimento dell'immobile nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente preordinato ad una sua più agevole demolizione -il cui onere economico va posto in ogni caso a carico dei responsabili dell'abuso edilizio- e non invece ad incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del territorio; a maggior ragione, la privazione del potere di rimuovere gli abusi non può discendere da un verbale di accertamento della polizia municipale, il quale deve limitarsi ad effettuare una ricognizione dello stato dei luoghi e trasmetterne i risultati agli organi competenti ex art. 31 d.p.r. n. 380/2001, per l’adozione degli opportuni provvedimenti.
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9- Il ricorso è invece ammissibile ed altresì fondato laddove impugna l’ordine del Comando dei vigili urbani –contenuto nel verbale– di non demolire, basato sul presupposto che siano decorsi i prescritti 90 giorni per la demolizione.
In effetti l’atipico ordine "di non toccare assolutamente i manufatti oggetto dell'accertamento di inottemperanza" (di cui al Verbale P.M. 13/09/2018 n. 1877), viola il principio per il quale gli atti amministrativi sono "tipici e nominati" e devono essere adottati nell'esercizio di uno specifico potere attribuito all'autorità procedente da una precisa norma di legge (cfr. TAR Trieste, sez. I, 03/12/2014 n. 609; TAR Veneto, sez. III, 31/12/2007 n. 4129 e C.d.S., sez. V, 7/10/2002 n. 5275).
Il principio di tipicità e nominatività degli atti amministrativi trova fondamento in esigenze legate alla tutela del principio di legalità a garanzia che ad ogni interesse pubblico vada correlato uno specifico potere in capo all’amministrazione in modo da determinare, in esito al procedimento, un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato concretamente perseguito (cft. C.d.S., sez. VI, 13/09/2010 n. 6554); e ciò vale soprattutto per "gli atti incidenti negativamente sui terzi" (cfr. TAR Genova, sez. I, 12/03/2009 n. 305).
Ebbene l'impugnato "ordine di non demolire", in attesa della futura acquisizione e in assenza di una delibera comunale che dichiari la sussistenza di interesse pubblico al mantenimento dell’opera, è un provvedimento non previsto da alcuna norma di legge, dal che la sua illegittimità o meglio la sua nullità, per l’assenza nell’ordinamento di una norma attributiva di simili poteri all’amministrazione nella specifica fase di cui si discute.
Infatti, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 prevede un'articolata disciplina per la demolizione delle opere realizzate in assenza di permesso di costruire o in totale difformità ovvero con variazioni essenziali.
Dapprima l'autorità comunale ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di un termine di novanta giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale "il bene e l'area di sedime vengono acquisiti, di diritto e gratuitamente, al patrimonio del Comune".
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (da tenere distinto, per come su detto, dal verbale della polizia municipale di accertamento ricognitivo) costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari; infine, l'opera acquisita è demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Recentemente la Corte di Cassazione (Cass. pen. Sez. III, Sent., 16.01.2018, n. 1564) ha chiarito che financo l’acquisizione gratuita al patrimonio, in assenza di una delibera comunale di dichiarazione dell’interesse pubblico al mantenimento dell’opera, non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, in quanto il trasferimento dell'immobile nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente preordinato ad una sua più agevole demolizione -il cui onere economico va posto in ogni caso a carico dei responsabili dell'abuso edilizio- e non invece ad incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 42698 del 07/07/2015,; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007; Sez. 3, n. 49397 del 16/11/2004); a maggior ragione, la privazione del potere di rimuovere gli abusi non può discendere da un verbale di accertamento della polizia municipale, il quale deve limitarsi ad effettuare una ricognizione dello stato dei luoghi e trasmetterne i risultati agli organi competenti ex art. 31 d.p.r. n. 380/2001, per l’adozione degli opportuni provvedimenti.
Ne consegue l’illegittimità (rectius nullità) del detto verbale nella specifica parte in cui contiene il detto ordine di non demolire (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 25.06.2019 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
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Il caso della difformità parziale dal permesso di costruire per le nuove costruzioni è previsto e regolato dall’art. 34 del TUE (applicabile anche ai casi di DIA sostitutiva del permesso di costruire ai sensi dell’art. 22, comma 3, del TUE). Si tratta una categoria residuale, la cui nozione è stata ulteriormente chiarita dalla giurisprudenza amministrativa.
Il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale, come si desume in negativo dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla norma infatti, mentre si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera.
Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione pecuniaria.
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Il campo di applicazione dell’art. 34 del TUE è stato modificato dall’articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla legge 12.07.2011, n. 106.
In particolare, proprio l’assenza di una compiuta definizione della categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito edilizio.
Si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito edilizio. In particolare, la difformità parziale è esclusa «in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali» (comma 2-ter).
L’ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente circoscritto alla materia edilizia. Non opera, dunque, nel caso di interventi su immobili “vincolati” eseguiti in difformità dalle autorizzazioni rilasciate ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42. Ovviamente, inoltre, la disposizione opera unicamente nei rapporti con l’amministrazione, senza interferire con i rapporti privatistici di vicinato.
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1.1.- La disciplina sanzionatoria degli abusi nelle costruzioni contempla tre fattispecie ordinate secondo la gravità dell’abuso: l’ipotesi di interventi in assenza di permesso o di totale difformità; l’ipotesi intermedia di variazioni essenziali dal titolo edilizio; l’ipotesi residuale della parziale difformità da esso.
1.2.- L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 (di seguito: “TUE”) disciplina gli abusi più gravemente sanzionati.
L’assenza di permesso consiste nella sua insussistenza oggettiva per l’opera autorizzata.
Accanto al caso del permesso mai rilasciato, vi sono i casi nei quali il titolo è stato rilasciato, ma è privo (o è divenuto privo) di effetti giuridici.
L’art. 31, comma 1, del TUE prevede anche una figura di mancanza sostanziale del permesso, che si verifica quando vi è difformità totale dell’opera rispetto a quanto previsto nel titolo, pur sussistente. Si ha difformità totale, quando sia realizzato un organismo edilizio:
   - integralmente diverso per caratteristiche tipologiche architettoniche ed edilizie;
   - integralmente diverso per caratteristiche planovolumetriche, e cioè nella forma, nella collocazione e distribuzione dei volumi;
   - integralmente diverso per caratteristiche di utilizzazione (la destinazione d’uso derivante dai caratteri fisici dell’organismo edilizio stesso);
   - integralmente diverso perché comportante la costituzione di volumi nuovi ed autonomi.
1.3.- Accanto alle forme di abuso appena ricordate, l’art. 32 del TUE, -così come prima l’art. 7, comma 2, della legge n. 47 del 1985- regola la fattispecie dell’esecuzione di opere in «variazione essenziale» rispetto al progetto approvato. Tale tipo di abuso è parificato, quanto alle conseguenze, al caso di mancanza di permesso di costruire e di difformità totale, salvo che per gli effetti penali (le variazioni essenziali sono infatti soggette alla più lieve pena prevista per l’ipotesi della lettera a, dell’articolo 44 del TUE).
La determinazione dei casi di variazione essenziale è affidata alle regioni nel rispetto di alcuni criteri di massima.
In particolare, ai sensi dell’art. 32, comma 1, del TUE, sussiste variazione essenziale esclusivamente in presenza di una o più delle seguenti condizioni:
   a) mutamento di destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato, ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza;
   d) il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentite;
   e) la violazione della normativa edilizia antisismica.
Il comma 2 dell’art. 32 del TUE precisa che «non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative».
Il concetto di variazione essenziale, che attiene alla modalità di esecuzione delle opere, va distinto dalle “varianti” che invece riguardano la richiesta di una variazione del titolo autorizzativo (art. 22, comma 2, del TUE).
Mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (cfr. Cassazione penale, sez. III, 27.02.2014, n. 34099).
Nel caso di variante essenziale il problema si concentra nella necessità o meno di nuovo titolo, che deve quindi considerare l'eventuale diversa normativa sopravvenuta; la variante invece si riferisce al titolo originario senza nuova valutazione della normativa vigente.
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1.4.- Il caso della difformità parziale dal permesso di costruire per le nuove costruzioni è invece previsto e regolato dall’art. 34 del TUE (applicabile anche ai casi di DIA sostitutiva del permesso di costruire ai sensi dell’art. 22, comma 3, del TUE). Si tratta una categoria residuale, la cui nozione è stata ulteriormente chiarita dalla giurisprudenza amministrativa.
Il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale, come si desume in negativo dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla norma infatti, mentre si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera.
Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione pecuniaria.
Il campo di applicazione dell’art. 34 del TUE è stato modificato dall’articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla legge 12.07.2011, n. 106.
In particolare, proprio l’assenza di una compiuta definizione della categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito edilizio.
Si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito edilizio. In particolare, la difformità parziale è esclusa «in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali» (comma 2-ter).
L’ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente circoscritto alla materia edilizia. Non opera, dunque, nel caso di interventi su immobili “vincolati” eseguiti in difformità dalle autorizzazioni rilasciate ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42. Ovviamente, inoltre, la disposizione opera unicamente nei rapporti con l’amministrazione, senza interferire con i rapporti privatistici di vicinato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.06.2019 n. 4331 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPer bloccare l'edificabilità del terreno confinante occorre dimostrare il danno.
È il principio sancito dal Consiglio di Stato, Sez. II, con la sentenza 20.06.2019 n. 4233.
L'interesse a ricorrere contro un provvedimento dell'Amministrazione sorge in conseguenza della lesione attuale di un interesse sostanziale e tende ad ottenere un provvedimento del giudice idoneo, se favorevole, a rimuovere quella lesione (Consiglio di Stato, sentenza n. 4233/2019).
Tale principio è stato applicato al caso di una confinante che, con ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale, chiedeva l'annullamento degli atti amministrativi (e il risarcimento del danno consequenziale) con i quali il Comune aveva inserito un terreno, ad essa adiacente, nell'area avente possibilità edificatorie e ne segnalava genericamente "gravissimi pregiudizi".
Il tribunale accoglieva il secondo motivo del ricorso sostenendo che «i contenuti del diritto del proprietario hanno anche una dimensione soggettiva viste soprattutto le caratteristiche della proprietà immobiliare: il possesso di un'area può avere per il proprietario scopi diversi, tra i quali possono risiedere pacificamente e maggiormente in una realtà cittadina o comunque urbanizzata anche i fini di godere di una zona verde per finalità salutari o ricreative e quindi l'interesse allo sfruttamento meramente economico della proprietà fondiaria non può ritenersi assoluto».
Avverso a tal pronuncia ha interposto appello innanzi al Consiglio di Stato, il Comune il quale lamentava l'inammissibilità del ricorso di primo grado per la carenza di interesse della ricorrente. Quest'ultima si limitava a dichiarare un "gravissimo pregiudizio" senza specificare in cosa esso fosse consistito a fronte di una variazione della disciplina urbanistica che incrementava le possibilità edificatorie e anche il valore economico dell'area.
Per cui se è vero che la appellata avrebbe potuto avere un interesse contrario alla edificazione è vero anche che non aveva prospettato un interesse specifico. Come ha avuto modo di evidenziare il Consiglio di Stato «il diritto al ricorso nel processo amministrativo sorge in conseguenza della lesione attuale di un interesse sostanziale e tende a un provvedimento del giudice idoneo, se favorevole, a rimuovere quella lesione. Le condizioni soggettive per agire in giudizio sono la legittimazione processuale, cosiddetta legittimazione ad agire, e l'interesse a ricorrere».
