|
|
Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica
gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).
-
segnala un
errore nei links
|
|
AGGIORNAMENTO AL 06.11.2019 |
ã |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
distinzione
tra invalidità ad effetto caducante ed
invalidità ad effetto viziante. |
In materia
di ambiente-ecologia: |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti
succedutisi nel tempo non sussiste un rapporto di
consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto
presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda
automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale è infatti nel
senso che in presenza di vizi accertati dell'atto
presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto
caducante e invalidità a effetto viziante, nel
senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto
presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante,
ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga
a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale
quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque,
la necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi.
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso
della successione cronologica di atti di pianificazione
generale, anche quando il piano successivo si ponga come
mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come detto,
comporta l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo.
---------------
Va richiamata la distinzione -assolutamente netta nei
diversi arresti giurisprudenziali che hanno affrontato la
questione- tra atto di conferma ed atto meramente
confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto
amministrativo sia meramente confermativo (e perciò
non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e,
quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini),
occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o
meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione
degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento
di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame
degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la
fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente
confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un
provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando
l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un
suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione.
---------------
5. Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti della
Regione Sardegna succedutisi nel tempo non sussiste un
rapporto di consequenzialità tale che, essendo stato
impugnato l’atto presupposto, l’accertata invalidità di
questo si estenda automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale, richiamato
dall’appellante, è infatti nel senso che in presenza di vizi
accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante,
ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga
a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale
quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque,
la necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato,
V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013,
n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI,
27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n.
8243).
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso
della successione cronologica di atti di pianificazione
generale, anche quando il piano successivo si ponga come
mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come
detto, comporta l’avvio di un nuovo procedimento
amministrativo.
5.1. Nemmeno giova all’appellante sostenere che il Piano
approvato nel 2016 sarebbe un atto di conferma del
precedente.
Va in proposito richiamata la distinzione -assolutamente
netta nei diversi arresti giurisprudenziali che hanno
affrontato la questione- tra atto di conferma ed
atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se
un atto amministrativo sia meramente confermativo (e
perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio
(e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei
termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato
adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova
ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento
di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame
degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la
fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente
confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un
provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto meramente
confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare
l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza
compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova
motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 14.04.2014, n.
1805; id., 12.02.2015, n. 758; id., 29.02.2016, n. 812; id,
12.10.2016, n. 4214, nonché, da ultimo, in tema di
successione di strumenti di pianificazione generale, Cons.
Stato, IV, 27.01.2017, n. 357).
Peraltro, nel caso di specie, più che una conferma di
precedenti previsioni di Piano si è avuta la rinnovata
approvazione, a seguito di apposita nuova istruttoria, di
previsioni soltanto conformi, cioè coincidenti, con le
precedenti.
La loro sopravvivenza all’eventuale annullamento di queste
ultime rende improcedibile l’appello per sopravvenuta
carenza di interesse (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.04.2018 n. 2172 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
In materia
di appalti: |
APPALTI: La
giurisprudenza amministrativa, in presenza di vizi accertati dell’atto
presupposto, distingue tra invalidità a effetto caducante e
invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento
dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale,
anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta
efficace ove non impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi,
quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui
l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza
procedimentale quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza
necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di
verificare l’intensità del rapporto di conseguenzialità tra l’atto
presupposto e l’atto successivo, con riconoscimento dell’effetto caducante
solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso
che l’atto successivo si ponga, nell’ambito dello stesso contesto
procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all’atto precedente,
senza necessità di nuove valutazioni di interessi.
---------------
- né la caducazione dell’Avviso Pubblico del 3 agosto potrebbe
determinarsi per effetto di un’eventuale annullamento da parte del Tar della
predetta delibera n. 7/2018 (impugnata col ricorso originario); la
giurisprudenza amministrativa, difatti, in presenza di vizi accertati
dell’atto presupposto, distingue <<tra invalidità a effetto caducante e
invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento
dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale,
anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta
efficace ove non impugnato nel termine di rito. Però la prima ipotesi,
quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui
l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza
procedimentale quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza
necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di
verificare l’intensità del rapporto di conseguenzialità tra l’atto
presupposto e l’atto successivo, con riconoscimento dell’effetto caducante
solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso
che l’atto successivo si ponga, nell’ambito dello stesso contesto
procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all’atto precedente,
senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons.
Stato, V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813,
13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e
05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243)>> (Consiglio di Stato, V,
10.04.2018, n. 2168): quello del 3 agosto, appunto, era un bando dotato di
una propria autonomia (come emerge dal suo contenuto, prima richiamato nei
suoi aspetti principali), nel quale la delibera n. 7/2018 veniva appena, e
solo nei suoi ‘estremi’, citata, sicché certamente lo stesso non era ad essa
ricollegato da un rapporto immediato, diretto e necessario, tale da
rappresentarne, senza necessità di nuove valutazioni sugli interessi in
gioco, una conseguenza ineluttabile
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 18.07.2019 n. 1307 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI:
Per giurisprudenza consolidata, "in presenza di vizi
accertati dell’atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto
viziante, solo per la prima ammettendosi che l’annullamento
dell’atto presupposto si estenda automaticamente a quello
consequenziale, anche ove quest’ultimo non sia stato
tempestivamente impugnato.
Quanto alla concreta
individuazione della predetta tipologia di effetti, è
pacifico che si debba valutare l’intensità del rapporto di
consequenzialità, con riconoscimento dell’effetto caducante
solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario,
nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito della
stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza
di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo appunto
al coinvolgimento di soggetti terzi”.
---------------
In data 14.04.2018 il Comune di Celano provvedeva all'avvio
del procedimento per i lavori di aggiudicazione dei lavori
del progetto di riqualificazione urbana, sociale e culturale
delle aree degradate rioni Muricelle Stazione, Tribuna e
Vaschette con la pubblicazione sul sito del Comune di tutta
la documentazione progettuale degli interventi previsti.
In data 08.05.2018, i ricorrenti presentavano offerta in
nome e per conto della costituenda RTI - TO. SRL
(Capogruppo/mandataria) e della ABS Co.In. srl (Mandante).
Con Determina n. 446 del 17.07.2018 il Comune approvava i
verbali di gara e formulava la proposta di aggiudicazione in
favore del raggruppamento ricorrente.
In data 03.10.2018, con nota Prot. n. 17617, il Comune di
Celano comunicava l'annullamento in autotutela delle gare in
oggetto ai sensi dell'art 21-octies L.241/1990 "in quanto
nelle lettere di invito erano presenti vizi insanabili”.
Avverso questo provvedimento insorge l’odierna ricorrente
chiedendone l’annullamento.
Si è costituito il Comune di Celano resistendo al ricorso e
chiedendone la reiezione.
Alla pubblica udienza del 06.02.2019 il ricorso è stato
trattenuto in decisione.
Il ricorso è improcedibile considerato che le ricorrenti
hanno omesso di impugnare la delibera di G.C. n. 217 del
13.10.2018 di presa d’atto del predetto intervento in
autotutela e di invito a procedere con la nuova gara, nonché
la determina n. 682 del 14.12.2018 con cui si dà formale
avvio alla procedura di gara sulla scorta di nuovi
presupposti e condizioni coerenti con la disposta autotutela
e le relative ragioni a sostegno.
A nulla rileva la considerazione, svolta con memoria,
secondo la quale i provvedimenti successivi, e in
particolare l’avviso pubblico, prot. n. 785, del 17.01.2019
con cui il Comune ha indetto le operazioni di sorteggio
degli operatori economici da invitare alla nuova procedura
negoziata, sarebbero da considerarsi affetti da invalidità caducante.
Invero, per giurisprudenza consolidata, "in presenza di vizi
accertati dell’atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto
viziante, solo per la prima ammettendosi che l’annullamento
dell’atto presupposto si estenda automaticamente a quello
consequenziale, anche ove quest’ultimo non sia stato
tempestivamente impugnato. Quanto alla concreta
individuazione della predetta tipologia di effetti, è
pacifico che si debba valutare l’intensità del rapporto di
consequenzialità, con riconoscimento dell’effetto caducante
solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario,
nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito della
stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza
di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo appunto
al coinvolgimento di soggetti terzi” (Cons. Stato, Sez. IV,
13.06.2013 n. 3272; Sez. VI, 27.11.2012 n. 1418).
Breve nota a sentenza Cons. Stato, Sez., V, 20.01.2015,
n. 163.
Nel caso di specie l’avviso pubblico in parola si
fonda espressamente sulla determina n. 682 del 14.12.2018,
per come integrata con successiva determina n. 17/2019,
ovverosia su due atti diversi e autonomi rispetto a quello
oggetto del presente gravame e che, come detto, risultano
non impugnati dalle ricorrenti.
Ne consegue l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta
carenza di interesse nella parte in cui si impugna il
provvedimento in autotutela assunto dal Comune resistente (TAR
Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 23.03.2019 n. 167 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La natura giuridica di atto provvisorio ad
effetti instabili, tipica dell’aggiudicazione provvisoria,
spiega la non tutelabilità
processuale di quest’ultima ai sensi degli artt.
21-quinquies e 21-nonies della l. n. 241 del 1990: la sua revoca (ovvero, la sua mancata conferma) non è
infatti qualificabile alla stregua di un esercizio del
potere di autotutela, tale cioè da richiedere un raffronto
tra l'interesse pubblico e quello privato sacrificato, non
essendo prospettabile alcun affidamento del destinatario,
dal momento che l'aggiudicazione provvisoria non è l'atto
conclusivo del procedimento.
Se la decisione di non giungere alla naturale conclusione
della gara interviene nella fase dell'aggiudicazione
provvisoria –fase nella quale non si è determinato alcun
affidamento qualificato neppure in capo all'aggiudicatario
provvisorio (titolare, al più, di una mera aspettativa di
fatto)– del pari non sorge alcun obbligo in capo alla
stazione appaltante di procedere alla notifiche degli avvisi
di avvio del procedimento, né all'aggiudicatario provvisorio
né a terzi.
Fino a quando non sia intervenuta l'aggiudicazione
definitiva rientra nel potere discrezionale
dell'amministrazione disporre la revoca del bando di gara e
degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di
interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo
da sconsigliare, la prosecuzione della gara.
---------------
Per quanto il provvedimento impugnato si limiti a revocare
l’aggiudicazione provvisoria pronunciata in sede di gara con
il verbale della commissione giudicatrice, è evidente che esso abbia
effetto caducante sull’intera procedura.
---------------
10.1. – La pacifica giurisprudenza (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez.
V, 09.11.2018, n. 6323) afferma che la natura giuridica
di atto provvisorio ad effetti instabili, tipica
dell’aggiudicazione provvisoria, spiega la non tutelabilità
processuale di quest’ultima ai sensi degli artt.
21-quinquies e 21-nonies della l. n. 241 del 1990 (cfr.
anche ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 20.08.2013, n.
4183): la sua revoca (ovvero, la sua mancata conferma) non è
infatti qualificabile alla stregua di un esercizio del
potere di autotutela, tale cioè da richiedere un raffronto
tra l'interesse pubblico e quello privato sacrificato, non
essendo prospettabile alcun affidamento del destinatario,
dal momento che l'aggiudicazione provvisoria non è l'atto
conclusivo del procedimento.
Se la decisione di non giungere alla naturale conclusione
della gara interviene nella fase dell'aggiudicazione
provvisoria –fase nella quale non si è determinato alcun
affidamento qualificato neppure in capo all'aggiudicatario
provvisorio (titolare, al più, di una mera aspettativa di
fatto)– del pari non sorge alcun obbligo in capo alla
stazione appaltante di procedere alla notifiche degli avvisi
di avvio del procedimento, né all'aggiudicatario provvisorio
né a terzi (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 18.07.2012, n. 4189).
Fino a quando non sia intervenuta l'aggiudicazione
definitiva rientra nel potere discrezionale
dell'amministrazione disporre la revoca del bando di gara e
degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di
interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo
da sconsigliare, la prosecuzione della gara (Cons. Stato,
Sez. VI, 06.05.2013, n. 2418; in termini, Cons. Stato,
Sez. IV, 12.01.2016, n. 67).
10.2. – Nel caso in esame è accaduto che, nelle more della
gara, sia sopravvenuto tra i componenti del raggruppamento
aggiudicatario un inconciliabile contrasto tra le società
mandanti, che reclamano l’esclusione della mandataria
capogruppo, e quest’ultima, che afferma di comporre ancora a
pieno titolo il raggruppamento aggiudicatario.
Tale dato fattuale, che è logicamente presupposto
all’interrogativo giuridico circa la legittimità della
modifica soggettiva in senso riduttivo del raggruppamento, è
stato ben evidenziato dall’amministrazione intimata nella
comunicazione di avvio del procedimento, poi richiamata nel
provvedimento di revoca.
Nessuno dei motivi articolati nei due ricorsi ha colpito
tale profilo motivazionale del provvedimento impugnato, il
quale è da solo sufficiente a giustificare la revoca
dell’aggiudicazione provvisoria.
Infatti, la forte conflittualità, testimoniata anche dal
fatto che capogruppo e mandanti abbiano agito separatamente
in giudizio, articolando motivi di ricorso in parte non
coincidenti, è sufficiente a sconsigliare la prosecuzione
della gara e l’affidamento dell’appalto.
10.3. – Va poi precisato che, per quanto il provvedimento
impugnato si limiti a revocare l’aggiudicazione provvisoria
pronunciata in sede di gara con il verbale della commissione
giudicatrice del 05.02.2015, è evidente che esso abbia
effetto caducante sull’intera procedura, cosicché non
sussiste il vizio di incompetenza dedotto dalle mandanti
ricorrenti, né rimangono efficaci i provvedimenti
dirigenziali di approvazione dell’aggiudicazione provvisoria (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 20.02.2019 n. 340 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'annullamento del provvedimento di nomina della
commissione di gara sostanzia l'effetto caducante sugli atti
della gara medesima.
---------------
- rilevato preliminarmente che con sentenza n. 79/2019,
deliberata alla medesima camera di consiglio e pubblicata il
14.01.2019, resa sul ricorso n. 716/2018, è stato annullato
il provvedimento di nomina della commissione della gara per
cui è causa, con effetto caducante sugli atti della gara
medesima;
- considerato che tale evenienza processuale determina la
sopravvenuta carenza d’interesse a coltivare il ricorso in
esame, posto che lo stesso è rivolto contro provvedimenti
ormai annullati all’esito di diverso giudizio;
- ritenuto che tale circostanza imponga al Collegio di
dichiarare improcedibile il ricorso in esame, ed il connesso
ricorso incidentale, per sopravvenuta carenza d’interesse, e
che sussistono le condizioni di legge per disporre la
compensazione fra le parti delle spese del giudizi, avuto
riguardo alla peculiarità della fattispecie (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 21.01.2019 n. 153 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Un radicale effetto caducante degli atti dell’intera
gara può configurarsi nei casi nei quali i motivi di annullamento ineriscano all’illegittima composizione della commissione di
gara o alla sua inidoneità tecnica, oppure a una condotta
della commissione gravemente lesiva dei doveri di
imparzialità o che denotino un atteggiamento di prevenzione
nei confronti di uno o più concorrenti e/o di
favoreggiamento di altri, ipotesi tutte accomunate
dall’immanenza del vizio all’assetto soggettivo dell’organo
collegiale e/o all’elemento soggettivo (dolo o colpa grave)
connotante l’operato dei suoi componenti, in quanto tali
ostative alla rinnovazione della fase di valutazione delle
offerte tecniche dinnanzi alla stessa commissione di gara.
---------------
2.4 La fattispecie in esame appare viceversa assimilabile
alla vicenda affrontata dal TAR Brescia, sez. II –
26/03/2014 n. 306, che non risulta appellata, avente per
oggetto l’interpretazione dell’art. 84, comma 4, del D.Lgs.
163/2006 (Codice dei contratti previgente), per cui “I
Commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né
possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta”.
Ha statuito questo Tribunale che “la disciplina è
certamente orientata a garantire l’imparzialità dei membri
del plesso di gara attraverso una puntuale separazione dei
ruoli, e tuttavia la violazione della prescrizione non ha
inciso sulla parità di trattamento né ha lasciato trasparire
un atteggiamento di favore (o di disfavore) nei confronti di
uno o più concorrenti. L’interesse pubblico perseguito dalla
disposizione del Codice dei contratti è il massimo livello
di imparzialità, con la rigorosa distinzione tra chi ha
effettuato gli studi sull’appalto da esperire ed elaborato
le regole della competizione e coloro che sono chiamati ad
applicarle nel caso concreto. In buona sostanza
l’inosservanza della doverosa separazione delle funzioni,
seppur illegittima, non provoca una perturbazione del
processo decisionale a danno (o a vantaggio) di una singola
(o di alcune) imprese in competizione.
Ebbene, è evidente a questo punto che alcun vulnus è
arrecato al leale confronto tra imprese nel caso di rinnovo
delle operazioni con la semplice sostituzione del componente
afflitto da causa di incompatibilità e susseguente ripresa
della procedura dallo stadio “depurato” dal vizio. Detta
conclusione è avvalorata dalla circostanza che la predetta
situazione ostativa non investe il Presidente della
Commissione, ammettendo il legislatore che la conoscenza e
l’elaborazione degli atti di gara non refluiscono sulla par
condicio dei concorrenti, come nel caso –del tutto diverso–
di gravi situazioni di collusione con una o più imprese
concorrenti, che imporrebbero la radicale revisione del
procedimento inquinato.
Un più radicale effetto caducante degli atti dell’intera
gara potrebbe, invece, configurarsi nei casi –diversi da
quello sub iudice– nei quali i motivi di annullamento
ineriscano all’illegittima composizione della commissione di
gara o alla sua inidoneità tecnica, oppure a una condotta
della commissione gravemente lesiva dei doveri di
imparzialità o che denotino un atteggiamento di prevenzione
nei confronti di uno o più concorrenti e/o di
favoreggiamento di altri, ipotesi tutte accomunate
dall’immanenza del vizio all’assetto soggettivo dell’organo
collegiale e/o all’elemento soggettivo (dolo o colpa grave)
connotante l’operato dei suoi componenti, in quanto tali
ostative alla rinnovazione della fase di valutazione delle
offerte tecniche dinnanzi alla stessa commissione di gara” (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.01.2019 n. 32 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
All'annullamento
del disciplinare di gara consegue l'effetto caducante
di tutti gli atti della procedura, non potendo questo
Tribunale intervenire a riscriverne surrettiziamente alcune
parti.
---------------
4. Dall’accoglimento
delle censure di cui al punto precedente discende, al
contrario, la necessità di scrutinare i motivi di doglianza
avanzati dalla Si.He. s.r.l. con il ricorso
incidentale.
L’originaria controinteressata, declinando le medesime
censure in relazione ai parametri di valutazione 1c, 1e, 1g,
1f e 3a, lamenta che, ove dovesse essere ritenuta fondata la
tesi prospettata da Roche in relazione all’interpretazione
di ciascuno dei suddetti parametri valutativi, si
perverrebbe ad un’interpretazione della lex specialis
contrastante con gli artt. 4, 59, 60 e 68 del d.lgs. n. 50
del 2016, nonché dei principi di proporzionalità,
concorrenzialità e non discriminazione fra operatori del
mercato.
Tali censure sono fondate con specifico riferimento al
citato parametro 1e che richiede che lo strumento fornito
sia dotato di calibrazione automatica tramite “chip code”,
escludendo in tal modo, secondo l’interpretazione sopra
accolta, la possibilità di positiva valutazione da parte
della Commissione di soluzioni tecnologiche alternative.
Come osservato dalla controinteressata e confermato negli
scritti difensivi dalla stessa Ro.Di. s.p.a.,
quest’ultima è l’unico produttore a fornire sul mercato
strumenti che impiegano il sistema con chip code.
Tale criterio è, dunque, da ritenersi illegittimo, in quanto
non consente di valorizzare modalità di lettura alternative
e similari, in violazione dell’art. 68 d.lgs. n. 50 del
2016. La citata disposizione, dopo aver previsto al comma 4,
che “[l]e specifiche tecniche consentono pari accesso degli
operatori economici alla procedura di aggiudicazione e non
devono comportare direttamente o indirettamente ostacoli
ingiustificati all'apertura degli appalti pubblici alla
concorrenza”, stabilisce che “[s]alvo che siano giustificate
dall'oggetto dell'appalto, le specifiche tecniche non
possono menzionare una fabbricazione o provenienza
determinata o un procedimento particolare caratteristico dei
prodotti o dei servizi forniti da un operatore economico
specifico, né far riferimento a un marchio, a un brevetto o
a un tipo, a un'origine o a una produzione specifica che
avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune
imprese o taluni prodotti. Tale menzione o riferimento sono
tuttavia consentiti, in via eccezionale, nel caso in cui una
descrizione sufficientemente precisa e intelligibile
dell'oggetto dell'appalto non sia possibile applicando il
comma 5. In tal caso la menzione o il riferimento sono
accompagnati dall'espressione «o equivalente»”.
Le
specifiche tecniche, salvo casi particolari, non possono
menzionare un procedimento particolare caratteristico dei
prodotti forniti da un operatore economico specifico, salvo
prevedere la ammissibilità di soluzioni funzionalmente
equivalenti. La legge di gara, pertanto, non prevedendo la
possibilità per la Commissione di valutare prodotti aventi
caratteristiche equivalenti ha introdotto limiti agli
operatori in contrasto con la citata norma che, in
attuazione del principio comunitario della massima
concorrenza, è finalizzata a che la ponderata e fruttuosa
scelta del miglior contraente non debba comportare ostacoli
non giustificati da reali esigenze tecniche.
Dalla rilevata illegittimità discende la necessità di
annullamento del disciplinare di gara, con conseguente
effetto caducante di tutti gli atti della procedura, non
potendo questo Tribunale intervenire a riscriverne
surrettiziamente alcune parti (cfr. C.d.S., sez. V, 23.11.2018, n. 6639) (TAR
Umbria,
sentenza 14.01.2019 n. 24 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'annullamento del bando
sostanzia effetto caducante di tutti gli atti della
procedura, cui consegue l’obbligo per l’Amministrazione
resistente di integrale riedizione della gara.
---------------
In definitiva pertanto, in accoglimento del primo motivo di
ricorso, deve essere annullato il bando con conseguente effetto caducante di tutti gli atti della procedura, cui
consegue l’obbligo per l’Amministrazione resistente di
integrale riedizione della gara nel rispetto dei principi
sopra evidenziati, con assorbimento di tutte le ulteriori
censure proposte non espressamente esaminate, comprese
quelle contenute nei motivi aggiunti (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 02.01.2019 n. 11 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’effetto caducante degli atti
dell'intera gara si configura solamente nel
caso in cui i motivi di annullamento siano relativi
all'illegittima composizione della Commissione di gara o
alla sua non idoneità tecnica, oppure alla condotta della
Commissione seriamente lesiva dei doveri di imparzialità o
che denotino un atteggiamento di prevenzione nei confronti
di uno o più concorrenti o di favoreggiamento di altri,
condizioni che non risultano però integrate, nel caso di
specie.
In ogni caso, va detto, si tratterebbe di annullamento
dell’aggiudicazione definitiva.
---------------
Neppure è condivisibile la dedotta contraddizione del
principio di cui all’art. 84, comma 12, del d.lgs. n. 163
del 2006, disposizione che prevede l’obbligo di
riconvocazione della Commissione di gara non certo
nell’ipotesi in cui la stazione appaltante decida di non
approvare l’aggiudicazione provvisoria in favore della prima
graduata, ma solamente laddove si sia provveduto a disporre
il “rinnovo del procedimento di gara a seguito di
annullamento dell'aggiudicazione o di annullamento
dell'esclusione di taluno dei concorrenti”.
Va ribadito, al riguardo (ex multis, Cons. Stato, VI,
04.09.2014, n. 4514), che l’effetto caducante degli atti
dell'intera gara –presupposto di applicabilità della norma
richiamata da parte appellante– si configura solamente nel
diverso caso in cui i motivi di annullamento siano relativi
all'illegittima composizione della Commissione di gara o
alla sua non idoneità tecnica, oppure alla condotta della
Commissione seriamente lesiva dei doveri di imparzialità o
che denotino un atteggiamento di prevenzione nei confronti
di uno o più concorrenti o di favoreggiamento di altri,
condizioni che non risultano però integrate, nel caso di
specie.
In ogni caso, va detto, si tratterebbe di annullamento
dell’aggiudicazione definitiva (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.10.2018 n. 5863 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
La Sezione rammenta il principio in virtù del quale, per ben
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità
ad effetto viziante, occorre valutare «… l'intensità del
rapporto di consequenzialità, con riconoscimento
dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato,
diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si
ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale,
come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza
necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi”…».
Ad avviso della Sezione, la controversia in esame, se ha ad
oggetto un livello di progettazione sì preliminare, ma
contenente, in parte, effetti tipici del livello progettuale
successivo, delinea un caso d’invalidità caducante, onde
l’eventuale travolgimento dell’atto presupposto
(l’approvazione del preliminare), farebbe venir meno subito
e necessariamente quello definitivo, privato di quei
contenuti (gli effetti edilizi e paesaggistici)
cristallizzati al livello progettuale precedente e non
rinnovati, se non in senso meramente confermativo, nel
successivo livello.
La tesi di fondo della sentenza di rimessione è che,
nell'ambito della serie procedimentale degli atti per
l’approvazione del citato progetto preliminare dell’opera,
vi sia stata quella perturbazione dell'iter procedimentale
tale da far assumere a tal progetto, sia pur in parte,
caratteristiche proprie della progettazione definitiva. In
tal caso, la relativa statuizione sarebbe capace d’incidere
in via immediata e diretta sui beni dei proprietari privati
viciniori al sito d’allocazione dell’opera e, quindi, da
esser lesive nei loro confronti. Da ciò discenderebbe
l’impugnabilità e, al contempo, l’interesse degli odierni
appellanti a far constare in via d’azione l'illegittimità di
tal progetto preliminare, altrimenti non autonomamente
impugnabile.
---------------
... per la riforma della sentenza breve del TAR Liguria,
sez. I, n. 585/2013, resa tra le parti sull’approvazione del
progetto preliminare, nonché per la localizzazione e la
realizzazione di un impianto di depurazione in Rapallo, loc.
Ronco;
...
4. – Questo Consiglio (IV sez.), con la sentenza
parziale n. 2122 del 05.04.2018, ha anzitutto riunito i
due citati appelli. Quindi ha disatteso l’eccezione,
sollevata dalle parti resistenti, d’improcedibilità
dell’appello per sopravvenuta carenza d’interesse, a seguito
della medio tempore intervenuta approvazione del progetto
definitivo del depuratore, disposta con la determina
comunale n. 680 del 10.07.2014. Giova precisare che
anche tal provvedimento è stato impugnato dinanzi al TAR
Liguria da parte degli odierni appellanti, in una con i
nuovi atti di approvazione progettuale. In quella sede sono
state riproposte le medesime censure già spese contro gli
atti oggetto dell’odierno gravame e, con iterazione
dell’impugnazione, pure avverso questi ultimi, in quanto
atti presupposti.
4.1. – Sul punto, la Sezione remittente ha precisato, per un
verso e al di là della normativa ratione temporis
applicabile —giacché la disciplina dell’attività di
progettazione è di fatto immutata e continua ad articolarsi,
sotto il profilo procedimentale, nei tre successivi livelli
di progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva) con
progressivo approfondimento tecnico—, che il sistema è
congegnato in modo che le scelte della fase progettuale
precedente condizionino quelle della fase successiva sotto i
profili sia della legittimità che del merito.
Per altro e connesso verso, ciascun progetto è presupposto
dal precedente, tant’è che è consentita l’omissione d’uno
dei primi due livelli di progettazione, ma solo se il
livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per
il livello omesso e ne siano garantiti i requisiti di legge.
Pertanto, ove si dovessero rivelare fondati i gravami
esperiti contro il progetto preliminare, in virtù di tal
nesso procedimentale, l’annullamento determinerà effetti
caducanti a valle, ossia sulla approvazione del progetto
definitivo, poiché verrà a mancare –sul piano logico-giuridico– il livello progettuale presupposto, solo il quale
può consentire il perfezionamento della fattispecie.
La Sezione rammenta al riguardo il principio (cfr. Cons. St.,
VI, 27.11.2012 n. 5986; ma più di recente cfr. id., V,
10.04.2018 n. 2168) in virtù del quale, per ben
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità
ad effetto viziante, occorre valutare «… l'intensità del
rapporto di consequenzialità, con riconoscimento
dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato,
diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si
ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale,
come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza
necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi”…».
Ad avviso della Sezione, la controversia in esame, se ha ad
oggetto un livello di progettazione sì preliminare, ma
contenente, in parte, effetti tipici del livello progettuale
successivo, delinea un caso d’invalidità caducante, onde
l’eventuale travolgimento dell’atto presupposto
(l’approvazione del preliminare), farebbe venir meno subito
e necessariamente quello definitivo, privato di quei
contenuti (gli effetti edilizi e paesaggistici)
cristallizzati al livello progettuale precedente e non
rinnovati, se non in senso meramente confermativo, nel
successivo livello.
La tesi di fondo della sentenza di rimessione è che,
nell'ambito della serie procedimentale degli atti per
l’approvazione del citato progetto preliminare dell’opera,
vi sia stata quella perturbazione dell'iter procedimentale
tale da far assumere a tal progetto, sia pur in parte,
caratteristiche proprie della progettazione definitiva. In
tal caso, la relativa statuizione sarebbe capace d’incidere
in via immediata e diretta sui beni dei proprietari privati
viciniori al sito d’allocazione dell’opera e, quindi, da
esser lesive nei loro confronti. Da ciò discenderebbe
l’impugnabilità e, al contempo, l’interesse degli odierni
appellanti a far constare in via d’azione l'illegittimità di
tal progetto preliminare, altrimenti non autonomamente
impugnabile (cfr., per tutti questi passaggi argomentativi,
Cons. St., II, 14.04.2011 n. 2367, citato in sentenza;
nonché id., 02.09.2014 n. 5035) (Consiglio di Stato,
Adunanza Plenaria,
sentenza 28.09.2018 n. 15 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Quando sussiste un vizio di legittimità dell’atto
presupposto tale da incidere sull’atto presupponente, deve
distinguersi tra invalidità a effetto caducante e
invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo
caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende
automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo
non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto
conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e
pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di
rito.
La prima ipotesi (invalidità derivata ad effetto caducante),
ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga
a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale
quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque,
la necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi.
---------------
Secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale (cfr.,
Cons. Stato, 2611/2015), quando sussiste un vizio di
legittimità dell’atto presupposto tale da incidere sull’atto
presupponente, deve distinguersi tra invalidità a effetto
caducante e invalidità a effetto viziante, nel
senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto
presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
“La prima ipotesi (invalidità derivata ad effetto
caducante), ricorre nella sola evenienza in cui l'atto
successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che
comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del
rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante
qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario,
nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello
stesso contesto procedimentale, come conseguenza
ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità
di nuove valutazioni di interessi” (cfr., tra le tante:
C.d.S., Sez. V, 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813,
13.06.2013, n. 3272, e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012,
n. 5986; VI, 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Nel caso di specie, il provvedimento sopravvenuto, non
essendo inevitabile conseguenza del primo e non collocandosi
nella medesima sequenza procedimentale, è stato
autonomamente gravato dalla ricorrente con i proposti motivi
aggiunti, sicché, stante la sua illegittimità derivata, se
ne può dichiarare l’annullamento, con il conseguente obbligo
dell’amministrazione resistente di concludere il
procedimento di gara e determinarsi in ordine
all'aggiudicazione dell'appalto alla odierna ricorrente, con
salvezza di nuovi e motivati provvedimenti (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 05.06.2018 n. 884 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Illegittimità
della lex specialis ed effetti nei confronti del
provvedimento conclusivo della stessa.
L'’ipotetica illegittimità della lex
specialis di gara non ha efficacia automaticamente caducante
e, dunque, non determina l’automatica illegittimità del
provvedimento applicativo conclusivo della stessa, come
l’esclusione dalla procedura, ma ha mera efficacia viziante
per illegittimità derivata.
Ne consegue che l’atto applicativo, per perdere efficacia,
deve essere autonomamente impugnato, appunto deducendo
l’illegittimità derivante da quella della lex specialis di
gara, restando, altrimenti, pienamente efficace.
---------------
Il ricorso principale è improcedibile, mentre il ricorso per motivi
aggiunti è inammissibile, come eccepito dalle controparti.
Ed invero, con riferimento al primo, la società ricorrente,
dopo avere impugnato con il ricorso principale la lex
specialis di gara, ha partecipato alla procedura concorsuale
ma è stata dalla stessa esclusa per il mancato
raggiungimento della soglia di sbarramento di 36 punti
prevista per il punteggio tecnico.
La gara è stata, poi, aggiudicata alla Pi. S.r.l.
Be.Di. ha, però, proceduto ad impugnare con
ricorso per motivi aggiunti la sola aggiudicazione e non
anche la sua esclusione dalla gara.
Ne consegue l’improcedibilità del ricorso principale
proposto avverso la lex specialis di gara per sopravvenuta
carenza di interesse, in quanto, pur nel caso di
accoglimento del ricorso, resterebbe comunque efficace la
sua esclusione dalla gara.
In proposito è stato, invero, affermato dalla giurisprudenza
amministrativa che l’ipotetica illegittimità della
lex
specialis di gara non ha efficacia automaticamente caducante
e, dunque, non determina l’automatica illegittimità del
provvedimento applicativo conclusivo della stessa, come
l’esclusione dalla procedura, ma ha mera efficacia viziante
per illegittimità derivata. Ne consegue che l’atto
applicativo, per perdere efficacia, deve essere
autonomamente impugnato, appunto deducendo l’illegittimità
derivante da quella della lex specialis di gara, restando,
altrimenti, pienamente efficace (cfr. Cons. Stato, sez. III,
18.06.2015, n. 3126; sez. V, 05.11.2014, n. 5463;
Tar Basilicata, 12.12.1989, n. 528).
Il ricorso principale è, dunque, improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 11.05.2018 n. 1257
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’annullamento del
disciplinare di gara comporta la caducazione dell’intera
procedura.
La riedizione della gara, in esito
all’annullamento della lex specialis, risulta in astratto
circostanza certamente idonea a restituire alla parte
appellante l’opportunità di ottenere il bene della vita
conteso, così da configurare in capo alla stessa ricorrente
una aspettativa di tipo “strumentale”, positivamente
apprezzabile, in termini di attualità e concretezza, ai fini
del favorevole scrutinio di ammissibilità della domanda.
Sulla tematica in esame questa Sezione ha già osservato
che:
- allorché le censure proposte sono dirette ad ottenere
l'annullamento dell'intera procedura e non il conseguimento
di una immediata collocazione utile nella graduatoria
impugnata, non sussiste in capo al deducente l'onere di
fornire alcuna prova di resistenza;
- ciò è tanto più vero nella ipotesi in cui oggetto di censura è lo
stesso assetto di regole disciplinari sulla cui base si è
svolta la selezione, in particolare laddove dette regole
rendano scarsamente intelligibili (e quindi non criticabili)
gli esiti del confronto competitivo;
- l’utilitas che in ipotesi siffatte la parte ricorrente in
giudizio può ritrarre è quella, già evidenziata, della
rinnovazione della gara, interesse strumentale che la Corte
di Giustizia UE riconosce, nelle controversie relative
all'aggiudicazione di appalti pubblici, come meritevole di
tutela per esigenze di effettività.
---------------
1.4. Fugato ogni dubbio sull’asserito carattere inedito
della domanda, occorre aggiungere, sotto il profilo della
sussistenza di un valido interesse ad agire posto a suo
fondamento, che la riedizione della gara, in esito
all’annullamento della lex specialis, risulta in astratto
circostanza certamente idonea a restituire alla parte
appellante l’opportunità di ottenere il bene della vita
conteso, così da configurare in capo alla stessa ricorrente
una aspettativa di tipo “strumentale”, positivamente
apprezzabile, in termini di attualità e concretezza, ai fini
del favorevole scrutinio di ammissibilità della domanda.
1.5. Sulla tematica in esame questa Sezione ha già osservato
che:
- allorché le censure proposte sono dirette ad ottenere
l'annullamento dell'intera procedura e non il conseguimento
di una immediata collocazione utile nella graduatoria
impugnata, non sussiste in capo al deducente l'onere di
fornire alcuna prova di resistenza (si vedano, in tal senso,
Cons. Stato, sez. III, 02.03.2018, n. 1312 e 05.03.2018, n.
1335; Id., sez. VI, 01.04.2016, n. 1288);
- ciò è tanto più vero nella ipotesi in cui oggetto di censura è lo
stesso assetto di regole disciplinari sulla cui base si è
svolta la selezione, in particolare laddove dette regole
rendano scarsamente intelligibili (e quindi non criticabili)
gli esiti del confronto competitivo;
- l’utilitas che in ipotesi siffatte la parte ricorrente in
giudizio può ritrarre è quella, già evidenziata, della
rinnovazione della gara, interesse strumentale che la Corte
di Giustizia UE riconosce, nelle controversie relative
all'aggiudicazione di appalti pubblici, come meritevole di
tutela per esigenze di effettività (cfr. sentenza Puligienica, Corte di giustizia Ue, grande sezione,
05.04.2016, C-689/2013).
1.6. Resta da aggiungere che una prova di resistenza sugli
esiti alternativi della gara –nei termini evocati dalle
parti resistenti e condivisi dal Tar– risulterebbe
esigibile nell’ipotesi in cui l’accoglimento
dell’impugnativa prefigurasse un annullamento parziale della
gara e una rinnovazione della stessa mediante rivalutazione
delle offerte già formulate. A fronte di un siffatto
svolgimento del giudizio, sarebbe certamente onere della
parte ricorrente dimostrare il proprio interesse all’azione,
allegando elementi attestanti un plausibile esito a sé
favorevole delle successiva fase valutativa delle offerte.
Diverso è il caso in cui l’accoglimento del ricorso abbia un
effetto di radicale caducazione della gara, tale da rendere
del tutto imprevedibili gli scenari della futura e rinnovata
competizione: in una tale evenienza, la prova di resistenza
risulterebbe vana se riferita alla vecchia gara, e del tutto
astratta e congetturale se rapportata ad una nuova procedura
della quale si ignorano i contenuti minimi di riferimento.
1.7. Va altresì respinta l’eccezione di tardività
dell’impugnativa, argomentata sulla base dell’assunto per
cui ogni contestazione inerente le regole della procedura (o
la composizione della Commissione) dovrebbe essere fatte
valere attraverso l’impugnazione immediata della lex
specialis.
Sul punto è sufficiente osservare che il caso in esame esula
dalla casistica in relazione alla quale è stato elaborato il
criterio della diretta e immediata impugnabilità del bando
(per una illustrazione della portata del principio si veda
Cons. St., sez. III, ordinanza 07.11.2017, n. 5138).
1.8. Appurata l’ammissibilità della censura, nel merito
della stessa è decisivo sottolineare come il disciplinare,
pur ripartendo il punteggio in relazione alle diverse
tipologie di prodotti, non abbia assegnato alcuno specifico
peso ponderale alle caratteristiche tecniche (melius,
“indicatori” di qualità) sulla cui base andava condotto il
confronto delle offerte.
L’elencazione (contenuta nel disciplinare) degli aspetti
tecnici su cui concentrare l’attenzione non è infatti
accompagnata da alcuna informazione in ordine a come
valorizzare i singoli “indicatori” di qualità e
all’incidenza (numerica o di altro tipo) da conferire loro.
Né tale indicazione è ricavabile dal capitolato o dal
documento “Protocollo Prove”.
Ne deriva che la sola lettura delle griglie valutative
elaborate dalla Commissione non consente di comprendere
sotto quale specifico profilo tecnico un prodotto sia stato
ritenuto preferibile o meno rispetto agli altri (cfr., in
termini, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 05.07.2016, n. 193).
Più chiaramente, l'espressione, da parte della commissione,
del giudizio tecnico mediante la mera indicazione numerica
per il singolo prodotto, senza nulla specificare quanto ai
sottoelementi –in mancanza di una compiuta individuazione,
in termini di rispettivo peso, di tutti criteri valutativi
specificati- da un lato non consente di giustificare
l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica e,
dall'altro, impedisce una effettiva ricostruzione dell'iter
logico seguito nella verifica delle offerte dal punto di
vista tecnico.
In tal modo, risulta violata la logica comparativa che
sovraintende la modalità del confronto a coppie, il quale
nel caso di specie si è quindi risolto nell’affermare
apoditticamente la superiorità di un prodotto sull’altro,
senza alcuna intellegibile specificazione delle ragioni e
delle caratteristiche tecniche che hanno determinato tale
giudizio di preferenza.
Del resto, per costante giurisprudenza nel confronto a
coppie la motivazione può ritenersi insita nei punteggi,
purché il bando contenga a monte criteri di valutazione
sufficientemente dettagliati che consentano di risalire con
immediatezza dalla ponderazione numerica alla valutazione ad
essa sottesa.
1.9. Il profilo di criticità segnalato dalla parte
appellante e oggetto del primo motivo di appello attiene
alla lex specialis e come tale integra “un vizio a monte
della procedura”.
Ne consegue che l’annullamento del
disciplinare comporta la caducazione dell’intera procedura,
che dovrà essere rinnovata dalla stazione appaltante,
nell’osservanza dei rilievi qui svolti (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 16.04.2018 n. 2258
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Secondo il consolidato insegnamento
giurisprudenziale, in presenza di vizi accertati dell'atto
presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e
invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella
appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza
in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della
medesima sequenza procedimentale quale inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di
ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità
di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità
tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con
riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi.
---------------
6. Col terzo motivo l’appellante impugna la
dichiarazione di inammissibilità per carenza di interesse
del ricorso introduttivo avverso la delibera di Giunta n.
136/15, reputata dal primo giudice atto di indirizzo
politico.
Col quarto motivo impugna la dichiarazione di
inammissibilità dei primi motivi aggiunti avverso diversi
atti comunali, reputati non lesivi della posizione giuridica
della ricorrente.
6.1. Entrambi i motivi sono improcedibili per carenza di
interesse, in quanto anche se fossero accolti, resterebbero
validi ed efficaci -in conseguenza del mancato accoglimento
dei primi due motivi d’appello- la deliberazione del
Consiglio Comunale n. 27/16 e gli atti allegati e
successivi, con i quali il Comune di Basiglio ha affidato
alla società in house S.A.S.O.M. S.r.l. la gestione del
servizio rivendicata dall’appellante.
E’ qui sufficiente richiamare il consolidato insegnamento
giurisprudenziale, per il quale in presenza di vizi
accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella
appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza
in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della
medesima sequenza procedimentale quale inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di
ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità
di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità
tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con
riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato,
V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e
05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Siffatta
situazione procedimentale è da escludere nel caso della
successione tra l’atto di competenza della Giunta Comunale
(oggetto del terzo motivo) e l’atto adottato dal Consiglio
Comunale (oggetto dei primi due motivi), previo esperimento
di istruttoria e previa approvazione della relazione di cui
all’art. 34, comma 20, d.l. n. 179 del 2012; a maggior
ragione, è da escludere tra gli atti impugnati con i primi
motivi aggiunti, riguardanti sostanzialmente la proroga
della gestione nei confronti di A.M.S.A., in attesa
dell’affidamento del servizio a società in house, e gli atti
impugnati con i secondi motivi aggiunti, concernenti tale
ultimo affidamento, oramai incontrovertibile.
In conclusione, l’appello va respinto (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 10.04.2018 n. 2168 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il rapporto tra l’invalidità dell’atto
presupposto (il bando di gara) e l’atto consequenziale (il
provvedimento di aggiudicazione) si specifica nel senso
della produzione di un vizio autonomo di quest’ultimo, da
impugnare a sua volta mediante azione di annullamento
proposta con motivi aggiunti.
Invero, “Essendo
tardiva l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, ossia
del provvedimento finale che conferisce l’utilitas
all'aggiudicatario, le doglianze avverso il bando di gara o
l'atto di esclusione diventano improcedibili, non essendovi
più interesse al loro annullamento, in quanto non potrebbe
esservi diverso esito del procedimento concorsuale”.
Altresì, il rapporto di conseguenzialità immediata e diretta
tra atto a monte (bando di gara) e atto a valle
(aggiudicazione definitiva) sussiste solo ove non siano da
compiere nuove ed ulteriori valutazioni di interessi e non
già allorquando, come nel caso di specie, il provvedimento
finale sia frutto anche di valutazioni operate nella fase
procedimentale successiva all’adozione dell’atto
presupposto: ipotesi, d’altronde, tipica delle procedure di
affidamento di contratti pubblici.
---------------
In ordine alla necessità di impugnare il provvedimento di aggiudicazione
definitiva intervenuto in un momento successivo rispetto
all’iniziale impugnazione proposta avverso il bando di gara,
si registrano due diversi orientamenti.
Secondo un primo indirizzo, detta necessità non sorge ove
l’impugnazione originaria sia diretta contro una clausola
del bando che non si estenda anche a singoli atti
preliminari all’aggiudicazione (quale, ad esempio, un
provvedimento di esclusione dalla procedura), giacché il
vizio, afferendo ad una norma generale, avrebbe un effetto caducante anche nei riguardi del conseguenziale
provvedimento di aggiudicazione definitiva (v. Consiglio di
Stato, V, n. 617/2017).
La mancata impugnazione di
quest’ultimo, in sostanza, non comporterebbe
l’improcedibilità del ricorso ogniqualvolta il bene della
vita perseguito dall’interessato consista proprio nella
possibilità stessa di risultare affidatario diretto della
procedura –indipendentemente dall’esito della medesima–
ponendosi, l’aggiudicazione definitiva, in un rapporto di conseguenzialità diretta ed immediata rispetto agli atti
iniziali della gara, data l’assenza di nuove ed ulteriori
valutazioni compiute dall’Amministrazione (v. Consiglio di
Stato, V, n. 1828/2013).
Secondo un diverso orientamento, invece, il rapporto tra
l’invalidità dell’atto presupposto (il bando di gara) e
l’atto consequenziale (il provvedimento di aggiudicazione)
si specifica nel senso della produzione di un vizio autonomo
di quest’ultimo, da impugnare a sua volta mediante azione di
annullamento proposta con motivi aggiunti (cfr. Consiglio di
Stato, n. 663/2015, secondo cui “Ne deriva che, essendo
tardiva l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, ossia
del provvedimento finale che conferisce l’utilitas
all'aggiudicatario, le doglianze avverso il bando di gara o
l'atto di esclusione diventano improcedibili, non essendovi
più interesse al loro annullamento, in quanto non potrebbe
esservi diverso esito del procedimento concorsuale”; cfr.,
nello stesso senso, Consiglio di Stato, IV, n. 1769/2015).
Il Collegio ritiene di aderire a tale ultimo indirizzo,
dovendosi considerare che il rapporto di conseguenzialità
immediata e diretta tra atto a monte (bando di gara) e atto
a valle (aggiudicazione definitiva) sussista solo ove non
siano da compiere nuove ed ulteriori valutazioni di
interessi e non già allorquando, come nel caso di specie, il
provvedimento finale sia frutto anche di valutazioni operate
nella fase procedimentale successiva all’adozione dell’atto
presupposto: ipotesi, d’altronde, tipica delle procedure di
affidamento di contratti pubblici (cfr. TAR Sardegna,
Cagliari, I, n. 510/2014; TAR Lombardia, Milano, n.
2643/2014).
4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso
va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 09.04.2018 n. 3895 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In presenza di vizi
accertati dell'atto presupposto, la giurisprudenza distingue
tra invalidità a effetto caducante e invalidità a
effetto viziante, nel senso che nel primo caso
l'annullamento dell'atto presupposto si estende
automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo
non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto
conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma resta
efficace ove non ritualmente impugnato.
La prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l'atto
successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni
di interessi, il che comporta la necessità di valutare
l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto
presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento
dell'effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato,
diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si
ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale,
come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente.
Discende dai principi ora richiamati che il rapporto di
presupposizione necessaria, cui va ricondotta la figura
della invalidità derivata con effetto caducante (e non
viziante) sull’atto a valle (che, cioè, si sprigiona a
prescindere dall’impugnazione di quest’ultimo), è
ravvisabile nelle sole ipotesi in cui gli atti appartengano
ad una medesima fattispecie procedimentale, o in cui l’atto
precedente sia presupposto unico e indefettibile dell’atto
successivo nel senso di costituirne un presupposto di
esistenza.
---------------
Il ricorso è inammissibile per carenza di interesse.
La ricorrente ha impugnato la nota con la quale l’ASP di
Catania ha comunicato il rigetto della sua istanza di
rielaborazione degli atti di gara, ma non ha impugnato il
bando di gara pubblicato il 27.03.2017 e gli atti allo
stesso allegati, disciplinare e capitolato tecnico.
Ora, l’equivoco di fondo da cui muove la prospettazione di
parte ricorrente è quello di ritenere che l’eventuale
annullamento della nota di diniego quivi impugnata avrebbe
un effetto automaticamente caducante nei confronti della
procedura di gara indetta dall’ASP, alla quale ha interesse
Ra.Ca.Se., ma alla quale la società ricorrente è rimasta
completamente estranea, non avendovi partecipato, e non
avendo impugnato le clausole del bando ritenute escludenti,
o comunque ostative alla sua partecipazione.
L’assunto è completamente privo di fondatezza, poiché nel
caso di specie manca qualsiasi rapporto di presupposizione
tra l’atto quivi impugnato ed il procedimento di gara,
rapporto di presupposizione che è indispensabile perché si
possa configurare, a certe condizioni, un effetto caducante
che a partire dall’atto presupposto viziato possa
riflettersi e travolgere automaticamente tutta l’attività
successiva, strettamente consequenziale all’atto presupposto
a monte.
Come è noto, infatti, in presenza di vizi accertati
dell'atto presupposto, la giurisprudenza distingue tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato
impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è
affetto da illegittimità derivata, ma resta efficace ove non
ritualmente impugnato; la prima ipotesi ricorre nel solo
caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito
della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed
ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la
necessità di valutare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente (Consiglio di Stato, sez. VI,
20.03.2018, n. 1777; TAR Napoli, sez. II, 03.04.2018, n.
2083).
Discende dai principi ora richiamati che il rapporto di
presupposizione necessaria, cui va ricondotta la figura
della invalidità derivata con effetto caducante (e non
viziante) sull’atto a valle (che, cioè, si sprigiona a
prescindere dall’impugnazione di quest’ultimo), è
ravvisabile nelle sole ipotesi in cui gli atti appartengano
ad una medesima fattispecie procedimentale, o in cui l’atto
precedente sia presupposto unico e indefettibile dell’atto
successivo nel senso di costituirne un presupposto di
esistenza (TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 06.04.2018 n. 713 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
La disciplina dell’attività di progettazione è
rimasta, nella sostanza, pressoché immutata, giacché la
stessa si articolava e, tuttora, si articola, sul piano
della sequenza procedimentale, in tre successivi livelli di progressivo
approfondimento tecnico: il progetto preliminare, il
progetto definitivo e il progetto esecutivo.
Il sistema è congegnato dal legislatore in modo che
le scelte operate nella fase precedente condizionino quelle
della fase successiva, sotto i profili sia della legittimità
che del merito. Il nesso procedimentale che avvince le
progettazioni è, infatti, di natura funzionale, mirando a
realizzare un approfondimento di tipo tecnico che assicuri:
a) la qualità dell'opera e la rispondenza alle finalità
relative;
b) la conformità alle norme ambientali e urbanistiche;
c) il soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal
quadro normativo nazionale e comunitario.
L’esistenza del nesso di presupposizione tra i
livelli progettuali trova conferma anche nell’ultimo periodo
del comma 2 del medesimo art. 93 cit., giacché è
positivamente stabilito che “E' consentita altresì
l'omissione di uno dei primi due livelli di progettazione
purché il livello successivo contenga tutti gli elementi
previsti per il livello omesso e siano garantiti i requisiti
di cui al comma 1, lettere a), b) e c)”.
Ciò posto, è evidente allora che, qualora si
dovessero rivelare fondati i gravami esperiti avverso
l’approvazione del progetto preliminare, in virtù del
descritto nesso procedimentale, si produrrebbero effetti
caducanti a valle, sull’approvazione del progetto
definitivo, venendo a mancare –sul piano logico-giuridico–
il livello progettuale presupposto che, solo, può consentire
il perfezionamento della fattispecie.
Per giurisprudenza consolidata, nell’operare il
distinguo fra invalidità ad effetto caducante e invalidità
ad effetto viziante, occorre valutare “l'intensità del
rapporto di consequenzialità, con riconoscimento
dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato,
diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si
ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale,
come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza
necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi”.
La fattispecie ricorre esemplarmente nel caso di
specie, ove il livello di progettazione approvato, oggetto
di impugnazione, contiene –in parte– gli effetti tipici
del livello successivo progettuale, sicché ove, in ipotesi,
venisse a cadere l’atto presupposto (l’approvazione del
preliminare), cadrebbe necessariamente quello definitivo,
privato di quei contenuti (gli effetti edilizi e
paesaggistici) cristallizzati al livello progettuale
precedente e non rinnovati, se non in senso meramente
confermativo, nel successivo livello.
---------------
9. In ordine logico-giuridico, va esaminata con priorità
l’eccezione, sollevata dalle parti resistenti, di improcedibilità del giudizio di appello per sopravvenuta
carenza di interesse alla decisione perché –si sostiene–
medio tempore è stato approvato il progetto definitivo del
depuratore con la determinazione comunale n. 680 del 10.07.2014, anch’essa impugnata dinanzi al Tar ligure,
con riproposizione, da parte degli odierni appellanti, nei
confronti dei nuovi atti di approvazione progettuale, delle
medesime censure spese avverso quelli oggetto dell’odierno
gravame, nonché, con reiterazione dell’impugnazione, anche
avverso questi ultimi, in quanto atti presupposti.
9.1. L’eccezione è destituita di fondamento.
9.1.1. Va premesso, in termini generali, che l’attività di
progettazione relativa alla fattispecie controversa è
regolata, ratione temporis, dalle previsioni contenute
nell’art. 93, comma 4, del D.lgs. n. 163/2006. L’art. 256 di
questo stesso decreto ha, infatti, disposto l’espressa
abrogazione, con decorrenza 01.07.2006, ai sensi di
quanto previsto dal successivo art. 257, della norma per
l’innanzi vigente, contenuta all’art. 16, della legge n.
109/1994. Oggi, invece, la fattispecie trova la sua
disciplina nell’art. 23 del D.lgs. 18.04.2016, n. 50,
avendo quest’ultimo, all’art. 217, comma 1, lettera e),
previsto l’espressa abrogazione dell’art. 93 cit..
9.1.2. In disparte il profilo dell’individuazione della
norma temporalmente applicabile, è da osservare che la
disciplina dell’attività di progettazione è rimasta, nella
sostanza, pressoché immutata, giacché la stessa si
articolava e, tuttora, si articola, sul piano della sequenza
procedimentale, in tre successivi livelli di progressivo
approfondimento tecnico: il progetto preliminare, il
progetto definitivo e il progetto esecutivo.
9.1.3. Il sistema è congegnato dal legislatore in modo che
le scelte operate nella fase precedente condizionino quelle
della fase successiva, sotto i profili sia della legittimità
che del merito. Il nesso procedimentale che avvince le
progettazioni è, infatti, di natura funzionale, mirando a
realizzare un approfondimento di tipo tecnico che assicuri:
a) la qualità dell'opera e la rispondenza alle finalità
relative;
b) la conformità alle norme ambientali e urbanistiche;
c) il soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal
quadro normativo nazionale e comunitario.
9.1.4. L’esistenza del nesso di presupposizione tra i
livelli progettuali trova conferma anche nell’ultimo periodo
del comma 2 del medesimo art. 93 cit., giacché è
positivamente stabilito che “E' consentita altresì
l'omissione di uno dei primi due livelli di progettazione
purché il livello successivo contenga tutti gli elementi
previsti per il livello omesso e siano garantiti i requisiti
di cui al comma 1, lettere a), b) e c)”.
9.1.5. Ciò posto, è evidente allora che, qualora si
dovessero rivelare fondati i gravami esperiti avverso
l’approvazione del progetto preliminare, in virtù del
descritto nesso procedimentale, si produrrebbero effetti
caducanti a valle, sull’approvazione del progetto
definitivo, venendo a mancare –sul piano logico-giuridico–
il livello progettuale presupposto che, solo, può consentire
il perfezionamento della fattispecie.
9.1.6. Per giurisprudenza consolidata, nell’operare il
distinguo fra invalidità ad effetto caducante e invalidità
ad effetto viziante, occorre valutare “l'intensità del
rapporto di consequenzialità, con riconoscimento
dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato,
diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si
ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale,
come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza
necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 27.11.2012, n. 5986).
9.1.7. La fattispecie ricorre esemplarmente nel caso di
specie, ove il livello di progettazione approvato, oggetto
di impugnazione, contiene –in parte– gli effetti tipici
del livello successivo progettuale, sicché ove, in ipotesi,
venisse a cadere l’atto presupposto (l’approvazione del
preliminare), cadrebbe necessariamente quello definitivo,
privato di quei contenuti (gli effetti edilizi e
paesaggistici) cristallizzati al livello progettuale
precedente e non rinnovati, se non in senso meramente
confermativo, nel successivo livello.
9.1.7.1. La circostanza è, peraltro, avvalorata dalla (ri)proposizione
delle censure nel nuovo giudizio dinanzi al Tar, avverso gli
atti della progettazione definitiva, le quali non fanno
altro che reiterare quelle già spese avverso gli atti della
progettazione preliminare, mentre –di converso– la riproposizione dell’impugnazione avverso questi ultimi, in
quanto atti presupposti, appare esperita in modo meramente
tuzioristico, per evitare di incorrere in decadenze di
sorta.
9.1.8. Né la mancanza del livello progettuale potrebbe
essere supplita nella sede giurisdizionale, essendo il
sindacato di questo giudice limitato al vaglio di
legittimità degli atti impugnati e circoscritto alle censure
prospettate dai ricorrenti.
La valutazione della sufficienza e dell’idoneità, a norma
dell’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 93 cit., del
secondo livello progettuale (quello definitivo), ad
assorbire quello (preliminare), non svolto o annullato in
sede giurisdizionale, spetta –infatti- alla sola pubblica
amministrazione.
Ad una pronuncia giurisdizionale in tal senso osterebbe, in
ogni caso, il disposto di cui all’art. 34, comma 2, c.p.a.,
essendo inibito al giudice di pronunciare con riferimento a
poteri amministrativi non ancora esercitati.
9.1.9. Pertanto, contrariamente all’avviso manifestato dalle
parti resistenti, sussiste il pieno interesse delle parti
appellanti a vedere scrutinati gli appelli, anche in ragione
delle importanti ricadute, sul piano processuale, avverso
gli atti da ultimo impugnati in primo grado, per quanto
appena esposto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.04.2018 n. 2122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'impugnazione del bando di gara diventa
improcedibile nel caso di mancata contestazione del
provvedimento di aggiudicazione in ragione del carattere
inoppugnabile di quest'ultimo.
È vero che ove il ricorrente contesti la possibilità stessa
della gara (e non il suo esito) vi sarebbe una
consequenzialità immediata e diretta tra gli atti di inizio
della gara e l'aggiudicazione, talché l'annullamento del
bando produrrebbe effetti caducatori anche nei confronti
dell'aggiudicazione, ma è altrettanto vero che, anche in
questo caso, il ricorrente avrebbe l'onere di evocare in
giudizio l'aggiudicatario (che, sia pure dopo l'impugnazione
del bando, ha assunto la qualifica di controinteressato), a
pena di improcedibilità del gravame.
---------------
Il ricorso va dichiarato improcedibile, risultando fondata
l’eccezione di parte resistente.
Le parti dibattono, in primo luogo, in ordine agli effetti
della mancata impugnazione dell’aggiudicazione in caso di
impugnazione del bando.
Ben conosce il Collegio i diversi orientamenti esistenti sul
punto, in realtà solo apparentemente confliggenti,
risultando dirimente, in realtà, ai fini del vaglio della
questione prospettata, la circostanza che il ricorrente
contesti o meno la possibilità stessa della gara (e non il
suo esito).
Sul punto, il Collegio aderisce alla giurisprudenza che
ritiene che “L'impugnazione del bando di gara diventa
improcedibile nel caso di mancata contestazione del
provvedimento di aggiudicazione in ragione del carattere
inoppugnabile di quest'ultimo. È vero che ove il ricorrente
contesti la possibilità stessa della gara (e non il suo
esito) vi sarebbe una consequenzialità immediata e diretta
tra gli atti di inizio della gara e l'aggiudicazione, talché
l'annullamento del bando produrrebbe effetti caducatori
anche nei confronti dell'aggiudicazione, ma è altrettanto
vero che, anche in questo caso, il ricorrente avrebbe
l'onere di evocare in giudizio l'aggiudicatario (che, sia
pure dopo l'impugnazione del bando, ha assunto la qualifica
di controinteressato), a pena di improcedibilità del gravame"
(TAR Firenze, (Toscana), sez. I, 24/02/2015, n. 291; in
termini TAR Milano, (Lombardia), sez. I, 05/11/2014, n.
2643, non appellata; Consiglio di Stato, sez. V, 11/07/2008,
n. 3433; Consiglio di Stato, sez. VI, 17/05/2006, n. 2846)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 08.03.2018 n. 319 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel caso in cui il ricorrente contesta non
l'esito della gara, ma la possibilità stessa della gara, in
quanto il bene della vita da lui perseguito attiene alla
possibilità di risultare affidatario diretto dell'appalto,
il rapporto tra gli atti di inizio della gara ritualmente
impugnati e l'aggiudicazione definitiva si pone nel senso di
un rapporto di conseguenzialità immediata, diretta e
necessaria.
In sostanza l'atto successivo si pone come inevitabile
conseguenza di quello precedente, perché non vi sono da
compiere nuove e ulteriori valutazioni discrezionali in
merito alla scelta di affidare il servizio mediante gara
pubblica, con la conseguenza che non occorre impugnare gli
atti di aggiudicazione ove siano impugnati quelli di
indizione del procedimento di gara, in quanto l'annullamento
del bando di gara travolge il provvedimento di
aggiudicazione, sicché la mancata impugnazione di
quest'ultima non determina l'improcedibilità del ricorso.
---------------
Il ricorso va dichiarato improcedibile, risultando fondata
l’eccezione di parte resistente.
...
Invero, la giurisprudenza citata dalla ricorrente riguarda
più propriamente l’ipotesi in cui si reclami l’affidamento
diretto (“Nel caso in cui il ricorrente contesta non
l'esito della gara, ma la possibilità stessa della gara, in
quanto il bene della vita da lui perseguito attiene alla
possibilità di risultare affidatario diretto dell'appalto,
il rapporto tra gli atti di inizio della gara ritualmente
impugnati e l'aggiudicazione definitiva si pone nel senso di
un rapporto di conseguenzialità immediata, diretta e
necessaria; in sostanza l'atto successivo si pone come
inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi
sono da compiere nuove e ulteriori valutazioni discrezionali
in merito alla scelta di affidare il servizio mediante gara
pubblica, con la conseguenza che non occorre impugnare gli
atti di aggiudicazione ove siano impugnati quelli di
indizione del procedimento di gara, in quanto l'annullamento
del bando di gara travolge il provvedimento di
aggiudicazione, sicché la mancata impugnazione di
quest'ultima non determina l'improcedibilità del ricorso.”
Consiglio di Stato, sez. V, 27/03/2013, n. 1828) (TAR
Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 08.03.2018 n. 319 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'annullamento del
bando di gara travolge tutti gli ulteriori atti
successivamente adottati.
L’annullamento del bando di gara
comporta il travolgimento, per automatica caducazione, in
conformità alla condivisibile giurisprudenza prevalente,
degli atti procedimentali successivi fino alla
aggiudicazione definitiva della concessione, con la
conseguente inefficacia del contratto.
Il Consiglio di Stato ha affermato che l’invalidità
promanante dall’inosservanza delle regole sulla
pubblicazione della normativa di gara è di tale gravità, da
prevalere logicamente rispetto ad ogni altra censura.
Riverberando i suoi effetti caducanti su tutti gli atti
della procedura, detta illegittimità può essere, quindi,
dedotta nei confronti di qualunque snodo procedurale, a
partire dal verbale della prima seduta della commissione di
gara, senza che si prospetti alcuna necessità di attendere
la conclusione della procedura.
Altra sentenza del Consiglio di Stato ha chiarito che:
a) in un procedimento competitivo di scelta del contraente, la
caducazione derivativa dell’esclusione e dell’aggiudicazione
è un effetto riflesso del nesso di presupposizione e di
consequenzialità immediata, diretta e necessaria, tra il
bando –annullato- e questi stessi atti: nel senso che
questi, come elementi successivi del procedimento complesso,
rappresentano o (l’aggiudicazione) il complemento funzionale
di quello precedente, o (l’esclusione) l’acclaramento di un
impedimento del complemento funzionale. Tra questi atti e il
bando esiste una relazione di necessità logica, per cui i
secondi non hanno utilità se non come risposte al primo.
Senza il bando, non possono esservi né esclusione né
aggiudicazione.
b) sicché la rimozione del primo non può che comportare –per questo
nesso– la sottrazione ai secondi del titolo legittimante,
sia riguardo all’utilità pratica (la qualificazione della
risposta a un invito che non c’è più) che, più radicalmente,
riguardo alla giustificazione dell’esercizio del potere (per
ogni altro ipotetico effetto).
c) si usa ravvisare il fondamento della cd. caducazione automatica
nelle esigenze di economia processuale, e non solo a tutela
delle posizioni del ricorrente. È infatti inutilmente
gravoso, antieconomico e non rispondente alle finalità di
buona amministrazione, dover procedere a ulteriori
impugnazioni quando la sorte dei provvedimenti che li
riguarderebbero è già segnata dall’annullamento di quello
che vi aveva dato causa.
A queste esigenze, sulla stessa linea si può aggiungere –ed
è il caso di specie, per via della particolarità
dell’eccesso di decisioni che presenta– la funzione di
prevenzione dell’eventuale conflitto logico di giudicati e
di coerenza complessiva delle qualificazioni compiute
dell’ordinamento: esigenza con cui contrasterebbe la
presenza di un secondo giudicato che supponesse persistere
utilità per atti che quella stessa utilità hanno invece
ormai decisamente perso per effetto della rimozione del loro
presupposto.
---------------
Tanto premesso, poiché è stato annullato il bando di gara,
tale annullamento travolge tutti gli ulteriori atti
successivamente adottati.
In particolare, l’annullamento del bando di gara comporta il
travolgimento, per automatica caducazione, in conformità
alla condivisibile giurisprudenza prevalente (Cons. Stato,
sez. V, 08.03.2006, n. 1208; id., 28.03.2008, n. 1342, ed
ivi ulteriore giurisprudenza conforme), degli atti
procedimentali successivi fino alla aggiudicazione
definitiva della concessione, con la conseguente inefficacia
del contratto.
Il Consiglio di Stato (cfr., V, n. 1208/2006) ha affermato
che l’invalidità promanante dall’inosservanza delle regole
sulla pubblicazione della normativa di gara è di tale
gravità, da prevalere logicamente rispetto ad ogni altra
censura.
Riverberando i suoi effetti caducanti su tutti gli atti
della procedura, detta illegittimità può essere, quindi,
dedotta nei confronti di qualunque snodo procedurale, a
partire dal verbale della prima seduta della commissione di
gara, senza che si prospetti alcuna necessità di attendere
la conclusione della procedura.
Altra sentenza del Consiglio di Stato (cfr. n. 1342/2008) ha
chiarito che:
a) in un procedimento competitivo di scelta del contraente, la
caducazione derivativa dell’esclusione e dell’aggiudicazione
è un effetto riflesso del nesso di presupposizione e di
consequenzialità immediata, diretta e necessaria, tra il
bando –annullato- e questi stessi atti: nel senso che
questi, come elementi successivi del procedimento complesso,
rappresentano o (l’aggiudicazione) il complemento funzionale
di quello precedente, o (l’esclusione) l’acclaramento di un
impedimento del complemento funzionale. Tra questi atti e il
bando esiste una relazione di necessità logica, per cui i
secondi non hanno utilità se non come risposte al primo.
Senza il bando, non possono esservi né esclusione né
aggiudicazione.
b) sicché la rimozione del primo non può che comportare –per questo
nesso– la sottrazione ai secondi del titolo legittimante,
sia riguardo all’utilità pratica (la qualificazione della
risposta a un invito che non c’è più) che, più radicalmente,
riguardo alla giustificazione dell’esercizio del potere (per
ogni altro ipotetico effetto).
c) si usa ravvisare il fondamento della cd. caducazione automatica
nelle esigenze di economia processuale, e non solo a tutela
delle posizioni del ricorrente. È infatti inutilmente
gravoso, antieconomico e non rispondente alle finalità di
buona amministrazione, dover procedere a ulteriori
impugnazioni quando la sorte dei provvedimenti che li
riguarderebbero è già segnata dall’annullamento di quello
che vi aveva dato causa.
A queste esigenze, sulla stessa linea si può aggiungere –ed
è il caso di specie, per via della particolarità
dell’eccesso di decisioni che presenta– la funzione di
prevenzione dell’eventuale conflitto logico di giudicati e
di coerenza complessiva delle qualificazioni compiute
dell’ordinamento: esigenza con cui contrasterebbe la
presenza di un secondo giudicato che supponesse persistere
utilità per atti che quella stessa utilità hanno invece
ormai decisamente perso per effetto della rimozione del loro
presupposto.
In conclusione, il ricorso è accolto e per l’effetto sono
annullati gli atti impugnati (TAR Emilia Romagna-Bologna,
Sez. II,
sentenza 02.02.2018 n. 122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'interesse finale che un soggetto escluso da una
gara pubblica fa valere è quello di assicurarsi il bene
della vita cui mira, ossia l'aggiudicazione, mentre la
rimozione dell'esclusione costituisce all’uopo un passaggio
solo strumentale.
Data la relazione intercorrente fra esclusione e
aggiudicazione, di conseguenza, anche quest'ultima deve
necessariamente essere impugnata, poiché il difetto
d'impugnazione dell'aggiudicazione avrebbe come conseguenza
l’inutilità di un’eventuale decisione di annullamento
dell'esclusione. Tale decisione, difatti, non varrebbe a
rimuovere anche l'aggiudicazione, che sarebbe affetta da un’invalidità
ad effetto solo viziante, e non caducante, e
perciò non permetterebbe un reinserimento dell'escluso nel
flusso della procedura, ormai esaurita ed inoppugnabile.
Il ricorso avverso l'esclusione da una gara diventa,
pertanto, improcedibile tutte le volte in cui
l'aggiudicazione intervenga, e sia conosciuta, prima della
pronunzia sul relativo gravame senza che l'impugnazione sia
stata estesa al decisivo nuovo atto.
---------------
Occorre
ricordare come la giurisprudenza insegni che in presenza di
vizi accertati dell'atto presupposto debba distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a
effetto viziante, nel senso che nel primo caso
l'annullamento dell'atto presupposto si estende
automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo
non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto
conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e
pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di
rito.
Laddove la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto
caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto
successivo si ponga nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che
comporta dunque la necessità di verificare l'intensità del
rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante
qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario,
nel senso che l'atto successivo si collochi, nell'ambito
dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza
ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità
di nuove valutazioni di interessi.
---------------
Per quanto concerne gli specifici rapporti intercorrenti tra
esclusione e aggiudicazione definitiva di un
appalto il Collegio non può che dare atto che la
giurisprudenza dominante ha uniformemente escluso che
l’aggiudicazione posteriore a un’esclusione riconosciuta in
seguito illegittima possa dirsi affetta, per tale ragione,
da un’invalidità di tipo caducante, essendosi
affermata, al contrario, proprio l’esistenza dell’onere
d’impugnazione del quale si è detto.
---------------
5a Un consolidato orientamento giurisprudenziale, invero,
attesta l’indefettibile necessità dell’impugnativa
dell’aggiudicazione definitiva che sia sopraggiunta al
ricorso già proposto contro un’esclusione dalla stessa gara.
Come è stato abbondantemente chiarito, infatti, l'interesse
finale che un soggetto escluso da una gara pubblica fa
valere è quello di assicurarsi il bene della vita cui mira,
ossia l'aggiudicazione, mentre la rimozione dell'esclusione
costituisce all’uopo un passaggio solo strumentale.
Data la relazione intercorrente fra esclusione e
aggiudicazione, di conseguenza, anche quest'ultima deve
necessariamente essere impugnata, poiché il difetto
d'impugnazione dell'aggiudicazione avrebbe come conseguenza
l’inutilità di un’eventuale decisione di annullamento
dell'esclusione. Tale decisione, difatti, non varrebbe a
rimuovere anche l'aggiudicazione, che sarebbe affetta da un’invalidità
ad effetto solo viziante, e non caducante (cfr.
C.d.S., V, 05.12.2014, n. 5986; 25.02.2016, n. 754;
25.05.2017, n. 2458), e perciò non permetterebbe un
reinserimento dell'escluso nel flusso della procedura, ormai
esaurita ed inoppugnabile (C.d.S., III, 16.03.2012, n. 1091;
V, 17.05.2012, n. 2826).
Il ricorso avverso l'esclusione da una gara diventa,
pertanto, improcedibile tutte le volte in cui
l'aggiudicazione intervenga, e sia conosciuta, prima della
pronunzia sul relativo gravame senza che l'impugnazione sia
stata estesa al decisivo nuovo atto (C.d.S., V, 19.07.2013,
n. 3940; 15.05.2013, n. 2626; 14.12.2011, n. 6539;
18.02.2009, n. 950; 11.07.2008, n. 3433; III, 25.01.2013, n.
481), come si è verificato anche nella fattispecie concreta.
5b La ricorrente obietta all’eccezione oppostale che la
nuova aggiudicazione sarebbe stata meramente esecutiva del
provvedimento cautelare che era stato ottenuto dall’A.T.I.
Sa.Fi.Ne.–Es., circostanza che l’avrebbe dispensata
dall’onere della relativa impugnazione.
In contrario è agevole osservare, però, che l’ordinanza
cautelare di questo Consiglio n. 320/2017 si limitava a
stabilire che la Stazione appaltante dovesse operare il
proprio giudizio sull’anomalia dell’offerta di quest’ultima
A.T.I. sulla base di una disamina effettiva delle
giustificazioni dalla stessa fornite, laddove
l’Amministrazione, andando invece ampiamente oltre la soglia
dell’esecuzione di tale prescrizione (ossia, lungi dal
limitarsi all’esame delle giustificazioni fornite
dall’A.T.I. appellata) ha sviluppato la propria azione nel
modo seguente: all’esito di una puntuale disamina, dopo aver
acquisito anche un parere dell’Avvocatura Distrettuale dello
Stato, ha giudicato congrua la sua offerta; ha revocato la
precedente aggiudicazione accordata al Co.Um.So. e ne ha
emesso una nuova a favore, appunto, della suddetta A.T.I.;
ha disposto, infine, la stipula con quest’ultima del
relativo contratto finale, che è stato indi effettivamente
sottoscritto il 28.08.2017.
Gli atti compiuti dalla Stazione appaltante, senza riserve o
condizioni di sorta, dopo la menzionata ordinanza cautelare,
non costituivano pertanto delle mere conseguenze delle
relative statuizioni giudiziali, bensì esprimevano una nuova
effusione di potere amministrativo, svincolata
dall’ordinanza cautelare che l’aveva preceduta.
L’Amministrazione, in altre parole, spinta evidentemente da
ragioni di urgenza e continuità della propria azione, ha
tratto spunto dall’esecuzione dell’ordinanza per compiere e
portare a effetto delle proprie ulteriori scelte
discrezionali, segnatamente decidendo, del tutto
autonomamente, di proseguire e concludere il procedimento
contrattuale in favore dell’A.T.I. Sa.Fi.Ne.–Es..
Il nuovo e definitivo provvedimento di aggiudicazione
assunto dall’Amministrazione non può essere quindi reputato
un atto di esecuzione del precedente dictum
giudiziale.
Da qui l’onere gravante sull’A.T.I. Do.Ca., rimasto
inadempiuto, di farne oggetto di un rituale e tempestivo
gravame, e il corollario per cui tale concorrente non può
utilmente richiamarsi alla giurisprudenza che un simile
onere esclude in presenza di atti amministrativi meramente
esecutivi di ordinanze cautelari o sentenze di primo grado
ancora sub judice.
5c La ricorrente ha altresì obiettato che la nuova
aggiudicazione sarebbe destinata automaticamente a cadere in
caso di accoglimento della presente impugnativa, esito che
avrebbe su tale atto un asserito effetto caducante, e
non semplicemente viziante, in considerazione della
sua posizione di prima classificata nella graduatoria di
gara.
Occorre allora ricordare come la giurisprudenza insegni che
in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto debba
distinguersi tra invalidità a effetto caducante e
invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo
caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende
automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo
non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto
conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e
pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di
rito.
Laddove la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto
caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto
successivo si ponga nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che
comporta dunque la necessità di verificare l'intensità del
rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante
qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario,
nel senso che l'atto successivo si collochi, nell'ambito
dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza
ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità
di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: C.d.S.,
Sez. V, 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813,
13.06.2013, n. 3272, e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012,
n. 5986; VI, 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Ciò posto, per quanto concerne gli specifici rapporti
intercorrenti tra esclusione e aggiudicazione
definitiva di un appalto il Collegio non può che dare
atto che la giurisprudenza dominante, qui richiamata nel
precedente paragr. 5a, ha uniformemente escluso che
l’aggiudicazione posteriore a un’esclusione riconosciuta in
seguito illegittima possa dirsi affetta, per tale ragione,
da un’invalidità di tipo caducante, essendosi affermata, al
contrario, proprio l’esistenza dell’onere d’impugnazione del
quale si è detto.
E poiché la ricorrente non ha offerto alcun argomento, a
base del proprio apodittico asserto, che possa indurre il
Collegio a discostarsi dal suddetto indirizzo, questo dev’essere
senz’altro confermato anche nel caso concreto.
Non giova, infatti, addurre che la ricorrente occupava una
posizione di graduatoria poziore rispetto alle appellate. In
una situazione inversa, il ricorso della medesima contro la
propria esclusione sarebbe stato addirittura ab origine
inammissibile per difetto d’interesse. Ma la circostanza
sottolineata dalla ricorrente, tutt’altro che infrequente,
non valeva a sottrarla ai principi sopra esposti, e pertanto
alle conseguenze sfavorevoli della sua inottemperanza
all’onere del quale si è detto.
5d Non essendovi ragione, dunque, perché la ricorrente possa
sfuggire all’impero del consolidato principio dianzi
ricordato, l’appello in esame in base alle considerazioni
esposte si conferma improcedibile (CGARS,
sentenza 31.01.2018 n. 46 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nei casi nei quali i
motivi di ricorso ineriscano all'illegittima composizione
della commissione di gara o alla sua non idoneità tecnica,
il loro eventuale accoglimento e il conseguente annullamento
ha effetto caducante degli atti dell'intera gara.
---------------
3. Il ricorso principale e i ricorsi per motivi aggiunti
sono in parte infondati, per le seguenti ragioni.