Quest'ultimo sussiste quando vi è una lesione della posizione giuridica del soggetto e quando sia individuabile un'utilità della quale esso fruirebbe per effetto della rimozione del provvedimento e non sussistano elementi per affermare che l'azione si consistita in un abuso della tutela giurisdizionale. Condizioni che l'appellata non aveva dimostrato. La stessa legittimazione al ricorso veniva in dubbio perché l'appellata non la poteva far derivare dal fatto che risiedeva nelle immediate vicinanze dell'area "urbanizzata" perché in ogni caso doveva pur sempre fornire la prova concreta della violazione specifica inferta dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali il deprezzamento del valore del bene o la concreta compromissione del diritto alla salute e all'ambiente.
Se è pur vero che la vicinanza al fondo gli attribuisce una posizione giuridica qualificata per essere legittimato ad agire è necessario tuttavia che chi agisce provi in concreto il pregiudizio concreto patito e patendo (sia esso di carattere patrimoniale o di deterioramento delle condizioni di vita o di peggioramento dei caratteri urbanistici che connotano l'area) a cagione dell'intervento edificatorio. Chiarimenti e prove non fornite: il Consiglio di Stato accoglieva quindi il ricorso (articolo del Sole 24 Ore Edilizia & Territorio del 22.07.2019).
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SENTENZA
9.1. Il motivo è fondato.
Difatti, alla luce di quanto risulta dal ricorso di primo grado, non emerge che la ricorrente abbia prospettato alcun preciso danno scaturente dalla disciplina urbanistica impugnata, sebbene attributiva di vocazione edificatoria.
La ricorrente si limita infatti a discorrere di “gravissimo pregiudizio”, senza specificare in che cosa esso consista a fronte di una variazione della disciplina urbanistica che ha carattere incrementativo delle possibilità edificatorie dell’area e quindi del valore economico della stessa. Se è vero che vi potrebbe essere un interesse contrario all’edificazione è vero anche che la ricorrente non prospetta alcun interesse specifico, connesso alla fruibilità dell’ambiente circostante nella sua verginità costruttiva.
Questo Consiglio ha avuto modo di evidenziare che “
Il diritto al ricorso nel processo amministrativo sorge in conseguenza della lesione attuale di un interesse sostanziale e tende a un provvedimento del giudice idoneo, se favorevole, a rimuovere quella lesione. Le condizioni soggettive per agire in giudizio sono la legittimazione processuale, cosiddetta legittimazione ad agire, e l’interesse a ricorrere” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.01.2019, n. 508).
L’interesse a ricorrere sussiste, quindi, laddove vi sia una lesione della posizione giuridica del soggetto, ovvero se sia individuabile un’utilità della quale esso fruirebbe per effetto della rimozione del provvedimento e se non sussistano elementi tali per affermare che l’azione si traduca in un abuso della tutela giurisdizionale. Il ricorrente, proponendo ricorso in primo grado, aspira al vantaggio pratico e concreto che può ottenere dall’accoglimento dell’impugnativa, dovendosi postulare che l’atto censurato abbia prodotto in via diretta una lesione attuale della posizione giuridica sostanziale dedotta in giudizio.
Come di recente ribadito da questo Consiglio, la lesione da cui deriva, ex art. 100 c.p.c., l’interesse a ricorrere deve costituire “una conseguenza immediata e diretta del provvedimento dell’Amministrazione e dell’assetto di interessi con esso introdotto, deve essere concreta e non meramente potenziale, e deve persistere al momento della decisione del ricorso” (cfr. Cons. Stato , sez. V, 29.04.2019, n. 2732).
Non può quindi reputarsi sufficiente quanto evidenziato in sede di ricorso originario in ordine al fatto che la ricorrente “risiede nelle immediate vicinanze”.
In ambito urbanistico, il mero criterio della vicinitas di un fondo o di una abitazione all’area oggetto dell'intervento urbanistico-edilizio non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo sempre il ricorrente fornire la prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali il deprezzamento del valore del bene o la concreta compromissione del diritto alla salute e all'ambiente.
In effetti il criterio della vicinitas, se è idoneo a definire la sussistenza di una posizione giuridica qualificata e differenziata in astratto configurabile come interesse legittimo, tuttavia non esaurisce le condizioni necessarie cui è subordinata la legittimazione al ricorso, dovendosi da parte di chi ricorre fornire invece la prova del concreto pregiudizio patito e patiendo (sia esso di carattere patrimoniale o di deterioramento delle condizioni di vita o di peggioramento dei caratteri urbanistici che connotano l’area) a cagione dell’intervento edificatorio
(Cons Stato, sez. IV, 15.12.2017, n. 5908).

APPALTIAlla procedura negoziata senza bando può partecipare anche l'appaltatore non invitato.
Alle procedure negoziate avviate senza l'utilizzo dell'avviso pubblico a manifestare interesse può partecipare anche l'appaltatore non invitato. È sufficiente che l'operatore economico sia in possesso dei requisiti richiesti senza che rilevi la circostanza sul come abbia acquisito conoscenza del procedimento.

In questo senso, il TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 04.06.2019 n. 1380 che esprime alcune considerazioni valide anche in relazione all'applicazione pratica di alcune norme (in tema di acquisti sotto la soglia comunitaria) contenute nella legge 55/2019.
La vicenda
Il caso riguarda l'impugnazione di una illegittima esclusione dalla procedura negoziata per l'affidamento del servizio di gestione e manutenzione dell'impianto comunale di depurazione delle acque reflue. L'aspetto principale della questione –di particolare attualità alla luce delle recenti modifiche introdotte dalla legge 55/2019 di conversione del Dl 32/2019 (pur se non citata nel caso di specie)– ha riguardato la legittimità o meno della richiesta di partecipazione alla competizione "semplificata" di un soggetto non invitato che sia comunque venuto a conoscenza della procedura.
Il ricorrente ha rammentato al giudice la posizione della giurisprudenza dominante (che non ammette l'estromissione in casi simili) evidenziando come nessuna norma fa «divieto ad un'impresa non invitata di partecipare ad una gara di appalto, allorché essa soddisfi tutti i requisiti di partecipazione richiesti dalla stazione appaltante». Di rilievo, tra l'altro, il fatto che la stazione appaltante avesse invitato al procedimento di gara imprese «scelte arbitrariamente, non avendo pubblicato alcun avviso esplorativo, né attinto da un elenco determinato di imprese, in violazione della legge e delle linee guida n. 4 dell'ANAC».
Le modifiche della legge 55/2019
La vicenda è interessante in quanto pone l'accento –pur con riferimento a norme ante modifica apportata dalla recente legge 55/2019– sulle modalità di procedimento d'appalto condotte sulla falsariga della procedura negoziata senza pubblicazione di bando in base, quindi, all'articolo 63 del codice dei contratti (oggi richiamato nell'articolo 36, comma 2, lettere c) e c-bis).
Nel caso della procedura senza previa pubblicazione di bando, l'indagine di mercato può essere esperita in modo più informale rispetto a quanto previsto nelle linee guida Anac n. 4 che dettano la disciplina esplicativa del procedimento di acquisizione in ambito sottosoglia.
Laddove le linee guida n. 4 impongono la pubblicazione di un avviso per ottenere le manifestazioni di interesse da cui poi attingere con gli inviti per la partecipazione alla competizione, il comma 6 dell'articolo 63, nell'indicare l'indagine di mercato come attività propedeutica per reperire gli operatori da invitare, non indica particolari formalismi.
In effetti, il comma 6 dell'articolo 63 si limita a evidenziare che il responsabile unico deve desumere dal mercato, quale attività propedeutica prima di procedere con l'invito degli operatori economici da far competere, le caratteristiche di qualificazione economica, finanziarie e tecniche, di professionalità, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, selezionando il numero degli operatori economici richiesto (sempre se sussistano in quel numero soggetti idonei).
Queste modalità risultano sicuramente meno rigorose e maggiormente presidiabili dal Rup rispetto alla pubblicazione di uno specifico avviso pubblico a manifestare interesse che deve contenere più dettagliati riferimenti al contratto che si intende stipulare (compreso anche lo stanziamento utilizzabile). Avviso che appare, pertanto, del tutto simile –pur con meno rigore– a un bando di gara.
Conclusioni
Nel caso del procedimento preso in considerazione dal giudice siciliano, non sussistendo avviso pubblico a manifestare interesse, ogni operatore economico interessato che ne fosse venuto a conoscenza avrebbe potuto presentare la propria proposta tecnico/economica e la stazione appaltante non può deciderne l'esclusione per il semplice fatto di non averlo invitato.
È questo uno degli aspetti che, molto probabilmente, potrà verificarsi nell'applicazione delle nuove disposizione introdotte dalla legge 55/2019 che, nell'ambito dell'articolo 36 del codice dei contratti –oltre a ridurre il numero dei preventivi (e conseguentemente degli operatori) da valutare– ha inteso innestare alcune semplificazioni proprio in relazione alla fase della scelta degli appaltatori da far competere (soprattutto in tema di lavori) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.07.2019).
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SENTENZA
III. Il ricorso, ad avviso del Collegio, è fondato, sotto l’assorbente profilo fatto valere dalla ricorrente con il primo motivo di ricorso.
In proposito, il Collegio ritiene di aderire al filone giurisprudenziale secondo il quale <
Qualora l'amministrazione abbia individuato gli operatori economici idonei a partecipare ad una procedura negoziata e, pertanto, invitati a partecipare alla stessa, non può negarsi ad un operatore economico non invitato, che sia comunque venuto a conoscenza di una simile procedura e che si ritenga in possesso dei requisiti di partecipazione previsti dalla legge di gara, di presentare la propria offerta, salvo il potere dell'amministrazione di escluderlo dalla gara per carenze dell'offerta o degli stessi requisiti di partecipazione ovvero perché l'offerta non è pervenuta tempestivamente (rispetto alla scadenza del termine indicata nella lettera di invito agli operatori invitati) e sempre che la sua partecipazione non comporti un aggravio insostenibile del procedimento di gara e cioè determini un concreto pregiudizio alle esigenze di snellezza e celerità che sono a fondamento del procedimento semplificato delineato dall'art. 122, comma 7, e 57, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006: conseguentemente anche gli altri partecipanti, in quanto invitati, non possono dolersi della partecipazione alla gara di un operatore economico e tanto meno dell'aggiudicazione in favore di quest'ultimo della gara, salva evidentemente la ricorrenza di vizi di legittimità diversi dal fatto della partecipazione in quanto non invitato. Una simile interpretazione è conforme non solo e non tanto al principio del favor partecipationis, costituendo piuttosto puntuale applicazione dell'altro fondamentale principio di concorrenza cui devono essere ispirate le procedure ad evidenza pubblica e rappresentando contemporaneamente anche un ragionevole argine, sia pur indiretto e meramente eventuale, al potere discrezionale dell'amministrazione appaltante di scelta dei contraenti (in termini, TAR Abruzzo, sez. I de L'Aquila, 25/10/2018, n. 397)>.
Tale orientamento convince perché in linea con il principio del favor per la massima partecipazione, a vantaggio dell’interesse pubblico all’ampliamento della platea delle imprese in gara ed a quello delle imprese ad una maggiore concorrenzialità.
Né sussiste alcuna lesione del principio di segretezza delle offerte, principio che tutela, appunto, la segretezza delle offerte, non dell’indizione di una gara, soggetto, al contrario, ai principi di trasparenza e pubblicità degli atti.
Conseguentemente, previo assorbimento degli ulteriori profili di censura, al cui esame parte ricorrente non mantiene alcun apprezzabile interesse, deve essere annullata l’esclusione dell’impresa ricorrente e, derivatamente, l’aggiudicazione in favore della controinteressata, disponendosi, altresì, l’inefficacia dell’eventuale contratto medio tempore stipulato.

EDILIZIA PRIVATAGli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Invero, <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>>.
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quanto meno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione; nella specie può farsi applicazione delle disciplina prevista dall’art. 21-octies della l. n. 241/1990 che, al comma 2, prevede che i provvedimenti a carattere vincolato non sono annullabili per vizi attinenti alla violazione di norme sulla forma o sul procedimento, quando appaia evidente che il contenuto dispositivo degli stessi non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, con conseguente irrilevanza di eventuali vizi di procedura rilevati da parte ricorrente.
La ratio della richiamata norma si ispira al principio di conservazione degli atti e di economia processuale, nonché ai principi di economicità ed efficienza amministrativa, posto che sarebbe inutile e dispendioso annullare un provvedimento il cui contenuto dovrebbe, necessariamente, essere riprodotto nella nuova determinazione da assumere.
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In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati. Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il decorso del tempo, l'amministrazione deve senza indugio emanare l'ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il provvedimento deve ritenersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Né tanto meno necessita una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha rilevato che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis) dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>>.
Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto e si presenta sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, senza la necessità di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e senza la possibilità di adottare provvedimenti alternativi, ivi comprese l’applicazione di sanzioni pecuniarie, che è evenienza configurabile unicamente in fase esecutiva dell’ordine di demolizione ed unicamente per ragioni tecniche.
Il richiamo operato alla valutazione del Consiglio Comunale in ordine alla individuazione di eventuali interessi pubblici è inconferente nel caso di specie in quanto tale norma si riferisce alla demolizione delle opere abusive a seguito della mancata spontanea ottemperanza da parte del privato ingiunto, afferente ad una fase successiva a quella in esame, allorquando, cioè, debba farsi luogo all’esecuzione d’ufficio, a cura del Comune ed in danno ed a spese del trasgressore (<<opere per le quali il responsabile dell’abuso non ha provveduto nel termine previsto alla demolizione ed al ripristino dei luoghi>>.
Nel presente ricorso, invece, si fa questione della legittimità dell’ordinanza di demolizione adottata ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001, che, seguendo lo schema della diffida ad adempiere impone la demolizione al proprietario dell’immobile contestato, per il quale (in mancanza di formale accertamento della mancata spontanea ottemperanza) non si è ancora proceduto all’acquisizione ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001.
Infine, in presenza di un’attività doverosa di immediata applicazione della legge, alcun spazio può esservi per il principio di proporzionalità che presuppone la possibilità di scelta discrezionale in ogni caso estranea alla materia de qua; analogamente è estranea al nostro ordinamento ogni considerazione in ordine ad un eventuale “abuso di necessità” che possa scriminare il comportamento del trasgressore, come pure dedotto dalla ricorrente.

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Riguardo alla lamentata omessa comunicazione dell’avviso del procedimento, superato il datato orientamento giurisprudenziale riferito in gravame, l’orientamento giurisprudenziale in argomento è ormai costante nel ritenere che: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233; TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); secondo la giurisprudenza: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383).
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quanto meno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione (cfr. C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737); nella specie può farsi applicazione delle disciplina prevista dall’art. 21-octies della l. n. 241/1990 che, al comma 2, prevede che i provvedimenti a carattere vincolato non sono annullabili per vizi attinenti alla violazione di norme sulla forma o sul procedimento, quando appaia evidente che il contenuto dispositivo degli stessi non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, con conseguente irrilevanza di eventuali vizi di procedura rilevati da parte ricorrente.
La ratio della richiamata norma si ispira al principio di conservazione degli atti e di economia processuale, nonché ai principi di economicità ed efficienza amministrativa, posto che sarebbe inutile e dispendioso annullare un provvedimento il cui contenuto dovrebbe, necessariamente, essere riprodotto nella nuova determinazione da assumere.
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In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati. Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il decorso del tempo, l'amministrazione deve senza indugio emanare l'ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il provvedimento deve ritenersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (Consiglio di Stato, sez. V, 11.07.2014, n. 3568; Consiglio Stato, sez. I, 31.08.2010, n. 3955).
Né tanto meno necessita una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (Cfr. ex multis, TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016; TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770).
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha rilevato che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis) dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>> (Consiglio di Stato ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto e si presenta sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, senza la necessità di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e senza la possibilità di adottare provvedimenti alternativi, ivi comprese l’applicazione di sanzioni pecuniarie, che è evenienza configurabile unicamente in fase esecutiva dell’ordine di demolizione ed unicamente per ragioni tecniche.
Inoltre, il richiamo operato alla valutazione del Consiglio Comunale in ordine alla individuazione di eventuali interessi pubblici è inconferente nel caso di specie in quanto tale norma si riferisce alla demolizione delle opere abusive a seguito della mancata spontanea ottemperanza da parte del privato ingiunto, afferente ad una fase successiva a quella in esame, allorquando, cioè, debba farsi luogo all’esecuzione d’ufficio, a cura del Comune ed in danno ed a spese del trasgressore (<<opere per le quali il responsabile dell’abuso non ha provveduto nel termine previsto alla demolizione ed al ripristino dei luoghi>>.
Nel presente ricorso, invece, si fa questione della legittimità dell’ordinanza di demolizione adottata ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001, che, seguendo lo schema della diffida ad adempiere impone la demolizione al proprietario dell’immobile contestato, per il quale (in mancanza di formale accertamento della mancata spontanea ottemperanza) non si è ancora proceduto all’acquisizione ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001.
Infine, in presenza di un’attività doverosa di immediata applicazione della legge, alcun spazio può esservi per il principio di proporzionalità che presuppone la possibilità di scelta discrezionale in ogni caso estranea alla materia de qua; analogamente è estranea al nostro ordinamento ogni considerazione in ordine ad un eventuale “abuso di necessità” che possa scriminare il comportamento del trasgressore, come pure dedotto dalla ricorrente
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2019 n. 2879 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione della demolizione si applica per il solo fatto della realizzazione di un’opera senza che sia stata preceduta dal rilascio del titolo abilitativo edilizio, indipendentemente dalla esistenza o meno della conformità urbanistica dell’intervento e, d’altronde, in mancanza del previo titolo abilitativo e prima di ingiungere la demolizione, il Comune non ha alcun obbligo di verificare d’ufficio l’astratta sanabilità delle opere.
A ciò aggiungasi che in caso di richiesta di sanatoria, l’onere di provare la c.d. doppia conformità urbanistica delle opere, sia al momento della loro realizzazione che all’attualità, è a carico di colui che chiede la sanatoria (con l’ovvio corollario di provare anche l’epoca di realizzazione dell’abuso in modo da individuare la normativa cui riferire la doppia conformità in parola).
All'uopo, per costante giurisprudenza, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria, che è un atto vincolato, e non è necessaria alcuna una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né alcuna verifica sull'astratta non sanabilità.

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I provvedimenti repressivi di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un permesso di costruire.
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Trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l'adozione dell'ordine di demolizione, una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali accertativi.
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Giova subito evidenziare che la sanzione della demolizione si applica per il solo fatto della realizzazione di un’opera senza che sia stata preceduta dal rilascio del titolo abilitativo edilizio, indipendentemente dalla esistenza o meno della conformità urbanistica dell’intervento e, d’altronde, in mancanza del previo titolo abilitativo e prima di ingiungere la demolizione, il Comune non ha alcun obbligo di verificare d’ufficio l’astratta sanabilità delle opere; a ciò aggiungasi che in caso di richiesta di sanatoria, l’onere di provare la c.d. doppia conformità urbanistica delle opere, sia al momento della loro realizzazione che all’attualità, è a carico di colui che chiede la sanatoria (con l’ovvio corollario di provare anche l’epoca di realizzazione dell’abuso in modo da individuare la normativa cui riferire la doppia conformità in parola); nel caso di specie, parte ricorrente è limitata apoditticamente ad asserire.
All'uopo, per costante giurisprudenza, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria, che è un atto vincolato, e non è necessaria alcuna una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né alcuna verifica sull'astratta non sanabilità (TAR Campania Napoli Sez. VII, 27.05.2013, n. 2755; TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n. 8331).
Ancora parte ricorrente si interroga su come possa avere impatto negativo sull'assetto paesaggistico circostante senza minimamente valutare in via preventiva la portata specifica della consistenza e della natura delle opere realizzate in rapporto all'intero assetto paesaggistico del territorio in cui le stesse sono inserite ritenendosi, in tal modo, esentato dal dimostrare espressamente la concreta violazione del vincolo paesaggistico attraverso l'attività edilizia abusiva realizzata.
Tuttavia le argomentazioni di parte ricorrente non tengono conto che, in ragione della funzione di tutela preventiva dei valori anche di rilievo costituzionale, apprestata dal vincolo paesaggistico-ambientale, bastando l’esistenza di un pregiudizio meramente potenziale, è la sua mera apposizione che attua la predetta tutela, mentre arbitraria sarebbe ogni indagine sull’idoneità dell’opera contestata ad incidere in concreto sull’assetto paesaggistico circostante in argomento anche la giurisprudenza di questa Sezione avendo già rilevato che: <<I provvedimenti repressivi di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un permesso di costruire>> (TAR Campania, Napoli, sez. III, 22/10/2015, n. 4968).
Il territorio del Comune di Torre del Greco è assoggettato (tra gli altri) al “vincolo idrogeologico di cui all’art. 1 del R.D. 30.12.1923, n. 3267 per le parti di bacino idrogeologico dei lagni vesuviani” e, pertanto, è obbligatorio ottenere lo svincolo idrogeologico dell’area per poter acquisire il permesso di costruire, mentre, nel caso di specie, il ricorrente ha totalmente omesso di acquisire qualsiasi titolo edilizio e nulla osta presupposto la qual cosa rende abusive le opere realizzate.
Pertanto la demolizione di nuove opere realizzate senza autorizzazione paesaggistica in zone vincolate si presenta come doverosa sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede le sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
...
Invero, nel provvedimento impugnato l'Amministrazione comunale, conformemente a quanto ampiamente affermato in giurisprudenza, attraverso il provvedimento gravato, ha fornito un'ampia e puntuale descrizione degli abusi perpetrati sul suolo de quo, indicando nel contempo anche i parametri normativi di riferimento; trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l'adozione dell'ordine di demolizione, una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali accertativi (TAR Campania Napoli, sez. IV, 23.04.2015, n. 2309; sez. VII, 03.03.2009, n. 1209)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2019 n. 2879 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIn ordine alla questione relativa alla prova della data di ultimazione dell’opera per la quale viene chiesto il condono, occorre rammentare l’insegnamento secondo il quale <<incombe su chi richiede di beneficiare di un condono edilizio l'onere di provare che l'opera è stata realizzata in epoca utile per fruire del beneficio, in quanto, mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data prevista. Anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori>>.