Sia con il ricorso principale, sia con i ricorsi per motivi
aggiunti, la Se.It. Spa, in proprio e quale mandataria del
RTI costituendo con la Se.Sa.In. Srl –nell’impugnare il
provvedimento del 2.10.2016, con cui veniva esclusa dalla
procedura di gara per cui è causa per aver ottenuto un
punteggio di 25,91, inferiore alla soglia di sbarramento
prevista per il lotto n. 1– ha formulato, in via
subordinata, delle censure relative alla costituzione della
commissione giudicatrice, il cui accoglimento comporterebbe
la caducazione dell’intera procedura di gara.
Rispetto ad esse, il cui esame si impone alla luce
dell’inammissibilità delle censure sollevate in via
principale avverso il giudizio tecnico della commissione,
l’omessa impugnazione del provvedimento di aggiudicazione
definitiva è irrilevante.
Ed invero, secondo il condivisibile orientamento
giurisprudenziale, nei casi nei quali i motivi di ricorso
ineriscano all'illegittima composizione della commissione di
gara o alla sua non idoneità tecnica, il loro eventuale
accoglimento e il conseguente annullamento ha effetto
caducante degli atti dell'intera gara (Cons. Stato, n.
4514 del 2014; Tar Bari, n. 4183 del 2010) (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 27.05.2017 n. 231 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’annullamento dell’atto presupposto (il bando)
non comporta la caducazione automatica dell’atto consequenziale
(l’aggiudicazione), qualora con quest’ultimo siano stati
conferiti un bene o un’utilità ad un soggetto non
qualificabile come parte necessaria nel giudizio concernente
l’atto presupposto: ne discende che il fatto che il bando di
gara sia immediatamente impugnabile non esclude la necessità
di far valere l’invalidità derivata dell’atto finale con i
rimedi tipici del processo impugnatorio.
Il riconoscimento,
infatti, del cd. effetto caducante dell’atto presupposto può
ammettersi unicamente nel caso in cui nel giudizio relativo
a detto atto siano state intimate (anche) le parti
necessarie del giudizio concernente l’atto consequenziale, a
pena, in caso contrario, di un’indebita produzione degli
effetti negativi del giudicato di annullamento su soggetti
che non hanno potuto esercitare il loro diritto di difesa.
---------------
Per quanto concerne, invero, gli effetti che l’annullamento
del bando di gara dispiega sugli ulteriori atti della
procedura ed in particolare sull’aggiudicazione definitiva
della stessa, si fronteggiano due opposte esigenze, di volta
in volta valorizzate dalla giurisprudenza espressasi in
materia: da un lato, l’esigenza di non gravare il ricorrente
dell’onere di impugnare con autonomo ricorso o con motivi
aggiunti tutti i successivi atti di gara, dall’altro, quella
di far salvo l’interesse del “controinteressato
sopravvenuto”, in questo caso l’aggiudicatario della
procedura.
Nel primo senso, si è valorizzato il cd. effetto caducante
che l’eventuale annullamento del bando di gara (atto
presupposto) dispiegherebbe sull’aggiudicazione definitiva
(atto consequenziale, che nei confronti del primo si
porrebbe in rapporto di presupposizione/consequenzialità
immediata, diretta e necessaria). In questa prospettiva,
l’omessa o tardiva impugnazione dell’aggiudicazione
definitiva, atto terminale del procedimento, non inficia la
bontà dell’azione giurisdizionale intrapresa avverso l’atto
presupposto, costituito dal bando, poiché l’atto finale del
procedimento selettivo è destinato ad essere automaticamente
travolto in caso di annullamento dell’atto che racchiude la
lex specialis, mercé il cd. effetto caducante, e pertanto lo
stesso non è coperto dall’onere di impugnativa (cfr., ex multis, TAR Campania, Salerno, Sez. I, 27.09.2007,
n. 1991).
In base a tale orientamento, perciò, la mancata impugnazione
da parte della Ma.Co. S.r.l.
dell’aggiudicazione definitiva della gara, sarebbe del tutto
irrilevante ed il ricorso rimarrebbe, comunque, procedibile,
poiché l’accoglimento della domanda impugnatoria e quindi
l’annullamento del bando di gara travolgerebbe
automaticamente, tramite la cd. invalidità caducante, anche
gli altri atti della procedura, compresa l’aggiudicazione
della stessa: ciò che, del resto, viene sostenuto dalla
ricorrente in sede di memoria conclusiva.
Tuttavia, altro orientamento ha sostenuto che l’omessa o
tardiva impugnazione dell’atto finale della gara
(aggiudicazione) rende improcedibile, per sopravvenuto
difetto di interesse, il gravame avverso gli atti
presupposti (bando), non potendosi predicare un effetto
caducante, sull’ultimo atto, derivante dall’eventuale
illegittimità dei primi (TAR Toscana, Sez. III, 21.06.2005, n. 3033).
A questa conclusione, come detto, si perviene muovendo
dall’esigenza di tutelare l’aggiudicatario della gara, che
non è parte necessaria nel giudizio sull’atto presupposto
(il bando di gara), mentre lo è nel giudizio sull’atto
consequenziale (cd. controinteressato sopravvenuto). Invero,
l’annullamento dell’atto presupposto (il bando) non comporta
la caducazione automatica dell’atto consequenziale
(l’aggiudicazione), qualora con quest’ultimo siano stati
conferiti un bene o un’utilità ad un soggetto non
qualificabile come parte necessaria nel giudizio concernente
l’atto presupposto: ne discende che il fatto che il bando di
gara sia immediatamente impugnabile non esclude la necessità
di far valere l’invalidità derivata dell’atto finale con i
rimedi tipici del processo impugnatorio. Il riconoscimento,
infatti, del cd. effetto caducante dell’atto presupposto può
ammettersi unicamente nel caso in cui nel giudizio relativo
a detto atto siano state intimate (anche) le parti
necessarie del giudizio concernente l’atto consequenziale, a
pena, in caso contrario, di un’indebita produzione degli
effetti negativi del giudicato di annullamento su soggetti
che non hanno potuto esercitare il loro diritto di difesa
(cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 23.06.2009,
n. 551).
Seguendo tale orientamento, quindi, l’omessa impugnazione
dell’aggiudicazione definitiva da parte della ricorrente
determinerebbe l’improcedibilità del gravame, almeno nella
sua parte impugnatoria (e con i già accennati effetti
sull’azione risarcitoria), perché l’eventuale annullamento
del bando non potrebbe più procurare alcun vantaggio alla
società: ciò, atteso che né nel ricorso introduttivo, né in
altri atti processuali viene evocato in giudizio
l’aggiudicatario della gara (R.T.I. Impresa Ma. – Fi. S.p.A. – Bo. & Ti. S.p.A.).
Peraltro, la questione in esame deve essere ora affrontata
tenendo conto della disciplina introdotta dal cd. codice del
processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010).
Nello
specifico, l’indirizzo che, per salvaguardare l’interesse
del “controinteressato sopravvenuto” (in questo caso
l’aggiudicatario della gara), esigeva che il ricorrente, il
quale aveva già gravato gli atti di gara, dovesse impugnare
anche l’aggiudicazione, in modo tale da estendere il petitum
di annullamento e da evocare in giudizio pure
l’aggiudicatario, risulta superato dall’art. 28, comma 3,
c.p.a.: detta disposizione, infatti, nell’ottica della
“ragionevole durata del processo” (v. art. 2, comma 2, c.p.a.), facoltizza il giudice ad ordinare l’intervento in
giudizio del terzo, anziché onerare il ricorrente
dell’impugnativa (con altro ricorso o con motivi aggiunti)
dell’aggiudicazione. Del resto, il principio di economicità
degli atti processuali –che è alla base dell’art. 28, comma
3, cit.– si coordina perfettamente con l’effetto
sostanziale cd. caducante dell’aggiudicazione, prodotto
dall’eventuale accoglimento del gravame che ha ad oggetto il
bando (TAR Liguria, Sez. II, 15.06.2011, n. 938).
In conclusione, perciò, va escluso che l’omessa
impugnazione, ad opera della Ma.Co. S.r.l.,
degli atti di gara successivi al bando, ed in specie
dell’aggiudicazione definitiva, comporti l’improcedibilità
del gravame avente ad oggetto il solo bando di gara,
potendosi comunque colmare tale lacuna, secondo quanto si è
ora visto, mediante l’utilizzo del rimedio della chiamata in
giudizio del terzo su ordine del giudice, previsto dall’art.
28, comma 3, c.p.a.: ne deriva l’infondatezza della
suesposta eccezione di improcedibilità formulata dal Comune
di Venezia (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 08.02.2017 n. 138 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Una
volta impugnati il bando e/o l’esclusione dal concorso (o da una procedura
ad evidenza pubblica), occorre poi impugnare anche l’atto conclusivo del
procedimento nel frattempo intervenuto, pena l’improcedibilità del ricorso
avverso l’atto presupposto.
Tale conclusione trova conforto nel condiviso orientamento giurisprudenziale
secondo il quale la non necessità di impugnazione dell’atto finale, quando
sia stato già contestato quello preparatorio, opera unicamente quando tra i
due atti vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata,
diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone quale
inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove ed
autonome valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto
presupposto, né di altri soggetti.
Diversamente, quando l’atto finale, pur partecipando della medesima sequenza
procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisce
conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, l’immediata impugnazione dell’atto preparatorio
non fa venir meno la necessità di impugnare l’atto finale.
---------------
Sul punto di diritto controverso la Sezione non intende discostarsi dai
principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio, secondo cui una
volta impugnati il bando e/o l’esclusione dal concorso (o da una procedura
ad evidenza pubblica), occorre poi impugnare anche l’atto conclusivo del
procedimento nel frattempo intervenuto, pena l’improcedibilità del ricorso
avverso l’atto presupposto (Consiglio di Stato, Sezione V, 11.08.2010, n.
5618, 17.09.2008, n. 4400, 10.05.2010 n. 2766, 26.08.2008, n. 4053).
Tale conclusione trova conforto nel condiviso orientamento
giurisprudenziale, secondo il quale la non necessità di impugnazione
dell’atto finale, quando sia stato già contestato quello preparatorio, opera
unicamente quando tra i due atti vi sia un rapporto di
presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso
che l’atto successivo si pone quale inevitabile conseguenza di quello
precedente, perché non vi sono nuove ed autonome valutazioni di interessi,
né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti.
Diversamente, quando l’atto finale, pur partecipando della medesima sequenza
procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisce
conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, l’immediata impugnazione dell’atto preparatorio
non fa venir meno la necessità di impugnare l’atto finale (Consiglio di
Stato, Sezione V, 11.08.2010; 22.01.2014, n. 329)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.11.2014 n. 5463 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
presenza di vizi accertati dell’atto presupposto deve distinguersi fra
invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante,
la prima soltanto delle quali comporta travolgimento dell’atto
consequenziale, indipendentemente dalla relativa impugnazione: tale
situazione si verifica normalmente quando l’atto successivo venga a porsi
nell’ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile
conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi.
Detto effetto caducante non intercorre di norma fra aggiudicazione
provvisoria ed aggiudicazione definitiva, tenuto conto della giurisprudenza
prevalente, che attribuisce all’aggiudicazione provvisoria natura di atto
endo-procedimentale, dagli effetti ancora instabili e meramente interinali,
con autonoma incidenza lesiva dell’aggiudicazione definitiva, quale
provvedimento di formale ricezione, da parte dell’Amministrazione,
dell’esito della gara, non senza nuova valutazione degli interessi pubblici
e privati sottostanti.
Il soggetto che si consideri leso può dunque impugnare l’aggiudicazione
provvisoria, ma si ritiene che debba comunque contestare, a pena di
improcedibilità del ricorso, anche l’aggiudicazione definitiva (mentre
l’impugnativa di quest’ultima è comunque ammissibile, anche in assenza di
previa contestazione di altri atti interni della procedura di gara).
Quanto sopra non esclude che –in presenza di un’aggiudicazione definitiva,
di fatto meramente confermativa di quella provvisoria ed anche in assenza di
invalidità di atti presupposti, tali da travolgere “ab initio”
l’intera procedura di gara– possa in singoli casi ritenersi applicabile il
principio generale, in precedenza enunciato in tema di effetto caducante.
Quando tuttavia siano stati ritualmente impugnati sia l’aggiudicazione
provvisoria che quella definitiva, appare prioritario ed assorbente il
principio di concentrazione e semplificazione che ha indotto il legislatore,
con l’art. 1 della legge 21.07.2000, n. 205, a consentire l’impugnazione con
motivi aggiunti di tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso
fra le medesime parti, purché connessi all’oggetto del giudizio.
Tale principio consente che ogni atto autonomamente lesivo venga contestato
per i vizi attinenti alla fase cui lo stesso si riferisce, mentre avverso
gli atti conseguenti –ove censurabili solo per l’effetto viziante,
riconducibile ad illegittimità di atti presupposti– può ben essere
prospettato il solo vizio ad essi direttamente riconducibile, ovvero quello
di illegittimità derivata, non ponendosi alcun problema circa la
piena informazione di tutte le parti in causa sugli esatti termini della
controversia (come non avverrebbe in caso di coinvolgimento di altri
soggetti, in giudizi sia pure connessi, ma distinti da quello di cui si
richiamassero genericamente le censure, solo in questo caso incorrendo in
una ragione di inammissibilità).
---------------
Il Collegio è chiamato a valutare, in via preliminare, la correttezza o meno
delle statuizioni della sentenza appellata, secondo cui:
- risulterebbe inammissibile l’impugnazione con motivi aggiunti
dell’aggiudicazione definitiva di una gara, solo per illegittimità derivata
e senza pedissequa riproposizione delle censure, già ritualmente prospettate
avverso l’aggiudicazione provvisoria;
- sarebbe dunque improcedibile il ricorso principale avverso
l’aggiudicazione provvisoria e gli atti presupposti.
Il Collegio non condivide le conclusioni sopra sintetizzate, poiché
incompatibili con principi fondamentali del processo amministrativo.
Nella fattispecie, infatti,l’impresa esclusa dalla gara ha impugnato la
propria esclusione dalla gara, nonché la graduatoria provvisoria e quella
definitiva, richiamando –in sede di proposizione dei motivi aggiunti– le
censure formulate col ricorso principale e deducendo, in particolare,
l’illegittimità derivata della aggiudicazione definitiva.
Con impostazione formalistica, che ha vanificato la tutela dell’originaria
ricorrente, nella sentenza impugnata sono stati dichiarati inammissibili i
motivi aggiunti e improcedibile il ricorso originario, per omessa pedissequa
riproposizione di tutte le censure prospettate nel ricorso stesso.
L’appellante ha contestato tali conclusioni, richiamando in primo luogo i
principi sul cosiddetto effetto travolgente dell’annullamento dell’atto
presupposto, rispetto a quello consequenziale.
In presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, in effetti, deve
distinguersi fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad
effetto viziante, la prima soltanto delle quali comporta travolgimento
dell’atto consequenziale, indipendentemente dalla relativa impugnazione:
tale situazione si verifica normalmente quando l’atto successivo venga a
porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile
conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez.
V, 25.11.2010, n. 8243; Cons. St., sez. VI, 23.12.2008, n. 6520); detto
effetto caducante non intercorre di norma fra aggiudicazione provvisoria ed
aggiudicazione definitiva, tenuto conto della giurisprudenza prevalente, che
attribuisce all’aggiudicazione provvisoria natura di atto
endo-procedimentale, dagli effetti ancora instabili e meramente interinali,
con autonoma incidenza lesiva dell’aggiudicazione definitiva, quale
provvedimento di formale ricezione, da parte dell’Amministrazione,
dell’esito della gara, non senza nuova valutazione degli interessi pubblici
e privati sottostanti (cfr., in senso conforme, Cons. St., sez. V,
11.01.2011, n. 80; Cons. St., sez. VI, 20.10.2010, n. 7586; Cons. St., sez.
V, 23.11.2010, nn.. 8154 e 8153).
Il soggetto che si consideri leso può dunque impugnare l’aggiudicazione
provvisoria, ma si ritiene che debba comunque contestare, a pena di
improcedibilità del ricorso, anche l’aggiudicazione definitiva (mentre
l’impugnativa di quest’ultima è comunque ammissibile, anche in assenza di
previa contestazione di altri atti interni della procedura di gara).
Quanto sopra non esclude che –in presenza di un’aggiudicazione definitiva,
di fatto meramente confermativa di quella provvisoria ed anche in assenza di
invalidità di atti presupposti, tali da travolgere “ab initio”
l’intera procedura di gara– possa in singoli casi ritenersi applicabile il
principio generale, in precedenza enunciato in tema di effetto caducante
(cfr. Cons. St., sez. VI, 19.07.2007, n. 4060). Quando tuttavia, come nella
situazione in esame, siano stati ritualmente impugnati sia l’aggiudicazione
provvisoria che quella definitiva, appare prioritario ed assorbente il
principio di concentrazione e semplificazione che ha indotto il legislatore,
con l’art. 1 della legge 21.07.2000, n. 205, a consentire l’impugnazione con
motivi aggiunti di tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso
fra le medesime parti, purché connessi all’oggetto del giudizio.
Tale principio consente che –nel processo unitario in corso– ogni atto
autonomamente lesivo venga contestato per i vizi attinenti alla fase cui lo
stesso si riferisce, mentre avverso gli atti conseguenti –ove censurabili
solo per l’effetto viziante, riconducibile ad illegittimità di atti
presupposti– può ben essere prospettato il solo vizio ad essi direttamente
riconducibile, ovvero quello di illegittimità derivata, non ponendosi alcun
problema circa la piena informazione di tutte le parti in causa sugli esatti
termini della controversia (come non avverrebbe in caso di coinvolgimento di
altri soggetti, in giudizi sia pure connessi, ma distinti da quello di cui
si richiamassero genericamente le censure, solo in questo caso incorrendo in
una ragione di inammissibilità).
La sentenza appellata –che dichiarava inammissibili i motivi aggiunti di
gravame avverso l’aggiudicazione definitiva, poiché non formalmente
reiterativi di tutte le censure in precedenza prospettate, con ulteriore
improcedibilità del ricorso principale– non può pertanto che essere
annullata, senza che si pongano problemi di riconoscimento dell’errore
scusabile, pur richiamato dall’appellante, poiché vi è stata la rituale
impugnazione di tutti gli atti emessi in sede amministrativa
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.04.2011 n. 2482 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
In materia
di atti amministrativi: |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante,
nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende
automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è
stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da
illegittimità derivata ma resta efficace ove non ritualmente impugnato.
La prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a
porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare
l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto
sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si
ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza
ineluttabile rispetto all'atto precedente
---------------
- che l’accoglimento del ricorso introduttivo deve estendersi anche
ai motivi aggiunti proposti avverso gli atti di nomina del
controinteressato; non sfugge al Collegio che, in presenza di vizi accertati
dell'atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante
e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale
anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso
l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata ma resta efficace
ove non ritualmente impugnato.
La prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l'atto successivo venga a
porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, il che comporta la necessità di valutare
l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto rapporto
sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si
ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza
ineluttabile rispetto all'atto precedente
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 25.07.2019 n. 4068 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per
pacifica giurisprudenza, in presenza di vizi prospettati dell'atto
presupposto "deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante
e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale
anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso
l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma resta efficace
ove non ritualmente impugnato.
La prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui
l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la
necessità di valutare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra
l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto
caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel
senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto
procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente".
---------------
Invero, per pacifica giurisprudenza, in presenza di vizi prospettati
dell'atto presupposto "deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante
e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale
anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso
l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma resta efficace
ove non ritualmente impugnato; la prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui
l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la
necessità di valutare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra
l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto
caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel
senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto
procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente"
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 13.11.2015, n. 5188)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 06.06.2019 n. 672 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Deve
distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a
effetto viziante dell’atto presupposto, nel senso che nel primo caso
l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel
secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, ma
resta efficace ove non ritualmente impugnato.
---------------
1) Il ricorso è fondato e merita accoglimento
2) In via preliminare, il Collegio ritiene opportuno precisare, in punto di
diritto, che la cosiddetta illegittimità derivata è quel fenomeno di
propagazione dell’invalidità dell’atto amministrativo, suscettibile di
contagiare atti amministrativi distinti ma legati da un vincolo di
presupposizione.
In tal senso, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e
invalidità a effetto viziante dell’atto presupposto, nel senso che nel primo
caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente
all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità
derivata, ma resta efficace ove non ritualmente impugnato (Cons. Stato, Sez.
V, 10.04.2018, n. 2168; sez. III, 3.08.2015, n. 3800; sez. V, 13.11.2015, n.
5188).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato di decadenza dalla prima
rafferma impugnato è atto conseguenziale e successivo, nel senso che si pone
come conseguenza di quello precedente (atto presupposto) di decadenza dalla
ferma, perché basato esclusivamente sulla sussistenza del primo
provvedimento, senza che vi siano autonome ragioni o nuove e ulteriori
valutazioni. Inoltre, il secondo provvedimento è stato tempestivamente
impugnato in questa sede, di tal che perde di pratica rilevanza nella
fattispecie in esame la distinzione tra invalidità a effetto caducante e
invalidità a effetto viziante ai fini
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 17.05.2019 n. 6130 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Come chiarito dalla giurisprudenza, l’annullamento,
disposto in autotutela e, a maggior ragione, conseguente a
una pronuncia del giudice amministrativo, incidendo su un
atto che costituisce l’indefettibile presupposto
logico-giuridico della stipulazione della convenzione, non
può che determinare la caducazione dell’accordo
contrattuale. Tanto che potrebbe essere ipotizzata anche la
nullità originaria dell’accordo per impossibilità
dell’oggetto, una volta venuto meno il deliberato
preliminare.
L’effetto caducante ricorre, dunque, ogni volta che lo
stesso atto presupposto sia condizione imprescindibile di
esistenza del solo atto presupponente, la cui sopravvivenza
risulta pregiudicata dall'eliminazione di quello.
---------------
Il ricorso merita, dunque, positivo apprezzamento.
La scelta operata dal Comune, nell’esercizio del proprio
potere regolatorio del servizio funerario, di apportare
all’atto n. 2860 Rep. Mun. del 16.09.2008 le
modificazioni e integrazioni previste dal testo allegato
alla deliberazione 178-18, risulta, infatti, essere in
contrasto con i principi costituzionali che garantiscono la
libertà di religione e della sua professione. Libertà che
risulta chiaramente incisa nel momento in cui la possibilità
di accedere al rito funebre islamico per il deceduto, è
subordinata all’acquisizione, da parte dei parenti, di una
certificazione attestante la fede islamica dello stesso,
rilasciata da un soggetto privo di alcuna legittimazione in
tal senso, trattandosi di una mera associazione privata.
Deve, dunque, per tali ragioni, essere annullata la
deliberazione con cui il Comune ha ritenuto di poter
modificare l’art. 9 della convenzione in essere con il
Centro islamico, subordinando la sepoltura a tale
condizione, con conseguente effetto caducante sul nuovo
testo convenzionale sottoscritto.
Come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, l’annullamento,
disposto in autotutela e, a maggior ragione, conseguente a
una pronuncia del giudice amministrativo, incidendo su un
atto che costituisce l’indefettibile presupposto
logico-giuridico della stipulazione della convenzione, non
può che determinare la caducazione dell’accordo
contrattuale. Tanto che potrebbe essere ipotizzata anche la
nullità originaria dell’accordo per impossibilità
dell’oggetto, una volta venuto meno il deliberato
preliminare.
L’effetto caducante ricorre, dunque, ogni volta che lo
stesso atto presupposto sia condizione imprescindibile di
esistenza del solo atto presupponente, la cui sopravvivenza
risulta pregiudicata dall'eliminazione di quello (così TAR
Pescara, n. 18/2019, in cui sono richiamate le sentenze del
Consiglio Stato, sez. VI, 23.12.2008, n. 6520 e sez. IV,
27.03.2009, n. 1869).
Condizione che risulta ricorrere a pieno nella fattispecie,
con la conseguenza che deve precisarsi come l’annullamento
(disposto per le suddette ragioni) della deliberazione
178-18 comporti l’effetto caducante della modificazione
della convenzione sottoscritta dal Comune e dal Centro
islamico, con conseguente ripristino dell’efficacia del
testo della convenzione sottoscritto nel 2008, dovendosi
ritenere tamquam non esset ogni successiva
modificazione apportata con l’atto annullato. Ciò anche in
considerazione dell’inefficacia dell’ulteriore modificazione
proposta dal Comune il 06.12.2018, che solo con
l’approvazione del Centro islamico potrà innovare al testo
del più volte citato art. 9 della Convenzione nei termini da
essa previsti (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza
20.04.2019 n. 383 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’effetto caducante ricorre quando “lo stesso atto presupposto sia
condizione imprescindibile di esistenza del solo atto
presupponente, la cui sopravvivenza risulta pregiudicata
dall'eliminazione di quello".
La caducazione dell'atto presupposto, per effetto del
presente annullamento del diniego di sanatoria travolge
anche il consequenziale decreto di rilascio, determinandone
l'eliminazione automatica.
---------------
Per tali motivi, il ricorso va accolto con conseguente
annullamento del diniego impugnato.
4. Relativamente al decreto di rilascio dell’immobile, del
quale era stato richiesto l’annullamento nella causa
riassunta a seguito di declaratoria del difetto di
giurisdizione da parte del giudice ordinario, è da rilevare
come esso costituisca un “posterius” logico del
diniego di sanatoria.
A seguito dell’accoglimento del ricorso, infatti, consegue
la caducazione del provvedimento di rilascio, in quanto
legato da nesso di pregiudizialità-dipendenza. L’effetto caducante ricorre quando “lo stesso atto presupposto sia
condizione imprescindibile di esistenza del solo atto
presupponente, la cui sopravvivenza risulta pregiudicata
dall'eliminazione di quello" (Consiglio Stato, sez. VI,
23.12.2008, n. 6520; Consiglio Stato, sez. IV, 27.03.2009,
n. 1869).
La caducazione dell'atto presupposto, per effetto del
presente annullamento del diniego di sanatoria travolge
anche il consequenziale decreto di rilascio, determinandone
l'eliminazione automatica.
Di qui consegue la sopraggiunta improcedibilità per difetto
dei interesse del ricorso successivamente instaurato (TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza
31.01.2019 n. 18 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La giurisprudenza ha già chiarito
che, nell'ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità
ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura
più dirompente, occorrono due elementi precisi:
a) il primo dato dall'appartenenza, sia dell'atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
---------------
A. – Con il ricorso in esame, notificato il 10.06.2010 e
depositato il 6 luglio, le odierne istanti hanno impugnato
la deliberazione n. 57/2008 indicata in epigrafe, con la
quale la Giunta del Comune di Castelbuono ha revocato
l’assegnazione del lotto cimiteriale già assegnato a
Gi.Sc.; chiedendo anche il risarcimento del danno
causato dal provvedimento.
...
B.2 – Per il resto, il ricorso è inammissibile per mancata
impugnazione degli atti, depositati dal Comune, relativi
all’assegnazione del lotto a terzi.
E’ stato osservato che “…la giurisprudenza (cfr., ex multis,
Cons. Stato, IV, n. 1247 del 2018; sez., IV, n. 4404 del
2015; Cass. civ., SS.UU., n. 7702 del 2016) ha già chiarito
che, nell'ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità
ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura
più dirompente, occorrono due elementi precisi:
a) il primo dato dall'appartenenza, sia dell'atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo…” (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.05.2018, n. 3169; nello
stesso senso, Consiglio di Stato, Sez. IV, 18.05.2018,
n. 3001).
Nel caso in esame, osserva il Collegio che il lotto, di cui
le ricorrenti pretendono l’assegnazione, è stato diviso e
assegnato, successivamente alla contestata revoca, a due
privati, i quali hanno stipulato il contratto, ottenuto la
concessione edilizia e comunicato l’inizio dei lavori (cfr.
documentazione depositata dal Comune).
Ne consegue che -come già rilevato nell’ordinanza cautelare
n. 652/2010- parte ricorrente avrebbe dovuto impugnare tali
atti, atteso che tra tali atti e la revoca dell’assegnazione
del lotto non si pone alcun rapporto di invalidità caducante,
proprio per la presenza di terzi controinteressati
individuabili, sulla cui posizione l’Amministrazione ha
effettuato un’ulteriore valutazione di interessi con
rilascio degli atti ampliativi aventi ad oggetto le due
porzioni di lotto.
Deve, peraltro, aggiungersi che il lotto in questione è
stato inserito tra le aree libere da assegnare giusta
deliberazione di G.M. n. 76 del 17.06.2008, prodotta in
atti dal Comune, che parte ricorrente ha ritenuto di non
contestare.
D’altro canto, non vale a superare la rilevata
inammissibilità la circostanza, evidenziata dalla parte
ricorrente nella memoria conclusiva, di avere impugnato, con
il ricorso introduttivo, ogni atto anche consequenziale alla
deliberazione.
Invero, il generico riferimento, contenuto nel ricorso,
all’impugnazione di tutti gli atti connessi, presupposti e
consequenziali a quello specificamente gravato, integra una
mera formula di stile priva di qualsiasi valore processuale,
inidonea ad individuare uno specifico oggetto di
impugnativa.
Sotto tale profilo, va applicato il costante principio
giurisprudenziale, secondo cui “…le formule di mero stile
dell'impugnazione come a “tutti gli atti antecedenti,
preordinati, connessi, successivi e consequenziali” sono
prive di un reale valore processuale, perché inidonee ad
individuare uno specifico oggetto di gravame: e dunque da un
lato a investire il giudice del dovere decisorio, dall’altro
a mettere in guardia i controinteressati per disporsi a
contraddittorio nel processo…” (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. V, 09.05.2017, n. 2121).
C. – Per tutto quanto esposto e rilevato, il ricorso deve
essere dichiarato inammissibile (TAR Sicilia-Palermo, Sez.
III,
sentenza 25.01.2019 n. 179 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Va richiamato il consolidato insegnamento
giurisprudenziale per il quale, pur in presenza di vizi
accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e
invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella
appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza
in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della
medesima sequenza procedimentale quale inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di
ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità
di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità
tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con
riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi.
---------------
Va altresì richiamata la distinzione tra atto di conferma ed
atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un
atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non
impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi,
autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre
verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno
senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli
interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo,
rispetto ad un atto precedente, l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento
di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame
degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la
fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente
confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un
provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto meramente
confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare
l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza
compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova
motivazione.
---------------
7.2. Parimenti, non è fondato l’assunto secondo cui
l’interesse al presente gravame permarrebbe in ragione
dell’attuale pendenza del giudizio iscritto dinanzi al TAR
Marche col n. 301/12 R.G., nel quale risultano impugnati
atti legislativi e provvedimenti amministrativi successivi
all’emanazione del regolamento regionale n. 6 del 2009.
Nel giudizio attualmente pendente in primo grado è impugnata
una delibera della Giunta regionale che è stata emanata a
conclusione di un autonomo procedimento amministrativo che
ha comportato un’apposita e rinnovata valutazione degli
interessi pubblici coinvolti, come dimostrato dalla previa
acquisizione del parere della commissione consiliare
competente.
Tra le norme regolamentari qui sub iudice e la deliberazione
giuntale n. 118/2012 non sussiste un rapporto di
consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto
presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda
automaticamente all’atto consequenziale.
In proposito va richiamato il consolidato insegnamento
giurisprudenziale, per il quale, pur in presenza di vizi
accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito. Però la prima ipotesi, quella
appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza
in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della
medesima sequenza procedimentale quale inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di
ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità
di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità
tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con
riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato,
V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e
05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243). Siffatta
situazione procedimentale è da escludere nel caso di specie.
Va altresì richiamata la distinzione tra atto di conferma ed
atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un
atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non
impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi,
autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre
verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno
senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli
interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente
confermativo, rispetto ad un atto precedente, l'atto la cui
adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione
che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia
pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un
nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che
caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un
atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare
vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi
suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto
meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a
dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento
senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova
motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 14.04.2014,
n. 1805; id., 12.02.2015, n.758; id., 29.02.2016, n. 812; id, 12.10.2016, n. 4214, nonché, da
ultimo, in tema di successione di strumenti di
pianificazione generale, Cons. Stato, IV, 27.01.2017,
n. 357) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.01.2019 n. 432 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’eventuale illegittimità della
delibera giuntale, cui sono conseguite determinazioni
dirigenziali di revoca di procedure amministrative, determina la loro
invalidità derivata a effetto caducante, sicché non è
necessaria la loro espressa impugnazione, atteso che
l’annullamento della delibera presupposta comporta
automaticamente anche il loro travolgimento.
---------------
12.1. S’è visto come la Provincia sostenga che le ricorrenti
siano sprovviste d’interesse ad agire, posto che la delibera
impugnata, avendo natura di atto normativo, destinato, per
la sua generalità e astrattezza, a una platea indistinta di
interessati, sarebbe privo di lesività diretta e concreta
della loro sfera d’interessi, la quale sarebbe invece, in
tesi, potenzialmente incisa dagli atti di revoca della
procedura di stabilizzazione avviata con le comunicazioni
del marzo 2018, tuttavia non impugnati.
L’eccezione è infondata.
È, infatti, palese la lesività concreta e attuale
dell’impugnata delibera sulla sfera soggettiva delle
ricorrenti. Essa mira espressamente a privarli in via
diretta e immediata dei requisiti, maturati ai sensi del
previgente art. 1-bis, comma 1, della delibera della Giunta
provinciale n. 417/2008, per la stipulazione con la
Provincia di altrettanti contratti di lavoro a tempo
indeterminato e dispone la revoca della procedura di
stabilizzazione già in corso nei loro confronti. Non sfugge,
invero, che è la stessa delibera gravata a incaricare il
dirigente competente a revocare la procedura in questione,
seppure con l’ambigua formula dell’”autorizzazione” al
medesimo di procedere in tal senso.
Le lettere di revoca inviate alle ricorrenti dal dirigente
provinciale, delle quali la Provincia eccepisce la mancata
impugnazione, facendovi conseguire l’inammissibilità del
gravame, costituiscono l’inevitabile diretta conseguenza del
provvedimento giuntale impugnato.
Sono pertanto atti
strettamente consequenziali, inscindibilmente connessi alla
delibera in questione, che, specularmente, costituisce il
loro presupposto unico, immediato e necessario. L’emissione
delle lettere di revoca in esecuzione della delibera gravata
non richiede, infatti, alcuna valutazione da parte del
funzionario competente, né alcuna ulteriore ponderazione
degli interessi coinvolti.
L’eventuale illegittimità della
delibera, di cui esse sono l’immediata e inevitabile
conseguenza, determina la loro invalidità derivata a effetto caducante, sicché non è necessaria la loro espressa
impugnazione, atteso che l’annullamento della delibera
presupposta comporta automaticamente anche il loro
travolgimento (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 15.01.2019 n. 10 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La giurisprudenza insegna che in presenza di vizi
accertati dell'atto presupposto debba distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Il che comporta, quindi, la necessità di verificare
l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto
presupposto e quello successivo, con il riconoscimento di un
effetto caducante qualora tale rapporto sia, come nella
presente vicenda, immediato, diretto e necessario, ponendosi
l'atto successivo come conseguenza ineluttabile rispetto
all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di
interessi.
Laddove la condizione ulteriore, frequentemente quanto
tralatiziamente evocata dalla giurisprudenza, per cui ai
fini dell’effetto caducante occorrerebbe anche l’elemento
formale per cui tutti gli atti in discussione dovrebbero
collocarsi nella stessa sequenza procedimentale, deve
ritenersi in realtà non decisiva, ma piuttosto recessiva
rispetto agli elementi costituiti dal rapporto di effettiva
presupposizione tra gli atti, nonché dal qualificato legame
di conseguenzialità appena descritto, fattori il cui
concorso risulta già sufficiente a integrare il fondamento
logico del meccanismo dell’anzidetta caducazione automatica.
---------------
Altrettanto fondatamente la ricorrente ha precisato,
inoltre, che l’annullamento, da essa domandato,
dell’autorizzazione al suddetto trasferimento avrebbe
comportato un effetto caducante delle determinazioni
amministrative a valle che tale trasferimento
presupponevano, e che non costituivano, d’altra parte,
espressioni di discrezionalità.
La giurisprudenza insegna, infatti, che in presenza di vizi
accertati dell'atto presupposto debba distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito. Il che comporta, quindi, la
necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e quello successivo,
con il riconoscimento di un effetto caducante qualora tale
rapporto sia, come nella presente vicenda, immediato,
diretto e necessario, ponendosi l'atto successivo come
conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza
necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le
tante: C.d.S., Sez. V, 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013,
n. 5813, 13.06.2013, n. 3272, e 24.05.2013, n. 2823; VI,
27.11.2012, n. 5986; VI, 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010,
n. 8243).
Laddove la condizione ulteriore, frequentemente quanto
tralatiziamente evocata dalla giurisprudenza, per cui ai
fini dell’effetto caducante occorrerebbe anche l’elemento
formale per cui tutti gli atti in discussione dovrebbero
collocarsi nella stessa sequenza procedimentale, deve
ritenersi in realtà non decisiva, ma piuttosto recessiva
rispetto agli elementi costituiti dal rapporto di effettiva
presupposizione tra gli atti, nonché dal qualificato legame
di conseguenzialità appena descritto, fattori il cui
concorso risulta già sufficiente a integrare il fondamento
logico del meccanismo dell’anzidetta caducazione automatica (CGARS,
sentenza 25.07.2018 n. 449 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
In presenza di vizi dell’atto presupposto che ne
hanno determinato l’annullamento, l’effetto caducante
per l’atto successivo si verifica solo quando il rapporto
tra i due atti sia immediato, diretto e necessario, nel
senso che l’atto successivo si ponga come inevitabile
conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed
ulteriori valutazioni di interessi.
---------------
Infine, in presenza di vizi dell’atto presupposto che ne
hanno determinato l’annullamento, l’effetto caducante
per l’atto successivo si verifica solo quando il rapporto
tra i due atti sia immediato, diretto e necessario, nel
senso che l’atto successivo si ponga come inevitabile
conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed
ulteriori valutazioni di interessi (Consiglio di Stato, sez.
V, 20.01.2015 n. 163; sez. IV, 13.06.2013 n. 3272; sez. VI,
27.11.2012 n. 5986; sez. V 17.10.2012 n. 5294; sez. VI,
02.02.2012 n. 585), circostanza che sussiste nel caso di
specie (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 11.05.2018 n. 1258 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In tema di atti amministrativi, la figura della
cd. invalidità caducante si delinea allorquando il
provvedimento annullato rappresenti il presupposto unico ed
imprescindibile dei successivi atti consequenziali, cosicché
il suo venir meno travolge automaticamente –e cioè senza che
occorra alcuna ulteriore specifica impugnativa– tali atti
successivi strettamente e specificamente collegati al
provvedimento presupposto.
Vero è che, secondo la giurisprudenza, l’effetto caducante
derivante dall’annullamento dell’atto non può trovare
applicazione nel caso in cui l’atto conseguenziale incida in
via immediata e diretta sulla posizione di soggetti terzi
rispetto al giudizio instaurato contro l’atto presupposto;
in tal caso, infatti, sussiste l’onere di impugnare anche
l’atto conseguenziale e di notificare l’impugnazione al
soggetto controinteressato.
---------------
c) si richiama, in argomento, l’indirizzo giurisprudenziale
secondo cui, in tema di atti amministrativi, la figura della
cd. invalidità caducante si delinea allorquando il
provvedimento annullato rappresenti il presupposto unico ed
imprescindibile dei successivi atti consequenziali, cosicché
il suo venir meno travolge automaticamente –e cioè senza che
occorra alcuna ulteriore specifica impugnativa– tali atti
successivi strettamente e specificamente collegati al
provvedimento presupposto (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez.
III, 05.08.2010, n. 9199).
Vero è che, secondo la giurisprudenza, l’effetto caducante
derivante dall’annullamento dell’atto non può trovare
applicazione nel caso in cui l’atto conseguenziale incida in
via immediata e diretta sulla posizione di soggetti terzi
rispetto al giudizio instaurato contro l’atto presupposto;
in tal caso, infatti, sussiste l’onere di impugnare anche
l’atto conseguenziale e di notificare l’impugnazione al
soggetto controinteressato (cfr., ex plurimis, TAR
Puglia, Lecce, Sez. II, 31.07.2014, n. 2055) (TAR Veneto,
Sez. I,
sentenza 13.04.2018 n. 398 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti
succedutisi nel tempo non sussiste un rapporto di
consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto
presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda
automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale è infatti nel
senso che in presenza di vizi accertati dell'atto
presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto
caducante e invalidità a effetto viziante, nel
senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto
presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante,
ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga
a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale
quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque,
la necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi.
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso
della successione cronologica di atti di pianificazione
generale, anche quando il piano successivo si ponga come
mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come detto,
comporta l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo.
---------------
Va richiamata la distinzione -assolutamente netta nei
diversi arresti giurisprudenziali che hanno affrontato la
questione- tra atto di conferma ed atto meramente
confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto
amministrativo sia meramente confermativo (e perciò
non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e,
quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini),
occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o
meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione
degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento
di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame
degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la
fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente
confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un
provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando
l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un
suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione.
---------------
5. Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti della
Regione Sardegna succedutisi nel tempo non sussiste un
rapporto di consequenzialità tale che, essendo stato
impugnato l’atto presupposto, l’accertata invalidità di
questo si estenda automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale, richiamato
dall’appellante, è infatti nel senso che in presenza di vizi
accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante,
ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga
a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale
quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque,
la necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato,
V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013,
n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI,
27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n.
8243).
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso
della successione cronologica di atti di pianificazione
generale, anche quando il piano successivo si ponga come
mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come
detto, comporta l’avvio di un nuovo procedimento
amministrativo.
5.1. Nemmeno giova all’appellante sostenere che il Piano
approvato nel 2016 sarebbe un atto di conferma del
precedente.
Va in proposito richiamata la distinzione -assolutamente
netta nei diversi arresti giurisprudenziali che hanno
affrontato la questione- tra atto di conferma ed
atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se
un atto amministrativo sia meramente confermativo (e
perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio
(e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei
termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato
adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova
ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento
di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame
degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la
fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente
confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un
provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto meramente
confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare
l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza
compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova
motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 14.04.2014, n.
1805; id., 12.02.2015, n. 758; id., 29.02.2016, n. 812; id,
12.10.2016, n. 4214, nonché, da ultimo, in tema di
successione di strumenti di pianificazione generale, Cons.
Stato, IV, 27.01.2017, n. 357).
Peraltro, nel caso di specie, più che una conferma di
precedenti previsioni di Piano si è avuta la rinnovata
approvazione, a seguito di apposita nuova istruttoria, di
previsioni soltanto conformi, cioè coincidenti, con le
precedenti.
La loro sopravvivenza all’eventuale annullamento di queste
ultime rende improcedibile l’appello per sopravvenuta
carenza di interesse (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.04.2018 n. 2172 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nel rapporto tra disposizione regolamentare
illegittima e provvedimento attuativo non è ravvisabile quel rapporto di
presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura della
invalidità derivata con effetto caducante (e non viziante)
sull’atto a valle (che, cioè, si sprigiona a prescindere
dall’impugnazione di quest’ultimo), trattandosi invero non
già di una relazione di presupposizione in senso
tecnico-procedimentale –ravvisabile nelle sole ipotesi in
cui gli atti appartengano ad una medesima fattispecie procedimentale, o in cui l’atto precedente sia presupposto
unico e indefettibile dell’atto successivo nel senso di
costituirne un presupposto di esistenza–, bensì di una mera
relazione di presupposizione logico-giuridica tra norma
regolamentare, generale e astratta, e atto amministrativo di
cui la prima costituisce parametro di legittimità e la cui
invalidità si riflette dunque, secondo il fenomeno
dell’invalidità derivata, sull’atto amministrativo a valle
determinandone un vizio di annullabilità rimovibile solo con
un’impugnazione da proporre entro il termine di decadenza
(oppure, eventualmente, in via di autotutela).
---------------
8. Le considerazioni da ultimo svolte valgono anche a
respingere il quarto motivo d’appello, di cui sopra sub
2.d), con le seguenti precisazioni:
- nel rapporto tra disposizione regolamentare illegittima e
provvedimento attuativo non è ravvisabile quel rapporto di
presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura della
invalidità derivata con effetto caducante (e non viziante)
sull’atto a valle (che, cioè, si sprigiona a prescindere
dall’impugnazione di quest’ultimo), trattandosi invero non
già di una relazione di presupposizione in senso
tecnico-procedimentale –ravvisabile nelle sole ipotesi in
cui gli atti appartengano ad una medesima fattispecie procedimentale, o in cui l’atto precedente sia presupposto
unico e indefettibile dell’atto successivo nel senso di
costituirne un presupposto di esistenza–, bensì di una mera
relazione di presupposizione logico-giuridica tra norma
regolamentare, generale e astratta, e atto amministrativo di
cui la prima costituisce parametro di legittimità e la cui
invalidità si riflette dunque, secondo il fenomeno
dell’invalidità derivata, sull’atto amministrativo a valle
determinandone un vizio di annullabilità rimovibile solo con
un’impugnazione da proporre entro il termine di decadenza
(oppure, eventualmente, in via di autotutela);
- sotto altro profilo, il venir meno della norma
regolamentare per effetto di un giudicato di annullamento
comporta la sua inapplicabilità alle fattispecie concrete
giuridicamente rilevanti, sussumibili nel relativo ambito
applicativo, il che presuppone che il relativo rapporto (da
intendersi in senso lato) oggetto della disciplina
regolamentare illegittima non sia ancora ‘chiuso in modo irretrattabile’ o ‘esaurito’ (ad es., per intervenuta
decadenza o prescrizione, per precedente definizione con
efficacia di giudicato, ecc.), ma sia ancora ‘pendente’;
- la questione dell’eventuale estensione degli effetti del
giudicato a soggetti terzi titolari di rapporti esauriti è,
invece, in linea generale e salvo eventuali espressi e
specifici divieti di legge, rimessa alla determinazione
discrezionale dell’Amministrazione nell’esercizio degli
ordinari poteri di autotutela (anche su impulso del soggetto
interessato), la quale, a sua volta, diviene giustiziabile
secondo i generali parametri del sindacato di legittimità,
ivi compresi tutti gli elementi sintomatici del vizio di
eccesso di potere (ma, come già esposto sopra sub 7., nel
caso di specie manca un determinazione amministrativa
concreta in relazione alla posizione dell’odierna
appellante) (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 20.03.2018 n. 1777 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
È stato stabilito che se l'invalidità di una
condizione apposta all'atto amministrativo comporta
invalidità totale dell'atto stesso, qualora il contenuto
della condizione abbia costituito il motivo essenziale della
dichiarazione di volontà amministrativa che non vi sarebbe
stata senza quella, tuttavia l'invalidità totale dell'atto a
cagione dell'invalidità della condizione non può prodursi
quando si tratti di atti dovuti.
---------------
Si aggiunga che anche laddove la contestata nota del Comune
di Orbetello venisse qualificata nei termini di una proposta
transattiva al ricorrente, ebbene non ne verrebbe meno
l’illegittimità poiché nella fattispecie la posizione
azionata ha la consistenza dell’interesse legittimo al
rilascio dell’autorizzazione in parola, inerente a un
procedimento amministrativo inteso ad accertarne i
presupposti e i requisiti oggettivi e soggettivi. La
posizione di interesse legittimo attiene all’interesse
pubblico e non è suscettibile di formare oggetto di
transazione, alla stregua di una comune controversia
patrimoniale di diritto privato (C.d.S. IV, 05.06.1995 n.
405).
Il ricorso per motivi aggiunti pertanto è fondato per tali
decisive ragioni, e possono essere assorbite le ulteriori
censure poiché il loro accoglimento non apporterebbe
ulteriore utilità al ricorrente. Per l’effetto, deve essere
annullata la nota comunale 13.07.2017 che ha apposto la
citata condizione illegittima.
Il suo annullamento però non travolge il provvedimento cui
la condizione accede.
È stato infatti stabilito che se l'invalidità di una
condizione apposta all'atto amministrativo comporta
invalidità totale dell'atto stesso, qualora il contenuto
della condizione abbia costituito il motivo essenziale della
dichiarazione di volontà amministrativa che non vi sarebbe
stata senza quella, tuttavia l'invalidità totale dell'atto a
cagione dell'invalidità della condizione non può prodursi
quando si tratti di atti dovuti (TAR Lombardia Milano IV,
10.09.2010 n. 5655).
Resta quindi ferma l’autorizzazione del ricorrente
all’accesso alle aree demaniali marittime, priva della
condizione illegittimamente apposta dall’Amministrazione
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 12.03.2018 n. 371 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'ipotesi di invalidità derivata caducante
si delinea allorquando il provvedimento annullato in sede
giurisdizionale costituisce il presupposto unico ed
imprescindibile dei successivi atti consequenziali,
esecutivi e meramente confermativi, sicché il suo venir meno
travolge automaticamente, nel senso che non occorre una
ulteriore specifica impugnativa, tali atti successivi
strettamente e specificamente collegati al provvedimento
presupposto.
L'ipotesi della invalidità derivata ad effetto solo
viziante si ravvisa, invece, in tutte le ipotesi nelle
quali si è in presenza di provvedimenti presupponenti solo
genericamente o indirettamente connessi a quello
presupposto: proprio per la rilevata assenza di uno
specifico e stretto legame di dipendenza o di
presupposizione, tali atti successivi non possono ovviamente
rimanere travolti automaticamente, occorrendo per la loro
eliminazione una esplicita pronuncia giurisdizionale di
annullamento.
---------------
A prescindere se si versi in ipotesi di invalidità
derivata caducante (che si delinea allorquando il
provvedimento annullato in sede giurisdizionale costituisce
il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti
consequenziali, esecutivi e meramente confermativi, sicché
il suo venir meno travolge automaticamente, nel senso che
non occorre una ulteriore specifica impugnativa, tali atti
successivi strettamente e specificamente collegati al
provvedimento presupposto) o di invalidità derivata ad
effetto solo viziante (che si ravvisa, invece, in tutte
le ipotesi nelle quali si è in presenza di provvedimenti
presupponenti solo genericamente o indirettamente connessi a
quello presupposto: proprio per la rilevata assenza di uno
specifico e stretto legame di dipendenza o di
presupposizione, tali atti successivi non possono ovviamente
rimanere travolti automaticamente, occorrendo per la loro
eliminazione una esplicita pronuncia giurisdizionale di
annullamento) nella specie il Collegio ha respinto nel
merito il predetto ricorso n. 278/2017 (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 29.11.2017 n. 791 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Quando sussiste un vizio di legittimità dell’atto
presupposto tale da incidere sull’atto presupponente, deve distinguersi tra invalidità a effetto
caducante e invalidità a effetto viziante, nel
senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto
presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è
affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta
efficace ove non impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi (invalidità derivata ad effetto
caducante), ricorre nella sola evenienza in cui l'atto
successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che
comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del
rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante
qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario,
nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello
stesso contesto procedimentale, come conseguenza
ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità
di nuove valutazioni di interessi.
---------------
Secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale (cfr.,
Cons. Stato, 2611/2015), quando sussiste un vizio di
legittimità dell’atto presupposto tale da incidere sull’atto
presupponente, deve distinguersi tra invalidità a effetto
caducante e invalidità a effetto viziante, nel
senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto
presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è
affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta
efficace ove non impugnato nel termine di rito.
“La prima ipotesi (invalidità derivata ad effetto
caducante), ricorre nella sola evenienza in cui l'atto
successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che
comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del
rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante
qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario,
nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello
stesso contesto procedimentale, come conseguenza
ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità
di nuove valutazioni di interessi” (cfr., tra le tante:
C.d.S., Sez. V, 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813,
13.06.2013, n. 3272, e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012,
n. 5986; VI, 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11. 2010, n. 8243)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 11.08.2017 n. 1296 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’invalidità caducante ha una portata estremamente circoscritta in quanto “ricorre nel
solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito
della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed
ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la
necessità di valutare l'intensità del rapporto di
consequenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente".
---------------
Con la indicata sentenza, pertanto, è stato annullato, con efficacia
erga omnes, l’atto amministrativo generale costituente atto
presupposto dei provvedimenti del 01.07.2014 e del 22.05.2015, indicati in epigrafe, con i quali è stata
negata l’ammissione della ricorrente alla fruizione del
beneficio economico per cui è causa, atto presupposto la cui
efficacia era stata sospesa con la citata ordinanza n.
273/2014, pubblicata il 16.05.2014 e asseritamente –senza contestazione alcuna a riguardo– notificata in forma
esecutiva il successivo 10 giugno, non appellata, del
seguente tenore: “Considerato che il pregiudizio dedotto
presenta i caratteri della gravità ed irreparabilità e che
le malattie dalle quali i ricorrenti sono affetti, che
rendono gli stessi privi di autonomia ed autosufficienza,
paiono –ad un esame sommario proprio della fase cautelare–
in tutto assimilabili alla categoria della patologie SMA/SLA
sotto il profilo della gravissima disabilità che inducono,
sicché non si giustifica la diversa entità del beneficio
economico stanziato dalla Regione, diretto ad alleviare il
peso delle cure e dell’assistenza quotidiane”.
Ciò, peraltro, al di là di ogni altra pur possibile
considerazione relativa alla fattispecie dedotta, non ha
comportato, come invece preteso dalla ricorrente,
l’invalidità derivata ad effetto caducante di tutti gli atti
applicativi della delibera della Regione Puglia n. 2530 del
23.12.2013, ivi inclusi i citati provvedimenti del 01.07.2014 e del 22.05.2015, non tempestivamente
impugnati dalla ricorrente.
Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza, l’invalidità
caducante ha una portata estremamente circoscritta, non
riscontrabile nel caso di specie, in quanto “ricorre nel
solo caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito
della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed
ulteriori valutazioni di interessi, il che comporta la
necessità di valutare l'intensità del rapporto di
consequenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante qualora detto
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente (Consiglio di Stato Sez. V,
20.01.2015. n. 163)" (Consiglio di stato n. 3800/2015; cfr.
anche Consiglio di Stato n. 4695/2015 e n. 4404/2015 e Cons.
St. n. 8243/2010 e n. 6520/2008, ivi richiamate) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 15.06.2017 n. 1014 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il problema principale è quello di verificare quale sia la
sorte dei provvedimenti attuativi del regolamento annullato,
dovendosi, al riguardo, distinguersi l’ipotesi dei
provvedimenti attuativi, impugnati contestualmente al
regolamento, c.d. doppia impugnativa, i quali sono
sicuramente travolti dalla caducazione di quest’ultimo, per
invalidità derivata, atteso che l’annullamento dell’atto
presupposto, ossia il regolamento, si riflette sull’atto
successivo a valle, che ne assimila il vizio, dall’ipotesi
dei provvedimenti applicativi medio tempore adottati e non
impugnati tuttavia tempestivamente da parte del diretto
interessato.
Con specifico riferimento a questa ultima fattispecie, le
soluzioni prospettate sono sostanzialmente due, atteso che,
●
secondo un primo orientamento, più radicale, opera
l’invalidità derivata a effetto caducante, prodotta
dall’annullamento del regolamento nei confronti degli atti
applicativi medio tempore adottati, e quindi l’effetto
retroattivo dell’annullamento del regolamento procura la
caducazione retroattiva automatica dei provvedimenti
attuativi senza che sia necessaria l’apposita impugnazione
degli stessi, mentre, invece,
●
secondo un opposto e
prevalente indirizzo, dall’annullamento giurisdizionale del
regolamento consegue un’invalidità derivata a effetto
soltanto viziante dell’atto applicativo, cosicché
all’annullamento del regolamento non consegue la caducazione
automatica dei provvedimenti applicativi medio tempore
adottati, attesa la loro definitività per effetto della
decorrenza del termine decadenziale, sebbene resti salva,
comunque, la possibilità, per l’amministrazione, di
procedere alla loro rimozione agendo in via di autotutela,
qualora ricorrano ragioni di pubblico interesse che
sollecitino la rimozione del provvedimento attuativo
divenuto oramai inoppugnabile.
Il Collegio ritiene di dovere aderire, attesa la sua
maggiore persuasività, proprio al suddetto secondo
orientamento, con la conseguenza che, dall’annullamento del
regolamento di cui trattasi nella parte interessata, non
consegue che debba ritenersi che i giudizi collegiali resi
con tre giudizi individuali positivi e solo due giudizi
individuali negativi siano di per sé nulli e/o annullabili
e/o inefficaci, quando sia oramai decorso il termine per la
loro impugnazione e gli stessi siano, pertanto, divenuti
definitivi.
Un limite all’estensione del giudicato di annullamento di un
regolamento deve, pertanto, rinvenirsi nei rapporti già
esauriti e, quindi, il principio dell’efficacia erga omnes
dell'annullamento di atti normativi e di cui sopra incontra
proprio il suddetto “limite delle situazioni esaurite”; ne
consegue che, appunto, il provvedimento demolitorio non
travolge gli atti, attuativi del regolamento, che siano
divenuti inoppugnabili per mancata impugnazione nei termini
decadenziali brevi di legge e non può nemmeno interferire
sulle situazioni oramai definite con sentenza passata in
giudicato anche perché, altrimenti, si andrebbe incontro a
un grave sovvertimento dell’operato dell’amministrazione che
si vedrebbe costretta a riprendere in esame una lunga serie
di atti e provvedimenti alcune volte già da anni
pacificamente eseguiti, con tutte le relative conseguenze.
Ne deriva che l’annullamento di cui trattasi non è in grado
di travolgere retroattivamente tutti i giudizi collegiali di
non abilitazione, adottati prima della pubblicazione della
sentenza e fondati sul voto contrario di soli due
commissari.
---------------
... per l'annullamento nota prot. 1844 del 11.02.2016 nella
parte in cui prevede che gli effetti erga omnes
dell'annullamento giurisdizionale della norma regolamentare
di cui all'art. 8, co. 5, del d.p.r. 222/2011 non sia
applicabile ai candidati che non abbiano tempestivamente
proposto ricorso -conseguimento dell'abilitazione alla
professione di professore universitario di prima fascia-
silenzio-rifiuto sulle istanze presentate dai ricorrenti
...
Il ricorso è infondato nel merito e deve, pertanto, essere
respinto sulla base delle seguenti considerazioni.
La Sezione ha, infatti, già avuto modo di pronunciarsi sulla
tematica degli effetti dell’annullamento della norma
regolamentare in discorso e non ha motivo di discostarsi da
tale orientamento (si leggano in proposito le sentenze nn.
10278/2016, 11362/2016).
La tematica ha riguardo ai limiti oggettivi del giudicato.
Il problema principale è quello di verificare quale sia la
sorte dei provvedimenti attuativi del regolamento annullato,
dovendosi, al riguardo, distinguersi l’ipotesi dei
provvedimenti attuativi, impugnati contestualmente al
regolamento, c.d. doppia impugnativa, i quali sono
sicuramente travolti dalla caducazione di quest’ultimo, per
invalidità derivata, atteso che l’annullamento dell’atto
presupposto, ossia il regolamento, si riflette sull’atto
successivo a valle, che ne assimila il vizio, dall’ipotesi
dei provvedimenti applicativi medio tempore adottati e non
impugnati tuttavia tempestivamente da parte del diretto
interessato.
Con specifico riferimento a questa ultima fattispecie, le
soluzioni prospettate sono sostanzialmente due, atteso che,
secondo un primo orientamento, più radicale, opera
l’invalidità derivata a effetto caducante, prodotta
dall’annullamento del regolamento nei confronti degli atti
applicativi medio tempore adottati, e quindi l’effetto
retroattivo dell’annullamento del regolamento procura la
caducazione retroattiva automatica dei provvedimenti
attuativi senza che sia necessaria l’apposita impugnazione
degli stessi, mentre, invece, secondo un opposto e
prevalente indirizzo, dall’annullamento giurisdizionale del
regolamento consegue un’invalidità derivata a effetto
soltanto viziante dell’atto applicativo, cosicché
all’annullamento del regolamento non consegue la caducazione
automatica dei provvedimenti applicativi medio tempore
adottati, attesa la loro definitività per effetto della
decorrenza del termine decadenziale, sebbene resti salva,
comunque, la possibilità, per l’amministrazione, di
procedere alla loro rimozione agendo in via di autotutela,
qualora ricorrano ragioni di pubblico interesse che
sollecitino la rimozione del provvedimento attuativo
divenuto oramai inoppugnabile.
Il Collegio ritiene di dovere aderire, attesa la sua
maggiore persuasività, proprio al suddetto secondo
orientamento, con la conseguenza che, dall’annullamento del
regolamento di cui trattasi nella parte interessata, non
consegue che debba ritenersi che i giudizi collegiali resi
con tre giudizi individuali positivi e solo due giudizi
individuali negativi siano di per sé nulli e/o annullabili
e/o inefficaci, quando sia oramai decorso il termine per la
loro impugnazione e gli stessi siano, pertanto, divenuti
definitivi.
Un limite all’estensione del giudicato di annullamento di un
regolamento deve, pertanto, rinvenirsi nei rapporti già
esauriti e, quindi, il principio dell’efficacia erga omnes
dell'annullamento di atti normativi e di cui sopra incontra
proprio il suddetto “limite delle situazioni esaurite”; ne
consegue che, appunto, il provvedimento demolitorio non
travolge gli atti, attuativi del regolamento, che siano
divenuti inoppugnabili per mancata impugnazione nei termini
decadenziali brevi di legge e non può nemmeno interferire
sulle situazioni oramai definite con sentenza passata in
giudicato anche perché, altrimenti, si andrebbe incontro a
un grave sovvertimento dell’operato dell’amministrazione che
si vedrebbe costretta a riprendere in esame una lunga serie
di atti e provvedimenti alcune volte già da anni
pacificamente eseguiti, con tutte le relative conseguenze.
Ne deriva che l’annullamento di cui trattasi non è in grado
di travolgere retroattivamente tutti i giudizi collegiali di
non abilitazione, adottati prima della pubblicazione della
sentenza e fondati sul voto contrario di soli due
commissari.
In sintesi, a meno di una tempestiva impugnazione del
provvedimento lesivo, compete esclusivamente
all’amministrazione la determinazione di procedere al
riesame delle posizioni di tutti i candidati che avevano
partecipato alla relativa procedura di abilitazione oppure
esclusivamente nei confronti degli aspiranti che avessero
tempestivamente proposto ricorso giurisdizionale. Nel caso
del ricorrente, invero, non vi è stata l’originaria
impugnazione, per cui il provvedimento che gli ha rifiutato
l’abilitazione scientifica nazionale, essendo divenuto
inoppugnabile, non può essere travolto se non in sede di
revoca o di annullamento da parte dell’amministrazione sulla
base di una valutazione nel merito dei contrapposti
interessi.
Conclusivamente il ricorso è infondato nel merito e deve,
pertanto, essere respinto sulla base di tutte le
considerazioni che precedono (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 25.05.2017 n. 6255 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”).
Ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto
amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione,
non può certamente prodursi quando si tratti di atti dovuti
(nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando
l’autorità amministrativa, che si determina per il
provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto
predeterminato dalle fonti normative, in assenza di
discrezionalità nel quid.
---------------
2.1. La doglianza è fondata.
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un
titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto
quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non
è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”
(TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti
(cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
2.2. A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione
apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità
complessiva della concessione assentita, “dal momento che
l’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e
l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione
dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti
dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e
quando l’autorità amministrativa, che si determina per il
provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto
predeterminato dalle fonti normative, in assenza di
discrezionalità nel quid” (TAR Abruzzo, Pescara,
08.02.2007, n. 153) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.09.2010 n. 5655 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
La figura dell’«invalidità caducante» (o
«travolgimento» o «effetto travolgente») si delinea
allorquando il provvedimento annullato in sede
giurisdizionale, nel caso di specie il permesso di costruire
in sanatoria, costituisce il presupposto unico ed
imprescindibile dei successivi atti consequenziali (quali il
certificato di agibilità), sicché il suo venir meno travolge
automaticamente –e cioè senza che occorra una ulteriore
specifica impugnativa– tali atti successivi strettamente e
specificamente collegati al provvedimento presupposto.
---------------
Per quanto sopra, sotto tale profilo, il permesso di
costruire conseguente l’accertamento di conformità ex art.
36 d. P.R. n. 380 del 2001 va annullato: ciò che –va
rilevato incidentalmente– si riflette sul successivo
provvedimento attestante l’agibilità dei locali n. 856 del
14.10.2008 (depositato in atti dalla difesa del Comune di
Licata in prossimità dell’udienza pubblica).
La figura dell’«invalidità caducante» (o «travolgimento»
o «effetto travolgente»), infatti, si delinea
allorquando il provvedimento annullato in sede
giurisdizionale, nel caso di specie il permesso di costruire
in sanatoria, costituisce il presupposto unico ed
imprescindibile dei successivi atti consequenziali (quali il
certificato di agibilità), sicché il suo venir meno travolge
automaticamente –e cioè senza che occorra una ulteriore
specifica impugnativa– tali atti successivi strettamente e
specificamente collegati al provvedimento presupposto (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 05.08.2010 n. 9199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
In materia
di consiglieri comunali: |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Il rapporto di consequenzialità tra la
deliberazione di decadenza del Consigliere e quella della
sua sostituzione si atteggia come immediato, diretto e
necessario, e il provvedimento di sostituzione si pone,
nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come
inevitabile conseguenza di quello anteriore.
In tal senso, l’art. 45, n. 1, del d.lgs. 18.08.2000, n.
267, nel prevedere che nei Consigli comunali il seggio che
durante il quinquennio rimanga vacante per qualsiasi causa,
anche se sopravvenuta, è attribuito al candidato che nella
medesima lista segue immediatamente l'ultimo eletto, non
lascia margini di discrezionalità all’Amministrazione in
ordine all’an della sostituzione.
In tal senso, l’atto di surrogazione non si caratterizza per
la necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi
in ordine alla surrogazione, non rilevando, in tale
prospettiva, il previo accertamento di cause di
ineleggibilità e/o incompatibilità tipizzate
dall’ordinamento in capo al sostituto, attenendo le stesse
al differente profilo dell’idoneità di quest’ultimo a
ricoprire la carica, e non alla sostituzione in sé e per sé
considerata.
---------------
4.1.2. In ogni caso, ritiene il Collegio che nel caso di
specie si sia in presenza di un caso di invalidità c.d. a
effetti caducanti, nel quale l'annullamento dell'atto
presupposto si estende automaticamente a quello
consequenziale, anche ove quest'ultimo non venga, in tesi,
correttamente impugnato.
In effetti, il rapporto di consequenzialità tra la
deliberazione di decadenza del Consigliere e quella della
sua sostituzione si atteggia come immediato, diretto e
necessario, e il provvedimento di sostituzione si pone,
nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come
inevitabile conseguenza di quello anteriore.
In tal senso, l’art. 45, n. 1, del d.lgs. 18.08.2000, n.
267, nel prevedere che nei Consigli comunali il seggio che
durante il quinquennio rimanga vacante per qualsiasi causa,
anche se sopravvenuta, è attribuito al candidato che nella
medesima lista segue immediatamente l'ultimo eletto, non
lascia margini di discrezionalità all’Amministrazione in
ordine all’an della sostituzione.
In tal senso, l’atto di surrogazione non si caratterizza per
la necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi
in ordine alla surrogazione, non rilevando, in tale
prospettiva, il previo accertamento di cause di
ineleggibilità e/o incompatibilità tipizzate
dall’ordinamento in capo al sostituto, attenendo le stesse
al differente profilo dell’idoneità di quest’ultimo a
ricoprire la carica, e non alla sostituzione in sé e per sé
considerata.
Del resto, il provvedimento di sostituzione è espressamente
motivato proprio col richiamo alla deliberazione consiliare
di decadenza e al disposto dell’art. 45, n. 1, del d.lgs. n.
267/2000 (nel senso dell’invalidità caducante, TAR Puglia,
sez. II, 24.05.2004, n. 2273) (TAR Basilicata,
sentenza 26.09.2017 n. 608 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
In materia edilizio-urbanistica: |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: In caso di
mancata impugnazione degli atti successivi che hanno ridefinito gli
interessi coinvolti, un'eventuale accoglimento del ricorso sarebbe privo di
utilità, poiché non sarebbe idoneo ad inficiare la graduatoria finale
relativa all'avviso di selezione impugnato. Pertanto, il ricorso in tal modo
proposto deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse.
---------------
Pur in
presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante,
nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si
estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia
stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è
affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell'effetto caducante, ricorre
nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito
della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza
dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che
comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con
riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia
immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga,
nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza
ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi.
---------------
Va richiamata la distinzione tra atto di conferma ed atto
meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto
amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile)
o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato
adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli
interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo, rispetto ad un
atto precedente, l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame
della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la
rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di
fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può
condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare
vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di
autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si
limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza
compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
---------------
1. Con atto di costituzione,
derivante dalla trasposizione di un ricorso straordinario al Capo dello
Stato, la ricorrente si duole dell’illegittimità dell’ordinanza di
ripristino emanata dal Comune intimato, per conformare i lavori di
manutenzione effettuati al piano terra e rialzato di un immobile a quanto
progettato attraverso una SCIA.
2. Deduce la ricorrente che, nella qualità di proprietaria dell’immobile
sito in Fisciano alla via ... n. 29 e identificato catastalmente
al Foglio 18 particella 1009, con nota del 22.01.2018, ella ha trasmesso al
Comune di Fisciano, una copia della SCIA finalizzata all’esecuzione nel
predetto immobile di lavori di manutenzione straordinaria e di parziale
mutamento di destinazione d’uso al piano seminterrato.
3. A seguito dell’effettuazione di tali lavori, il Comune di Fisciano, a
mezzo di propri tecnici, ha effettuato presso il suo immobile un sopralluogo
teso a verificare la veridicità di un esposto presentato da un privato, il
quale lamentava il compimento di alcuni abusi edilizi.
4. Sulla base di questa attività ispettiva, il Comune di Fisciano ha quindi
notificato alla sig.ra Mi. l’impugnata ordinanza, avverso la quale
l’interessata ha proposto domanda di annullamento, previa istanza di
concessione della misura cautelare.
5. Si è costituito in giudizio il Comune di Fisciano, il quale resistendo al
ricorso, ne ha pregiudizialmente rilevato l’improcedibilità, poiché “il
Comune di Fisciano, con ordinanza n. 9/2019 n. prot. 1805/2019 del
29.01.2019, ha integrato e chiarito i contenuti dell’ordinanza dirigenziale
n. 85 del 25.10.2018 impugnata con il ricorso straordinario poi trasposto
nella presente sede giurisdizionale”. Tale ultimo provvedimento non sarebbe
stato oggetto di impugnazione da parte della ricorrente.
6. All’udienza del 19.06.2019, constatata la possibilità di definire il
giudizio con sentenza in forma semplificata, datone avviso alle parti, la
causa è stata riservata per la decisione.
7. Va delibata pregiudizialmente l’eccezione pregiudiziale rilevata
dall’amministrazione comunale, in quanto idonea a definire l’intero
giudizio.
8. Sono incontestate tra le parti l’emanazione dell’ordinanza cautelare n. 9
del 2019 e la sua mancata impugnazione da parte dell’odierna ricorrente.
9. Con questo provvedimento, il Comune di Fisciano ha, effettivamente,
rivalutato la precedente statuizione provvedimentale, tenendo conto delle
censure formulate rispetto ad essa ad opera dell’odierna parte ricorrente.
Può ritenersi, dunque, che il più recente provvedimento emanato
dall’amministrazione abbia effettivamente sostituito quello precedente,
vantando un’autonoma efficacia lesiva.
9.1 Come rilevato più volte dalla giurisprudenza amministrativa “In caso di
mancata impugnazione degli atti successivi che hanno ridefinito gli
interessi coinvolti, un'eventuale accoglimento del ricorso sarebbe privo di
utilità, poiché non sarebbe idoneo ad inficiare la graduatoria finale
relativa all'avviso di selezione impugnato. Pertanto, il ricorso in tal modo
proposto deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse” (TAR Sicilia–Catania, Sez. I, 23/08/2018, n. 1736; Consiglio
di Stato, Sez. IV, 28/06/2016, n. 2914; Consiglio di Stato, Sez. IV,
15/06/2016, n. 2636; TAR Veneto, sez. II, 15/04/2015, n. 421; TAR
Campania-Napoli, Sez. II, 08/05/2009, n. 2459).
9.2 Il principio di diritto enunciato, pienamente condivisibile e dal quale
non v’è ragione di discostarsi, risulta pertinente rispetto al caso divisato
ed implica, quindi, che l’impugnazione proposta avverso il provvedimento
originario non rivesta più alcuna utilità giuridica per la parte proponente
la domanda di annullamento.
Va dunque preso atto della sopravvenuta carenza di interesse ad una
decisione sull’originaria domanda di annullamento, poiché, da un suo
eventuale accoglimento, non potrebbe scaturire nessun effetto utile per
l’interessato.9.3 Né può invocarsi fra l’atto impugnato e quello successivamente emanato
dall’amministrazione un rapporto tale per cui l’annullamento del primo
spiegherebbe un’efficacia c.d. caducante sul secondo.
A tal proposito, giova riportare nella presente sentenza quanto, di recente,
ribadito dal Consiglio di Stato, Sez. V, 17.01.2019, n. 432: “…pur in
presenza di vizi accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante,
nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si
estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia
stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è
affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell'effetto caducante, ricorre
nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito
della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza
dell'atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che
comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con
riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia
immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga,
nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza
ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26.05.2015, n.
2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e
24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V,
25.11.2010, n. 8243). Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel
caso di specie.
Va altresì richiamata la distinzione tra atto di conferma ed atto
meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto
amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile)
o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato
adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli
interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo, rispetto ad un
atto precedente, l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame
della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la
rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di
fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può
condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare
vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di
autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si
limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza
compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (cfr. per
tutte Cons. Stato, IV, 14.04.2014, n. 1805; id., 12.02.2015, n. 758; id.,
29.02.2016, n. 812; id, 12.10.2016, n. 4214, nonché, da ultimo, in tema di
successione di strumenti di pianificazione generale, Cons. Stato, IV,
27.01.2017, n. 357)”.
9.4 Poiché nel caso di specie, tra i due atti, non può dirsi sussistente
quel rapporto “immediato, diretto e necessario”, né risulta
fondatamente predicabile quella relazione di “inevitabile conseguenza”,
necessari per la prospettazione della sussistenza degli effetti di
automatica caducazione discendenti dal giudicato di annullamento del primo
atto rispetto a quello rimasto inoppugnato, il ricorso non può che essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1180 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Giusta
il costante insegnamento, <<qualora l'atto si basi
su una pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto plurimotivato), il
ricorso con il quale non si contestino tutte le motivazioni deve essere
dichiarato inammissibile per difetto di interesse, atteso che l'eventuale
riconoscimento della fondatezza delle doglianze proposte non esclude
l'esistenza e la validità della restante causa giustificatrice dell'atto>>.
Infatti, a fronte di un atto amministrativo di segno negativo il quale fondi
la decisione su una pluralità di ragioni ostative, ciascuna delle quali
risulterebbe di per sé idonea a supportarla, l'impugnativa svolta in sede
giurisdizionale avverso tale decisione non può trovare accoglimento se anche
uno solo dei motivi di doglianza resista alle censure mosse.
---------------
Il c.d. effetto caducante, anche ammesso che possa riguardare un
elemento della motivazione e non il presupposto giuridico di un determinato
atto in sé considerato, è un’eccezione nel sistema del diritto
amministrativo.
Precisamente, nell'ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto
si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non
sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto
solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato
nel termine di rito.
L'effetto caducante ricorre nella sola evenienza in cui
l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare
l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario.
---------------
L’eccezione sollevata dal Comune è fondata.
Occorre rammentare l’insegnamento secondo il quale <<qualora l'atto si basi
su una pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto plurimotivato), il
ricorso con il quale non si contestino tutte le motivazioni deve essere
dichiarato inammissibile per difetto di interesse, atteso che l'eventuale
riconoscimento della fondatezza delle doglianze proposte non esclude
l'esistenza e la validità della restante causa giustificatrice dell'atto>>
(in questo senso, TAR Piemonte, sez. II, 14/11/2018, n. 1247).
Infatti, a fronte di un atto amministrativo di segno negativo il quale fondi
la decisione su una pluralità di ragioni ostative, ciascuna delle quali
risulterebbe di per sé idonea a supportarla, l'impugnativa svolta in sede
giurisdizionale avverso tale decisione non può trovare accoglimento se anche
uno solo dei motivi di doglianza resista alle censure mosse (C. Stato, sez.
V, 13/09/2018, n. 5362).
Nel caso di specie il provvedimento di diniego impugnato, nella motivazione
non solo fa riferimento al parere negativo espresso dalla Soprintendenza in
data 17.03.2006, prot. n. 1032, ma lo pone chiaramente a fondamento della
reiezione della domanda di condono, come una delle ragioni di rigetto della
stessa.
Per contro, l’intervenuta separata impugnazione, da parte di Da.Pa. e Ca.Ca., del parere negativo della Soprintendenza non
incide sull’onere impugnatorio gravante su parte ricorrente.
Infatti, il c.d. effetto caducante, anche ammesso che possa riguardare un
elemento della motivazione e non il presupposto giuridico di un determinato
atto in sé considerato, è un’eccezione nel sistema del diritto
amministrativo.
Precisamente, nell'ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto
si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non
sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto
solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato
nel termine di rito; l'effetto caducante ricorre nella sola evenienza in cui
l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare
l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario (così, C. Stato, sez. V,
10/04/2018, n. 2168; similmente, C. Stato, sez. IV, 18/05/2018, n. 3001).
Nel caso di specie nessuno dei presupposti citati risulta sussistere.
Sotto il primo profilo, infatti, fermo restando che per gli immobili abusivi
realizzati su aree vincolate, il rilascio del condono è subordinato al
previo parere favorevole delle Amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo stesso, occorre considerare che il provvedimento della
Soprintendenza, cui fa riferimento il diniego di condono in esame, non
risulta essere stato adottato nell’ambito del procedimento di condono
medesimo, ma si tratta di una valutazione resa nell’ambito di un autonomo
procedimento, i cui risultati però, essendo intervenuti in un momento coevo
al procedimento di condono in esame sono stati fatti propri dal Comune di
Genova, in quanto comunque concernenti la compatibilità dell’opera in
contestazione (la vasca) rispetto alla disciplina del vincolo monumentale.
In questo senso, quindi, il provvedimento della Soprintendenza, pur essendo
stato recepito e fatto proprio dal Comune, non appartiene alla serie
procedimentale conclusasi con il diniego di condono.
Sotto il secondo profilo, invece, occorre considerare come il parere
dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo sia sì uno degli elementi
presupposti necessari per il rilascio del provvedimento di condono, ma,
d’altra parte, quest’ultimo provvedimento non ne costituisce una
<<inevitabile ed ineluttabile conseguenza>>, <<senza necessità di nuove ed
ulteriori valutazioni di interessi>>, perché l’Amministrazione comunale è
tenuta ad eseguire ulteriori accertamenti e valutazioni sotto il profilo
specificamente edilizio.
Ne consegue, pertanto, che il motivo in esame avrebbe dovuto formare oggetto
specifico di impugnazione da parte della ricorrente (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 06.05.2019 n. 409 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
L’annullamento della delibera di adozione del
piano regolatore esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul
successivo provvedimento di approvazione solo nel caso in
cui quest’ultimo si limiti a confermare le previsioni già
contenute nel piano adottato e fatto oggetto d’impugnativa.
Se, al contrario, come accaduto nel caso di specie, dette
previsioni siano state modificate, è evidente che detto
effetto caducante non può verificarsi.
---------------
9. Con il primo ed il secondo motivo di
appello, che affrontano il tema centrale della controversia,
la Im. e Ge. sostiene che l’approvazione
del nuovo PRG di Roma non avrebbe potuto impedire, per la
diversa destinazione impressa all’area, il rilascio del
permesso di costruire e quindi l’attuazione della
convenzione “Acqua Traversa” del 1936 con la quale era stata
prevista la realizzazione nel medesimo comprensorio di
“villini signorili”.
9.1. Secondo parte appellante, le previsioni del nuovo PRG,
approvato con delibera n. 18 del 12.02.2008, non
costituivano ostacolo al rilascio del titolo edilizio
richiesto in ragione del precedente annullamento da parte
del Tar per il Lazio della delibera di adozione dello stesso
Piano (delibera n. 33/2003 oggetto della sentenza n.
109/2008) e ancor prima della variante c.d. Piano delle
certezze (delibera n. 92/1997 oggetto della sentenza n.
14894/2004).
9.2. In sostanza, l’annullamento della previsione della
destinazioni dell’area prima a verde pubblico, nella
variante delle certezze, e poi a verde pubblico e servizi
pubblici di livello locale, nella delibera di adozione del
PRG, comportava il riespandersi della precedente disciplina
urbanistica di cui alla convenzione “Acqua Traversa”.
10. La tesi dell’appellante non può essere condivisa.
10.1. Il Comune di Roma, dopo l’adozione del nuovo PRG
(delibera n. 3/2003), ha approvato, in sede di
controdeduzioni alle osservazioni presentate allo stesso
Piano dai privati, la delibera n. 64 del 22.03.2006, con
la quale ha mutato la destinazione dell’area da verde
pubblico e servizi pubblici di livello locale in “Verde
privato” (modifica poi recepita nella delibera n. 18/2008 di
approvazione definitiva del PRG).
10.2. Tale delibera del 2006, come rilevato dal Tar, non è
stata impugnata dalla ricorrente, pur essendo ancora
pendente presso lo stesso Tribunale il ricorso n. 168/2004
poi deciso con la richiamata sentenza n. 109/2008.
10.3. Né è stata impugnata la successiva delibera n. 18/2008
con la quale è stato approvato il nuovo PRG del comune di
Roma (l’art. 49 delle NTA esplicitamente ha previsto l’inedificabilità
dell’area in relazione alla mutata destinazione
urbanistica).
10.4. In ragione delle suddette circostanze, il Tar ha
quindi correttamente respinto il ricorso contro il diniego
del permesso di costruire, con assorbimento delle altre
censure, considerando la piena validità del vincolo
interdittivo dell’edificabilità dell’area.
11. D’altra parte, l’esame dell’istanza andava
necessariamente svolto con riferimento alla normativa
urbanistica vigente, non potendosi ritenere fondata la
prospettazione dell’appellante in ordine al fatto che
l’annullamento della delibera di adozione del PRG abbia
avuto effetti automaticamente caducanti anche sul successivo
atto di approvazione definitiva del Piano.
11.1 In relazione a quest’ultimo aspetto, va infatti
rilevato che la sentenza n. 109/2008 ha riguardato il
difetto di istruttoria connesso al profilo relativo alla
destinazione dell’area (verde pubblico e servizi pubblici
locali) in connessione con la ricomprensione del lotto in un
tessuto ormai urbanizzato. La nuova previsione a “Verde
privato” si è fondata invece su standard differenti.
11.2. Cosicché nel caso in esame non può ritenersi che
l’annullamento della delibera di adozione abbia potuto avere
effetti caducanti sulla successiva delibera di approvazione
del PRG, essendo diverso il contenuto e comunque diverso
l’antecedente procedimentale (delibera n. 64/2006).
11.3. In particolare, l’annullamento della delibera di
adozione del piano regolatore esplica effetti
automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul
successivo provvedimento di approvazione solo nel caso in
cui quest’ultimo si limiti a confermare le previsioni già
contenute nel piano adottato e fatto oggetto d’impugnativa (cfr.
ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 14.07.2014, n. 3654).
Se, al contrario, come accaduto nel caso di specie, dette
previsioni siano state modificate, è evidente che detto
effetto caducante non può verificarsi (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 22.02.2019 n. 1225 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva
all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico
effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di
sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per
sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame
dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure
al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o
implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque
a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un
nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato
un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già
dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in
precedenza).
---------------
7. Il ricorso è palesemente infondato e va respinto.
8. Dalla documentazione –anche fotografica- versata in atti
emerge in modo pacifico ed incontestato che lo stato di
fatto del fabbricato, rappresentato dall’elaborato
progettuale sottoposto dal ricorrente all’esame dell’ufficio
tecnico comunale, è totalmente difforme dall’effettivo stato
dei luoghi negli aspetti dettagliatamente descritti nel
verbale di sopralluogo eseguito dai tecnici comunali su
richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale
di Reggio Calabria (mancato rispetto delle distanze dei
fabbricati dai confini lato nord e lato sud; realizzazione
di un quinto piano f.t. non contemplato dal progetto
depositato, locale seminterrato costruito completamente fuori
terra, assenza di tratto strada carrabile di collegamento con
la via pubblica).
Da ciò non può che derivare la doverosità del provvedimento
di autotutela adottato e rivolto, in buona sostanza, a
rimuovere un titolo a suo tempo fondato su falsi presupposti
di fatto.
9. La difesa del ricorrente si impernia esclusivamente sulla
domanda di sanatoria presentata ex art. 36 d.P.R. 380/2001, ma
il mezzo si rivela mal posto.
Nella vicenda in decisione, infatti, l’interesse del
ricorrente è finalizzato a mantenere valido ed efficace
l’originario permesso di costruire,contestandone ab origine
il suo annullamento, non assumendo alcuna rilevanza la
successiva ed autonoma iniziativa in sanatoria che non
incide su alcun ordine di demolizione nel frattempo
intervenuto.
E’, del resto, fin troppo chiara la differenza tra il caso
di specie e quello che si verifica quando all’ordine di
demolizione,legittimo o meno che sia, si dia seguito alla
domanda di sanatoria.
Nella prima ipotesi, l’organo competente adotta il
provvedimento costitutivo dello ius aedificandi che viene
successivamente rimosso attraverso il provvedimento di
ritiro in autotutela (annullamento), laddove il ricorso
avverso quest’ultimo provvedimento è rivolto a ripristinare
l’originaria situazione favorevole di partenza.
Nella seconda ipotesi, l’organo competente, constatando la
mancanza del titolo edilizio, emana da subito un
provvedimento negativo (ordine di demolizione) nei confronti
del destinatario (proprietario o responsabile dell’abuso)
che, allo scopo di costituire il titolo che prima mancava,
attiva su domanda un ulteriore procedimento amministrativo
ordinato a verificare da parte dell’Autorità procedente la
conformità dell’intervento alla disciplina edilizia ed
urbanistica esistente al momento della realizzazione
dell’opera e al momento della presentazione dell’istanza di
sanatoria (cd. requisito della doppia conformità).
Laddove ricorra simile evenienza (ma non è quella sottoposta
all’attenzione del Collegio) trova spazio il noto, anche se
non unanime, indirizzo della giurisprudenza, secondo cui “La
presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva
all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico
effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di
sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere
improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per
sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame
dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure
al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o
implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque
a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un
nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato
un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già
dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in
precedenza)” (cfr. ex multis TAR Reggio Calabria 17.09.2018 n. 559).
10. In definitiva, poiché il ricorrente ha impugnato
l’annullamento della concessione edilizia, deducendone
l’illegittimità solo attraverso la prospettazione della
probabile fondatezza della domanda di sanatoria (che non
risulta affatto delibata né tanto meno accolta), il ricorso
non coglie nel segno e va respinto (TAR Calabria-Reggio
Calabria,
sentenza 11.02.2019 n. 78 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di una istanza di condono
edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione,
rendendola inefficace.
Ed invero, il riesame dell'abusività
dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale
sanabilità, provocato da tale istanza, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Per
effetto degli artt. 38, 43 e 44 della L. n. 47 del 1985,
richiamati dall' art. 32, comma 25, del D.L. n. 269 del
2003, la presentazione dell'istanza di condono edilizio
determina l'obbligo dell'amministrazione comunale di
procedere prioritariamente all'esame della medesima,
paralizzando il corso dei procedimenti per l'applicazione
delle misure repressive fino alla definizione della domanda
di sanatoria; infatti, in caso di accoglimento, l'abuso
compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità
amministrativa è tenuta a reiterare l'ingiunzione di
demolizione fissando un nuovo termine per l'ottemperanza da
parte dell'interessato.
---------------
2.1 A tale riguardo, è sufficiente osservare che la
presentazione della domanda di condono che investe ciascuna
di queste opere per le quali sono stati adottati i
provvedimenti di demolizione fa venire meno questi
provvedimenti e obbliga l’ente locale, in caso di diniego
della domanda, a riadottare un nuovo provvedimento
demolitorio.
2.2 Come rilevato, di recente, dal TAR Campania Napoli Sez. VIII, 04.04.2018, n. 2193, con sentenza il cui
principio di diritto il Collegio ritiene di condividere e
fare proprio, “La presentazione di una istanza di condono
edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione,
rendendola inefficace. Ed invero, il riesame dell'abusività
dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale
sanabilità, provocato da tale istanza, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa. Per
effetto degli artt. 38, 43 e 44 della L. n. 47 del 1985,
richiamati dall' art. 32, comma 25, del D.L. n. 269 del
2003, la presentazione dell'istanza di condono edilizio
determina l'obbligo dell'amministrazione comunale di
procedere prioritariamente all'esame della medesima,
paralizzando il corso dei procedimenti per l'applicazione
delle misure repressive fino alla definizione della domanda
di sanatoria; infatti, in caso di accoglimento, l'abuso
compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità
amministrativa è tenuta a reiterare l'ingiunzione di
demolizione fissando un nuovo termine per l'ottemperanza da
parte dell'interessato (accoglie il ricorso introduttivo,
dichiara inammissibile il ricorso per motivi aggiunti)”.
Che è, del resto, quanto l’Amministrazione ha in concreto
fatto nel caso di specie, reiterando l’ordinanza di
demolizione per le opere che si è ritenuto di non condonare (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 04.02.2019 n. 210 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza della
Sezione, pur non ignorando l’esistenza di recenti
orientamenti di segno diverso, ritiene preferibile dare
continuità alla tradizionale massima secondo cui la
presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi
produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione
delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata
dall’amministrazione.
---------------
1. Con ordinanza n. 899/2017, il Comune di Pistoia ha
ingiunto ai signori Gu.To. e Ca.Fu.,
nonché alla Gr. S.r.l., la demolizione di un insieme
di opere edilizie realizzate senza di titolo e destinate a
struttura di vendita della predetta società Gr.. Il
provvedimento, nel descrivere le costruzioni da demolire, le
identifica come “Struttura 1” (immobile commerciale adibito
alla vendita al pubblico, anche identificato dalle parti
come “serra grande”) e “Struttura 2” (serra modulare
coperta, anche “serra piccola”), tra loro collegate da una
zona aperta pavimentata, parimenti utilizzata come area
espositiva destinata alla vendita.
1.1. L’ordinanza è stata impugnata dai suoi destinatari con
il ricorso iscritto al n. 1612/2017 R.G..
Nella camera di consiglio del 16.01.2018, il collegio
ne ha sospeso l’efficacia anche in considerazione della
sopraggiunta presentazione, da parte degli interessati, di
separate istanze per l’accertamento di conformità delle due
strutture.
1.2. Decorso inutilmente il termine di legge, sulle due
istanze di sanatoria si è formato il silenzio-rigetto (art.
36 d.P.R. n. 380/2001; art. 209, co. 4, l.r. toscana n.
65/2014), impugnato dagli interessati con i ricorsi iscritti
ai nn. 569 e 570/2018 (relativi, rispettivamente, alla serra
piccola e alla serra grande).
1.3. Nei tre giudizi si è costituito il Comune di Pistoia,
per resistere ai gravami.
1.4. Le cause sono state discusse congiuntamente e
trattenute per la decisione nella pubblica udienza del 18
dicembre 2018, preceduta dallo scambio di documenti e
memorie difensive.
2. In via pregiudiziale deve essere disposta la riunione dei
ricorsi, accomunati da palesi profili di connessione
oggettiva e soggettiva, e verificata la persistenza
dell’interesse ad agire.
A tale ultimo riguardo, la giurisprudenza della Sezione, pur
non ignorando l’esistenza di recenti orientamenti di segno
diverso, ritiene preferibile dare continuità alla
tradizionale massima secondo cui la presentazione di
un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un
automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione
delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata
dall’amministrazione.
Ne discende l’improcedibilità dell’impugnazione proposta,
con il più risalente dei ricorsi riuniti, avverso
l’ordinanza di demolizione n. 899/2017, definitivamente
superata dalle istanze di sanatoria presentate dagli
interessati il 20.12.2017.
Sorte analoga tocca ai due giudizi più recenti, giacché le
istanze di sanatoria sono state a loro volta definite dal
Comune di Pistoia con i provvedimenti espressi depositati
dai ricorrenti in vista dell’udienza di discussione. Pur con
esiti confermativi dei pregressi rigetti taciti, si tratta
di un vero e proprio riesercizio del potere cui oggi è
affidata in via esclusiva la regolazione del rapporto e che,
come tale, richiedono di essere autonomamente impugnati (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 04.02.2019 n. 175 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla stregua della tradizionale massima –alla
quale il collegio intende dare continuità, in coerenza con
gli indirizzi della Sezione– la presentazione
di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un
automatico effetto caducante sull’ordinanza di
demolizione delle opere abusive, ove questa sia stata già
adottata.
---------------
Considerato:
- che i ricorrenti impugnano l’ordine di demolizione e ripristino
pronunciato nei loro confronti dal Comune di Pisa con
riferimento all’avvenuta realizzazione senza titolo di una
serie di opere edilizie (manufatto precario adibito a
ufficio; tettoia prefabbricata) a corredo dell’attività di
parcheggio svolta dal signor Sc. sul terreno di proprietà
del signor Pa.;
- che, in vista dell’udienza pubblica del 06.12.2018, essi
hanno chiesto differirsi la trattazione di merito della
controversia, stante l’avvenuta presentazione, nelle more
del giudizio, di una domanda per l’accertamento di
conformità delle opere oggetto del provvedimento impugnato;
- che la circostanza è stata confermata dal Comune di Pisa, il
quale ha aderito all’istanza di rinvio;
- che il collegio ha rappresentato alle parti, ai sensi dell’art.
73, co. 3, c.p.a., la volontà di trattenere la causa in
decisione onde verificare la persistenza dell’interesse al
ricorso pur in pendenza della sopravvenuta richiesta
dell’accertamento di conformità;
- che il difensore dei ricorrenti non si è opposto, insistendo
tuttavia per la compensazione delle spese processuali;
- che, confermando quanto già prospettato alle parti, il ricorso va
dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di
interesse, alla stregua della tradizionale massima –alla
quale il collegio intende dare continuità, in coerenza con
gli indirizzi della Sezione– secondo cui la presentazione
di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un
automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione
delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 30.01.2019 n. 152 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sopravvenuta formazione di un nuovo
provvedimento di rigetto del condono comporta il venir meno
dell'interesse a contestare i pregressi provvedimenti
repressivi. L'atto sopraggiunto implica il dovere per
l'Amministrazione comunale di emettere una nuova ordinanza
di demolizione, con fissazione di nuovi termini per
ottemperarvi.
---------------
La
presentazione di una istanza di condono edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace. Ed invero, il riesame dell'abusività dell'opera,
sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità,
provocato da tale istanza, comporta la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che
vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell'impugnativa.
Per effetto degli artt. 38, 43 e
44 della L. n. 47 del 1985, richiamati dall'art. 32, comma
25, del D.L. n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza
di condono edilizio determina l'obbligo dell'amministrazione
comunale di procedere prioritariamente all'esame della
medesima, paralizzando il corso dei procedimenti per
l'applicazione delle misure repressive fino alla definizione
della domanda di sanatoria; infatti, in caso di
accoglimento, l'abuso compiuto viene sanato, mentre in caso
di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare
l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per
l'ottemperanza da parte dell'interessato.
---------------
Il presente contenzioso ha ad oggetto il provvedimento di
accertamento di inottemperanza ad ordine di demolizione ed
acquisizione di beni immobili abusivi, Rep. n. 31824 del 24.07.2018.
Ritiene il Collegio che la natura della controversia e la
riscontrata completezza del contraddittorio e
dell’istruttoria consentano la sua immediata definizione.
Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente impugna il
provvedimento indicato in epigrafe evidenziando che esso è
illegittimo per un vizio del procedimento.
In vero, sul punto, il ricorrente deduce che
“successivamente al diniego comunque illegittimamente
formulato della istanza di condono presentata dal sig. Ma., non ha provveduto a reiterare l’ingiunzione di
demolizione e non ha fissato un nuovo termine per
l’ottemperanza, limitandosi a notificare l’illegittimo
provvedimento di acquisizione quivi gravato”.
Il motivo è manifestamente fondato e merita accoglimento.
Come rilevato, da molteplici sentenze del giudice
amministrativo: “La sopravvenuta formazione di un nuovo
provvedimento di rigetto del condono comporta il venir meno
dell'interesse a contestare i pregressi provvedimenti
repressivi. L'atto sopraggiunto implica il dovere per
l'Amministrazione comunale di emettere una nuova ordinanza
di demolizione, con fissazione di nuovi termini per
ottemperarvi” (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 02/05/2018, n.
2623).
Analogamente, il TAR Campania Napoli, Sez. VIII,
04/04/2018, n. 2193 (conforme, anche, TAR Campania Napoli Sez. II, 21.06.2016, n. 3128), ha statuito che “La
presentazione di una istanza di condono edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace. Ed invero, il riesame dell'abusività dell'opera,
sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità,
provocato da tale istanza, comporta la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che
vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell'impugnativa. Per effetto degli artt. 38, 43 e
44 della L. n. 47 del 1985, richiamati dall'art. 32, comma
25, del D.L. n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza
di condono edilizio determina l'obbligo dell'amministrazione
comunale di procedere prioritariamente all'esame della
medesima, paralizzando il corso dei procedimenti per
l'applicazione delle misure repressive fino alla definizione
della domanda di sanatoria; infatti, in caso di
accoglimento, l'abuso compiuto viene sanato, mentre in caso
di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare
l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per
l'ottemperanza da parte dell'interessato”.
In ragione del suesposto orientamento competerà dunque al
Comune di Sarno riesaminare la vicenda ed emanare, ove lo
ritenga, l’ordinanza di demolizione debitamente notificata a
ciascuno dei destinatari.
Va dunque accolto il primo motivo di ricorso, con
assorbimento di tutti gli altri motivi (TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza 23.11.2018 n. 1696 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Stante il rapporto di collegamento tra i diversi
atti che compongono l’atto finale, deve confermarsi che
l’omessa impugnazione del provvedimento regionale di
approvazione di un piano regolatore generale non determina
alcuna preclusione all’ammissibilità, né rifluisce
conseguentemente sulla procedibilità, del ricorso proposto
contro la delibera di adozione dello strumento urbanistico,
in quanto l’annullamento di quest’ultima, comportando il
venir meno di uno degli elementi necessari di un atto
complesso il cui procedimento si conclude solo con
l’approvazione regionale, esplica effetti automaticamente
caducanti e non meramente vizianti sul successivo
provvedimento regionale, nella parte in cui lo stesso si
limita a confermare le previsioni già contenute nel piano
adottato e fatto oggetto di impugnativa.
Sicché non solo l’impugnativa della delibera di adozione del
PRG o di una sua variante è pienamente consentita, ma il
ricorso è procedibile e pienamente satisfattivo
dell’interesse azionato, anche in mancanza della impugnativa
del provvedimento finale, poiché il suo accoglimento
determina il venir meno (con effetto caducante)
dell’intero procedimento, ivi compresa la eventuale
successiva approvazione regionale.
---------------
4. - Ciò premesso
in punto di fatto, ritiene questo Collegio che il ricorso
introduttivo, integrato da motivi aggiunti, debba essere
respinto in quanto infondato.
4.1. - Preliminarmente, va disattesa l’eccezione, formulata
da parte resistente, di improcedibilità del ricorso per
omessa presentazione di osservazioni da parte della De Ch..
Invero, la De Ch. ha presentato le sue osservazioni in data
21.05.2014.
Inoltre, come evidenziato da Cons. Stato, Sez. IV,
11.09.2012, n. 4828 “… Stante il rapporto di collegamento
tra i diversi atti che compongono l’atto finale, deve quindi
confermarsi che l’omessa impugnazione del provvedimento
regionale di approvazione di un piano regolatore generale
non determina alcuna preclusione all’ammissibilità, né
rifluisce conseguentemente sulla procedibilità, del ricorso
proposto contro la delibera di adozione dello strumento
urbanistico, in quanto l’annullamento di quest’ultima,
comportando il venir meno di uno degli elementi necessari di
un atto complesso il cui procedimento si conclude solo con
l’approvazione regionale, esplica effetti automaticamente
caducanti e non meramente vizianti sul successivo
provvedimento regionale, nella parte in cui lo stesso si
limita a confermare le previsioni già contenute nel piano
adottato e fatto oggetto di impugnativa. …”.
Sicché non solo l’impugnativa della delibera di adozione del
PRG o di una sua variante è pienamente consentita, ma il
ricorso è procedibile e pienamente satisfattivo
dell’interesse azionato, anche in mancanza della impugnativa
del provvedimento finale, poiché il suo accoglimento
determina il venir meno (con effetto caducante)
dell’intero procedimento, ivi compresa la eventuale
successiva approvazione regionale.
Non muta il quadro l’omessa trasmissione della adozione alla
Regione di cui si lamenta parte ricorrente a pag. 2 della
memoria depositata in data 27.04.2018, non essendovi alcuna
norma che determini la decadenza e il venir meno della
adozione per il mero decorso di un determinato arco
temporale.
Infine, non può essere accolta l’eccezione, formulata dal
Comune di Terlizzi a pag. 2 della memoria depositata in data
09.05.2018, di improcedibilità del presente ricorso per
sopravvenuto difetto di interesse, in considerazione della
omessa impugnazione della sentenza n. 1097 del 06.09.2016
dichiarativa della inammissibilità della domanda proposta
per l’ottemperanza dell’ordinanza cautelare n. 100/2016.
A tal riguardo, va evidenziato che con la citata sentenza n.
1097/2016 il TAR si è limitato a prendere atto che il Comune
aveva ottemperato all’ordine cautelare con il nuovo
provvedimento consiliare n. 32/2016, senza che il Tribunale
esprimesse alcuna valutazione in ordine alla legittimità del
provvedimento medesimo.
Il generico riferimento, operato dalla sentenza n.
1097/2016, alla discrezionalità della P.A. in sede
pianificatoria non ha dunque alcun effetto decisorio o
preclusivo rispetto ai successivi motivi aggiunti.
In ogni caso rispetto alla fase di esecuzione/ottemperanza
della ordinanza cautelare di accoglimento ai fini del
riesame n. 100/2016 non può ritenersi formato alcun
giudicato preclusivo in termini di inammissibilità, tale da
comportare una produzione di effetti sul presente giudizio
di cognizione, giudizio che per sua natura è dotato di una
differente dinamica sganciata dall’incidente di esecuzione
suddetto (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.11.2018 n. 1466 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 146 del D.lgs. n. 42/2004, al comma 4, statuisce che
“L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
In virtù del dettato normativo in questione, l'espresso
collegamento dei due atti (nulla-osta paesaggistico e
permesso di costruire) mediante un rapporto di
stretta presupposizione, implica l'illegittimità dell'atto
presupponente ove adottato in mancanza dell'atto presupposto
o in difformità al suo contenuto.
La Corte di Cassazione ha in più occasioni avuto modo di
osservare che l'autorizzazione paesaggistica
costituisce requisito di efficacia del permesso di
costruire affermando che “L'autorizzazione paesaggistica
si inserisce come elemento indispensabile nel procedimento
di rilascio della concessione in modo da incidere sulla sua
efficacia”.
---------------
... per l'annullamento della determinazione n. 305 del
Funzionario del Settore 4 – Sviluppo del Territorio,
Urbanistica, Ambiente-Edilizia e Innovazione – del Comune di
Gallipoli datata 15/02/2018, notificata il 06.03.2018,
avente ad oggetto “Annullamento Autorizzazione
Paesaggistica n. 18/2010 del 05/01/2012 in esecuzione della
sentenza del Consiglio di Stato n. 4762/2012 – Spiaggia
Libera Attrezzata denominata “Sp.Cl.” in loc. “S. Giovanni
alla Pedata” – ditta C.R. legale rappresentante della
società Sp.Cl. srl” e contestuale ordinanza di rimozione
della struttura balneare nonché di tutti gli atti
preordinati, connessi e consequenziali a quello oggi
impugnato.
...
1. I fatti oggetto della odierna controversia sono i
seguenti.
La società Sp.Cl. S.r.l. è titolare di Concessione Demaniale
Marittima n. 12/2008 rilasciata dalla Capitaneria di Porto
di Gallipoli in data 10.04.2008 (rinnovo della precedente
concessione n. 19/2006) ed avente scadenza il 31.12.2013,
termine prorogato ex lege sino al 31.12.2020 in forza
del disposto di cui all’art. 1, comma 18, del D.L. n.
194/2009, convertito con legge n. 25/2010.
Con istanza del 05.10.2007, l’esponente ha chiesto al Comune
di Gallipoli il rilascio del titolo edilizio necessario per
il mantenimento, per l’intera durata della concessione
demaniale marittima, delle strutture funzionali all’attività
balneare, comunicando altresì di non avere apportato alcuna
variazione ai progetti già presentati al Comune di Gallipoli
e regolarmente autorizzati. Il tutto in forza del disposto
di cui all’art. 11, comma 4-quater e 4-quinques, della L.R.
Puglia n. 17/2006.
Con successiva istanza del 12.08.2009, ha chiesto il
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica all’uopo
necessaria.
Con nota del 20.01.2011 la S.B.A.P. delle Province di Lecce,
Brindisi e Taranto ha espresso parere contrario motivando
che: “[...] le opere di progetto consistenti nel
mantenimento annuale di strutture balneari, per dimensioni
planovolumetriche alterano il contesto naturalistico e
paesistico caratterizzato da litorale sabbioso con
vegetazione autoctona ostacolandone le visuali”.
Quindi, con provvedimento n. 18/2010 del 09.03.2011 il
Comune di Gallipoli ha negato l’autorizzazione
paesaggistica, condividendo il citato parere della
Soprintendenza.
Avverso il predetto provvedimento la Sp.Cl. s.r.l. ha
presentato ricorso innanzi al TAR di Lecce (RG n. 902/2011),
conclusosi con sentenza di accoglimento n. 1284/2011,
successivamente appellata dal Ministero per i Beni e le
Attività Culturali - Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici per le Province di Lecce
Brindisi e Taranto.
Nelle more del giudizio innanzi al Consiglio di Stato, il
Comune di Gallipoli, al fine di dare attuazione alla
sentenza del Tar di Lecce, in data 05.01.2012 ha emesso
nuova autorizzazione paesaggistica n. 18/2010, finalizzata
al mantenimento annuale delle struttura balneare ubicata su
area in concessione alla ricorrente.
Con sentenza n. 4762/2012, pubblicata il 07.09.2012, il
Consiglio di Stato, riformando la decisione del TAR di
Lecce, ha accolto l’appello proposto dalla Soprintendenza.
In attuazione di tale ultimo provvedimento giurisdizionale,
ormai definitivo, con la determinazione n. 305 del
15.02.2018, notificata in data 06.03.2018, il Comune di
Gallipoli ha annullato l’autorizzazione paesaggistica n.
18/2010 del 05.01.2012 per il mantenimento annuale della
struttura balneare denominata Sp.Cl. e, per l’effetto, ne ha
ordinato la rimozione.
Di qui l’odierna impugnativa con la quale Sp.Cl. s.r.l. ha
chiesto, previa sospensione dell’efficacia, l’annullamento
di detta determinazione, articolando i seguenti motivi di
diritto: ...
...
In estrema sintesi, la ricorrente asserisce innanzitutto che
la
sentenza del TAR Lecce n. 1284/2011 sarebbe
divenuta definitiva nei confronti dell’Amministrazione
Comunale “poiché da quest’ultima mai appellata”.
Quindi censura il provvedimento oggetto di gravame in quanto
in contrasto con la previsione dell’art. 21-octies e nonies
della legge 241/1990: l’annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica sarebbe stato disposto senza che ricorressero
i vizi della violazione di legge o dell’eccesso di potere,
né ragioni di interesse pubblico.
Sarebbe stato leso, altresì, il legittimo affidamento della
ricorrente, in quanto il provvedimento autorizzatorio non
avrebbe contenuto alcun espresso riferimento al giudizio
pendente innanzi al Consiglio di Stato.
Ancora, il Comune avrebbe dovuto chiedere un nuovo parere
alla Soprintendenza e avrebbe dovuto tenere conto del fatto
che, nelle more, la nuova Legge Regionale Puglia n. 17/2015
ha previsto che “le strutture funzionali all’attività
balneare, purché di facile amovibilità, possono essere
mantenute per l’intero anno solare”. Nello stesso senso,
sarebbe la previsione di cui all’intesa interistituzionale
sulle problematiche degli stabilimenti balneari del
27.10.2014.
Non si è costituito in giudizio il Comune di Gallipoli.
Con
Decreto monocratico n. 160/2018 del 27.03.2018,
il Presidente di questo Tribunale ha accolto l’istanza di
sospensione degli effetti dei provvedimenti impugnati,
limitatamente all’ordine di rimozione delle strutture di cui
trattasi, rilevando che esse “risultano supportate da
provvedimenti ulteriori, che sembrerebbero non incisi
dall’annullamento disposto in sede giurisdizionale”.
Alla camera di consiglio del 18 aprile, la ricorrente ha
rinunciato alla domanda cautelare, chiedendo una fissazione
a breve per la trattazione del merito e, nella pubblica
udienza del 26.09.2018, la causa è stata introitata per la
decisione.
2. Il ricorso non può essere accolto per le ragioni che si
vengono ad evidenziare.
2.1 Del tutto infondata è la tesi a dire della quale la
sentenza del Consiglio di Stato n. 4762/2012 non
avrebbe portata giuridicamente rilevante per il Comune di
Gallipoli, stante la mancata impugnativa della sentenza di
primo grado da parte di quest’ultimo.
Invero, l’art. 2909 c.c. dispone che “L’accertamento
contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a
ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”,
ed il Comune di Gallipoli è parte processuale della sentenza
citata pur non essendosi costituito in giudizio e non avendo
proposto appello.
Peraltro, anche a voler sottacere tale circostanza, deve
ricordarsi che la decisione del Consiglio di Stato citata ha
comportato la reviviscenza del diniego espresso dalla
Soprintendenza, a cui il Comune era ed è vincolato alla
presa d’atto.
In ogni caso, risulta del tutto sfornita di riscontri
probatori la circostanza che l’autorizzazione paesaggistica
n. 18/2010 del 05.01.2012 e l’appendice al permesso di
costruire n. 27190/2007, datata 12.03.2012, siano stati
rilasciati senza specificare alcuna condizione legata al
giudizio d’appello, non essendo stata prodotta nel giudizio
in esame detta autorizzazione.
Risulta quindi evidente che l’atto in questione sia stato
emesso al mero fine di dare attuazione al decisum
giurisdizionale di primo grado, provvisoriamente esecutivo e
cogente.
In ogni caso, la reviviscenza dell’autorizzazione
paesaggistica negativa (ad opera della sentenza del
Consiglio di Stato), vincolante per l’amministrazione
comunale, obbligava comunque la stessa al doveroso
ripristino della legalità, dato che l'art. 146 del D.lgs. n.
42/2004 al comma 4, statuisce “L’autorizzazione
paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto
rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
In virtù del dettato normativo in questione, l'espresso
collegamento dei due atti (nulla-osta paesaggistico e
permesso di costruire) mediante un rapporto di stretta
presupposizione, implica l'illegittimità dell'atto
presupponente ove adottato in mancanza dell'atto presupposto
o in difformità al suo contenuto.
La Corte di Cassazione ha in più occasioni avuto modo di
osservare che l'autorizzazione paesaggistica costituisce
requisito di efficacia del permesso di costruire affermando
che “L'autorizzazione paesaggistica si inserisce come
elemento indispensabile nel procedimento di rilascio della
concessione in modo da incidere sulla sua efficacia”
(Cass. sent. n. 6671/1998) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 25.10.2018 n. 1555 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' ormai principio acquisito in giurisprudenza
quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria
in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di
demolizione ha automatico effetto caducante
sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La
presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce,
quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione
contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di
interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera,
provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne
l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di
un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di
accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in
quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di
demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo
termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato
(una volta che sia venuto meno quello assegnato in
precedenza)”.
---------------
- Ritenuto, in primo luogo, che sussistono i presupposti di legge
per definire il giudizio nella presente sede cautelare, con
sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 del
c.p.a., essendo, tra l’altro, state rese edotte le parti di
tale eventualità, come consta dal verbale d’udienza;
- Considerato che il ricorso, senza che vi sia la necessità di
attendere l’esito della domanda di concessione del permesso
di costruire in sanatoria, è improcedibile, essendo ormai
principio acquisito in giurisprudenza quello per cui “La
presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva
all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico
effetto caducante sull'ordinanza di demolizione,
rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta
domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere
improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per
sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame
dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure
al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o
implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque
a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un
nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato
un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già
dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in
precedenza)” (cfr. ex multis ord. TAR Reggio
Calabria 06.09.2018 n. 142; sent. TAR Reggio Calabria
03.07.2018 n. 406; TAR Roma, (Lazio), sez. II, 09/02/2018,
n. 1581 sent. TAR Napoli sez. VIII 02.01.2018 n. 1) (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 17.09.2018 n. 559 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di
un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un
automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione
delle opere abusive eventualmente già adottata, ovvero ne
inibisce l’adozione a pena di illegittimità della sanzione
demolitoria pronunciata in pendenza della sanatoria.
In altri termini, la presentazione dell’istanza di sanatoria
comporta in ogni caso l’inefficacia dell’ordinanza
impugnata, salvi i provvedimenti che l’amministrazione
riterrà di adottare all’esito del procedimento.
---------------
Considerato:
- che, come risulta dalla documentazione in atti, successivamente
all’instaurazione del giudizio il ricorrente signor Miniati
ha chiesto al Comune di Firenze la sanatoria e il
contestuale accertamento di conformità paesaggistica dei
manufatti oggetto del provvedimento impugnato;
- che la circostanza sopravvenuta determina la manifesta
improcedibilità del ricorso, da accertarsi e dichiararsi ai
sensi dell’art. 60 c.p.a.;
- che, nella specie, trova infatti applicazione la tradizionale
massima –alla quale il collegio intende dare continuità, in
coerenza con gli indirizzi della Sezione– secondo cui la
presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi
produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di
demolizione delle opere abusive eventualmente già adottata,
ovvero ne inibisce l’adozione a pena di illegittimità della
sanzione demolitoria pronunciata in pendenza della sanatoria
(fra le molte, da ultimo cfr. TAR Toscana, sez. III,
02.08.2018, n. 1130; id., 21.05.2018, n. 691);
- che, in altri termini, la presentazione dell’istanza di sanatoria
comporta in ogni caso l’inefficacia dell’ordinanza
impugnata, salvi i provvedimenti che l’amministrazione
riterrà di adottare all’esito del procedimento (TAR Toscana,
Sez. III,
sentenza 13.09.2018 n. 1177 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di
un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R.
n. 380/2001 (così come la presentazione di una istanza di
condono edilizio) in epoca successiva all'adozione
dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto
caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria
produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile
l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta
carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività
dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’ordine di demolizione rimane, infatti, caducato anche nel
caso in cui l’istanza di sanatoria non sia accoglibile,
stante che il provvedimento perde efficacia al momento della
presentazione dell’istanza, e, pertanto, in ogni caso
l’amministrazione, per poter procedere alla demolizione,
dovrà adottare un nuovo ordine demolitorio o comunque
assegnare un nuovo termine all’interessato per poter
procedere spontaneamente alla disposta demolizione (e così
evitare più gravose sanzioni), essendo ormai decorso quello
precedentemente assegnato.
Nel senso dell'improcedibilità si è già peraltro più volte
espressa la giurisprudenza anche di questo TAR sia alle
istanze di condono edilizio sia alle richieste di
accertamento di conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380
presentate dopo l'ordinanza di demolizione.
---------------
Il Collegio aderisce all'orientamento giurisprudenziale
secondo cui la presentazione di un'istanza di accertamento
di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 (così come la
presentazione di una istanza di condono edilizio) in epoca
successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha
automatico effetto caducante sull'ordinanza di
demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria
produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile
l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta
carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività
dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’ordine di demolizione rimane, infatti, caducato anche nel
caso in cui l’istanza di sanatoria non sia accoglibile,
stante che il provvedimento perde efficacia al momento della
presentazione dell’istanza, e, pertanto, in ogni caso
l’amministrazione, per poter procedere alla demolizione,
dovrà adottare un nuovo ordine demolitorio o comunque
assegnare un nuovo termine all’interessato per poter
procedere spontaneamente alla disposta demolizione (e così
evitare più gravose sanzioni), essendo ormai decorso quello
precedentemente assegnato.
Nel senso dell'improcedibilità si è già peraltro più volte
espressa la giurisprudenza anche di questo TAR sia alle
istanze di condono edilizio sia alle richieste di
accertamento di conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380
presentate dopo l'ordinanza di demolizione (TAR Campania
Napoli, sez. VIII, 06/03/2017, n. 1289; Cons. Stato, sez. IV,
28/11/2013, n. 5704; Cons. Stato, sez. IV, 12/05/2010, n.
2844; Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2013, n. 5704; TAR
Piemonte Torino, Sez. II, 18.01.2013, n. 48) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.07.2018 n. 5115 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La giurisprudenza ha già chiarito che,
nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di
vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi
precisi:
a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
---------------
Nella fattispecie non si rinviene tra gli atti in discorso
un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto la
variante generale al PTG, non impugnata, non è applicativa
degli atti impugnati, ma costituisce autonomo esercizio del
potere discrezionale attribuito all’amministrazione comunale
in materia urbanistica ed avrebbe dovuto essere oggetto di
autonoma azione impugnatoria.
---------------
3.3.2. Il nuovo strumento urbanistico, non impugnato,
adottato con variante al P.G.T. approvata dal Consiglio
Comunale di Desio con deliberazione n. 47 del 24.09.2014,
sebbene abbia confermato la destinazione urbanistica
agricola delle aree in discorso, non costituisce atto
meramente confermativo del precedente atto di pianificazione
urbanistica nella parte relativa alle aree di proprietà
delle appellanti.
In sostanza, le appellanti sembrano assumere che la
persistenza dell’interesse al ricorso derivi dal fatto che
l’annullamento degli atti impugnati in questa sede avrebbe
efficacia caducante della variante al PGT approvata dal
Consiglio Comunale di Desio in data 24.09.2014.
La tesi è infondata.
L’eventuale annullamento degli atti impugnati, infatti, non
avrebbe comunque efficacia caducante della deliberazione del
Consiglio Comunale di Desio n. 47 del 24.09.2014 che, anche
nella parte relativa alle aree di proprietà degli
appellanti, ha natura provvedimentale e non meramente
confermativa.
In proposito, la giurisprudenza (cfr., ex multis,
Cons. Stato, IV, n. 1247 del 2018; sez., IV, n. 4404 del
2015; Cass. civ., SS.UU., n. 7702 del 2016) ha già chiarito
che, nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di
vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi
precisi:
a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
Nella fattispecie non si rinviene tra gli atti in discorso
un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto la
variante generale al PTG, non impugnata, non è applicativa
degli atti impugnati, ma costituisce autonomo esercizio del
potere discrezionale attribuito all’amministrazione comunale
in materia urbanistica ed avrebbe dovuto essere oggetto di
autonoma azione impugnatoria.
In particolare, il piano di governo del territorio, ai sensi
dell’art. 7 della L.R. Lombardia, definisce l’assetto
dell’intero territorio comunale ed è articolato nei seguenti
atti: a) il documento di piano; b) il piano dei servizi; c)
il piano delle regole.
La deliberazione del Consiglio Comunale di Desio n. 47 del
24.09.2014 -avente ad oggetto l’esame delle controdeduzioni
alle osservazioni presentate agli atti costituenti il nuovo
PGT, adottato con deliberazione C.C. n. 4 del 06.02.2014- ha
approvato in via definitiva, ai sensi del settimo comma
dell’art. 13 L.R. n. 12 del 2005 (il quale recita che, entro
novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle
stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni),
gli elaborati grafici allegati ed ha approvato
l’aggiornamento cartografico e normativo della componente
geologica, idrogeologica e sismica, reso necessario a
seguito delle osservazioni pervenute e pareri resi, così
come risulta dagli elaborati allegati.
Detto atto, pertanto, per tutte le aree rientranti nel
territorio comunale, costituisce la risultante di una nuova
istruttoria, sicché ha chiaramente natura provvedimentale e
non meramente confermativa anche in relazione alle aree che,
in esito al rinnovato iter, hanno conservato la precedente
destinazione urbanistica.
Di talché, non essendo stata impugnata la variante generale
al PTG del Comune di Desio del 2014, le appellanti, anche se
venissero annullati gli atti in questa sede impugnati, non
potrebbero più conseguire il “bene della vita” al
quale aspirano (cfr., sul tema, ex multis, Cons.
Stato, Sez. IV, n. 5365 del 2017; Sez. IV, n. 487 del 2017) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.05.2018 n. 3169 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La giurisprudenza ha già chiarito che,
nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di
vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi
precisi:
a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
---------------
Nella fattispecie non si rinviene tra la variante parziale
al PRG in contestazione ed il provvedimento di approvazione
del Piano Urbanistico Attuativo (PUA) un rapporto di
consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimo non è
meramente applicativo del primo, ma costituisce autonomo
esercizio del potere discrezionale attribuito
all’amministrazione in materia urbanistica ed avrebbe dovuto
essere oggetto di autonoma azione impugnatoria.
Di talché, non risultando impugnate le delibere giuntali di
adozione ed approvazione del PUA, l’appellante non potrebbe
più conseguire il bene della vita al quale aspira.
---------------
3. A margine, il Collegio rileva che, in ogni caso, il
presente appello è divenuto improcedibile per carenza di
interesse in quanto, come rappresentato dal Comune di Mira
nella propria memoria conclusiva, in pendenza del giudizio,
la F.I.R.B. ha presentato il progetto del Piano Attuativo
dell’area classificata “PN 13” dalla variante parziale al
P.R.G. in discussione, che è stato adottato dalla Giunta
Comunale con deliberazione 24.10.2013, n. 235, e poi
approvato con deliberazione giuntale 24.02.2014, divenuta
inoppugnabile.
L’eventuale annullamento della variante parziale al P.R.G.
di Mira “in adeguamento del decreto del Presidente della
Repubblica 23.11.2007 relativo alla reiterazione del vincolo
del comparto Sc27”, adottata con deliberazione del
Consiglio Comunale di Mira n. 158 dell’11.12.2008 e
approvata con deliberazione della Giunte Regionale del
Veneto n. 1543 dell’08.06.2010, infatti, non avrebbe
comunque efficacia caducante delle deliberazioni della
Giunta Comunale del 24.10.2013 di adozione del PUA dell’area
classificata a “PN13” e della Giunta Comunale del 24.02.2014
di approvazione del detto PUA.
In proposito, la giurisprudenza (cfr., ex multis,
Cons. Stato, IV, n. 1247 del 2018; sez., IV, n. 4404 del
2015; Cass. civ., sez. un., n. 7702 del 2016) ha già
chiarito che, nell’ambito del procedimento amministrativo,
occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante
e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma
di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi
precisi:
a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
Nella fattispecie non si rinviene tra la variante parziale
al PRG in contestazione ed il provvedimento di approvazione
del Piano Urbanistico Attuativo dell’area classificata dal
PRG a zona residenziale scheda “PN13” un rapporto di
consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimo non è
meramente applicativo del primo, ma costituisce autonomo
esercizio del potere discrezionale attribuito
all’amministrazione in materia urbanistica ed avrebbe dovuto
essere oggetto di autonoma azione impugnatoria.
Di talché, non risultando impugnate le delibere giuntali di
adozione ed approvazione del PUA, l’appellante non potrebbe
più conseguire il bene della vita al quale aspira (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.05.2018 n. 3017 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha già chiarito che,
nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di
vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi
precisi:
a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
---------------
Nella fattispecie non si rinviene tra il piano di recupero
dell’immobile ed il successivo permesso di costruire un
rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimo
non è meramente applicativo del primo, ma costituisce
autonomo esercizio del potere attribuito
all’amministrazione.
Tale permesso, inoltre, non è meramente confermativo di atti
precedenti ed è stato rilasciato in accoglimento di
un’autonoma istanza ed all’esito di un proprio iter
istruttorio, tanto che l’amministrazione ha acquisito anche
il parere della Commissione Edilizia espresso nella seduta
del 21.07.2003.
Di talché, l’eventuale caducazione della delibera di
Consiglio Comunale n. 64 del 2003, con cui è stato approvato
il piano di recupero dell’immobile, non provocherebbe il
travolgimento del permesso di costruire n. 175 del 2003 che
avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma azione
impugnatoria.
In definitiva, essendo inoppugnabile il detto permesso di
costruire, l’appellante non potrebbe comunque conseguire il
bene della vita al quale aspira, per cui il ricorso di primo
grado è stato correttamente dichiarato improcedibile.
---------------
2.2.2. In relazione alla statuizione di improcedibilità, il
Collegio rileva che l’intervenuto permesso di costruire n.
175 del 25.11.2003, non impugnato ed inoppugnabile,
assentendo anche l’installazione dell’ascensore, ha
disciplinato il rapporto controverso facendo venire meno
ogni interesse per le sorti della d.i.a. n. 1282 del
14.08.2003.
Il Comune di Asti, nella propria memoria, ha posto in
rilievo che il permesso di costruire n. 175 del 20.11.2003
rilasciato alla In.Im. Srl, mai impugnato dal signor Ga., dà
titolo alla Società controinteressata di realizzare un
intervento di ristrutturazione edilizia del fabbricato di
Corso Alfieri 264 con trasporto di cubatura, ed in
particolare dà titolo ad installare l’ascensore di cui alla
d.i.a. 1282 del 04.08.2003. In questo senso, ha aggiunto il
Comune di Asti, la relazione tecnica del progettista ing.
Ma.Go., a cui si riferisce il permesso di costruire n. 175
del 20.11.2003, al suo quarto punto elenca tra le “opere
in oggetto” la “installazione di ascensore
oleodinamico per consentire l’eliminazione delle barriere
architettoniche”.
Il Collegio rileva che il Comune di Asti, con provvedimento
n. 175 del 20.11.2003, ha rilasciato ad In.Im. Srl il
permesso di costruire per eseguire l’intervento di
ristrutturazione edilizia di fabbricato di civile abitazione
con trasporto di cubatura facente parte del piano di
recupero approvato dal Consiglio Comunale n. 64 del
16.07.2003.
Tra gli atti depositati in primo grado dal Comune (doc. n.
16), vi è la relazione tecnica dell’ing. Ma.Go., peraltro
priva di data, in cui il professionista, a seguito
dell’incarico professionale affidatogli dalla Società “In.Im.”
srl con sede in ... n. 264, ha precisato in cosa consistono
le relative opere, specificando al quarto periodo “installazione
di ascensore oleodinamico per consentire l’eliminazione
delle barriere architettoniche all’interno di
un’intelaiatura metallica tamponata con lastre di cristallo
antisfondamento tipo ‘stopsol’ non trasparenti e non
riflettenti”.
Di talché, l’installazione dell’ascensore costituisce
oggetto del permesso di costruire n. 175 del 20.11.2003,
ormai inoppugnabile, e, di conseguenza, l’eventuale
accoglimento delle azioni di annullamento proposte con
l’atto introduttivo del giudizio e con motivi aggiunti non
potrebbe produrre alcuna utilità per l’appellante.
2.2.3. Né su tale conclusione può incidere quanto dedotto
dal signor Ga. circa il fatto che, sebbene non indicata
nell’epigrafe, la deliberazione del Consiglio Comunale n. 64
del 16.07.2003, con cui era stato approvato il piano di
recupero dell’immobile sul quale sono stati effettuati gli
interventi in discorso, è stata impugnata in primo grado con
i motivi aggiunti.
L’eventuale annullamento di tale atto, infatti, non avrebbe
comunque efficacia caducante del permesso di costruire n.
175 del 2003, con cui è stata assentita, tra l’altro,
l’installazione dell’ascensore.
In proposito, la giurisprudenza (cfr., ex multis,
Cons. Stato, IV, n. 1247 del 2018; sez., IV, n. 4404 del
2015; Cass. civ., sez. un., n. 7702 del 2016) ha già
chiarito che, nell’ambito del procedimento amministrativo,
occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante
e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma
di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi
precisi:
a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
Nella fattispecie non si rinviene tra il piano di recupero
dell’immobile ed il successivo permesso di costruire un
rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimo
non è meramente applicativo del primo, ma costituisce
autonomo esercizio del potere attribuito
all’amministrazione.
Tale permesso, inoltre, non è meramente confermativo di atti
precedenti ed è stato rilasciato in accoglimento di
un’autonoma istanza ed all’esito di un proprio iter
istruttorio, tanto che l’amministrazione ha acquisito anche
il parere della Commissione Edilizia espresso nella seduta
del 21.07.2003.
Di talché, l’eventuale caducazione della delibera di
Consiglio Comunale n. 64 del 2003, con cui è stato approvato
il piano di recupero dell’immobile, non provocherebbe il
travolgimento del permesso di costruire n. 175 del 2003 che
avrebbe dovuto essere oggetto di autonoma azione
impugnatoria.
In definitiva, essendo inoppugnabile il detto permesso di
costruire, l’appellante non potrebbe comunque conseguire il
bene della vita al quale aspira, per cui il ricorso di primo
grado è stato correttamente dichiarato improcedibile.
2.2.4. La statuizione di improcedibilità non trova ostacoli
neppure nella norma sancita dall’art. 34, comma 3, cod. proc.
amm., non essendo stata proposta la relativa domanda di
accertamento o comunque una pertinente istanza che manifesti
l’interesse della parte per un tale tipo di pronuncia (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, n. 2637 del 2016; Adunanza Plenaria,
n. 4 del 2015; Cons. Stato Sez. IV, n. 6703 del 2012 cui si
rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), cod. proc.
amm.) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.05.2018 n. 3001 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza esclude che il mero rapporto di
presupposizione tra due atti determini invalidità caducante dell’atto presupponente in
ipotesi di annullamento di quello presupposto, avendo
l’invalidità caducante una portata estremamente
circoscritta.
Si è, pertanto, affermato che, in presenza di vizi accertati
dell’atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità ad
effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante,
ammettendosi per la prima che l’annullamento dell’atto
presupposto si estenda automaticamente a quello
consequenziale, anche ove quest’ultimo non sia stato
tempestivamente impugnato; quanto alla concreta
individuazione della predetta tipologia di effetti, è
pacifico che si debba valutare l’intensità del rapporto di
consequenzialità, con riconoscimento dell’effetto caducante
solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario,
nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito della
medesima sequenza procedimentale, come inevitabile
conseguenza di quello anteriore , senza necessità di nuove
ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare
riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi, estranei alla
precedente vicenda contenziosa.
---------------
In ogni caso, fermo restando che le ragioni sopra esposte
valgono di per sé ad escludere la fondatezza dei motivi di
appello sollevati dalla società Ac.Ch., deve,
conformemente a quanto statuito dalla decisione del
Tribunale Amministrativo, escludersi che i titoli successivi
si configurino quali atti meramente consequenziali rispetto
a quelli oggetto di annullamento da parte della sentenza n.
1363/2013 e, dunque, affetti da invalidità caducante (sempre, però, in caso di annullamento dell’atto
presupposto).
Valgano al riguardo le considerazioni in proposito
esplicitate nell’esame dell’appello n. 6091/2013, alle quali
va fatto integralmente rinvio.
Va in primo luogo evidenziato che la giurisprudenza esclude
che il mero rapporto di presupposizione tra due atti
determini invalidità caducante dell’atto presupponente in
ipotesi di annullamento di quello presupposto, avendo
l’invalidità caducante una portata estremamente
circoscritta.
Si è, pertanto, affermato che, in presenza di vizi accertati
dell’atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità ad
effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante,
ammettendosi per la prima che l’annullamento dell’atto
presupposto si estenda automaticamente a quello
consequenziale, anche ove quest’ultimo non sia stato
tempestivamente impugnato; quanto alla concreta
individuazione della predetta tipologia di effetti, è
pacifico che si debba valutare l’intensità del rapporto di
consequenzialità, con riconoscimento dell’effetto caducante
solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario,
nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito della
medesima sequenza procedimentale, come inevitabile
conseguenza di quello anteriore , senza necessità di nuove
ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare
riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi, estranei alla
precedente vicenda contenziosa (cfr. Cons. Stato, VI,
13.10.2015, n. 4695; sez. V, 25.11.2010, n. 8243).
Orbene, si è sopra visto, che i titoli abilitativi
demaniali, rilasciati successivamente a quello originario,
configurano atti nuovi rispetto al primo, adottati all’esito
di separati ed autonomi procedimenti nei quali vi è stata
una rinnovata valutazione dei presupposti per la loro
emanazione.
Si è, invero, dato conto della circostanza che vi siano
stati nuovi procedimenti nonché nuova attività istruttoria e
valutazione dei presupposti legittimanti il rilascio dei
titoli.
E’ stata, poi, rilevata anche la modificazione soggettiva
rispetto alla concessione originaria con il coinvolgimento
di nuovi soggetti, la maggiore durata conferita al rapporto
concessorio, l’ampliamento della superficie dell’area
concessa, nonché l’irrilevanza, ai fini della esclusione
della “novità” dei provvedimenti, del diritto di insistenza.
Quanto ai titoli edilizi, si è più sopra sottolineato come
il permesso di costruire n. 120 del 2012 abbia, nella
legittimazione urbanistico-edilizia dello stabilimento,
integralmente sostituito quello originario, con la
conseguenza che, anche per tale tipologia di atti, non possa
parlarsi di invalidità ad effetto caducante; più in
generale, poi, il rilascio dei successivi titoli edilizi è
avvenuto all’esito di autonomi e diversi procedimenti
rispetto a quello da cui è originato il permesso di
costruire originario.
L’invocato carattere antecedente della concessione demaniale
n. 71/2005 e del permesso di costruire n. 70/2005 vale,
pertanto, unicamente ad evidenziare la loro valenza di atti
presupposti (carattere di per sé non sufficiente ad
integrare invalidità ad effetto caducante), ma, in relazione
agli elementi sopra evidenziati, non risulta integrata
quella peculiare intensità che configura il rapporto di
consequenzialità immediato e diretto, necessario ad
integrare tale species di invalidità.
E tanto prescindendo dalla dirimente considerazione che la
caducazione automatica degli atti successivi richiede
comunque l’annullamento giurisdizionale dell’atto
presupposto, che nella vicenda in esame, in relazione agli
esiti dell’appello, non vi è stato (risultando comunque, ove
configurabile un autonomo annullamento amministrativo
illegittimo per mancata valutazione ed esternazione degli
elementi richiesti dall’art. 21-nonies della legge n.
241/1990) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.05.2018 n. 2651 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento, recante l’acquisizione coattiva dell’area al
patrimonio comunale, ponendosi in un rapporto di
presupposizione necessaria rispetto alla presupposta nota di
diniego di cambio d’uso, è stato anch’esso già caducato per
l’effetto caducante che da tale annullamento segue.
Ricorrono, infatti, entrambi i requisiti dell’effetto caducante:
● “il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto
annullato direttamente come di quello caducato per
conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
●
il secondo individuato nel rapporto di necessaria
derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed
ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed
ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo
al coinvolgimento di soggetti terzi.
---------------
21. Sulla scorta di quanto esposto in narrativa e in disparte ogni
altro rilievo, il Collegio ritiene che:
a) il bene della vita richiesto dagli appellanti e oggetto di
successivi contenziosi consiste nella possibilità di mutare
in abitazione la destinazione d’uso dell’attuale magazzino
agricolo di loro proprietà.
Tale bene è stato loro
definitivamente riconosciuto dalla ricordata sentenza n.
3415/2014 e una decisione di merito nel presente contenzioso
non potrebbe recare loro alcuna altra utilità, anche perché
il provvedimento impugnato in questa sede si autoqualifica
espressamente come “atto meramente confermativo del diniego
del 21.11.2005 prot. 9338”, annullato dalla sentenza
citata.
Venendo in considerazione un atto meramente
confermativo, per un verso difettava in radice l’interesse
alla sua impugnazione, mentre, per altro verso,
l’annullamento dell’atto confermato ha esplicato un
automatico effetto caducante sull’atto confermativo. Di
conseguenza, per questa parte, il ricorso di primo grado era
in effetti inammissibile e limitatamente a questo profilo va
confermata la sentenza impugnata;
b) con l’atto di motivi aggiunti di primo grado, gli appellanti
hanno chiesto l’annullamento del provvedimento comunale n.
251/2010, recante l’acquisizione gratuita del manufatto al
patrimonio comunale. Tale provvedimento ha il suo espresso
presupposto nella nota di diniego di cambio d’uso del 2005,
annullata dalla sentenza n. 3415/2014.
In ragione di tale annullamento, deve darsi atto del
sopravvenuto difetto di interesse degli appellanti alla
decisione sui motivi aggiunti proposti in primo grado.
Deve, infatti, precisarsi che il provvedimento n. 251 del 15.01.2010, recante l’acquisizione coattiva dell’area al
patrimonio comunale, ponendosi in un rapporto di
presupposizione necessaria rispetto alla presupposta nota di
diniego di cambio d’uso, è stato anch’esso già caducato per
l’effetto caducante che da tale annullamento segue (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2014, n. 3415; sez. IV, 08.09.2015, n. 4193; sez. IV, 14.12.2017, n.
5896).
Ricorrono, infatti, entrambi i requisiti dell’effetto caducante (Cons. Stato, sez. IV, 21.09.2015, n.
4404), “il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto
annullato direttamente come di quello caducato per
conseguenza, alla medesima serie procedimentale; il secondo
individuato nel rapporto di necessaria derivazione del
secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi (ex plurimis, indicando le
decisioni più recenti, C.d.S., sez. V, 26.06.2015, n.
2611; id., sez. VI, 27.04.2015, n. 2116; id., sez. VI, 09.04.2015, n. 1782; id., sez. VI, 30.03.2015, n. 1652;
id. sez. V, 20.01.2015, n. 163; id., sez. III, 19.12.2014, n. 6174)” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.04.2018 n. 2277 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti
succedutisi nel tempo non sussiste un rapporto di
consequenzialità tale che, essendo stato impugnato l’atto
presupposto, l’accertata invalidità di questo si estenda
automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale è infatti nel
senso che in presenza di vizi accertati dell'atto
presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto
caducante e invalidità a effetto viziante, nel
senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto
presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante,
ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga
a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale
quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque,
la necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi.
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso
della successione cronologica di atti di pianificazione
generale, anche quando il piano successivo si ponga come
mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come detto,
comporta l’avvio di un nuovo procedimento amministrativo.
---------------
Va richiamata la distinzione -assolutamente netta nei
diversi arresti giurisprudenziali che hanno affrontato la
questione- tra atto di conferma ed atto meramente
confermativo. Allo scopo di stabilire se un atto
amministrativo sia meramente confermativo (e perciò
non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e,
quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini),
occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o
meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione
degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento
di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame
degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la
fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente
confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un
provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando
l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un
suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione.
---------------
5. Tra i Piani Regionali di Gestione di Rifiuti della
Regione Sardegna succedutisi nel tempo non sussiste un
rapporto di consequenzialità tale che, essendo stato
impugnato l’atto presupposto, l’accertata invalidità di
questo si estenda automaticamente all’atto consequenziale.
Il consolidato insegnamento giurisprudenziale, richiamato
dall’appellante, è infatti nel senso che in presenza di vizi
accertati dell'atto presupposto deve distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante,
ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga
a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale
quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza
necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque,
la necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato,
V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013,
n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI,
27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n.
8243).
Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso
della successione cronologica di atti di pianificazione
generale, anche quando il piano successivo si ponga come
mero “aggiornamento” del precedente, poiché, come
detto, comporta l’avvio di un nuovo procedimento
amministrativo.
5.1. Nemmeno giova all’appellante sostenere che il Piano
approvato nel 2016 sarebbe un atto di conferma del
precedente.
Va in proposito richiamata la distinzione -assolutamente
netta nei diversi arresti giurisprudenziali che hanno
affrontato la questione- tra atto di conferma ed
atto meramente confermativo. Allo scopo di stabilire se
un atto amministrativo sia meramente confermativo (e
perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio
(e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei
termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato
adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova
ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento
di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame
degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la
fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente
confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un
provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto meramente
confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare
l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza
compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova
motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 14.04.2014, n.
1805; id., 12.02.2015, n. 758; id., 29.02.2016, n. 812; id,
12.10.2016, n. 4214, nonché, da ultimo, in tema di
successione di strumenti di pianificazione generale, Cons.
Stato, IV, 27.01.2017, n. 357).
Peraltro, nel caso di specie, più che una conferma di
precedenti previsioni di Piano si è avuta la rinnovata
approvazione, a seguito di apposita nuova istruttoria, di
previsioni soltanto conformi, cioè coincidenti, con le
precedenti.
La loro sopravvivenza all’eventuale annullamento di queste
ultime rende improcedibile l’appello per sopravvenuta
carenza di interesse (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.04.2018 n. 2172 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Effetti
dell’annullamento di uno strumento urbanistico.
Si è affermato, da un lato, che
la sentenza che conduce all’annullamento di un atto generale
non sempre ha efficacia erga omnes, il che accade facilmente
nel caso dell’annullamento di un piano regolatore, in cui
l’interesse fatto valere nel ricorso resta circoscritto alle
aree individuate o a parti specifiche del territorio
comunale, pertinenti alle posizioni dell’istante,
dall’altro, che le prescrizioni contenute in una
variante al piano regolatore generale vanno considerate
scindibili, ai fini del loro eventuale annullamento in sede
giurisdizionale, con la conseguenza che, nel caso in cui il
ricorso prospetti vizi relativi solo ad alcune
determinazioni, l’annullamento del provvedimento non può
essere che parziale, stante il principio generale della
specificità dei motivi proponibili nei ricorsi davanti al
giudice amministrativo.
---------------
Non può attribuirsi al piano di zona per l’edilizia
economica e popolare quel carattere generale, unitario e
inscindibile, tale da determinare l’effetto erga omnes e la
deroga al principio dell’efficacia soggettiva in caso di
accoglimento dell’annullamento proposto da alcuni
destinatari
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.04.2018 n. 2097
- link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
12. Gli appellanti, riproponendo sostanzialmente le censure
avanzate con l’originario ricorso, ne chiedono
l’accoglimento. Le censure sono prive di pregio e vanno
rigettate.
12.1. La giurisprudenza di questo Consiglio, oltre che della
Corte di cassazione, che ha avuto ad oggetto specifico i
PEEP e della quale il primo giudice ha fatto corretta
applicazione, è coerente con l’applicazione dei principi
generali in tema di effetti soggettivi del giudicato
amministrativo di annullamento e si ricollega alla
evoluzione giurisprudenziale tendente a limitare
l’estensione soggettiva degli effetti del giudicato in
riferimento agli strumenti urbanistici.
12.1.1. In generale, è principio consolidato che la
decisione di annullamento –che per i limiti soggettivi del
giudicato esplica in via ordinaria effetti solo fra le parti
in causa– acquista efficacia erga omnes nei casi di
atti a contenuto inscindibile, ovvero di atti a contenuto
normativo, secondari (regolamenti) o amministrativi
generali, rivolti a destinatari indeterminati ed
indeterminabili a priori, in relazione ai quali gli effetti
dell’annullamento non sono circoscrivibili ai soli
ricorrenti, essendosi in presenza di un atto a contenuto
generale sostanzialmente e strutturalmente unitario, il
quale non può esistere per taluni e non esistere per altri (ex
multis, da ultimo, Cons. Stato, sez. III, n. 3307 del
2016; sez. IV, n. 5449 del 2013; sez. III, n. 2350 del 2012;
sez. V, n. 4390 del 2008; Cass. civ., sez. I, n. 2734 del
1998).
Tali principi sono stati da ultimo ribaditi dall’Adunanza
Plenaria n. 11 del 2017, la quale -in una fattispecie in cui
veniva in rilievo il termine per proporre ricorso e la sua
decorrenza e veniva assunta come rilevante la conoscenza
dell’accertamento dell’illegittimità- ha affermato che il
sopravvenuto annullamento giurisdizionale di un atto
amministrativo non può giovare ai cointeressati che non
abbiano tempestivamente proposto il gravame e per i quali,
pertanto, si è già verificata una situazione di
inoppugnabilità, con conseguente esaurimento del relativo
rapporto giuridico, fatta eccezione per l’ipotesi degli atti
ad effetti inscindibili.
12.1.2. In tale contesto generale, la giurisprudenza
consolidata ha escluso l’attribuibilità al PEEP del
carattere generale, unitario e inscindibile, tale da
determinare l’effetto erga omnes e la deroga al
principio dell’efficacia soggettiva in caso di accoglimento
dell’annullamento proposto da alcuni destinatari.
Proprio in riferimento all’annullamento del PEEP del Comune
di Acquaviva delle Fonti per cui è causa e ai precedenti
decreti di espropriazione emanati nei confronti di soggetti
che non avevano impugnato il primo (tra i quali la stessa
signora Mu. che in quella diversa causa aveva fatto valere
il diritto alla restituzione del bene espropriato con lo
stesso decreto e l’accertamento dell’illegittimità della
pretesa comunale di aver acquisito la proprietà del suolo
espropriato), questo Consiglio (sez. IV, nn. 3694 e 156 del
2009) ha ritenuto il PEEP atto plurimo e scindibile,
ancorché formalmente unico, perché caratterizzato dalla
singolarità dei destinatari, con conseguente limitazione
soggettiva dell’annullamento dello stesso.
Le stesse decisioni hanno precisato che l'annullamento
integrale di un piano di zona per l'edilizia economica e
popolare in sede giurisdizionale produce i suoi effetti
anche nei confronti di chi non abbia proposto ricorso, solo
nel senso che, una volta pronunciato l'annullamento, il
piano non può più essere legittimamente assunto come
presupposto di nuovi provvedimenti attuativi (come per
esempio, quelli espropriativi), ma non nel senso che restano
travolti e caducati anche gli atti espropriativi emanati
precedentemente all'annullamento.
12.1.3. Né, in senso contrario, può invocarsi, come hanno
fatto i ricorrenti e appellanti, la decisione di questo
Consiglio sez. IV n. 6921 del 2002, avendo questa risolto la
questione in termine strettamente processuali, non
rinvenendo la qualità di soccombente in capo al Comune che
in appello aveva censurato l’improcedibilità, ritenuta dal
Tar sulla base del successivo annullamento del PEEP, del
ricorso proposto dal privato avverso il decreto di
espropriazione.
12.1.4. In senso conforme all’orientamento del Consiglio di
Stato, è anche la giurisprudenza civile, secondo la quale,
il soggetto che non ha partecipato al giudizio
amministrativo non può avvalersi del giudicato relativo
all’annullamento di un piano di zona per l’edilizia
economica e popolare al fine di ottenere dal giudice
ordinario la cancellazione della trascrizione del decreto di
espropriazione e il risarcimento dei danni, in quanto la
dichiarazione di pubblica utilità, implicita
nell’approvazione del piano di zona, non è un atto
collettivo, ma deve essere inquadrato nella categoria degli
atti plurimi, caratterizzati dall’efficacia soggettivamente
limitata ai destinatari individuabili in relazione alla
titolarità delle singole porzioni immobiliari oggetto della
potestà ablatoria, con la conseguenza che il suo
annullamento non spiega efficacia erga omnes (Cass.
civ., sez. I, n. 11920 del 2009, n. 7253 del 2004, n. 2038
del 1996).
12.1.5. La correttezza della scelta di limitare gli effetti
soggettivi del giudicato di annullamento del PEEP trova
giustificazione anche nella evoluzione giurisprudenziale
tendente a limitare l’estensione soggettiva degli effetti
del giudicato in riferimento agli strumenti urbanistici in
generale.
Da un lato si è affermato che la sentenza che conduce
all’annullamento di un atto generale non sempre ha efficacia
erga omnes, il che accade facilmente nel caso
dell’annullamento di un piano regolatore, in cui l’interesse
fatto valere nel ricorso resta circoscritto alle aree
individuate o a parti specifiche del territorio comunale,
pertinenti alle posizioni dell’istante (Cons. Stato, sez. IV,
n. 7771 del 2003).
Dall’altro, che le prescrizioni contenute in una variante al
piano regolatore generale vanno considerate scindibili, ai
fini del loro eventuale annullamento in sede
giurisdizionale, con la conseguenza che, nel caso in cui il
ricorso prospetti vizi relativi solo ad alcune
determinazioni, l’annullamento del provvedimento non può
essere che parziale, stante il principio generale della
specificità dei motivi proponibili nei ricorsi davanti al
giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, n. 8146 del
2003).
Ed ancora, si è messo in collegamento tale orientamento con
il principio giurisprudenziale, secondo cui sono
inammissibili per carenza di interesse le censure
concernenti la disciplina urbanistica di aree estranee a
quelle di proprietà del ricorrente, giacché le prescrizioni
dello strumento urbanistico vanno considerate scindibili ai
fini del loro eventuale annullamento in sede
giurisdizionale, salva la possibilità di proporre
impugnativa allorquando la nuova destinazione urbanistica,
pur concernendo un'area non appartenente al ricorrente,
incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato
dell'area stessa, o comunque su interessi propri e specifici
del medesimo esponente (Cons. Stato, sez. IV, n. 6619 del
2007; n. 4977 del 2003). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il certificato di
agibilità non assume una capacità sanante dei vizi che
affliggono un titolo edilizio, il cui annullamento all’esito
dell’impugnazione giurisdizionale si ripercuote
inevitabilmente sul primo, con effetto caducante, stante la
relazione di stretta consequenzialità.
---------------
La Società ricorrente censura il provvedimento comunale
18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in
sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto
e di un balcone.
0. Si premette che, come ha messo in evidenza la parte
ricorrente, il certificato di agibilità non assume una
capacità sanante dei vizi che affliggono un titolo edilizio,
il cui annullamento all’esito dell’impugnazione
giurisdizionale si ripercuote inevitabilmente sul primo, con
effetto caducante, stante la relazione di stretta
consequenzialità (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia –
22/04/2015 n. 188, confermata da Consiglio di Stato, sez. VI
– 09/08/2016 n. 3559).
Pertanto, non ha alcun rilievo l’omessa tempestiva
proposizione di un ricorso avverso il certificato suddetto (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questo Consiglio ha a più riprese chiarito che
nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di
vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi
precisi:
a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
---------------
Nella fattispecie non si rinviene tra il permesso di costruire impugnato
ed i successivi provvedimenti e cioè:
a) in data 26.09.2009 un provvedimento sanzionatorio ex art. 38, d.P.R.
380/2001, in relazione alla porzione abitativa
dell’immobile;
b) in data 17.11.2009 un permesso di costruire avente ad oggetto
l’annesso rustico ed il suo ampliamento con rilascio del
certificato di agibilità del 06.06.2010;
c) in data 26.12.2010 è stato rilasciato permesso di costruire con
il quale è stato autorizzato l’ampliamento della superficie
con destinazione agricolo-produttiva, utilizzando porzioni
in precedenza previste ad uso residenziale, con rilascio del
certificato di agibilità del 07.07.2011;
d) in data 24.05.2012 è stato rilasciato permesso di costruire n.
18/2012, in forza del quale è stato autorizzato
l’ampliamento della casa di abitazione con utilizzo di
porzione rustica del fabbricato in questione,
un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimi
non eseguono il provvedimento oggi impugnato, ma
costituiscono autonomo esercizio del potere discrezionale
dell’amministrazione.
Tali permessi, inoltre, non sono meramente confermativi dei
precedenti e sono stati rilasciati in accoglimento di
altrettanto autonome istanze, ed all’esito di un originale
percorso istruttorio fondato su diverse basi normative.
Da ciò deriva che l’eventuale caducazione del permesso di
costruire non farebbe venire meno i plurimi titoli
autorizzatori sui quali fonda la costruzione avversata
dall’odierno appellante. Conseguentemente, quest’ultimo non
potrebbe ottenere il soddisfacimento del bene della vita
sotteso al suo interesse legittimo e rappresentato dalla
demolizione dell’immobile in questione con conseguente
riduzione in pristino.
---------------
7. L’odierno appello è improcedibile per sopravvenuto
difetto di interesse.
8. Preliminarmente, è necessario chiarire la portata della
sentenza n. 780/2006 di questo Consiglio, che -nel
confermare la sentenza del TAR per il Veneto di annullamento
del permesso di costruire n. 3/2005, rilasciato
dall’amministrazione appellata a favore dell’originario
controinteressato– ha respinto l’appello principale di
quest’ultimo.
8.1. Nella specie il Consiglio:
a) conveniva con le conclusioni raggiunte dal primo giudice in
relazione al fatto che la superficie relativa alla sottozona
E3, ricompresa nel fondo rustico dell’odierno appellato, su
cui insisteva l’intervento, fosse inferiore ai minimi
prescritti dalla disciplina regionale;
b) rilevava come l’annullamento del permesso di costruire n.
3/2005, non potesse non travolgere l’intero provvedimento,
stante la sua inscindibilità formale e la unitarietà
strutturale e funzionale dell’intervento edilizio;
c) aggiungeva, però, che restava: “…salva la potestà del Comune
di valutare, in diverso contesto procedimentale,
l'ammissibilità di interventi edificatori concernenti
esclusivamente annessi rustici per attività aziendale”.
8.2. Tanto evidenziato, ritiene il Collegio che la pronuncia
in questione non abbia concluso per la obbligatorietà della
demolizione di tutto quanto edificato dall’odierno
appellato.
La sopra riportata precisazione contenuta nel giudicato,
infatti, ha legittimato l’amministrazione comunale ad
adottare ulteriori provvedimenti salvaguardando gli annessi
rustici.
Dall’esame degli eventi e delle iniziative procedimentali
successivi al giudicato, risulta che all’indomani
dell’adozione del permesso di costruire n. 39/2006, avente
ad oggetto “la costruzione di un fabbricato ad uso
annessi rustici in Z.T.O. E3, ai sensi dell’art. 6 della
L.R. 24/1985”, quivi impugnato, l’amministrazione
comunale ha emanato:
a) in data 26.09.2009 un provvedimento sanzionatorio ex art. 38,
d.P.R. 380/2001, in relazione alla porzione abitativa
dell’immobile;
b) in data 17.11.2009 un permesso di costruire avente ad oggetto
l’annesso rustico ed il suo ampliamento con rilascio del
certificato di agibilità del 06.06.2010;
c) in data 26.12.2010 è stato rilasciato permesso di costruire con
il quale è stato autorizzato l’ampliamento della superficie
con destinazione agricolo-produttiva, utilizzando porzioni
in precedenza previste ad uso residenziale, con rilascio del
certificato di agibilità del 07.07.2011;
d) in data 24.05.2012 è stato rilasciato permesso di costruire n.
18/2012, in forza del quale è stato autorizzato
l’ampliamento della casa di abitazione con utilizzo di
porzione rustica del fabbricato in questione.
In particolare, dall’esame di quest’ultimo titolo edilizio
-che ha ad oggetto “ampliamento di casa di abitazione in
zona agricola mediante utilizzo di porzione rustica di
fabbricato esistente”- emerge che lo stesso è stato
adottato anche in forza delle ll.rr. Veneto n. 14/2009 e
13/2011, ossia in forza di una disciplina che modifica
sensibilmente la materia de qua e che spezza del
tutto ogni possibile collegamento tra l’esercizio del potere
edilizio cristallizzatosi con il provvedimento impugnato in
prime cure con quello esercitato successivamente
dall’amministrazione e culminato con il citato permesso n.
18/2012.
8.3. A questo punto occorre chiarire che l’eventuale
annullamento del permesso di costruire n. 39/2006, non
avrebbe portata caducante rispetto ai successivi
provvedimenti autorizzatori rilasciati dall’amministrazione
comunale.
Questo Consiglio (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez.
IV, 21.09.2015, n. 4404) ha a più riprese chiarito che
nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di
vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi
precisi:
a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
8.4. Nella fattispecie non si rinviene tra il permesso di
costruire impugnato ed i successivi provvedimenti sopra
elencati un rapporto di consequenzialità necessaria, in
quanto quest’ultimi non eseguono il provvedimento oggi
impugnato, ma costituiscono autonomo esercizio del potere
discrezionale dell’amministrazione.
Tali permessi, inoltre, non sono meramente confermativi dei
precedenti e sono stati rilasciati in accoglimento di
altrettanto autonome istanze, ed all’esito di un originale
percorso istruttorio fondato su diverse basi normative.
Da ciò deriva che l’eventuale caducazione del permesso di
costruire n. 39/2006, non farebbe venire meno i plurimi
titoli autorizzatori sui quali fonda la costruzione
avversata dall’odierno appellante. Conseguentemente, quest’ultimo
non potrebbe ottenere il soddisfacimento del bene della vita
sotteso al suo interesse legittimo e rappresentato dalla
demolizione dell’immobile in questione con conseguente
riduzione in pristino (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV,
n. 2637 del 2016).
8.5. La statuizione di improcedibilità non trova ostacoli
neppure nella norma sancita dall’art. 34, comma 3, cod. proc.
amm., non essendo stata proposta la relativa domanda di
accertamento o comunque una pertinente istanza che manifesti
l’interesse della parte per un tale tipo di pronuncia (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 15.06.2016, n. 2637; Ad. plen., n. 4
del 2015; Sez. IV, 28.12.2012, n. 6703, 07.11.2012, n. 5674
cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), cod.
proc. amm.).