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Con riguardo alla specifica questione della rilevanza della “dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”, quanto appena ricordato trova conferma nelle ulteriori pronunce che hanno sottolineato come <<…né una mera dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà può rappresentare una prova esaustiva della data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità amministrativa il compito di fornire la dimostrazione dell'ultimazione dei lavori in una data successiva a quella dichiarata dall'interessato. Ne consegue che, di fronte a circostanze che, pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma rispetto a quella prevista dalla legge e dichiarata nella domanda di condono, il richiedente non è liberato dall'onere di fornire congrui elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di realizzazione del manufatto, in difetto dei quali resta integro il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria>>.
Ancora, <<nel processo amministrativo non è utilizzabile la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale (che ora può essere ammessa, su istanza di parte, ai sensi dell' art. 63, comma 3, c.p.a., in forma scritta, ai sensi del codice di procedura civile), non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione>>.

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Al riguardo, in ordine alla questione relativa alla prova della data di ultimazione dell’opera per la quale viene chiesto il condono, occorre rammentare l’insegnamento secondo il quale <<incombe su chi richiede di beneficiare di un condono edilizio l'onere di provare che l'opera è stata realizzata in epoca utile per fruire del beneficio, in quanto, mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data prevista. Anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori>> (C. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4168).
Con riguardo alla specifica questione della rilevanza della “dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”, quanto appena ricordato trova conferma nelle ulteriori pronunce che hanno sottolineato come <<…né una mera dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà può rappresentare una prova esaustiva della data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità amministrativa il compito di fornire la dimostrazione dell'ultimazione dei lavori in una data successiva a quella dichiarata dall'interessato. Ne consegue che, di fronte a circostanze che, pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma rispetto a quella prevista dalla legge e dichiarata nella domanda di condono, il richiedente non è liberato dall'onere di fornire congrui elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di realizzazione del manufatto, in difetto dei quali resta integro il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria>> (TAR Campania, sez. III, 10/07/2018, n. 4579; nello stesso senso, TAR Sardegna, sez. II, 06/06/2018, n. 550).
Ancora, <<nel processo amministrativo non è utilizzabile la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale (che ora può essere ammessa, su istanza di parte, ai sensi dell' art. 63, comma 3, c.p.a., in forma scritta, ai sensi del codice di procedura civile), non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione>> (C. Stato, sez. IV, 22/08/2018, n. 5030)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 06.05.2019 n. 409 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Indebito arricchimento verso la Pubblica Amministrazione per attività svolta dal professionista senza contratto scritto.
L'indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al professionista che abbia svolto la propria attività a favore della pubblica amministrazione, ma in difetto di un contratto scritto, non può essere determinato, neppure indirettamente quale parametro, in base alla tariffa professionale che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse svolto la sua opera a favore d'un privato, né in base all'onorario che la p.a. avrebbe dovuto pagare, se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto d'un contratto valido.
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 5. Con il secondo motivo, l'Agenzia ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell'art. 2041 c.c., nonché per insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto corretta la determinazione dell'indennità a titolo di arricchimento senza causa sulla base delle tariffe professionali prodotte in giudizio dagli attori (rectius, della parcella professionale redatta e vistata dal competente ordine professionale), e non già sulla base dell'effettivo impoverimento dagli stessi subiti a seguito della prestazione svolta nell'interesse della pubblica amministrazione.
6. Con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell'art. 18 della legge n. 109/1994; dell'art. 4, co. 12-bis, del d.l. n. 65/1989 conv. nella legge n. 155/1989; dell'art. 6 della legge n. 404/1977 e della Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici del 12/11/1987, nonché per omessa motivazione circa un fatto decisivo controverso (in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), per avere la corte territoriale trascurato di tener conto, ai fini della determinazione dell'indennità ex art. 2041 c.c., delle norme richiamate in epigrafe, nonché per aver riconosciuto, in favore delle controparti, somme a titolo di rimborso-spese non adeguatamente documentate in conformità alle previsioni di legge.
7. Il secondo motivo è fondato e suscettibile di assorbire la rilevanza del terzo.
8. Osserva il Collegio come,
secondo l'orientamento fatto proprio dalle Sezioni Unite di questa Corte, in tema di azione d'indebito arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione, conseguente all'assenza di un valido contratto di appalto d'opera tra la pubblica amministrazione e un professionista, l'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace (Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, Rv. 606124 - 01).
9. Pertanto,
ai fini della determinazione dell'indennizzo dovuto al professionista non possono essere assunte come parametro le tariffe professionali (ancorché richiamate da parcelle vistate dall'ordine competente), alle quali può ricorrersi solo quando le prestazioni siano effettuate dal professionista in base un valido contratto d'opera con il cliente (Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, Rv. 606124 - 01, cit.).
10. Il richiamato insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (che questo Collegio integralmente condivide e fa proprio, al fine di assicurarne continuità, in consonanza con il successivo orientamento confermativo assunto da Sez. 3, Sentenza n. 19886 del 06/10/2015, Rv. 637195 - 01) ha con ampia motivazione dimostrato per quali ragioni la opposta tesi sia insostenibile.
11. Dall'affermazione secondo cui l'indennizzo dovuto all'impoverito, ai sensi dell'art. 2041 c.c., non possa comprendere il lucro che questi avrebbe realizzato se il contratto stipulato con la p.a. fosse stato valido ed efficace, la giurisprudenza successiva ha tratto il necessario corollario secondo cui l'impoverimento non può essere determinato (neppure indirettamente quale parametro: cfr. Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, cit., in motivazione, là dove richiama Sez. 2, Sentenza n. 9243 del 12/07/2000, Rv. 538406 - 01) sulla base della tariffa professionale applicabile alle prestazioni eseguite dall'impoverito. Applicare quella tariffa, infatti, significherebbe accordargli un indennizzo esattamente pari a quanto avrebbe avuto diritto di pretendere dalla pubblica amministrazione nell'ipotesi di stipula con essa d'un contratto valido (così si sono pronunciate Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, Rv. 606124; nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 3905 del 18/02/2010, Rv. 611568; Sez. 3, Sentenza n. 23780 del 07/11/2014, Rv. 633449; Sez. 3, Sentenza n. 19886 del 06/10/2015, Rv. 637195 - 01).
12. Questo Collegio non ignora che, dopo l'intervento delle Sezioni Unite, alcune decisioni delle singole sezioni di questa Corte sono tornate ad affermare che la tariffa professionale possa essere utilizzata per la stima dell'indennizzo dovuto, ex art. 2041 c.c., a chi abbia lavorato per la pubblica amministrazione senza la previa stipula d'un contratto scritto.
13. Tali decisioni, tuttavia non possono essere affatto condivise.
14. Non può essere condivisa, in primo luogo, la decisione pronunciata da Sez. 1, Sentenza n. 19942 del 29/09/2011, Rv. 619548: sia perché si pone in contrasto inconsapevole con la pronuncia delle Sezioni Unite sopra ricordata (nonché con Sez. U, Sentenza n. 23385 del 11/09/2008, Rv. 604467 - 01), senza spendere una parola per motivare la propria opinione dissenziente; sia soprattutto perché l'affermazione del principio (secondo cui l'indennizzo può essere liquidato in base alle tariffe professionali) è compiuta in modo apodittico e non corredato da ragioni giustificatrici.
15. Per le stesse ragioni non può essere condiviso il decisum di Sez. 3, Sentenza n. 26193 del 06/12/2011 (non massimata) e di Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 351 del 10/01/2017 (Rv. 642780 - 01): anch'esse infatti ignorano di fatto le indicazioni delle Sezioni Unite e non sono sorrette da alcuna approfondita motivazione.
16. Non costituisce, invece, una dissenting opinion rispetto alle decisioni delle Sezioni Unite sopra ricordate la sentenza pronunciata da Sez. 1, Sentenza n. 21227 del 14/10/2011, Rv. 619902.
Nel caso ivi deciso, infatti, il giudice di merito aveva negato la possibilità di liquidare l'indennizzo ex art. 2041 c.c. in base alla tariffa professionale, e la Corte di cassazione ritenne che "tale ratio decidendi [fosse] da condividersi".
17. È appena il caso di rilevare come le opinioni dissenzienti appena ricordate, oltre che isolate, neppure avrebbero potuto essere ritualmente pronunciate, ostandovi il divieto di cui all'art. 374, co. 3, c.p.c. (secondo cui "se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso").
18. Essendosi il giudice a quo espressamente uniformato all'orientamento fatto proprio da Sez. 1, Sentenza n. 19942 del 29/09/2011, Rv. 619548 (qui motivatamente confutato), in accoglimento del secondo motivo del ricorso (rigettato il primo ed assorbito il terzo), dev'essere disposta la cassazione della sentenza impugnata, con il conseguente rinvio alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, cui è rimesso di provvedere, sulla base degli elementi di fatto acquisiti al processo, alla decisione dell'odierna controversia in applicazione del seguente principio di diritto: "
L'indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al professionista che abbia svolto la propria attività a favore della pubblica amministrazione, ma in difetto di un contratto scritto, non può essere determinato, neppure indirettamente quale parametro, in base alla tariffa professionale che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse svolto la sua opera a favore d'un privato, né in base all'onorario che la p.a. avrebbe dovuto pagare, se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto d'un contratto valido" (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 04.04.2019 n. 9317).

INCARICHI PROGETTUALIAlla CGUE l’individuazione degli operatori economici che possono partecipare alle gare per l’affidamento dei servizi di architettura e ingegneria.
Il Tar per il Lazio rimette alla Corte di giustizia UE il quesito interpretativo diretto a verificare se il diritto europeo osti a una normativa nazionale che non consente di partecipare alle gare per l’affidamento dei servizi di architettura e ingegneria agli operatori economici che eroghino tali prestazioni facendo ricorso a forme diverse da quelle indicate dal legislatore nazionale
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Contratti pubblici – Affidamento servizi di architettura e ingegneria – Operatori economici – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE
Deve essere rimesso alla Corte di giustizia UE il seguente quesito interpretativo: se il combinato disposto del “considerando” n. 14 e degli articoli 19, comma 1, e 80, comma 2, della Direttiva 2014/24/UE ostino ad una norma come l’art. 46 del Decreto Legislativo n. 50 del 18 aprile 2016, a mezzo del quale l’Italia ha recepito nel proprio ordinamento le Direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE, che consente ai soli operatori economici costituiti nelle forme giuridiche ivi indicate la partecipazione alle gare per l’affidamento dei “servizi di architettura ed ingegneria”, con l’effetto di escludere dalla partecipazione a tali gare gli operatori economici che eroghino tali prestazioni facendo ricorso ad una diversa forma giuridica (1).
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   (1) I. – Il Tar per il Lazio, con l’ordinanza in rassegna, ha rinviato alla Corte di giustizia UE la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità con il diritto europeo della normativa interna nella parte in cui consente ai soli operatori economici costituiti nelle forme giuridiche indicate dall’art. 46 d.lgs. 18.04.2016, n. 50, c.d. codice dei contratti pubblici, di partecipare alle gare per l’affidamento dei servizi di architettura ed ingegneria.
   II. – Una fondazione di diritto privato, costituita ai sensi dell’art. 14 c.c., desiderando partecipare a gare d’appalto indette da amministrazioni locali per l’affidamento del servizio di classificazione del territorio in base al rischio sismico, trasmetteva all’Anac il modulo necessario per essere iscritta nell’elenco dei soggetti ammessi a partecipare alle gare per l’affidamento di servizi di architettura e ingegneria, previsto dall’art. 46 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Tuttavia, l’Anac, nel respingere la relativa richiesta, osservava che le fondazioni non rientrano tra i soggetti previsti dall’art. 46, primo comma, d.lgs. n. 50 del 2016, precisando che i soggetti tenuti agli obblighi di comunicazione dei propri dati all’Autorità sono solo quelli previsti dall’art. 6 del decreto 02.12.2016, n. 263 del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. La ricorrente proponeva quindi ricorso avverso tale nota.
   III. – Con l’ordinanza in rassegna, il collegio, dopo aver analizzato la normativa interna ed europea, ha osservato che:
      a) con riferimento al diritto nazionale:
         a1) l’art. 46 d.lgs. n. 50 del 2016 individua gli operatori economici che possono partecipare alle gare per l’affidamento dei contratti;
         a2) il citato d.m. n. 263 del 2016 disciplina in maniera differenziata i soggetti che intendono partecipare a gare per l’affidamento di servizi di architettura e ingegneria, distinguendo i vari operatori economici in “professionisti singoli o associati”, “società di professionisti”, “società di ingegneria”, “raggruppamenti temporanei” e “consorzi stabili di società di professionisti e di società di ingegneria e dei GEIE”, ponendo per ciascuno di essi l’obbligo di inserire ed indicare, nell’organigramma, i soggetti impiegati per funzioni professionali e tecniche;
         a3) i servizi attinenti alla sismologia e alla classificazione del territorio in base al rischio sismico rientrano, a tutti gli effetti, nel concetto di servizi di architettura e ingegneria e altri servizi tecnici di cui all’art. 3, comma 1, lett. vvvv), d.lgs. n. 50 del 2016;
         a4) l’art. 45 d.lgs. n. 50 del 2016 accoglie una concezione molto vasta di operatore economico tale da potervi astrattamente includere anche gli enti senza scopo di lucro;
         a5) tuttavia, il citato art. 46 stabilisce che alle gare per l’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria sono ammesse solo persone fisiche che rendono tali servizi a titolo professionale ovvero società di ingegneria o comunque società costituite tra simili professionisti; deve trattarsi di società con finalità di lucro costituite ai sensi del Libro V del Codice civile. Possono poi concorrere i gruppi europei di interesse economico, ovvero raggruppamenti temporanei o consorzi stabili, costituiti comunque tra società di ingegneria o società regolate dal Libro V del Codice civile italiano;
         a6) il citato art. 46 –norma speciale rispetto all’art. 45– quindi, non include le fondazioni e, in generale, gli enti senza scopo di lucro tra i soggetti ammessi a partecipare alle gare per l’affidamento dei servizi in questione. Tale interpretazione è confermata dal d.m. n. 263 del 2016 che, nell’indicare i requisiti che devono possedere i soggetti che intendono partecipare a gare per l’affidamento dei detti servizi, prende in considerazione solo i soggetti indicati dall’art. 46;
         a7) la limitazione posta dal legislatore interno si può spiegare con la delicatezza dei servizi in questione, l’elevata professionalità richiesta per garantirne la qualità e la presunzione che i soggetti che erogano tali servizi in via continuativa a titolo professionale e remunerato siano maggiormente affidabili per la continuità della pratica e dell’aggiornamento professionale;
      b) con riferimento al diritto europeo, la direttiva 2014/24/UE prevede tra l’altro che:
         b1) al “considerando” n. 14, “la nozione di «operatori economici» dovrebbe essere interpretata in senso ampio, in modo da comprendere qualunque persona e/o ente che offre sul mercato la realizzazione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi, a prescindere dalla forma giuridica nel quadro della quale ha scelto di operare. Pertanto imprese, succursali, filiali, partenariati, società cooperative, società a responsabilità limitata, università pubbliche o private e altre forme di enti diverse dalle persone fisiche dovrebbero rientrare nella nozione di operatore economico, indipendentemente dal fatto che siano «persone giuridiche» o meno in ogni circostanza”;
         b2) all’art. 19, primo comma, “Gli operatori economici che, in base alla normativa dello Stato membro nel quale sono stabiliti, sono autorizzati a fornire la prestazione di cui trattasi, non possono essere respinti soltanto per il fatto che, secondo la normativa dello Stato membro nel quale è aggiudicato l’appalto, essi avrebbero dovuto essere persone fisiche o persone giuridiche. Tuttavia, per gli appalti pubblici di servizi e di lavori nonché per gli appalti pubblici di forniture che comportano anche servizi o lavori di posa in opera e di installazione, alle persone giuridiche può essere imposto d’indicare, nell’offerta o nella domanda di partecipazione, il nome e le qualifiche professionali delle persone incaricate di fornire la prestazione per l’appalto di cui trattasi”;
         b3) all’art. 80, secondo comma, “L’ammissione alla partecipazione ai concorsi di progettazione non può essere limitata: al territorio di un solo Stato membro o a una parte di esso; dal fatto che i partecipanti, secondo il diritto dello Stato membro in cui si svolge il concorso, debbano essere persone fisiche o persone giuridiche…”;
      c) durante la vigenza della direttiva 2004/18/CE, con riferimento all’art. 34 del d.lgs. n. 163 del 2006, la Corte di giustizia CE, sezione IV, 23.12.2009, C-305/08, Cons. naz. interuniversitario scienze mare c. Reg. Marche (Urbanistica e appalti, 2010, 551, con nota di DE PAULI; Appalti & Contratti, 2010, fasc. 1, 96, con nota di DE NARDI; Foro amm.-Cons. Stato, 2009, 2776; Giurisdiz. amm., 2009, III, 970; Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2010, 861, con nota di DORACI; Dir. e pratica amm., 2010, fasc. 5, 48, con nota di PETULLÀ; Rass. avv. Stato, 2010, fasc. 1, 54; Arch. giur. oo. pp., 2010, 207; Riv. amm. appalti, 2010, 51; Raccolta, 2009, I, 12129) ha ritenuto che le norme europee dovevano essere interpretate nel senso che:
         c1) consentono a soggetti che non perseguono un preminente scopo di lucro, non dispongono della struttura organizzativa di un’impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato, quali le università e gli istituti di ricerca nonché i raggruppamenti costituiti da università e amministrazioni pubbliche, di partecipare a un appalto di servizi;
         c2) ostano a una normativa nazionale che vieti a soggetti che non perseguono un preminente scopo di lucro di partecipare a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, benché siffatti soggetti siano autorizzati dal diritto nazionale ad offrire sul mercato i servizi oggetto dell’appalto considerato;
      d) l’ampio concetto di operatore economico disegnato dalla Corte di giustizia risulta accolto dal legislatore italiano nell’art. 45 d.lgs. n. 50 del 2016, che ha tuttavia adottato un concetto più ristretto per l’affidamento dei servizi di architettura ed ingegneria;
      e) la giurisprudenza europea riguarda una norma di portata generale, ma può dubitarsi del fatto che tale principio debba trovare sempre automatica applicazione o se, invece, possa essere derogato in taluni specifici casi;
      f) il tenore letterale degli artt. 19, comma 1, e 80, comma 2, della direttiva 2014/24/UE sembra implicitamente lasciare spazio alla possibilità che uno Stato membro possa circoscrivere la partecipazione solo a persone fisiche o a determinate persone giuridiche, peraltro precisando che l’operatore economico straniero, autorizzato nel proprio paese ad erogare la prestazione oggetto di gara sotto una diversa forma giuridica, debba comunque essere ammesso alla gara;
      g) pertanto, sembra possibile ritenere che la direttiva 2014/24/UE abbia lasciato agli Stati membri la possibilità di adottare, con riferimento a determinate prestazioni, un concetto di operatore economico circoscritto, includente solo determinate forme giuridiche;
      h) con riferimento all’interesse transfrontaliero della questione,
         h1) operatori economici stranieri potrebbero sentirsi obbligati, al fine di concorrere a questo tipo di gare indette da un’amministrazione aggiudicatrice italiana, a stabilirsi preventivamente in Italia, assumendo una delle forme giuridiche indicate dall’art. 46 d.lgs. n. 50 del 2016;
         h2) l’esclusione di alcuni operatori economici nazionali dalla possibilità di partecipare alle gare per l’affidamento dei servizi di architettura ed ingegneria è comunque idonea a creare un effetto distorsivo della concorrenza rispetto ad una tipologia di servizi che rappresenta un settore di indubbio interesse anche per gli operatori economici stranieri.
   IV. – Per completezza si segnala che:
      i) con riferimento alla nozione di operatore economico nella giurisprudenza europea, si veda Corte di giustizia CE, sezione IV, 23.12.2009, C-305/08 Cons. naz. interuniversitario scienze mare c. Reg. Marche, cit., secondo cui, tra l’altro:
         i1) “la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che essa osta all'interpretazione di una normativa nazionale che vieti a soggetti che, come le università e gli istituti di ricerca, non perseguono un preminente scopo di lucro, di partecipare a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, benché siffatti soggetti siano autorizzati dal diritto nazionale ad offrire sul mercato i servizi oggetto dell'appalto considerato”;
         i2) “le disposizioni della direttiva del parlamento europeo e del consiglio 31.03.2004, 2004/18/Ce, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, ed in particolare quelle di cui al suo art. 1, n. 2, lett. a), e 8, 1º e 2º comma, che si riferiscono alla nozione di «operatore economico», devono essere interpretate nel senso che consentono a soggetti che non perseguono un preminente scopo di lucro, non dispongono della struttura organizzativa di un'impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato, quali le università e gli istituti di ricerca nonché i raggruppamenti costituiti da università e p.a., di partecipare ad un appalto pubblico di servizi”;
      j) con riferimento alla fornitura dei servizi di trasporto sanitario di urgenza ed emergenza si vedano:
         j1) Cons. Stato, sezione III, ordinanza 05.11.2018, n. 6264 (oggetto della News US, in data 15.11.2018, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali), secondo cui vanno rimesse alla Corte di giustizia UE “le seguenti questioni pregiudiziali: se, nel caso in cui le parti sono entrambi enti pubblici, il 28° considerando, l’art. 10 e l’art. 12, par. 4, della direttiva 2014/24/UE ostino alla applicabilità di una norma nazionale (quale l’art. 5, in combinato disposto con gli artt. 1, 2, 3 e 4, della legge della Regione Veneto n. 26 del 2012) che, per l’affidamento del servizio di trasporto ordinario dei pazienti in ambulanza, impone –anziché meramente facoltizzare– il convenzionamento tra diversi enti pubblici, secondo lo schema del partenariato c.d. pubblico-pubblico (di cui al predetto art. 12, par. 4, ed agli artt. 5, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016 e 15 della legge n. 241 del 1990), in luogo dello svolgimento di una gara ad evidenza pubblica; se, nel caso in cui le parti sono entrambi enti pubblici, il 28° considerando, l’art. 10 e l’art. 12, par. 4, della direttiva 2014/24/UE ostino alla applicabilità delle richiamate disposizioni della legge della Regione Veneto n. 26 del 2012, sulla base del partenariato pubblico-pubblico di cui al predetto art. 12, par. 4, ed agli artt. 5, comma 6, del d.lgs. 50/2016 e 15 della legge 241/1990, nel limitato senso di obbligare la stazione appaltante ad esternare la motivazioni della scelta di affidare il servizio di trasporto sanitario ordinario mediante gara, anziché mediante convenzionamento diretto”;
         j2) Corte di giustizia UE, sezione V, 28.01.2016, C-50/14, Casta (in Foro it., 2016, IV, 142, nonché in Guida al dir., 2016, 9, 104, con nota di CASTELLANETA), secondo cui “qualora uno Stato membro consenta alle autorità pubbliche di ricorrere direttamente ad associazioni di volontariato per lo svolgimento di determinati compiti, un’autorità pubblica che intenda stipulare convenzioni con associazioni siffatte non è tenuta, ai sensi del diritto dell’Unione, a una previa comparazione delle proposte di varie associazioni” e che, qualora dette associazioni siano altresì autorizzate, dalla normativa interna, ad esercitare anche determinate attività commerciali, spetta allo Stato membro di “fissare i limiti entro i quali le suddette attività possono essere svolte; detti limiti devono tuttavia garantire che le menzionate attività commerciali siano marginali rispetto all’insieme delle attività di tali associazioni, e siano di sostegno al perseguimento dell’attività di volontariato di queste ultime”;
         j3) Corte di giustizia UE, 11.12.2014, C-113/13, Asl 5, Spezzino c. Soc. coop. sociale S. Lorenzo (Giurisdiz. amm., 2014, ant., 489; Foro it., 2015, IV, 145, con nota di ALBANESE, La Corte di giustizia rimedita sul proprio orientamento in materia di affidamento diretto dei servizi sociali al volontariato (ma sembra avere paura del proprio coraggio); Quaderni dir. e politica ecclesiastica, 2015, 554; Urbanistica e appalti, 2015, 508, con nota di CARANTA; Ragiusan, 2015, fasc. 369, 74; Rass. dir. farmaceutico, 2015, 198; Dir. comm. internaz., 2015, 809, con nota di GRECO), secondo cui, tra l’altro, “gli art. 49 Tfue e 56 Tfue devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale che, come quella in discussione nel procedimento principale, prevede che la fornitura dei servizi di trasporto sanitario di urgenza ed emergenza debba essere attribuita in via prioritaria e con affidamento diretto, in mancanza di qualsiasi pubblicità, alle associazioni di volontariato convenzionate, purché l'ambito normativo e convenzionale in cui si svolge l'attività delle associazioni in parola contribuisca effettivamente alla finalità sociale e al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza di bilancio su cui detta disciplina è basata”;
      k) osserva ALBANESE, La Corte di giustizia rimedita sul proprio orientamento in materia di affidamento diretto dei servizi sociali al volontariato (ma sembra avere paura del proprio coraggio), cit., che:
         k1) le pronunce della Corte di giustizia, in passato, erano caratterizzate: dalla costante affermazione della rilevanza economica dei servizi di trasporto sanitario di malati, in quanto riferibili a prestazioni offerte sul mercato, rientrando quindi nell’ambito di applicazione delle direttive europee sugli appalti; dal fatto che la natura non lucrativa dei soggetti che erogano i servizi di trasporto sanitario non impedisce che essi vadano qualificati come imprese quando svolgono attività economiche e che, quindi, anche ad esse possano essere applicate procedure di selezione per l’affidamento dei servizi economici di interesse generale previste dalle direttive europee;
         k2) i servizi di trasporto sanitario, di urgenza e non, vengono svolti in molti paesi europei prevalentemente da organizzazioni di volontariato, in collaborazione con le amministrazioni pubbliche preposte al settore, con affidamento in modo diretto e senza procedure selettive aperte agli operatori economici.