9. L’odierno appello deve, quindi, essere dichiarato
improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.02.2018 n. 1247 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rammentato in via preliminare che, secondo il
principio “tempus regit actum”, la valutazione della
legittimità del provvedimento impugnato (ordinanza di
demolizione) va condotta “con riguardo alla situazione di
fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione”,
Il Collegio ritiene di dover rilevare, in linea generale e
con riferimento alla fattispecie odierna, che:
- in difetto di preventiva istanza di parte non poteva esigersi che
il Comune dovesse verificare d’ufficio la conformità
urbanistica dell’opera in contestazione, atteso che un onere
siffatto non è previsto nella disciplina vigente concernente
i poteri di vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia
abusiva;
- né può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia
dell’ordinanza di demolizione risultino compromesse dalla
presentazione della istanza di accertamento di conformità ex
art. 36 cit. , con conseguente improcedibilità della
impugnazione odierna per sopravvenuta carenza di interesse;
- la giurisprudenza che ha riconosciuto l'obbligo di riadottare un
provvedimento sanzionatorio dopo il rigetto della istanza di
sanatoria si è formata in tema di condono edilizio, ossia in
presenza di una richiesta che trova il suo fondamento in una
disposizione di carattere legislativo, che, innovando alla
disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate
condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria
degli abusi commessi: ma quei principi non possono trovare
applicazione quando sia stata formulata una istanza ai sensi
dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia sulla base di
una disposizione che, prevedendo quella che, sinteticamente,
si definisce doppia conformità, limita la valutazione
dell'opera sulla base di una disciplina preesistente;
- sostenere che, nell'ipotesi di presentazione della istanza di
accertamento di conformità, e di rigetto, esplicito o
implicito, della istanza stessa, l'Amministrazione debba
riadottare l'ordinanza di demolizione, e questo perché la
presentazione della istanza ex art. 36 cit. ha avuto un
effetto caducante sull’ingiunzione a demolire, equivarrebbe
a riconoscere in capo a un soggetto privato, “ad libitum”
del destinatario del provvedimento repressivo, il potere di
paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel
medesimo provvedimento sanzionatorio della pubblica
autorità, il che non può ammettersi;
- posto che la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di
demolizione non risultano compromesse dalla presentazione
della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del
menzionato d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza medesima
comporta piuttosto un arresto dell’efficacia della misura
ripristinatoria, che rimane soltanto sospesa, determinandosi
uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente
fine di evitare, nel caso di accoglimento della istanza (o,
si può aggiungere, nel caso di accoglimento del ricorso
contro il diniego di accertamento di conformità ex art. 36
cit.), la demolizione di un’opera che, pur realizzata in
assenza o in difformità dal permesso di costruire, è
conforme alla strumentazione urbanistica vigente: sicché
●
qualora sia accolta la domanda di sanatoria (o se viene
accolto, in sede giurisdizionale, il ricorso contro il “diniego
ex art. 36”), l’ordine di demolizione decade per il
venire meno del suo presupposto, vale a dire del carattere
abusivo dell’opera realizzata, in ragione delle conformità
dell’intervento, verificata in via amministrativa, o anche
in sede giurisdizionale, alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dell’intervento e sia al momento della
presentazione della domanda;
●
mentre, nel caso di rigetto della istanza, tacito o
esplicito, divenuto inoppugnabile, la misura repressiva
adottata a suo tempo riacquista la sua efficacia, che non
era definitivamente cessata, ma soltanto sospesa, in attesa
della conclusione del nuovo iter procedimentale, con la sola
specificazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il
diniego perviene a conoscenza dell’interessato, il quale non
può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà
prevista dalla legge e deve, pertanto, poter usufruire
dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi
all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse
alla mancata esecuzione dello stesso;
- il procedimento di verifica della compatibilità urbanistica
dell’opera avviato a istanza di parte è un procedimento del
tutto autonomo e differente dal precedente procedimento
sanzionatorio/repressivo avviato d’ufficio e conclusosi con
l’ordinanza di demolizione dell’opera eseguita in assenza o
difformità del titolo abilitativo, di talché non vi sono
ragioni per imporre all’Amministrazione comunale il
riesercizio del potere repressivo a seguito dell’esito
negativo del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica, atteso che il provvedimento di demolizione
costituisce un atto vincolato (a suo tempo) adottato in
esito a un procedimento amministrativo sul quale non
interferisce l’eventuale conclusione negativa del
procedimento ad istanza di parte ex art. 36 del d.P.R. n.
380/2001: un nuovo procedimento e provvedimento
sanzionatorio si concretizzerebbe, infatti, in assenza di
una esplicita previsione legislativa, in una inutile e
antieconomica duplicazione dell’azione amministrativa.
---------------
5. L’appello è infondato e va respinto.
Le impugnate statuizioni della sentenza di primo grado sono
corrette e vanno confermate.
5.1. In via preliminare, anche in relazione a quanto dedotto
dall’appellante nell’ultima parte del secondo motivo
di impugnazione, specie sulla omessa considerazione, da
parte del Tar, della avvenuta presentazione, da parte del F.,
della istanza di cui all’art. 36 del t.u. n. 380 del 2001,
istanza che avrebbe un “effetto caducante” sulla
ingiunzione a demolire contestata in primo grado, il
Collegio ritiene di dover puntualizzare che l’avvenuta
presentazione della istanza e il fatto che sia pendente,
davanti al Tar del Lazio, un giudizio proposto dal Fu.
avverso e per l’annullamento del diniego di accertamento di
conformità n. 944/2012 opposto dal Comune sulla istanza del
ricorrente medesimo avanzata ai sensi del citato art. 36 (v.
sopra, p. 4., “in finem”), non assume rilievo ai fini
di una eventuale pronuncia di (im)proseguibilità del
presente gravame.
A questo proposito, rammentato in via preliminare che,
secondo il principio “tempus regit actum”, la
valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va
condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di
diritto esistente al momento della sua adozione”
(sentenza n. 49 del 2016; si veda anche sentenza n. 30 del
2016) (così C. cost., n. 224 del 2016) e precisato che
l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 cit.
risulta datata 13.10.2011 e, quindi, è posteriore di alcuni
mesi rispetto alla ordinanza di demolizione per la quale
oggi è controversia, adottata il 09.05.2011, il Collegio
ritiene di dover rilevare, in linea generale e con
riferimento alla fattispecie odierna, che:
- in difetto di preventiva istanza di parte non poteva esigersi che
il Comune dovesse verificare d’ufficio la conformità
urbanistica dell’opera in contestazione, atteso che un onere
siffatto non è previsto nella disciplina vigente concernente
i poteri di vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia
abusiva;
- né può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia
dell’ordinanza di demolizione risultino compromesse dalla
presentazione della istanza di accertamento di conformità ex
art. 36 cit. , con conseguente improcedibilità della
impugnazione odierna per sopravvenuta carenza di interesse;
- la giurisprudenza che ha riconosciuto l'obbligo di riadottare un
provvedimento sanzionatorio dopo il rigetto della istanza di
sanatoria si è formata in tema di condono edilizio, ossia in
presenza di una richiesta che trova il suo fondamento in una
disposizione di carattere legislativo, che, innovando alla
disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate
condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria
degli abusi commessi: ma quei principi non possono trovare
applicazione quando sia stata formulata una istanza ai sensi
dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia sulla base di
una disposizione che, prevedendo quella che, sinteticamente,
si definisce doppia conformità, limita la valutazione
dell'opera sulla base di una disciplina preesistente;
- sostenere che, nell'ipotesi di presentazione della istanza di
accertamento di conformità, e di rigetto, esplicito o
implicito, della istanza stessa, l'Amministrazione debba
riadottare l'ordinanza di demolizione, e questo perché la
presentazione della istanza ex art. 36 cit. ha avuto un
effetto caducante sull’ingiunzione a demolire, equivarrebbe
a riconoscere in capo a un soggetto privato, “ad libitum”
del destinatario del provvedimento repressivo, il potere di
paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel
medesimo provvedimento sanzionatorio della pubblica
autorità, il che non può ammettersi;
- posto che la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di
demolizione non risultano compromesse dalla presentazione
della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del
menzionato d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza medesima
comporta piuttosto un arresto dell’efficacia della misura
ripristinatoria, che rimane soltanto sospesa, determinandosi
uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente
fine di evitare, nel caso di accoglimento della istanza (o,
si può aggiungere, nel caso di accoglimento del ricorso
contro il diniego di accertamento di conformità ex art. 36
cit.), la demolizione di un’opera che, pur realizzata in
assenza o in difformità dal permesso di costruire, è
conforme alla strumentazione urbanistica vigente: sicché
qualora sia accolta la domanda di sanatoria (o se viene
accolto, in sede giurisdizionale, il ricorso contro il “diniego
ex art. 36”), l’ordine di demolizione decade per il
venire meno del suo presupposto, vale a dire del carattere
abusivo dell’opera realizzata, in ragione delle conformità
dell’intervento, verificata in via amministrativa, o anche
in sede giurisdizionale, alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dell’intervento e sia al momento della
presentazione della domanda; mentre, nel caso di rigetto
della istanza, tacito o esplicito, divenuto inoppugnabile,
la misura repressiva adottata a suo tempo riacquista la sua
efficacia, che non era definitivamente cessata, ma soltanto
sospesa, in attesa della conclusione del nuovo iter
procedimentale, con la sola specificazione che il termine
concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione
decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza
dell’interessato, il quale non può rimanere pregiudicato
dall’avere esercitato una facoltà prevista dalla legge e
deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui
assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le
conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello
stesso;
- il procedimento di verifica della compatibilità urbanistica
dell’opera avviato a istanza di parte è un procedimento del
tutto autonomo e differente dal precedente procedimento
sanzionatorio/repressivo avviato d’ufficio e conclusosi con
l’ordinanza di demolizione dell’opera eseguita in assenza o
difformità del titolo abilitativo, di talché non vi sono
ragioni per imporre all’Amministrazione comunale il
riesercizio del potere repressivo a seguito dell’esito
negativo del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica, atteso che il provvedimento di demolizione
costituisce un atto vincolato (a suo tempo) adottato in
esito a un procedimento amministrativo sul quale non
interferisce l’eventuale conclusione negativa del
procedimento ad istanza di parte ex art. 36 del d.P.R. n.
380/2001: un nuovo procedimento e provvedimento
sanzionatorio si concretizzerebbe, infatti, in assenza di
una esplicita previsione legislativa, in una inutile e
antieconomica duplicazione dell’azione amministrativa (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.02.2018 n. 1063 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere della Sovrintendenza, autorizzazione
paesaggistica e permesso di costruire sono atti successivi
della stessa più ampia sequenza procedimentale,
autonomamente impugnati. La dichiarata illegittimità dei
primi due fa comunque venir meno i presupposti che
radicavano il potere in concreto dell'Amministrazione di
accordare il titolo edilizio e travolge il permesso di
costruire per l’effetto caducante che ne consegue.
---------------
18. E’ comunque autonomamente fondata anche la seconda
censura, alla quale la società oppone plurime, ma non
fondate eccezioni di inammissibilità. Il parere della
Soprintendenza è perplesso e contraddittorio perché quanto
alle opere già eseguite richiama le disposizioni degli artt.
167 e 181 del codice e la sussistenza del vincolo
paesaggistico, demandando al Comune la verifica di
compatibilità, mentre si esprime chiaramente in senso
favorevole solo sulle ulteriori opere ancora da eseguire.
18.1. Segue da ciò il vizio dell’autorizzazione comunale,
che va oltre il segno nell’inciso della premessa, non
conforme al vero, “visto il parere favorevole della
Sovraintendenza”.
19. Parere della Sovrintendenza, autorizzazione
paesaggistica e permesso di costruire sono atti successivi
della stessa più ampia sequenza procedimentale,
autonomamente impugnati. La dichiarata illegittimità dei
primi due fa comunque venir meno i presupposti che
radicavano il potere in concreto dell'Amministrazione di
accordare il titolo edilizio e travolge il permesso di
costruire per l’effetto caducante che ne consegue (cfr. per
una parallela fattispecie procedimentale Cons. Stato, sez.
IV, 08.09.2015, n. 4193) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.12.2017 n. 5896 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Distinzione tra invalidità ad effetto caducante ed
invalidità ad effetto viziante. Intensità del rapporto di
consequenzialità tra atti presupposti e atti presupponenti
nel caso di strumenti urbanistici di diverso livello.
---------------
1. Distinzione tra invalidità ad effetto caducante ed
invalidità ad effetto viziante.
1.1. In termini generali, in base al
noto schema fatto proprio dal giudice amministrativo, in
presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve
distingursi fra invalidità ad effetto caducante ed
invalidità ad effetto viziante, ammettendo per la prima che
l'annullamento dell'atto presupposto si estenda
automaticamente a quello consequenziale, anche ove quest'ultimo non venga impugnato, mentre la seconda
renderebbe l'atto consequenziale annullabile, purché
impugnato nei termini.
1.2. Ai fini della concreta individuazione della tipologia
di effetti tra atti presupposti e atti presupponenti, è
pacifico che si debba valutare l'intensità del rapporto di
consequenzialità, con riconoscimento dell'effetto caducante
ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel
senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della
stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza
di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi.
2. (segue): sull'intensità del rapporto di consequenzialità
tra atti presupposti e atti presupponenti nel caso di
strumenti urbanistici di diverso livello.
2.1. In base alla legislazione regionale
toscana (dapprima la L.R. Toscana n. 5/1995 e ora la L.R.
Toscana n. 1/2005), il governo del territorio si attua con
una serie di strumenti che partono dal piano di indirizzo
territoriale e, passando per snodi intermedi, si concludono
con il rilascio dei permessi di costruire.
Il sistema che ne deriva si sviluppa per passaggi
successivi, ciascuno dei quali comporta l’adozione di uno
specifico atto, sulla base di una ponderazione degli
interessi implicati, apprezzati anche alla luce della
corrispondenza con l’atto di livello superiore.
Così stando le cose, è evidente che -quasi per definizione-
ciascuno dei successivi atti implica una ulteriore
valutazione di interessi, seppur circoscritta nei limiti
determinati dall’atto presupposto. E questo vale per
ciascuno dei successivi passaggi della catena.
2.2. La relazione che intercorre tra regolamento urbanistico
e piano attuativo non è di natura diversa da quella che
passa tra piano attuativo e permesso di costruire.
In entrambi i casi, gli atti presupponenti (piano attuativo
e permesso di costruire) hanno alle loro spalle un atto
presupposto (regolamento urbanistico e piano attuativo), che
limitano -ma non certo eliminano- il potere di apprezzamento
discrezionale dell’Amministrazione.
2.3. L’effetto che si produce tra le coppie di atti (quelli
presupponenti: piano attuativo e permesso di costruire; e
quelli presupposti: regolamento urbanistico e piano attuativo), in caso di invalidità dell’atto presupposto, è
dunque l’invalidità derivata, destinata a essere fatta
valere nelle forme, nei modi e nei termini previsti
dall’ordinamento, e dunque, necessariamente, anche mediante
la tempestiva impugnazione dell’atto presupposto, nel
rispetto del termine di decadenza.
D’altronde, se il Comune, nell’approvare il piano attuativo,
non fosse chiamato a compiere una valutazione di interessi
nuova e diversa (seppure circoscritta, nel senso di cui
prima si è detto), l’approvazione del piano medesimo
degraderebbe al ruolo di atto meramente esecutivo se non
addirittura dovuto: conseguenza questa palesemente incongrua
e contrastante con la realtà effettuale, e comunque
incompatibile con la complessa procedura prescritta per
l’approvazione del piano medesimo.
2.4. Il privato, che si ritenga leso da un piano attuativo,
ha solo l’onere di impugnarlo tempestivamente, dimostrando
ovviamente la legittimazione e l’interesse ad agire, a nulla
rilevando la pregressa e tempestiva impugnazione dello
strumento urbanistico presupposto (nella specie il R.U.C. ex
L.R. Toscana n. 5/1995).
2.5. Il termine per impugnare gli strumenti di
pianificazione urbanistica (ivi compresi i piani attuativi),
da parte di soggetti da essi non direttamente incisi,
decorre, a pena di decadenza, dalla data di pubblicazione
della delibera di approvazione
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it).
---------------
... per la riforma della
sentenza 16.11.2008 n. 2962 del TAR
TOSCANA-FIRENZE: SEZ. I, resa tra le parti, concernente
permesso di costruire per realizzazione di opere di
urbanizzazione e approvazione di piano particolareggiato
...
1. L’appello, in linea di principio, non sembra contestare
il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui il termine per impugnare gli strumenti di
pianificazione urbanistica, da parte di soggetti da essi non
direttamente incisi, decorre, a pena di decadenza, dalla
data di pubblicazione della delibera di approvazione
(cfr. per tutte Cons. Stato, sez. VI, 19.10.2007, n. 5457).
Tale giurisprudenza, però, non varrebbe nel caso di specie,
in ragione dello strettissimo legame che intercorrerebbe tra
il regolamento urbanistico e il piano di attuazione, tale
che la caduta dell’uno travolgerebbe inevitabilmente con sé
l’altro (si tratterebbe di un vizio caducante).
Diversamente, i permessi di costruire sarebbero legati agli
strumenti urbanistici da una relazione meno intensa e, pur
potendo essere affetti da invalidità derivata per
l’illegittimità di questi ultimi, andrebbero comunque
tempestivamente impugnati (come nella vicenda l’appellante
ha fatto).
2. Sebbene esposta brillantemente e con dovizia di
argomentazioni, la tesi non può essere condivisa.
Tale tesi fa capo a una noto schema, fatto proprio dal
giudice amministrativo, che, in presenza di vizi accertati
dell'atto presupposto, distingue fra invalidità ad effetto
caducante ed invalidità ad effetto viziante, ammettendo per
la prima che l'annullamento dell'atto presupposto si estenda
automaticamente a quello consequenziale, anche ove
quest'ultimo non venga impugnato, mentre la seconda
renderebbe l'atto consequenziale annullabile, purché
impugnato nei termini.
Ai fini della concreta individuazione della predetta
tipologia di effetti, è pacifico che si debba valutare
l'intensità del rapporto di consequenzialità, con
riconoscimento dell'effetto caducante ove tale rapporto sia
immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto
successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza
procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello
anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni
di interessi (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 23.02.2011, n. 1114; sez. VI; 27.04.2011, n. 2482).
3. Nel caso di specie, secondo la scansione delineata dalla
legge della Regione Toscana 16.01.1995, n. 5, sotto la
vigenza della quale ha avuto origine la vicenda controversa,
il governo del territorio si attua con una serie di
strumenti che partono dal piano di indirizzo territoriale e,
passando per snodi intermedi, si concludono con il rilascio
dei permessi di costruire. Il sistema che ne deriva si
sviluppa per passaggi successivi, ciascuno dei quali
comporta l’adozione di uno specifico atto, sulla base di una
ponderazione degli interessi implicati, apprezzati anche
alla luce della corrispondenza con l’atto di livello
superiore.
Così stando le cose, è evidente che -quasi per definizione-
ciascuno dei successivi atti implica una ulteriore
valutazione di interessi, seppur circoscritta nei limiti
determinati dall’atto presupposto. E questo vale per
ciascuno dei successivi passaggi della catena.
In altri termini, la relazione che intercorre tra
regolamento urbanistico e piano attuativo non è di natura
diversa da quella che passa tra piano attuativo e permesso
di costruire. In entrambi i casi, gli atti presupponenti
(piano attuativo e permesso di costruire) hanno alle loro
spalle un atto presupposto (regolamento urbanistico e piano
attuativo), che limitano -ma non certo eliminano- il potere
di apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione.
L’effetto che in entrambi i casi si produce tra le coppie di
atti, in caso di invalidità dell’atto presupposto, è dunque
l’invalidità derivata, destinata a essere fatta valere nelle
forme, nei modi e nei termini previsti dall’ordinamento, e
dunque, necessariamente, anche mediante la tempestiva
impugnazione dell’atto presupposto, nel rispetto del termine
di decadenza.
D’altronde, se il Comune, nell’approvare il piano attuativo,
non fosse chiamato a compiere una valutazione di interessi
nuova e diversa (seppure circoscritta, nel senso di cui
prima si è detto), l’approvazione del piano medesimo
degraderebbe al ruolo di atto meramente esecutivo se non
addirittura dovuto: conseguenza questa palesemente incongrua
e contrastante con la realtà effettuale, e comunque
incompatibile con la complessa procedura prescritta per
l’approvazione del piano medesimo.
4. Così intesa la normativa, non vi è ragione per
riconoscere in concreto esistente quella violazione
dell’art. 113 Cost. che l’appellante invece lamenta. Certo,
come l’appello osserva, sarebbe paradossale se il privato
non potesse impugnare immediatamente il piano, in quanto non
lesivo; e nemmeno successivamente, per essere il piano
divenuto inoppugnabile a seguito della scadenza dei termini.
La contraddizione è solo apparente: in realtà il privato,
che si ritenga leso da un piano attuativo, ha solo l’onere
di impugnarlo tempestivamente, dimostrando ovviamente la
legittimazione e l’interesse ad agire.
Qui, a dire il vero, sembra stare –in punto di fatto– il
nocciolo concreto della questione: nell’avere cioè il TAR
escluso legittimazione e interesse a impugnare il
regolamento urbanistico nel diverso giudizio ricordato in
narrativa, mentre la signora Ch. avrebbe omesso di impugnare
il piano confidando nell’accoglimento del ricorso contro il
regolamento urbanistico.
A questo proposito, però, non può nemmeno dirsi che sia
stato l’orientamento del Tribunale a determinare un qualche
affidamento nell’appellante, inducendola a ritenere non
ammissibile una immediata impugnativa contro uno strumento
urbanistico quale il piano attuativo.
Infatti, come appare dai fascicoli, la sentenza di primo
grado, che ha dichiarato inammissibile il ricorso contro il
regolamento urbanistico, è stata depositata il 03.07.2007,
dunque quasi quattro anni dopo la pubblicazione del piano
particolareggiato (affissione all’albo pretorio dal 30.07.
al 14.08.2003; pubblicazione sul B.U.R. del 03.09.2003), a
sua volta impugnato con ricorso notificato il 20.07.2006 e
con motivi aggiunti notificati il 15.06.2007.
Non sussiste dunque, per la signora Ch., alcun affidamento
che possa averne determinato le iniziative processuali e
forse le avrebbe potuto consentire il beneficio dell’errore
scusabile, ai fini della rimessione in termini per
impugnare.
In definitiva, il piano attuativo avrebbe dovuto essere
impugnato tempestivamente, nel termine decorrente dal
deposito presso la casa comunale, eventualmente introducendo
motivi aggiunti nel giudizio promosso contro il regolamento
urbanistico.
Non avendo l’appellante così fatto, correttamente il
Tribunale territoriale ha ritenuto irricevibile per
tardività il ricorso relativo.
5. L’appello sostiene poi che, diversamente da quanto ha
deciso il TAR, la declaratoria di inammissibilità non
potrebbe travolgere quei motivi che riguardano vizi autonomi
dei permessi di costruire impugnati e che, in particolare,
attengono al rischio idrogeologico e all’esistenza di
diritti di terzi sull’area (v. pag. 21 e segg. del ricorso).
Con riguardo alla ritenuta omessa valutazione del rischio
idraulico, la tesi non è convincente. Come appare
chiaramente dal ricorso introduttivo (pag. 18), tale motivo
contesta la legittimità del piano attuativo prima ancora di
quella dei permessi di costruire. Lo stesso parere ostativo
geologico-tecnico del geologo dottor Pellegrini, su cui
l’appello insiste, è testualmente formulato in relazione al
piano attuativo medesimo.
In disparte le controdeduzioni formulate sul punto dal
Comune e dai privati controinteressati, la sentenza va
dunque confermata anche nella parte che afferma
l’inammissibilità di questo motivo, al pari degli altri
proposti avverso i permessi di costruire con il ricorso
introduttivo (salvo quanto si dirà subito appresso), come
conseguenza dell’irricevibilità dell’impugnazione dello
strumento urbanistico.
6. La censura dedotta in primo grado con i motivi aggiunti,
circa la mancata piena disponibilità dell’area, ha invece
carattere autonomo e sopravvive dunque alla pronunzia di
irricevibilità.
Un provvedimento del Tribunale di Pisa avrebbe dichiarato
l’esistenza di diritti di terzi sull’area contestata. Essa
pertanto non sarebbe nella piena disponibilità dei titolari
dei permessi di costruire; ne seguirebbe il mancato rispetto
dei parametri urbanistico-edilizi.
Impregiudicata ogni altra valutazione (nel fascicolo non si
trova copia del provvedimento), basti osservare a questo
riguardo che -per affermazione della stessa appellante-
quella che viene evocata è un’ordinanza d’urgenza, mentre
nulla è dato sapere degli sviluppi del giudizio di merito.
Manca, in definitiva, un accertamento con efficacia di
giudicato, che possa essere addotto a solido fondamento
della pretesa indisponibilità parziale dell’area.
La censura, pertanto, è infondata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.06.2013 n. 3272 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La circostanza che l’appellante non abbia
coltivato il ricorso contro la deliberazione che ha
approvato la variante di P.R.G. non ha effetti
preclusivi nei riguardi del diverso ricorso proposto contro
la delibera comunale di adozione, in quanto
l'eventuale annullamento di quest'ultima esplicherebbe
effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti,
sul successivo provvedimento di approvazione nella parte in
cui lo stesso confermi le previsioni già contenute nel piano
adottato e fatto oggetto di impugnativa.
---------------
... per la riforma della
sentenza n. 1361/2005
del TAR VENETO-VENEZIA: SEZ. II , resa tra le parti,
concernente variante prg - diniego concessione edilizia.
...
2. Nel merito, il ricorso è, però, infondato.
Il signor Re. ha impugnato il diniego del Comune, opposto
sulla base della variante al P.R.G. adottata con la
deliberazione del Consiglio comunale del 10.12.1991, insieme
con quest’ultima.
A questo proposito, il Comune deduce l’improcedibilità
dell’appello a seguito della perenzione del ricorso proposto
dalla controparte contro la delibera della Giunta regionale
n. 4271 del 21.07.1992, recante approvazione della variante
al P.R.G., e della mancata impugnazione della successiva
variante del 2004.
L’eccezione non è fondata.
Da un lato, infatti, la circostanza che l’appellante
non abbia coltivato il ricorso contro la deliberazione che
ha approvato la variante di P.R.G. non ha effetti preclusivi
nei riguardi del diverso ricorso proposto contro la delibera
comunale di adozione, in quanto l'eventuale annullamento di
quest'ultima esplicherebbe effetti automaticamente caducanti,
e non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di
approvazione nella parte in cui lo stesso confermi le
previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto
di impugnativa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.03.2010, n.
1361).
Dall’altro, posto che il bene della vita che il Re.
intende conseguire non è più il rilascio del permesso di
costruire, ma la declaratoria di illegittimità del diniego
in vista del risarcimento del danno, restano irrilevanti le
successive vicende della pianificazione urbanistica comunale
(Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 28.12.2012 n. 6703 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Rapporto di presupposizione necessaria tra gli atti
amministrativi.
I vizi idonei a caducare il Piano esecutivo convenzionato
hanno un effetto caducante nei confronti dei successivi
titoli edilizi o deve ritenersi che non sussista alcun
rapporto di presupposizione necessaria tra il Piano ed i
titoli stessi?
---------------
1. Atto amministrativo - Vizi - Caducanti -
Presupposti necessari - Individuazione
2. Urbanistica - Piani urbanistici - Piano Esecutivo Convenzionato
- Titoli edilizi autorizzatori - Rapporto di presupposizione
necessaria - Insussistenza - Ragioni - Conseguenze
1. In termini generali, i vizi caducanti
presuppongono che tra gli atti interessati vi sia un
rapporto di presupposizione necessaria, sicché all'atto
successivo non residui alcun margine ulteriore di
ponderazione che non si traduca nel mero completamento
dell'iter procedimentale iniziato con il primo atto
impugnato.
La prudenza nell'individuazione dei vizi caducanti si
giustifica in considerazione della peculiarità dei loro
effetti; la caducazione automatica ed a catena di atti non
impugnati, infatti, comporta una propagazione dei vizi che
vulnera il generale principio di stabilità degli atti
consolidati, e il sottostante assetto di interessi, oltre a
poter potenzialmente pregiudicare terzi controinteressati
mai evocati in alcun giudizio.
Conseguentemente, si ravvisa la fattispecie di vizi
caducanti solo ove l'atto successivo si ponga come
conseguenza immediata, diretta e necessaria, ossia ove
l'atto successivo sia inevitabile conseguenza di quello
anteriore.
2. Non sussiste un rapporto di presupposizione necessaria tra
P.E.C. e successivi titoli autorizzatori edilizi: i titoli
edilizi emanati successivamente al P.E.C., infatti, seppure
in questo trovano un fondamento, non ne sono conseguenza
immediata e necessaria; neppure è escluso qualsivoglia
margine di apprezzamento nella successiva fase
procedimentale.
Pertanto, l'annullamento del P.E.C. non può travolgere i
successivi titoli edilizi, anche in considerazione del fatto
che l'effetto caducante non travolgerebbe atti limitativi
della sfera giuridica del destinatario bensì atti ampliativi
della medesima, rispetto ai quali si è nel frattempo
consolidato un ragionevole affidamento e un nuovo assetto di
interessi (massma
tratta da www.mondolegale.it).
---------------
E’ pacifico che parte ricorrente non ha provveduto ad
impugnare i titoli edilizi rilasciati successivamente
all’approvazione del PEC contestato, i quali si sono nelle
more consolidati. E’ ugualmente evidente che l’interesse
della ricorrente non è contestare la mera regolarità formale
delle opere ma eventualmente inibirne la realizzazione.
Sostiene parte ricorrente che i vizi dedotti, idonei a
caducare il PEC, avrebbero un effetto caducante nei
confronti dei successivi titoli edilizi, sì da renderne
superflua l’autonoma impugnativa. La difesa di parte
ricorrente cita al riguardo la decisione del Consiglio di
Stato sez. V n. 3255 del 2008.
La fattispecie ivi trattata appare tuttavia differente
poiché, nel caso di specie, era stata innanzitutto rigettata
un’eccezione di improcedibilità dell’appello per mancata
impugnazione del sopravvenuto permesso di costruire,
rilasciato in esecuzione della sentenza di primo grado. Il
giudice d’appello puntualizzava che, essendosi trattato di
mera attività di esecuzione della statuizione del primo
giudice, il travolgimento di quest’ultima avrebbe comportato
l’automatica caducazione di atti che non potevano definirsi
espressione di acquiescenza costituendo mera ottemperanza.
Nel corpo della decisione si rinviene poi una massima che
puntualizza che il permesso di costruire che trovi
fondamento in un PEC impugnato risulta travolto da
illegittimità derivata in caso di annullamento della
variante di PEC medesima; la massima, riportata solo come
tale, non consente tuttavia di evincere la tesi della
caducazione automatica propugnata da parte ricorrente. La
sussistenza di una possibile invalidità derivata del titolo
edilizio rispetto ai presupposti vizi del PEC non è infatti
di per sé risolutiva circa la natura caducante o viziante
dell’annullamento del primo atto rispetto al secondo;
l’invalidità derivata, come tale potenzialmente sussistente,
ben infatti può essere oggetto di idonea ed apposita
censura, appunto formulata in via derivata.
In termini generali i vizi caducanti presuppongono che tra
gli atti interessati vi sia un rapporto di presupposizione
necessaria, sicché all’atto successivo non residui alcun
margine ulteriore di ponderazione che non si traduca nel
mero completamento dell’iter procedimentale iniziato con il
primo atto impugnato. La prudenza nell’individuazione dei
vizi caducanti si giustifica in considerazione della
peculiarità dei loro effetti; la caducazione automatica ed a
catena di atti non impugnati, infatti, comporta una
propagazione dei vizi che vulnera il generale principio di
stabilità degli atti consolidati, e il sottostante assetto
di interessi, oltre a poter potenzialmente pregiudicare
terzi controinteressati mai evocati in alcun giudizio.
Conseguentemente la giurisprudenza ravvisa fattispecie di
vizi caducanti solo ove l’atto successivo si ponga come
conseguenza immediata, diretta e necessaria, ossia ove
l’atto successivo sia inevitabile conseguenza di quello
anteriore.
Tanto non pare potersi predicare nel rapporto tra P.E.C. e
successivi titoli autorizzatori edilizi, tanto più là dove
il P.E.C. ha lasciato ulteriori margini da definirsi nelle
successive sequenze procedimentali. Solo apparentemente si
attaglia al caso di specie la decisione, citata da parte
ricorrente, del Consiglio di Stato sez. VI n. 114/2011 che
ha ritenuto che il diniego di autorizzazione paesaggistica
unicamente fondato sul contrasto con uno strumento
urbanistico poi annullato restasse automaticamente travolto
dall’annullamento dello strumento urbanistico presupposto.
Effettivamente in tale caso l’unica e necessaria ragione del
travolto diniego risiedeva, appunto, nello strumento
urbanistico. Neppure deve essere trascurato il fatto che la
fattispecie di invalidità derivata caducante, come
ricostruita nell’ultimo caso citato, incideva
automaticamente su un atto restrittivo per il destinatario,
con effetto quindi ampliativo della sua sfera giuridica.
Il caso di specie si presenta simmetrico ma inverso: i
titoli edilizi emanati successivamente al P.E.C., seppure in
questo trovano un fondamento, non ne sono conseguenza
immediata e necessaria; neppure è escluso qualsivoglia
margine di apprezzamento nella successiva fase
procedimentale. Infine l’effetto caducante non travolgerebbe
atti limitativi della sfera giuridica del destinatario bensì
atti ampliativi della medesima, rispetto ai quali si è nel
frattempo consolidato un ragionevole affidamento e un nuovo
assetto di interessi.
Più consono al caso di specie pare quindi ad esempio quello
di cui alla sentenza C. stato sez. IV 14.12.2002 n. 7001. Il
supremo consesso amministrativo ha ivi analizzato il caso in
cui, annullati il piano urbanistico generale e quello
attuativo, in separato giudizio si è accertata altresì
l’invalidità derivata delle successive concessioni edilizie,
che in detti piani avevano trovato fondamento. Nel caso
specifico vi erano quindi state separate e specifiche
impugnative.
In sede di ottemperanza, là dove il ricorrente chiedeva che
venisse disposta la demolizione dei manufatti, si
evidenziava che le uniche sanzioni applicabili per le opere
nelle more realizzate e divenute prive di titolo sarebbero
state quelle pecuniarie di cui all’attuale art. 38 d.p.r.
380/2001, poiché l’annullamento dei titoli non era stato
dovuto ad un contrasto originario con le previsioni di
piano, legge o regolamento ma ad un sopravvenuto vizio
formale per caducazione del piano. Per di più si evidenziava
come i titoli ben potessero sopravvivere all’esito di un
emendamento della pianificazione ab origine
annullata.
Sebbene evidentemente la fattispecie differisca da quella
per cui è causa resta ben evidente la molteplicità di
soluzioni e valutazioni amministrative che intervengono
nelle diverse fasi di un iter procedimentale quale quello
per cui è causa e che non consentono di ravvisarvi atti
avvinti tutti e necessariamente da stretto ed ineludibile
vincolo di presupposizione necessaria.
Né infine può darsi spazio all’interesse risarcitorio,
neppure per altro rappresentato dalla ricorrente; è infatti
evidente come l’eventuale interesse risarcibile connesso
alla mancata realizzazione di un piano similare proposto
dalla ricorrente discenderebbe dal diverso e parallelo
procedimento instaurato dalla ricorrente medesima avverso il
diniego di approvazione di quel diverso PEC di suo
interesse; non è infatti dall’approvazione dell’altrui PEC
che la ricorrente vede derivare un danno immediato e diretto
bensì eventualmente dall’illegittima mancata approvazione
del proprio, che non viene qui in questione essendo stata
oggetto di separato giudizio.
Il ricorso deve quindi essere dichiarato improcedibile (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 21.10.2011 n. 1116 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L'omessa impugnazione del provvedimento di
approvazione di un piano regolatore generale non
determina alcuna preclusione all'ammissibilità del ricorso
proposto contro l’adozione dello stesso strumento
urbanistico, in quanto l'annullamento di quest'ultima
esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente
vizianti, sugli atti presupposti del procedimento di
formazione della strumento urbanistico.
---------------
1. Preliminarmente va disattesa l’eccezione sollevata dalla
difesa del Comune resistente in ordine all’improcedibilità
del ricorso per mancata impugnativa degli atti sopravvenuti
relativi all’approvazione dello strumento urbanistico.
Infatti l'omessa impugnazione del provvedimento di
approvazione di un piano regolatore generale non determina
alcuna preclusione all'ammissibilità del ricorso proposto
contro l’adozione dello stesso strumento urbanistico, in
quanto l'annullamento di quest'ultima esplica effetti
automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sugli
atti presupposti del procedimento di formazione della
strumento urbanistico (cfr. Cons. St., sez. IV, 23/07/2009,
n. 4662).
Vero è piuttosto, semmai, che nella specie la società
cooperativa ricorrente ha mancato di impugnare
tempestivamente l’atto di adozione della variante
urbanistica, risalente alla delibera n. 12 del 25/03/2002,
debitamente pubblicata e pacificamente conosciuta
dall’interessata che ha pure presentato osservazioni, ma ha
diretto le proprie contestazioni contro la delibera n. 25
del 27/11/2002, avente ad oggetto l’esame delle
osservazioni.
Tale atto non è autonomamente impugnabile, trattandosi di
atto endoprocedimentale (cfr. Cons. St., sez. IV,
21/08/2009, n. 5002).
Sennonché la rilevazione di ufficio di tale questione,
comportante l’esigenza di preventiva contestazione ai sensi
dell’art. 73, co. 3, del nuovo CPA, sarebbe in contrasto con
i principi di economia processuale, posto che il ricorso si
palesa comunque infondato (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 20.06.2011 n. 3250
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La variante alla licenza edilizia ha carattere di
accessione e di non autonomia, con la conseguenza che
l'illegittimità della licenza originaria opera nei confronti
della variante come invalidità caducante, e non meramente
viziante; pertanto, l'annullamento della prima determina
l'automatica rimozione della seconda (Consiglio
di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.1981 n. 219). |
In materia
di espropriazione: |
ESPROPRIAZIONE:
Nell’impianto normativo dell’espropriazione per
pubblica utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001,
la dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata
dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata
dalla legge n. 2359/1865, sostanzialmente rappresenta il
necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per
cui il riconoscimento dell’assenza di una valida
dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in
sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta
travolto, come tutti gli altri atti della procedura
espropriativa, senza necessità della loro impugnativa.
Si invera, cioè, un effetto automaticamente caducante,
derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che
si possa configurare a carico della parte interessata un
onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
---------------
6.- Ad ogni buon fine, anche a volere –in tesi– aderire alla
difesa attorea radicata all’insussistenza di un
controinteressato in materia espropriativa, il ricorso deve
ritenersi, comunque, inammissibile anche per mancata
impugnazione della dichiarazione di pubblica utilità nel
termine di decadenza.
6.1.- Gioverà ricordare che parte ricorrente, con la memoria
finale, al fine di neutralizzare l’eccezione di
inammissibilità del ricorso per tardiva impugnazione della
d.p.u., ha rimarcato che “non ha denunciato
l’illegittimità della dichiarazione di pubblica utilità si
da imporre l’impugnazione del provvedimento nei termini
prescritti dall’art. 29 del CPA… (bensì) ha evidenziato
l’inefficacia ex lege della dichiarazione di p.u. per
l’insussistenza a monte di un efficace vincolo espropriativo
e, comunque, la sua sopravvenuta inidoneità a costituire
presupposto legittimante l’adozione del decreto di esproprio
per decorso del termine quinquennale prescritto dall’art.
13, comma 4, del Testo Unico”.
E ciò in quanto sarebbe scaduta sia la dichiarazione di
pubblica utilità, contenuta nella deliberazione consiliare
n. 103 del 17.12.1996 di approvazione del Piano di
lottizzazione della Maglia C1-n. 16, per decorso del
decennio ex art. 28 l. n. 1150/1942; sia la d.p.u. di cui
alla successiva deliberazione giuntale n. 124 del
14.07.2005, essendo decorso, ai sensi del combinato disposto
dei commi 4 e 6 dell’art. 13 dpr n. 327/01, il quinquennio
entro il quale deve essere adottato il decreto di esproprio;
non risultando utile a tal fine la determinazione
dirigenziale n. 585 del 29.04.2014 di approvazione del
progetto esecutivo, non potendo la d.p.u. essere ricollegata
a siffatto livello di approfondimento, risultando detta
determina anche priva degli elementi essenziali a valere
quale d.p.u. (estremi dell’atto impositivo del vincolo
preordinato all’esproprio ex art. 17 dpr 327/2001;
indicazione dei termini iniziali e finali per l’avvio ed il
compimento dei lavori e delle occupazioni).
L’abile difesa attorea, per quanto pregevolmente costruita,
non risulta condivisibile.
6.2.- Nell’impianto normativo dell’espropriazione per
pubblica utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001,
la dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata
dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata
dalla legge n. 2359 del 1865, sostanzialmente rappresenta il
necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per
cui il riconoscimento dell’assenza di una valida
dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in
sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta
travolto, come tutti gli altri atti della procedura
espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (ex
multis Cons. St. Sez. IV 03.10.2012 n. 5189).
Si invera, cioè, un effetto automaticamente caducante,
derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che
si possa configurare a carico della parte interessata un
onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons.
Stato Sez. IV 29.01.2008 n. 258; idem 30.12.2003 n. 9155 e
30.06.2003 n. 3896) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 01.02.2019 n. 155 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
A differenza dell’annullamento di atti presupposti o
prodromici, di cui può predicarsi l’eventuale effetto caducante o
invalidante degli atti successivi,
l’annullamento di un atto a valle non inficia la validità
degli atti precedenti che conservano la loro validità ed
efficacia in applicazione del principio generale di
conservazione previsto dall’art. 159, comma 1, c.p.c..
---------------
L.2. Anche il secondo motivo di ricorso deve essere
rigettato.
E invero, il decreto di espropriazione, costituendo l’atto
conclusivo del procedimento espropriativo, può essere
riemesso, in vigenza dell’originaria dichiarazione di
pubblica utilità, non necessitando la rinnovazione
dell’intero iter.
A differenza dell’annullamento di atti presupposti o
prodromici (cui rimanda la giurisprudenza citata in seno al
ricorso introduttivo), di cui può predicarsi l’eventuale
effetto caducante o invalidante degli atti successivi,
l’annullamento di un atto a valle non inficia la validità
degli atti precedenti che conservano la loro validità ed
efficacia in applicazione del principio generale di
conservazione previsto dall’art. 159, comma 1, c.p.c.
Inoltre, deve evidenziarsi come il provvedimento n. 611 del
19.08.2010 ha solo parzialmente annullato il precedente
decreto di esproprio in relazione all’esatta individuazione
delle aree oggetto del procedimento di espropriazione per
pubblica utilità confermandone la persistente validità per
la restante parte anche in relazione alla determinazione
dell’indennità provvisoria
Ne consegue che il provvedimento impugnato con il presente
ricorso, nel richiamare gli effetti prodotti dall’originario (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 27.03.2019 n. 904 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l’abbrivio alla procedura ablatoria produce un effetto “domino”, con l’invalidazione
dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi
compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale
di esproprio che viene anch’esso travolto. Si invera, in tali casi, un
effetto automaticamente caducante e non meramente viziante,
derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che
si possa configurare a carico della parte interessata un
onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
Sulla base di tale esegesi, non può essere sic et
simpliciter condivisa la prospettazione dell’appellante secondo cui
il decreto di esproprio, seppure atto consequenziale alla
dichiarazione di pubblica utilità, sarebbe sempre dotato di
una sua precisa autonomia e lesività, in quanto segna la
conclusione del procedimento ed è in grado di realizzare il
definitivo trasferimento del titolo di proprietà.
Va da sé, peraltro, che l’adozione di un decreto di
esproprio in pendenza di un giudizio di impugnazione dei
suoi atti presupposti, in quel momento efficaci, potrebbe
condurre, anche dopo un considerevole intervallo di tempo,
al travolgimento del decreto stesso a seguito
dell’annullamento degli atti a “monte”, per cui tale
efficacia caducante, e non meramente viziante, può inverarsi
solo in ragione di un rigoroso ed esaustivo accertamento del
nesso di presupposizione necessaria che deve sussistere tra
gli atti annullati e quelli “travolti” a prescindere da una
loro impugnazione, atteso che, viceversa, si avrebbe
un’ingiustificata violazione dell’onere di tempestiva
impugnazione dei provvedimenti amministrativi nei termini decadenziali, posto a presidio della acquisizione di una
sollecita certezza in ordine alle situazioni giuridiche
afferenti l’esercizio del potere pubblico.
La presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura
dell’invalidità derivata con effetto caducante sull’atto a
“valle” si ravvisa nelle ipotesi in cui gli atti annullati
in sede giurisdizionale costituiscono il presupposto unico
ed imprescindibile dei successivi atti che, in quanto tali,
sono meramente consequenziali.
---------------
3.3.5. La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo
di porre in rilievo che la rimozione delle determinazioni
che ab origine hanno dato l’abbrivio alla procedura ablatoria produce un effetto “domino”, con l’invalidazione
dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi
compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale
di esproprio che viene anch’esso travolto (cfr., ex multis,
Cons. Stato, IV, 4193 del 2015 e Cons. Stato, IV, 5189 del
2012). Si invera, in tali casi, un effetto automaticamente caducante e non
meramente viziante, derivante dalla
invalidità degli atti presupposti, senza che si possa
configurare a carico della parte interessata un onere di
impugnazione del decreto finale di esproprio (cfr., altresì,
Cons. Stato, IV, 29.01.2008 n. 258; idem 30.12.2003, n. 9155 e 30.06.2003, n. 3896).
Sulla base di tale esegesi, non può essere sic et
simpliciter condivisa la prospettazione dell’appellante -pur basata sul fondamentale principio della esigenza di
certezza delle situazioni e dei rapporti giuridici, cui è
ispirata la previsione del termine decadenziale di
impugnativa dei provvedimenti amministrativi- secondo cui
il decreto di esproprio, seppure atto consequenziale alla
dichiarazione di pubblica utilità, sarebbe sempre dotato di
una sua precisa autonomia e lesività, in quanto segna la
conclusione del procedimento ed è in grado di realizzare il
definitivo trasferimento del titolo di proprietà.
Va da sé, peraltro, che l’adozione di un decreto di
esproprio in pendenza di un giudizio di impugnazione dei
suoi atti presupposti, in quel momento efficaci, potrebbe
condurre, anche dopo un considerevole intervallo di tempo,
al travolgimento del decreto stesso a seguito
dell’annullamento degli atti a “monte”, per cui tale
efficacia caducante, e non meramente viziante, può inverarsi
solo in ragione di un rigoroso ed esaustivo accertamento del
nesso di presupposizione necessaria che deve sussistere tra
gli atti annullati e quelli “travolti” a prescindere da una
loro impugnazione, atteso che, viceversa, si avrebbe
un’ingiustificata violazione dell’onere di tempestiva
impugnazione dei provvedimenti amministrativi nei termini decadenziali, posto a presidio della acquisizione di una
sollecita certezza in ordine alle situazioni giuridiche
afferenti l’esercizio del potere pubblico.
La presupposizione necessaria cui va ricondotta la figura
dell’invalidità derivata con effetto caducante sull’atto a
“valle” si ravvisa nelle ipotesi in cui gli atti annullati
in sede giurisdizionale costituiscono il presupposto unico
ed imprescindibile dei successivi atti che, in quanto tali,
sono meramente consequenziali (cfr., in argomento, ex multis,
Cons. Stato, VI, 20.03.2018, n. 1777; Cons. Stato, II,
parere del 27.08.2014, n. 2957) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.01.2019 n. 510 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Come noto, la dichiarazione di pubblica utilità è
correlata all’approvazione del progetto definitivo
dell’opera pubblica (cfr. al riguardo il consolidato
orientamento giurisprudenziale, formatosi sulla scorta della
decisioni dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con
le decisioni 15.09.1999, n. 14, 24.01.2000, n.
2, del 20.12.2002 n. 8, secondo il quale al privato
proprietario di un'area destinata all'espropriazione,
siccome interessata dalla realizzazione di un'opera
pubblica, dev'essere garantita, mediante la formale
comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la
possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente
sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del
vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo).
Ciò posto, il Collegio esprime l’avviso che, sebbene
la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il
riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità o il suo annullamento in sede
giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta
travolto, come del resto tutti gli altri atti della
procedura espropriativa, senza necessità della loro
impugnativa.
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato
l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare
l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine
titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei
successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso
quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di
esproprio che viene anch'esso travolto.
Pertanto non rileva la circostanza che parte ricorrente non
abbia eventualmente impugnato tempestivamente il decreto di
esproprio, in quanto il venire meno della dichiarazione di
pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della
sentenza di questa Sezione, confermata dal Consiglio di
Stato– determina un effetto automaticamente caducante,
derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che
si possa configurare a carico della parte interessata un
onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
Tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di
esproprio infatti corre un rapporto di necessaria
presupposizione, tale per cui l'annullamento del primo non
ha sul secondo effetti meramente vizianti, bensì caducanti.
Vero è, infatti, che il decreto di esproprio può essere
adottato solo in presenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità. Conseguentemente, l'annullamento
giurisdizionale della dichiarazione di p.u. comporta
l'automatica caducazione degli effetti del decreto di
esproprio nel frattempo emesso, anche laddove non
tempestivamente e ritualmente impugnato.
Si è infatti osservato che l'atto dichiarativo della
pubblica utilità, implicito nella delibera di approvazione
del progetto di opera pubblica, determina l'affievolimento a
interesse legittimo del diritto soggettivo del proprietario
espropriando e la costituzione, in capo all'Amministrazione,
del potere espropriativo, con conseguente onere per il
primo, in ragione del carattere immediatamente lesivo
dell'atto in questione, di tempestiva impugnazione dello
stesso anche ai fini dell'eventuale annullamento, in virtù
dell'effetto caducante determinato dalla sua eliminazione
dal mondo della realtà giuridica, del decreto di
espropriazione successivamente adottato, che deve risultare
sorretto da valida ed efficace dichiarazione di pubblica
utilità.
---------------
14.1. Pertanto occorre rilevare che la citata sentenza di annullamento
non ha riguardato soltanto, contrariamente a quanto
osservato dalla difesa del Comune, gli atti relativi
all’occupazione d’urgenza, ma gli stessi atti fondanti della
procedura espropriativa di cui è causa ed in primis il
decreto del commissario delegato dalla P.C.M., Prefetto di
Napoli, n. P/15544/DIS del 30/09/1995 di approvazione del
progetto esecutivo per la realizzazione di una discarica
alla località “Masseria del Pozzo” del Comune di Giugliano.
Risulta pertanto evidente come la pronuncia di annullamento
abbia riguardato anche la dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera di cui è causa.
Infatti, come noto, la dichiarazione di pubblica utilità è
correlata all’approvazione del progetto definitivo
dell’opera pubblica (cfr. al riguardo il consolidato
orientamento giurisprudenziale, formatosi sulla scorta della
decisioni dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con
le decisioni 15.09.1999, n. 14, 24.01.2000, n.
2, del 20.12.2002 n. 8, secondo il quale al privato
proprietario di un'area destinata all'espropriazione,
siccome interessata dalla realizzazione di un'opera
pubblica, dev'essere garantita, mediante la formale
comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la
possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente
sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del
vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del
progetto definitivo; per tutte Consiglio di Stato, IV, 11.11.2014, n. 5525).
14.2. Ciò posto, il Collegio esprime l’avviso che, sebbene
la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il
riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità o il suo annullamento in sede
giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta
travolto, come del resto tutti gli altri atti della
procedura espropriativa, senza necessità della loro
impugnativa (Cons. St., sez. IV, n. 4193 del 2015; Cons.
Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato, Sez. IV,
29/01/2008, n. 258; TAR Sardegna, sez. II, 18/04/2005, n.
776; TAR Napoli, sez. IV n. 385/2014).
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato
l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare
l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine
titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei
successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso
quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di
esproprio che viene anch'esso travolto.
Pertanto non rileva la circostanza che parte ricorrente non
abbia eventualmente impugnato tempestivamente il decreto di
esproprio, in quanto il venire meno della dichiarazione di
pubblica utilità –nell’ipotesi di specie a seguito della
sentenza di questa Sezione, confermata dal Consiglio di
Stato– determina un effetto automaticamente caducante,
derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che
si possa configurare a carico della parte interessata un
onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons.
Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato Sez. IV,
29/01/2008 n. 258; Cons. Stato, Sez. IV, 30/12/2003 n. 9155;
Cons. Stato Sez. IV, 30/06/2003 n. 3896).
Tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di
esproprio infatti corre un rapporto di necessaria
presupposizione, tale per cui l'annullamento del primo non
ha sul secondo effetti meramente vizianti, bensì caducanti.
Vero è, infatti, che il decreto di esproprio può essere
adottato solo in presenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità. Conseguentemente, l'annullamento
giurisdizionale della dichiarazione di p.u. comporta
l'automatica caducazione degli effetti del decreto di
esproprio nel frattempo emesso, anche laddove non
tempestivamente e ritualmente impugnato (TAR Bolzano,
(Trentino-Alto Adige), sez. I, 12/09/2016, n. 394; Cons.
St., sez. IV, n. 4193 del 2015; id., n. 5189 del 2012).
Si è infatti osservato che l'atto dichiarativo della
pubblica utilità, implicito nella delibera di approvazione
del progetto di opera pubblica, determina l'affievolimento a
interesse legittimo del diritto soggettivo del proprietario
espropriando e la costituzione, in capo all'Amministrazione,
del potere espropriativo, con conseguente onere per il
primo, in ragione del carattere immediatamente lesivo
dell'atto in questione, di tempestiva impugnazione dello
stesso anche ai fini dell'eventuale annullamento, in virtù
dell'effetto caducante determinato dalla sua eliminazione
dal mondo della realtà giuridica, del decreto di
espropriazione successivamente adottato, che deve risultare
sorretto da valida ed efficace dichiarazione di pubblica
utilità (Consiglio di Stato, sez. IV, 16/03/2010, n. 1540).
14.2.1. Pertanto il ricorso, nella sua parte impugnatoria è
fondato, a prescindere dalla tempestività della notifica del
ricorso e dalla delibazione delle censure articolate in
ricorso, in quanto, come osservato del resto da parte
ricorrente nelle memorie successivamente depositate nel
corso del giudizio, l’intera procedura ablatoria, culminata
poi nel decreto di esproprio oggetto di impugnativa nella
presente sede, deve intendersi travolta, a seguito del
giudicato formatosi sulla sentenza di questa Sezione n.
243/1997.
La domanda impugnatoria, in quanto volta ad evidenziare il
vizio genetico, con effetto caducante, dell’intera
procedura, va pertanto accolta e per l’effetto va annullato
il Decreto prot. n. P/38455/DIS del 16/11/1998, con il quale
il Prefetto di Napoli, Commissario delegato ex OPCM
07/10/1994 ha pronunciato l’espropriazione definitiva a
favore del Comune di Giugliano in Campania dei beni immobili
di proprietà della società EC. srl siti nel Comune di
Giugliano in Campania in località Masseria del Pozzo,
determinando le relative indennità (TAR Campania-Napoli,
Sez. V,
sentenza 21.11.2017 n. 5479 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Le pronunce di incostituzionalità delle leggi -come noto- hanno effetto erga omnes, a nulla valendo la
circostanza che parte ricorrente non sia stata parte del
giudizio a quo, né rileva che la stessa non sia stata parte
dei giudizi impugnatori avverso la procedura espropriativa,
in quanto con la declaratoria di incostituzionalità della
citata L.R. è venuta meno la dichiarazione di pubblica
utilità che costituisce il fondamento di tutta l’unitaria
procedura espropriativa, con effetto pertanto caducante
della medesima.
---------------
Sebbene la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il
riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità o il suo annullamento in sede
giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta
travolto, come del resto tutti gli altri atti della
procedura espropriativa, senza necessità della loro
impugnativa.
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato
l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare
l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine
titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei
successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso
quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di
esproprio che viene anch'esso travolto, come ritenuto
nell’ipotesi di specie, in relazione alla procedura de qua,
dalla sentenza di questa Sezione, n. 8904/2008, con la quale
si è annullato il decreto di esproprio a seguito della
cennata pronuncia della Corte Costituzionale.
Peraltro non rileva la circostanza che parte ricorrente non
sia stata parte dei giudizi impugnatori in quanto il venire
meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi
di specie a seguito della pronuncia della Consulta–
determina un effetto automaticamente caducante, derivante
dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa
configurare a carico della parte interessata un onere di
impugnazione del decreto finale di esproprio.
---------------
11.1. Entrambi gli assunti non colgono nel segno.
Ed invero, le pronunce di incostituzionalità delle leggi
-come noto- hanno effetto erga omnes, a nulla valendo la
circostanza che parte ricorrente non sia stata parte del
giudizio a quo, né rileva che la stessa non sia stata parte
dei giudizi impugnatori avverso la procedura espropriativa,
in quanto con la declaratoria di incostituzionalità della
citata L.R. è venuta meno la dichiarazione di pubblica
utilità che costituisce il fondamento di tutta l’unitaria
procedura espropriativa, con effetto pertanto caducante
della medesima.
Al riguardo Collegio esprime infatti l’avviso che, sebbene
la giurisprudenza sul punto non sia unanime, il
riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di
pubblica utilità o il suo annullamento in sede
giurisdizionale abbia un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta
travolto, come del resto tutti gli altri atti della
procedura espropriativa, senza necessità della loro
impugnativa (Cons. Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons.
Stato, Sez. IV, 29/01/2008, n. 258; TAR Sardegna, sez. II,
18/04/2005, n. 776; TAR Napoli, sez. IV n. 385/2014).
La rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato
l'abbrivio alla procedura ablatoria oltre a comportare
l’illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine
titulo produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei
successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso
quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di
esproprio che viene anch'esso travolto, come ritenuto
nell’ipotesi di specie, in relazione alla procedura de qua,
dalla sentenza di questa Sezione, n. 8904/2008, con la quale
si è annullato il decreto di esproprio a seguito della cennata pronuncia della Corte Costituzionale.
Peraltro non rileva la circostanza che parte ricorrente non
sia stata parte dei giudizi impugnatori in quanto il venire
meno della dichiarazione di pubblica utilità –nell’ipotesi
di specie a seguito della pronuncia della Consulta–
determina un effetto automaticamente caducante, derivante
dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa
configurare a carico della parte interessata un onere di
impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons. Stato,
sez. IV, 03/10/2012, n. 5189; Cons. Stato Sez. IV, 29/01/2008
n. 258; Cons. Stato, Sez. IV, 30/12/2003 n. 9155; Cons. Stato
Sez. IV, 30/6/2003 n. 3896) (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 02.11.2017 n. 5109 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
In materia
di pubblico impiego: |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nei procedimenti di tipo concorsuale,
l'impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo …
deve successivamente estendersi agli ulteriori atti
pregiudizievoli quale l'approvazione definitiva della
graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi
altrimenti l'inutilità dell'eventuale decisione di
accoglimento del ricorso proposto contro l'esclusione.
Fermo restando quindi l'onere di impugnazione immediata
dell’atto endoprocedimentale di carattere direttamente ed
autonomamente lesivo, rimane l'onere di estendere il gravame
anche al provvedimento conclusivo del procedimento
concorsuale, ovverosia l'atto di approvazione della
graduatoria finale da parte del concorrente escluso, in
quanto, diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all'eventuale
annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che
risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno
decisamente minoritario … e che non appare condivisibile,
non ravvisandosi un rapporto di
presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e
necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e
l’approvazione della graduatoria finale.
---------------
Il ricorso è improcedibile per l’omessa impugnazione dei
provvedimenti di approvazione delle graduatorie del concorso
impugnato.
Secondo un costante e pacifico orientamento
giurisprudenziale “nei procedimenti di tipo concorsuale,
l'impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo …
deve successivamente estendersi agli ulteriori atti
pregiudizievoli quale l'approvazione definitiva della
graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi
altrimenti l'inutilità dell'eventuale decisione di
accoglimento del ricorso proposto contro l'esclusione
(Consiglio Stato nn. 1347/2012, 4320/2003 e 4241/2008);
fermo restando quindi l'onere di impugnazione immediata
dell’atto endoprocedimentale di carattere direttamente ed
autonomamente lesivo, rimane l'onere di estendere il gravame
anche al provvedimento conclusivo del procedimento
concorsuale, ovverosia l'atto di approvazione della
graduatoria finale da parte del concorrente escluso, in
quanto, diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all'eventuale
annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che
risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno
decisamente minoritario … e che non appare condivisibile,
non ravvisandosi un rapporto di
presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e
necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e
l’approvazione della graduatoria finale” (Cons. St., sez.
VI, 11.06.2018, n. 3530).
Nel caso in esame, i ricorrenti non hanno provveduto a
impugnare le graduatorie di merito formatesi a seguito della
conclusione del concorso, con la conseguenza che il ricorso
è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR
Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 06.03.2019 n. 2955 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'art. 12, primo comma, del d.P.R. n. 487 del 1994
stabilisce che <<Le commissioni esaminatrici, alla prima
riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di
valutazione delle prove scritte>>.
La giurisprudenza ritiene, al riguardo, che non vi sia vizio
invalidante qualora tali criteri, pur se non nella prima
seduta della commissione, vengano comunque definiti prima
che si proceda alla correzione delle prove scritte. Ciò che
conta infatti è che venga garantita la trasparenza
nell’espletamento della prova concorsuale, risultato questo
che si ottiene qualora la determinazione e la verbalizzazione
dei criteri avvenga in un momento nel quale non possa
sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire
o sfavorire alcuni concorrenti.
Né può ritenersi che la fissazione e la pubblicizzazione dei
criteri di valutazione sarebbero necessarie per consentire
ai candidati di poter meglio calibrare le proprie risposte.
L’unica funzione svolta dalla prescrizione contenuta nel
richiamato articolo 12 è, come detto, quella di garantire la
trasparenza ed imparzialità nella fase di correzione e di
verificare ex post la correttezza e congruità delle
operazioni valutative; è dunque estranea alla sua ratio la
funzione di orientamento ex ante dei candidati nello
svolgimento delle prove concorsuali.
---------------
Per pacifico orientamento giurisprudenziale, in materia di
pubblici concorsi, le commissioni esaminatrici, chiamate
prima a fissare i parametri di valutazione e poi a giudicare
le prove svolte dai candidati, non effettuano una
ponderazione di interessi, ma esercitano un'amplissima
discrezionalità tecnica, sulla quale il sindacato di
legittimità del giudice amministrativo è limitato al
riscontro del vizio di eccesso di potere in particolari
ipotesi limite, riscontrabili dall'esterno e con
immediatezza dalla sola lettura degli atti (errore sui
presupposti, travisamento dei fatti, manifesta illogicità o
irragionevolezza).
Anche la scelta concernente l'individuazione dei criteri di
massima per la valutazione delle prove è quindi sindacabile
dal giudice amministrativo solo qualora appaia evidente che
l'esercizio del potere discrezionale sia trasmodato in uno o
più dei vizi sintomatici dell'eccesso di potere.
---------------
Come noto, l’invalidità ad effetto caducante –che comporta l’automatico travolgimento dell'atto
consequenziale– si verifica solamente quando l'atto
successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni
di interessi (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 05.11.2014, n. 5463 che esclude che l’annullamento del
bando di concorso abbia effetto caducante sugli atti
successivi; si veda anche più in generale Consiglio di
Stato, sez. VI, 27.04.2011, n. 2482).
---------------
Con altra censura viene dedotta la violazione degli artt. 3 e
97 Cost. nonché dell’art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1995, in
quanto la griglia di valutazione delle prove scritte sarebbe
stata approvata dopo l’effettuazione delle stesse.
In proposito si osserva quanto segue.
L'art. 12, primo comma, del d.P.R. n. 487 del 1994
stabilisce che <<Le commissioni esaminatrici, alla prima
riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di
valutazione delle prove scritte>>.
La giurisprudenza ritiene tuttavia che non vi sia vizio
invalidante qualora tali criteri, pur se non nella prima
seduta della commissione, vengano comunque definiti prima
che si proceda alla correzione delle prove scritte. Ciò che
conta infatti è che venga garantita la trasparenza
nell’espletamento della prova concorsuale, risultato questo
che si ottiene qualora la determinazione e la verbalizzazione dei criteri avvenga in un momento nel quale
non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti
a favorire o sfavorire alcuni concorrenti (cfr. Consiglio di
Stato, VI, 19.03.2015, n. 1411; id. 26.01.2015, n.
325; id. VI, 03.03.2014, n. 990).
Né può ritenersi che la fissazione e la pubblicizzazione dei
criteri di valutazione sarebbero necessarie per consentire
ai candidati di poter meglio calibrare le proprie risposte.
L’unica funzione svolta dalla prescrizione contenuta nel
richiamato articolo 12 è, come detto, quella di garantire la
trasparenza ed imparzialità nella fase di correzione e di
verificare ex post la correttezza e congruità delle
operazioni valutative; è dunque estranea alla sua ratio la
funzione di orientamento ex ante dei candidati nello
svolgimento delle prove concorsuali (cfr. Consiglio di
Stato, VI, 19.03.2015, n. 1411).
Ciò premesso, risulta dagli atti depositati in giudizio che,
nella vicenda in esame, i criteri di valutazione delle prove
scritte sono stati definiti prima dell'inizio della
correzione. Ne consegue che la censura in esame non può
essere accolta.
Infine, con l’ultimo motivo del ricorso introduttivo, i
ricorrenti lamentano il peso eccessivo attribuito dalla
Commissione all’indicatore “originalità”, rilevando che tale
indicatore sarebbe del tutto inadeguato per valutare prove
di carattere matematico-scientifico quali quelle da essi
espletate.
A questo proposito il Collegio osserva che, per pacifico
orientamento giurisprudenziale, in materia di pubblici
concorsi, le commissioni esaminatrici, chiamate prima a
fissare i parametri di valutazione e poi a giudicare le
prove svolte dai candidati, non effettuano una ponderazione
di interessi, ma esercitano un'amplissima discrezionalità
tecnica, sulla quale il sindacato di legittimità del giudice
amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso
di potere in particolari ipotesi limite, riscontrabili
dall'esterno e con immediatezza dalla sola lettura degli
atti (errore sui presupposti, travisamento dei fatti,
manifesta illogicità o irragionevolezza). Anche la scelta
concernente l'individuazione dei criteri di massima per la
valutazione delle prove è quindi sindacabile dal giudice
amministrativo solo qualora appaia evidente che l'esercizio
del potere discrezionale sia trasmodato in uno o più dei
vizi sintomatici dell'eccesso di potere (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 28.02.2018, n. 1218; id. sez. IV, 30.08.2017, n. 4107).
Ciò premesso, è opinione del Collegio che gli interessati
non abbiano sufficientemente illustrato le ragioni per le
quali l’indicatore originalità sarebbe del tutto inadeguato
per procedere alla valutazione delle prove da loro in
concreto espletate, essendosi gli stessi limitati a
formulare una affermazione generale ed indimostrata secondo
cui l’originalità sarebbe sempre estranea alle materie
matematiche e scientifiche. Non sono stati pertanto
evidenziati quegli elementi di irragionevolezza nella scelta
in concreto operata dall’Amministrazione che soli avrebbero
potuto giustificare il sindacato di questo giudice.
Per questi motivi, anche la censura in esame è infondata.
Si può ora passare all’esame dei motivi aggiunti con i quali
è stata impugnata la graduatoria finale di merito del
concorso di cui è causa.
I ricorrenti deducono in questa sede il vizio di invalidità
derivata riproponendo le stesse censure già dedotte nel
ricorso introduttivo.
Come visto, però, le censure contenute nel ricorso
introduttivo sono tutte infondate; non può pertanto
sussistere il vizio di invalidità derivata.
Con altra censura contenuta nei motivi aggiunti, i
ricorrenti rilevano che il TAR del Lazio, con sentenze n.
1376 del 2017 e n. 1121 del 2017, ha annullato l’art. 8,
comma 4, del d.m. n. 95 del 2016, norma applicata nel caso
in esame che disciplinava le modalità di calcolo del
punteggio complessivo da attribuirsi a prova scritta e prova
pratica. Secondo gli stessi ricorrenti queste pronunce
produrrebbero effetto favorevole anche nei loro confronti in
quanto trattasi di sentenze aventi efficacia erga omnes.
A questo proposito il Collegio deve innanzitutto rilevare
che, essendo il primo atto lesivo della posizione dei
ricorrenti quello che ha disposto la loro mancata ammissione
alla prova orale, l’illegittimità dell’art. 8, comma 4, del
d.m. n. 95 del 2016 (o comunque l’illegittimità del criterio
di calcolo del punteggio complessivo di prova scritta e
prova pratica) avrebbe potuto e dovuto essere dedotta
nell’atto introduttivo del presente giudizio con il quale è
stato appunto impugnato il provvedimento che ha disposto la
mancata ammissione alla prova orale.
Ciò posto, si deve escludere che l’efficacia erga omnes
delle pronunce rese dal TAR del Lazio possa
automaticamente ricadere a favore dei ricorrenti.
Va difatti osservato che l’annullamento della norma
regolamentare contenuta nell’art. 8, comma 4, del d.m. n. 95
del 2016, seppur recepita dal bando di concorso, non ha
comportato l’automatico travolgimento dei provvedimenti di
mancata ammissione dei concorrenti alla prova orale, e ciò
in quanto, come noto, l’invalidità ad effetto caducante –che comporta l’automatico travolgimento dell'atto
consequenziale– si verifica solamente quando l'atto
successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni
di interessi (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 05.11.2014, n. 5463 che esclude che l’annullamento del
bando di concorso abbia effetto caducante sugli atti
successivi; si veda anche più in generale Consiglio di
Stato, sez. VI, 27.04.2011, n. 2482) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 04.02.2019 n. 251 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La costante giurisprudenza insegna che, in
presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve
distinguersi tra invalidità a effetto caducante e
invalidità a effetto viziante, nel senso che nel
primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si
estende automaticamente all'atto consequenziale, anche
quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo
caso l'atto conseguenziale è affetto solo da
illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
L'effetto caducante ricorre nella sola evenienza in cui
l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima
sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza
dell'atto anteriore, senza ulteriori valutazioni, il che
comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del
rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo
qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessari.
---------------
5. – Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
5.1. – La costante giurisprudenza (da ultimo cfr. Cons
Stato, Sez. V, 10.04.2018, n. 2168; Cons. Stato, Sez. V,
13.11.2015, n. 5188) insegna che, in presenza di vizi
accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi tra
invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso
l'annullamento dell'atto presupposto si estende
automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo
non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso
l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità
derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel
termine di rito.
L'effetto caducante ricorre nella sola evenienza in cui
l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima
sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza
dell'atto anteriore, senza ulteriori valutazioni, il che
comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del
rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto
successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo
qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 20.08.2018 n. 1555 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile
per non avere, il ricorrente, impugnato l’originario
provvedimento di esclusione né, tanto meno, la graduatoria
finale del concorso (sul principio per cui il ricorrente che
ha impugnato l'esclusione ha l'onere di impugnare anche la
successiva graduatoria di merito non potendosi ritenere che
un eventuale annullamento del provvedimento di esclusione
possa avere un effetto caducante della graduatoria stessa).
---------------
Rilevato che il ricorrente ha impugnato il provvedimento
indicato in epigrafe, con il quale l’amministrazione si è
limitata a comunicare, all’esito della domanda di accesso da
lui presentata, il punteggio attribuito dalla commissione
agli elaborati delle prove concorsuali relative
all’Undicesimo concorso per l’avanzamento al grado di 1°
Maresciallo;
Rilevato che, all’opposto, non risulta essere stato
impugnato:
- il provvedimento con cui il ricorrente è stato escluso dalle
prove concorsuali;
- la graduatoria finale del concorso medesimo;
Rilevato altresì che il ricorso non è stato notificato ad
alcun controinteressato;
Considerato che alla parte ricorrente è stato dato avviso,
in pubblica udienza, di profili di inammissibilità del
ricorso, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a.;
Ritenuto, infatti, che il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile per non avere, il ricorrente:
- impugnato l’originario provvedimento di esclusione né, tanto
meno, la graduatoria finale del concorso (sul principio per
cui il ricorrente che ha impugnato l'esclusione ha l'onere
di impugnare anche la successiva graduatoria di merito non
potendosi ritenere che un eventuale annullamento del
provvedimento di esclusione possa avere un effetto caducante
della graduatoria stessa, cfr., da ultimo, TAR
Emilia-Romagna, Parma, sez. I, 05.01.2017, n. 5, TAR
Sicilia, Catania, sez. II, 11.10.2016, n. 2530) (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 19.07.2018 n. 8165 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Colui che ha impugnato l'esclusione dalla prove
di un concorso pubblico cui ha partecipato, a seguito della
pubblicazione della graduatoria di merito, ha l'onere di
impugnare anche tale provvedimento, non potendosi ritenere
che un eventuale annullamento del provvedimento di
esclusione possa avere un effetto caducante della
graduatoria stessa.
La mancata impugnazione della graduatoria finale di un
concorso si risolve, infatti, in un profilo di
improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento
di esclusione dallo stesso, in quanto, per i pubblici
concorsi, l'atto finale costituito dalla delibera di
approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa
sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che
determina la lesione del candidato, non ne costituisce
conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica
nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una
pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine
controverso.
Ne consegue che, nel caso di specie, l'omessa impugnazione
della graduatoria finale del concorso da parte dei
ricorrenti comporta la sopravvenuta carenza di interesse
alla decisione, non potendo l'eventuale annullamento del
provvedimento di esclusione incidere su un atto, quale la
graduatoria definitiva di merito, ormai divenuto
inoppugnabile.
---------------
2. Il ricorso è improcedibile per le seguenti ragioni.
Come si è visto, oggetto di gravame è la graduatoria della
prova preselettiva tenutasi il 20.09.2016 relativa al
concorso pubblico indetto dalla Asl di Teramo con
deliberazione n. 1343 del 2015, per la copertura a tempo
indeterminato di 56 figure di operatore socio sanitario, cat.
B, livello Bs-ruolo tecnico.
A seguito della sospensione in via cautelare del
provvedimento gravato, i ricorrenti sono stati ammessi a
sostenere le prove concorsuali, all’esito delle quali però
non si sono collocati in posizione utile (cfr. graduatoria
approvata con la deliberazione n. 330 del 2017).
Le parte ricorrenti non hanno poi impugnato la graduatoria
di merito del concorso, approvata con la deliberazione n.
330 del 2017.
In proposito deve rilevarsi come colui che ha impugnato
l'esclusione dalla prove di un concorso pubblico cui ha
partecipato, a seguito della pubblicazione della graduatoria
di merito, ha l'onere di impugnare anche tale provvedimento,
non potendosi ritenere che un eventuale annullamento del
provvedimento di esclusione possa avere un effetto
caducante della graduatoria stessa (ex multis,
Tar Parma n. 5 del 2017; Tar Roma, n. 2788 del 2016).
La mancata impugnazione della graduatoria finale di un
concorso si risolve, infatti, in un profilo di
improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento
di esclusione dallo stesso, in quanto, per i pubblici
concorsi, l'atto finale costituito dalla delibera di
approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa
sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che
determina la lesione del candidato, non ne costituisce
conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica
nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una
pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine
controverso (ex multis, Tar Roma, n. 11084 del 2014;
Tar Catanzaro, n. 417 del 2014).
Ne consegue che, nel caso di specie, l'omessa impugnazione
della graduatoria finale del concorso da parte dei
ricorrenti comporta la sopravvenuta carenza di interesse
alla decisione, non potendo l'eventuale annullamento del
provvedimento di esclusione incidere su un atto, quale la
graduatoria definitiva di merito, ormai divenuto
inoppugnabile.
Tanto premesso, il ricorso va dichiarato improcedibile e,
stante la definizione in rito, le spese di lite compensate (TAR
Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 29.11.2017 n. 548 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Per giurisprudenza costante e pacifica il
ricorrente che ha impugnato l'esclusione, a seguito della
pubblicazione della graduatoria di merito di un concorso
pubblico cui ha partecipato, ha l'onere di impugnare anche
tale provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale
annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un
effetto caducante della graduatoria stessa, in
quanto, per i pubblici concorsi, l'atto finale costituito
dalla delibera di approvazione della graduatoria, pur
appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si
colloca l'atto che determina la lesione del ricorrente, non
ne costituisce conseguenza inevitabile atteso che la sua
adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di
interessi, anche di soggetti terzi rispetto al rapporto in
origine controverso, con la conseguenza che l'omessa
impugnazione della graduatoria finale del concorso
comporterà la sopravvenuta carenza di interesse alla
decisione, non potendo l'eventuale annullamento del
provvedimento di esclusione di un candidato incidere su un
atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai
divenuto inoppugnabile.
---------------
Risulta incontestato tra le parti, pur non avendo nessuna
delle due depositato in giudizio il relativo atto, che sia
stata espletata la procedura concorsuale e sia stata
approvata la graduatoria finale.
Altrettanto incontestato, ed evidente, è che la graduatoria
non sia stata gravata dal ricorrente.
Per giurisprudenza costante e pacifica il ricorrente che ha
impugnato l'esclusione, a seguito della pubblicazione della
graduatoria di merito di un concorso pubblico cui ha
partecipato, ha l'onere di impugnare anche tale
provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale
annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un
effetto caducante della graduatoria stessa, in
quanto, per i pubblici concorsi, l'atto finale costituito
dalla delibera di approvazione della graduatoria, pur
appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si
colloca l'atto che determina la lesione del ricorrente, non
ne costituisce conseguenza inevitabile atteso che la sua
adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di
interessi, anche di soggetti terzi rispetto al rapporto in
origine controverso, con la conseguenza che l'omessa
impugnazione della graduatoria finale del concorso
comporterà la sopravvenuta carenza di interesse alla
decisione, non potendo l'eventuale annullamento del
provvedimento di esclusione di un candidato incidere su un
atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai
divenuto inoppugnabile (TAR Parma 05.01.2017 n. 5; TAR
Catania sez. II 11.10.2016 n. 2530; TAR Lazio-Roma sez. I,
03.03.2016, n. 2788 e 05.02.2015 n. 2151).
Dall’accoglimento del ricorso quindi il ricorrente non
otterrebbe più alcun vantaggio, non potendo l’annullamento
dell’atto di esclusione incidere sulla graduatoria finale,
non impugnata e che quindi ha ormai irrimediabilmente
consolidato i propri effetti.
Il ricorso pertanto deve essere dichiarato improcedibile (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 16.05.2017 n. 1100 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il ricorrente che ha impugnato
l'esclusione, a seguito della pubblicazione della
graduatoria di merito di un concorso pubblico cui ha
partecipato, ha l'onere di impugnare anche tale
provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale
annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un
effetto caducante della graduatoria stessa, poiché la
mancata impugnazione della graduatoria finale di un concorso
si risolve in un profilo di improcedibilità del ricorso
rivolto avverso il provvedimento di esclusione dallo stesso.
Si deve
cioè “escludere che tra la deliberazione di indire la
selezione e il bando di concorso, da un lato, e
l'approvazione della graduatoria finale, dall'altro lato,
sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed
immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di
quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei
primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della
graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più
ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di
adozione della lex specialis e dei successivi atti
endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali
illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono
sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità
viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove
bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di
gravame".
---------------
- che il Collegio se da un canto condivide la motivazione addotta
dall’ordinanza cautelare 792/2013, dall’altro ancor prima
osserva come “il ricorrente che ha impugnato
l'esclusione, a seguito della pubblicazione della
graduatoria di merito di un concorso pubblico cui ha
partecipato, ha l'onere di impugnare anche tale
provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale
annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un
effetto caducante della graduatoria stessa, poiché la
mancata impugnazione della graduatoria finale di un concorso
si risolve in un profilo di improcedibilità del ricorso
rivolto avverso il provvedimento di esclusione dallo stesso”
(così TAR Emilia Romagna, Parma, 05.01.2017, n. 5): si deve
cioè “escludere che tra la deliberazione di indire la
selezione e il bando di concorso, da un lato, e
l'approvazione della graduatoria finale, dall'altro lato,
sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed
immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di
quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei
primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della
graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più
ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di
adozione della lex specialis e dei successivi atti
endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali
illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono
sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità
viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove
bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame
(cfr., in termini, Tar Sardegna-Cagliari, sez. II,
06.03.2013, n. 205; che richiama anche la consolidata
giurisprudenza in materia: Cons. Stato, sez. V, 09.03.2012,
n. 1347; Cons. Stato, sez. V, 09.02.2010, n. 622; Cons.