Tale scelta era giustificata dal convincimento che l’attività svolta senza scopo di lucro e per motivazioni solidaristiche si attagli alle finalità sociali delle prestazioni erogate meglio di quella di operatori commerciali e dal presupposto per cui l’azione delle associazioni di volontariato si pone al di fuori delle dinamiche del mercato, poiché esse non percepiscono compensi remunerativi, ma solo il rimborso delle spese sostenute;
         k3) la giurisprudenza amministrativa, muovendo da tali considerazioni, era propensa a sostenere l’inammissibilità della partecipazione delle associazioni di volontariato alle gare di appalto, poiché la gratuità delle prestazioni che ne caratterizza l’azione le rende strutturalmente incompatibili con le dinamiche concorrenziali, poiché estranea al mercato;
         k4) il presupposto della gratuità dell’attività delle organizzazioni è stato messo in dubbio dalla giurisprudenza europea che ha spinto i giudici amministrativi italiani a mutare orientamento;
         k5) la sentenza annotata afferma la legittimità della normativa ligure sottoposta al suo esame che prevedeva che i servizi di trasporto sanitario venissero affidati prioritariamente alle organizzazioni no profit a fronte di rimborsi non forfetari, giustificati in base alle spese effettivamente sopportate.
La sentenza muove dal carattere oneroso dei contratti di riferimento e asserisce che la natura no profit dei soggetti affidatari dei servizi non può portare ad escludere l’applicazione delle regole di pubblicità e selezione dei concorrenti, disposte dalle direttive appalti. Tuttavia, la Corte, argomentando dalla Costituzione italiana e dalla normativa italiana che promuove e sostiene il volontariato e le sue finalità, ritiene sussistenti ragioni che consentono di escludere l’applicazione delle norme dell’UE poste a tutela della concorrenza;
         k6) “il principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., nonché quello di solidarietà, sottesi alla legislazione che disciplina la partecipazione delle organizzazioni di volontariato all’erogazione di servizi sanitari, mirano a realizzare finalità sociali e a garantire l’accessibilità e l’universalità delle prestazioni destinate a tutelare la salute pubblica. Esse inoltre concorrono ad assicurare le prestazioni sociali in condizioni di equilibrio economico di bilancio. «Obiettivi di tal genere», sostiene con decisione il giudice europeo, «sono presi in considerazione dal diritto dell’Unione» e l’affermazione non allude evidentemente soltanto all’efficienza economica e al controllo dei costi, assicurati dalla presenza delle organizzazioni non profit (pur ripetutamente ricordati e sottolineati nella motivazione), bensì anche alla necessaria attuazione delle finalità sociali, cui tende la legislazione richiamata”;
         k7) “la corte, in definitiva, nella pronuncia in epigrafe, affermando che la considerazione di valori quali la solidarietà, la sussidiarietà, le finalità sociali, possono condurre a ridimensionare la portata delle garanzie accordate dal diritto Ue alla libertà di prestazione dei servizi, pone in dubbio anche l’idea che «l’efficienza» prodotta dall’applicazione rigida delle regole della concorrenza comporti sempre anche il raggiungimento di risultati di benessere. Anzi, le argomentazioni della corte sembrano per contro sorrette dalla convinzione che la competizione sul mercato difficilmente consenta di assicurare tutela adeguata a «beni di importanza primaria», quali la salute. Altrettanto significativa appare un’ulteriore conseguenza dell’affermazione secondo cui la partecipazione delle organizzazioni di volontariato ai servizi in questione contribuisce al controllo dei costi e all’efficienza economica nell’erogazione di «cure sanitarie di qualità»: essa sembra a contrariis supporre che le regole concorrenziali, generalmente invocate a contrasto degli sprechi e dello sperpero di risorse, non garantiscono sempre e necessariamente tale risultato”;
         k8) anche il diritto europeo lascia quindi uno spazio per gli obiettivi sociali e per la solidarietà, ma lo fa richiamando esclusivamente il diritto interno del nostro Stato;
         k9) al giudice europeo, tuttavia, è mancato il coraggio di andare fino in fondo in quanto “con uno scarto notevole rispetto all’affermazione secondo cui il diritto dell’Unione prende in considerazione «tali obiettivi», la corte suffraga la legittimità della deroga alla direttiva appalti, nel caso della legge ligure, ricordando che il diritto Ue riconosce l’esistenza di uno spazio intangibile di competenza statale nell’organizzazione dei sistemi di sanità pubblica e previdenziali, nel quale è consentito ad uno Stato membro di fondare il proprio sistema sanitario e previdenziale sui valori della solidarietà, anche introducendo restrizioni (purché giustificate) al godimento da parte degli operatori economici dell’esercizio delle libertà fondamentali previste dal trattato per garantire un livello di tutela adeguato ed economicamente sostenibile a diritti sociali, quali la salute”.
In definitiva “sembra che la Corte di giustizia non riesca a trovare altro modo per affermare la rilevanza della solidarietà e delle finalità sociali per il diritto europeo, se non quello di demandarne l’attuazione in esclusiva agli Stati membri, dichiarando anzi che gli ambiti in cui essi possono trovare applicazione appartengono alla sfera «riservata» agli Stati, e così, in definitiva, espellendoli nuovamente dalla sfera di pertinenza del diritto Ue”;
      l) in dottrina, sulle singole categorie di operatori economici qualificati per l’affidamento di servizi di ingegneria ex art. 46 del d.lgs. n. 50 del 2016 e sugli enti privati senza scopo di lucro quali operatori economici idonei in generale, si veda R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 393 ss., e 724 ss., la quale precisa tra l’altro che:
         l1) l’art. 46, primo comma, lett. a), individua la categoria generale dei prestatori di servizi di ingegneria e architettura e le tipologie di prestazioni che rientrano nella loro sfera di attività, mentre nelle successive lettere viene data una più puntuale definizione di alcune delle categorie menzionate, ivi compresa quella generale dei prestatori di servizi;
         l2) nel dettaglio, per i soggetti stabiliti in Italia, sono operatori economici ammessi quelli rientranti nella citata lett. a), mentre per i soggetti stabiliti in altri Stati membri, gli operatori economici ammessi devono avere la qualità di prestatore di servizi inerenti l’ingegneria e l’architettura secondo l’ordinamento di provenienza;
         l3) a un decreto ministeriale attuativo è demandata la fissazione dei requisiti che devono possedere i soggetti di cui all’art. 46, primo comma, e dei criteri per garantire la presenza di giovani professionisti, in forma singola o associata, nei gruppi concorrenti ai bandi relativi a incarichi di progettazione, concorsi di progettazione e di idee;
         l4) nella giurisprudenza più recente si ritiene che gli enti privati senza fine di lucro possano partecipare alle gare per l’affidamento di appalti pubblici diversi dai servizi di architettura e ingegneria. L’assenza di fine di lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici, come costantemente ritenuto anche dalla giurisprudenza europea.
Nel caso in cui il bando richieda come requisito soggettivo il possesso dell’iscrizione alla Camera di commercio, di cui tali associazione normalmente difettano, tale prescrizione si pone, in difetto di impugnazione e annullamento del bando, come causa ostativa alla partecipazione; nel caso in cui il bando non dica nulla, si ritiene che il certificato di iscrizione non sia requisito indefettibile e le amministrazioni possano essere ammesse alla gara.
Ulteriore questione è quella della disparità di trattamento tra operatori economici che potenzialmente deriva dalla partecipazione alle gare degli enti no profit, atteso che normalmente gli enti senza fini di lucro fruiscono di finanziamenti pubblici di cui non fruiscono gli imprenditori e che li pongono in condizione di formulare offerte più basse, ma la questione impone una soluzione caso per caso. In particolare, il diritto comunitario: non impedisce la partecipazione agli appalti di enti senza scopo di lucro; consente che possa partecipare a una gara di appalto un soggetto che fruisce di aiuti di stato, purché tali aiuti siano lecitamente conseguiti; richiede che sia fornita la prova concreta che l’ente sia in una posizione di vantaggio;
      m) sulla genesi e l’evoluzione dell’art. 46, anche alla luce delle novità introdotte dal d.l. 18.04.2019, n. 32, “Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici” (cd. “Sblocca cantieri”), convertito con modificazioni in l. 14.06.2019, n. 55 (oggetto della News normativa, n. 74 del 10.07.2019, alla quale si rinvia per approfondimenti), e sul carattere derogatorio, rispetto all’art. 45, dell’elenco dei soggetti abilitati a partecipare alle selezioni per gli affidamenti dei servizi di architettura e ingegneria, S. TOSCHEI, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. SANDULLLI – R. DE NICTOLIS, Milano, 2019, I, Fonti e principi, ambito, programmazione e progettazione, 1393 (TAR Lazio-Roma, Sez. I, ordinanza 28.02.2019 n. 2644 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICAIl Consiglio di Stato ha già avuto modo di richiamare l’attenzione sull’importanza del procedimento di valutazione d’incidenza di piani o progetti che possano avere incidenze significative su un sito naturale, singolarmente o congiuntamente ad altri piani e progetti, e tenuto conto degli obiettivi di conservazione del sito stesso.
La valutazione d’incidenza, per come costantemente interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e delle Corti nazionali, si applica pertanto sia agli interventi che ricadono all’interno delle aree Natura 2000 (e delle Zone di protezione speciale), sia a quelli che, pur collocandosi all’esterno, possono comportare ripercussioni sullo stato di conservazione dei valori naturali tutelati nel sito.
L’art. 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43, infatti, subordina il requisito dell’opportuna valutazione dell’incidenza di un piano o di un progetto alla condizione che vi sia una probabilità o un rischio che quest’ultimo pregiudichi significativamente il sito interessato. Tenuto conto, in particolare, del principio di precauzione, un tale rischio esiste qualora non possa escludersi, sulla base di elementi obiettivi, che detto piano o progetto pregiudichi significativamente il sito interessato.
La valutazione del rischio dev’essere effettuata segnatamente alla luce delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche del sito interessato da tale piano o progetto.
Nel contesto normativo italiano la valutazione di incidenza (VINCA) viene disciplinata dall’art. 6 del d.p.r. n. 120/2003, che ha sostituito l’art. 5 del d.p.r. n. 357/1997, di attuazione dei paragrafi 3 e 4 della citata direttiva “Habitat”.
È specificamente previsto che nella pianificazione e programmazione territoriale si debba tenere conto della valenza naturalistico-ambientale dei proposti siti di importanza comunitaria, dei siti di importanza comunitaria e delle zone speciali di conservazione.
Sono, altresì, da sottoporre a valutazione di incidenza (comma 3), tutti gli interventi non direttamente connessi e necessari al mantenimento in uno stato di conservazione soddisfacente delle specie e degli habitat presenti in un sito Natura 2000, ma che possono avere incidenze significative sul sito stesso, singolarmente o congiuntamente ad altri interventi.
L’obiettivo di tutela che, pertanto, si prefigge il Legislatore, europeo e nazionale, è quello massimo di conservazione dei siti, sia in via diretta (per piani e progetti da ubicarsi all’interno dei siti protetti) sia in via indiretta (per piani e progetti da ubicarsi al di fuori del perimetro delle dette aree, ma idonei comunque ad incidere, per le caratteristiche tecniche del progetto o la collocazione degli impianti o la conformazione del territorio, sulle caratteristiche oggetto di protezione), con attenzione sia all’impatto singolo del progetto specificamente sottoposto a valutazione, sia all’impatto cumulativo che potrebbe prodursi in connessione con altro e diverso piano o progetto.
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12.5. Pure da accogliere è il quarto motivo di appello, concernente l’impatto dell’inceneritore sulla conservazione dei siti naturali (aree naturali protette, zone di protezione speciale e siti di importanza comunitaria) e l’incidenza dei venti.
In un proprio precedente giurisprudenziale, il Consiglio di Stato (Sezione IV, sentenza n. 4327 del 2017) ha già avuto modo di richiamare l’attenzione sull’importanza del procedimento di valutazione d’incidenza di piani o progetti che possano avere incidenze significative su un sito naturale, singolarmente o congiuntamente ad altri piani e progetti, e tenuto conto degli obiettivi di conservazione del sito stesso.
La valutazione d’incidenza, per come costantemente interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e delle Corti nazionali, si applica pertanto sia agli interventi che ricadono all’interno delle aree Natura 2000 (e delle Zone di protezione speciale), sia a quelli che, pur collocandosi all’esterno, possono comportare ripercussioni sullo stato di conservazione dei valori naturali tutelati nel sito.
L’art. 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43, infatti, subordina il requisito dell’opportuna valutazione dell’incidenza di un piano o di un progetto alla condizione che vi sia una probabilità o un rischio che quest’ultimo pregiudichi significativamente il sito interessato. Tenuto conto, in particolare, del principio di precauzione, un tale rischio esiste qualora non possa escludersi, sulla base di elementi obiettivi, che detto piano o progetto pregiudichi significativamente il sito interessato.
La valutazione del rischio dev’essere effettuata segnatamente alla luce delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche del sito interessato da tale piano o progetto.
Nel contesto normativo italiano la valutazione di incidenza (VINCA) viene disciplinata dall’art. 6 del d.p.r. n. 120/2003 (in G.U. n. 124 del 30.05.2003), che ha sostituito l’art. 5 del d.p.r. n. 357/1997, di attuazione dei paragrafi 3 e 4 della citata direttiva “Habitat”.
È specificamente previsto che nella pianificazione e programmazione territoriale si debba tenere conto della valenza naturalistico-ambientale dei proposti siti di importanza comunitaria, dei siti di importanza comunitaria e delle zone speciali di conservazione.
Sono, altresì, da sottoporre a valutazione di incidenza (comma 3), tutti gli interventi non direttamente connessi e necessari al mantenimento in uno stato di conservazione soddisfacente delle specie e degli habitat presenti in un sito Natura 2000, ma che possono avere incidenze significative sul sito stesso, singolarmente o congiuntamente ad altri interventi.
L’obiettivo di tutela che, pertanto, si prefigge il Legislatore, europeo e nazionale, è quello massimo di conservazione dei siti, sia in via diretta (per piani e progetti da ubicarsi all’interno dei siti protetti) sia in via indiretta (per piani e progetti da ubicarsi al di fuori del perimetro delle dette aree, ma idonei comunque ad incidere, per le caratteristiche tecniche del progetto o la collocazione degli impianti o la conformazione del territorio, sulle caratteristiche oggetto di protezione), con attenzione sia all’impatto singolo del progetto specificamente sottoposto a valutazione, sia all’impatto cumulativo che potrebbe prodursi in connessione con altro e diverso piano o progetto (Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 14.10.2014, n. 5092).
Alla luce di tale quadro normativo, pertanto, si sarebbero dovuti sentire gli enti di gestione preposti, valutando l’impatto dell’impianto singolarmente considerato e cumulativamente rispetto ad altri piani o progetti, tenuto conto delle concrete caratteristiche dei luoghi (direzione dei venti) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.01.2019 n. 505 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine all'impugnativa dei titoli edilizi è nel senso che il termine per impugnare decorre dal momento in cui divenga percepibile la piena portata dell'intervento medesimo, onde poterne apprezzare l’eventuale lesività dei propri interessi.
Come sostenuto in modo esaustivo da questo TAR <<… per quanto attiene titoli edificatori, lo stesso Giudice d’appello ha rilevato che “il principio secondo cui, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione di una concessione edilizia da parte di un proprietario di immobile limitrofo occorre la piena conoscenza della stessa, che si verifica con la consapevolezza del contenuto specifico della concessione o del progetto edilizio ovvero quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali caratteristiche dell’opera, va applicato tenendo conto della singola fattispecie e alla luce dei motivi di impugnazione fatti valere dal ricorrente.
Laddove … un soggetto, diverso da quelli cui l’atto è stato rilasciato, impugni un titolo edilizio sulla base dell’asserita divergenza dell’intervento realizzato (o in corso di realizzazione) con quello astrattamente autorizzabile in base alla disciplina urbanistica vigente, deve essere ribadita la regola di giudizio, secondo cui la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione deve essere collegata alla data in cui risulti certa la percepibilità –da parte di chi propone il ricorso– della concreta entità dell’intervento o della sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
Di conseguenza, nel caso d’impugnazione del titolo edilizio ordinario, il termine di decadenza −salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata o successiva del provvedimento abilitativo− decorre, secondo una consolidata giurisprudenza, da quando vi sia il completamento dei lavori e questi siano visibili, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento in precedenza assentito e sia dunque giuridicamente configurabile l’inerzia rispetto alla possibilità di ricorrere>>.
Altresì, vanno richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza circa la decorrenza del termine di impugnazione di titoli edilizi in forza dei quali:
   “a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che (come nel caso di specie) è data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso;
   b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
   c) al momento della constatazione della presenza dello scavo è possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
   d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali".
Se il termine per ricorrere in sede giurisdizionale contro il rilascio del titolo abilitativo decorre dalla data in cui è palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, ciò si verifica quando è percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto, la sua effettiva incidenza sulla propria posizione giuridica e l’eventuale non conformità alla disciplina urbanistico edilizia.
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0.1 I controinteressati eccepiscono la tardività dell’impugnazione degli 8 titoli abilitativi (concessioni edilizie, permesso di costruire, certificato di agibilità, DIA, puntualmente enunciati al paragrafo D dell’esposizione in fatto), in quanto gli interventi edilizi assentiti sono stati ultimati negli anni 2003/2004, e il confinante non poteva non esserne a conoscenza; allo stesso modo, le due autorizzazioni per l’esercizio dell’attività sono state emesse nel 2000 e nel 2006, e già a quell’epoca l’esponente ha preso cognizione dell’avvio (e dello svolgimento) dell’attività ricettiva.
L’eccezione è fondata.
0.1a Il TAR Campania-Napoli (con sentenza della sez. III – 21/09/2018 n. 5571, che risulta appellata) ha sostenuto che il consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine all'impugnativa dei titoli edilizi, è nel senso che il termine per impugnare decorre dal momento in cui divenga percepibile la piena portata dell'intervento medesimo, onde poterne apprezzare l’eventuale lesività dei propri interessi.
Come sostenuto in modo esaustivo da questo TAR (cfr. sez. I – 18/12/2017 n. 1453) <<… per quanto attiene titoli edificatori, lo stesso Giudice d’appello (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 25.10.2017 n. 4931) ha rilevato cheil principio secondo cui, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione di una concessione edilizia da parte di un proprietario di immobile limitrofo occorre la piena conoscenza della stessa, che si verifica con la consapevolezza del contenuto specifico della concessione o del progetto edilizio ovvero quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali caratteristiche dell’opera (ex plurimis: C.G.A.R.S. Sez. I, 28.05.2007 n. 421; Consiglio Stato Sez. V, 23.09.2005 n. 5033), va applicato tenendo conto della singola fattispecie e alla luce dei motivi di impugnazione fatti valere dal ricorrente.
Laddove … un soggetto, diverso da quelli cui l’atto è stato rilasciato, impugni un titolo edilizio sulla base dell’asserita divergenza dell’intervento realizzato (o in corso di realizzazione) con quello astrattamente autorizzabile in base alla disciplina urbanistica vigente, deve essere ribadita la regola di giudizio, secondo cui la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione deve essere collegata alla data in cui risulti certa la percepibilità –da parte di chi propone il ricorso– della concreta entità dell’intervento o della sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
Di conseguenza, nel caso d’impugnazione del titolo edilizio ordinario, il termine di decadenza −salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata o successiva del provvedimento abilitativo− decorre, secondo una consolidata giurisprudenza, da quando vi sia il completamento dei lavori e questi siano visibili, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento in precedenza assentito e sia dunque giuridicamente configurabile l’inerzia rispetto alla possibilità di ricorrere (cfr. Consiglio di Stato, IV, 23.07.2009, n. 4616; Consiglio di Stato, IV, 10.12.2007, n. 6342)>>
.