Stato, sez. VI, 25.01.2008, n. 207; Cons. Stato, Sez. III,
01/02/2012, n. 503; TAR Sardegna, Sez. II, 16/05/2012, n.
544; TAR Valle d'Aosta 14/07/2010, n. 49)” (così TAR
Sicilia, Palermo, 16.12.2014, n. 3304) (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
sentenza 05.05.2017 n. 1026 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Nell’ambito delle procedure concorsuali per
l’accesso al pubblico impiego, l’atto finale e
provvedimentale è indubbiamente la graduatoria finale,
mediante la quale l’amministrazione indica in via definitiva
i soggetti coi quali stipulare il contratto di lavoro;
tuttavia, in seno al procedimento selettivo il termine per
esperire l’impugnativa degli atti di gara può iniziare a
decorre ancor prima che sia approvata la stessa graduatoria
definitiva: in particolar modo, qualora il bando di concorso
preveda l’adozione e la pubblicazione di atti
endoprocedimentali finalizzati all’esclusione di uno o più
concorrenti, essi precludono al candidato la possibilità di
un utile inserimento in graduatoria e costituiscono per
l’interessato l’atto conclusivo del procedimento
concorsuale. Siffatto atto deve necessariamente, essere
tempestivamente impugnato, con la conseguenza che il
consolidamento di tale provvedimento priva il ricorrente
della legittimazione a contestare successivamente
l’approvazione della graduatoria, la proclamazione del
vincitore e la sua nomina.
L’onere di immediata impugnazione dell’atto di esclusione
non esime, peraltro, il ricorrente dall’obbligo di estendere
la censura anche ai successivi atti del procedimento e, in
particolare, alla graduatoria finale. L’atto esclusivo e la
graduatoria, pur inserendosi nel medesimo iter
procedimentale, non manifestano un rapporto di
presupposizione; vale a dirsi che la graduatoria non è atto
direttamente consequenziale all’esclusione:
l’amministrazione procedente, non a caso, avvenuta
l’esclusione compie ulteriori valutazioni che impediscono di
considerare i due atti citati come l’uno l’antecedente
logico del secondo.
Ne consegue che l’annullamento dell’esclusione non manifesta
efficacia caducante della graduatoria: quest’ultima
deve, all’opposto, essere oggetto di specifica impugnazione
con autonomo ricorso o per motivi aggiunti a seguito di
censura del previo atto di esclusione.
Quanto scritto trova il conforto della consolidata
giurisprudenza amministrativa la quale ha statuito che
“sussiste l’onere di estendere il gravame anche al
provvedimento conclusivo del procedimento concorsuale,
ovverosia l’atto di approvazione della graduatoria finale da
parte del concorrente. Infatti, costituisce principio
generale nei procedimenti di tipo concorsuale quello secondo
cui l’impugnazione del provvedimento endoprocedimentale
lesivo deve successivamente estendersi agli ulteriori atti
pregiudizievoli, quale l’approvazione definitiva della
graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi
altrimenti l’inutilità dell’eventuale decisione di
accoglimento del ricorso proposto contro l’esclusione.
Diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto
caducante e non meramente viziante all’eventuale
annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che
risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno
decisamente minoritario, non ravvisandosi un rapporto di
presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e
necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e
l’approvazione della graduatoria finale”.
Ne consegue che sul candidato escluso incombe sia l’onere di
immediata impugnazione dell’atto di esclusione sia l’onere
di censurare la graduatoria finale: qualora il gravame non
sia esteso anche al provvedimento conclusivo, spirato il
termine per ricorrere al giudice amministrativo, la
graduatoria diviene inoppugnabile con conseguente
sopraggiungere di carenza d’interesse in capo al candidato,
non potendo l’annullamento della sola esclusione manifestare
effetto caducante della graduatoria.
---------------
Quanto rilevato già in sede di giudizio cautelare, appare
dirimente della controversia qui esame. Per regola generale,
oggetto del processo amministrativo è l’atto lesivo di una
situazione giuridica soggettiva del ricorrente e siffatto
carattere di lesività si rinviene, normalmente, nell’atto
provvedimentale, quale atto esoprocedimentale in grado di
incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del
destinatario.
Invero, il menzionato principio non è immune da eccezioni,
una delle quali si verifica anche nell’ambito delle
procedure concorsuali per l’accesso al pubblico impiego.
L’atto finale e provvedimentale delle stesse è indubbiamente
la graduatoria finale, mediante la quale l’amministrazione
indica in via definitiva i soggetti coi quali stipulare il
contratto di lavoro; tuttavia, in seno al procedimento
selettivo il termine per esperire l’impugnativa degli atti
di gara può iniziare a decorre ancor prima che sia approvata
la stessa graduatoria definitiva: in particolar modo,
qualora il bando di concorso preveda l’adozione e la
pubblicazione di atti endoprocedimentali finalizzati
all’esclusione di uno o più concorrenti, essi precludono al
candidato la possibilità di un utile inserimento in
graduatoria e costituiscono per l’interessato l’atto
conclusivo del procedimento concorsuale. Siffatto atto deve
necessariamente, essere tempestivamente impugnato, con la
conseguenza che il consolidamento di tale provvedimento
priva il ricorrente della legittimazione a contestare
successivamente l’approvazione della graduatoria, la
proclamazione del vincitore e la sua nomina (in al senso, di
recente, TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 15.02.2016, n. 48 e
TAR Basilicata, Potenza, Sez. I, 08.07.2015, n. 393).
L’onere di immediata impugnazione dell’atto di esclusione
non esime, peraltro, il ricorrente dall’obbligo di estendere
la censura anche ai successivi atti del procedimento e, in
particolare, alla graduatoria finale. L’atto esclusivo e la
graduatoria, pur inserendosi nel medesimo iter
procedimentale, non manifestano un rapporto di
presupposizione; vale a dirsi che la graduatoria non è atto
direttamente consequenziale all’esclusione:
l’amministrazione procedente, non a caso, avvenuta
l’esclusione compie ulteriori valutazioni che impediscono di
considerare i due atti citati come l’uno l’antecedente
logico del secondo.
Ne consegue che l’annullamento dell’esclusione non manifesta
efficacia caducante della graduatoria: quest’ultima
deve, all’opposto, essere oggetto di specifica impugnazione
con autonomo ricorso o per motivi aggiunti a seguito di
censura del previo atto di esclusione.
Quanto scritto trova il conforto della consolidata
giurisprudenza amministrativa la quale ha statuito che “sussiste
l’onere di estendere il gravame anche al provvedimento
conclusivo del procedimento concorsuale, ovverosia l’atto di
approvazione della graduatoria finale da parte del
concorrente. Infatti, costituisce principio generale nei
procedimenti di tipo concorsuale quello secondo cui
l’impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo
deve successivamente estendersi agli ulteriori atti
pregiudizievoli, quale l’approvazione definitiva della
graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi
altrimenti l’inutilità dell’eventuale decisione di
accoglimento del ricorso proposto contro l’esclusione.
Diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto
caducante e non meramente viziante all’eventuale
annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che
risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno
decisamente minoritario, non ravvisandosi un rapporto di
presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e
necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e
l’approvazione della graduatoria finale” (TAR Lazio,
Roma, Sez. I, 04.11.2014, n. 11084. In senso sostanzialmente
conforme, ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. III,
15.01.2015 n. 577; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 07.05.2013, n.
4489; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 10.01.2013, n. 183; TAR
Calabria, Catanzaro, Sez. II, 06.02.2013, n. 134; TAR
Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 29.03.2012, n. 189; TAR Sicilia
Catania, Sez. I, 28.02.2012, n. 539).
Ne consegue che sul candidato escluso incombe sia l’onere di
immediata impugnazione dell’atto di esclusione sia l’onere
di censurare la graduatoria finale (come esplicitamente
affermato anche da TAR Campania, Napoli, Sez. V, 10.09.2012,
n. 3843): qualora il gravame non sia esteso anche al
provvedimento conclusivo, spirato il termine per ricorrere
al giudice amministrativo, la graduatoria diviene
inoppugnabile con conseguente sopraggiungere di carenza
d’interesse in capo al candidato, non potendo l’annullamento
della sola esclusione manifestare effetto caducante della
graduatoria.
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno censurato i soli atti
di ammissione alle prove orali, rectius di esclusione
dei medesimi a seguito delle prove scritte: al
sopraggiungere della graduatoria finale nelle more del
presente giudizio, non si è assistito alla puntuale
impugnazione della medesima. Conseguentemente il ricorso
deve essere dichiarato improcedibile per sopraggiunto
difetto d’interesse (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 05.05.2017 n. 383 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Con specifico riferimento alla materia dei
concorsi pubblici si deve escludere che tra la deliberazione
di indire la selezione e il bando di concorso, da un lato, e
l'approvazione della graduatoria finale, dall'altro lato,
sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed
immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di
quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei
primi.
È indubbio, infatti, che l'approvazione della
graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più
ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di
adozione della lex specialis e dei successivi atti
endoprocedimentali.
Ne consegue che le eventuali
illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono
sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità
viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove
bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame.
---------------
Il ricorrente che ha impugnato l'esclusione, a seguito della
pubblicazione della graduatoria di merito del concorso di
che trattasi, ha l'onere di impugnare anche tale
provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale
annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un
effetto caducante della graduatoria stessa.
La mancata impugnazione della graduatoria finale di un
concorso, infatti, si risolve in un profilo di
improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento
di esclusione dallo stesso in quanto, per i pubblici
concorsi, l'atto finale costituito dalla delibera di
approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa
sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che
determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce
conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica
nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una
pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine
controverso.
L'omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso,
pertanto, comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla
decisione, non potendo l'eventuale annullamento del
provvedimento di esclusione di un candidato incidere su un
atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai
divenuto inoppugnabile, con la conseguenza che l'eventuale
annullamento del provvedimento di esclusione non potrebbe
produrre alcun effetto utile per l'interessato.
---------------
Tutto ciò premesso osserva il collegio come i ricorrenti si siano
limitati alla sola impugnativa del bando e dell’atto di
ammissione alla relativa procedura ma non abbiano altresì
impugnato gli esiti della procedura concorsuale stessa:
pertanto, nessun utilità potrebbe derivare dall'eventuale
accoglimento del ricorso poiché sarebbero in ogni caso fatti
salvi i provvedimenti a valle, ovvero la graduatoria finale.
Come già affermato in giurisprudenza (cfr., ex multis,
TAR Parma, sez. I, 05.01.2017, n. 5), con
orientamento dal quale la Sezione non ha motivo di
discostarsi, "con specifico riferimento alla materia dei
concorsi pubblici si deve escludere che tra la deliberazione
di indire la selezione e il bando di concorso, da un lato, e
l'approvazione della graduatoria finale, dall'altro lato,
sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed
immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di
quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei
primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della
graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più
ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di
adozione della lex specialis e dei successivi atti
endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali
illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono
sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità
viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove
bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame"
(cfr., in termini, Tar Sardegna-Cagliari, sez. II, 06.03.2013, n. 205; che richiama anche la consolidata
giurisprudenza in materia: Cons. Stato, sez. V, 09.03.2012, n. 1347; Cons. Stato, sez. V,
09.02.2010, n. 622;
Cons. Stato, sez. VI, 25.012008, n. 207; Cons. Stato,
Sez. III, 01/02/2012, n. 503; TAR Sardegna, Sez. II,
16/05/2012, n. 544; TAR Valle d'Aosta 14/07/2010, n. 49;
TAR Sicilia, Palermo, 16.12.2014, n. 3304).
Il principio trova ulteriore conferma nella più recente
giurisprudenza laddove si afferma che "il ricorrente che ha
impugnato l'esclusione, a seguito della pubblicazione della
graduatoria di merito del concorso di che trattasi, ha
l'onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi
ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di
esclusione possa avere un effetto caducante della
graduatoria stessa. La mancata impugnazione della
graduatoria finale di un concorso, infatti, si risolve in un
profilo di improcedibilità del ricorso rivolto avverso il
provvedimento di esclusione dallo stesso in quanto, per i
pubblici concorsi, l'atto finale costituito dalla delibera
di approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla
stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto che
determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce
conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica
nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una
pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine
controverso. L'omessa impugnazione della graduatoria finale
del concorso, pertanto, comporta la sopravvenuta carenza di
interesse alla decisione, non potendo l'eventuale
annullamento del provvedimento di esclusione di un candidato
incidere su un atto, quale la graduatoria definitiva di
merito, ormai divenuto inoppugnabile, con la conseguenza che
l'eventuale annullamento del provvedimento di esclusione non
potrebbe produrre alcun effetto utile per l'interessato
(vedi, da ultimo, TAR Lazio, Sez. I-bis, n. 709/2016; TAR
Lazio, Roma,. Sez. I, 03.03.2016, n. 2788)" (TAR Lazio-Roma,
Sez. III-quater,
sentenza 03.05.2017 n. 5124 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Nella materia dei concorsi pubblici “si deve escludere che tra la
deliberazione di indire la selezione e il bando di concorso,
da un lato, e l'approvazione della graduatoria finale,
dall'altro lato, sussista un rapporto di consequenzialità
diretta ed immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di quest'ultima per effetto dell'eventuale
illegittimità dei primi.
È indubbio, infatti, che
l'approvazione della graduatoria definitiva è il risultato
di ulteriori e più ampie valutazioni rispetto a quelle
compiute in sede di adozione della lex specialis e dei
successivi atti endoprocedimentali. Ne consegue che le
eventuali illegittimità del bando e dell'esclusione si
riflettono sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d.
invalidità viziante), con conseguente onere di impugnarlo
anche laddove bando ed esclusione siano già stati fatti
oggetto di gravame”.
L’eventuale annullamento del bando o degli atti intermedi
della procedura di valutazione, infatti non ha un effetto
caducante della graduatoria stessa, la quale, pur
appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si
colloca l'atto che determina la lesione del ricorrente, non
ne costituisce conseguenza inevitabile, atteso che la sua
adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di
interessi, anche di una pluralità di soggetti terzi rispetto
al rapporto in origine controverso.
---------------
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, “la
formula di stile con la quale si estende l'impugnazione a
“tutti gli atti antecedenti, preordinati, connessi,
successivi e consequenziali” è priva di qualsiasi valore
processuale in quanto inidonea ad individuare uno specifico
oggetto di impugnativa. Il particolare rigore di tale
consolidato orientamento giurisprudenziale si giustifica ove
si consideri che solo un'inequivoca determinazione del
petitum processuale consente alle controparti la piena
esplicazione del diritto di difesa in giudizio garantito
dall'articolo 24, comma 2° della Costituzione”.
---------------
Il ricorso, come in primo luogo eccepito dalla difesa dell’Autorità
garante della concorrenza e del mercato, è improcedibile per
mancata impugnativa della graduatoria finale.
A tanto consegue che nessun utilità può derivare ai
ricorrenti dall'eventuale accoglimento del gravame, poiché
resterebbe, in ogni caso, salvo il provvedimento a valle di
approvazione della graduatoria e di individuazione dei
vincitori del concorso.
Come costantemente affermato in giurisprudenza, con
orientamento che il Collegio condivide, nella materia dei
concorsi pubblici “si deve escludere che tra la
deliberazione di indire la selezione e il bando di concorso,
da un lato, e l'approvazione della graduatoria finale,
dall'altro lato, sussista un rapporto di consequenzialità
diretta ed immediata tale da giustificare l'automatica caducazione di quest'ultima per effetto dell'eventuale
illegittimità dei primi. È indubbio, infatti, che
l'approvazione della graduatoria definitiva è il risultato
di ulteriori e più ampie valutazioni rispetto a quelle
compiute in sede di adozione della lex specialis e dei
successivi atti endoprocedimentali. Ne consegue che le
eventuali illegittimità del bando e dell'esclusione si
riflettono sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d.
invalidità viziante), con conseguente onere di impugnarlo
anche laddove bando ed esclusione siano già stati fatti
oggetto di gravame” (cfr., da ultimo, TAR Emilia Romagna,
Parma, 05.01.2017, n. 5, TAR Sicilia, Catania, sez. II,
11.10.2016, n. 2530).
L’eventuale annullamento del bando o degli atti intermedi
della procedura di valutazione, infatti non ha un effetto
caducante della graduatoria stessa, la quale, pur
appartenendo alla stessa sequenza procedimentale in cui si
colloca l'atto che determina la lesione del ricorrente, non
ne costituisce conseguenza inevitabile, atteso che la sua
adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di
interessi, anche di una pluralità di soggetti terzi rispetto
al rapporto in origine controverso (cfr., ex multis, TAR
Lazio, sez. I-bis, n. 709/2016).
Diversamente da quanto osservato dai ricorrenti, poi, la
rilevata omissione non può essere superata dalla formula di
stile utilizzata in ricorso e con la quale gli stessi hanno
gravato “tutti gli atti ad esso connessi, presupposti e
consequenziali, ivi compresi, per quanto occorrer possa,
tutti i verbali della Commissione ed il provvedimento, di
incogniti estremi, di approvazione della graduatoria finale
e di nomina dei vincitori”, atteso che si tratta di dizione
palesemente generica e formulata più in termini di
eventualità che di certezza, oltretutto non seguita dalla
formulazione di concrete censure avverso il provvedimento di
approvazione della graduatoria finale.
In proposito è utile richiamare il costante orientamento
giurisprudenziale secondo cui “la formula di stile con la
quale si estende l'impugnazione a “tutti gli atti
antecedenti, preordinati, connessi, successivi e
consequenziali” è priva di qualsiasi valore processuale in
quanto inidonea ad individuare uno specifico oggetto di
impugnativa. Il particolare rigore di tale consolidato
orientamento giurisprudenziale si giustifica ove si
consideri che solo un'inequivoca determinazione del petitum
processuale consente alle controparti la piena esplicazione
del diritto di difesa in giudizio garantito dall'articolo
24, comma 2° della Costituzione” (cfr, ex multis, TAR
Piemonte, Torino, sez. I, 28.07.2015, n. 1244, Consiglio
di Stato, sez. IV, 09.01.2014, n. 36).
Né può rilevare, come pure sostenuto dai ricorrenti, la
circostanza che il ricorso è stato comunque notificato a
tutti i soggetti vincitori, atteso che, dalla ricostruzione
in fatto contenuta nel ricorso, emerge come tale notifica
sia avvenuta nei confronti di coloro che a quel momento
risultavano aver superato le prove scritte.
Conseguentemente, il ricorso in epigrafe, è divenuto
improcedibile e al Collegio, assorbita ogni altra deduzione,
eccezione e difesa, non resta che darne atto (TAR Lazio-Roma,
Sez. I,
sentenza 03.04.2017 n. 4130 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Con
specifico riferimento alla materia dei concorsi pubblici si
deve escludere che tra la deliberazione di indire la
selezione e il bando di concorso, da un lato, e
l'approvazione della graduatoria finale, dall’altro lato,
sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed
immediata tale da giustificare l’automatica caducazione di
quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei
primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della
graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più
ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di
adozione della lex specialis e dei successivi atti
endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali
illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono
sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità
viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove
bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di
gravame.
---------------
Il ricorrente che ha impugnato l’esclusione, a seguito della
pubblicazione della graduatoria di merito del concorso di
che trattasi, ha l’onere di impugnare anche tale
provvedimento, non potendosi ritenere che un eventuale
annullamento del provvedimento di esclusione possa avere un
effetto caducante della graduatoria stessa.
La mancata impugnazione della graduatoria finale di un
concorso, infatti, si risolve in un profilo di
improcedibilità del ricorso rivolto avverso il provvedimento
di esclusione dallo stesso in quanto, per i pubblici
concorsi, l’atto finale costituito dalla delibera di
approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla stessa
sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto che
determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce
conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica
nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una
pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine
controverso.
L’omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso,
pertanto, comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla
decisione, non potendo l’eventuale annullamento del
provvedimento di esclusione di un candidato incidere su un
atto, quale la graduatoria definitiva di merito, ormai
divenuto inoppugnabile, con la conseguenza che l’eventuale
annullamento del provvedimento di esclusione non potrebbe
produrre alcun effetto utile per l’interessato.
---------------
In linea generale, nei concorsi a posti di pubblico impiego,
il termine per l'impugnazione degli atti di concorso decorre
dalla data di conoscenza del relativo esito, che si fa
coincidere col provvedimento di approvazione della
graduatoria, in quanto solo da detto atto può scaturire la
lesione attuale della posizione degli interessati e la sua
conoscenza reca in sé tutti gli elementi che consentono
all'interessato di percepirne la portata lesiva.
---------------
La formula di stile con la quale si estende l'impugnazione a
"tutti gli atti antecedenti, preordinati, connessi,
successivi e consequenzialì" è priva di qualsiasi valore
processuale in quanto inidonea ad individuare uno specifico
oggetto di impugnativa.
Il particolare rigore di tale consolidato orientamento
giurisprudenziale si giustifica ove si consideri che solo
un'inequivoca determinazione del petitum processuale
consente alle controparti la piena esplicazione del diritto
di difesa in giudizio garantito dall'articolo 24, comma 2°,
della Costituzione.
---------------
L’eccezione di improcedibilità è fondata nei seguenti termini.
La ricorrente non ha impugnato gli esiti della procedura
concorsuale indetta con il bando gravato e, pertanto, nessun
utilità potrebbe derivarle dall’eventuale accoglimento del
ricorso poiché sarebbero in ogni caso fatti salvi i
provvedimenti a valle, ovvero, la graduatoria finale in
virtù della quale gli odierni controinteressati risultavano
vincitori del concorso e venivano assunti.
Come già affermato in giurisprudenza, con orientamento dal
quale la Sezione non ha motivo di discostarsi, “con
specifico riferimento alla materia dei concorsi pubblici si
deve escludere che tra la deliberazione di indire la
selezione e il bando di concorso, da un lato, e
l'approvazione della graduatoria finale, dall’altro lato,
sussista un rapporto di consequenzialità diretta ed
immediata tale da giustificare l’automatica caducazione di
quest'ultima per effetto dell'eventuale illegittimità dei
primi. È indubbio, infatti, che l'approvazione della
graduatoria definitiva è il risultato di ulteriori e più
ampie valutazioni rispetto a quelle compiute in sede di
adozione della lex specialis e dei successivi atti
endoprocedimentali. Ne consegue che le eventuali
illegittimità del bando e dell'esclusione si riflettono
sull'atto finale semplicemente viziandolo (c.d. invalidità
viziante), con conseguente onere di impugnarlo anche laddove
bando ed esclusione siano già stati fatti oggetto di gravame
(cfr., in termini, Tar Sardegna–Cagliari, sez. II, 06.03.2013, n. 205; che richiama anche la consolidata
giurisprudenza in materia: Cons. Stato, sez. V, 09.03.2012, n. 1347; Cons. Stato, sez. V,
09.02.2010, n. 622;
Cons. Stato, sez. VI, 25.01.2008, n. 207; Cons. Stato,
Sez. III, 01/02/2012, n. 503; TAR Sardegna, Sez. II,
16/05/2012, n. 544; TAR Valle d'Aosta 14/07/2010, n. 49)”
(TAR Sicilia, Palermo, 16.12.2014, n. 3304).
Il principio trova ulteriore conferma nella più recente
giurisprudenza laddove si afferma che “il ricorrente che ha
impugnato l’esclusione, a seguito della pubblicazione della
graduatoria di merito del concorso di che trattasi, ha
l’onere di impugnare anche tale provvedimento, non potendosi
ritenere che un eventuale annullamento del provvedimento di
esclusione possa avere un effetto caducante della
graduatoria stessa. La mancata impugnazione della
graduatoria finale di un concorso, infatti, si risolve in un
profilo di improcedibilità del ricorso rivolto avverso il
provvedimento di esclusione dallo stesso in quanto, per i
pubblici concorsi, l’atto finale costituito dalla delibera
di approvazione della graduatoria, pur appartenendo alla
stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto che
determina la lesione del ricorrente, non ne costituisce
conseguenza inevitabile atteso che la sua adozione implica
nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di una
pluralità di soggetti terzi rispetto al rapporto in origine
controverso. L’omessa impugnazione della graduatoria finale
del concorso, pertanto, comporta la sopravvenuta carenza di
interesse alla decisione, non potendo l’eventuale
annullamento del provvedimento di esclusione di un candidato
incidere su un atto, quale la graduatoria definitiva di
merito, ormai divenuto inoppugnabile, con la conseguenza che
l’eventuale annullamento del provvedimento di esclusione non
potrebbe produrre alcun effetto utile per l’interessato
(vedi, da ultimo, TAR Lazio, Sez. I-bis, n. 709/2016)” (TAR
Lazio, Roma,. Sez. I, 03.03.2016, n. 2788).
Gravava, pertanto, sulla ricorrente l’onere di impugnare la
graduatoria concorsuale che, peraltro, al momento della
proposizione del ricorso era stata pubblicata sull’Albo
Pretorio del Comune (e non erano ancora spirato il relativo
termine decadenziale).
Sul punto la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire
“(Cons. Stato, Sez. V, 04.03.2008, n. 862; Cons. Stato,
Sez. V, 06.09.2012 n. 4726; Cons. Stato, Sez. V, 27.10.2014, n. 5293) che in linea generale, nei concorsi a
posti di pubblico impiego, il termine per l'impugnazione
degli atti di concorso decorre dalla data di conoscenza del
relativo esito, che si fa coincidere col provvedimento di
approvazione della graduatoria, in quanto solo da detto atto
può scaturire la lesione attuale della posizione degli
interessati e la sua conoscenza reca in sé tutti gli
elementi che consentono all'interessato di percepirne la
portata lesiva” (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 07.06.2016, n. 1187).
Che la graduatoria fosse nota alla ricorrente è comprovato
dalla circostanza che il ricorso veniva notificato ai
vincitori del concorso che, a far data dal 03.12.2012,
sono anche colleghi della ricorrente che nelle more del
giudizio è risultata vincitrice di un successivo concorso
per il conferimento di un incarico dirigenziale presso il
Comune di Parma (ed anche con riferimento a tale ultima data
è decorso il termine decadenziale ex art. 29 c.p.a. senza
che la graduatoria venisse impugnata).
La rilevata omissione, contrariamente a quanto deduce la
ricorrente, non può essere superata dalla già richiamata
formula di stile con la quale la ricorrente affermava di
impugnare “tutti gli atti connessi e/o coordinati anteriori
e/o conseguenti seppur non cogniti, ivi compresa l’eventuale
graduatoria finale dell’impugnato concorso”.
Non può, infatti, sottacersi che la giurisprudenza
amministrativa ha avuto modo di affermare che "la formula di
stile con la quale si estende l'impugnazione a "tutti gli
atti antecedenti, preordinati, connessi, successivi e consequenzialì è priva di qualsiasi valore processuale in
quanto inidonea ad individuare uno specifico oggetto di
impugnativa. Il particolare rigore di tale consolidato
orientamento giurisprudenziale si giustifica ove si
consideri che solo un'inequivoca determinazione del petitum
processuale consente alle controparti la piena esplicazione
del diritto di difesa in giudizio garantito dall'articolo
24, comma 2°, della Costituzione" (in senso conforme, Cons.
Stato, sez. VI, 20.05.2009 n. 3105; sez. IV, 21.06.2001, n. 3346)” (Cons. Stato, Sez. IV,
09.01.2014, n.
36; nei medesimi termini: TAR Sicilia, Palermo, Sez. II 07.02.2013, n. 317; TAR Piemonte, Sez. II, 27.07.2011, n. 845; TAR Toscana, Sez. I 21.06.2010, n. 2017;
TAR Lazio, Roma, Sez. II, 19.06.2009, n. 5850; TAR
Lombardia, Milano, Sez. III, 05.06.2009, n. 3925).
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato improcedibile
stante la mancata impugnazione degli atti della procedura
concorsuale ivi compresi la graduatoria finale e
l’approvazione della stessa (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 05.01.2017 n. 5 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
|
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Per
il professionista dipendente della Pa l’Albo non è un costo.
La ripartizione degli oneri. I tribunali tracciano la rotta: in caso di
esclusiva l’ente pubblico rimborsa l’iscrizione così come i corsi di
formazione e la polizza assicurativa per attività tecniche.
I professionisti dipendenti pubblici
possono ribaltare sul datore di lavoro il costo dell’iscrizione all’Albo
professionale. E ciò, in particolare, se l’attività pubblica viene
esercitata in regime di esclusiva. Le spese di iscrizione all’Albo
riguardano non solo avvocati e ingegneri, ma tutti coloro che da un lato “firmano”,
quali professionisti abilitati, atti della pubblica amministrazione e
dall’altro abbiano un vincolo che impedisca l’attività esterna a favore di
terzi.
Il caso più recente è quello deciso dal Tribunale di Pordenone (sentenza
06.09.2019 n. 116) e si riferisce ad alcuni infermieri
professionali, legati da obbligo di esclusività con una Ausl. In tal caso
l’iscrizione all’Albo è stata riconosciuta a carico dell’ente pubblico in
quanto è stata ritenuta un requisito indispensabile per lo svolgimento
dell’attività.
Nel caso, invece, l’iscrizione all’Albo non sia necessaria, ma sia
sufficiente aver conseguito l’abilitazione (superando l’esame di Stato), non
vi è alcun problema di oneri a carico della Pa. Ciò accade ad esempio per
gli avvocati dello Stato, che non sono iscritti ad alcun Albo, o per alcuni
medici del ministero della Salute; e questa è anche l’opinione del Consiglio
nazionale degli ingegneri
(circolare
21.10.2015 n. 615),
che distingue tra professionisti abilitati e iscritti all’Albo.
Ai fini del rimborso, occorre distinguere tra i titoli acquisiti per
accedere e mantenere una posizione lavorativa (qual è, appunto, l’iscrizione
a un Albo professionale) e i titoli che, una volta acquisiti, diventano dote
specifica del dipendente. Per esempio, la laurea, di cui il lavoratore
beneficia sotto vari aspetti, non solo lavorativi: il costo per conseguirla
non può, perciò, essere ribaltato sul datore di lavoro (Corte
conti Puglia,
parere 01.10.2008 n. 29).
Stesso ragionamento per i titoli di qualificazione non indispensabili alla
carriera (specializzazioni, master, ecc.) ma utili solo ai fini di punteggi
o avanzamenti: non essendo obbligatori, quei titoli non possono essere a
carico dell’ente.
I primi professionisti che hanno battagliato per ribaltare sul datore di
lavoro gli oneri di iscrizione all’Albo sono stati gli avvocati dell’Inps e
dell’Inail (Cassazione,
sentenza 16.04.2015 n. 7776
e n. 3928/2007), seguiti dagli avvocati interni dei Comuni (Consiglio di
Stato,
parere 15.03.2011 n. 1081).
Un’importante estensione del principio riguarda i ruoli tecnici e di
progettazione di opere pubbliche, in quanto il dipendente iscritto all’Albo
e con un rapporto esclusivo con la Pa, fruisce a spese dell’ente di una
copertura assicurativa sui rischi progettuali di natura professionale
(articolo 24, comma 4, del Dlgs 50/2016, testo unico sugli appalti).
Ragionamento che si può fare anche per i corsi di formazione obbligatori: se
il dipendente non si può giovare di tali corsi in rapporti esterni (ad
esempio, nella libera professione autorizzata) a causa di un vincolo di
esclusività con la Pa, i relativi costi sono a carico di quest’ultima.
L’iscrizione dei dipendenti ad Albi pone al datore di lavoro pubblico
problemi contabili per il pagamento dell’Irap: secondo l’articolo 3 del Dlgs
446/1977 tale imposta è a carico del datore di lavoro e ciò innesca un
meccanismo di rivalsa verso i terzi quando, ad esempio, una lite si conclude
con una sentenza che riconosca il rimborso delle “spese di lite” a
favore dell’ente pubblico. Insieme all’importo quantificato dal giudice,
l’ente pubblico può chiedere anche una somma a titolo di Irap (circa il 20%)
come onere accessorio riflesso (Consiglio di Stato, decisione n. 3738/2018 e
Cassazione,
sentenza 14.11.2018 n. 29375).
Ciò sempre in forza del principio che ritiene accessoria e separata,
rispetto alla retribuzione, ogni somma indispensabile e attinente alla
professione. Come accadeva per l’indennità di “cavalcatura” di medici
e veterinari condotti che dovevano per raggiungere gli assistiti.
---------------
LA PAROLA DEI GIUDICI E DEL MEF
1 - L'infermiera
L’esclusiva non è vincolante
Il tribunale di Milano ha respinto la domanda di rimborso della quota di
iscrizione al Collegio di categoria di un’infermiera dipendente di una
struttura pubblica. I giudici hanno, infatti, ritenuto che per gli
infermieri che lavorano in una struttura pubblica non esiste un divieto
assoluto di svolgere attività in favore di terzi (come invece esiste per gli
avvocati). Infatti, gli infermieri, anche dipendenti pubblici a tempo pieno,
possono svolgere attività professionale esterna,previa autorizzazione
dell’ente di appartenenza, subordinata all’assenza di conflitto di interessi
(Tribunale di Milano, sentenza n. 1161 dell’11.05.2016).
...
2 - L'avvocato
Non può lavorare per terzi
Secondo i giudici della Suprema corte l’ente datore di lavoro deve
rimborsare all’avvocato che lavora nella pubblica amministrazione i costi di
iscrizione all’elenco speciale dell’Albo degli avvocati riservato ai legali
che esercitano la professione nell’interesse esclusivo del datore di lavoro.
Ciò in quanto la professione forense, per normativa specifica (legge 339 del
2003) è inibita al pubblico dipendente, anche assunto a tempo parziale, a
tutela sia dell’imparzialità e buon andamento della pubblica
amministrazione, sia dell'indipendenza della professione forense (Corte di
Cassazione, sentenze n. 11833/20013 e n. 775/2014).
...
3 - L'assistente sociale
Il no del ministero dell’Economia
Il ministero dell’Economia ha
escluso, con una nota inviata al Consiglio nazionale dell’Ordine degli
assistenti sociali, la sussistenza di un diritto al rimborso della quota di
iscrizione all’Albo per gli assistenti sociali dipendenti di un ente
pubblico. Ciò perché l’iscrizione all’Ordine non avviene in un elenco
speciale come quello cui appartengono gli avvocati degli enti pubblici.
Mancando tale presupposto, verrebbe meno anche l’applicazione analogica del
diritto al rimborso sancito dalle pronunce della Cassazione in materia di
oneri del datore di lavoro (nota del ministero dell’Economia, prot. n. 45685
del 26.05.2016).
...
4 - Gli altri orientamenti
Spese di viaggio e telefoniche
Al di fuori delle attività professionali, vi sono precisi orientamenti:
costituisce rimborso spese il rimborso del costo di uno specifico viaggio di
trasferta (Corte di Cassazione, sentenza n. 2385/1966); così è retribuzione
sia il pagamento delle spese di vestiario comune, sia quello per tute in
specifiche condizioni di lavoro (Corte di Cassazione, sentenza n.
11139/1998, relativa ad aziende di igiene pubblica).
È rimborso anche il pagamento di spese telefoniche per reperibilità (Corte
di Cassazione, sentenza n. 10367/2004), mentre se la spesa nell’interesse
del datore di lavoro copre parzialmente una spesa propria del lavoratore, vi
può esser un concorso (Corte di Cassazione, sentenza n. 17639/2003, in tema
di uniforme obbligatoria per autisti).
Solo a carico del datore di lavoro sono, invece, i costi per obblighi di
sicurezza (Corte di Cassazione, sentenza n. 11139/1998), perché necessari
all’espletamento del lavoro.
---------------
Nuove attività. Niente pretese se non c’è un Ordine o un
Collegio.
Le nuove professioni, che non hanno Ordini o Collegi, restano fuori dal
meccanismo di rimborso delle spese di adesione.
Ad esempio gli oneri di iscrizione a una categoria, che il dipendente in
regime di esclusiva affronti quale responsabile della protezione dati (Rdp),
non sono ribaltabili sul datore di lavoro. Ciò perché si tratta di una
professione “non collegiata”, riconosciuta ma non obbligatoria (nel
senso che per esercitare le relative attività non è indispensabile
l’iscrizione a un Albo) che non può, allo stato, generare problemi di oneri
economici.
Infatti le professioni non collegiate sono attività auto-organizzate a norma
della legge 4/2013, che non assicurano alcuna esclusiva e quindi non
generano costi detraibili per il datore di lavoro.
Oltretutto, la legge 4/2013, nell’ampliare le categorie professionali,
esclude che dal nuovo regime delle professioni possano derivare «nuovi o
maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato», con un divieto che si
attaglia all’iscrizione a un organismo di categoria libero o volontario.
Un’iscrizione volontaria a un’associazione o Albo previsto dalla legge
4/2013 può, quindi, dare garanzie di affidabilità, ma non è indispensabile
per svolgere la prestazione lavorativa.
In conseguenza, il costo dell’iscrizione all’Albo resta a carico del
dipendente, senza poter essere traslata sul datore di lavoro. L’iscrizione a
una professione regolamentata (il cui elenco è gestito dal ministero per lo
Sviluppo economico) è quindi soprattutto sintomo di qualificazione
professionale, utilizzabile come attestato di qualità dei servizi offerti,
ad esempio per talune garanzie che si forniscono al cliente, quali il codice
deontologico di condotta
(articolo
Il Sole 24 Ore del 28.10.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il pubblico paga l’ordine.
Dall’ente la quota dei professionisti dipendenti. Una sentenza del tribunale
di Pordenone interviene sui costi di iscrizione.
La Pubblica amministrazione deve pagare le quote di iscrizione
agli ordini dei professionisti. Nel caso in cui il lavoratore autonomo sia
dipendente pubblico e lo stesso abbia un vincolo di esclusività, l'ente
dovrà provvedere al versamento della quota di iscrizione.
E'
la conclusione a cui è giunto il TRIBUNALE di Pordenone, Sez. lavoro, nella
sentenza
06.09.2019 n. 116.
Il tribunale ha accolto il ricorso presentato da 214 infermieri, ma la
valutazione è estendibile a tutti i liberi professionisti. Infatti, la
decisione presa dal giudice riprende una sentenza della Corte di cassazione
(sentenza 16.04.2015 n. 7776) che trattava il caso di avvocati dipendenti della Pa.
Il tribunale, innanzitutto, ha ricordato come l'iscrizione all'albo
professionale è obbligatoria anche per i pubblici dipendenti ed è
subordinata al conseguimento del titolo universitario abilitante. Il
pagamento della quota di iscrizione, tuttavia, non deve ricadere sulle
spalle del professionista se questo lavora per un ente pubblico.
Nel
stabilire questo concetto, il tribunale riporta l'inciso della
sentenza 16.04.2015 n. 7776
della Cassazione secondo cui: «quando sussiste il vincolo di
esclusività, l'iscrizione all'albo è funzionale allo svolgimento di
un'attività professionale svolta nell'ambito di una prestazione di lavoro
dipendente, pertanto la relativa tassa rientra tra i costi per lo
svolgimento di dette attività che dovrebbero, in via normale, gravare
sull'ente che beneficia in via esclusiva dei risultati di detta attività».
L'infermiere dipendente di azienda pubblica, secondo il tribunale, riveste
una posizione del tutto analoga a quella dell'avvocato al servizio di un
ente pubblico, in quanto «tenuto a prestare la propria attività lavorativa
alle dipendenze della Pa con obbligo di esclusività nei confronti di quest'ultima
non potendo esercitare in altri contesti libero professionali». Inoltre:
«non vi è motivo di ritenere una qualche supremazia della professione
forense rispetto alle altre che legittimi una diversità di trattamento.
Nella richiamata sentenza della Suprema Corte si afferma un principio
generale valido per tutti i professionisti dipendenti e non certo solo per i
legali».
Il principio ricordato dal tribunale fa riferimento al fatto che
nel lavoro dipendente si riscontra l'assunzione a compiere un'attività per
conto e nell'interesse altrui, pertanto la soluzione di far cadere la quota
in capo all'ente risponde ad un principio generale secondo cui il mandante è
obbligato a tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale
che lo stesso abbia subito in conseguenza dell'incarico, fornendogli i mezzi
patrimoniali necessari. Visto che l'infermiere dipendente pubblico svolge la
professione per incarico di un'azienda sanitaria, la stessa è obbligata a
tenerlo indenne da ogni spesa necessaria all'espletamento dell'incarico
professionale assunto come dipendente.
Quindi, «sicché ogni qualvolta venga
esercitata da quest'ultima attività professionale in regime di esclusività,
va riconosciuto in via generale il dovere giuridico del soggetto datoriale
di rimborsare al lavoratore i costi per l'esercizio dell'attività, fra cui
quello dell'iscrizione all'albo» (articolo ItaliaOggi del 14.09.2019). |
|
|
IN EVIDENZA |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO -
SEGRETARI COMUNALI: Sul
danno erariale derivante dal riconoscimento ex post, da parte del comune, di debiti a titolo di corrispettivi per lo svolgimento di
lavori saltuari e occasionali svolti da privati cittadini e sulla portata
dell'ex "parere di legittimità", del "parere di
regolarità tecnica" e del "parere di regolarità contabile".
Le delibere di Giunta oggetto del
presente giudizio non hanno valore come riconoscimento di debiti
fuori bilancio per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del Consiglio Comunale
consente l’imputazione del debito assunto irregolarmente al bilancio
dell’ente.
---------------
Sussiste la piena responsabilità del sindaco
e
degli assessori (Giunta Comunale)
per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un
organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente, soprattutto in assenza
dei presupposti normativi per l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o
per il riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
---------------
Parimenti responsabile il geometra responsabile dell’area
tecnica e del personale, per aver apposto il parere di regolarità tecnica in
calce alle delibere di cui è causa senza verificare la legittimità e
regolarità delle procedure relative alla fase dell’impegno
contabile e della spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori
e alla fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.
---------------
Altrettanto responsabile il segretario
comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica funzione di
garante della legalità e di correttezza amministrativa dell’azione dell’ente
locale, di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa
proprio in virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma ancor
prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma 85, della legge
citata, del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione giuntale
o consiliare, non costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario, l’evoluzione normativa in materia, ben lungi dall'evidenziare
una sottrazione del segretario in questione alla responsabilità
amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o
del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in
ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che non assume alcun
rilievo esimente l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha
espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di legittimità del
segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto affermato da questa
Corte, secondo cui la soppressione del parere di legittimità del segretario
su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio “non
esclude che permangano in capo al segretario tutta una serie di compiti ed
adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del
medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi,
pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con
l'Ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa
ricorrano gli specifici presupposti”.
Nel caso di specie, il segretario, partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto
svolgere la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza le gravi
violazioni di legge che, con l’approvazione delle delibere di
riconoscimento, si stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori
avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto
esigere la verbalizzazione della sua opposizione.
---------------
Non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del controllo
sulla regolarità e correttezza dell’azione amministrativa, rientri a pieno
titolo il controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività
amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità del fine
pubblico perseguito e la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.
Ne deriva che la lettura combinata dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL
permette di individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di regolarità
tecnica, che non si limita a verificare l’attendibilità tecnica della
soluzione proposta, ma involge l’insieme del procedimento amministrativo,
coprendo e inglobando le regole sia tecniche, di un determinato settore, che
quelle generali in ordine alla legittimità dell’azione amministrativa, ivi
compresa la legittimità della spesa, in considerazione del fatto che ciascun
centro di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo recante
spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di gestione assegnato al
proprio settore.
Invece, con il “parere di regolarità contabile” il fine perseguito dal
legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di
ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio
dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto,
in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel
tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica rilasciato
dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall’organo proponente)
della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e progetti del
bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.
Orbene, secondo il sistema delle competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate
dalla riforma operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della
legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di consiglio, non
rientra tra il controlli che il responsabile del servizio di ragioneria deve
effettuare prima dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto affermato in ordine
alle funzioni e responsabilità del segretario comunale, si ritiene che il
parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità della
spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta imputazione al capitolo
del bilancio dell’ente, la regolare copertura finanziaria e il rispetto
degli equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile del
servizio di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto
deliberativo, perché di competenza di altri organi istituzionali dell’ente.
---------------
La questione all’esame del Collegio riguarda una ipotesi di danno erariale
derivante dal riconoscimento ex post, da parte del Comune di Santa
Domenica Talao, di debiti a titolo di corrispettivi per lo svolgimento di
lavori saltuari e occasionali svolti da privati cittadini.
Il Procuratore regionale contesta agli odierni convenuti che, con l’adozione
delle diciannove delibere di giunta sopra citate, siano state violate le
disposizioni di cui agli artt. 191 e seguenti del TUEL che concernono
l’assunzione degli impegni di spesa negli enti locali, nonché dell’art. 36
del D.Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 92 del TUEL relativi all’utilizzo delle
forme di lavoro flessibile.
L’art. 191 del TUEL stabilisce che “Gli enti locali possono effettuare spese
solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente programma del
bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui
all’art. 153, comma 5”.
Il successivo comma 3 afferma che “Per i lavori pubblici di somma urgenza,
cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la
Giunta, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del
responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di
riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma
1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle
accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla
pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30
giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e
comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia
scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data
contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare”.
Orbene, dall’esame delle delibere di riconoscimento indicate nell’atto di
citazione non risulta che le stesse siano state precedute dalla necessaria
delibera a contrarre con il relativo impegno di spesa sul relativo capitolo
di bilancio con l’attestazione di copertura finanziaria da parte del
responsabile del servizio economico-finanziario.
Né dalle stesse è rinvenibile, al di là di un’apodittica affermazione, la
giustificazione di ragioni di urgenza o di eccezionalità e imprevedibilità
dell’evento che avrebbero potuto giustificare il ricorso alla procedura
disciplinata dal terzo comma del medesimo articolo 191 suddetto.
Stante quanto sopra, si sarebbe, allora, dovuto fare ricorso all’istituto
del riconoscimento del debito fuori bilancio di cui all’art. 194 del TUEL,
la cui competenza viene, però, ascritta al Consiglio comunale e non
all’organo esecutivo dell’ente locale.
Nel caso di specie, pertanto, il rapporto obbligatorio intercorre tra il
privato fornitore e il soggetto amministratore o funzionario o dipendente
dell’ente che ha consentito la prestazione, ai sensi del già richiamato art.
191, comma 4.
Inoltre, gli artt. 36 del D.Lgs. n 165/2001 e 92 del TUEL, richiamati dal
Procuratore nel suo atto di citazione, disciplinano la possibilità per le
pubbliche amministrazioni di ricorrere a forme contrattuali di lavoro
flessibile con rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato,
pieno o parziale, sempre, però, nel rispetto della disciplina vigente in
materia e “per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o
eccezionale, (sempre) nel rispetto delle condizioni e modalità di
reclutamento (del personale) assicurando la trasparenza ed escludendo ogni
forma di discriminazione".
Orbene, ai fini dell’accertamento della responsabilità dei convenuti citati,
ad avviso del Collegio, nessun rilievo assume il diverso inquadramento
giuridico dei fatti operato dai difensori.
Infatti, sia che tali interventi vengano inquadrati tra le “borse lavoro” o
tra gli “appalti di servizi”, in nessuno dei due casi vi è stato un atto
propedeutico –quale ad esempio un bando per l’assegnazione delle borse, o
una delibera di acquisizione dei servizi richiesti- che abbia concorso a
manifestare all’esterno una volontà in tal senso, da parte
dell’amministrazione del Comune di Santa Domenica Talao.
In tutti i casi, sia l’eventuale assegnazione della borsa o l’adozione di
qualsivoglia forma di lavoro flessibile sia, a maggior ragione, la
stipulazione di un contratto d’appalto di servizi, necessitano di una forma
scritta “ad substantiam”, nel pieno rispetto di uno dei principi cardine
dell’ordinamento giuridico, quando una delle parti contrattuali è una
Pubblica Amministrazione.
Tale principio è sancito dall’art. 17 della Legge di contabilità generale
dello Stato (R.D. n. 2440 del 1923) che, ammettendo anche forme più
semplificate di stipulazione contrattuale, prevede per tutte la forma
scritta (scrittura privata; obbligazione stesa ai piedi del capitolato; atto
separato sottoscritto; lettera commerciale).
Tale principio trova la sua giustificazione non solo e non tanto in ragioni
di ordine generale attinenti l’interesse pubblico perseguito dalla p.a., ma
anche nella considerazione che un’attività estremamente procedimentalizzata,
quale quella in esame, al di là del nomen juris utilizzato ai fini del suo
inquadramento, non sarebbe concepibile che possa essere conclusa con una
stipulazione orale.
Ciò anche perché la forma scritta rappresenta uno strumento indefettibile di
garanzia del regolare svolgimento dell'attività negoziale
della p.a., nell'interesse sia del cittadino sia della stessa
amministrazione e, conseguentemente, in assenza della forma scritta il
contratto è nullo (in terminis: Cass, sez. I civile, sent. n. 5263/2015; n.
7297/2009; sez. III civile, ord. n. 16307/2018).
Per il principio su esposto, prive di pregio, ad avviso del Collegio, sono
le contestazioni che le difese muovono all’atto di citazione secondo cui nel
caso di specie si verserebbe in una ipotesi di affidamento di un appalto di
servizi sotto soglia.
Infatti, il superamento o meno della “soglia” (art 29 del D.Lgs n. 163/2006
applicabile ratione temporis; oggi art. 36 del D.Lgs. n. 50/2016) implica
esclusivamente un maggiore o minore rigore nella scelta del contraente, ma
nessuna incidenza può avere in ordine alla necessaria forma scritta dei
contratti della p.a.
Atteso quanto sopra, ritiene il Collegio che nessuna valida obbligazione sia
sorta in capo all’amministrazione del Comune di Santa Domenica Talao e,
pertanto, sussiste la responsabilità amministrativo-contabile in capo ai
convenuti, in quanto con la loro condotta hanno causato un indubbio danno
erariale consistente nell’erogazione di corrispettivi non dovuti in quanto
conseguenti a obbligazioni nulle.
A ciò si aggiunga che sono state violate tutte le norme del TUEL (prima
citate) poste a presidio della correttezza delle procedure di spesa degli
enti locali e, per quanto già detto,
le delibere di Giunta oggetto del
presente giudizio non hanno nemmeno valore come riconoscimento di debiti
fuori bilancio per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del Consiglio Comunale
consente l’imputazione del debito assunto irregolarmente al bilancio
dell’ente.
In ordine alle singole condotte il Collegio svolge le seguenti
considerazioni.
Sussiste la piena responsabilità del sindaco Lu.Al.Gi.
e
degli assessori Es.Fu.Fr., La Gr.Ma.Gi., Fa.Gi., La.Ra.Ma., Le.Fr. e Pa.An.Sa.
per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un
organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente, soprattutto in assenza
dei presupposti normativi per l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o
per il riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
Inoltre, nessuna istruttoria è stata svolta dal sindaco o dai componenti la
giunta ma, soprattutto, nessuna prova viene fornita in ordine
all’eccezionalità e imprevedibilità dei lavori e alla loro utilità per il
Comune.
Parimenti responsabile il geom. Fa.Be., responsabile dell’area
tecnica e del personale, per aver apposto il parere di regolarità tecnica in
calce alle delibere di cui è causa senza verificare la legittimità e
regolarità delle procedure relative alla fase dell’impegno
contabile e della spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori
e alla fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.
In merito nessun valore esimente, ad avviso del Collegio, può avere la
perizia a firma del geom. To.Gr., datata 19.10.2016, in quanto riferentesi a delibere diverse rispetto a quelle oggetto della citazione in
questione.
Altrettanto responsabile il dott. Mo.Ca.An., segretario
comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica funzione di
garante della legalità e di correttezza amministrativa dell’azione dell’ente
locale, di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa
proprio in virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma ancor
prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma 85, della legge
citata, del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione giuntale
o consiliare, non costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario, l’evoluzione normativa in materia, ben lungi dall'evidenziare
una sottrazione del segretario in questione alla responsabilità
amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o
del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in
ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che non assume alcun
rilievo esimente l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha
espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di legittimità del
segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto affermato da questa
Corte, secondo cui la soppressione del parere di legittimità del segretario
su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio “non
esclude che permangano in capo al segretario tutta una serie di compiti ed
adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del
medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi,
pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con
l'Ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa
ricorrano gli specifici presupposti” (Sez. giur. Toscana, sent. n. 217/2012).
Il segretario Mo., partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto
svolgere la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza le gravi
violazioni di legge che, con l’approvazione delle delibere di
riconoscimento, si stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori
avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto
esigere la verbalizzazione della sua opposizione.
Niente di tutto questo è avvenuto, e pertanto deve confermarsi la
responsabilità del segretario comunale.
Considerazioni contrarie vanno svolte, invece, per la convenuta De Lu.Ma.Ro., quale responsabile del servizio economico-finanziario del
Comune, che ha emesso i relativi pareri di “regolarità contabile”.
Il responsabile del servizio economico-finanziario, ai sensi dell’art. 49
del TUEL, come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. b), del d.l. n.
174/2012, convertito in l. n. 213/2012, su ogni proposta di deliberazione ha
l’obbligo di esprimere un parere di regolarità contabile, qualora la stessa
comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico finanziaria
o sul patrimonio dell’ente.
Tale parere, che rientra tra quelli preventivi, è previsto dall’art. 147 del
TUEL, a mente del quale “Gli enti locali, nell'ambito della loro
autonomia normativa e organizzativa, individuano strumenti e metodologie per
garantire, attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile,
la legittimità, la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa”.
Il successivo art. 147-bis afferma che “Il controllo di regolarità
amministrativa e contabile è assicurato, nella fase preventiva della
formazione dell'atto, da ogni responsabile di servizio ed è esercitato
attraverso il rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la
regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. Il controllo
contabile è effettuato dal responsabile del servizio finanziario ed è
esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e del
visto attestante la copertura finanziaria”.
Pertanto, il legislatore della novella del 2012, con la suddetta norma ha
inteso differenziare il contenuto del “controllo di regolarità
amministrativa e contabile” (di competenza del responsabile del servizio o
della funzione), che si esprime attraverso il parere di regolarità tecnica e
riguarda la “regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa”, dal
“controllo contabile” che, esprimendosi attraverso il parere di regolarità
contabile (di competenza del responsabile di ragioneria), ha riguardo
all’aspetto meramente contabile e finanziario del provvedimento, attraverso,
anche, l’apposizione del visto attestante la copertura finanziaria.
Pertanto, non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del controllo
sulla regolarità e correttezza dell’azione amministrativa, rientri a pieno
titolo il controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività
amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità del fine
pubblico perseguito e la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.
Ne deriva che la lettura combinata dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL
permette di individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di regolarità
tecnica, che non si limita a verificare l’attendibilità tecnica della
soluzione proposta, ma involge l’insieme del procedimento amministrativo,
coprendo e inglobando le regole sia tecniche, di un determinato settore, che
quelle generali in ordine alla legittimità dell’azione amministrativa, ivi
compresa la legittimità della spesa, in considerazione del fatto che ciascun
centro di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo recante
spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di gestione assegnato al
proprio settore.
Invece, con il “parere di regolarità contabile” il fine perseguito dal
legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di
ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio
dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto,
in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel
tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica rilasciato
dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall’organo proponente)
della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e progetti del
bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.
Orbene, secondo il sistema delle competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate
dalla riforma operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della
legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di consiglio, non
rientra tra il controlli che il responsabile del servizio di ragioneria deve
effettuare prima dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto affermato in ordine
alle funzioni e responsabilità del segretario comunale, si ritiene che il
parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità della
spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta imputazione al capitolo
del bilancio dell’ente, la regolare copertura finanziaria e il rispetto
degli equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile del
servizio di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto
deliberativo, perché di competenza di altri organi istituzionali dell’ente.
Conseguentemente, ritiene il Collegio, di rigettare l’azione del Procuratore
regionale nei confronti di De Lu.Ma.Ro..
Al proscioglimento segue il rimborso delle spese di lite, poste a carico
dell’Amministrazione comunale, che si liquidano equitativamente in euro
1.500,00.
Riguardo alla quantificazione del danno e alla sua ripartizione fra i
rimanenti convenuti, si condivide parzialmente quanto indicato in citazione
e quindi:
...
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la regione Calabria,
definitivamente pronunciando, in accoglimento parziale dell’atto di
citazione:
assolve Ma.Ro. De Lu. da ogni addebito e liquida alla medesima a
titolo di spese del giudizio la somma di € 1.500,00 oltre IVA, CPA e spese
generali come per legge, posta a carico dell’Amministrazione di
appartenenza;
condanna i sotto elencati convenuti al pagamento in favore del Comune di
Santa Domenica Talao delle somme:
1) Lu.Al.Gi., € 2.294,00 oltre alla rivalutazione monetaria
e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
2) La Gr.Ma.Gi., € 679,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
3) Es.Fu.Fr., € 369,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
4) Fa.Gi., € 690,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli
interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo
soddisfo.
5) La Bo.Ra.Ma., € 1.425,00, oltre alla rivalutazione
monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
6) Pa.An.Sa., € 25,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
7) Le.Fr., € 340,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli
interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo
soddisfo.
8) Mo.Ca.An., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
9) Fa.Be., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli
interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo
soddisfo (Corte dei Conti, sez. giurisdiz, Calabria,
sentenza 27.05.2019 n. 185). |
|
|
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Edilizia
popolare, le modalità di calcolo del corrispettivo di svincolo competono al
Ministero.
La possibilità di affrancamento dei soggetti contraenti convenzioni di
edilizia popolare dal vincolo del prezzo massimo di cessione è disciplinata
dalla legge e può essere autorizzata solo nel rispetto delle competenze,
delle modalità e delle forme di garanzia disciplinate.
Con il
parere 25.09.2019 n. 368,
la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia ha
chiarito che la competenza alla definizione della percentuale necessaria al
calcolo del corrispettivo dovuto è sottratta alla potestà decisionale dei
Comuni e ritorna a essere a tutti gli effetti di natura ministeriale.
Il nuovo assetto regolatorio della materia attribuisce a un decreto
attuativo del ministero dell'Economia e delle Finanze il compito di
individuare le modalità che dovranno seguire i Comuni per concedere le
dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancamento e le eventuali
forme di garanzia concesse.
La competenza sulle modalità di calcolo del corrispettivo
di svincolo
Già l'articolo 5, comma 3-bis, della legge 106/2011 prevedeva una specifica
e definita procedura di affrancamento dai vincoli in questione, finalizzata
ad agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari con riguardo
all'edilizia convenzionata. Secondo questa impostazione, per l'applicazione
della procedura di svincolo il venditore era tenuto a corrispondere al
Comune un corrispettivo da calcolarsi sulla base dell'individuazione di
parametri che dovevano essere stabiliti a livello ministeriale, tramite un
decreto attuativo del ministero dell'Economia e delle Finanze.
Con la legge 14/2012 (articolo 29, comma 16-undecies) la competenza è
temporaneamente attribuita ai Comuni, fino all'emanazione di una ulteriore
modifica all'articolo 31 della legge 448/1998 che, riprendendo e correggendo
la formulazione originaria, riassegna al ministero dell'Economia e delle
Finanze la competenza in materia di individuazione delle percentuali di
calcolo del corrispettivo di svincolo.
Le regole sullo svincolo
Secondo le vigenti disposizioni, i vincoli relativi alla determinazione del
prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze,
nonché del canone massimo di locazione, possono essere rimossi, dopo che
siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con
atto pubblico o scrittura privata autenticata.
La stipula dell'atto è effettuata a richiesta delle persone fisiche che vi
abbiano interesse, anche se non più titolari di diritti reali sul bene
immobile ed è prevista la trascrizione presso la conservatoria dei registri
immobiliari. Il corrispettivo da pagare deve essere proporzionale alla
corrispondente quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto
di superficie, e può prevedere eventuali riduzioni in relazione alla durata
residua del vincolo, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze,
previa intesa in sede di Conferenza unificata.
Il decreto individua altresì i criteri e le modalità per la concessione da
parte dei Comuni di dilazioni di pagamento del corrispettivo di
affrancamento dal vincolo. In pendenza della rimozione dei vincoli, il
contratto di trasferimento dell'immobile non produce effetti limitatamente
alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
23.10.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Nelle more dell'emanazione del decreto del Ministro Economia e
Finanze di cui all'art. 31, comma 49-bis, della L. 23.12.1998, n. 448
novellato dall'art. 25-undecies, D.L. 23.10.2018, n. 119 convertito con L.
17.12.2018, n. 136, quale normativa si applica per il calcolo del
corrispettivo per la rimozione dei vincoli su prezzo massimo di cessione e
sul canone massimo di locazione di cui alla citata L. 23.12.1998, n. 448?
L'istituto della "rimozione del vincolo di determinazione prezzi"
nell'ambito degli edifici rientranti nell'alveo dell'edilizia residenziale
pubblica, è stato introdotto dall'art. 5, comma 3-bis, del D.L. 13.05.2011,
n. 70 (convertito in L. 12.07.2011, n. 106), il quale aggiunse il comma
49-bis all'art. 31, della L. 23.12.1998, n. 448.
In base a tale istituto, è possibile rimuovere il vincolo sul prezzo di
cessione e sul canone di locazione, in presenza dei seguenti presupposti:
- Decorrenza di almeno 5 anni dalla data del primo trasferimento.
- Presentazione di una specifica richiesta al Comune.
- Versamento di un corrispettivo, al momento della stipula di una
specifica convenzione, soggetta a trascrizione.
In buona sostanza, attraverso la rimozione del vincolo, i prezzi di cessione
e di locazione ridiventano "liberi", nel senso che è possibile
procedere alla vendita e locazione a prezzi di mercato e non più calmierati.
Con l'art. 25-undecies, comma 1, lett. a, del D.L. 23.10.2018, n. 119,
convertito in L. 17.12.2018, n. 136, sono state apportate modificazioni alla
disciplina dell'istituto. In particolare, sono state introdotte
modificazioni in relazione alla competenza del soggetto legittimato a
determinare il predetto corrispettivo per la rimozione.
Ed, infatti, in sede di quesito, si chiede, appunto, di sapere quale
normativa applicare per il calcolo del corrispettivo.
Orbene, prima delle modificazioni del 2018, la competenza per la
determinazione della percentuale per il calcolo del corrispettivo, dapprima
attribuita al Ministero dell'economia e delle finanze (previa intesa in sede
di Conferenza Unificata), era stata successivamente devoluta, con decorrenza
dal 01.01.2012, ai Comuni. Ciò, in forza del disposto dell'art. 29, comma
16-undecies, del D.L. 29.12.2011, n. 216, convertito in L. 24.02.2012, n.
14.
Ora, con la novella normativa del 2018, si è ritornati alla disciplina
originaria, con la devoluzione della competenza in favore del Ministero
dell'economia e delle finanze (sempre previa intesa in sede di Conferenza
Unificata). La novella disposizione normativa è ben chiara al riguardo: "La
percentuale di cui al presente comma è stabilita, anche con l'applicazione
di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con
decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di
Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo
28.08.1997, n. 281".
Purtroppo, l'indicato decreto ministeriale non è stato ancora emanato, per
cui insorge il dubbio se i Comuni abbiano ancora uno spazio di competenza in
tema di determinazione del corrispettivo di rimozione vincolo.
Occorre osservare che non esiste alcuna altra fonte normativa, su cui
fondarsi per poter ritenere sussistente una residuale competenza comunale in
materia. Con la novella normativa del 2018, il soggetto competente in tema
di corrispettivo è solo ed esclusivamente il Ministero, ragion per cui
diversi Comuni hanno sospeso (taluni solo di fatto, altri attraverso
un'esplicita deliberazione di Giunta) ogni decisione, con conseguente
interruzione dei procedimenti in materia.
Ritornare al pregresso criterio di determinazione fissato dal Comune non è
più possibile e parimenti sconsigliabile appare la scelta di adottare un
nuovo criterio, inserendo poi in sede di contratto una clausola di revisione
del prezzo in caso di sopravvenienza di un diverso criterio ministeriale.
Infatti, ciò che deve essere ben evidenziato è che il Comune, dal 2018, non
ha più alcuna competenza in materia.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 23.12.1998, n. 448, art. 31 - D.L. 13.05.2011, n. 70, art. 5 - L.
12.07.2011, n. 106 - D.L. 23.10.2018, n. 119, art. 25-undecies - L.
17.12.2018, n. 136 (30.09.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Sulla possibilità di affrancazione dei soggetti contraenti convenzioni di
edilizia popolare dal vincolo del prezzo massimo di cessione.
Agli interrogativi:
1- se sia possibile da parte della Giunta comunale rimuovere “il
prezzo imposto” oppure eliminare la convenzione, liberando i proprietari
dall’obbligo di corrispondere a favore del comune la somma di svincolo la
risposta è che ... si conferma la
possibilità di svincolo che può avvenire solamente tramite la procedura di
affrancazione prevista ex
legge n. 136 del 17.12.2018 (di conversione, con modificazioni, del D.L. n.
119 del 23.10.2018) art. 25-undecies;
2- se in attesa del decreto attuativo del Ministero dell’Economia e
delle Finanze per l’attivazione della procedura di affrancazione dai
vincoli, previsto dall’art. 25-undecies della legge 136/2018 si possa
considerare ancora applicabile la norma di cui all’art. 29, comma
16-undecies, del DL 216/20011 convertito in Legge 14/2012 che attribuiva ai
comuni la competenza in materia di calcolo del valore dell’affrancazione dai
vincoli del prezzo massimo la risposta è che ... la
competenza alla definizione della percentuale necessaria al calcolo del
corrispettivo dovuto al Comune, viene sottratta alla potestà decisionale del
Comuni e ritorna ad essere a tutti gli effetti di natura ministeriale;
3- se sia possibile procedere in ogni caso con la presentazione di
fideiussione al Comune da parte del venditore del corrispettivo risultante
dall’applicazione del comma 48 dell’art. 31 della legge 448/1998 la risposta
è che ... la novella (legge
n. 136 del 17.12.2018 (di conversione, con modificazioni, del D.L. n. 119
del 23.10.2018) art. 25-undecies) inserisce nel quadro
regolatorio un nuovo aspetto non definito in precedenza, attribuendo allo
stesso decreto attuativo del Ministero dell’Economia e delle Finanze il
compito di individuare le modalità che dovranno seguire i Comuni per
concedere le dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancamento e
dunque, si intende, le eventuali modalità e forme di garanzia delle
dilazioni stesse.
---------------
Con la nota sopra citata, il Sindaco del Comune di Arconate (MI) pone un
quesito in materia di applicazione dell’art. 49-bis della legge 448/1998
così come riformulato dalla legge 136 del 2018, in merito alla possibilità
di affrancazione dei soggetti contraenti convenzioni di edilizia popolare
dal vincolo del prezzo massimo di cessione.
In particolare, il Comune di Arconate ha stipulato convenzioni ai sensi
dell’art. 35 della legge 865 del 1971 per la cessione di aree sia in diritto
di superficie, sia in diritto di proprietà nell’ambito di un piano di zona
per l’edilizia economica popolare (PEEP) nelle quali si prevede che i
trasferimenti di proprietà successivi al primo dovranno avvenire ad un
prezzo massimo determinato dal Comune.
Poiché numerosi cittadini hanno richiesto la rimozione di tale vincolo
il Comune chiede, in
primo luogo, se sia possibile da
parte della Giunta comunale rimuovere “il prezzo imposto” oppure
eliminare la convenzione, liberando i proprietari dall’obbligo di
corrispondere a favore del Comune di Arconate la somma di svincolo.
In secondo luogo,
si chiede se in attesa del decreto attuativo del Ministero dell’Economia e
delle Finanze per l’attivazione della procedura di affrancazione dai
vincoli, previsto dall’art. 25-undecies della legge 136/2018 si possa
considerare ancora applicabile la norma di cui all’art. 29, comma
16-undecies, del DL 216/20011 convertito in Legge 14/2012 che attribuiva ai
comuni la competenza in materia di calcolo del valore dell’affrancazione dai
vincoli del prezzo massimo.
In terzo luogo,
si chiede se sia possibile procedere in ogni caso con la presentazione di
fideiussione al Comune da parte del venditore del corrispettivo risultante
dall’applicazione del
comma 48 dell’art. 31 della legge 448/1998.
Infine, si
chiede se i proprietari delle unità abitative di cui si tratta possano
stipulare atti di vendita delle unità medesime ad un prezzo maggiore
rispetto a quello vincolato, subordinando il pagamento della differenza alla
condizione sospensiva dell’affrancazione dal vincolo.
...
La questione della rimozione dei vincoli di prezzo alla cessione degli
immobili realizzati tramite edilizia convenzionata ha avuto nel tempo una
evoluzione articolata. A introdurre la possibilità di superare tali vincoli
è stata la
Legge 12.07.2011, n. 106 che all’art. 5 comma 3-bis afferma:
“Per agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari, dopo il comma 49
dell'articolo 31 della legge 23.12.1998, n. 448, sono inseriti i seguenti:
49-bis. I vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo
di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché del
canone massimo di locazione delle stesse, contenuti nelle convenzioni di cui
all'articolo 35 della legge 22.10.1971, n. 865, e successive modificazioni,
per la cessione del diritto dì proprietà, stipulate precedentemente alla
data di entrata in vigore della legge 17.02.1992, n. 179, ovvero per la
cessione del diritto di superficie, possono essere rimossi, dopo che siano
trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con
convenzione in forma pubblica stipulata a richiesta del singolo proprietario
e soggetta a trascrizione per un corrispettivo proporzionale alla
corrispondente quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto
di superficie, in misura pari ad una percentuale del corrispettivo
risultante dall'applicazione del comma 48. La percentuale di cui al presente
comma è stabilita, anche con l'applicazione di eventuali riduzioni in
relazione alla durata residua del vincolo, con decreto di natura non
regolamentare del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa con
la Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo
28.08.1997, n. 281.
49-ter. Le disposizioni di cui al comma 49-bis si applicano anche
alle convenzioni di cui all'articolo 18 del testo unico di cui al d.P.R.
06.06.2001, n. 380.".
Questa norma, emanata nel 2011 dunque già prevedeva una specifica e definita
procedura di affrancazione dai vincoli suddetti, finalizzata ad agevolare il
trasferimento dei diritti immobiliari con riguardo all’edilizia
convenzionata. Già quella norma infatti prevedeva che per l’applicazione di
tale procedura il venditore corrispondesse al Comune un corrispettivo da
calcolarsi secondo le modalità indicate e sulla base dell’individuazione di
parametri che dovevano essere stabiliti a livello ministeriale, tramite un
decreto attuativo del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Di conseguenza, è già a partire dal 2011 che viene affrontata la questione
dell’affrancazione dal vincolo: esso non può essere rimosso, se non
attraverso appunto l’applicazione delle specifiche norme previste a tal fine
e l’utilizzo dei parametri per il calcolo del corrispettivo da assegnare al
Comune, la cui definizione si stabilisce sia appunto di competenza
ministeriale.
Successivamente, l’art.
29, comma 16-undecies della Legge 24.02.2012, n. 14 (conversione del
decreto-legge 29.12.2011, n. 216), interviene a modificare la
competenza alla definizione della percentuale necessaria a calcolare il
valore del corrispettivo di svincolo da attribuire al Comune. La novella
normativa prevede infatti che “A decorrere dal 01.01.2012, la percentuale
di cui al comma 49-bis dell’articolo 31 della legge 23.12.1998, n. 448, è
stabilita dai comuni.”
In questo modo la competenza a stabilire le modalità di calcolo del
corrispettivo di svincolo di fatto viene trasferita ai Comuni, eliminando in
tal modo la necessità dell’emanazione del decreto attuativo del Ministero
dell’Economia e delle finanze.
Tuttavia, è più recentemente intervenuta una ulteriore modifica alla
formulazione del
comma 49-bis dell’art. 31 della legge 448/1998 che riprendendo e
correggendo la formulazione originaria, ha così di nuovo assegnato al
Ministero dell’Economia e delle Finanze la competenza in materia di
individuazione delle percentuali di calcolo del corrispettivo di svincolo.
Infatti, la
legge n. 136 del 17.12.2018 (di conversione, con modificazioni, del D.L. n.
119 del 23.10.2018), ove l’art. 25-undecies sostituisce integralmente il
comma 49-bis e introduce il comma 49-quater dell’art. 31 della L. 448/1998
come segue:
"49-bis. I vincoli relativi alla determinazione del prezzo
massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché
del canone massimo di locazione delle stesse, contenuti nelle convenzioni di
cui all'articolo 35 della legge 22.10.1971, n. 865, e successive
modificazioni, per la cessione del diritto di proprietà o per la cessione
del diritto di superficie, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi
almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con atto pubblico o
scrittura privata autenticata, stipulati a richiesta delle persone fisiche
che vi abbiano interesse, anche se non più titolari di diritti reali sul
bene immobile, e soggetti a trascrizione presso la conservatoria dei
registri immobiliari, per un corrispettivo proporzionale alla corrispondente
quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto di superficie,
in misura pari ad una percentuale del corrispettivo risultante
dall'applicazione del comma 48 del presente articolo. La percentuale di cui
al presente comma è stabilita, anche con l'applicazione di eventuali
riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto del
Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza
unificata ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 28.08.1997, n.
281. Il decreto di cui al periodo precedente individua altresì i criteri e
le modalità per la concessione da parte dei comuni di dilazioni di pagamento
del corrispettivo di affrancazione dal vincolo. Le disposizioni di cui al
presente comma non si applicano agli immobili in regime di locazione ai
sensi degli articoli da 8 a 10 della legge 17.02.1992, n. 179, ricadenti nei
piani di zona convenzionati;
49-quater. In pendenza della rimozione dei vincoli di cui ai commi
49-bis e 49-ter, il contratto di trasferimento dell'immobile non produce
effetti limitatamente alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo
vincolato. L'eventuale pretesa di rimborso della predetta differenza, a
qualunque titolo richiesto, si estingue con la rimozione dei vincoli secondo
le modalità di cui ai commi 49-bis e 49-ter. La rimozione del vincolo del
prezzo massimo di cessione comporta altresì la rimozione di qualsiasi
vincolo di natura soggettiva”.
Questa nuova formulazione della norma, collocata nel suo quadro evolutivo
più generale, risulta dunque molto chiara per la risposta ai tre quesiti
ammissibili proposti dal Comune di Arconate.
In primo luogo, si conferma che la possibilità di
svincolo può avvenire solamente tramite la procedura di affrancazione
prevista, in secondo luogo
che la competenza alla definizione della percentuale
necessaria al calcolo del corrispettivo dovuto al Comune, viene sottratta
alla potestà decisionale del Comuni e ritorna ad essere a tutti gli effetti
di natura ministeriale.
In terzo luogo, la novella inserisce nel quadro
regolatorio un nuovo aspetto non definito in precedenza, attribuendo allo
stesso decreto attuativo del Ministero dell’Economia e delle Finanze il
compito di individuare le modalità che dovranno seguire i Comuni per
concedere le dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancamento e
dunque, si intende, le eventuali modalità e forme di garanzia delle
dilazioni stesse.
Il quarto quesito posto dal Comune di Arconate, inammissibile sotto
il profilo oggettivo in quanto riferito all’interpretazione di questioni
relative a rapporti economici tra soggetti privati, non può essere trattato
nel merito (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 25.09.2019 n. 368). |
|
|
IN EVIDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Prestazioni professionali a titolo gratuito: i Professionisti Tecnici
attaccano la sentenza del TAR.
Il commento della Rete Professioni Tecniche sul pronunciamento dello scorso
30 settembre del Tar Lazio che dichiara legittimo un bando del Ministero
dell’Economia che non prevedeva compenso (31.10.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Attività professionali a titolo gratuito e sentenza TAR: presentata
interrogazione al Senato.
La questione sollevata dal TAR Lazio è giunta all’attenzione del Parlamento,
del Ministro della Giustizia e del MEF
(14.10.2019 - link a
www.casaeclima.com).
---------------
Al riguardo, si legga l'interrogazione
a risposta scritta Atto n. 4-02259 pubblicato il 09.10.2019, nella seduta n.
153, a firma dei Senatori De Bertoldi e Ciriani (link a
www.senato.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Tar
Lazio: legittima la previsione di attività professionali a titolo gratuito.
Dichiarato legittimo l'avviso pubblico del Ministero dell'Economia nel quale
si chiedeva la manifestazione di interesse per incarichi di consulenza a
costo zero (03.10.2019 - link a www.casaeclima.com). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Il
professionista può fare anche gratis consulenze per la PA. Il Tar Lazio
boccia il ricorso sul bando Mef. Non conta neanche l’equo compenso.
Il rapporto tra un’amministrazione pubblica e un
professionista può essere a titolo gratuito, se la consulenza ha regole
molto flessibili e dà porta arricchimento professionale.
Il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la
sentenza 30.09.2019 n. 11411,
torna sul tema, delineando le condizioni perché sia possibile una
collaborazione senza compenso.
La pronuncia si riferisce a un avviso pubblicato a febbraio dal ministero
dell’Economia alla ricerca di un supporto tecnico ad elevato contenuto
specialistico di professionalità altamente qualificate per svolgere
consulenze a titolo gratuito, sul diritto nazionale ed europeo societario,
bancario e dei mercati e intermediari finanziari (in vista anche
dell’adeguamento dell’ordinamento nazionale a quello comunitario).
L’avviso era rivolto a esponenti del mondo accademico e professionisti
(requisito di ammissione era una consolidata esperienza di almeno cinque
anni nel rispettivo settore) e prevedeva una durata biennale del rapporto,
senza rinnovo e con possibilità per il professionista di recedere (con
preavviso di 30 giorni) ma con obbligo di portare a termine un eventuale
studio che avesse iniziato.
Il Tar evidenzia anzitutto che l’avviso aveva ad oggetto una consulenza
eventuale e occasionale (seppure da svilupparsi in due anni), che, proprio
per tale condizione di fondo, non poteva qualificarsi come contratto di
lavoro autonomo.
Le modalità di affidamento in base all’articolo 7, comma 6, del Dlgs 165/2001
non sono quindi applicabili, anche perché l’avviso prevedeva la possibilità,
per il professionista, di recedere in ogni momento.
Secondo i giudici, l’obbligo di preavviso obbedisce a mera esigenza
organizzativa (l’amministrazione ha necessità di conoscere ex ante su quali
professionalità può contare in un determinato periodo), mentre l’obbligo di
concludere l’incarico è funzionale ad un’azione della pubblica
amministrazione efficace, che persegue il buon andamento: un’interruzione
potrebbe causare perdite di tempo e degli apporti qualificati.
Il Tar ha pure chiarito che il rapporto non può configurarsi come appalto di
servizi professionali: mancavano nell’avviso la previsione del numero ben
definito di incarichi da conferire, dell’individuazione puntuale
dell’oggetto e della consistenza di ciascun incarico, nonché una selezione
vera e propria, con graduatoria finale.