Nello stesso senso, Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3067, che ha richiamato i principi elaborati dalla giurisprudenza circa la decorrenza del termine di impugnazione di titoli edilizi (Cons. Stato, sez. IV, n. 1135 del 2016 e 4701 del 2016), in forza dei quali:
   “a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che (come nel caso di specie) è data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso;
   b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
   c) al momento della constatazione della presenza dello scavo è possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
   d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali
".
0.1b Se il termine per ricorrere in sede giurisdizionale contro il rilascio del titolo abilitativo decorre dalla data in cui è palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, ciò si verifica quando è percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto, la sua effettiva incidenza sulla propria posizione giuridica e l’eventuale non conformità alla disciplina urbanistico edilizia (TAR Campania-Napoli, sez. VIII – 15/05/2018 n. 3185; Consiglio di Stato, sez. IV – 17/01/2018 n. 245).
0.1c Nella propria memoria di replica del 27/11/2018, parte ricorrente obietta che la percezione della lesione patita non può essere dimostrata in via ipotetica (per cui il Sig. Ma. “non poteva non sapere”) occorrendo la prova rigorosa della “piena conoscenza” da parte di colui che eccepisce la tardività, che nella fattispecie non sarebbe stata fornita dai controinteressati.
Detto ordine di idee non è persuasivo.
0.1d Come sopra sottolineato, la “piena conoscenza” si realizza in coincidenza con il completamento dei lavori, mentre la necessità della “prova” si pone qualora venga dedotta una conoscenza anticipata rispetto alla conclusione delle opere.
Nel caso all’esame, i controinteressati sostengono che i lavori di ristrutturazione contestati sono stati ultimati tra il 2003 e il 2004. La circostanza è comprovata dalle date delle autorizzazioni all’esercizio dell’attività (n. 3 del 23/10/2000 e n. 1 del 03/04/2005) e dei certificati di agibilità (n. 7/2004 e n. 29 del 25/11/2003, pur se il Comune non dispone di copia di quest’ultimo), che giuridicamente e logicamente presuppongono l’intervenuta conclusione degli interventi.
Rispetto alla scansione temporale indicata il ricorrente (il quale è pacificamente proprietario della porzione immobiliare limitrofa, comprendente il mappale 93) non poteva non avvedersi con immediatezza dell’avvenuta realizzazione di un manufatto con caratteristiche diverse da quelle originarie, e con una destinazione d’uso peculiare (ricettiva).
Ciononostante, egli ha atteso diversi anni per proporre impugnazione, mentre era suo onere gravare gli atti abilitativi nel termine decadenziale dall’acquisita conoscenza. Pertanto, il ricorso proposto contro i titoli edilizi (n. 8) e le autorizzazioni all’esercizio dell’attività (n. 2), a circa 7 anni dal rilascio dell’ultimo certificato di agibilità, è irricevibile per tardività (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.01.2019 n. 70 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Poteri di controllo sulla legittimazione alla richiesta del titolo abilitativo.
Il TAR Brescia, con riferimento ai poteri di controllo sulla legittimazione alla richiesta del titolo abilitativo chiarisce che:
   - in base all’art. 11, comma 1, del DPR 380/2001, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario;
   - il controllo sulla legittimazione all’istanza del titolo abilitativo va esercitato con serietà e rigore, dovendo pertanto l’autorità pubblica accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria;
   - l’onere del Comune è dunque quello ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio, senza che l’Ente locale debba comprovare –prima del rilascio– la “pienezza” (nel senso di assenza di limitazioni) del titolo medesimo, dato che ciò comporterebbe l’attribuzione all’amministrazione di un potere di accertamento della sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro “contenuto”, ad essa non assegnato dall’ordinamento;
   - in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’Ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici, sicché l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta edificatoria, salvo che sia manifestamente riconoscibile l’effettiva insussistenza della piena disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio in relazione al tipo di intervento richiesto;
   - l’accertamento demandato all’Ente locale va compiuto con serietà e rigore, e la più recente giurisprudenza, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.01.2019 n. 70 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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0.2 I controinteressati sostengono altresì che il ricorso è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse in quanto, successivamente all’impugnata nota del 06/06/2011, il Comune ha avviato un secondo procedimento di verifica dei titoli abilitativi rilasciati ai controinteressati, concluso con nota 27/04/2012 che sospende ogni determinazione sino alla definizione del giudizio incardinato presso il giudice ordinario per l’accertamento della proprietà del mappale n. 92.
Detta nota –trasmessa anche all’indirizzo del ricorrente come si evince dalla corrispondenza intercorsa (si vedano i doc. 8 e 11 dei controinteressati)– non è stata ritualmente gravata, per cui il Sig. Ma. non può vantare alcun interesse alla decisione del ricorso.
Anche detta eccezione è fondata.
0.2a Come sostenuto dalla difesa dei controinteressati, in caso di annullamento del provvedimento 06/06/2011, il procedimento avviato per verificare la legittimità dei titoli abilitativi rilasciati rimarrebbe sospeso in forza della nota 27/04/2012, non contestata sede giurisdizionale. Si è peraltro già rilevato che il Sig. Ma. –nell’ambito del giudizio promosso dai controinteressati (e radicato presso questo TAR al n. 688/2013 r.g.)– ha accettato di attendere la risoluzione della controversia petitoria prima di dare esecuzione alle opere assentite sull’unità immobiliare (cfr. verbale d’udienza e ordinanza collegiale di questa Sezione 03/09/2013 n. 753).
0.2b Nella memoria di replica, parte ricorrente qualifica l’atto 27/04/2012 come “soprassessorio”, a mezzo del quale il Comune “ha deciso di non decidere” sospendendo il procedimento sino alla definizione del giudizio presso il Tribunale di Mantova per l’accertamento della proprietà del mappale 92.
0.2c Al riguardo, va obiettato anzitutto che è pienamente ammissibile la denuncia dell’illegittimità di un provvedimento soprassessorio, avvalendosi dei rimedi previsti per il silenzio amministrativo. Come ha statuito questo TAR (cfr. sez. II – 23/03/2016 n. 442) <<Se, infatti, il processo amministrativo non è più soltanto rivolto all’annullamento di un provvedimento, e alla necessità stabilita dalle norme sostanziali (art. 2 della L. 241/1990) di ottenere la conclusione del procedimento con un atto espresso ha fatto seguito la possibilità di equiparare in giudizio l’atto soprassessorio al silenzio (cfr. TAR Liguria – 28/09/2015 n. 753 e la giurisprudenza ivi richiamata) … l’atto soprassessorio, il quale determini una definitiva interruzione del procedimento, ha un contenuto sostanzialmente reiettivo dell'istanza del privato … nel rinviare il soddisfacimento dell'interesse pretensivo a un accadimento futuro e incerto nel quando, lo stesso determina un arresto a tempo indeterminato del procedimento amministrativo, ledendo in via immediata la posizione giuridica dell'interessato per cui, come tale, costituisce un'eccezione alla regola per la quale l’atto endo-procedimentale non è autonomamente impugnabile (cfr. TAR Sicilia Palermo, sez. II – 26/05/2015 n. 1243)>>. Più recentemente, e nello stesso senso, si segnala TAR Campania Salerno, sez. II – 10/07/2018 n. 1055.
0.2d Quanto all’ulteriore profilo, la declaratoria di improcedibilità di un gravame giurisdizionale è ancorata al rigido e inequivocabile accertamento dei suoi presupposti legittimanti nel processo amministrativo, e dunque può essere pronunciata al verificarsi di una situazione di fatto o di diritto nuova, che muta radicalmente la situazione esistente al momento della proposizione del ricorso: tale sopravvenienza, inoltre, deve essere tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza, per aver fatto venir meno per il ricorrente qualsiasi residua utilità della pronuncia, anche soltanto strumentale o morale (cfr. Consiglio di Stato, sez. II – parere 13/11/2018 n. 2612; sentenza Sezione 01/03/2018 n. 247).
Va sul punto ribadito che la caducazione del provvedimento 06/06/2011 non si ripercuoterebbe automaticamente sull’atto 27/04/2012, non ritualmente contestato in giudizio, e dunque si perpetuerebbe comunque la sospensione del procedimento avviato per la rimozione in autotutela dei titoli edilizi pregressi.
1. In ogni caso, è opinione del Collegio che il ricorso sia anche infondato nel merito, per le ragioni sinteticamente illustrate di seguito:
   - in base all’art. 11, comma 1, del DPR 380/2001 il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario (Consiglio di Stato, sez. IV – 28/03/2018 n. 1949, il quale ha precisato che “il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (Cons. Stato, sez. IV, n. 4818/2014 cit.; in senso conforme, sez. V, 04.04.2012 n. 1990)”;
   - il controllo sulla legittimazione all’istanza del titolo abilitativo va esercitato con serietà e rigore, dovendo pertanto l’autorità pubblica accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (Consiglio di Stato, sez. IV – 25/05/2018 n. 3143);
   - l’onere del Comune è dunque quello ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio, senza che l’Ente locale debba comprovare –prima del rilascio– la “pienezza” (nel senso di assenza di limitazioni) del titolo medesimo, dato che ciò comporterebbe l’attribuzione all’amministrazione di un potere di accertamento della sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro “contenuto”, ad essa non assegnato dall’ordinamento;
   - in linea di diritto, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’Ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici, sicché l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta edificatoria, salvo che sia manifestamente riconoscibile l’effettiva insussistenza della piena disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio in relazione al tipo di intervento richiesto (Consiglio di Stato, sez. VI – 05/04/2018 n. 2121);
   - l’accertamento demandato all’Ente locale va compiuto con “serietà e rigore”, e “la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili” (Consiglio di Stato, sez. IV – 20/04/2018 n. 2397);
   - nella fattispecie, l’amministrazione ha rilasciato i titoli abilitativi ai controinteressati alla luce delle dichiarazioni e dei documenti allegati alle pratiche edilizie dell’epoca;
   - nel momento in cui parte ricorrente ha segnalato (cfr. suo doc. 6) anomalie e vizi nell’emissione delle concessioni edilizie e in generale degli atti autorizzatori, il Comune si è attivato e ha approfondito la questione, nel contraddittorio delle parti;
   - l’instaurazione di un giudizio petitorio (che tra l’altro, nel processo di primo grado, ha visto il riconoscimento della pretesa dei controinteressati, a favore dei quali è stato accertato l’acquisto del mappale n. 92 per usucapione) ha correttamente indotto l’amministrazione ad arrestare il procedimento di verifica, in attesa dell’esito definitivo;
   - la controversia sulla proprietà dell’immobile coltivata in sede giudiziaria, che vede le parti su posizioni contrapposte, giustifica e legittima la scelta del Comune di attendere l’accertamento del giudice ordinario prima di assumere qualsiasi determinazione irreversibile sui titoli abilitativi rilasciati;
   - i vizi del certificato di agibilità non si ripercuotono automaticamente sugli atti autorizzatori presupposti, salvo l’esito dell’accertamento del diritto di proprietà sulla porzione di immobile.
2. In conclusione, il gravame proposto è in parte irricevibile e in parte improcedibile (e comunque è infondato nel merito).

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