Così il Tar afferma quindi la legittimità del carattere gratuito della
consulenza, rilevando che nel nostro ordinamento non c’è alcun divieto in
tal senso. E precisa che la disciplina dell’equo compenso non si applica,
proprio perché il compenso non c’è. Nulla impedisce al professionista, senza
incorrere in alcuna violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare
la propria consulenza senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in
denaro.
Il professionista può invece in questo caso trarre vantaggi di natura
diversa, in termini di arricchimento professionale legato alla
partecipazione ad eventuali tavoli, allo studio di particolari problematiche
ed altro, nonché quale possibilità di far valere tutto ciò all’interno del
proprio curriculum vitae. Tale miglioramento professionale riguarda peraltro
sia i giovani professionisti, sia i soggetti con maggiore esperienza (articolo
Il Sole 24 Ore del 02.10.2019). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Incarichi
professionali a titolo gratuito nella P.A.: quando sono legittimi. Il Tar
Lazio chiarisce a quali condizioni è possibile affidare a dei professionisti
incarichi privi di compenso economico e consulenze a titolo gratuito.
Non esiste un divieto per le Pubbliche Amministrazione
di conferire incarichi professionali a titolo gratuito, in particolare se si
tratta di consulenza a carattere eventuale ed occasionale, mentre il
professionista ottiene vantaggi curriculari e di crescita professionale.
La giustizia amministrativa torna sulla questione della legittimità delle
procedure di affidamento di incarichi professionali a professionisti senza
un compenso, contro i quali gli ordini professionali hanno in questi anni
intrapreso una lotta decisa.
Secondo il Tar Lazio, è legittima la procedura del Ministero dell’Economia,
con la quale veniva ricercato un soggetto altamente specializzato, al fine
di svolgere consulenze a titolo gratuito, che avevano ad oggetto “il
diritto nazionale ed europeo societario, bancario e dei mercati e
intermediari finanziari, in vista anche dell’adozione o integrazione di
normative primarie e secondarie”.
A parere dei giudici amministrativi, per le Pubbliche Amministrazioni non
esiste un divieto di incarichi a titolo gratuito, neanche per effetto
dell’obbligo di equo compenso.
Nulla impedisce, infatti, al professionista, senza incorrere in alcuna
violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare la propria
consulenza senza pretendere e ottenere alcun corrispettivo in denaro, mentre
il professionista stesso può ricavare stimoli professionali e vantaggi
curriculari.
La consulenza occasionale non è un incarico di lavoro
autonomo o un appalto professionale
L’incarico affidato dal Ministero dell’Economia era di durata biennale, era
previsto senza possibilità di rinnovo, ma con possibilità, per il
professionista, di recedere, con preavviso di 30 giorni, fermo restando
l’obbligo, per lo stesso, di portare a termine un eventuale studio che
avesse iniziato.
A parere della sentenza in commento, il carattere eventuale ed occasionale
della consulenza, seppure nell’arco temporale ordinariamente di due anni,
non la rende qualificabile come contratto di lavoro autonomo.
Ciò viene desunto anche dalla previsione della possibilità, per il
professionista, di porre comunque fine unilateralmente all’incarico in
qualunque momento, senza che militino in senso contrario il preavviso di 30
giorni per esercitare tale diritto né la previsione dell’obbligo, per il
professionista, di concludere la propria attività su eventuali questioni in
corso.
L’obbligo di preavviso non eliminerebbe il carattere eventuale della
consulenza, ma obbedirebbe ad una mera esigenza organizzativa: in altre
parole, l’Amministrazione ha necessità di conoscere ex ante sull’apporto di
quali professionalità nell’esame di questioni rilevanti può contare in un
determinato periodo, dato che un’interruzione potrebbe determinare perdite
di tempo e degli apporti qualificati già conferiti dai professionisti che
non intendano più portare avanti la consulenza.
Dall’altro lato, la procedura non era un servizio professionale da svolgere
sulla base del codice appalti, data l’assenza di una previsione del numero
ben definito di incarichi da conferire, dell’individuazione puntuale
dell’oggetto e della consistenza di ciascun incarico, nonché mancando una
selezione vera e propria, con una graduatoria finale.
La possibilità di un incarico a titolo gratuito non è
vietato dalla legge, e anzi è nell’interesse del professionista
Secondo la sentenza del Tar Lazio, nel nostro ordinamento non si rinviene
alcun divieto di conferire incarichi a titolo gratuito.
Infatti lo stesso obbligo di un equo compenso deve intendersi nel senso che,
laddove il compenso in denaro sia stabilito, esso non possa che essere equo.
Mentre non si può desumere un obbligo implicito di onerosità di tutte le
prestazioni.
E pertanto nessuna norma impedisce al professionista (secondo il TAR senza
incorrere in alcuna violazione, neppure del Codice deontologico) di prestare
la propria consulenza senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in
denaro.
I vantaggi per il professionista che presta la propria
opera a titolo gratuito
L’attività di consulenza, pur non dando vantaggi economici, potrebbe
arrecare vantaggi di natura diversa, in termini di arricchimento
professionale legato alla partecipazione ad eventuali tavoli, allo studio di
particolari problematiche ed altro, nonché quale possibilità di far valere
tutto ciò all’interno del proprio curriculum vitae, in particolare per
professionisti ancora giovani che, sebbene qualificati, trovino ancora molti
stimoli professionali nell’attività descritta nell’avviso e ravvisino
altresì nella stessa un’opportunità per arricchire il proprio curriculum.
D’altronde anche professionisti con un bagaglio professionale consistente
potrebbero avere interesse, in quanto stimolante, a contribuire, con la
propria professionalità, all’elaborazione di norme per l’adeguamento
dell’ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari, oggetto
della consulenza (02.10.2019 - commento tratto da
www.giurdanella.it).
---------------
... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dell’avviso
pubblico del Ministero dell’Economia e delle Finanze in data 27.02.2019, di manifestazione di interesse per il conferimento di incarichi di
consulenza a titolo gratuito sul diritto nazionale ed europeo societario,
bancario e dei mercati e intermediari finanziari, in vista anche
dell’adozione o integrazione di normative primarie e secondarie, ai fini,
tra l’altro, dell’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive e
regolamenti comunitari;
...
I - Con avviso pubblicato in data 27.02.2019 sul sito web del
Ministero dell’Economia e delle Finanze, detta Amministrazione ha reso noto
che intendeva cercare un supporto tecnico ad elevato contenuto specialistico
di professionalità altamente qualificate per svolgere consulenze a titolo
gratuito, sul diritto nazionale ed europeo societario, bancario e dei
mercati e intermediari finanziari, in vista anche dell’adozione o
integrazione di normative primarie e secondarie, ai fini, tra l’altro,
dell’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive e regolamenti
comunitari.
Detto avviso era diretto ad esponenti del mondo accademico e professionisti.
Ed infatti, quale requisito di ammissione, veniva richiesta “consolidata e
qualificata esperienza accademica e/o professionale documentabile (di almeno
5 anni), anche in ambito europeo o internazionale, negli ambiti tematici del
diritto societario, bancario, pubblico dell’economia o dei mercati
finanziari o dei principi contabili e bilanci societari; lingua inglese
fluente”.
Era prevista una durata biennale, senza possibilità di rinnovo, ma con
possibilità, per il professionista, di recedere, con preavviso di 30 giorni,
fermo restando l’obbligo, per lo stesso, di portare a termine un eventuale
studio che avesse iniziato.
II - Avverso tale avviso il ricorrente, che dichiara di essere avvocato con
esperienza ultratrentennale nelle materie in questione, ha proposto il
gravame in esame, rappresentando di non avervi aderito, stante il carattere
gratuito dell’incarico, che contesta in questa sede.
I motivi di censura dedotti sono i seguenti:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 6 e 6-bis, del d.lgs.
n. 165/2001 - omissione o carenza dei requisiti essenziali dell’atto
amministrativo - omessa o carente motivazione - violazione e falsa
applicazione della legge n. 241/1990 e dei principi di legge e regolamento
in materia di azione amministrativa - eccesso di potere - eccesso di potere
per violazione dei canoni di congruità, adeguatezza, imparzialità e
trasparenza dell’azione amministrativa - carenza di istruttoria e
motivazione - violazione del principio di par condicio.
L’oggetto dell’avviso sarebbe una prestazione lavorativa di natura
professionale.
La stipula di un contratto scritto, la durata prolungata e predeterminata,
l’obbligo del preavviso di 30 giorni in caso di rescissione, e ancor di più
“l’obbligo del consulente di concludere la propria attività su eventuali
questioni in corso” sarebbero tutti elementi che concorrono ad affermare che
la consulenza in parola sia appunto, come dice la parola stessa, una
“consulenza”, ossia una prestazione professionale.
Essendo prevalente il “carattere personale o intellettuale della prestazione
richiesta”, anziché quello imprenditoriale, l’incarico al professionista
esterno sarebbe riconducibile al contratto d’opera (art. 2222 cod. civ.), in
particolare, al contratto d’opera intellettuale (art. 2229 cod. civ.),
Dall’esame degli atti si dedurrebbe inoltre che il Ministero intimato
intende conferire un incarico individuale ai sensi dell’art. 7, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165/2001.
In tal senso deporrebbero, oltre alla natura della prestazione ed ai
requisiti richiesti, che ricalcano quelli della norma citata, anche la
pubblicazione nella Sezione Concorsi del sito web, la previsione di un
incarico biennale non rinnovabile, la specificazione che la competenza “non
è rinvenibile nella struttura”, la predeterminazione di “durata, oggetto e
compenso della collaborazione”.
Essa costituirebbe certamente una prestazione lavorativa resa in un rapporto
di lavoro autonomo di natura professionale.
Ciò comporterebbe che al rapporto di specie si applicheranno certamente
l’art. 36 Cost. e la nuova disciplina dell’equo compenso, che escludono in
radice la possibilità di stipulare un contratto professionale a titolo
gratuito tra professionista e Pubblica Amministrazione.
In ogni caso, anche considerando la fattispecie in esame come appalto di
servizi, pur se inquadrata nella fattispecie di cui all’art. 57, comma 2,
lettera b), del d.lgs. 163/2006 ed all’art. 36, comma 2, lettera a), del
d.lgs. n. 50/2016, o comunque rientrante nella categoria dei “contratti
esclusi” ai sensi degli artt. 17 e 4 del medesimo decreto, avrebbero dovuto
osservarsi i principi generali dell’agere amministrativo (art. 97 Cost.),
ovvero dell’economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento,
trasparenza e proporzionalità, e si sarebbe comunque dovuta applicare la
disciplina dell’equo compenso, che ad oggi è estesa ad ogni rapporto tra
professionisti e Pubblica Amministrazione.
Come ampiamente motivato in precedenza, troverebbero applicazione la
disciplina generale di cui all’art. 7, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n.
165/2001 e le disposizioni normative nel frattempo intervenute in materia di
incarichi.
Perciò l’Amministrazione dovrebbe: a) verificare che la prestazione
richiesta sia inerente alle proprie finalità istituzionali (c.d. inerenza);
b) avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare
le risorse umane disponibili al suo interno (c.d. non intraneità); c) sul
piano qualitativo, essere motivata da una particolare expertise di carattere
particolarmente qualificato (c.d. specialità) disponibile solo sul mercato,
per l’espletazione dell’incarico esterno.
L’avviso sarebbe completamente carente di motivazione, atteso che non solo
questa mancherebbe in ordine all’accertamento reale sull’assenza di servizi
o di professionalità, interne all’Ente, in grado di espletare l’incarico –essa si limiterebbe al solo mero inciso “non rinvenibile all’interno della
struttura”-, ma soprattutto non sarebbe stato neanche mai chiarito il
riferimento normativo della procedura avviata.
Nella specie tra gli elementi essenziali dell’atto amministrativo sarebbero
assenti il preambolo, la motivazione (come già evidenziato prima), il luogo
e la data in cui è stato emanato il provvedimento e la determinazione del
compenso.
Correlato all’obbligo di determinare il compenso vi sarebbe quello di
acquisire il parere obbligatorio del Collegio dei revisori dell’Ente, ai
sensi dell’art. 1, comma 42, della legge n. 311/2004, prima di emanare il
relativo avviso, il che nel caso in esame non sarebbe avvenuto o, quanto
meno, non risulta richiamato nell’atto.
A questo si aggiungerebbe il necessario carattere eccezionale e temporaneo
dell’incarico de quo, che non sembrerebbe rispettato, stante la durata
biennale del contratto.
2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 6 e 6-bis, del d.lgs.
n. 165/2001 - violazione della legge n. 247/2012 - violazione dell’art. 4
del d.lgs. n. 50/2016 - violazione del D.M. n. 55/2014 - violazione della
legge 04.12.2017, n. 172 - violazione dell’articolo 19-quaterdecies,
comma 3, del decreto legge 16.10.2017, n. 148, convertito, con
modificazioni, dalla legge 04.12.2017, n. 172 - violazione del diritto
all’equo compenso - eccesso di potere per travisamento dei presupposti,
sviamento, disparità di trattamento, manifesta illogicità, irragionevolezza
ed ingiustizia.
L’avviso propone un affidamento a titolo gratuito per tutti gli incarichi di
consulenza; ciò sarebbe abnorme ed irragionevole.
L’impugnata clausola in esame ricadrebbe nella categoria delle “clausole
immediatamente escludenti”, da impugnare immediatamente con il bando di
indizione della procedura selettiva, senza attendere l’atto di approvazione
della graduatoria definitiva o l’aggiudicazione, che definisce la procedura
concorsuale.
Sussisterebbe un netto contrasto con la recente riforma dell’equo compenso.
La legge n. 172/2017, di conversione del d.l. n. 148/2017 (c.d. Decreto
Fiscale), con l’art. 19-quaterdecies ha introdotto l’art. 13-bis alla Legge
Forense (legge n. 247/2012), sull’equo compenso. Il medesimo articolo ha
esteso a tutti i lavoratori autonomi l’applicazione della previsione
originariamente a favore degli avvocati e al contempo ne ha previsto
l’applicazione anche nei confronti delle prestazioni a favore della Pubblica
Amministrazione.
La Legge di Bilancio 2018 (legge n. 205/2017), ai commi 487 e 488 dell’art.
1, ha allargato ulteriormente questa disciplina, modificando l’art. 13-bis.
In particolare, vengono presunti non equi (con presunzione che non ammette
prova contraria) i compensi inferiori a quelli previsti dalle apposite
tabelle ministeriali: per gli avvocati si deve fare riferimento ai
“parametri” individuati in base al D.M. del 2014.
Tali compensi sarebbero da considerare nulli, proprio in quanto non equi,
senza possibilità di derogare a tale disciplina.
La norma parla di “prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di
incarichi conferiti”, per cui non distingue tra appalti di servizi,
incarichi legali fiduciari o incarichi professionali ex art. 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001.
La più recente giurisprudenza amministrativa, in un caso simile a quello qui
in esame, ha chiarito che la P.A. non può richiedere prestazioni gratuite ai
professionisti ed è illegittimo il bando che prevede prestazioni
professionali a titolo gratuito (Tar Campania–Napoli - sezione I -
ordinanza 24-25.10.2018, n. 1541).
Alla luce di quanto sopra, sarebbe priva di qualsiasi fondamento la
dichiarazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze nel suo comunicato
stampa, secondo cui: “Esula completamente da questi rapporti, quindi, il
tema dell’equo compenso che si riferisce a rapporti professionali di lavoro
nell’ambito del settore privato”.
La gratuità non sarebbe compatibile con l’obbligo di garantire il principio
dell'equo compenso che la legge impone ora alle Pubbliche Amministrazioni.
Questo principio è stato già affermato dalla più recente giurisprudenza
amministrativa: “La l. 04.12.2017, n. 172, nel convertire d.l. 16.10.2017, n. 148, vi ha inserito l’art. 19-quaterdecies, il quale, al
comma 3, stabilisce che la pubblica amministrazione, in attuazione dei
principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività,
garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni
rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di
entrata in vigore della citata legge di conversione” (Tar Calabria, sentenza
n. 1507/2018).
Peraltro l’equo compenso è applicabile, oltre che alle prestazioni degli
avvocati, anche a quelle degli altri professionisti di cui all’art. 1 della
legge 22.05.2017, n. 81, comprendendo iscritti agli ordini e collegi. E
sul punto l’art. 1 della legge n. 81/2017 fa esplicitamente riferimento “ai
rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del codice
civile, ivi inclusi i rapporti di lavoro autonomo che hanno una disciplina
particolare ai sensi dell'articolo 2222 del codice civile”, ossia proprio ai
contratti d’opera stipulati da qualsiasi professionista, in cui rientrano
certamente anche gli incarichi ex art. 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001, di
cui al caso di specie.
Nonostante l’avviso impugnato si rivolga ai professionisti in genere, senza
specificare una categoria in particolare, dal momento che esso ha ad oggetto
un incarico di consulenza legale, esso risulterebbe indirizzato
essenzialmente agli avvocati (art. 2 l. 247/2012).
Il D.M. 55 del 2014, che pone i parametri per la professione forense,
inclusi quelli per consulenze stragiudiziali, fissa come principio generale
che “il compenso dell’avvocato e proporzionato all’importanza dell’opera”
(art. 2).
Un’offerta pari a zero sarebbe quindi in palese contrasto con tale
principio.
Il D.M. parametri n. 37, approvato l’08.03.2018 ed in vigore a partire dal
27 aprile del medesimo anno, ha fissato dei minimi inderogabili nella
liquidazione giudiziale del compenso degli avvocati, proprio in applicazione
del principio dell’equo compenso.
Quindi l’illegittimità del bando riguarderebbe non soltanto la proposta di
una prestazione a titolo gratuito, ma anche il mancato rispetto dei
parametri professionali.
3) Violazione degli artt. 1, 4, 35, 36 e 97 Cost. - eccesso di potere per
irragionevolezza - violazione dell’art. 2233 c.c. e degli artt. 6, 9, 23 e
43 del Codice deontologico - eccesso di potere sotto i seguenti profili:
sviamento dalla causa tipica, illogicità, ingiustizia manifesta,
travisamento ed erroneità dei presupposti - violazione dei principi in
materia di indipendenza ed autonomia dei professionisti.
Il compenso previsto nel bando, pari a zero euro, e senza alcun rimborso
spese, sarebbe incostituzionale, irragionevole e sproporzionato rispetto
all’enorme mole del lavoro e alla quantità e qualità dell’attività
richiesta. Ne conseguirebbero la lesione del decoro e del prestigio del
professionista, nonché un danno ai suoi diritti costituzionali.
Al riguardo l’art. 2233 del codice civile, con riferimento all’art. 36 Cost.,
statuisce che nel contratto di prestazione d’opera intellettuale “in ogni
caso la misura del compenso deve essere adeguato all’importanza dell’opera e
al decoro della professione”.
Vi sarebbe quindi un coerente sviluppo normativo ed interpretativo
giurisprudenziale che conferma l’obbligo del rispetto di soglie numeriche
minime, volto a delineare un compenso equo, e quindi legittimo, perché
proporzionato all’opera e conforme al decoro professionale, per cui non
potrebbero farsi distinzioni, in ordine all’equità del compenso, tra
incarichi di lavoro autonomo, incarichi fiduciari ed appalti di servizi.
4) Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, lett. ii), 4, 95, 97 del
d.lgs n. 50/2016; degli artt. 3 e 97 Cost. e degli artt. 3 e 6 della legge
n. 241/1990 - eccesso di potere per illogicità, erroneità dei presupposti e
travisamento dei fatti.
L’offerta economica proposta dall’Amministrazione, che offre un compenso
pari a zero per una consulenza di natura biennale e altamente specialistica,
sarebbe anche distorsiva della competizione concorrenziale.
La compatibilità di un contratto “a titolo gratuito” o a prezzo simbolico
con i principi fondamentali del nuovo Codice appalti è stata più volte
criticata dalla giurisprudenza amministrativa, e in particolare il Tar
Calabria, in una recentissima pronuncia (Tar Calabria, sentenza 418/2018
del 16.07.2018)
Il Tar, dopo aver premesso che l’operatore economico è esonerato dal
poter o dover proporre la domanda di partecipazione alla gara in caso di
offerta dal valore meramente simbolico e che il bando “impone condizioni
negoziali tali da rendere il rapporto contrattuale economicamente non
conveniente e matematicamente in perdita”, ha ritenuto: “Ne deriva che
coglie nel segno la difesa della ricorrente laddove afferma che l’abnorme
base d’asta fissata viola il principio della concorrenza effettiva fissato
dall’art. 95, comma 1, del codice degli appalti.”.
Il potere discrezionale della P.A. di definire l’importo a base d’asta non
sarebbe dunque libero o assoluto, ma sarebbe sindacabile attraverso il
parametro della logicità e ragionevolezza dell’azione amministrativa, nella
misura in cui non viene contestualizzato o filtrato attraverso una corretta
analisi di mercato ed un’attenta valutazione dei prezzi.
Sarebbe evidente l’effetto distorsivo della concorrenza e del mercato di un
bando che obbliga i partecipanti a prestare la propria opera gratuitamente.
L’affidamento degli incarichi di consulenza legale deve assolutamente
privilegiare il profilo curriculare del professionista rispetto al solo
criterio economico. Tale principio sarebbe già stato affermato dal Tar
Lecce che, accogliendo la richiesta di sospensione proposta nei confronti di
un bando per servizi legali, ha ritenuto il sistema dell’aggiudicazione in
base al criterio del minor prezzo non coerente con il vigente ordinamento e,
comunque, in contrasto con il decoro della professione forense (cfr. Tar
Lecce, ordinanza n. 21/2017).
Nel caso di specie la proposta di una consulenza a titolo completamente
gratuito, in contrasto con il decoro della professione, non favorirebbe la
partecipazione dei migliori e dei più capaci, violando il principio di
massima partecipazione.
Peraltro, ad aggravare l’irragionevolezza del bando, la P.A. consente la
partecipazione solo a professionisti altamente qualificati, quelli che
probabilmente grazie all’esperienza acquisita e all’avviamento professionale
consolidato sono i meno interessati a svolgere incarichi per compensi
irrisori o addirittura gratuiti.
Perciò l’avviso impugnato, oltre a ledere i diritti dei ricorrenti, non
favorirebbe ma anzi danneggerebbe l’interesse della Pubblica
Amministrazione.
5) Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, 3 e 23 della legge n.
247/2012, violazione delle norme a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia
dei professionisti e degli avvocati, eccesso di potere per traviamento,
erroneità dei presupposti e sviamento - violazione dell’art. 36 Cost.
dell’art. 2233 c.c., degli artt. 6, 9 e 29 del Codice deontologico, dei
principi di autonomia e decoro dei professionisti - violazione dell’art. 97
Cost., nonché dei principi in materia di fissazione della base d’asta e
delle regole della massima partecipazione e della leale concorrenza -
indeterminatezza della consistenza quantitativa oggettiva dell’attività
professionale da fornire.
Il bando si caratterizzerebbe anche per l’indeterminatezza della consistenza
quantitativa oggettiva dell’attività professionale da fornire.
Esso parlerebbe solo di attribuzione degli incarichi, ponendo come unico
limite la durata biennale del contratto, senza chiarire quali e quante siano
le attività rientranti nel conferimento dell’incarico, le modalità di
svolgimento e la forma.
L’indeterminatezza del contenuto delle prestazioni richieste e la gratuità
del compenso sarebbero in grado di compromettere, con il decoro dell’ordine
e dei professionisti, il meccanismo della competizione ed in ogni caso non
consentirebbero agli operatori economici, e nello specifico alla parte
ricorrente, di formulare una seria domanda di partecipazione alla procedura
sulla base di un effettivo calcolo di convenienza.
...
VI - Preliminarmente occorre accertare se il ricorso sia o meno ammissibile,
tenuto conto che il ricorrente, in possesso dei requisiti, non ha presentato
la propria adesione all’avviso oggetto di contestazione in questa sede.
VI.1 - In proposito si rammenta l’eccezione di inammissibilità opposta
dall’Amministrazione resistente, sul rilievo che la mancata partecipazione
priverebbe il ricorrente della legittimazione processuale, non essendo lo
stesso titolare di una posizione differenziata qualificata.
Deve considerarsi che, secondo la prospettazione del ricorrente, la
previsione, in particolare, del carattere gratuito della ‘prestazione’
richiesta renderebbe l’offerta abnorme ed irragionevole.
Da ciò deriverebbe il carattere escludente della clausola in questione, che
conseguentemente sarebbe immediatamente impugnabile, anche in assenza di
partecipazione.
VI.2 - Il Collegio ritiene che, ai soli fini dell’individuazione della
legittimazione processuale e della conseguente ammissibilità del ricorso e
fatto salvo naturalmente l’accertamento nel merito, la richiamata
prospettazione induce logicamente a sostenere che il ricorso sia
ammissibile, attesa la natura asseritamente escludente, nei sensi sopra
specificati, della previsione della gratuità dello ‘incarico’.
VII - Evidenziata l’ammissibilità del ricorso, se ne deve, tuttavia,
affermare l’infondatezza.
VIII - Occorre inquadrare correttamente l’oggetto dell’avviso, impugnato col
ricorso in esame.
Con il predetto avviso, diretto a giuristi del mondo accademico e/o forense,
in possesso di esperienza di almeno 5 anni documentabile, anche a livello
europeo o internazionale, negli ambiti tematici del diritto societario,
bancario, pubblico dell'economia o dei mercati finanziari o dei principi
contabili e bilanci societari, si chiede agli stessi una mera manifestazione
di interesse a prestare, senza che sia prefissata la frequenza e l’entità
dell’eventuale ‘prestazione’ nell’arco temporale di due anni, la propria
consulenza nelle stesse suddette materie “in vista anche dell’adozione e/o
integrazione di normative primarie e secondarie ai fini, tra l’altro,
dell'adeguamento dell'ordinamento interno alle direttive/regolamenti
comunitari”.
VIII.1 - La genericità non costituisce un vizio dell’avviso ma un elemento
che lo caratterizza, in forza del quale anzi esso è assolutamente legittimo.
Come, infatti, è stato anche precisato con il comunicato stampa che ha
fornito i dovuti chiarimenti in ordine alla sua portata, all’esito della
valutazione dei curricula obbligatoriamente inviati dai su indicati
professionisti, non s’instaura alcun rapporto di lavoro né è prevista la
fornitura di un servizio professionale.
IX - Proprio in ragione del carattere eventuale ed occasionale della
consulenza, seppure nell’arco temporale ordinariamente di due anni, non può
questa qualificarsi come contratto di lavoro autonomo, che, rispetto alle
Pubbliche Amministrazioni, è ammissibile se si ravvisano tutti i presupposti
indicati all’art. 7, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165/2001, di cui in
questa sede si lamenta la violazione.
IX.1 - Ciò si desume ulteriormente dalla previsione della possibilità, per
il professionista, di porre comunque fine unilateralmente all’incarico in
qualunque momento.
IX.2 - Non militano in senso contrario né il prescritto preavviso di 30
giorni per esercitare tale diritto né la previsione dell’obbligo, per il
professionista, di concludere la propria attività su eventuali questioni in
corso.
Per quanto concerne il preavviso, esso obbedisce ad una mera esigenza
organizzativa: in altre parole, l’Amministrazione ha necessità di conoscere
ex ante sull’apporto di quali professionalità nell’esame di questioni
rilevanti può contare in un determinato periodo.
L’obbligo di concludere l’incarico è funzionale ad un’azione della Pubblica
Amministrazione efficace, che persegue il buon andamento: un’interruzione
potrebbe, infatti, determinare perdite di tempo e degli apporti qualificati
già conferiti dai professionisti che non intendano più portare avanti la
consulenza.
IX.3 – Alla luce di quanto evidenziato non si ravvisa la dedotta violazione
delle norme appena citate.
X - Non si tratta neppure di servizio il cui affidamento è sottoposto alla
disciplina del Codice dei Contratti pubblici.
X.1 - Conduce a tale conclusione l’assenza della previsione del numero ben
definito di incarichi da conferire, dell’individuazione puntuale
dell’oggetto e della consistenza di ciascun incarico, nonché di una
selezione vera e propria, con una graduatoria finale.
Perciò è evidente che nessun obbligo di applicare le norme del d.lgs. n.
50/2016 sussisteva in capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze.
X.1 - La prescrizione di requisiti minimi si rendeva invece evidentemente
necessaria per acquisire manifestazioni di interesse solo da parte di
soggetti qualificati che, ove ritenuti idonei sulla base della valutazione
dei propri curricula, possano effettivamente dare un contributo rilevante
nelle materie e nell’ambito delle attività indicate nell’avviso censurato.
XI - Alla luce dei rilievi svolti sinora, il carattere gratuito della
consulenza appare legittimo.
XI.1 - Deve rilevarsi in proposito che nel nostro ordinamento non si
rinviene alcun divieto in tal senso.
XI.2 - Non può ritenersi che la disciplina dell’equo compenso, diffusamente
ed analiticamente descritta dalla parte ricorrente ed erroneamente invocata
a sostegno delle proprie tesi, presenti tale carattere ostativo.
Essa deve, infatti, intendersi nel senso che, laddove il compenso in denaro
sia stabilito, esso non possa che essere equo.
XI.3 - Nulla impedisce, tuttavia, al professionista, senza incorrere in
alcuna violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare la propria
consulenza, in questo caso richiesta solo in modo del tutto eventuale nei
due anni stabiliti, senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in
denaro.
Lo stesso può invece in questo caso trarre vantaggi di natura diversa, in
termini di arricchimento professionale legato alla partecipazione ad
eventuali tavoli, allo studio di particolari problematiche ed altro, nonché
quale possibilità di far valere tutto ciò all’interno del proprio curriculum
vitae.
Non bisogna dimenticare al riguardo che, se è vero che viene richiesta una
determinata esperienza documentabile negli ambiti di materia indicati
nell’avviso, è altresì vero che non si tratta di un’esperienza che può
essere vantata solo da professionisti che lavorano da lunghissimo periodo e
che per ciò stesso potrebbero non ricevere stimoli e vantaggi in termini
curriculari.
Il vaglio dei curricula garantisce al Ministero di scegliere solo quanti
siano ritenuti in concreto in grado di fornire un apporto valido, il che
assicura lo stesso in ordine al livello qualitativo elevato della
consulenza, ove acquisita.
Tuttavia potrebbe trattarsi di professionisti ancora giovani che, sebbene
qualificati, trovino ancora molti stimoli professionali nell’attività
descritta nell’avviso e ravvisino altresì nella stessa un’opportunità per
arricchire il proprio curriculum.
D’altronde anche professionisti con un bagaglio professionale consistente
potrebbero avere interesse, in quanto stimolante, a contribuire, con la
propria professionalità, all’elaborazione di norme per l’adeguamento
dell’ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari.
XII - Dalle argomentazioni svolte nella presente disamina deriva che
l’avviso impugnato è legittimo ed il ricorso è infondato e deve essere
respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 30.09.2019 n. 11411 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: E'
legittimo l'avviso pubblico (nella fattispecie del MEF) per il conferimento
di incarichi di consulenza legale a titolo gratuito.
Il carattere gratuito della consulenza appare legittimo.
Deve rilevarsi in proposito che nel nostro ordinamento non si
rinviene alcun divieto in tal senso.
Non può ritenersi che la disciplina dell’equo compenso presenti tale carattere
ostativo.
Essa deve, infatti, intendersi nel senso che, laddove il compenso in denaro
sia stabilito, esso non possa che essere equo.
Nulla impedisce, tuttavia, al professionista, senza incorrere in
alcuna violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare la propria
consulenza, in questo caso richiesta solo in modo del tutto eventuale nei
due anni stabiliti, senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in
denaro.
Lo stesso può invece in questo caso trarre vantaggi di natura diversa, in
termini di arricchimento professionale legato alla partecipazione ad
eventuali tavoli, allo studio di particolari problematiche ed altro, nonché
quale possibilità di far valere tutto ciò all’interno del proprio curriculum
vitae.
Non bisogna dimenticare al riguardo che, se è vero che viene richiesta una
determinata esperienza documentabile negli ambiti di materia indicati
nell’avviso, è altresì vero che non si tratta di un’esperienza che può
essere vantata solo da professionisti che lavorano da lunghissimo periodo e
che per ciò stesso potrebbero non ricevere stimoli e vantaggi in termini
curriculari.
Il vaglio dei curricula garantisce al Ministero di scegliere solo quanti
siano ritenuti in concreto in grado di fornire un apporto valido, il che
assicura lo stesso in ordine al livello qualitativo elevato della
consulenza, ove acquisita.
Tuttavia potrebbe trattarsi di professionisti ancora giovani che, sebbene
qualificati, trovino ancora molti stimoli professionali nell’attività
descritta nell’avviso e ravvisino altresì nella stessa un’opportunità per
arricchire il proprio curriculum.
D’altronde anche professionisti con un bagaglio professionale consistente
potrebbero avere interesse, in quanto stimolante, a contribuire, con la
propria professionalità, all’elaborazione di norme per l’adeguamento
dell’ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dell’avviso
pubblico del Ministero dell’Economia e delle Finanze in data 27.02.2019, di manifestazione di interesse per il conferimento di incarichi di
consulenza a titolo gratuito sul diritto nazionale ed europeo societario,
bancario e dei mercati e intermediari finanziari, in vista anche
dell’adozione o integrazione di normative primarie e secondarie, ai fini,
tra l’altro, dell’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive e
regolamenti comunitari;
...
I - Con avviso pubblicato in data 27.02.2019 sul sito web del
Ministero dell’Economia e delle Finanze, detta Amministrazione ha reso noto
che intendeva cercare un supporto tecnico ad elevato contenuto specialistico
di professionalità altamente qualificate per svolgere consulenze a titolo
gratuito, sul diritto nazionale ed europeo societario, bancario e dei
mercati e intermediari finanziari, in vista anche dell’adozione o
integrazione di normative primarie e secondarie, ai fini, tra l’altro,
dell’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive e regolamenti
comunitari.
Detto avviso era diretto ad esponenti del mondo accademico e professionisti.
Ed infatti, quale requisito di ammissione, veniva richiesta “consolidata e
qualificata esperienza accademica e/o professionale documentabile (di almeno
5 anni), anche in ambito europeo o internazionale, negli ambiti tematici del
diritto societario, bancario, pubblico dell’economia o dei mercati
finanziari o dei principi contabili e bilanci societari; lingua inglese
fluente”.
Era prevista una durata biennale, senza possibilità di rinnovo ma con
possibilità, per il professionista, di recedere, con preavviso di 30 giorni,
fermo restando l’obbligo, per lo stesso, di portare a termine un eventuale
studio che avesse iniziato.
II - Gli Ordini degli Avvocati di Roma e di Napoli hanno impugnato il
predetto avviso, unitamente ai chiarimenti dati su di esso
dall’Amministrazione, deducendo i seguenti motivi di doglianza:
1) Violazione degli artt. 1, 3, 35, 36 e 97 Cost., nonché dell’art. 13-bis,
comma 3, della legge 31.12.2012, n. 247 (recante “Nuova disciplina
dell’ordinamento della professione forense”), inserito dall’art. 19-quaterdecies, comma 1, del d.l. 16.10.2017, n. 148, convertito, con
modificazioni, dalla legge 04.12.2017, n. 172, applicabile alle
Pubbliche Amministrazioni in forza del terzo comma dell’art. 19-quaterdecies,
comma 3, del d.l. n. 148/2017.
La previsione della gratuità delle prestazioni che il Ministero intimato
intende acquisire con la pubblicazione dell’avviso si porrebbe in contrasto
con le prescrizioni impartite dalle menzionate disposizioni costituzionali e
legislative, che riconoscerebbero l’equo e giusto compenso come principio di
carattere generale nel nostro ordinamento.
Il diritto all’equo compenso nello svolgimento di incarichi, anche nei
confronti della Pubblica Amministrazione, sarebbe, infatti, garantito sia
dalla Costituzione, che tutela il diritto del professionista “ad una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro” (art.
36), sia dalla legge, che correla la retribuzione professionale al
“contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale” (art. 13-bis, co. 2, L. 247/2012).
La previsione della gratuità dell’incarico contenuta nell’avviso violerebbe
la normativa costituzionale e legislativa anche sotto il profilo del buon
andamento dell’organizzazione amministrativa e della ragionevolezza
dell’operato della P.A..
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze intende acquisire servizi di
consulenza da parte di professionisti dotati di “consolidata e qualificata
esperienza accademica e/o professionale” e, nel contempo, pretende di farlo
senza esborsi ed oneri a carico dell’Amministrazione.
Tale pretesa violerebbe il principio di proporzionalità e denoterebbe
l’omessa o comunque l’erronea ed irrazionale ponderazione di tutti gli
interessi compresenti, nonché la mancata considerazione delle conseguenze
cui l’Amministrazione espone sia il professionista sia sé stessa ed il
pubblico Erario.
Infatti, richiedendo al professionista di sottoscrivere e dunque accettare
condizioni lontane da una retribuzione o da un equo compenso, comporterebbe
per il medesimo, all’atto della sottoscrizione, la violazione degli artt. 9,
19, 25 e 29 del Codice Deontologico vigente.
Tali disposizioni, da un lato, stabiliscono il divieto di accettazione di un
compenso iniquo o lesivo della dignità e del decoro professionale,
dall’altro, impongono che le condizioni contrattuali per i servizi legali e
per l’attività difensiva non possano tradursi in clausole lesive della
dignità e del decoro del professionista.
Inoltre detta pretesa esporrebbe l’Amministrazione al rischio di ricevere
prestazioni di scarsa qualità, in quanto non considera il costo/opportunità
del professionista a rendere prestazioni in misura correlata al compenso
ricevuto, anche in ragione dell’assunzione di responsabilità che comporta lo
svolgimento di tale attività.
Eliminare qualunque tipologia di compenso comporterebbe che l’incarico (e
quindi l’Amministrazione che ne beneficia) sia sottoposto all’alea della
indisponibilità (anche sopravvenuta) a ricoprirlo (ed infatti, l’avviso
prevede il diritto di recesso ad nutum, con preavviso di 30 giorni),
determinando eventuali avvicendamenti dannosi per il buon andamento
dell’Ufficio, lasciando comunque in capo al professionista l’obbligo di
“concludere la propria attività su eventuali questioni in corso”.
Nel contempo, la pattuizione di gratuità esporrebbe l’Amministrazione a
comportamento opportunistici e, in ipotesi, persino all’azione di nullità
del contratto e a quella generale di arricchimento ex art. 2041 c.c. per
l’indennizzo della diminuzione patrimoniale subìta dal professionista
nell’adempimento di una prestazione resa ad esclusivo vantaggio
dell’Amministrazione.
L’Amministrazione non potrebbe utilmente invocare il precedente del
Consiglio di Stato n. 4614/2017. Al di là della diversità di circostanze
(una su tutte quella relativa alla messa a disposizione, in quel caso, di un
rilevantissimo importo di euro 250.000,00 a titolo di rimborso spese, nella
specie inesistente), il precedente è stato emesso in relazione ad un
procedimento indetto prima dell’introduzione dell’art. 13-bis nella legge
247/2012.
Inoltre la scelta del Ministero, contenuta nell’avviso impugnato, di non
remunerare i propri consulenti discriminerebbe irragionevolmente i futuri ed
eventuali titolari di tali incarichi rispetto ad altri consulenti, anche
della stessa Amministrazione, che già svolgono analoghi compiti di
consulenza variamente retribuiti.
Da qui il contrasto anche con l’art. 3 Cost..
2) Violazione del d.lgs. n. 50/2016 e delle linee guida ANAC n. 12
sull’affidamento dei servizi legali approvate dal Consiglio dell’Autorità
con delibera n. 907 del 24.10.2018.
I servizi che il Ministero intimato intende acquisire sono “servizi legali”
contemplati dall’Allegato IX del Codice dei Contratti pubblici (nell’ambito
del quale rientrano tutti i servizi giuridici che non sono esclusi a norma
dell’articolo 17, comma 1, lettera d, del Codice dei contratti pubblici).
Come affermato dall’ANAC nelle menzionate Linee Guida, i relativi
affidamenti, non essendo ricompresi, da un punto di vista prestazionale,
nell’ambito oggettivo, costituirebbero “appalti”, svolti su richiesta delle
stazioni appaltanti nei limiti delle istruzioni ricevute.
Tuttavia la configurazione di un appalto pubblico gratuito, nei termini ivi
prefigurati, sarebbe elusiva della normativa pertinente.
Al riguardo si rileva anzitutto che tutto il sistema della contrattazione
pubblica è imperniato sulla sinallagmaticità del contratto di appalto, per
cui l’esistenza del corrispettivo sarebbe imprescindibile.
Il corrispettivo dovrebbe non soltanto esistere, ma anche essere congruo in
relazione all’impegno profuso dal contraente ed essere equo.
Ciò sarebbe garantito dalla Costituzione ed imposto dalla legge.
In proposito le Linee Guida Anac prevedono che, anche per i contratti
esclusi ex art. 17, l’Amministrazione debba garantire “l’equità del
compenso, nel rispetto dei parametri stabiliti da ultimo con decreto
ministeriale 08.03.2018, n. 37”, atteso che “il risparmio di spesa non è
il criterio di guida nella scelta che deve compiere l’amministrazione”.
In ogni caso, anche a voler per ipotesi concedere che una remunerazione
possa non tradursi in un corrispettivo finanziario, sarebbe comunque
inammissibile prevedere che l’incarico sia svolto in perdita, senza quindi
una forma di contributo alle spese sostenute.
Peraltro, al di là della gratuità, la scelta del contraente/consulente
prefigurata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze nell’avviso
impugnato sulla base della sola valutazione curriculare e senza la
previsione di un prezzo violerebbe i principi e le disposizioni di cui agli
artt. 140 ss. del d.lgs. 50/2016 e, in particolare, quelli sottesi
all’articolo 95 in riferimento al criterio di aggiudicazione.
La disciplina dei contratti pubblici prevede che, fra i criteri di
aggiudicazione, vi siano il prezzo ed altresì la qualità dell’offerta. In
proposito, come affermato da ANAC sempre nelle linee guida n. 12, “la natura
dei servizi in questione e l’importanza degli interessi coinvolti
suggeriscono, anche per gli affidamenti di minor valore, l’utilizzo del
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”.
Le disposizioni in questione risulterebbero violate anche in quanto
l’Amministrazione non ha predeterminato i criteri sulla base dei quali
procederà alla selezione, limitandosi alla “valutazione dei curricula”.
L’assenza di una comparazione sulla scorta di criteri predeterminati sarebbe
peraltro comprovata dalla mancata previsione di una graduatoria di merito o
dell’attribuzione di punteggi.
Si verificherebbe inoltre un’evidente sproporzione tra l’individuazione di
requisiti di partecipazione particolarmente qualificanti e il “valore” della
commessa.
L’avviso sarebbe altresì irragionevolmente carente dell’indicazione del
fabbisogno numerico di professionisti da contrattualizzare e dell’ambito
dell’incarico, non essendo specificate le prestazioni richieste, la cui
individuazione è rimessa al contratto.
Non consterebbe inoltre che il Ministero abbia fornito motivazioni circa la
gratuità e le particolari ragioni di urgenza o emergenza, in virtù delle
quali si potrebbe eventualmente giustificare, limitatamente alla procedura
così indetta, il ricorso ad una selezione “indeterminata” quanto alla
procedura ed all’esito.
Tali circostanze violerebbero l’art. 142, comma 5-quater, del d.lgs. n.
50/2016, in combinato disposto con l’art. 21, che impongono alle
Amministrazioni di dotarsi di strumenti di programmazione e di
predeterminazione del fabbisogno.
Il provvedimento violerebbe anche il principio di pubblicità degli avvisi,
che impone il rispetto delle misure di cui all’art. 142 del d.lgs. 50/2016 e
comunque richiede che i soggetti interessati abbiano un agevole accesso, in
tempo utile, a tutte le informazioni necessarie relative alla procedura
prima che essa sia aggiudicata, in modo da consentire l’eventuale
manifestazione di interesse da parte dei professionisti.
3) Eccesso di potere per difetto di istruttoria - difetto di motivazione.
L’Amministrazione non avrebbe svolto una verifica adeguata né in ordine
all’opportunità di individuare un meccanismo di selezione diverso né in
relazione alla reale necessità di coinvolgere specifiche professionalità in
funzione di impegni determinati.
Inoltre non si comprenderebbe l’iter logico-giuridico seguito
dall’Amministrazione, all’esito del quale essa ha pubblicato l’avviso de
quo.
L’Amministrazione non potrebbe neppure invocare il principio del
contenimento della spesa pubblica, in quanto quest’ultimo obiettivo non può
essere assicurato violando altre norme di legge, anche e soprattutto di
rango costituzionale.
Si impugna anche la nota n. 48 dell’08.03.2019 dell’Ufficio Stampa del
Ministero dell’Economia e delle Finanze, con la quale l’Amministrazione ha
specificato –a fronte delle polemiche suscitate– che i) l’avviso “non
costituisce un’opportunità lavorativa”; ii) la consulenza “non è da
intendersi come rapporto di lavoro o fornitura di un servizio
professionale”; iii) “l’invito è rivolto a personalità affermate,
principalmente provenienti dal mondo accademico, che, in ottica di
collaborazione istituzionale, desiderino offrire la propria esperienza in
termini di idee e soluzioni tecniche in materie molto complesse”; iv) “la
procedura posta in essere dal MEF garantisce al Paese che l’Amministrazione,
prima di elaborare norme e disegnare strumenti, assicuri un doveroso
confronto con gli esperti di alto profilo competenti in materia che l’Italia
sa offrire” e v) che “esula completamente da questi rapporti, quindi, il
tema dell’equo compenso che si riferisce a rapporti professionali di lavoro
nell’ambito del settore privato”.
I suddetti chiarimenti darebbero ragione di tutti i vizi denunciati innanzi.
Un “confronto con gli esperti di alto profilo competenti in materia” assunto
“prima di elaborare norme e disegnare strumenti” sarebbe una richiesta di
prestazione d’opera intellettuale e, nello specifico, un servizio di
consulenza legale.
Non sarebbe vero nemmeno che l’invito sia rivolto a “personalità affermate,
principalmente provenienti dal mondo accademico”: i requisiti di
partecipazione menzionati nell’avviso indicano 5 anni di esperienza nel
settore giuridico di competenza, alternativamente in ambito accademico o
professionale.
Non si tratterebbe di una “collaborazione istituzionale”, ai fini della
quale il Ministero avrebbe potuto rivolgersi in via diretta e con altre
modalità alle istituzioni preposte, una su tutte agli Ordini degli Avvocati
ricorrenti.
Anche a voler, per ipotesi, concedere che si tratti di una diversa, quanto
nuova, atipica ed indeterminata forma di collaborazione “istituzionale”,
l’apporto consulenziale comunque accordato dal singolo professionista non
troverebbe in alcun modo una giustificazione causale.
Sarebbe palesemente illegittimo l’assunto finale del Ministero secondo il
quale esulerebbe da questi rapporti il tema dell’equo compenso “che si
riferisce a rapporti professionali di lavoro nell’ambito del settore
privato”, essendo ormai pacifico che l’applicazione del menzionato principio
rappresenta –per espresso riconoscimento legislativo (art. 19-quaterdecies,
comma 3, del D.L. n. 148/2017)– un dovere anche per tutte le
Amministrazioni pubbliche.
Infine, anche alla luce del chiarimento, l’Amministrazione non potrebbe
invocare nemmeno l’art. 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001, atteso che, in
forza della normativa menzionata, anche tali incarichi beneficerebbero della
garanzia di un equo compenso.
Infine l’art. 7 del d.lgs. 165/2001 sarebbe inconferente, in quanto riguarda
“contratti di lavoro autonomo”, nella specie non configurabili.
...
IV - Il ricorso è privo di fondamento per le ragioni di seguito esposte.
V - Occorre inquadrare correttamente l’oggetto dell’avviso, impugnato col
ricorso in esame.
Con il predetto avviso, diretto a giuristi del mondo accademico e/o forense,
in possesso di esperienza di almeno 5 anni documentabile, anche a livello
europeo o internazionale, negli ambiti tematici del diritto societario,
bancario, pubblico dell'economia o dei mercati finanziari o dei principi
contabili e bilanci societari, si chiede agli stessi una mera manifestazione
di interesse a prestare, senza che sia prefissata la frequenza e l’entità
dell’eventuale ‘prestazione’ nell’arco temporale di due anni, la propria
consulenza nelle stesse suddette materie “in vista anche dell’adozione e/o
integrazione di normative primarie e secondarie ai fini, tra l’altro,
dell'adeguamento dell'ordinamento interno alle direttive/regolamenti
comunitari”.
V.1 - La genericità non costituisce un vizio dell’avviso ma un elemento che
lo caratterizza, in forza del quale anzi esso è assolutamente legittimo.
Come, infatti, è stato anche precisato con il comunicato stampa che ha
fornito i dovuti chiarimenti in ordine alla sua portata, all’esito della
valutazione dei curricula obbligatoriamente inviati dai su indicati
professionisti, non s’instaura alcun rapporto di lavoro né è prevista la
fornitura di un servizio professionale.
VI – Si deve ulteriormente evidenziare la previsione della possibilità, per
il professionista, di porre fine unilateralmente all’incarico in qualunque
momento.
VI.1 - Il prescritto preavviso di 30 giorni per esercitare tale diritto
obbedisce ad una mera esigenza organizzativa: in altre parole,
l’Amministrazione ha necessità di conoscere
ex ante sull’apporto di quali
professionalità nell’esame di questioni rilevanti può contare in un
determinato periodo.
VI.2 - L’obbligo, per il professionista, di concludere la propria attività
su eventuali questioni in corso è invece funzionale a garantire un’azione
della Pubblica Amministrazione efficace, che persegue il buon andamento:
un’interruzione potrebbe, infatti, determinare perdite di tempo e degli
apporti qualificati già conferiti dai professionisti che non intendano più
portare avanti la consulenza.
VI.3 – Sono elementi che fanno escludere la riconduzione della consulenza
all’ambito dei servizi, il cui affidamento è sottoposto alla disciplina del
Codice dei Contratti pubblici.
VI.4 - Conduce a tale conclusione anche l’assenza della previsione del
numero ben definito di incarichi da conferire, dell’individuazione puntuale
dell’oggetto e della consistenza di ciascun incarico, nonché di una
selezione vera e propria, con una graduatoria finale.
VI.5 - Perciò è evidente che nessun obbligo di applicare le norme del d.lgs.
n. 50/2016 sussisteva in capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze.
VII - La prescrizione di requisiti minimi si rendeva invece evidentemente
necessaria per acquisire manifestazioni di interesse solo da parte di
soggetti qualificati che, ove ritenuti idonei sulla base della valutazione
dei propri curricula, possano effettivamente dare un contributo rilevante
nelle materie e nell’ambito delle attività indicate nell’avviso censurato.
VIII - Alla luce dei rilievi svolti sinora, il carattere gratuito della
consulenza appare legittimo.
VIII.1 - Deve rilevarsi in proposito che nel nostro ordinamento non si
rinviene alcun divieto in tal senso.
VIII.2 - Non può ritenersi che la disciplina dell’equo compenso,
diffusamente ed analiticamente descritta dalla parte ricorrente ed
erroneamente invocata a sostegno delle proprie tesi, presenti tale carattere
ostativo.
Essa deve, infatti, intendersi nel senso che, laddove il compenso in denaro
sia stabilito, esso non possa che essere equo.
VIII.3 - Nulla impedisce, tuttavia, al professionista, senza incorrere in
alcuna violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare la propria
consulenza, in questo caso richiesta solo in modo del tutto eventuale nei
due anni stabiliti, senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in
denaro.
Lo stesso può invece in questo caso trarre vantaggi di natura diversa, in
termini di arricchimento professionale legato alla partecipazione ad
eventuali tavoli, allo studio di particolari problematiche ed altro, nonché
quale possibilità di far valere tutto ciò all’interno del proprio curriculum
vitae.
Non bisogna dimenticare al riguardo che, se è vero che viene richiesta una
determinata esperienza documentabile negli ambiti di materia indicati
nell’avviso, è altresì vero che non si tratta di un’esperienza che può
essere vantata solo da professionisti che lavorano da lunghissimo periodo e
che per ciò stesso potrebbero non ricevere stimoli e vantaggi in termini
curriculari.
Il vaglio dei curricula garantisce al Ministero di scegliere solo quanti
siano ritenuti in concreto in grado di fornire un apporto valido, il che
assicura lo stesso in ordine al livello qualitativo elevato della
consulenza, ove acquisita.
Tuttavia potrebbe trattarsi di professionisti ancora giovani che, sebbene
qualificati, trovino ancora molti stimoli professionali nell’attività
descritta nell’avviso e ravvisino altresì nella stessa un’opportunità per
arricchire il proprio curriculum.
D’altronde anche professionisti con un bagaglio professionale consistente
potrebbero avere interesse, in quanto stimolante, a contribuire, con la
propria professionalità, all’elaborazione di norme per l’adeguamento
dell’ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari.
IX - Dalle argomentazioni svolte nella presente disamina deriva che l’avviso
impugnato è legittimo ed il ricorso è infondato e deve essere respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 30.09.2019 n. 11410 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
|
|
IN EVIDENZA |
APPALTI: Limitazione
al 30% del subappalto.
La Corte di Giustizia UE
con riferimento all’art. 105 del d.lgs. n.
50 del 2016 statuisce che:
“La direttiva 2014/24/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 26.02.2014,
sugli appalti pubblici e che abroga la
direttiva 2004/18/CE, come modificata dal
regolamento delegato (UE) 2015/2170 della
Commissione, del 24.11.2015, deve essere
interpretata nel senso che osta a una
normativa nazionale, come quella di cui
trattasi nel procedimento principale, che
limita al 30% la parte dell’appalto che
l’offerente è autorizzato a subappaltare a
terzi”
(Corte di Giustizia UE, Sez. V,
sentenza 26.09.2019 - causa C-63/18
- commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Nella causa C‑63/18,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia
pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi
dell’articolo 267 TFUE, dal Tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia
(Italia), con
ordinanza 19.01.2018 n. 148,
pervenuta in cancelleria il 10.02.2018, nel
procedimento
Vi. SpA
contro
Autostrade per l’Italia SpA,
...
Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale
verte sull’interpretazione degli articoli 49
e 56 TFUE, dell’articolo 71 della direttiva
2014/24/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti
pubblici e che abroga la direttiva
2004/18/CE (GU 2014, L 94, pag. 65), come
modificata dal regolamento delegato (UE)
2015/2170 della Commissione, del 24.11.2015
(GU 2015, L 307, pag. 5) (in prosieguo: la «direttiva
2014/24»), nonché sul principio di
proporzionalità.
2 Tale domanda è stata presentata
nell’ambito di una controversia tra la Vi.
SpA e l’Autostrade per l’Italia SpA in
merito alla decisione adottata da quest’ultima,
in qualità di amministrazione aggiudicatrice,
di escludere la prima da una procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico.
...
Diritto italiano
9 L’articolo 105, paragrafo 2, terza frase,
del decreto legislativo n. 50 – Codice dei
contratti pubblici, del 18.04.2016
(supplemento ordinario alla GURI n. 91 del
19.04.2016; in prosieguo: il «decreto
legislativo n. 50/2016»), così prevede:
«Fatto salvo quanto
previsto dal comma 5, l’eventuale subappalto
non può superare la quota del 30 per cento
dell’importo complessivo del contratto di
lavori, servizi o forniture».
10 L’articolo 105, paragrafo 5, del decreto
legislativo n. 50/2016 è formulato come
segue: «Per le opere di
cui all’articolo 89, comma 11, e fermi
restando i limiti previsti dal medesimo
comma, l’eventuale subappalto non può
superare il trenta per cento dell’importo
delle opere e non può essere, senza ragioni
obiettive, suddiviso».
...
Sulla questione pregiudiziale
21 Con la sua questione, il giudice del
rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli
49 e 56 TFUE e la direttiva 2014/24 debbano
essere interpretati nel senso che ostano a
una normativa nazionale, come quella di cui
trattasi nel procedimento principale, che
limita al 30% la parte dell’appalto che
l’offerente è autorizzato a subappaltare a
terzi.
22 In via preliminare, occorre rilevare che,
poiché il valore dell’appalto di cui al
procedimento principale, al netto dell’IVA,
è superiore alla soglia di EUR 5225000
prevista all’articolo 4, lettera a), della
direttiva 2014/24, è con riferimento a
quest’ultima che occorre rispondere alla
presente domanda di pronuncia pregiudiziale.
23 Occorre ricordare che tale direttiva,
come risulta in sostanza dal suo
considerando 1, ha l’obiettivo di garantire
il rispetto, nell’aggiudicazione degli
appalti pubblici, in particolare, della
libera circolazione delle merci, della
libertà di stabilimento e della libera
prestazione dei servizi, e dei principi che
ne derivano, in particolare la parità di
trattamento, la non discriminazione, la
proporzionalità e la trasparenza, nonché di
garantire che l’aggiudicazione degli appalti
pubblici sia aperta alla concorrenza.
24 In particolare, a tal fine, la predetta
direttiva prevede espressamente, al suo
articolo 63, paragrafo 1, la possibilità per
gli offerenti di fare affidamento, a
determinate condizioni, sulle capacità di
altri soggetti, per soddisfare determinati
criteri di selezione degli operatori
economici.
25 Inoltre, l’articolo 71 della medesima
direttiva, che riguarda specificamente il
subappalto, al suo paragrafo 2 dispone che
l’amministrazione aggiudicatrice può
chiedere o può essere obbligata da uno Stato
membro a chiedere all’offerente di indicare,
nella sua offerta, le eventuali parti
dell’appalto che intende subappaltare a
terzi, nonché i subappaltatori proposti.
26 Ne deriva che, al pari della direttiva
2004/18 abrogata dalla direttiva 2014/24,
quest’ultima sancisce la possibilità, per
gli offerenti, di ricorrere al subappalto
per l’esecuzione di un appalto, purché le
condizioni da essa previste siano
soddisfatte (v., in tal senso, per quanto
riguarda la direttiva 2004/18, sentenza del
14.07.2016, Wrocław - Miasto na prawach
powiatu, C‑406/14, EU:C:2016:562, punti da
31 a 33).
27 Infatti, secondo una giurisprudenza
costante, e come risulta dal considerando 78
della direttiva 2014/24, in materia di
appalti pubblici, è interesse dell’Unione
che l’apertura di un bando di gara alla
concorrenza sia la più ampia possibile. Il
ricorso al subappalto, che può favorire
l’accesso delle piccole e medie imprese agli
appalti pubblici, contribuisce al
perseguimento di tale obiettivo (v., in tal
senso, sentenza del 05.04.2017, Borta,
C‑298/15, EU:C:2017:266, punto 48 e
giurisprudenza ivi citata).
28 Inoltre, al punto 35 della sentenza del
14.07.2016, Wrocław - Miasto na prawach
powiatu (C‑406/14, EU:C:2016:562), che
riguardava l’interpretazione della direttiva
2004/18, la Corte ha stabilito che una
clausola del capitolato d’oneri di un
appalto pubblico di lavori che impone
limitazioni al ricorso a subappaltatori per
una parte dell’appalto fissata in maniera
astratta in una determinata percentuale
dello stesso, e ciò a prescindere dalla
possibilità di verificare le capacità di
eventuali subappaltatori e senza menzione
alcuna del carattere essenziale degli
incarichi di cui si tratterebbe, è
incompatibile con tale direttiva,
applicabile nell’ambito della controversia
che aveva dato luogo a tale sentenza.
29 A tal riguardo, occorre rilevare che,
sebbene l’articolo 71 della direttiva
2014/24 riprenda, in sostanza, il tenore
dell’articolo 25 della direttiva 2004/18,
esso elenca tuttavia talune norme
supplementari in materia di subappalto. In
particolare, tale articolo 71 prevede la
possibilità, per l’amministrazione
aggiudicatrice, di chiedere o di essere
obbligata dallo Stato membro a chiedere
all’offerente di informarla sulle intenzioni
di quest’ultimo in materia di subappalto,
nonché la possibilità per l’amministrazione
aggiudicatrice, a determinate condizioni, di
trasferire i pagamenti dovuti direttamente
al subappaltatore per i servizi, le
forniture o i lavori forniti al contraente
principale.
Inoltre, il suddetto articolo 71
dispone che le amministrazioni aggiudicatrici possono verificare o essere
obbligate dagli Stati membri a verificare se
sussistano motivi di esclusione dei
subappaltatori a norma dell’articolo 57 di
tale direttiva relativi in particolare alla
partecipazione a un’organizzazione
criminale, alla corruzione o alla frode.
30 Tuttavia, dalla volontà del legislatore
dell’Unione di disciplinare in maniera più
specifica, mediante l’adozione di siffatte
norme, le situazioni in cui l’offerente fa
ricorso al subappalto, non si può dedurre
che gli Stati membri dispongano ormai della
facoltà di limitare tale ricorso a una parte
dell’appalto fissata in maniera astratta in
una determinata percentuale dello stesso, al
pari del limite imposto dalla normativa di
cui trattasi nel procedimento principale.
31 A tale riguardo, il governo italiano
sostiene che gli Stati membri possono
prevedere misure diverse da quelle
specificamente elencate nella direttiva
2014/24, al fine di garantire, in
particolare, il rispetto del principio di
trasparenza nell’ambito delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici,
poiché a tale principio è dedicata una
particolare attenzione nel contesto di tale
direttiva.
32 Più specificamente, tale governo
sottolinea il fatto che la limitazione del
ricorso al subappalto di cui trattasi nel
procedimento principale è giustificata alla
luce delle particolari circostanze presenti
in Italia, dove il subappalto ha da sempre
costituito uno degli strumenti di attuazione
di intenti criminosi. Limitando la parte
dell’appalto che può essere subappaltata, la
normativa nazionale renderebbe il
coinvolgimento nelle commesse pubbliche meno
appetibile per le associazioni criminali, il
che consentirebbe di prevenire il fenomeno
dell’infiltrazione mafiosa nelle commesse
pubbliche e di tutelare così l’ordine
pubblico.
33 Come osserva il governo italiano, è vero
che i considerando 41 e 105 della direttiva
2014/24, nonché alcune disposizioni di
quest’ultima, come l’articolo 71, paragrafo
7, indicano espressamente che gli Stati
membri rimangono liberi di prevedere, nel
proprio diritto interno, disposizioni più
rigorose rispetto a quelle previste dalla
predetta direttiva in materia di subappalto,
a condizione che tali prime disposizioni
siano compatibili con il diritto
dell’Unione.
34 Come deriva, in particolare, dai criteri
di selezione qualitativi previsti dalla
direttiva 2014/24, in particolare dai motivi
di esclusione dettati al suo articolo 57,
paragrafo 1, è altresì vero che il
legislatore dell’Unione ha inteso evitare,
mediante l’adozione di tali disposizioni,
che gli operatori economici che sono stati
condannati con sentenza definitiva, alle
condizioni previste in tale articolo,
partecipino a una procedura di
aggiudicazione di appalti.
35 Parimenti, il considerando 41 della
direttiva 2014/24 prevede che nessuna
disposizione di quest’ultima dovrebbe
vietare di imporre o di applicare misure
necessarie, in particolare, alla tutela
dell’ordine, della moralità e della
sicurezza pubblici, a condizione che dette
misure siano conformi al TFUE, mentre il
considerando 100 di tale direttiva precisa
che è opportuno evitare l’aggiudicazione di
appalti pubblici, in particolare, ad
operatori economici che hanno partecipato a
un’organizzazione criminale.
36 Oltre a ciò, secondo una giurisprudenza
costante, va riconosciuto agli Stati membri
un certo potere discrezionale nell’adozione
di misure destinate a garantire il rispetto
dell’obbligo di trasparenza, il quale si
impone alle amministrazioni aggiudicatrici
in tutte le procedure di aggiudicazione di
un appalto pubblico. Infatti, il singolo
Stato membro è nella posizione migliore per
individuare, alla luce di considerazioni di
ordine storico, giuridico, economico o
sociale che gli sono proprie, le situazioni
favorevoli alla comparsa di comportamenti in
grado di provocare violazioni del rispetto
dell’obbligo summenzionato (v., in tal
senso, sentenza del 22.10.2015, Impresa
Edilux e SICEF, C‑425/14, EU:C:2015:721,
punto 26 e giurisprudenza ivi citata).
37 Più specificamente, la Corte ha già
dichiarato che il contrasto al fenomeno
dell’infiltrazione della criminalità
organizzata nel settore degli appalti
pubblici costituisce un obiettivo legittimo
che può giustificare una restrizione alle
regole fondamentali e ai principi generali
del TFUE che si applicano nell’ambito delle
procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici (v., in tal senso, sentenza del
22.10.2015, Impresa Edilux e SICEF,
C‑425/14, EU:C:2015:721, punti 27 e 28).
38 Tuttavia, anche supponendo che una
restrizione quantitativa al ricorso al
subappalto possa essere considerata idonea a
contrastare siffatto fenomeno, una
restrizione come quella di cui trattasi nel
procedimento principale eccede quanto
necessario al raggiungimento di tale
obiettivo.
39 A tal riguardo, occorre ricordare che,
durante tutta la procedura, le
amministrazioni aggiudicatrici devono
rispettare i principi di aggiudicazione
degli appalti di cui all’articolo 18 della
direttiva 2014/24, tra i quali figurano, in
particolare, i principi di parità di
trattamento, di trasparenza e di
proporzionalità (sentenza del 20.09.2018,
Montte, C‑546/16, EU:C:2018:752, punto 38).
40 Orbene, in particolare, come ricordato al
punto 30 della presente sentenza, la
normativa nazionale di cui al procedimento
principale vieta in modo generale e astratto
il ricorso al subappalto che superi una
percentuale fissa dell’appalto pubblico in
parola, cosicché tale divieto si applica
indipendentemente dal settore economico
interessato dall’appalto di cui trattasi,
dalla natura dei lavori o dall’identità dei
subappaltatori. Inoltre, un siffatto divieto
generale non lascia alcuno spazio a una
valutazione caso per caso da parte dell’ente
aggiudicatore (v., per analogia, sentenza
del 05.04.2017, Borta, C‑298/15,
EU:C:2017:266, punti 54 e 55).
41 Ne consegue che, nell’ambito di una
normativa nazionale come quella di cui
trattasi nel procedimento principale, per
tutti gli appalti, una parte rilevante dei
lavori, delle forniture o dei servizi
interessati dev’essere realizzata
dall’offerente stesso, sotto pena di vedersi
automaticamente escluso dalla procedura di
aggiudicazione dell’appalto, anche nel caso
in cui l’ente aggiudicatore sia in grado di
verificare le identità dei subappaltatori
interessati e ove ritenga, in seguito a
verifica, che siffatto divieto non sia
necessario al fine di contrastare la
criminalità organizzata nell’ambito
dell’appalto in questione.
42 Come sottolinea la Commissione, misure
meno restrittive sarebbero idonee a
raggiungere l’obiettivo perseguito dal
legislatore italiano, al pari di quelle
previste dall’articolo 71 della direttiva
2014/24 e richiamate al punto 29 della
presente sentenza. D’altronde, come indica
il giudice del rinvio, il diritto italiano
già prevede numerose attività interdittive
espressamente finalizzate ad impedire
l’accesso alle gare pubbliche alle imprese
sospettate di condizionamento mafioso o
comunque collegate a interessi riconducibili
alle principali organizzazioni criminali
operanti nel paese.
43 Pertanto, una restrizione al ricorso del
subappalto come quella di cui trattasi nel
procedimento principale non può essere
ritenuta compatibile con la direttiva
2014/24.
44 Tale conclusione non può essere rimessa
in discussione dall’argomento dedotto dal
governo italiano, secondo cui i controlli di
verifica che l’amministrazione
aggiudicatrice deve effettuare in forza del
diritto nazionale sarebbero inefficaci.
Invero, siffatta circostanza, che, come pare
evincersi dalle osservazioni stesse di tale
governo, risulta dalle modalità specifiche
di tali controlli, nulla toglie al carattere
restrittivo della misura nazionale di cui al
procedimento principale.
Peraltro, il
governo italiano non ha affatto dimostrato,
nell’ambito della presente causa, che le
diverse disposizioni previste all’articolo
71 della direttiva 2014/24, con le quali gli
Stati membri possono limitare il ricorso al
subappalto, nonché i possibili motivi di
esclusione dei subappaltanti ai sensi
dell’articolo 57 di tale direttiva, e ai
quali fa riferimento l’articolo 71,
paragrafo 6, lettera b), di quest’ultima,
non possano essere attuate in modo tale da
raggiungere l’obiettivo perseguito dalla
normativa nazionale di cui al procedimento
principale.
45 Alla luce delle considerazioni che
precedono, occorre rispondere alla questione
pregiudiziale dichiarando che
la direttiva 2014/24 dev’essere
interpretata nel senso che osta a una
normativa nazionale, come quella di cui
trattasi nel procedimento principale, che
limita al 30% la parte dell’appalto che
l’offerente è autorizzato a subappaltare a
terzi.
Sulle spese
46 Nei confronti delle parti nel
procedimento principale la presente causa
costituisce un incidente sollevato dinanzi
al giudice nazionale, cui spetta quindi
statuire sulle spese. Le spese sostenute da
altri soggetti per presentare osservazioni
alla Corte non possono dar luogo a
rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione)
dichiara:
La direttiva 2014/24/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del
26.02.2014, sugli appalti pubblici e che
abroga la direttiva 2004/18/CE, come
modificata dal regolamento delegato (UE)
2015/2170 della Commissione, del 24.11.2015,
deve essere interpretata nel senso che osta
a una normativa nazionale, come quella di
cui trattasi nel procedimento principale,
che limita al 30% la parte dell’appalto che
l’offerente è autorizzato a subappaltare a
terzi. |
|
|
IN EVIDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Per
l’Adunanza plenaria la bonifica del sito inquinato per il danno ambientale
causato dalla società incorporata può essere ordinata anche alla
incorporante.
Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la bonifica del sito
inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile
dell’inquinamento ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per
incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e
per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta
nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento
dell’adozione del provvedimento
----------------
Danno ambientale – Responsabilità – Società – Fusione per incorporazione
La bonifica del sito inquinato può essere ordinata
anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia
ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime
previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a
quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui
effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento (1).
---------------
(1) I. – Con la sentenza in rassegna l’Adunanza plenaria –sollecitata dalla IV sezione del
Consiglio di Stato con ordinanza del
07.05.2019, n. 2928 (oggetto della
News Us, n. 62 del 24.05.2019, alla
quale si rinvia per ulteriori approfondimenti)– ha affermato il principio
di diritto per cui, in caso di danno ambientale causato dalla società
incorporata, la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a
carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa
subentrata per effetto di fusione per incorporazione, in base alla
disciplina previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte
antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento
giuridico, i cui effetti dannosi permangono al momento dell’adozione del
provvedimento.
II. – L’originaria ricorrente aveva impugnato una determinazione
dirigenziale del 2015 mediante la quale la stessa era stata diffidata a
procedere alla bonifica delle aree contaminate da cromo esavalente e da
solventi clorurati. Il Tar per il Piemonte aveva, in primo grado, respinto
il ricorso. Il Consiglio di Stato respingeva, con sentenza non definitiva,
tutte le censure dell’appellante ad eccezione di una in relazione alla quale
ne riteneva necessaria la devoluzione all’Adunanza plenaria.
In particolare,
l’appellante rappresentava di non aver mai gestito direttamente l’impianto
in questione, di non esserne mai stata proprietaria e che la contaminazione
era imputabile ad altre società. La società che aveva gestito il citato sito
fino al 1986 si sarebbe poi estinta nel luglio del 1991, al momento
dell’incorporazione nella società appellante.
La stessa società ritiene,
quindi, che: il d.lgs. n. 22 del 1997 (cd. decreto Ronchi), il cui art. 17
avrebbe per la prima volta introdotto nell’ordinamento l’obbligo di
procedere a bonifica in capo al soggetto responsabile di eventi di
contaminazione, non potrebbe essere applicato ad episodi di inquinamento
verificatisi anteriormente alla propria vigenza; l’ordine di bonifica non
potrebbe essere a lei riferito in quanto non avrebbe mai direttamente posto
in essere alcuna condotta inquinante; la società incorporata dall’appellante
non avrebbe trasferito alcuna situazione soggettiva di obbligo di fare sia
perché la condotta di contaminazione non avrebbe avuto alcun disvalore
giuridico al momento in cui è stata commessa, sia perché la legislazione
vigente ratione temporis non avrebbe conosciuto l’istituto.
La quarta
sezione del Consiglio di Stato, quindi, dopo aver esaminato i contrapposti
orientamenti sul tema, ha deferito all’esame dell’Adunanza plenaria la
questione se una società incorporante, nel regime anteriore alla modifica
del diritto societario, possa essere considerata responsabile
dell’inquinamento posto in essere dall’incorporata ai sensi dell’art. 17, d.lgs. n. 22 del 1997, come poi sostituito, in sostanziale continuità
normativa, dagli artt. 242 ss. d.lgs. n. 152 del 2006.
III. – Con la sentenza in rassegna, il collegio ha osservato quanto segue:
a) la risoluzione della questione giuridica sottoposta al suo esame richiede
di esaminare tre punti controversi, in rapporto di consecuzione logica:
a1) se la condotta di inquinamento ambientale posta in essere prima
dell’introduzione della bonifica dei siti inquinati nell’ordinamento
giuridico sia qualificabile come illecito, fonte di responsabilità civile
per il suo autore, e in quale fattispecie normativa di questo istituto il
fatto possa essere inquadrato;
a2) in caso di risposta positiva al primo quesito, quali siano i rapporti
tra l’illecito e la bonifica e, in particolare, se sia possibile ordinare la
bonifica per fatti risalenti ad epoca antecedente all’introduzione a livello
legislativo della bonifica;
a3) infine, in caso di risposta positiva al secondo quesito, se gli obblighi
e le responsabilità conseguenti alla commissione dell’illecito siano
trasmissibili per effetto di operazioni societarie straordinarie, quale la
fusione, secondo la legislazione all’epoca vigente;
b) con riferimento al primo punto, nel ritenere che, anche prima
dell’introduzione dell’istituto della bonifica con l’art. 17 del d.lgs. n.
22 del 1997, l’inquinamento ambientale era considerato un fatto illecito:
b1) risale agli anni ’70 del secolo scorso l’elaborazione dell’ambiente come
bene giuridico autonomo e unitario, oggetto di protezione giuridica contro
le aggressioni umane;
b2) l’emergere dell’ambiente come nuovo bene giuridico nasce dall’opera di
riduzione ad unità della legislazione dell’epoca, contraddistinta da
normative di carattere settoriale poste a salvaguardia di elementi
costitutivi del paesaggio e delle bellezze naturali, già oggetto di tutela
sin da epoca antecedente alla Costituzione;
b3) sulla base della linea di tendenza descritta, è maturata presso la
dottrina una nozione autonoma di ambiente, evidenziandosi che la
qualificazione normativa di bene ambientale nasce dal riscontro delle sue
oggettive caratteristiche materiali, per cui l’atto giuridico che lo
qualifichi tale e ne istituisca il relativo regime ha natura solo
dichiarativa di una qualità ad esso immanente. Rispetto alla considerazione
unitaria del bene con finalità di tutela ambientale risultano recessivi gli
aspetti legati alla sua composizione materiale e al suo regime dominicale;
b4) la giurisprudenza, muovendo dagli artt. 9 e 32 Cost., ha elevato
l’ambiente a diritto individuale, tutelabile tramite l’art. 2043 c.c., e ha,
in parallelo, sviluppato la tutela della proprietà contro le immissioni
intollerabili ai sensi dell’art. 844 c.c. in una logica non più dominicale
ma in funzione del benessere dell’individuo e del suo interesse personale a
godere di un habitat naturale salubre e incontaminato;
b5) il danno ambientale è stato quindi positivizzato con l’art. 18 –ora
abrogato– della legge n. 349 del 1986, istitutiva del Ministero
dell’ambiente, con il quale è stata sostanzialmente recepita a livello
normativo la concezione dell’ambiente come bene immateriale unitario,
sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire,
isolatamente o separatamente, oggetto di cura e tutela, ma tutte,
nell’insieme, sono riconducibili a unità;
b6) la Corte cost., sentenza 31.12.1987, n. 641 (Giur. it., 1989, I,1,
227, con nota di STIGLIANO MESSUTI; Foro it., 1988, I, 694, con nota di
GIAMPIETRO; Giur. costit., 1987, I, 3788, con nota di MILETO; Foro amm.,
1988, 1, con nota di TALICE; Quaderni regionali, 1988, 847; Rass. giur.
energia elettrica, 1988, 364; Riv. giur. ambiente, 1988, 93, con note di
POSTIGLIONE, CARAVITA; Foro it., 1988, I, 1057, con nota di PONZANELLI;
Informazione prev., 1988, 458; Regioni, 1988, 525, con nota di FERRARI;
Sanità pubbl., 1988, 365; Amm. it., 1988, 848; Riv. giur. polizia locale,
1988, 299, con nota di BERTOLINI; Riv. Corte Conti, 1988, fasc.1, 90; Riv.
Amm. della Repubblica Italiana, 1988, 220, con nota di ARRIGONI; Giur. it.,
1988, I,1, 1456; Riv. giur. edil., 1988, I, 3; Arch. civ., 1988, 533;
Corriere giur., 1988, 234, con nota di GIAMPIETRO; Dir. Regione, 1988, 83,
con nota di ANGIOLINI; Finanza Loc., 1988, 448) ha inquadrato la nuova
fattispecie di danno ambientale nel paradigma generale della responsabilità
civile di cui all’art. 2043 c.c., precisando che tale disposizione deve
essere posta in correlazione con la disposizione che prevede il bene
giuridico tutelato attraverso la posizione del divieto primario;
b7) la pronuncia si colloca nel solco della concezione della responsabilità
civile extracontrattuale aperta ai valori costituzionali, in base alla quale
deve essere considerato illecito civile ogni fatto ingiusto lesivo di beni
giuridicamente tutelati, ivi compresi quelli per i quali il bisogno di
protezione matura sulla base delle spinte emergenti dall’esperienza,
ispirata ai valori, personali, esplicitamente garantiti dalla Costituzione.
La tutela di questi nuovi beni è consentita sulla base dell’atipicità
dell’art. 2043 c.c.;
b8) muovendo da tali basi teoriche si è quindi escluso che l’art. 18 della
legge n. 349 del 1986 abbia avuto portata innovativa sul piano della
considerazione dell’ambiente come bene giuridico protetto, in quanto la sua
tutela deriva direttamente dalla Costituzione;
b9) l’illecito così tipizzato ha sancito sul più generale piano sistematico
la dimensione collettiva e super-individuale del danno all’ambiente;
b10) in ogni caso, come precisato dalla Corte costituzionale, benché
l’ambiente non sia un bene appropriabile, si presta a essere valutato in
termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo che corrisponde ai
costi dell’azione pubblica di conservazione e tutela. Pertanto, confrontando
i benefici con le alterazioni, si può effettuare la stima e la
pianificazione degli interventi di preservazione, miglioramento e recupero e
si possono valutare i costi del danneggiamento;
b11) emerge pertanto una funzione riparatoria dell’illecito ambientale non
circoscritta alla sola differenza di valore del bene leso rispetto a quello
che aveva prima del danno, secondo lo schema indennitario tipico
dell’illecito civile, ma estesa a tutti i costi necessari per ripristinare
il complessivo pregiudizio inferto all’ecosistema naturale.
Ne discende che
il danno all’ambiente risarcibile ai sensi dell’art. 18 della legge n. 349
del 1986 anche attraverso una somma di denaro, assume pertanto i connotati
della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c., con la differenza
che il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile non
soggiace al limite dell’eccessiva onerosità ma solo a quello della
possibilità, con un rafforzamento, quindi, della tutela dell’ambiente
rispetto agli ordinari strumenti dell’illecito civile;
c) con riferimento alla possibilità di ordinare la bonifica per fatti
risalenti ad epoca antecedente all’introduzione a livello legislativo della
bonifica:
c1) le misure introdotte con il d.lgs. n. 22 del 1997, poi trasfuse nel
codice dell’ambiente attualmente vigente, e il rimedio del risarcimento del
danno già previsto dall’art. 2043 c.c. e poi dalla legge n. 349 del 1986,
hanno la medesima funzione, ripristinatoria-reintegratoria, di protezione
dell’ambiente, con la precisazione che le prime si pongono, in particolare,
l’obiettivo di non limitare la tutela al solo equivalente monetario dei
danni prodotti, ma di prevenirne la verificazione e, in caso contrario, di
porre a carico del responsabile la rimozione dei danni e i relativi oneri;
c2) la funzione di prevenzione è consustanziale alla generale azione dei
pubblici poteri di tutela dell’ambiente, ma su impulso della legislazione
europea il legislatore interno ha variamente posto in rilievo l’esigenza di
assicurare il ripristino ambientale, sulla base del rilievo che la
responsabilità civile prevista negli ordinamenti giuridici nazionali non
sempre è uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere
diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti
ambientali negativi a omissioni o atti di taluni soggetti;
c3) pertanto, le misure introdotte nel 1997, ed ora disciplinate dagli artt.
239 ss. del codice di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, hanno nel loro
complesso una finalità di salvaguardia del bene ambiente rispetto ad ogni
evento di pericolo o danno, nelle quali è assente ogni matrice di sanzione
rispetto al relativo autore;
c4) la bonifica costituisce uno strumento pubblicistico teso non a
monetizzare la diminuzione del relativo valore, ma a consentire il recupero
materiale a cura e spese del responsabile della contaminazione. Ne discende
che nella bonifica emerge la funzione di reintegrazione del bene giuridico
leso propria della responsabilità civile, che evoca il rimedio della
reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c., previsto per il danno
all’ambiente dall’art. 18, ottavo comma, della legge n. 349 del 1986;
c5) prima dell’introduzione della norma da ultimo citata doveva ritenersi
comunque applicabile al danno ambientale l’art. 2058 c.c. in considerazione
del rapporto di alternatività con il rimedio del risarcimento per
equivalente previsto in caso di fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c.;
c6) l’inapplicabilità del limite dell’eccessiva onerosità, già prevista con
il d.lgs. n. 22 del 1997, costituisce una differenza che non determina
l’incompatibilità tra il rimedio della bonifica dei siti inquinati e
l’istituto della responsabilità civile per fatto illecito, ma si spiega alla
luce del preminente valore assegnato dalla Costituzione all’ambiente nella
gerarchia dei beni giuridici, sulla base degli artt. 9 e 32 Cost. e della
dimensione collettiva del danno a tale bene, rispetto ai pregiudizi
riferibili alla sfera soggettiva del singolo;
c7) in senso conforme depone l’analisi della giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo in materia di diritto punitivo, secondo la
quale a prescindere dalla qualificazione giuridica da parte del diritto
nazionale occorre avere riguardo a natura, scopo e gravità delle conseguenze
sull’autore dell’illecito, con la conseguenza che non hanno natura penale
misure che soddisfano pretese risarcitorie o che siano essenzialmente
dirette a ripristinare la situazione di legalità e restaurare l’interesse
pubblico leso;
c8) mentre nel diritto penale l’indagine è condotta sul piano della
continuità normativa tra gli istituti, in applicazione del principio di
legalità, che si declina tra l’altro secondo i principi dell’irretroattività
della norma incriminatrice o sanzionatoria e dell’applicazione della norma
più favorevole in caso di successione di norme di tale natura, nel caso
dell’illecito civile la tecnica non è riproducibile, in quanto in tale
settore domina l’esigenza di assicurare la reintegrazione del bene giuridico
leso;
c9) nel caso del danno ambientale, pertanto, con l’introduzione degli
obblighi di bonifica non si è estesa l’area dell’illiceità rispetto a
condotte in precedenza considerate conformi a diritto, ma si sono ampliati i
rimedi rispetto a fatti di aggressione dell’ambiente già considerati lesivi
di un bene giuridico meritevole di tutela, con l’aggiunta rispetto alla
reintegrazione per equivalente monetario degli obblighi di messa in
sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati;
c10) la bonifica può essere ordinata a condizione che vi sia una situazione
di inquinamento ambientale e che possa essere rimossa dal soggetto
responsabile. Il carattere permanente del danno ambientale comporta che
l’autore dell’inquinamento, potendovi provvedere, rimane soggetto agli
obblighi conseguenti alla sua condotta illecita, secondo la successione di
norme di legge nel frattempo intervenuta;
c11) pertanto, nel caso di specie, non vi sarebbe una retroazione di
istituti giuridici introdotti in epoca successiva alla commissione
dell’illecito, ma un’applicazione da parte della competente autorità
amministrativa di istituti a protezione dell’ambiente previsti dalla legge
al momento in cui si accerta una situazione di pregiudizio in atto;
d) con riferimento alla possibilità di trasmettere gli obblighi e le
responsabilità conseguenti alla commissione dell’illecito in caso di
operazioni societarie straordinarie, quale la fusione per incorporazione,
nel regime antecedente alla riforma del diritto societario di cui al d.lgs.
n. 6 del 2003 (essendo pacifica tale evenienza dopo la riforma della norma
citata, intervenuta nel 2003):
d1) ai sensi dell’art. 2504-bis c.c., nella versione vigente anteriormente
alla citata riforma, la società che risulta dalla fusione o quella
incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte;
d2) nel caso di specie, malgrado la fusione risalga al 1991 e la bonifica
sia stata introdotta nel 1997, la sua natura di illecito permanente consente
di ritenere il relativo responsabile soggetto agli obblighi, risarcitori e
di reintegrazione o ripristino dello stato dei luoghi, da esso derivanti.
“In altri termini, allorché la situazione di danno all’ambiente si protragga
in un arco di tempo in cui per effetto della successione di norme di legge
al rimedio risarcitorio si aggiunga quello della bonifica, nessun ostacolo
di ordine giuridico è ravvisabile ad applicare quest’ultima ad un soggetto
che, pur non avendo commesso la condotta fonte del danno, sia nondimeno
subentrato a quest’ultimo”;
d3) dal tenore letterale del citato art. 2504-bis c.c. si ricava, quindi,
che gli obblighi in questione sono trasmissibili, in caso di fusione per
incorporazione, dalla società responsabile del danno incorporata alla
società incorporante;
d4) sul piano dogmatico, la conclusione è avvalorata dal fatto che
l’enunciato linguistico “responsabilità civile“ designa l’insieme delle
conseguenze cui un soggetto deve sottostare per legge in conseguenza di un
fatto illecito da lui commesso che, nel caso dell’illecito civile,
consistono, tra l’altro, nell’obbligo di risarcire il danno o nella
reintegrazione in forma specifica;
d5) la successione dell’incorporante negli obblighi dell’impresa incorporata
è espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et
incommoda, per cui alla successione di soggetti sul piano
giuridico-formale si contrappone sul piano economico-sostanziale una
continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione
aziendale;
d6) il superamento della concezione tradizionale si coglie nel riferimento
testuale dell’art. 2504-bis c.c. (post riforma) dove si precisa che, oltre
ad assumere i diritti e gli obblighi delle incorporate, la società
incorporante prosegue in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori
alla fusione;
d7) l’effetto tipico della successione negli obblighi della società
incorporata non è impedito dal fatto che l’accertamento dell’illecito
ambientale possa eventualmente essere successivo all’operazione
straordinaria di fusione, in quanto, anche quando funge da presupposto di un
provvedimento amministrativo come quello che ordina la bonifica,
l’accertamento del danno all’ambiente risale per sua natura all’epoca della
sua commissione;
d8) sulla successione nell’obbligo non incide il fatto che lo stabilimento
industriale, da cui è provenuto l’inquinamento oggetto dell’ordine di
bonifica impugnato, non sia mai stato acquistato dalla incorporante, ma sia
stato, in epoca precedente alla fusione per incorporazione della società
responsabile dell’inquinamento, fatto oggetto di cessione di ramo d’azienda
a terzi, in quanto in base all’art. 2560, primo comma, c.c., la cessione
d’azienda non libera il cedente dei debiti dallo stesso contratti, tra cui
quelli da fatto qualificabile come illecito civile;
d9) in una prospettiva funzionale si può osservare che “la successione sul
piano civilistico negli obblighi inerenti a fenomeni di contaminazione di
siti e di inquinamento ambientale in caso di operazioni societarie
contraddistinte dalla continuità dell’impresa pur a fronte del mutamento
formale del centro di imputazione giuridica consente di assicurare una
miglior tutela dell’ambiente”.
Il soggetto interessato all’acquisto di un
complesso aziendale, tramite l’istituto della due diligence, può venire a
conoscenza del fenomeno e concordare sul piano negoziale strumenti in grado
di riversare su quest’ultimo le relative conseguenze sul piano economico o
avvalersi dei rimedi civilistici per la responsabilità del cedente per
omessa informazione;
d10) la tesi contraria alla successione consentirebbe una facile elusione
degli obblighi maturati nel corso della gestione di una società.
IV. – Per
completezza si segnala quanto segue:
e) nel senso della mancanza di responsabilità della incorporante per fatti
attribuibili all’incorporata si veda Cons. Stato, sez. V, 05.12.2008,
n. 6055 (Dir. e giur. agr. e ambiente, 2009, 279, con nota di ROMANELLI; Riv.
giur. ambiente, 2009, 365, con nota di DE CESARIS), secondo cui, tra
l’altro:
- “L'art. 17 d.leg. n. 22/1997 presenta, rispetto al plesso normativo
composto dagli art. 2043, 2050 e 2058, differenze talmente numerose e tanto
profonde da non consentire la formulazione di alcun giudizio di continuità
tra le stesse; ne discende che l'applicazione dell'art. 17 ad un soggetto
estinto prima del 1997 si risolve in una non consentita applicazione
retroattiva della legge”;
- “La peculiarità dell'istituto disciplinato
dall'art. 17, che non trova antecedenti diretti nella previgente disciplina,
risiede nella sua natura di misura ablatoria personale, consentita in
apicibus dall'art. 23 cost., la cui adozione crea in capo al destinatario un
obbligo di attivazione, consistente nel porre in essere determinati atti e
comportamenti unitariamente finalizzati al recupero ambientale dei siti
inquinati”;
- “Nei confronti dei successori di società responsabili degli
inquinamenti, estintesi prima del 1997, non è possibile applicare l'art. 17 d.leg. n. 22/1997; è però possibile far valere l'ordinaria responsabilità
civilistica di tipo aquiliano e, sul versante amministrativo, rimangono
comunque adottabili, in base alle regole della c.d. «successione economica»,
i provvedimenti contingibili e urgenti, ove ne ricorrano i presupposti
stabiliti dall'ordinamento”;
f) nel senso che la normativa introdotta dall’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997
si applichi a qualunque situazione di inquinamento dei suoli in atto al
momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo stesso è orientato,
Cons. Stato, sez. VI, 09.10.2007, n. 5283 (in Ambiente, 2008, 749, con
nota di RINALDI);
g) sulla concezione dell’ambiente quale bene immateriale unitario, si
vedano:
g1) Cass. civ., sez. III, 19.06.1996, n. 5650 (Foro it., 1996, I, 3062,
con nota di COLONNA; Danno e resp., 1996, 693, con nota di COLONNA), secondo
cui, tra l’altro, “L'ambiente, inteso in senso unitario come bene pubblico
complesso, caratterizzato dai valori estetico-culturale, igienico-sanitario
ed ecologico-abitativo, assurge a bene pubblico immateriale, la cui natura
non preclude da doppia tutela patrimoniale e non patrimoniale, relativa alla
lesione di quell'insieme di beni materiali ed immateriali determinati, in
cui esso si sostanzia e delimita territorialmente”;
g2) Corte cost., 30.12.1987, n. 641, cit., secondo cui, tra l’altro:
- “L'ambiente è un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti,
ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente,
oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell'insieme, sono riconducibili ad
unità. Esso non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva
di tipo appropriativo: ma, appartenendo alla categoria dei c.d. beni liberi,
è fruibile dalla collettività e dai singoli. Alle varie forme di godimento è
accordata una tutela civilistica la quale trova ulteriore supporto nel
precetto costituzionale che circoscrive l'iniziativa economica privata (art.
41 Cost.) ed in quello che riconosce il diritto di proprietà, ma con i
limiti della utilità e della funzione sociale (art. 42 Cost.)”;
- “è infondata
la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 l. 08.07.1986 n.
349, nella parte in cui sottrae alla giurisdizione della corte dei conti la
responsabilità dei dipendenti dello stato e degli enti pubblici per i danni
arrecati all'ambiente nell'esercizio delle proprie funzioni, in riferimento
agli art. 5, 25 e 103 cost.”;
h) in relazione alla rilettura dell’istituto della responsabilità civile
extracontrattuale nel quadro dei valori costituzionali, si veda, tra le
altre, Corte cost., 14.07.1986, n. 184 (Foro it., 1986, I, 2053, con
nota di PONZANELLI; Giust. civ., 1986, I, 2324; Foro It., 1986, I, 2976, con
nota di MANATERI; Riv. giur. circolaz. e trasp., 1986, 1007; Leggi Civili,
1986, 6011, con nota di GIUSTI; Amm. it., 1986, 2010; Nuova giur. civ.,
1986, I, 534, con nota di ALPA; Resp. civ. e prev., 1986, 520, con nota di
SCALFI), secondo cui:
- “La vigente Costituzione, garantendo principalmente
valori personali, impone che l'art. 2043 cod. civ. vada correlato agli
articoli della Carta fondamentale (che tutelano i predetti valori) e che,
pertanto, sia letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che
gli stessi valori subiscono a causa dell'illecito. Ciò comporta che detto
articolo, correlato all'art. 32 Cost., vada necessariamente esteso fino a
comprendere il risarcimento, non solo dei danni in senso stretto
patrimoniali ma (esclusi i danni morali subiettivi che vanno risarciti ex
art. 2059 cod. civ. solo quando l'illecito civile costituisca anche reato)
di tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività
realizzatrici della persona umana. Ne consegue che la richiesta di autonomo
risarcimento, in ogni caso, del "danno biologico" contiene un implicito, ma
ineludibile, invito ad una particolare attenzione alla norma primaria ex
art. 32 Cost., la cui violazione fonda il risarcimento ex art. 2043, al
contenuto dell'iniuria, di cui allo stesso articolo, ed alla comprensione
(non più limitata, quindi, alla garanzia di soli beni patrimoniali) del
risarcimento della lesione di beni e valori personali”;
- “il risarcimento del
danno, che è una sanzione riparatoria appartenente alla categoria delle
sanzioni "esecutive" del precetto primario, tende a ripristinare
l'equilibrio tra gli interessi privati in gioco, segue alla violazione della
norma di diritto privato e, pertanto, soprattutto alla lesione dell'oggetto
specifico, immediatamente garantito dalla stessa norma; si distingue,
quindi, nettamente dalla pena, che appartiene invece alla categoria delle
sanzioni punitive, e, di conseguenza, tende principalmente a rieducare il
reo od a riaffermare l'autorità statale ed a prevenire i pericoli sociali
indiretti (recidiva, vendetta privata, ecc.); consegue alla violazione della
norma di diritto penale e, pertanto, soprattutto alla lesione degli oggetti
giuridici mediati, garantiti precipuamente dalla norma penale”;
- “L'art. 2043
cod. civ. è una sorta di "norma in bianco" in quanto, mentre vi è
espressamente e chiaramente indicata l'obbligazione risarcitoria, che
consegue al fatto doloso o colposo, non sono individuati i beni giuridici la
cui lesione è vietata, essendo l'illiceità oggettiva del fatto, che
condiziona il sorgere della detta obbligazione, indicata unicamente
attraverso l'"ingiustizia" del danno prodotto dall'illecito. Esso quindi
contiene una norma giuridica secondaria, la cui applicazione presuppone
l'esistenza di una norma giuridica primaria, perché non fa che statuire le
conseguenze dell'ingiuria, dell'atto contra ius, cioè della violazione di
una norma di diritto obiettivo, integrativa del precetto non espresso.
Pertanto, il riconoscimento del diritto alla salute, come fondamentale
diritto alla persona umana, comporta il riconoscimento che l'art. 32, primo
comma, Cost. integra l'art. 2043 cit., completandone il precetto primario”;
i) nel senso della qualificazione dell’art. 2043 c.c. come norma secondaria
o sanzionatoria si veda, tra le altre, Cass. civ., sez. un., 22.07.1999,
n. 500 (Foro it., 1999, I, 2487, con note di PALMIERI, PARDOLESI; Foro it.,
1999, I, 3201 (m), con note di CARANTA, FRACCHIA, ROMANO; Foro it., 1999, I,
3201 (m), con nota di SCODITTI; Giornale dir. amm., 1999, 832, con nota di
TORCHIA; Nuovo dir., 1999, 691, con nota di FINUCCI; Contratti, 1999, 869,
con nota di MOSCARINI; Giust. civ., 1999, I, 2261, con nota di MORELLI;
Urbanistica e appalti, 1999, 1067, con nota di PROTTO; Trib. amm. reg.,
1999, II, 225, con nota di BONANNI; Arch. civ., 1999, 1107; Danno e resp.,
1999, 965, con nota di CARBONE, MONATERI, PALMIERI; Danno e resp., 1999,
965, con nota di PARDOLESI, PONZANELLI, ROPPO; Corriere giur., 1999, 1367,
con nota di DI MAJO, MARICONDA; Mass. giur. lav., 1999, 1272; Gius, 1999,
2760, con nota di BERRUTI; Rass. giur. energia elettrica, 1999, 433; Nuove
autonomie, 1999, 563, con nota di SCAGLIONE; Gazzetta giur., 1999, fasc. 35,
42; Guida al dir., 1999, fasc. 31, 36, con nota di MEZZACAPO, CARUSO, DE
PAOLA; Guida al dir., 1999, fasc. 31, 36, con nota di FINOCCHIARO; Dir. e
pratica società, 1999, fasc. 21, 65; Ammin. it., 1999, 1399; Dir. pubbl.,
1999, 463, con nota di ORSI BATTAGLINI, MARZUOLI; Rass. amm. sic., 1999, 9),
che, muovendo da tale base, ha affermato la risarcibilità per equivalente
dell’interesse legittimo;
j) sul rapporto tra reintegrazione in forma specifica e risarcimento per
equivalente si vedano, tra le altre:
j1) Cass. civ., sez. III, 21.11.2017, n. 27546 (Rep. foro it., 2017,
Danni civili, n. 221), secondo cui “Ai sensi del 2° comma dell'art. 2058 c.c.,
in virtù del quale, anche se il danneggiato abbia chiesto, quando possibile,
la reintegrazione in forma specifica, il giudice può disporre che il
risarcimento avvenga solo per equivalente ove la reintegrazione in forma
specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore, la differenza fra
risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente consiste nel
fatto che, nel primo, la somma dovuta è calcolata sui costi occorrenti per
la riparazione, mentre, nel secondo, è riferita alla differenza fra il bene
integro (e cioè nel suo stato originario) ed il bene leso o danneggiato”;
j2) Cass. civ., sez. I,
03.07.1997, n. 5993 (Rep. Foro it., 1997, Danni
civili, n. 259), secondo cui “In tema di disposizione del 2º comma dell'art.
2058 c.c., in virtù della quale, anche se il danneggiato abbia chiesto,
quando possibile, la «reintegrazione in forma specifica», il giudice può
disporre che il risarcimento avvenga solo per «equivalente» ove la
reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il
debitore, la differenza fra la «riparazione in forma specifica» ed il
risarcimento per «equivalente» consiste nel fatto che, nel primo, la somma
dovuta è calcolata sui costi occorrenti per la riparazione e, nel secondo, è
riferita alla differenza fra il bene integro (e cioè nel suo stato
originario) ed il bene leso o danneggiato”;
k) sulle modificazioni soggettive delle società (anche ad esito di
fallimento) responsabili di danni ambientali ovvero proprietarie di terreni
e sul regime generale della responsabilità ambientale anche con riferimento
alla successione ereditaria, si vedano, oltre alla News US, n. 62 del 24.05.2019, cit. (spec. lett. j):
k1) Corte di giustizia UE,
04.03.2015, C-534/13, Min. ambiente c. Soc.
Fipa Group (in Foro it., 2015, IV, 293; Urbanistica e appalti, 2015, 635,
con nota di CARRERA, in Riv. giur. ambiente, 2015, 33 (m), con note di
MASCHIETTO, POZZO, GAVAGNIN, in Rass. forense, 2015, 138, in Giur. it.,
2015, 1480 (m), con note di VIPIANA PERPETUA, VIVANI, in Riv. quadrim. dir.
ambiente, 2015, fasc. 1, 186, con nota di GRASSI, in Riv. giur. edilizia,
2015, I, 137, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2015, 946, con nota di
ANTONIOLI, in Nuovo notiziario giur., 2015, 615, con nota di CARDELLA, in
Ragiusan, 2016, fasc. 381, 122), secondo cui: “La direttiva 2004/35/Ce del
parlamento europeo e del consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità
ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale,
deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale
come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale,
nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della
contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di
riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione
delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito,
non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al
rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità
competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo
l'esecuzione di tali interventi”.
La sentenza in esame ha escluso distonie
tra la direttiva 2004/35/Ce e le disposizioni italiane secondo le quali, ove
sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito
od ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, l’autorità competente
non può imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al
proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è
tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati
dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito,
determinato dopo l’esecuzione di tali interventi;
k2) Cons. Stato, Ad. plen., 13.11.2013, n. 25, e 25.09.2013, n.
21 (in Giurisdiz. amm., 2013, ant., 53, in Foro amm.-Cons. Stato, 2013,
2296, in Giornale dir. amm., 2014, 365 (m), con nota di SABATO, in Riv. giur.
edilizia, 2013, I, 835, in Riv. amm., 2013, 715, e in Ragiusan, 2014, fasc.
361, 131), secondo cui “Si rimette all'esame della corte di giustizia Ue la
questione pregiudiziale di corretta interpretazione relativa al se i
principi dell'Ue in materia ambientale sanciti dall'art. 191 par. 2 Tfuee
dalla dir. Ce 21.04.2004 n. 35 (art. 1 e 8 n. 3, tredicesimo e
ventiquattresimo considerando) -in particolare, il principio «chi inquina
paga», il principio di precauzione, il principio dell'azione preventiva, il
principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni
causati all'ambiente- ostino a una normativa nazionale, quale quella
delineata dagli art. 244, 245 e 253 d.leg. 03.04.2006 n. 152, che, in
caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di
individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità
di ottenere da quest'ultimo gli interventi di riparazione, non consente
all'autorità amministrativa di imporre l'esecuzione delle misure di
sicurezza d'emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile
dell'inquinamento, prevedendo, a carico di quest'ultimo, soltanto una
responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l'esecuzione
degli interventi di bonifica”;
l) con riferimento al principio del ne bis in idem nella giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo, si vedano, tra le altre:
l1) Cons. Stato, sez. VI,
09.11.2018, n. 6330 (Società, 2019, 841, con
nota di DE POLI; Foro amm., 2018, 1942), per un’analisi della giurisprudenza
convenzionale in materia, secondo cui, tra l’altro, “La rettificazione del
prezzo disposto dalla Consob non ha natura di sanzione amministrativa, né di
pena in senso convenzionale, trattandosi invece di una misura conformativa
avente la finalità preminente di «restituire» agli azionisti di minoranza le
condizioni di scelta economica che il mercato avrebbe espresso ove non fosse
stato perturbato dall'asserito comportamento collusivo di offerente e
venditore; la funzione espressa dalla delibera della Consob è la regolazione
economica del mercato finanziario; la «collusione accertata» tra l'offerente
e uno o più venditori, da cui «emerga il riconoscimento di un corrispettivo
più elevato di quello dichiarato dall'offerente», che consente alla Consob,
ai sensi dell'art. 106, 3° comma, lettera d), numero 2), tuf, di rettificare
in aumento il prezzo dell'offerta, implica l'accertamento di un accordo, o
comunque di un'intesa in senso lato, volta a perseguire l'obiettivo di
eludere le norme che presidiano la formazione del prezzo dell'Opa”;
l2) Corte EDU,
08.06.1976, Engel e altri (Foro it., 1977, IV, 1), secondo
cui, tra l’altro:
- “Sussiste violazione dell'art. 6, § 1, della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo, nella parte in cui prevede la pubblicità del
processo, nel caso che il dibattito si sia svolto a porte chiuse, vietando
l'accesso alla stampa ed al pubblico, fuori dalle situazioni eccezionali
previste da tale disposizione”;
- “Le garanzie di cui all'art. 6, par. 1,
della Convenzione europea, che riconosce il diritto ad un processo equo, si
applicano ad un procedimento relativo alla fondatezza di un'accusa penale
nei confronti di un individuo, che trae origine da una sanzione considerata
di matura semplicemente disciplinare dal diritto interno dello Stato
convenuto, ma che in realtà persegue obiettivi analoghi a quelli propri del
diritto penale. Per stabilire in concreto il carattere penale della sanzione
applicata ai fini dell'applicazione dell'art. 6 della Convenzione, una
particolare importanza deve essere in primo luogo attribuita alla natura
effettiva della misura adottata ed in secondo luogo al grado di severità
della sanzione. Di conseguenza, soltanto una misura che, per natura, durata
o modalità di esecuzione, abbia effetti minimi sulla libertà personale di un
individuo può essere considerata al di fuori della sfera penale”;
m) sul carattere permanente del danno ambientale:
m1) Cass. civ., sez. III, 19.02.2016, n. 3259 (Guida al dir., 2016,
fasc. 15, 24, con nota di PISELLI), secondo cui “in materia di danno
ambientale, la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento
dell'ambiente nelle condizioni di danneggiamento, sicché il termine
prescrizionale dell'azione di risarcimento inizia a decorrere solo dal
momento in cui tali condizioni siano state volontariamente eliminate dal
danneggiante ovvero la condotta sia stata resa impossibile dalla perdita
incolpevole della disponibilità del bene da parte di quest'ultimo”;
m2) Cass. civ., sez. III,
06.05.2015, n. 9012 (Danno e resp., 2016, 646,
con nota di COVUCCI), secondo cui, tra l’altro, “In materia di danno
ambientale, la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento
dell'ambiente nelle condizioni di danneggiamento, sicché il termine
prescrizionale dell'azione di risarcimento inizia a decorrere solo dal
momento in cui tali condizioni siano state volontariamente eliminate dal
danneggiante ovvero la condotta sia stata resa impossibile dalla perdita
incolpevole della disponibilità del bene da parte di quest'ultimo”;
n) sulla responsabilità dell’incorporante per l’illecito civile posto in
essere dalla incorporata si veda Cass. civ., sez. III, 11.11.2015, n.
22998 (Rep. Foro it., 2015, Società, n. 727), secondo cui “La fusione di
società, anche mediante incorporazione, realizza una successione universale
corrispondente a quella mortis causa delle persone fisiche, sicché il nuovo
soggetto risultante dalla fusione (o il soggetto incorporante) diviene
l'unico e diretto obbligato per i debiti dei soggetti estinti in ragione
della fusione o della incorporazione, fra i quali vanno ricompresi anche
quelli derivanti da responsabilità di cose in custodia ex art. 2051 c.c., in
relazione ai danni causati da un incendio delle parti comuni di un immobile
di proprietà della società incorporata”;
o) sull’orientamento, antecedente all’entrata in vigore del nuovo testo
dell’art. 2504-bis c.c., contrario alla responsabilità dell’incorporante, si
veda Cass. civ., sez. I, 22.09.1997, n. 9349 (Riv. giur. circolaz. e
trasp., 1997, 827), secondo cui “In caso di fusione per incorporazione di
due società di capitali, la società incorporante non risponde del pagamento
delle sanzioni amministrative irrogate per violazioni al codice della strada
commesse da veicoli di proprietà della società incorporata, qualora al
momento della notificazione del verbale di accertamento fosse già avvenuta
l'incorporazione”;
p) sul principio
cuius commoda eius et incommoda, per cui alla successione
di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone sul piano
economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della
sottostante organizzazione aziendale:
p1) in caso di fallimento: con riferimento a un provvedimento di messa in
sicurezza di un sito inquinato, Cons. Stato, sez. IV, 04.12.2017, n.
5668 (Fallimento, 2018, 590, con nota di D'ORAZIO; Riv. giur. ambiente,
2018, 157 (m), con nota di VANETTI; Ambiente, 2018, 102 (m); Foro amm.,
2017, 2381), secondo cui “L’obbligo di adottare le misure sia urgenti sia
definitive idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento deve essere
posto unicamente a carico di chi ne sia responsabile per avervi dato causa a
titolo di dolo o colpa; al contempo il principio chi inquina paga presuppone
che sia stato cagionato un danno da riparare i cui costi devono gravare sul
responsabile; il curatore fallimentare, cui non è riconducibile lo statuto
del «detentore», non è né rappresentante né successore del fallito, ma terzo
subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio esclusivamente per
l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge, sicché è privo di
legittimazione passiva in relazione alle ordinanze emesse dai rappresentanti
degli enti territoriali, tranne l'ipotesi dell'esercizio provvisorio
dell'impresa”; più in generale, Cass. civ., sez. un., 20.02.2013, n.
4213 (Foro it., 2013, I, 1137, con nota di FABIANI M.; Guida al dir., 2013,
fasc. 14, 45, con nota di GRAZIANO; Giur. it., 2013, 2099; Fallimento, 2013,
925, con nota di BOSTICCO; Banca, borsa ecc., 2014, II, 400, con nota di
RANIELI), secondo cui, tra l’altro, “Poiché nel procedimento di accertamento
del passivo il curatore fallimentare assume la posizione di terzo, le
scritture private a fondamento del credito sono soggette ai limiti probatori
di cui all'art. 2704 c.c. e debbono quindi essere munite di data certa”;
p2) sulla successione del debito in caso di cessione di azienda, con la
particolarità che in questo caso la successione dell’acquirente nei debiti
inerenti all’azienda è limitata a quelli risultanti dai libri contabili
obbligatori ai sensi dell’art. 2560, secondo comma, c.c.: Cons. Stato, Ad.
plen., 07.06.2012, n. 21 (Giurisdiz. amm., 2012, a. 107; Arch. giur. oo.
pp., 2012, 490; Nuovo notiziario giur., 2012, 411, con nota di BARBIERI;
Foro amm.-Cons. Stato, 2012, 1523), secondo cui, tra l’altro, “Nel caso di
incorporazione o di fusione societaria, sussiste in capo alla società
incorporante, o risultante dalla fusione, l'onere di presentare la
dichiarazione relativa al requisito di cui all'art. 38, 1º comma, lett. c), d.leg. n. 163 del 2006 anche con riferimento agli amministratori ed ai
direttori tecnici che hanno operato presso la società incorporata o le
società fusesi, nell'ultimo triennio ovvero che sono cessati dalla relativa
carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del 2011: nell'ultimo anno),
ferma restando la possibilità di dimostrare la c.d. dissociazione”; Cons.
Stato, Ad. plen., 04.05.2012, n. 10 (Urbanistica e appalti, 2012, 889,
con nota di FILIPPETTI; Contratti Stato e enti pubbl., 2012, fasc. 3, 66,
con nota di CALIANDRO; Giurisdiz. amm., 2012, a. 28; Arch. giur. oo. pp.,
2012, 447; Nuovo notiziario giur., 2012, 410, con nota di BARBIERI; Foro
amm.-Cons. Stato, 2012, 1091; Riv. giur. edilizia, 2012, I, 754), secondo
cui, tra l’altro, “In caso di cessione d'azienda o di un suo ramo
realizzatasi prima della partecipazione alla gara, la dichiarazione circa
l'insussistenza di sentenze pronunciate per reati incidenti sulla moralità
professionale deve essere resa, a pena di esclusione, anche da parte degli
amministratori e dei direttori tecnici che hanno operato nel triennio (ora
nell'anno, a seguito delle modifiche introdotte con l. 106/2011) presso
l'impresa cedente”, “Nella cessione di azienda o di un ramo di essa -fattispecie in cui si verifica una successione a titolo particolare- si
realizza, in ogni caso, il passaggio all'avente causa del complesso dei
rapporti attivi e passivi nei quali l'azienda stessa o il suo ramo si
sostanzia, e ciò rende la vicenda suscettibile di comportare la continuità
tra la precedente e la nuova gestione imprenditoriale”
(Consiglio di Stato, Adunanza
plenaria, sentenza,
sentenza 22.10.2019 n. 10 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
1.- Ambiente – tutela dell’Ambiente – genesi normativa.
2.- Ambiente – tutela dall’inquinamento – bonifica di un sito
inquinato – identificazione del responsabile societario – criteri.
1. Rimonta agli anni ’70 del secolo scorso
ad opera della dottrina, in parallelo con l’affermarsi dello sviluppo
urbanistico ed industriale ed il maturare in contrapposizione ad esso di una
diffusa coscienza ecologica, l’elaborazione dell’Ambiente come bene
giuridico autonomo ed unitario, oggetto di protezione giuridica contro le
aggressioni umane.
L’emergere di questo “nuovo” bene giuridico nasce dall’opera di riduzione ad
unità della legislazione dell’epoca, allora contraddistinta da normative di
carattere settoriale poste a salvaguardia degli elementi costitutivi del
paesaggio e delle bellezze naturali quali il suolo, l’aria e l’acqua, già
oggetto sin da epoca antecedente alla Costituzione di tutela in altre forme
e ad altri scopi, e cioè attraverso un regime di carattere essenzialmente
conservativo proprio della tutela della tutela paesaggistica e culturale (in
particolare con la legge 09.06.1939, n. 1497 -Protezione delle bellezze
naturali; poi abrogata nel 1999).
Alle caratteristiche tipiche della tutela conservativa tradizionale,
essenzialmente incentrata sui vincoli alle attività umane a tutela del
valore di bellezza naturale e paesaggistica del bene, si è affiancata, in
quell’epoca di crescita industriale, un’azione di vigilanza, prevenzione e
repressione delle condotte umane nocive per i singoli elementi costitutivi
dell’Ambiente sulla base di discipline normative di settore.
Sulla base della descritta linea di tendenza è pertanto maturata presso la
dottrina una nozione autonoma di Ambiente come bene giuridico, in funzione
della sua protezione contro pregiudizi in grado di tramutarsi in danno dello
stesso “uomo aggressore”, con la privazione o il deterioramento
irreversibile delle citate matrici ambientali fondamentali per la sua
esistenza.
Nell’ambito di questa evoluzione del pensiero giuridico è stato quindi messo
in luce che la qualificazione normativa di bene ambientale nasce dal
riscontro delle sue oggettive caratteristiche materiali, per cui l’atto
giuridico (legge o provvedimento amministrativo) che tale lo qualifichi e ne
istituisca il relativo regime di tutela ha natura dichiarativa, di
accertamento di una qualità ad esso immanente; ed inoltre che rispetto alla
considerazione unitaria del bene con finalità di tutela ambientale sono
recessivi gli aspetti legati alla sua composizione materiale (se cioè il
bene sia composto a sua volta da un insieme di singole cose materiali) e al
suo regime dominicale, pubblico, collettivo o privato cui gli lo stesso è
sottoposto, poiché l’elevazione a bene ambientale determina comunque una
funzionalizzazione delle relative facoltà.
2. La bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a
carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa
subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente
alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la
bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti
dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento (massima free
tratta da www.giustamm.it -
Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 22.10.2019 n. 10 -
link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’Adunanza
plenaria si pronuncia sulla bonifica del sito inquinato da parte della
società subentrata per effetto di fusione per incorporazione alla società
responsabile.
---------------
Inquinamento – Inquinamento ambientale – Bonifica – Società subentrata
per effetto di fusione per incorporazione alla società responsabile –
Responsabile per fatti della società originaria - Limiti
La bonifica del sito inquinato può essere ordinata
anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia
ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime
previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a
quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui
effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento.
---------------
(1) La questione era stata rimessa da
Cons. St., sez. IV, ord., 07.05.2019, n. 2928.
Ha premesso l’Alto consesso che anche prima che venisse introdotto
l’istituto della bonifica, con l’art. 17, d.lgs. n. 22 del 1997, il danno
all’ambiente costituiva un illecito civile, previsto dall’art. 2043 cod. civ..
Ha aggiunto che gli obblighi in questione siano trasmissibili in virtù di
fusione per incorporazione dalla società responsabile del danno incorporata
alla società incorporante.
Al quesito ora posto non può che essere data risposta positiva proprio sulla
base del tenore letterale del poc’anzi richiamato art. 2504-bis, comma 1,
cod. civ., che include espressamente nella vicenda traslativa in questione «gli
obblighi delle società estinte», ovvero di quelle incorporate (analoga
formulazione reca peraltro la medesima disposizione dopo la riforma del
diritto societario, con la sola differenza che in luogo delle società
estinte si fa riferimento alle «società partecipanti alla fusione» e
al fatto che in tutti i rapporti giuridici di queste ultime, anche quelli
processuali, vi è una “prosecuzione” dell’incorporante).
Con riguardo al previgente regime, nel senso che negli obblighi
dell’incorporata di cui l’incorporante diviene l’unico obbligato a seguito
di fusione rientrano anche quelli derivanti da responsabilità civile si è
espressa la Cassazione (Sezione III civile, sentenza 11.11.2015, n. 22998,
in un caso di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 cod. civ.).
Sul piano dogmatico la conclusione è avvalorata dal fatto che “responsabilità
civile” è espressione che designa l’insieme delle conseguenze cui un
soggetto deve sottostare per legge in conseguenza di un fatto illecito da
lui commesso, che nel caso dell’illecito civile consistono nell’«obblig(o)
(…) a risarcire il danno» o nell’alternativa della «reintegrazione in
forma specifica», anch’essa pertanto oggetto di obbligo, rispettivamente
ai sensi dei più volte richiamati artt. 2043 e 2058 del codice civile, oltre
che della più generale norma contenuta nell’art. 1173 cod. civ., che pone il
fatto illecito tra le fonti di obbligazione.
La successione dell’incorporante negli obblighi dell’incorporata è
espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et
incommoda, cui è informata la disciplina delle operazioni societarie
straordinarie, tra cui la fusione, anche prima della riforma del diritto
societario, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale
si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione
dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale.
Anche prima che venisse sancito il carattere evolutivo-modificativo di
quest’ultimo tipo di operazione era infatti indubbio che l’ente societario
subentrato a quello estintosi per effetto dell’incorporazione acquisiva il
patrimonio aziendale di quest’ultimo, di cui sul piano contabile fanno parte
anche le passività, ovvero i debiti inerenti all’impresa esercitata
attraverso la società incorporata (Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza 22.10.2019 n. 10 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
§ - 5. Così sintetizzate le questioni di diritto deferite a
questa Adunanza plenaria, la loro risoluzione richiede di affrontare tre
punti controversi, posti in rapporto di consecuzione logica, di seguito
esposti:
a) innanzitutto se la condotta di inquinamento
ambientale commessa prima che nell’ordinamento giuridico fosse introdotta la
bonifica dei siti inquinati sia qualificabile come illecito, fonte di
responsabilità civile per il suo autore, e in quale fattispecie normativa di
quest’ultimo istituto il fatto possa essere inquadrato;
b) quindi, in caso di risposta positiva al primo punto,
quali siano i rapporti tra la figura di illecito così individuato e
la bonifica e pertanto se, incontestata la discontinuità normativa tra i due
istituti, sia nondimeno possibile ordinare la bonifica per fatti risalenti
ad epoca antecedente alla sua introduzione a livello legislativo;
c) infine, ammessa l’ipotesi positiva per il secondo punto,
se gli obblighi e le responsabilità conseguenti alla commissione
dell’illecito siano trasmissibili per effetto di operazioni societarie
straordinarie quale la fusione, secondo la legislazione civilistica vigente
a quell’epoca vigente.
§ - 6. La risposta al quesito sub a) è nel senso che anche prima che
nell’ordinamento giuridico venisse introdotta la bonifica, con il più volte
citato art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997, l’inquinamento ambientale era
considerato un fatto illecito. Nel sostenere la tesi contraria la società
appellante si pone in contrasto con acquisizioni pacifiche presso la
dottrina e la giurisprudenza.
§ - 6.1. Rimonta agli anni ’70 del secolo scorso ad opera della dottrina, in
parallelo con l’affermarsi dello sviluppo urbanistico ed industriale ed il
maturare in contrapposizione ad esso di una diffusa coscienza ecologica,
l’elaborazione dell’ambiente come bene giuridico autonomo ed unitario,
oggetto di protezione giuridica contro le aggressioni umane.
L’emergere di questo “nuovo” bene giuridico nasce dall’opera di
riduzione ad unità della legislazione dell’epoca, allora contraddistinta da
normative di carattere settoriale poste a salvaguardia degli elementi
costitutivi del paesaggio e delle bellezze naturali quali il suolo, l’aria e
l’acqua, già oggetto sin da epoca antecedente alla Costituzione di tutela in
altre forme e ad altri scopi, e cioè attraverso un regime di carattere
essenzialmente conservativo proprio della tutela della tutela paesaggistica
e culturale (in particolare con la legge 09.06.1939, n. 1497 - Protezione
delle bellezze naturali; poi abrogata nel 1999).
Alle caratteristiche tipiche della tutela conservativa tradizionale,
essenzialmente incentrata sui vincoli alle attività umane a tutela del
valore di bellezza naturale e paesaggistica del bene, si stava in quell’epoca
di crescita industriale sviluppando per via legislativa un’azione di
vigilanza, prevenzione e repressione delle condotte umane nocive per i
singoli elementi costitutivi dell’ambiente sulla base di discipline
normative di settore.
Sulla base della descritta linea di tendenza è pertanto maturata presso la
dottrina una nozione autonoma di quest’ultimo come bene giuridico, in
funzione della sua protezione contro pregiudizi in grado di tramutarsi in
danno dello stesso “uomo aggressore”, con la privazione o il
deterioramento irreversibile delle citate matrici ambientali fondamentali
per la sua esistenza.
Nell’ambito di questa evoluzione del pensiero giuridico è stato quindi messo
in luce che la qualificazione normativa di bene ambientale nasce dal
riscontro delle sue oggettive caratteristiche materiali, per cui l’atto
giuridico (legge o provvedimento amministrativo) che tale lo qualifichi e ne
istituisca il relativo regime di tutela ha natura dichiarativa, di
accertamento di una qualità ad esso immanente; ed inoltre che rispetto alla
considerazione unitaria del bene con finalità di tutela ambientale sono
recessivi gli aspetti legati alla sua composizione materiale (se cioè il
bene sia composto a sua volta da un insieme di singole cose materiali) e al
suo regime dominicale, pubblico, collettivo o privato cui gli lo stesso è
sottoposto, poiché l’elevazione a bene ambientale determina comunque una
funzionalizzazione delle relative facoltà.
§ - 6.2. L’elaborazione dottrinale ha trovato riscontro nella giurisprudenza
di quell’epoca che, traendo fondamento dalla Costituzione, ed in particolare
gli artt. 9 e 32, ha elevato l’ambiente a diritto individuale, tutelabile
attraverso la tecnica della responsabilità civile extracontrattuale ex art.
2043 cod. civ., a fondamento della quale sta il precetto generale del
neminem laedere; in parallelo si è sviluppata la tutela della proprietà
contro immissioni intollerabili prevista dall’art. 844 cod. civ., intesa
tuttavia secondo una logica non più meramente dominicale, ma in funzione del
benessere dell’individuo e del suo interesse personale a godere di un
habitat naturale salubre ed incontaminato.
§ - 6.3. Nella descritta temperie culturale il danno all’ambiente è stato
infine positivizzato, con l’art. 18 della legge 08.07.1986, n. 349
(Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno
ambientale), ora abrogato, che in assonanza con la fattispecie generale
prevista dal poc’anzi citato art. 2043 cod. civ. ha tipizzato come fatto
illecito «Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni
di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta
l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o
distruggendolo in tutto o in parte», fonte di obbligo per il suo «autore»
al risarcimento del danno a favore dello Stato (comma 1).
§ - 6.4. Come affermato dalla Corte costituzionale, con la nuova fattispecie
di illecito ambientale si è avuto il recepimento a livello normativo della
concezione dell’ambiente come «bene immateriale unitario sebbene a varie
componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e
separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono
riconducibili ad unità»; oggetto di considerazione legislativa «come
elemento determinativo della qualità della vita» in relazione ad «un
habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla
collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti»;
e pertanto elevato a bene protetto attraverso l’azione dei pubblici poteri «imposta
anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso
assurge a valore primario ed assoluto» (sentenza 31.12.1987, n. 641, di
rigetto delle questioni di costituzionalità della nuova fattispecie di danno
ambientale nella parte in cui la relativa cognizione è stata devoluta al
giudice ordinario anziché alla Corte dei conti).
Nell’inquadrare il danno all’ambiente nel paradigma generale della
responsabilità civile la Corte costituzionale ha poi precisato che l’art.
2043 cod. civ. «va posto in correlazione con la disposizione che prevede
il bene giuridico tutelato attraverso la posizione del divieto primario. La
sanzione risarcitoria è conseguenza della lesione della situazione giuridica
tutelata. (…) Risultano rimedi a tutta la indefinita e sterminata serie
degli eventi lesivi che l’uomo quotidianamente si inventa utilizzando anche,
in maniera distorta e a proprio esclusivo vantaggio, il progresso
tecnologico».
§ - 6.5. La pronuncia ora richiamata si colloca nel solco della concezione
dell’istituto della responsabilità civile extracontrattuale “aperta”
ai valori costituzionali («rilettura costituzionale di tutto il sistema
codicistico dell’illecito civile») espressa dalla stessa Corte
costituzionale con la sentenza 14.07.1986, n. 184, sul danno biologico.
In base a tale concezione è considerato illecito civile ogni fatto ingiusto
lesivo di beni giuridicamente tutelati, ivi compresi quelli per i quali il
bisogno di protezione matura sulla base delle spinte emergenti «dall’esperienza,
ispirata ai valori, personali, esplicitamente garantiti dalla Carta
costituzionale».
Sul piano tecnico-giuridico la tutela di questi “nuovi beni” viene
consentita sulla base dell’atipicità della fattispecie prevista dall’art.
2043 cod. civ., imperniata sulla clausola generale del «danno ingiusto»
provocato da «Qualunque fatto doloso o colposo»; e della sua natura di
norma secondaria o sanzionatoria: «obbliga colui che ha commesso il fatto
a risarcire il danno» (va ricordato che sulla base della stessa
qualificazione dell’art. 2043 cod. civ. di norma secondaria o sanzionatoria
è stata affermata la risarcibilità per equivalente dell’interesse legittimo,
con la sentenza delle Sezioni unite civili della Cassazione del 22.07.1999,
n. 500).
§ - 6.6. In base alla descritta concezione dell’illecito civile
extracontrattuale si è poi escluso che l’art. 18 della legge n. 349 del 1986
abbia avuto portata innovativa sul piano della considerazione dell’ambiente
come bene giuridico protetto.
La fonte genetica della sua tutela è stata invece individuata «direttamente
nella Costituzione, considerata dinamicamente, come diritto vigente e
vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (quali gli
articoli 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l’individuo e la collettività nel
suo habitat economico, sociale, ambientale» (Cass. civ., III,
19.06.1996, n. 5650, di conferma della condanna al risarcimento dei danni
subiti dai Comuni coinvolti nel disastro del Vajont, come noto avvenuto
molti anni prima dell’entrata in vigore della legge n. 349 del 1986).
Nella pronuncia ora richiamata la Suprema Corte ha invece individuato quale
unico elemento di novità della fattispecie introdotta nel 1986 quello
consistito nel definire il riparto di competenze nella tutela dell’ambiente
tra Stato, enti territoriali ed associazioni di protezione ambientale.
§ - 6.7. Ai rilievi svolti dalla Cassazione può aggiungersi che l’illecito
così tipizzato ha sancito sul più generale piano sistematico la dimensione
collettiva e super-individuale del danno all’ambiente, comprensivo di tutti
i costi sociali conseguenti ad aggressioni dell’habitat naturale,
consistenti in diseconomie esterne di produzione ed emergente, tra l’altro:
- dal riferimento operato dal comma 5 dell’art. 18 l. n. 349 del
1986 al «costo necessario per il ripristino» per la determinazione
del danno, nel caso di impossibilità di una sua «precisa quantificazione»;
- e dalla previsione contenuta nel comma 8, per cui in caso di
condanna è disposto «ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi
a spese del responsabile».
§ - 6.8. Illuminanti rispetto alle caratteristiche del danno ambientale sono
ancora una volta i passaggi motivazionali della sentenza della Corte
costituzionale del 31.12.1987, n. 641, sopra menzionata, in particolare
laddove: si afferma che il danno risarcibile per l’illecito ambientale «è
certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione
aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che
la distruzione o il deterioramento o l’alterazione o, in genere, la
compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla
collettività la quale viene ad essere gravata da oneri economici»; e si
precisa che l’ambiente, benché non sia «un bene appropriabile»,
nondimeno «si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso
attribuirsi un prezzo».
Secondo la Corte costituzionale quest’ultimo corrisponde ai costi
dell’azione pubblica di conservazione e tutela «tra cui quella di polizia
che regolarizza l’attività dei soggetti e crea una sorveglianza
sull’osservanza dei vincoli; la gestione del bene in senso economico con
fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e
dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali».
Su questa base -prosegue la Corte- è pertanto possibile «confrontare i
benefici con le alterazioni; si può effettuare la stima e la pianificazione
degli interventi di preservazione, di miglioramento e di recupero; si
possono valutare i costi del danneggiamento. E per tutto questo l’impatto
ambientale può essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di
dare all’ambiente e quindi al danno ambientale un valore economico».
§ - 6.9. Dalle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale emerge
pertanto una funzione riparatoria dell’illecito ambientale non circoscritta
alla sola differenza di valore del bene leso rispetto a quello che aveva
prima del danno, secondo lo schema proprio del tipico illecito civile fonte
lesivo di beni di carattere individuale, ma estesa a tutti costi necessari
per ripristinare il complessivo pregiudizio inferto all’ecosistema naturale.
Sotto il profilo ora evidenziato il danno all’ambiente risarcibile ai sensi
dell’art. 18 l. n. 349 del 1986, anche attraverso una somma di denaro,
assume pertanto i connotati della reintegrazione in forma specifica ex art.
2058 cod. civ. (in questi termini è la costante giurisprudenza di
legittimità: cfr. Cass. civ., I, 03.07.1997, n. 5993; III, ord. 21.11.2017,
n. 27546).
Tuttavia, rispetto al rimedio di carattere generale previsto da quest’ultima
disposizione, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile
previsto dal sopra citato comma 8 del medesimo art. 18 della legge
istitutiva del Ministero dell’ambiente non soggiace al limite dell’eccessiva
onerosità, ma solo a quello della possibilità, per cui sotto questo profilo
la tutela dell’ambiente è rafforzata rispetto agli ordinari strumenti
dell’illecito civile.
§ - 7. Chiarito pertanto che anche prima che venisse introdotto l’istituto
della bonifica, con l’art. 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997, il
danno all’ambiente costituiva un illecito civile, previsto dall’art. 2043
cod. civ., si può passare pertanto ad esaminare il punto sub b) e dunque
a stabilire i rapporti tra i due istituti.
§ - 7.1. Come esposto in precedenza, l’ordinanza di deferimento della IV
Sezione non ha inteso contestarne il rapporto di discontinuità normativa,
affermato dalla V Sezione nel più volte ricordato precedente di cui alla
sentenza del 05.12.2008, n. 6055, sulla base di un’approfondita analisi
strutturale delle norme ad esse relative.
La Sezione rimettente ha invece proposto una diversa chiave di lettura di
tali rapporti, incentrata sulla comune funzione «ripristinatoria-reintegratoria»,
della responsabilità civile e della bonifica, tale da consentire di ordinare
quest’ultima per fenomeni di inquinamento risalenti ad epoca antecedente
alla sua introduzione nell’ordinamento giuridico.
§ - 7.2. I rilievi svolti dalla Sezione rimettente sono corretti.
L’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 ha introdotto il rimedio della «messa in
sicurezza», «bonifica» «ripristino ambientale delle aree
inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento»,
nei confronti di situazioni anche solo di «pericolo concreto ed attuale»
di superamento dei livelli di concentrazione di sostanze inquinanti –fissati
con il regolamento di attuazione approvato con decreto interministeriale del
25.10.1999, n. 471– causate «anche in maniera accidentale» (comma 2),
ed attribuito la competenza all’autorità amministrativa (commi 3 e
seguenti).
Lungi dal segnare una discontinuità con la precedente legislazione in
materia, le misure in questione sono al contrario state poste in dichiarata
concorrenza con esse, ai sensi dell’art. 18, comma 4, del citato regolamento
approvato con d.m. n. 471 del 1999 (ora abrogato), secondo cui «E’ fatto
comunque salvo l’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi e di
risarcimento del danno ambientale ai sensi dell'articolo 18 della legge
08.07.1986, n. 349».
§ - 7.3. Nel ravvisare sulla base degli elementi ora descritti, e di
ulteriori, un’«assenza di continuità normativa» tra la disposizione
introdotta nel 1997 e la figura generale di illecito civile, e nel
concludere nel senso dell’impossibilità di applicare la prima in via
retroattiva a fatti antecedenti alla sua entrata in vigore, la V Sezione non
ha quindi considerato nel precedente del 2008 che le (pur innegabili)
differenze strutturali tra le due norme sono conseguenti non già
all’introduzione di un nuovo fatto illecito, offensivo di un bene in
precedenza non ritenuto meritevole di protezione ai sensi dell’art. 2043
cod. civ., ma all’esigenza di rafforzare la tutela del bene ambiente, già
oggetto di protezione legislativa con il rimedio previsto da quest’ultima
disposizione e con la specifica disposizione dell’art. 18 della legge
istitutiva del Ministero dell’ambiente.
La citata disposizione regolamentare è nello specifico indice del fatto che
tanto le misure introdotte con il decreto legislativo n. 22 del 1997, poi
trasfuse nel codice dell’ambiente attualmente vigente, quanto il rimedio del
risarcimento del danno già riconosciuto sulla base dell’art. 2043 cod. civ.,
e poi con la legge n. 349 del 1986, hanno la medesima funzione («ripristinatoria-reintegratoria»)
di protezione dell’ambiente. Le prime si pongono in particolare l’obiettivo
di non limitare la tutela al solo equivalente monetario dei danni prodotti,
come per il passato, ma di prevenirne la verificazione e, in caso contrario,
di porre a carico del responsabile la rimozione e i relativi oneri.
§ - 7.4. Come in precedenza accennato, la funzione di prevenzione è peraltro
consustanziale alla generale azione dei pubblici poteri di tutela
dell’ambiente. Essa emerge dall’evoluzione legislativa in materia,
realizzatasi sulla spinta del diritto europeo e del principio cardine “chi
inquina paga” (ora sancito a livello sovranazionale dall’art. 191 del
Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e dall’art. 3-ter del codice
dell’ambiente di cui al d.lgs. n. 152 del 2006), con il quale si mira a fare
ricadere i costi dei danni causati all’ambiente sui soggetti responsabili
piuttosto che non sulla collettività e riparati con denaro pubblico, o su
soggetti incolpevoli che nondimeno si trovano in una qualche relazione
materiale o giuridica con il sito inquinato.
Solo attraverso un’azione di tutela preventiva è infatti possibile impedire
che danni all’ambiente si producano e che, dunque, accertate le relative
responsabilità, debbano attivarsi tutte le procedure necessarie per
rimuovere la situazione di pregiudizio, con il rischio di una loro
inattuazione e dell’impossibilità di integrale riparazione per equivalente
dei costi del ripristino.
Oltre alla funzione preventiva gli istituti introdotti a partire dal decreto
legislativo n. 22 del 1997, su impulso della legislazione europea (in
particolare della direttiva 2004/35/CE del 21.04.2004 -«sulla
responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno
ambientale»), hanno quindi posto in rilievo l’esigenza di assicurare il
ripristino ambientale, sulla base del rilievo, espresso nel considerando n.
13, che la responsabilità civile prevista dagli ordinamenti giuridici
nazionali non sempre è «uno strumento adatto per trattare l’inquinamento
a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli
effetti ambientali negativi a atti o omissioni di taluni singoli soggetti».
In questa direzione si collocano da ultimo le modifiche introdotte al codice
dell’ambiente, ed in particolare all’art. 311, relativo all’«Azione
risarcitoria in forma specifica» (così la rubrica), introdotte dalla
legge europea 2013 (legge 06.08.2013, n. 97), incentrate nel loro complesso
ad attribuire ad esso carattere prioritario ed invece subordinato alla
tutela per equivalente, in funzione di una più efficace tutela
dell’ambiente. Rispetto all’assetto originariamente prefigurato dalla legge
istitutiva del Ministero dell’ambiente di equiordinazione tra i due rimedi,
ripristinatorio e di reintegrazione per equivalente, la legislazione
successiva ha così sancito la priorità del primo.
§ - 7.5. Può pertanto ritenersi pacifico che le misure introdotte nel 1997,
ed ora disciplinate dagli artt. 239 e ss. del codice di cui al d.lgs. n. 152
del 2006, hanno nel loro complesso una finalità di salvaguardia del bene
ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o danno, nelle quali è assente
ogni matrice di sanzione rispetto al relativo autore.
Come inoltre puntualmente rilevato dalla Sezione rimettente tali misure non
appartengano al «diritto lato sensu punitivo», sebbene per esse sia
imprescindibile un accertamento di responsabilità (cfr. Cons. Stato, Ad.
plen., ord. 13.11.2013, nn. 21 e 25), ma si collocano invece nel tessuto
connettivo formato dalla normativa ora menzionata.
§ - 7.6. Se poi nemmeno l’appellante arriva a sostenere la tesi opposta, è
sufficiente allora osservare che le misure in questione si concretizzano in
obblighi di fare a carico del responsabile, sotto la vigilanza
dell’amministrazione pubblica competente (attraverso l’approvazione del
progetto di bonifica) con l’unico scopo di ripristinare la situazione di
fatto antecedente all’inquinamento ambientale e di rimuoverne gli effetti.
Come correttamente rilevato dalla IV Sezione nell’ordinanza di deferimento
all’Adunanza plenaria, la bonifica costituisce in estrema sintesi «uno
strumento pubblicistico teso non a monetizzare la diminuzione del relativo
valore (in ciò sostanziandosi la tutela per equivalente), ma a consentirne
il recupero materiale a cura e spese del responsabile della contaminazione».
Sotto il profilo ora evidenziato si palesa pertanto nella bonifica la
funzione di reintegrazione del bene giuridico «leso dall’illecito»
(così ancora l’ordinanza di rimessione) propria della responsabilità civile
e riecheggiante il rimedio della reintegrazione in forma specifica ex art.
2058 cod. civ., già espressamente previsto per il danno all’ambiente
dall’art. 18, comma 8, della legge n. 349 del 1986 nella forma del «ripristino
dello stato dei luoghi a spese del responsabile», come in precedenza
esposto.
§ - 7.7. Sul punto va aggiunto che prima che fosse introdotta quest’ultima
disposizione la fattispecie di carattere generale della reintegrazione in
forma specifica ai sensi del medesimo art. 2058 cod. civ. doveva comunque
ritenersi applicabile in virtù del rapporto di alternatività con il rimedio
dell’equivalente monetario previsto in caso di fatto illecito dall’art. 2043
del codice civile. Inoltre, analogamente a quanto avvenuto in occasione
dell’istituzione del Ministero dell’ambiente e della fattispecie di illecito
relativo a tale bene, anche allorché è stata introdotta nell’ordinamento
giuridico la bonifica di siti inquinati, con il più volte citato d.lgs. n.
22 del 1997, non è stato previsto il limite dell’eccessiva onerosità
(previsto dal comma 2 dell’art. 2058).
Si tratta nondimeno di una differenza che, lungi dal segnare
l’incompatibilità tra il rimedio della bonifica dei siti inquinati rispetto
all’istituto della responsabilità civile per fatto illecito e la sua
collocazione nella materia del diritto punitivo, si spiega invece alla luce
del preminente valore assegnato dalla Costituzione all’ambiente nella
gerarchia dei beni giuridici, sulla base dei già citati artt. 9 e 32 della
Carta fondamentale, e della sopra evidenziata dimensione collettiva del
danno a tale bene, rispetto ai pregiudizi riferibili alla sfera soggettiva
del singolo.
§ - 7.8. In senso conforme depone l’indagine condotta sulla base dei
principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di
diritto punitivo, in relazione al principio del ne bis in idem (sancito
dall’art. 4 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione), secondo la
quale a prescindere dalla formale qualificazione giuridica da parte del
diritto nazionale occorre avere riguardo alla natura, scopo e gravità delle
conseguenze sull’autore dell’illecito (cfr. la sentenza “capo stipite”
dell’08.06.1976, Engel v. Paesi Bassi).
A questo riguardo la Corte europea ha in particolare negato natura di
sanzione penale alle misure che soddisfano pretese risarcitorie o che siano
essenzialmente dirette a ripristinare la situazione di legalità e restaurare
così l’interesse pubblico leso (sentenza 07.07.1989, Tre Traktörer
Aktiebolag c. Svezia, citata dalla VI Sezione di questo Consiglio di Stato
nella sentenza del 09.11.2018, n. 6330, nell’ambito di una più approfondita
analisi della giurisprudenza convenzionale in materia, alla quale si fa
rinvio).
§ - 7.9. Impostati in questi termini i rapporti tra i due istituti,
l’indagine condotta sul piano della continuità normativa tra gli stessi si
rivela errato nelle sue premesse.
La tecnica di analisi dei rapporti tra norme ora richiamata è infatti
propria del diritto penale o punitivo in generale, nel quale, per il
carattere in sé afflittivo delle sanzioni in esso previste, domina il
principio di legalità, che nella sua dimensione diacronica si declina tra
l’altro secondo i principi dell’irretroattività della norma incriminatrice o
sanzionatoria e dell’applicazione della norma più favorevole in caso di
successione di norme di tale natura (artt. 2 del codice penale e 1 della
legge 24.11.1981, n. 689 - Modifiche al sistema penale).
La stessa tecnica non è invece riproducibile nel caso dell’illecito civile,
in cui la reazione dell’ordinamento giuridico per il danno procurato è
dominata dall’esigenza di assicurare la reintegrazione del bene giuridico
leso. Va allora ribadito sul punto che nel caso del danno ambientale con
l’introduzione degli obblighi di bonifica ad opera dell’art. 17 d.lgs. n. 22
del 1997 non si è estesa l’area dell’illiceità rispetto a condotte in
precedenza considerate conformi a diritto, ma si sono ampliati i rimedi
rispetto a fatti di aggressione dell’ambiente già considerati lesivi di un
bene giuridico meritevole di tutela, con l’aggiunta rispetto alla
reintegrazione per equivalente monetario già consentita in base agli artt.
2043 cod. civ. e 18 della legge n. 349 del 1986, ed in espressa concorrenza
con quest’ultimo (secondo quanto previsto dal più volte citato art. 18,
comma 4, d.m. n. 471 del 1999), degli obblighi di messa in sicurezza,
bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati.
§ - 7.10. Deve al medesimo riguardo essere sottolineato che nemmeno vi è
contestazione da parte della società appellante sul fatto che, come
puntualmente rilevato dalla Sezione rimettente, la bonifica può essere
ordinata a condizione che vi sia una situazione di inquinamento ambientale e
che possa essere rimossa dal soggetto responsabile.
Il rilievo ora svolto consente di lumeggiare il carattere permanente del
danno ambientale, perdurante cioè fintanto che persista l’inquinamento
(secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, da ultimo ribadita da
Cass. civ., III, 19.02.2016, n. 3259, 06.05.2015, n. 9012; nel medesimo
senso può essere richiamata la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato,
tra cui si segnala la sentenza della VI Sezione del 23.06.2014, n. 3165).
Da tale inquadramento si ricava pertanto la conseguenza che l’autore
dell’inquinamento, potendovi provvedere, rimane per tutto questo tempo
soggetto agli obblighi conseguenti alla sua condotta illecita, secondo la
successione di norme di legge nel frattempo intervenuta: e quindi
dall’originaria obbligazione avente ad oggetto l’equivalente monetario del
danno arrecato, o in alternativa alla reintegrazione in forma specifica ex
art. 2058 cod. civ., poi specificato nel «ripristino dello stato dei
luoghi» ai sensi del più volte richiamato art. 18, comma 8, l. n. 249
del 1986, fino agli obblighi di fare connessi alla bonifica del sito secondo
la disciplina attualmente vigente.
§ - 7.11. Pertanto, diversamente da quanto affermato dalla V Sezione nella
più volte menzionata sentenza del 05.12.2008, n. 6055, non vi è luogo nel
caso ora descritto ad alcuna retroazione di istituti giuridici introdotti in
epoca successiva alla commissione dell’illecito, ma casomai all’applicazione
da parte della competente autorità amministrativa degli istituti a
protezione dell’ambiente previsti dalla legge al momento in cui si accerta
una situazione di pregiudizio in atto.
§ - 8. Giunti a questa conclusione rimane da esaminare il punto
controverso sub c), e cioè se gli obblighi ora enunciati possano essere
posti a carico di un soggetto non qualificabile come responsabile
dell’inquinamento, per non essere mai stato proprietario, né tanto meno
avere mai gestito l’impianto industriale da cui è scaturito l’inquinamento,
nel caso di specie fatto addirittura oggetto di trasferimento a terzi
mediante cessione di ramo d’azienda prima della fusione per incorporazione,
e che pertanto mai abbia potuto provvedere a rimuovere gli effetti di
condotte illecite altrui sull’ambiente circostante.
§ - 8.1. Il quesito richiede di affrontare le caratteristiche e gli effetti
della fusione per incorporazione, nel regime antecedente alla riforma del
diritto societario di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, in cui si colloca la
presente vicenda contenziosa e sulla cui base la Provincia di Asti ha emesso
l’ordine di bonifica nei confronti della Al.-Lu. It., onde verificare se
questa operazione straordinaria determini una cesura nel fenomeno
successorio proprio del carattere permanente dell’illecito ambientale, come
poc’anzi esposto.
L’appellante sottolinea al riguardo che nel previgente regime «la società
che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli
obblighi delle società estinte»: art. 2504-bis cod. civ., nella versione
antecedente alla citata riforma ed applicabile ai fatti di causa, quando
l’appellante ha incorporato la S.I.E.T.T.E. (1991). Viene al riguardo
evidenziato che in base alla legislazione all’epoca vigente non può essere
compresa la bonifica, poiché introdotta nell’ordinamento successivo solo nel
1997.
8.2. Sennonché a confutazione delle argomentazioni difensive ora
sintetizzate è sufficiente richiamare le considerazioni svolte in sede di
esame dei precedenti punti controversi, dalle quali si ricava che è in
particolare errata la premessa su cui gli assunti della medesima società
poggiano, ovvero che prima che la bonifica fosse introdotta a livello
legislativo il danno ambientale non integrasse alcun illecito e che, quindi,
la stessa non potrebbe essere ordinata per condotte antecedenti alla sua
introduzione a livello legislativo.
Né l’uno né l’altro rilievo sono corretti, posto che il danno all’ambiente è
inquadrabile nella fattispecie generale di illecito civile ex art. 2043 cod.
civ. e che la sua natura di illecito permanente consente di ritenere il
relativo responsabile soggetto agli obblighi, risarcitori ed in primis di
reintegrazione o ripristino dello stato dei luoghi, da esso derivanti. In
altri termini, allorché la situazione di danno all’ambiente si protragga in
un arco di tempo in cui per effetto della successione di norme di legge al
rimedio risarcitorio si aggiunga quello della bonifica, nessun ostacolo di
ordine giuridico è ravvisabile ad applicare quest’ultima ad un soggetto che,
pur non avendo commesso la condotta fonte del danno, sia nondimeno
subentrato a quest’ultimo.
§ - 8.3. Ciò che occorre a questo punto chiarire e se gli obblighi in
questione siano trasmissibili in virtù di fusione per incorporazione dalla
società responsabile del danno incorporata alla società incorporante.
Al quesito ora posto non può che essere data risposta positiva proprio sulla
base del tenore letterale del poc’anzi richiamato art. 2504-bis, comma 1,
cod. civ., che include espressamente nella vicenda traslativa in questione «gli
obblighi delle società estinte», ovvero di quelle incorporate (analoga
formulazione reca peraltro la medesima disposizione dopo la riforma del
diritto societario, con la sola differenza che in luogo delle società
estinte si fa riferimento alle «società partecipanti alla fusione» e
al fatto che in tutti i rapporti giuridici di queste ultime, anche quelli
processuali, vi è una “prosecuzione” dell’incorporante).
Con riguardo al previgente regime, nel senso che negli obblighi
dell’incorporata di cui l’incorporante diviene l’unico obbligato a seguito
di fusione rientrano anche quelli derivanti da responsabilità civile si è
espressa la Cassazione (Sezione III civile, sentenza 11.11.2015, n. 22998,
in un caso di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 cod. civ.).
§ - 8.4. Sul piano dogmatico la conclusione è avvalorata dal fatto che “responsabilità
civile” è espressione che designa l’insieme delle conseguenze cui un
soggetto deve sottostare per legge in conseguenza di un fatto illecito da
lui commesso, che nel caso dell’illecito civile consistono nell’«obblig(o)
(…) a risarcire il danno» o nell’alternativa della «reintegrazione in
forma specifica», anch’essa pertanto oggetto di obbligo, rispettivamente
ai sensi dei più volte richiamati artt. 2043 e 2058 del codice civile, oltre
che della più generale norma contenuta nell’art. 1173 cod. civ., che pone il
fatto illecito tra le fonti di obbligazione.
La successione dell’incorporante negli obblighi dell’incorporata è
espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et
incommoda, cui è informata la disciplina delle operazioni societarie
straordinarie, tra cui la fusione, anche prima della riforma del diritto
societario, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale
si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione
dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale.
Anche prima che venisse sancito il carattere evolutivo-modificativo di
quest’ultimo tipo di operazione era infatti indubbio che l’ente societario
subentrato a quello estintosi per effetto dell’incorporazione acquisiva il
patrimonio aziendale di quest’ultimo, di cui sul piano contabile fanno parte
anche le passività, ovvero i debiti inerenti all’impresa esercitata
attraverso la società incorporata.
§ - 8.5. Nel sancire la natura evolutivo-modificativo della fusione la
riforma del diritto societario ha pertanto inteso superare quella
artificiosa concezione antropomorfista accolta nel codice civile e
radicatasi presso la giurisprudenza civile dell’epoca antecedente alla
riforma del diritto societario, tendente a dare rilievo preminente al dato
formale della personalità giuridica riconosciuta alle società di capitali,
che secondo la migliore dottrina commercialistica ha invece carattere
strumentale rispetto al regime giuridico di separazione dei patrimoni e
delle responsabilità della società rispetto ai soci.
Nella critica alla concezione tradizionale si era in particolare evidenziato
che pur in presenza di una vicenda intrinsecamente contraddistinta da una
prospettiva di continuità dell’impresa si faceva nondimeno ricorso
all’istituto delle successioni mortis causa per trarre le regole
giuridiche applicabili al caso di specie, tra cui in particolare: sul piano
sostanziale, il principio per cui ogni atto deve essere indirizzato al nuovo
ente, unico centro di imputazione giuridica per i debiti dei soggetti
definitivamente estinti per effetto della fusione (cfr. ex multis:
Cass. civ., I, 22.09.1997, n. 9349, 11.06.2003, n. 9355); sul piano
processuale, le norme relative all’interruzione e alla successione nel
processo, ex artt. 110 e 299 e ss. cod. proc. civ. per il caso di fusione
avvenuta in corso di causa.
La volontà innovatrice della riforma del diritto societario rispetto al
descritto assetto si coglie appunto nel riferimento testuale del nuovo art.
2504-bis cod. civ. al fatto che oltre ad “assumere” i diritti e gli
obblighi delle incorporate la società incorporante prosegue «in tutti i
loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione».
§ - 8.6. Lo stesso fondamento logico ricavabile dal principio cuius
commoda eius et incommoda è poi alla base:
- dell’analoga disciplina prevista nella fattispecie della cessione
di azienda (sull’analogia con la fusione per incorporazione cfr. le sentenze
di questa Adunanza plenaria del 04.05.2012, n. 10, e del 07.06.2012, n. 21),
con la sola particolarità che in questo caso la successione dell’acquirente
nei debiti inerenti all’azienda è limitata a quelli risultanti dai libri
contabili obbligatori (art. 2560, comma 2, cod. civ.);
- dell’opposta regola, per cui non vi è successione nel debito, in
caso di estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal
registro delle imprese, con efficacia costitutiva ai sensi dell’art. 2495,
comma 2, cod. civ., laddove sulla base dell’art. 2456 cod. civ., nella
versione antecedente alla riforma del diritto societario, la giurisprudenza
di legittimità era invece orientata per la sopravvivenza della società in
caso di rapporti non esauriti: Cass. civ., II, 04.10.1999, n. 11201;
- del pari, anche in caso di fallimento, il quale non dà luogo ad
alcuna successione della procedura concorsuale rispetto alla società in
bonis e che ha invece la funzione di gestione e liquidazione della massa
attiva aziendale al fine del soddisfacimento concorsuale dei creditori (in
questi termini, con riguardo al caso, per plurimi aspetti analogo a quello
oggetto del presente giudizio, di un provvedimento di messa in sicurezza di
un sito inquinato, si rinvia a Cons. Stato, IV, 04.12.2017, n. 5668; più in
generale: Cass. civ., SS.UU, 20.02.2013, n. 4213; I, 07.07.2015, n. 14054).
§ - 8.7. Ritornando al caso della fusione per incorporazione, qui in
discussione, deve precisarsi che l’effetto suo tipico della successione
negli obblighi della società incorporata, già sancito nella previgente
formulazione dell’art. 2504-bis cod. civ., non è impedito dal fatto che
l’accertamento dell’illecito ambientale possa eventualmente essere
successivo all’operazione straordinaria di fusione, come nel caso di specie.
Infatti, anche quando funge da presupposto di un provvedimento
amministrativo come quello che ordina la bonifica oggetto del presente
giudizio, e che dunque modificando la realtà giuridica costituisce obblighi
a carico del destinatario del provvedimento, l’accertamento del danno
all’ambiente risale per sua natura all’epoca della sua commissione.
§ - 8.8. Alla successione nell’obbligo non osta inoltre il fatto che lo
stabilimento industriale da cui è provenuto l’inquinamento oggetto
dell’ordine di bonifica impugnato nel presente giudizio non sia mai stato
acquistato dalla società odierna appellante, ma –come questa sottolinea- sia
stato in epoca precedente alla fusione per incorporazione della società
responsabile dell’inquinamento fatta oggetto di cessione di ramo d’azienda a
terzi. Come infatti statuito dalla Sezione rimettente nella sentenza non
definitiva coeva all’ordinanza di rimessione, in base all’art. 2560, comma
1, cod. civ. la cessione d’azienda non libera il cedente dei debiti dallo
stesso contratti, tra cui quelli da fatto illecito civile.
§ - 8.9. Rispetto a quanto finora considerato può aggiungersi che la
successione sul piano civilistico negli obblighi inerenti a fenomeni di
contaminazione di siti e di inquinamento ambientale in caso di operazioni
societarie contraddistinte dalla continuità dell’impresa pur a fronte del
mutamento formale del centro di imputazione giuridica consente di assicurare
una miglior tutela dell’ambiente.
Come infatti evidenziato in sede di discussione dalla difesa della
controinteressata IAO - Industrie Riunite attraverso l’istituto elaborato
dalla prassi commerciale della due diligence è possibile per il
soggetto interessato all’acquisto di un complesso aziendale venire a
conoscenza del fenomeno da parte del cedente, autore dei fatti e di
concordare sul piano negoziale strumenti in grado di riversare su quest’ultimo
le relative conseguenze sul piano economico (ad esempio: attraverso garanzie
per sopravvenienze passive), o altrimenti avvalersi dei rimedi civilistici
per la responsabilità del medesimo cedente per omessa informazione.
§ - 8.10. Come poi evidenzia la Sezione rimettente, la tesi contraria alla
successione consentirebbe una facile elusione degli obblighi maturati nel
corso della gestione di una società.
Anche per questo ordine di rilievi la Corte di giustizia dell’Unione europea
ha infatti stabilito in materia il principio per cui la fusione mediante
incorporazione comporta la trasmissione alla società incorporante
dell’obbligo di pagare l’ammenda inflitta con decisione definitiva
successivamente a tale fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse
dalla società incorporata precedentemente alla fusione stessa (sentenza
05.03.2015, C-342/13).
§ - 9. In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto:
la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di
una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa
subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente
alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la
bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti
dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 22.10.2019 n. 10 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
circostanza che il provvedimento impugnato, volto ad adottare idonee misure
di prevenzione ai sensi dell’art. 242 del Dlgs. 03.04.2006 n. 152, non sia
stato preceduto da una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 242, commi 3
e 4, e dell’art. 252, comma 8, del Dlgs. 152/2006 non costituisce un vizio necessariamente
destinato a condurre all’annullamento.
Occorre infatti applicare anche in materia ambientale i principi
codificati in via generale per la comunicazione di avvio del procedimento e
il preavviso di diniego. Pur trattandosi di adempimenti necessari, rimane
ferma la facoltà dell’amministrazione di utilizzare la sanatoria processuale
ex art. 21-octies comma 2 della legge 07.08.1990 n. 241, dimostrando che
il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato.
La mancata interlocuzione con le autorità da
coinvolgere nella conferenza di servizi e con i destinatari del
provvedimento finale diventa quindi un vizio non sanabile solo se non sia
stato acquisito materiale istruttorio rilevante.
---------------
Le misure di prevenzione, che possono essere imposte anche al proprietario
incolpevole dell’area contaminata, sono definite dall’art. 240 comma 1-i,
del Dlgs. 152/2006 come interventi che prevengono o riducono un rischio
sufficientemente probabile di un danno sanitario o ambientale in un futuro
prossimo. Questa definizione generica è compatibile con quella tecnica della
messa in sicurezza di emergenza ex art. 240 comma 1-m-t del Dlgs. 152/2006.
In entrambi i casi il presupposto è una condizione di emergenza.
In un’area contaminata, la riduzione del rischio implica il recupero del
controllo sulla diffusione degli inquinanti, in modo che sia impedito o reso
più difficile il passaggio nell’ambiente. Le misure di prevenzione sono
quindi accostabili alla messa in sicurezza di emergenza per la comune
finalità di contenere la diffusione delle sorgenti primarie di
contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici ambientali, e
rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di
messa in sicurezza operativa o permanente.
L’assimilabilità delle misure di prevenzione alla messa in sicurezza di
emergenza trova una conferma testuale nell’art. 304, comma 1, del Dlgs.
152/2006, dedicato alla prevenzione del danno ambientale.
---------------
Il proprietario incolpevole può essere destinatario, in base all’art.
245, comma 2, del Dlgs. 152/2006, dell’ordine di eseguire misure di
prevenzione. La categoria delle misure di prevenzione si estende fino a comprendere la messa in sicurezza di emergenza ex
art. 240, comma 1-m-t, del Dlgs. 152/2006. Questa interpretazione è coerente
con il principio “chi inquina paga”.
Il suddetto principio è codificato a livello comunitario come
responsabilità oggettiva dagli art. 3 n. 1, 4 n. 5, e 11 n. 2, della
direttiva 21.04.2004 n. 2004/35/CE (v. anche l’art. 300 del Dlgs.
152/2006).
La giurisprudenza comunitaria, nel confinare l’applicazione della
direttiva 2004/35/CE alle sole attività svolte o ultimate dopo il 30.04.2007, ha indirettamente tutelato anche la disciplina nazionale applicabile ratione temporis ai fatti anteriori.
È stato infatti precisato che il
principio “chi inquina paga” non può essere invocato al fine di escludere
l’applicazione di una normativa nazionale in materia ambientale quando non
sia applicabile nessuna normativa comunitaria.
Inoltre, con riferimento all’art. 16 par. 1 della direttiva 2004/35/CE, la
giurisprudenza comunitaria ha chiarito che gli Stati sono liberi di
introdurre o mantenere misure di prevenzione e riparazione del danno
ambientale più severe di quelle comunitarie, anche per quanto riguarda
l'individuazione di altri soggetti responsabili.
Nel diritto interno è stata dapprima introdotta una fattispecie di
violazione dolosa o colposa delle norme di tutela ambientale (v. art. 18,
comma 1, della legge 08.07.1986 n. 349), e poi è stata prevista una
responsabilità di tipo oggettivo, con l’obbligo di messa in sicurezza e di
bonifica a carico di chi abbia provocato, anche in modo accidentale, una
situazione di inquinamento intesa come superamento dei limiti di
accettabilità della contaminazione dei suoli e delle acque (v. art. 17, comma
2, del Dlgs. 05.02.1997 n. 22). Quest’ultima è la disciplina ora
trasferita nell’art. 242 del Dlgs. 152/2006. Per quanto riguarda i soggetti
diversi dagli autori dell’inquinamento dispone la norma sulle misure di
prevenzione ex art. 245, comma 2, del Dlgs. 152/2006.
Per interpretare quest’ultima norma, e dimostrare che può avere
l’estensione descritta sopra, ossia coincidere con la previsione relativa
alla messa in sicurezza di emergenza, occorre richiamare i principi del
diritto interno che consentono di coinvolgere anche il proprietario
incolpevole nelle attività di prevenzione e di riparazione del danno
ambientale.
Il primo principio riguarda la responsabilità ex art. 2051 c.c. per il
danno cagionato da cosa in custodia. Il proprietario di un’area contaminata
è custode della stessa, e dunque deve adoperarsi per impedire che dalla
situazione di inquinamento derivino danni a terzi, senza potersi esimere
dimostrando di non essere l’autore dell’inquinamento. Se l’area contaminata
è affidata in gestione a un soggetto distinto, come nel caso in esame, la
responsabilità per la custodia è solidale, salvo diversa pattuizione tra le
parti interessate.
Il secondo principio riguarda la responsabilità ex art. 2050 c.c. per
l'esercizio di attività pericolose. Sotto il profilo che qui interessa,
un’attività è pericolosa in quanto svolta su un’area contaminata. La
pericolosità si manifesta sia nei confronti dei lavoratori sia nei confronti
degli altri soggetti ammessi all’interno dell’area contaminata. Il
proprietario è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte
le misure idonee a evitare il danno. Poiché il diritto alla salute e
l’integrità dell’ambiente non possono ricevere una protezione più o meno
efficace a seconda delle circostanze, le misure idonee a evitare il danno
coincidono necessariamente con quelle che l’art. 240 del Dlgs. 152/2006
individua come misure dirette a stabilizzare la situazione e a impedire che
la contaminazione si diffonda nelle matrici ambientali.
Il terzo principio riguarda l’obbligo a carico del proprietario
incolpevole di sostenere le spese della bonifica nei limiti del valore di
mercato acquisito dall’area in esito agli interventi di bonifica, quando
tali interventi siano eseguiti d’ufficio dall’amministrazione. La disciplina
di dettaglio è contenuta nell’art. 253, comma 4, del Dlgs. 152/2006, ma la
ragione fondante può essere individuata nell’esigenza di mantenere un
equilibrio tra il beneficio che la proprietà riceve dal lavoro di terzi e il
costo sostenuto da questi ultimi. Si tratta di uno schema di carattere
generale, assimilabile all’accessione ex art. 936, comma 2 c.c., con la
differenza che il proprietario incolpevole non può liberarsi chiedendo la
rimozione delle opere di bonifica, dal momento che la bonifica soddisfa
interessi pubblici al di fuori della disponibilità dei privati.
Ne consegue che l’amministrazione può chiedere al proprietario
incolpevole di farsi carico delle misure di prevenzione, a condizione che la
spesa possa essere sostenuta senza conseguenze economiche eccessive, secondo
il normale bilanciamento di interessi garantito dal principio di
proporzionalità. Nessun intervento di bonifica può invece essere imposto al
proprietario incolpevole, il quale rimane tuttavia obbligato a rimborsare i
relativi costi all’amministrazione, qualora risulti infruttuosa o non
praticabile l’escussione dell’autore dell’inquinamento.
Poiché il credito
dell’amministrazione grava sull’area contaminata (v. art. 253, commi 1 e 2,
del Dlgs. 152/2006) come un onere reale assistito da un privilegio speciale
immobiliare ex art. 2748, comma 2 c.c., al proprietario incolpevole che non
possa o non voglia rimborsare i costi della bonifica rimane l’opzione di
abbandonare il fondo, secondo un meccanismo non dissimile da quello
descritto nell’art. 1070 c.c. a proposito dell’abbandono del fondo servente.
In alternativa, il proprietario incolpevole può volontariamente assumere gli
oneri della bonifica ex art. 245, comma 1, del Dlgs. 152/2006, salvo rivalsa
nei confronti dell’autore dell’inquinamento.
---------------
... per l'annullamento:
(a) nel ricorso introduttivo:
- del provvedimento del responsabile della Direzione Generale per
la Salvaguardia del Territorio e delle Acque prot. n. 11532.06-06-2018 di
data 06.06.2018, che ha sollecitato la ricorrente a eseguire quanto
richiesto dalla conferenza di servizi decisoria del 25.07.2013, in
conformità al parere dell’ARPA prot. n. 71461 del 24.05.2013, e in
particolare ad adottare idonee misure di prevenzione ai sensi dell’art. 242
del Dlgs. 03.04.2006 n. 152 sull’area Valletta all’interno del sito di
interesse nazionale Laghi di Mantova e Polo Chimico, con accertamento
dell’assenza di rischi per i fruitori dell’area derivanti dalla presenza di
sostanze volatili nelle matrici ambientali come chiesto dalla conferenza di
servizi del 17.03.2014;
- del parere dell’ISPRA dell’aprile 2018, relativo all’efficacia
delle misure di prevenzione messe in atto da Ve. spa e ai monitoraggi
eseguiti da Ve. spa nelle acque sotterranee dell’area Valletta;
- della nota dell’ARPA prot. 5690 di data 01.02.2017, nella quale
sono giudicate insufficienti le misure di prevenzione adottate da Ve. spa
nell’area Valletta;
- del provvedimento del responsabile della Direzione Generale per
la Salvaguardia del Territorio e delle Acque prot. 14611.18-07-2018 di data
18.07.2018, con il quale è stato confermato il provvedimento di sollecito
del 06.06.2018;
(b) nei motivi aggiunti:
- del provvedimento del responsabile della Direzione Generale per
la Salvaguardia del Territorio e delle Acque prot. n. 4506.07-03-2019 di
data 07.03.2019, con il quale è stato ribadito che gli interventi richiesti
a Ve. spa, compresa la verifica della presenza di materiali di riporto,
costituiscono misure di prevenzione esigibili anche nei confronti del
proprietario incolpevole ai sensi dell’art. 245, comma 2, del Dlgs.
152/2006, nelle more dell’individuazione dell’autore dell’inquinamento;
- della nota dell’ARPA prot. n. Arpa-Arpaaoo-2019-1824 di data
08.03.2019, compresi gli allegati, con la quale sono stati validati e
interpretati i risultati della caratterizzazione sui sedimenti dell’area
Valletta eseguita da Ve. spa nel settembre 2018;
- degli atti presupposti e connessi;
Sulle questioni procedurali
17. La circostanza che i provvedimenti impugnati non siano stati preceduti
da una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 242, commi 3 e 4, e dell’art.
252, comma 8, del Dlgs. 152/2006 non costituisce un vizio necessariamente
destinato a condurre all’annullamento.
18. Occorre infatti applicare anche in materia ambientale i principi
codificati in via generale per la comunicazione di avvio del procedimento e
il preavviso di diniego. Pur trattandosi di adempimenti necessari, rimane
ferma la facoltà dell’amministrazione di utilizzare la sanatoria processuale
ex art. 21-octies comma 2 della legge 07.08.1990 n. 241, dimostrando che
il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato. La mancata interlocuzione con le autorità da
coinvolgere nella conferenza di servizi e con i destinatari del
provvedimento finale diventa quindi un vizio non sanabile solo se non sia
stato acquisito materiale istruttorio rilevante.
19. Inoltre, nelle procedure ambientali che si sviluppano esse stesse come
un’interlocuzione tra il Ministero, l’ARPA e i soggetti chiamati a eseguire
interventi di bonifica o di prevenzione e messa in sicurezza di emergenza,
con scambio continuo dei dati di monitoraggio e delle relative
interpretazioni, la conferenza di servizi è necessaria solo negli snodi più
importanti, quando devono essere elaborate nuove regole per l’attività
successiva. Se dai dati acquisiti emerge invece l’esigenza di interventi
puntuali, che si collocano all’interno della cornice già definita dai
provvedimenti precedenti, la convocazione della conferenza di servizi non è
richiesta.
20. Nello specifico, considerando in modo unitario i provvedimenti impugnati
nel ricorso introduttivo e nei motivi aggiunti, si può ritenere che il
Ministero abbia essenzialmente sollecitato l’adozione di misure di
prevenzione secondo la direttiva formulata nella conferenza di servizi
decisoria del 25.07.2013, già considerata legittima dal TAR Brescia
nella sentenza n. 1144/2016. La vicenda contenziosa è stata poi alimentata
dagli studi commissionati da Ve. spa, allo scopo di superare il vincolo
della predetta conferenza di servizi.
L’amministrazione ha risposto alle
obiezioni della ricorrente, ribadendo e chiarendo le ragioni tecniche alla
base dell’ingiunzione ad adottare misure di prevenzione. In questa
situazione, non erano necessarie ulteriori garanzie procedimentali per
coinvolgere la ricorrente, e non vi è stata alcuna perdita di materiale
istruttorio rilevante. La correttezza della posizione dell’amministrazione
appartiene al merito della controversia, e deve quindi essere trattata in
relazione agli altri motivi di ricorso.
Sulle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza
21. Le misure di prevenzione, che possono essere imposte anche al
proprietario incolpevole dell’area contaminata, sono definite dall’art. 240
comma 1-i, del Dlgs. 152/2006 come interventi che prevengono o riducono un
rischio sufficientemente probabile di un danno sanitario o ambientale in un
futuro prossimo. Questa definizione generica è compatibile con quella
tecnica della messa in sicurezza di emergenza ex art. 240 comma 1-m-t del
Dlgs. 152/2006.
In entrambi i casi il presupposto è una condizione di
emergenza. In un’area contaminata, la riduzione del rischio implica il
recupero del controllo sulla diffusione degli inquinanti, in modo che sia
impedito o reso più difficile il passaggio nell’ambiente. Le misure di
prevenzione sono quindi accostabili alla messa in sicurezza di emergenza per
la comune finalità di contenere la diffusione delle sorgenti primarie di
contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici ambientali, e
rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di
messa in sicurezza operativa o permanente.
L’assimilabilità delle misure di
prevenzione alla messa in sicurezza di emergenza trova una conferma testuale
nell’art. 304, comma 1, del Dlgs. 152/2006, dedicato alla prevenzione del
danno ambientale.
Sul
proprietario incolpevole
32. Il proprietario incolpevole può essere destinatario, in base all’art.
245, comma 2, del Dlgs. 152/2006, dell’ordine di eseguire misure di
prevenzione. La categoria delle misure di prevenzione, come si è visto
sopra, si estende fino a comprendere la messa in sicurezza di emergenza ex
art. 240, comma 1-m-t, del Dlgs. 152/2006. Questa interpretazione è coerente
con il principio “chi inquina paga”.
33. Il suddetto principio è codificato a livello comunitario come
responsabilità oggettiva dagli art. 3 n. 1, 4 n. 5, e 11 n. 2, della
direttiva 21.04.2004 n. 2004/35/CE (v. anche l’art. 300 del Dlgs.
152/2006).
34. La giurisprudenza comunitaria, nel confinare l’applicazione della
direttiva 2004/35/CE alle sole attività svolte o ultimate dopo il 30.04.2007, ha indirettamente tutelato anche la disciplina nazionale applicabile
ratione temporis ai fatti anteriori.
È stato infatti precisato che il
principio “chi inquina paga” non può essere invocato al fine di escludere
l’applicazione di una normativa nazionale in materia ambientale quando non
sia applicabile nessuna normativa comunitaria (v. C.Giust. GS 09.03.2010
C-378/08, ERG, punto 46; C. Giust. Sez. VIII 09.03.2010 C-478/08, Buzzi,
punto 36).
Inoltre, con riferimento all’art. 16 par. 1 della direttiva
2004/35/CE, la giurisprudenza comunitaria ha chiarito che gli Stati sono
liberi di introdurre o mantenere misure di prevenzione e riparazione del
danno ambientale più severe di quelle comunitarie, anche per quanto riguarda
l'individuazione di altri soggetti responsabili (v. sentenza ERG, cit.,
punti 68-69).
35. Nel diritto interno è stata dapprima introdotta una fattispecie di
violazione dolosa o colposa delle norme di tutela ambientale (v. art. 18,
comma 1, della legge 08.07.1986 n. 349), e poi è stata prevista una
responsabilità di tipo oggettivo, con l’obbligo di messa in sicurezza e di
bonifica a carico di chi abbia provocato, anche in modo accidentale, una
situazione di inquinamento intesa come superamento dei limiti di
accettabilità della contaminazione dei suoli e delle acque (v. art. 17, comma
2, del Dlgs. 05.02.1997 n. 22). Quest’ultima è la disciplina ora
trasferita nell’art. 242 del Dlgs. 152/2006. Per quanto riguarda i soggetti
diversi dagli autori dell’inquinamento dispone la norma sulle misure di
prevenzione ex art. 245, comma 2, del Dlgs. 152/2006.
36. Per interpretare quest’ultima norma, e dimostrare che può avere
l’estensione descritta sopra, ossia coincidere con la previsione relativa
alla messa in sicurezza di emergenza, occorre richiamare i principi del
diritto interno che consentono di coinvolgere anche il proprietario
incolpevole nelle attività di prevenzione e di riparazione del danno
ambientale.
37. Il primo principio riguarda la responsabilità ex art. 2051 c.c. per il
danno cagionato da cosa in custodia. Il proprietario di un’area contaminata
è custode della stessa, e dunque deve adoperarsi per impedire che dalla
situazione di inquinamento derivino danni a terzi, senza potersi esimere
dimostrando di non essere l’autore dell’inquinamento. Se l’area contaminata
è affidata in gestione a un soggetto distinto, come nel caso in esame, la
responsabilità per la custodia è solidale, salvo diversa pattuizione tra le
parti interessate.
38. Il secondo principio riguarda la responsabilità ex art. 2050 c.c. per
l'esercizio di attività pericolose. Sotto il profilo che qui interessa,
un’attività è pericolosa in quanto svolta su un’area contaminata. La
pericolosità si manifesta sia nei confronti dei lavoratori sia nei confronti
degli altri soggetti ammessi all’interno dell’area contaminata. Il
proprietario è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte
le misure idonee a evitare il danno. Poiché il diritto alla salute e
l’integrità dell’ambiente non possono ricevere una protezione più o meno
efficace a seconda delle circostanze, le misure idonee a evitare il danno
coincidono necessariamente con quelle che l’art. 240 del Dlgs. 152/2006
individua come misure dirette a stabilizzare la situazione e a impedire che
la contaminazione si diffonda nelle matrici ambientali.
39. Il terzo principio riguarda l’obbligo a carico del proprietario
incolpevole di sostenere le spese della bonifica nei limiti del valore di
mercato acquisito dall’area in esito agli interventi di bonifica, quando
tali interventi siano eseguiti d’ufficio dall’amministrazione. La disciplina
di dettaglio è contenuta nell’art. 253, comma 4, del Dlgs. 152/2006, ma la
ragione fondante può essere individuata nell’esigenza di mantenere un
equilibrio tra il beneficio che la proprietà riceve dal lavoro di terzi e il
costo sostenuto da questi ultimi. Si tratta di uno schema di carattere
generale, assimilabile all’accessione ex art. 936, comma 2 c.c., con la
differenza che il proprietario incolpevole non può liberarsi chiedendo la
rimozione delle opere di bonifica, dal momento che la bonifica soddisfa
interessi pubblici al di fuori della disponibilità dei privati.
40. Ne consegue che l’amministrazione può chiedere al proprietario
incolpevole di farsi carico delle misure di prevenzione, a condizione che la
spesa possa essere sostenuta senza conseguenze economiche eccessive, secondo
il normale bilanciamento di interessi garantito dal principio di
proporzionalità. Nessun intervento di bonifica può invece essere imposto al
proprietario incolpevole, il quale rimane tuttavia obbligato a rimborsare i
relativi costi all’amministrazione, qualora risulti infruttuosa o non
praticabile l’escussione dell’autore dell’inquinamento.
Poiché il credito
dell’amministrazione grava sull’area contaminata (v. art. 253, commi 1 e 2,
del Dlgs. 152/2006) come un onere reale assistito da un privilegio speciale
immobiliare ex art. 2748, comma 2 c.c., al proprietario incolpevole che non
possa o non voglia rimborsare i costi della bonifica rimane l’opzione di
abbandonare il fondo, secondo un meccanismo non dissimile da quello
descritto nell’art. 1070 c.c. a proposito dell’abbandono del fondo servente.
In alternativa, il proprietario incolpevole può volontariamente assumere gli
oneri della bonifica ex art. 245, comma 1, del Dlgs. 152/2006, salvo rivalsa
nei confronti dell’autore dell’inquinamento (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 30.09.2019 n. 833 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Misure
di prevenzione e intervento di bonifica
assunto volontariamente
L’amministrazione può
chiedere al proprietario incolpevole di
farsi carico delle misure di prevenzione, a
condizione che la spesa possa essere
sostenuta senza conseguenze economiche
eccessive, secondo il normale bilanciamento
di interessi garantito dal principio di
proporzionalità; nessun intervento di
bonifica può invece essere imposto al
proprietario incolpevole, il quale rimane
tuttavia obbligato a rimborsare i relativi
costi all’amministrazione, qualora risulti
infruttuosa o non praticabile l’escussione
dell’autore dell’inquinamento.
Poiché il credito dell’amministrazione grava
sull’area contaminata (v. art. 253, commi 1
e 2, del Dlgs. 152/2006) come un onere reale
assistito da un privilegio speciale
immobiliare ex art. 2748, comma 2 c.c., al
proprietario incolpevole che non possa o non
voglia rimborsare i costi della bonifica
rimane l’opzione di abbandonare il fondo,
secondo un meccanismo non dissimile da
quello descritto nell’art. 1070 c.c. a
proposito dell’abbandono del fondo servente;
in alternativa, il proprietario incolpevole
può volontariamente assumere gli oneri della
bonifica ex art. 245, comma 1, del Dlgs.
152/2006, salvo rivalsa nei confronti
dell’autore dell’inquinamento.
L’intervento di bonifica assunto
volontariamente ai sensi dell’art. 245,
comma 1, nonché dell’art. 252, comma 5, del
Dlgs. 152/2006 costituisce una gestione di
affari altrui che, in applicazione analogica
della norma generale ex art. 2028 c.c., deve
essere portata a compimento, o comunque
proseguita finché l’amministrazione non sia
in grado di far subentrare l’autore
dell’inquinamento; lo stesso vale se
l’assunzione dell’intervento di bonifica da
parte del proprietario incolpevole o di
altri soggetti è avvenuta ai sensi dell’art.
9 del DM 25.10.1999 n. 471
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 25.09.2019 n. 831 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
13. Sulle questioni rilevanti ai fini della
decisione si possono svolgere le seguenti
considerazioni.
Sulle questioni procedurali
14. La circostanza che i provvedimenti
impugnati non siano stati preceduti da una
conferenza di servizi ai sensi dell’art. 242,
commi 3 e 4, e dell’art. 252, comma 8, del Dlgs. 152/2006 non costituisce un vizio
necessariamente destinato a condurre
all’annullamento.
15. Occorre infatti applicare anche in
materia ambientale i principi codificati in
via generale per la comunicazione di avvio
del procedimento e il preavviso di diniego.
Pur trattandosi di adempimenti necessari,
rimane ferma la facoltà dell’amministrazione
di utilizzare la sanatoria processuale ex
art. 21-octies, comma 2, della legge 07.08.1990 n. 241, dimostrando che il contenuto
del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato. La
mancata interlocuzione con le autorità da
coinvolgere nella conferenza di servizi e
con i destinatari del provvedimento finale
diventa quindi un vizio non sanabile solo se
non sia stato acquisito materiale
istruttorio rilevante.
16. Inoltre, nelle procedure ambientali che
si sviluppano esse stesse come
un’interlocuzione tra il Ministero, l’ARPA e
i soggetti chiamati a eseguire gli
interventi di bonifica o di prevenzione e
messa in sicurezza di emergenza, con scambio
continuo dei dati di monitoraggio e delle
relative interpretazioni, la conferenza di
servizi è necessaria solo negli snodi più
importanti, quando devono essere elaborate
nuove regole per l’attività successiva. Se
dai dati acquisiti emerge invece l’esigenza
di interventi puntuali che si collocano
all’interno della cornice già definita dai
provvedimenti precedenti, la convocazione
della conferenza di servizi non è richiesta.
17. Nello specifico, considerando in modo
unitario i due provvedimenti impugnati, si
può ritenere che il Ministero abbia imposto
misure strettamente correlate alla
situazione evidenziata dall’ARPA nella nota
del 07.12.2017. Il confronto con le
ricorrenti è stato integrato nella fase
della valutazione delle istanze di autotutela. Il fatto che a proposito delle
concentrazioni di mercurio rilevate dai
piezometri CS5-bis e CS5-ter sia stata
seguita l’interpretazione proposta dall’ARPA
anziché quella del prof. Ba. ricade tra le
questioni di merito, affrontate dagli altri
motivi di impugnazione, e non rileva come
autonomo vizio formale.
Sulle misure di prevenzione e di messa in
sicurezza di emergenza
18. Le misure di prevenzione, che possono
essere imposte anche al proprietario
incolpevole dell’area contaminata, sono
definite dall’art. 240 comma 1-i, del Dlgs.
152/2006 come interventi che prevengono o
riducono un rischio sufficientemente
probabile di un danno sanitario o ambientale
in un futuro prossimo. Questa definizione
generica è compatibile con quella tecnica
della messa in sicurezza di emergenza ex
art. 240, comma 1-m-t, del Dlgs. 152/2006.
In
entrambi i casi il presupposto è una
condizione di emergenza.
In un’area
contaminata, la riduzione del rischio
implica il recupero del controllo sulla
diffusione degli inquinanti, in modo che sia
impedito o reso più difficile il passaggio
nell’ambiente. Le misure di prevenzione sono
quindi accostabili alla messa in sicurezza
di emergenza per la comune finalità di
contenere la diffusione delle sorgenti
primarie di contaminazione, impedirne il
contatto con altre matrici ambientali, e
rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori
interventi di bonifica o di messa in
sicurezza operativa o permanente. L’assimilabilità
delle misure di prevenzione alla messa in
sicurezza di emergenza trova una conferma
testuale nell’art. 304, comma 1, del Dlgs.
152/2006, dedicato alla prevenzione del
danno ambientale.
19. Con riguardo alla condizione di
emergenza, la tesi delle ricorrenti, basata
sulla relazione del prof. Ba., è che in
presenza di un inquinamento storico e in
mancanza di un peggioramento repentino dello
stato di fatto nessun intervento potrebbe
essere imposto come urgente. Nello
specifico, il superamento dei limiti delle
CSC rilevato dai piezometri CS5-bis e
CS5-ter non dimostrerebbe l’attualità e la
continuità del passaggio di mercurio dal
terreno alle acque sotterranee, ma
semplicemente la presenza di una situazione
di inquinamento storico, che nei monitoraggi
può provocare picchi casuali.
Per quanto
riguarda il piezometro CS5-bis, il prof. Ba. ipotizza che il battente idraulico di
soli 3 metri abbia ridotto la dispersione
dei reperti per cause imputabili alle
procedure di spurgo (v. relazione, pag. 26).
Per quanto riguarda il piezometro CS5-ter,
il prof. Ba. ipotizza parimenti un errore
sperimentale dovuto a variabili
incontrollate o confondenti, come tale non
indicativo di un’evoluzione sfavorevole
della condizione di inquinamento, la quale
sarebbe quindi stabile nel tempo e non
richiederebbe alcun intervento di
contenimento (v. relazione, pag. 28).
20. Questa tesi non appare condivisibile.
Anche concedendo che nel monitoraggio
abbiano avuto un ruolo le variabili
incontrollate o confondenti, e che la
condizione di inquinamento sia in
equilibrio, si ritiene però che il
presupposto delle misure prevenzione
sussista ugualmente. Per il principio di
precauzione non si può infatti ignorare la
correlazione tra il mercurio della sala
celle, una parte del quale è passata negli
anni dalle canalette al terreno, e le
concentrazioni di mercurio oltre i limiti
delle CSC nelle acque sotterranee a valle
della sala celle.
Se vi è equilibrio, nel
senso che non si assiste a un’accelerazione
della dispersione nell’acquifero, è evidente
che si tratta di un equilibrio
insoddisfacente, nel quale rimane alto il
rischio ambientale, particolarmente quando
si consideri che il mercurio è solo uno
degli inquinanti presenti. Anche questa è
una situazione che consente di intervenire
senza attendere i tempi della bonifica,
attuando immediatamente un più rigoroso
controllo delle sorgenti primarie di
contaminazione.
21. L’intervento con finalità preventive non
si sovrappone alla bonifica, che dovrà
condurre in futuro a una complessiva
condizione di sicurezza sitospecifica, ma è
diretto a garantire un equilibrio
provvisorio più accettabile per la salute
pubblica e l’integrità dell’ambiente,
assicurando margini sufficienti a escludere
lo sforamento delle CSC nei successivi
monitoraggi.
In altri termini, si tratta di
abbassare il livello complessivo delle
concentrazioni degli inquinanti, in modo da
assorbire il margine di errore dei
monitoraggi all’interno dei limiti delle CSC,
rendendo meno probabili gli sforamenti. Fino
al completamento delle misure di
prevenzione, il dubbio che gli sforamenti
siano determinati da nuovi e non controllati
fenomeni di dispersione degli inquinanti è
per sé legittimo, e anzi doveroso in una
prospettiva di precauzione.
Sul proprietario incolpevole
22. Il proprietario incolpevole (Ve.
spa nel caso in esame) può essere
destinatario, in base all’art. 245, comma 2,
del Dlgs. 152/2006, dell’ordine di eseguire
misure di prevenzione. La categoria delle
misure di prevenzione, come si è visto
sopra, si estende fino a comprendere la
messa in sicurezza di emergenza ex art. 240,
comma 1-m-t, del Dlgs. 152/2006. Questa
interpretazione è coerente con il principio
“chi inquina paga”.
23. Il suddetto principio è codificato a
livello comunitario come responsabilità
oggettiva dagli art. 3 n. 1, 4 n. 5, e 11 n.
2, della direttiva 21.04.2004 n.
2004/35/CE (v. anche l’art. 300 del Dlgs.
152/2006).
24. La giurisprudenza comunitaria, nel
confinare l’applicazione della direttiva
2004/35/CE alle sole attività svolte o
ultimate dopo il 30.04.2007, ha
indirettamente tutelato anche la disciplina
nazionale applicabile ratione temporis ai
fatti anteriori. È stato infatti precisato
che il principio “chi inquina paga” non può
essere invocato al fine di escludere
l’applicazione di una normativa nazionale in
materia ambientale quando non sia
applicabile nessuna normativa comunitaria
(v. C. Giust. GS 09.03.2010 C-378/08, ERG,
punto 46; C.Giust. Sez. VIII 09.03.2010
C-478/08, Buzzi, punto 36).
Inoltre, con
riferimento all’art. 16 par. 1 della
direttiva 2004/35/CE, la giurisprudenza
comunitaria ha chiarito che gli Stati sono
liberi di introdurre o mantenere misure di
prevenzione e riparazione del danno
ambientale più severe di quelle comunitarie,
anche per quanto riguarda l'individuazione
di altri soggetti responsabili (v. sentenza
ERG, cit., punti 68-69).
25. Nel diritto interno è stata dapprima
introdotta una fattispecie di violazione
dolosa o colposa delle norme di tutela
ambientale (v. art. 18, comma 1, della legge
08.07.1986 n. 349), e poi è stata prevista
una responsabilità di tipo oggettivo, con
l’obbligo di messa in sicurezza e di
bonifica a carico di chi abbia provocato,
anche in modo accidentale, una situazione di
inquinamento intesa come superamento dei
limiti di accettabilità della contaminazione
dei suoli e delle acque (v. art. 17, comma 2,
del Dlgs. 05.02.1997 n. 22). Quest’ultima
è la disciplina ora trasferita nell’art. 242
del Dlgs. 152/2006. Per quanto riguarda i
soggetti diversi dagli autori
dell’inquinamento, dispone la norma sulle
misure di prevenzione ex art. 245, comma 2,
del Dlgs. 152/2006.
26. Per interpretare quest’ultima norma, e
dimostrare che può avere l’estensione
descritta sopra, ossia coincidere con la
previsione relativa alla messa in sicurezza
di emergenza, occorre richiamare i principi
del diritto interno che consentono di
coinvolgere anche il proprietario
incolpevole nelle attività di prevenzione e
di riparazione del danno ambientale.
27. Il primo principio riguarda la
responsabilità ex art. 2051 c.c. per il
danno cagionato da cosa in custodia. Il
proprietario di un’area contaminata è
custode della stessa, e dunque deve
adoperarsi per impedire che dalla situazione
di inquinamento derivino danni a terzi,
senza potersi esimere dimostrando di non
essere l’autore dell’inquinamento. Se l’area
contaminata è affidata in gestione a un
soggetto distinto, come nel caso in esame,
la responsabilità per la custodia è
solidale, salvo diversa pattuizione tra le
parti interessate.
28. Il secondo principio riguarda la
responsabilità ex art. 2050 c.c. per
l'esercizio di attività pericolose. Sotto il
profilo che qui interessa, un’attività è
pericolosa in quanto svolta su un’area
contaminata. La pericolosità si manifesta
sia nei confronti dei lavoratori sia nei
confronti degli altri soggetti ammessi
all’interno dell’area contaminata.
Il
proprietario è tenuto al risarcimento, se
non prova di aver adottato tutte le misure
idonee a evitare il danno. Poiché il diritto
alla salute e l’integrità dell’ambiente non
possono ricevere una protezione più o meno
efficace a seconda delle circostanze, le
misure idonee a evitare il danno coincidono
necessariamente con quelle che l’art. 240
del Dlgs. 152/2006 individua come misure
dirette a stabilizzare la situazione e a
impedire che la contaminazione si diffonda
nelle matrici ambientali.
29. Il terzo principio riguarda l’obbligo a
carico del proprietario incolpevole di
sostenere le spese della bonifica nei limiti
del valore di mercato acquisito dall’area in
esito agli interventi di bonifica, quando
tali interventi siano eseguiti d’ufficio
dall’amministrazione. La disciplina di
dettaglio è contenuta nell’art. 253, comma 4,
del Dlgs. 152/2006, ma la ragione fondante
può essere individuata nell’esigenza di
mantenere un equilibrio tra il beneficio che
la proprietà riceve dal lavoro di terzi e il
costo sostenuto da questi ultimi. Si tratta
di uno schema di carattere generale,
assimilabile all’accessione ex art. 936,
comma 2 c.c., con la differenza che il
proprietario incolpevole non può liberarsi
chiedendo la rimozione delle opere di
bonifica, dal momento che la bonifica
soddisfa interessi pubblici al di fuori
della disponibilità dei privati.
30. Ne consegue che l’amministrazione può
chiedere al proprietario incolpevole di
farsi carico delle misure di prevenzione, a
condizione che la spesa possa essere
sostenuta senza conseguenze economiche
eccessive, secondo il normale bilanciamento
di interessi garantito dal principio di
proporzionalità. Nessun intervento di
bonifica può invece essere imposto al
proprietario incolpevole, il quale rimane
tuttavia obbligato a rimborsare i relativi
costi all’amministrazione, qualora risulti
infruttuosa o non praticabile l’escussione
dell’autore dell’inquinamento.
Poiché il
credito dell’amministrazione grava sull’area
contaminata (v. art. 253, commi 1 e 2, del Dlgs. 152/2006) come un onere reale
assistito da un privilegio speciale
immobiliare ex art. 2748, comma 2 c.c., al
proprietario incolpevole che non possa o non
voglia rimborsare i costi della bonifica
rimane l’opzione di abbandonare il fondo,
secondo un meccanismo non dissimile da
quello descritto nell’art. 1070 c.c. a
proposito dell’abbandono del fondo servente.
In alternativa, il proprietario incolpevole
può volontariamente assumere gli oneri della
bonifica ex art. 245, comma 1, del Dlgs.
152/2006, salvo rivalsa nei confronti
dell’autore dell’inquinamento.
Sulla prosecuzione della bonifica
31. Con l’ultimo motivo di impugnazione
viene appunto in rilievo il problema delle
conseguenze dell’assunzione volontaria degli
oneri della bonifica da parte di soggetti
che non sono autori dell’inquinamento, o ne
sono responsabili solo in misura marginale.
32. Occorre precisare che nel presente
giudizio non possono essere affrontate
questioni riguardanti l’individuazione degli
autori dell’inquinamento da mercurio e la
ripartizione delle rispettive
responsabilità. Questa è una materia già
trattata dal TAR Brescia nella sentenza n.
802/2018. A tale pronuncia occorre dunque
fare rinvio, in attesa dell’esito
dell’appello, respingendo gli argomenti
utilizzati da Ed. spa per escludere o
ridimensionare la propria responsabilità
sulla base di una diversa lettura delle
conseguenze dei passaggi societari e degli
accordi intervenuti tra le parti private.
La
decisione di primo grado ha lasciato
inalterata la ripartizione delle
responsabilità fissata nel provvedimento
della Provincia di Mantova n. 21/255 del 15.10.2012 (ossia 99,57% a Ed. spa,
0,43% a Sy. spa). Pertanto, è in tale
contesto che si deve esaminare la tesi di
Sy. spa, secondo cui l’attività di
bonifica, iniziata volontariamente
subentrando a Ve. spa, potrebbe essere
interrotta una volta raggiunta la soglia
dello 0,43% del costo stimato
dell’intervento, che in concreto sarebbe già
stata ampiamente superata.
33. Il suddetto argomento non appare
condivisibile. L’intervento di bonifica
assunto volontariamente ai sensi dell’art.
245, comma 1, nonché dell’art. 252, comma 5,
del Dlgs. 152/2006, costituisce una gestione
di affari altrui, che, in applicazione
analogica della norma generale ex art. 2028
c.c., deve essere portata a compimento, o
comunque proseguita finché l’amministrazione
non sia in grado di far subentrare l’autore
dell’inquinamento. Lo stesso vale se
l’assunzione dell’intervento di bonifica da
parte del proprietario incolpevole o di
altri soggetti è avvenuta ai sensi dell’art.
9 del DM 25.10.1999 n. 471.
34. Nel caso di soggetti che siano stati
qualificati come responsabili pro quota
dell’inquinamento (v. art. 311, comma 3, del Dlgs. 152/2006), le obbligazioni della
gestione di affari si producono quando non
sia stato definito o validato
preventivamente dall’amministrazione il
rapporto tra il grado di responsabilità e il
costo delle strumentazioni e delle
lavorazioni impiegate nell’intervento di
bonifica. In mancanza di questi chiarimenti
preliminari, la gestione di affari si
intende assunta per l’intera attività di
bonifica, e i ripensamenti successivi non
sono direttamente opponibili
all’amministrazione.
35. Le ragioni private per cui un soggetto
non obbligato, oppure obbligato solo per una
parte, assume con il proprio comportamento
l’impegno a eseguire un complessivo
intervento di bonifica possono essere le più
varie (ad esempio, evitare l’onere reale
connesso alle opere di bonifica, se
realizzate dall’amministrazione; eseguire
accordi transattivi stipulati con i veri
responsabili dell’inquinamento; tutelarsi
contro una situazione di incertezza
giuridica, prevenendo eventuali
responsabilità penali o risarcitorie).
Lo
schema della gestione di affari richiede
esclusivamente che vi sia la consapevolezza
dello stato di contaminazione dell’area e
della necessità di eseguire la bonifica
secondo le direttive stabilite
dall’amministrazione. Poiché la bonifica
viene effettuata in sostituzione dell’autore
dell’inquinamento, il soggetto che si
intromette potrà rivolgersi a quest’ultimo
per essere indennizzato delle spese, fermi
restando gli accordi tra le parti private.
36. Dal lato dell’amministrazione, l’impegno
del soggetto incolpevole, o parzialmente
colpevole, che volontariamente assume gli
oneri della bonifica costituisce un
risultato di interesse pubblico, e produce
quindi un affidamento tutelabile. La
legittimità di questa posizione di vantaggio
non esime però l’amministrazione
dall’obbligo di far eseguire la bonifica
agli autori dell’inquinamento.
Se vi è
accordo tra le parti private, l’obbligo
evidentemente decade, essendo ininfluente
che l’intervento sia realizzato da un
soggetto diverso dagli autori
dell’inquinamento, qualora non vi siano
sostanziali differenze qualitative nel
risultato. Se però tra le parti private non
vi è un accordo, o è subentrata una
situazione di disaccordo, l’amministrazione
deve prevedere un percorso di ordinata
transizione dai soggetti non responsabili
dell’inquinamento a quelli responsabili.
Tra
i profili di interesse pubblico che possono
essere presi in esame nell’impostazione di
questo percorso vi è anche la stabilità
degli interlocutori, ossia dei destinatari
delle future direttive sulla bonifica.
Questo consente all’amministrazione di
attendere la conclusione delle controversie
sull’individuazione degli autori
dell’inquinamento e sui relativi gradi di
responsabilità, in modo da operare in un
quadro di certezza del diritto. Nel
frattempo, rimane fermo l’obbligo di
proseguire nell’attività di bonifica a
carico del soggetto che ha assunto
volontariamente questo impegno. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ai sensi dell’art. 183 D.lgs. 152/2006 si considera come rifiuto qualsiasi
sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o
abbia l'obbligo di disfarsi.
Gli oggetti che la ricorrente è stata intimata a smaltire costituiscono il
residuo di ciò che è stato oggetto di sgombero in esecuzione del
provvedimento di rilascio dell’immobile di sua proprietà all’esito della
procedura esecutiva.
Tali oggetti sono stati appoggiati alla rinfusa su un terreno limitrofo a
lei in uso, ma per poter ritenere che non si tratti di un’ipotesi di
abbandono di rifiuti ex art. 192 D.lgs. 152/2006, bisognerebbe dimostrare
che quegli oggetti si trovano sul terreno per assolvere una qualche funzione
e non siano stati meramente depositati.
---------------
La ricorrente impugnava il provvedimento indicato in epigrafe che le
ordinava di rimuovere dei rifiuti depositati su un terreno agricolo.
A tal fine faceva presente di aver subito una procedura esecutiva della
propria abitazione e di aver collocato alcuni arredi e suppellettili presso
un terreno adiacente alla sua dimora e che, pur non essendo proprietaria, da
anni coltivava tanto da aver in corso un procedimento giudiziario per far
dichiarare l’avvenuto usucapione del medesimo.
Già con una precedente ordinanza del 24.10.2018 era stata intimata la
rimozione dei rifiuti che aveva in parte ottemperato pur ritenendo che non
si trattasse di rifiuti, ma quanto al provvedimento impugnato lo riteneva
illegittimo sulla scorta di due motivi di ricorso.
Il primo contesta il potere di ordinanza del Sindaco ex art. 192 D.lgs.
152/2006 poiché gli oggetti da rimuovere non possono essere considerati
rifiuti ex art. 183 del medesimo testo unico 152/2006.
I materiali di sua proprietà depositati sul fondo sono funzionali alla
realizzazione di un pergolato e pertanto non rappresentano né oggetti di cui
il detentore/proprietario si sia disfatto o intende disfarsi, né rientrano
tra quelle sostanze di cui per legge si abbia l’obbligo di disfarsi.
Il secondo motivo denuncia lo sviamento di potere poiché il provvedimento
impugnato richiama il Regolamento edilizio comunale a tutela del decoro e la
legge 15/2013, quest’ultima in materia edilizia, dimostrando che
l’Amministrazione comunale si è avvalsa dell’ordinanza sindacale prevista
dall’art. 192 del Codice dell’ambiente non per preservare la salubrità
dell’ambiente ma per garantire il decoro urbano e per contrastare il
fenomeno degli abusi edilizi.
Si costituiva in giudizio il Comune di Pennabilli che eccepiva
preliminarmente l’inammissibilità del ricorso poiché l’atto impugnato
sarebbe una mera conferma della precedente ordinanza di rimozione non
impugnata; nel merito chiedeva il rigetto del ricorso.
Il ricorso è infondato è ciò consente di non affrontare l’eccezione
preliminare del Comune.
Ai sensi dell’art. 183 D.lgs. 152/2006 si considera come rifiuto qualsiasi
sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o
abbia l'obbligo di disfarsi.
Gli oggetti che la ricorrente è stata intimata a smaltire costituiscono il
residuo di ciò che è stato oggetto di sgombero in esecuzione del
provvedimento di rilascio dell’immobile di sua proprietà all’esito della
procedura esecutiva.
Tali oggetti sono stati appoggiati alla rinfusa su un terreno limitrofo a
lei in uso, ma per poter ritenere che non si tratti di un’ipotesi di
abbandono di rifiuti ex art. 192 D.lgs. 152/2006, bisognerebbe dimostrare
che quegli oggetti si trovano sul terreno per assolvere una qualche funzione
e non siano stati meramente depositati.
Il riferimento contenuto nel provvedimento all’art. 7, comma 4, L.R. 15/2013
non è sintomatico dello sviamento di potere contestato dalla ricorrente, ma
è semplicemente un passaggio della motivazione dell’atto per escludere che i
beni da rimuovere potessero non essere considerati rifiuti ma destinati alla
realizzazione di una palizzata secondo quanto prospettato dalla ricorrente.
Peraltro la visione delle foto degli oggetti da rimuovere dimostra in modo
evidente la loro inidoneità allo scopo affermato dalla ricorrente.
Essendo il ricorso palesemente infondato viene respinta l’istanza di
ammissione al gratuito patrocinio, mentre le condizioni economiche della
ricorrente giustificano la compensazione delle spese di giudizio
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 21.09.2019 n. 716 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI – Rovina e crollo di una copertura in eternit –
Omessa comunicazione al Comune da parte del proprietario –
Responsabilità ex artt. 242 e 257, d.lgs. n. 152/2006 –
Configurabilità.
In materia di gestione dei rifiuti, il
proprietario, informato dello stato dei luoghi, è tenuto a
verificare le condizioni in cui si trova la copertura in
eternit ed a comunicare al Comune nel cui territorio
l’immobile insiste, l’esistenza della situazione
potenzialmente inquinante.
L’omissione di tale comunicazione, avendo colpevolmente
dimostrato un pieno disinteresse rispetto allo stato del
manufatto di sua proprietà, pur sapendo che lo stesso era in
parte realizzato con materiale altamente inquinante,
configura la responsabilità per i reati di cui
agli artt. 242 e
257, comma 1, del D.L.vo n. 152/2006 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.09.2019 n. 37460 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Eternit
e omessa comunicazione al Comune: cosa rischia il proprietario?
Il proprietario, informato dello stato dei luoghi, è
tenuto a verificare le condizioni in cui si trova la copertura in eternit e
a comunicare al Comune, nel cui territorio l'immobile si trova, l’esistenza
della situazione potenzialmente inquinante. Nel caso tale comunicazione non
venga emessa e il proprietario abbia colpevolmente dimostrato il pieno
disinteresse rispetto allo stato del manufatto di sua proprietà, pur sapendo
che lo stesso era in parte realizzato con materiale altamente inquinante,
potrà essere ritenuto responsabile dei reati di cui agli artt. 242 e 257,
comma 1, del D.L.vo n. 152/2006 e punito con la pena dell'arresto da tre
mesi a un anno o con l'ammenda da mille euro a ventiseimila euro
(massima tratta da
www.tuttoambiente.it)
---------------
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 21.06.2018 il Tribunale ci Crotone ha condannato Ba.Pa.
alla pena di giustizia, avendolo riconosciuto colpevole del reato di cui
agli
artt. 242 e
257, comma 1, del dlgs n. 152 del 2006, per avere egli, in presenza di
un evento potenzialmente inquinante, consistente nella rovina e nel crollo
di una copertura in eternit presente in un immobile di sua proprietà, omesso
di darne comunicazione alle autorità competenti.
Avverso la predetta decisione, ha interposto ricorso in appello il
prevenuto, articolando due motivi di impugnazione.
Con il primo egli ha contestato la attribuzione a suo carico della
responsabilità per la contravvenzione a lui contestata sulla base del solo
dato costituito dal fatto che lo stesso era il proprietario dell'immobile
ove si era verificato il crollo e, pertanto, l'evento potenzialmente
inquinante.
Con il secondo motivo egli ha lamentato la mancata applicazione della causa
di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen.
CONSIDERATO IN
DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Sulla base di quanto accertato in sede di merito è risultato che il Ba. era
ben consapevole della esistenza della copertura in eternit riferita al
casolare di sua proprietà sito in Comune di Cotronei, località Trepidò,
tanto da essersi attivato per acquisire dei preventivi di spesa per la
realizzazione della bonifica del sito; egli, pertanto, nella qualità di
proprietario, informato dello stato dei luoghi, era tenuto a verificare le
condizioni in cui si trovava la predetta copertura ed a comunicare al Comune
di Cotronei, nel cui territorio l'immobile insiste, la esistenza della
situazione potenzialmente inquinante.
Posto che egli ha omesso tale comunicazione, avendo colpevolmente dimostrato
un pieno disinteresse rispetto allo stato del manufatto di sua proprietà,
pur sapendo che lo stesso era in parte realizzato con materiale altamente
inquinante, a suo carico il Tribunale di Crotone ha correttamente ritenuto
sussistere la responsabilità per il fatto contestatogli.
Riguardo alla mancata qualificazione del fatto entro l'ambito delle ipotesi
di particolare tenuità ex art. 131-bis cod. pen., si rileva, per un verso,
che il ricorrente non ha formulato alcuna specifica istanza volta a far
dichiarare la causa di non punibilità del fatto a lui contestato alla
stregua della disposizione sopra citata, di tal che egli non può ora
lamentare la stringatezza della motivazione con la quale il Tribunale ha
escluso la ricorrenza della fattispecie in questione.
Per altro verso, si rileva anche che il Tribunale ha comunque
escluso, con motivazione sostanzialmente congrua, che la condotta del Ba.
avesse quel minimo grado di offensività che avrebbe giustificato
l'applicazione della causa di non punibilità, posto che il detto giudice ha
messo in luce sia la potenziale pericolosità dell'inquinamento da eternit,
che ritenuto il prevenuto meritevole di una pena la quale, essendo superiore
al minimo edittale, escludeva logicamente la possibilità di qualificare il
fatto in termini di particolare lievità (sull'implicito rigetto della
richiesta di qualificazione del fatto nell'ambito dell'art. 131-bis cod.
pen. in caso di pena irrogata in misura superiore al minimo edittale, cfr.:
Corte di cassazione, Sezione V penale, 10.10.2015, n. 39806)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
10.09.2019 n. 37460). |
|
|
IN EVIDENZA |
APPALTI: Il
principio di c.d. equivalenza funzionale interviene a dare elasticità al
parametro valutativo delle offerte di una gara, così tutelando la massima
partecipazione al confronto concorrenziale.
Tale principio permea l’intera disciplina dell’evidenza pubblica;
costituisce espressione del legittimo esercizio della discrezionalità
tecnica da parte dell’Amministrazione e trova applicazione indipendentemente
da espressi richiami negli atti di gara o da parte dei concorrenti, in tutte
le fasi della procedura di evidenza pubblica.
---------------
19. Il Collegio osserva anzitutto che il TAR, nella sentenza
appellata, è partito da una premessa condivisibile, affermando che nelle
gare d'appalto vige il principio interpretativo che vuole privilegiata, a
tutela dell'affidamento delle imprese, l’interpretazione letterale del testo
della lex specialis, dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza
di una sua obiettiva incertezza.
Occorre infatti evitare che il procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle regole di gara palesando
significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale,
posto che l’interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli
atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt.
1362 e ss., c.c., tra le quali assume carattere preminente quella collegata
all’interpretazione letterale (cfr. tra le altre, Cons. Stato, n. 7/2013;
III, n. 3715/2018; V, n. 4684/2015).
20. Ne discende che le valutazioni qualitative della Commissione di gara, a
salvaguardia della par condicio dei concorrenti, debbano svolgersi
nell’ambito del perimetro delineato dalla lex specialis, quanto in
particolare alle caratteristiche dei prodotti offerti, non potendo una
valutazione positiva degli aspetti tecnici dell’offerta, operata dalla
Commissione, sovrapporsi alla definizione contenuta nella disciplina di
gara. L’esplicazione del principio di concorrenza non è incondizionata ma
temperata da quello, altrettanto cogente, di tutela della par condicio, ed
il punto di incontro tra le relative esigenze è dato dalla disciplina di
gara, che fissa –in termini, a seconda dei casi, più o meno rigidi– i
limiti entro i quali deve svolgersi il confronto concorrenziale (cfr. Cons.
Stato, III, n. 747/2018).
21. Occorre tuttavia considerare che, a dare elasticità al parametro
valutativo, così tutelando la massima partecipazione al confronto
concorrenziale, interviene il principio di c.d. equivalenza funzionale.
Secondo l’art. 68 del d.lgs. 50/2016, che attua nell’ordinamento nazionale
l’art. 42 della direttiva 2014/24/UE, le “specifiche tecniche” (qui da
intendersi in senso lato, alla stregua di parametri di definizione
dell’offerta tecnica) sono indicate nella lex specialis secondo diverse
modalità (comma 3): “in termini di prestazioni o di requisiti funzionali … a
condizione che i parametri siano sufficientemente precisi da consentire agli
offerenti di determinare l'oggetto dell'appalto e agli enti aggiudicatori di
aggiudicare l'appalto” (lettera a); ovvero “mediante riferimento a
specifiche tecniche e, in ordine di preferenza, alle norme nazionali che
recepiscono norme europee, alle valutazioni tecniche europee, alle
specifiche tecniche comuni, alle norme internazionali, ad altri sistemi
tecnici di riferimento adottati dagli organismi europei di normalizzazione
o, se non esiste nulla in tal senso, alle norme nazionali, alle omologazioni
tecniche nazionali o alle specifiche tecniche nazionali in materia di
progettazione, di calcolo e di realizzazione delle opere e di uso delle
forniture; ciascun riferimento contiene la menzione “o equivalente””
(lettera b); oppure, sostanzialmente, abbinando specifiche tecniche dell’uno
e dell’altro dei tipi predetti (lettere c) e d).
Secondo il comma 5, un’offerta non può essere respinta perché non conforme
alle prescrizioni di cui al comma 3, lettera b), previste dalla lex
specialis, qualora l’offerente provi che “le soluzioni proposte ottemperano
in maniera equivalente ai requisiti definiti dalle specifiche tecniche”.
Secondo il comma 6, un’offerta non può essere respinta qualora risulti
conforme ad una “norma nazionale che recepisce una norma europea, a una
omologazione tecnica europea, ad una specifica tecnica comune, ad una norma
internazionale o a un riferimento tecnico elaborato da un organismo europeo
di normalizzazione” (in sostanza, alle specifiche tecniche di cui al comma
3, lettera b)), se tali specifiche “contemplano le prestazioni o i requisiti
funzionali … prescritti” dalla lex specialis.
Inoltre, in ogni caso, secondo il comma 4, “Salvo che siano giustificate
dall’oggetto dell’appalto, le specifiche tecniche non menzionano una
fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare
caratteristico dei prodotti o dei servizi forniti da un operatore economico
specifico, né fanno riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a
un’origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di
favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti. Tale menzione o
riferimento sono autorizzati, in via eccezionale, nel caso in cui una
descrizione sufficientemente precisa e intelligibile dell'oggetto
dell'appalto non sia possibile applicando il paragrafo 3. Una siffatta
menzione o un siffatto riferimento sono accompagnati dall'espressione “o
equivalente””.
22. Quanto appena ricordato evidenzia l’importanza che la formulazione della
lex specialis, sotto il profilo della univocità e completezza dei parametri
valutativi, assume ai fini della legittimità della procedura di valutazione
e della “elasticità” consentita alla Commissione di gara nell’apprezzamento
delle offerte tecniche.
23. La sentenza appellata ha preso posizione in ordine alla portata
applicativa del principio di equivalenza funzionale, riconoscendone la
centralità nel sistema, ma affermandone l’inapplicabilità alla gara in
questione (in relazione all’offerta Si., il cui prodotto differisce
sotto diversi aspetti dalle caratteristiche indicate nei sottoparametri di
valutazione) in mancanza di una previsione nella lex specialis, ovvero di
una esplicita dichiarazione o evidenziazione da parte del concorrente.
Tale punto è contestato dagli appellanti incidentali, i quali prospettano le
loro tesi sul presupposto che detti parametri contemplino, anche se talvolta
attraverso il riferimento a determinate specifiche caratteristiche o
modalità operative del prodotto da fornire, l’indicazione delle prestazioni
o dei requisiti funzionali richiesti (riconducibili all’art. 86, comma 3,
lettera a), cit).
L’appellante principale sostiene invece che i parametri si collocano al di
fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 86, cit., in quanto limitato ai
requisiti di partecipazione o di ammissibilità dell’offerta.
24. Il Collegio osserva che secondo la giurisprudenza prevalente di questa
Sezione, l’ambito di applicazione del principio di equivalenza è piuttosto
ampio, essendo stato affermato che:
- il principio di equivalenza “permea l’intera disciplina
dell’evidenza pubblica e la possibilità di ammettere a seguito di
valutazione della stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche
equivalenti a quelle richieste risponde al principio del favor partecipationis (ampliamento della platea dei concorrenti) e costituisce
altresì espressione del legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da
parte dell’Amministrazione” (cfr. Cons. Stato, III, n. 4364/2013; n.
4541/2013; n. 5259/2017; n. 6561/2018);
- trova applicazione indipendentemente da espressi richiami negli
atti di gara o da parte dei concorrenti, in tutte le fasi della procedura di
evidenza pubblica e “l’effetto di “escludere” un’offerta, che la norma
consente di neutralizzare facendo valere l’equivalenza funzionale del
prodotto offerto a quello richiesto, è testualmente riferibile sia
all’offerta nel suo complesso sia al punteggio ad essa spettante per taluni
aspetti … e la ratio della valutazione di equivalenza è la medesima quali
che siano gli effetti che conseguono alla difformità” (cfr. Cons. Stato, III,
n. 6721/2018);
- l’art. 68, comma 7, del d.lgs. 50/2016 non onera i concorrenti di
un’apposita formale dichiarazione circa l’equivalenza funzionale del
prodotto offerto, potendo la relativa prova essere fornita con qualsiasi
mezzo appropriato; la commissione di gara può effettuare la valutazione di
equivalenza anche in forma implicita, ove dalla documentazione tecnica sia
desumibile la rispondenza del prodotto al requisito previsto dalla lex
specialis (cfr. Cons. Stato, III, n. 2013/2018; n. 747/2018)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 18.09.2019 n. 6212 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Principio
di equivalenza negli appalti pubblici.
Il TAR Milano, in tema
di principio di equivalenza dei prodotti
offerti nelle gare d'appalto osserva che:
- muovendo dalla normativa prima contenuta nell’art. 68 del d.lgs.
n. 163 del 2006 e ora racchiusa nell’art. 68
del d.lgs. n. 50 del 2016, la giurisprudenza
ha evidenziato che, allorché le offerte
devono recare per la loro idoneità elementi
corrispondenti a specifiche tecniche, il
legislatore ha inteso introdurre il criterio
dell’equivalenza, nel senso cioè che non vi
deve essere una conformità formale ma
sostanziale con le specifiche tecniche, in
modo che le stesse vengano comunque
soddisfatte, con la conseguenza che, in
attuazione del principio comunitario della
massima concorrenza –finalizzata a che la
ponderata e fruttuosa scelta del miglior
contraente non debba comportare ostacoli non
giustificati da reali esigenze tecniche– i
concorrenti possono sempre dimostrare che la
loro proposta ottemperi in maniera
equivalente allo standard prestazionale
richiesto e che il riferimento negli atti di
gara a specifiche certificazioni o
caratteristiche tecniche non consente alla
stazione appaltante di escludere un
concorrente respingendo l’offerta che
possieda una certificazione equivalente o
rechi caratteristiche tecniche perfettamente
corrispondenti allo specifico standard
voluto;
- peraltro, è l’operatore economico che intende avvalersi della
clausola di equivalenza ad avere l’onere di
dimostrare l’equipollenza funzionale tra i
prodotti, non potendo pretendere che di tale
accertamento si faccia carico la stazione
appaltante, la quale è vincolata alla regola
per cui le caratteristiche tecniche previste
nel capitolato di appalto valgono a
qualificare i beni oggetto di fornitura e
concorrono, dunque, a definire il contenuto
della prestazione sulla quale deve
perfezionarsi l’accordo contrattuale, sicché
eventuali e apprezzabili difformità
registrate nell’offerta concretano una forma
di aliud pro alio, comportante, di per sé,
l’esclusione dalla gara, anche in mancanza
di apposita comminatoria, e nel contempo non
rimediabile tramite regolarizzazione
postuma, consentita soltanto quando i vizi
rilevati nell’offerta siano puramente
formali o chiaramente imputabili a errore
materiale;
- se dunque la produzione in sede di offerta delle schede tecniche
dei prodotti deve ritenersi sufficiente ai
fini dell’ammissione alla gara, in quanto
atta a consentire alla stazione appaltante
lo svolgimento di un giudizio di idoneità
tecnica dell’offerta e di equivalenza dei
requisiti del prodotto offerto alle
specifiche tecniche –sì che la prova da
fornire può concretizzarsi in una specifica
e dettagliata descrizione del prodotto e
della fornitura–, resta fermo che il
giudizio di equivalenza sulle specifiche
tecniche dei prodotti offerti in gara,
legato non a formalistici riscontri ma a
criteri di conformità sostanziale delle
soluzioni tecniche offerte, costituisce
pacificamente legittimo esercizio della
discrezionalità tecnica da parte
dell’Amministrazione e, pertanto, il
relativo sindacato giurisdizionale deve
attestarsi su riscontrati, e prima ancora
dimostrati, vizi di manifesta erroneità o di
evidente illogicità del giudizio stesso,
ossia sulla palese inattendibilità della
valutazione espressa dalla stessa
commissione di gara;
- d’altra parte, l’Amministrazione ben può esigere che i prodotti
che intende acquisire presentino
caratteristiche aggiuntive rispetto a quelle
ordinariamente richieste per simili
tipologie di prodotti, dovendosi presumere
–fino a prova contraria– che le prescritte
ulteriori proprietà elevino lo standard
prestazionale ai fini di un migliore
soddisfacimento dell’interesse pubblico
perseguito, mentre spetta all’offerente
dimostrare, pur a fronte della più alta
soglia imposta, l’equivalenza
sostanziale/funzionale del diverso prodotto
offerto e poi, in caso di giudizio negativo
della stazione appaltante, argomentatamente
denunciare in sede giurisdizionale
l’erroneità della determinazione
amministrativa sfavorevole
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.09.2019 n. 1991 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Ritenuto:
- che la controversia si incentra sulle caratteristiche tecniche
dei prodotti offerti dalla società
ricorrente per l’affidamento della fornitura
di “medicazione con argento nanocristalli”
(lotti 31 e 32), ed in particolare sulla
circostanza, valutata decisiva dalla
stazione appaltante per escludere la ditta
dalla gara, che quei prodotti sono privi di
«argento in nanocristalli»;
- che l’interessata invoca il “principio dell’equivalenza”,
nell’assunto che i prodotti offerti
garantirebbero comunque le medesime
prestazioni e andrebbero dunque valutati
idonei, pur in assenza del requisito
stabilito dal capitolato tecnico, il quale
peraltro reca un esplicito richiamo proprio
al principio di equivalenza di cui all’art.
68 del d.lgs. n. 50 del 2016;
- che, osserva il Collegio, muovendo dalla normativa prima
contenuta nell’art. 68 del d.lgs. n. 163 del
2006 e ora racchiusa nell’art. 68 del d.lgs.
n. 50 del 2016, la giurisprudenza ha
evidenziato che, allorché le offerte devono
recare per la loro idoneità elementi
corrispondenti a specifiche tecniche, il
legislatore ha inteso introdurre il criterio
dell’equivalenza, nel senso cioè che non vi
deve essere una conformità formale ma
sostanziale con le specifiche tecniche, in
modo che le stesse vengano comunque
soddisfatte, con la conseguenza che, in
attuazione del principio comunitario della
massima concorrenza –finalizzata a che la
ponderata e fruttuosa scelta del miglior
contraente non debba comportare ostacoli non
giustificati da reali esigenze tecniche–, i
concorrenti possono sempre dimostrare che la
loro proposta ottemperi in maniera
equivalente allo standard prestazionale
richiesto e che il riferimento negli atti di
gara a specifiche certificazioni o
caratteristiche tecniche non consente alla
stazione appaltante di escludere un
concorrente respingendo l’offerta che
possieda una certificazione equivalente o
rechi caratteristiche tecniche perfettamente
corrispondenti allo specifico standard
voluto (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez.
III, 28.06.2019 n. 4459);
- che, peraltro, è l’operatore economico che intende avvalersi
della clausola di equivalenza ad avere
l’onere di dimostrare l’equipollenza
funzionale tra i prodotti, non potendo
pretendere che di tale accertamento si
faccia carico la stazione appaltante, la
quale è vincolata alla regola per cui le
caratteristiche tecniche previste nel
capitolato di appalto valgono a qualificare
i beni oggetto di fornitura e concorrono,
dunque, a definire il contenuto della
prestazione sulla quale deve perfezionarsi
l’accordo contrattuale, sicché eventuali e
apprezzabili difformità registrate
nell’offerta concretano una forma di aliud
pro alio, comportante, di per sé,
l’esclusione dalla gara, anche in mancanza
di apposita comminatoria, e nel contempo non
rimediabile tramite regolarizzazione
postuma, consentita soltanto quando i vizi
rilevati nell’offerta siano puramente
formali o chiaramente imputabili a errore
materiale (v., ex multis, Cons. Stato, Sez.
III, 03.08.2018 n. 4809);
- che, se dunque la produzione in sede di offerta delle schede
tecniche dei prodotti deve ritenersi
sufficiente ai fini dell’ammissione alla
gara, in quanto atta a consentire alla
stazione appaltante lo svolgimento di un
giudizio di idoneità tecnica dell’offerta e
di equivalenza dei requisiti del prodotto
offerto alle specifiche tecniche –sì che la
prova da fornire può concretizzarsi in una
specifica e dettagliata descrizione del
prodotto e della fornitura–, resta fermo che
il giudizio di equivalenza sulle specifiche
tecniche dei prodotti offerti in gara,
legato non a formalistici riscontri ma a
criteri di conformità sostanziale delle
soluzioni tecniche offerte, costituisce
pacificamente legittimo esercizio della
discrezionalità tecnica da parte
dell’Amministrazione e, pertanto, il
relativo sindacato giurisdizionale deve
attestarsi su riscontrati, e prima ancora
dimostrati, vizi di manifesta erroneità o di
evidente illogicità del giudizio stesso,
ossia sulla palese inattendibilità della
valutazione espressa dalla stessa
commissione di gara (v. TAR Lazio, Sez. III,
03.12.2018 n. 11727);
- che, d’altra parte, l’Amministrazione ben può esigere che i
prodotti che intende acquisire presentino
caratteristiche aggiuntive rispetto a quelle
ordinariamente richieste per simili
tipologie di prodotti, dovendosi presumere
–fino a prova contraria– che le prescritte
ulteriori proprietà elevino lo standard
prestazionale ai fini di un migliore
soddisfacimento dell’interesse pubblico
perseguito, mentre spetta all’offerente
dimostrare, pur a fronte della più alta
soglia imposta, l’equivalenza
sostanziale/funzionale del diverso prodotto
offerto e poi, in caso di giudizio negativo
della stazione appaltante, argomentatamente
denunciare in sede giurisdizionale
l’erroneità della determinazione
amministrativa sfavorevole; |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Viviani,
Distanze tra fabbricati: un errore corretto dopo cinquantun anni. Meglio
tardi che mai (24.10.2019). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Studio
legale Spallino,
Distanze in edilizia - repertorio di
giurisprudenza
(settembre 2019 - tratto da www.studiospallino.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti - Ipotesi di
accordo integrativo recante criteri per le progressioni economiche
(nota
05.07.2019 n. 30823 di prot.). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI: OGGETTO: Modalità
operative per l’applicazione del calcolo per l’individuazione della soglia
di anomalia nei casi di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso
a seguito delle disposizioni di cui all’articolo 1 del decreto legge
18.04.2019, n. 32 convertito dalla legge 14.06.2019, n. 55, recante
“Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici,
per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione
urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici” (Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti,
circolare
24.10.2019 n. 8). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
D.M. 12.04.2019 – Modifiche al decreto del 03.08.2015 e s.m.i.
(Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso
Pubblico e della Difesa Civile,
nota 15.10.2019 n.
15406 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto:
Attrezzature per i servizi religiosi in applicazione dei principi della l.r.
12/2005
(Regione Lombardia,
nota 26.09.2019 n. 39784 di prot.).
---------------
Correlata, si legga anche:
●
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.08.2019 n. 36689. |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Detrazione delle spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio –
definizioni degli interventi edilizi contenute nell’art. 3 del D.P.R n. 380
del 2001 - Art. 16-bis del TUIR - Art. 11, legge 27.07.2000, n. 212
(Agenzia delle Entrate,
risposta 16.09.2019 n. 383).
---------------
E’ detraibile la sostituzione dei serramenti esterni?
Per le Entrate la sostituzione dei
serramenti esterni è manutenzione straordinaria per cui è applicabile il
bonus ristrutturazione. |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Articolo 11, legge 27.07.2000, n. 212 – Detrazione delle spese sostenute per
interventi di recupero del patrimonio edilizio - Titoli abilitativi – Art.
16-bis del TUIR
(Agenzia delle Entrate,
risposta 19.07.2019 n. 287).
---------------
E’ possibile accedere alle detrazioni fiscali anche
senza una CILA?
Le Entrate chiariscono che si può accedere alle detrazioni fiscali anche
senza una CILA, qualora gli interventi da effettuare ricadano in edilizia
libera. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 06.11.2019, "Individuazione dei
divieti temporali di utilizzazione agronomica nella stagione autunno vernina
2019/2020 in applicazione del d.m. 25.02.2016" (decreto
D.G. 31.10.2019 n. 15623). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
04.11.2019 n. 258 "Misure per la definizione delle capacità assunzionali
di personale a tempo indeterminato delle regioni" (Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Pubblica Amministrazione,
decreto 03.09.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 04.11.2019, "Bando per la
rimozione del cemento amianto da parte di privati, approvato con d.d.u.o. n.
8615 del 14.06.2019 - Ulteriore finanziamento e modalità di approvazione
elenco domande ammesse" (deliberazione
G.R. 28.10.2019 n. 2328). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI - LAVORI PUBBLICI: G.U.U.E.
31.10.2019 L 279:
●
"REGOLAMENTO
DELEGATO (UE) 2019/1827 DELLA COMMISSIONE del 30.10.2019 che
modifica la direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per
quanto riguarda le soglie delle concessioni".
●
"REGOLAMENTO
DELEGATO (UE) 2019/1828 DELLA COMMISSIONE del 30.10.2019 che
modifica la direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per
quanto riguarda le soglie degli appalti di forniture, servizi e lavori e dei
concorsi di progettazione".
●
"REGOLAMENTO
DELEGATO (UE) 2019/1829 DELLA COMMISSIONE del 30.10.2019 che
modifica la direttiva 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per
quanto riguarda le soglie degli appalti di forniture, servizi e lavori e i
concorsi di progettazione".
●
"REGOLAMENTO
DELEGATO (UE) 2019/1830 DELLA COMMISSIONE del 30.10.2019 che
modifica la direttiva 2009/81/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per
quanto riguarda le soglie degli appalti di forniture, servizi e lavori". |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 02.11.2019 n. 257 "Testo
del decreto-legge 03.09.2019, n. 101, coordinato con la legge di conversione
02.11.2019, n. 128, recante: «Disposizioni urgenti per la
tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali»".
---------------
Di interesse si leggano:
● Art. 6-bis
Armonizzazione dei termini di validità di graduatorie di pubblici concorsi
● Art. 14-bis Cessazione della qualifica di rifiuto |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
31.10.2019 n. 256 "Modifiche all’allegato 1 al decreto del Ministro
dell’interno 03.08.2015, recante «Approvazione di norme tecniche di
prevenzione incendi, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo
08.03.2006, n. 139»"
(Ministero dell'Interno,
decreto 18.10.2019). |
APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI - VARI:
G.U. 26.10.2019 n. 252 "Disposizioni urgenti in materia fiscale e per
esigenze indifferibili" (D.L. 26.10.2019 n. 124).
---------------
Di interesse si leggano:
● Art. 4. Ritenute e
compensazioni in appalti e subappalti ed estensione del regime del
reverse charge per il contrasto dell’illecita somministrazione di
manodopera
● Art. 18. Modifiche al regime dell’utilizzo del contante
● Art. 23. Sanzioni per mancata accettazione di pagamenti
effettuati con carte di debito e credito
---------------
Si leggano anche:
►
Collegato fiscale: responsabilità divise tra committente e appaltatore
(31.10.2019 - link a www.fiscooggi.it).
►
Il decreto-legge fiscale è in G.U. - Tra le novità, norme su
ritenute e compensazioni in appalti e subappalti, sul divieto di cumulo tra
Conto Energia e Tremonti ambientale e sulla revisione delle priorità in
materia di investimenti pubblici in infrastrutture (28.10.2019 - link
a www.casaeclima.com).
►
Manovra finanziaria 2020, in vigore il collegato fiscale (27.10.2019
- link a www.fiscooggi.it). |
APPALTI: G.U.U.E.
25.10.2019 n. L 272 "REGOLAMENTO
DI ESECUZIONE (UE) 2019/1780 DELLA COMMISSIONE del 23.09.2019
che stabilisce modelli di formulari per la pubblicazione di avvisi e bandi
nel settore degli appalti pubblici e che abroga il regolamento di esecuzione
(UE) 2015/1986 («formulari elettronici»)". |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 21.10.2019, "Integrazione alla
d.g.r. VII/20732 del 16.02.2005 «Linee guida per il riconoscimento della
qualifica di imprenditore agricolo professionale»" (deliberazione
G.R. 14.10.2019 n. 2258). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 17.10.2019, "Settimo
aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)"
(decreto
D.G. 10.10.2019 n. 14557). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
14.10.2019 n. 241 "Misure urgenti per il rispetto degli obblighi
previsti dalla direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell’aria e proroga del
termine di cui all’articolo 48, commi 11 e 13, del decreto-legge 17.10.2016,
n. 189, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.12.2016, n. 229" (D.L.
14.10.2019 n. 111). |
VARI: G.U.
12.10.2019 n. 240 "Testo
di legge costituzionale approvato in seconda votazione a
maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna
Camera, recante: «Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in
materia di riduzione del numero dei parlamentari»". |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 10.10.2019, "Nuove determinazioni in
materia di agriturismo ai sensi dell’art. 158 della l.r. 31/2008. Revisione
del marchio regionale di riconoscimento e dei simboli dei servizi delle
aziende agrituristiche" (deliberazione
G.R. 30.09.2019 n. 2169). |
ENTI LOCALI: G.U.
30.09.2019 n. 229 "Elenco
delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato
individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n.
196, e successive modificazioni (Legge di contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: F.
Laudante,
Profili
problematici della composizione delle Commissioni giudicatrici delle gare
d’appalto: una ricostruzione giurisprudenziale (31.10.2019
- link a www.filodiritto.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
F. Saitta,
La legittimazione a ricorrere: titolarità o
affermazione?
(31.10.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. La legittimazione ad agire nel processo civile. – 2.
La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo. – 3. Le ragioni
della (presunta) «specialità» ed il ruolo dell’interesse legittimo. – 4. Le
incertezze giurisprudenziali tra legittimazione ed interesse a ricorrere:
brevi cenni. – 5. Spunti per un ripensamento: la legittimazione da
titolarità concreta a mera affermazione. – 6. Alcuni casi paradigmatici come
banco di prova: a) il ricorso incidentale escludente. – 7. Segue: b) la
tutela degli interessi superindividuali. – 8. Segue: c) le nuove figure di
legittimazione ex lege. – 9. Legittimazione a ricorrere e natura soggettiva
od oggettiva della giurisdizione amministrativa. |
EDILIZIA PRIVATA: R.
Iacovelli,
Nullità
urbanistica: la reductio ad unum compiuta dalle Sezioni Unite
(29.10.2019 - link a
www.filodiritto.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L.
Catania,
Albi
pretori della PA: dopo quasi 10 anni è ancora caos (28.10.2019
- link a www.lentepubblica.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. B. Molinaro, Dopo
la Corte Europea anche la Cassazione “apre” all’“abuso di necessità”
(28.10.2019 - link a www.filodiritto.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: F.
D'Alessandri,
La privacy delle decisioni giudiziarie pubblicate sul sito internet
istituzionale della Giustizia Amministrativa
(25.10.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Viviani,
Distanze tra fabbricati: un errore corretto dopo cinquantun anni. Meglio
tardi che mai (24.10.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
S. Cicala,
L'UTILIZZO DEI PERMESSI EX LEGGE 104/1992 NEL CASO IN CUI L ASSISTITO È IN
CASA FAMIGLIA, COMUNITÀ ALLOGGIO O CASA DI RIPOSO (PublikaDaily
n. 19 - 22.10.2019). |
APPALTI:
S. Usai,
LA QUESTIONE DELL'INVERSIONE DELLA VERIFICA DEI REQUISITI NELLA RECENTE
GIURISPRUDENZA (PublikaDaily n. 19 - 22.10.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Luchetti,
Abuso edilizio risalente: repressione sì repressione no
(22.10.2019 - link a www.filodiritto.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: F.
Goffi,
Mobbing sul
lavoro: i presupposti per il risarcimento
(18.10.2019 - link a www.filodiritto.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Giani,
Il principio di rotazione
nell’aggiudicazione degli appalti pubblici (12.10.2019 -
tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. La declinazione dell’evidenza pubblica nel
sotto-soglia. – 2. La disciplina per principi. – 3. Il principio di
rotazione quale principio anomalo. – 4. Principio di rotazione e tutela
della concorrenza. – 5. Rotazione degli inviti e rotazione degli
affidamenti. – 6. Deroga alla rotazione: reinvito e riaffido. |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
R. Sacchi,
LA FIGURA DEL RESPONSABILE DELLA PREVENZIONE DELLA CORRUZIONE E DELLA
TRASPARENZA (RPCT) NEL NUOVO PNA 2019 (PublikaDaily n. 18 -
09.10.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.
P. Cirillo,
La premialità edilizia, la compensazione
urbanistica e il trasferimento dei diritti edificatori
(04.10.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Rassegna dei diritti edificatori: il trasferimento di cubatura e di
volumetria. Gli altri diritti edificatori: la perequazione edilizia; la
compensazione edilizia; le premialità edilizie. |
EDILIZIA PRIVATA: M.
A. Sandulli,
Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela
(02.10.2019 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. 1.1. Premessa. 1.2.
L’evoluzione del sistema dei titoli abilitativi edilizi. 1.3. Le
contraddizioni delle c.d. misure di semplificazione. 2. I controlli in fase
di avvio dell’attività edilizia. 2.1. La complessità del sistema della
legittimazione all’esercizio dell’attività edilizia. 3. Il regime dell’autotutela
e le garanzie di stabilità del titolo. 3.1. Profili generali. 3.2. Il co.
2-bis dell’art. 21-nonies come temperamento al limite temporale e la
necessità di coordinamento con l’art. 21, co. 1. 3.3. I poteri straordinari
di annullamento d’ufficio in materia edilizia. 4. Le sanzioni amministrative
edilizie. 5. Conclusioni. |
EDILIZIA PRIVATA: P.
Malanetto,
Libertà di iniziativa economica e localizzazione delle attività di impresa.
Scia e funzioni di controllo delle amministrazioni locali
(21.09.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino, Impianti
per energia da fonti rinnovabili e misure compensative non patrimoniali
(11.09.2019 - link a http://studiospallino.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
Intervento in autotutela: il termine di 18 mesi vale solo per i
provvedimenti successivi al 28.08.2015
(02.09.2019 - link a http://studiospallino.blogspot.com). |
URBANISTICA: L.
Spallino,
Piani attuativi e poteri di non approvazione delle amministrazioni locali -
TAR Lombardia-Brescia, 03.01.2019 n. 5
(07.08.2019 - link a www.dirittopa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: A.
Mitrotti,
Brevi riflessioni sull’atto di ritiro delle dimissioni del sindaco comunale
anche alla luce dei potenziali parallelismi con gli effetti propri della
questione di fiducia apponibile dal Governo nazionale
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Gerardo,
Chiarezza e concisione degli atti giuridici
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2019).
---------------
Sommario: 1. Precisazione terminologica ed introduzione - 2.
Disciplina normativa. Norma giuridica - 3. Disciplina normativa. (segue)
Provvedimento amministrativo - 4. Disciplina normativa. (segue) Sentenza ed
atti prodromici - 5. Disciplina normativa. (segue) Negozio giuridico - 6.
Disciplina normativa. (segue) Dichiarazione di scienza - 7. richiamo ai
caratteri della chiarezza e sinteticità nel momento storico attuale. aspetti
generali e problematiche connesse agli atti normativi - 8. richiamo ai
caratteri della chiarezza e sinteticità nel momento storico attuale. (segue)
Problematiche connesse al provvedimento amministrativo - 9. richiamo ai
caratteri della chiarezza e sinteticità nel momento storico attuale. (segue)
Problematiche connesse alla sentenza e agli atti prodromici - 10.
Considerazioni finali. |
APPALTI:
A. Izzi,
La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione -anche-
nella fase antecedente l’aggiudicazione definitiva - Nota a Consiglio di
stato, Adunanza Plenaria, sentenza 04.05.2018 n. 5
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2019).
---------------
Sommario: 1. Premessa - 2. i fatti di causa - 3. l’evoluzione
giurisprudenziale in materia di responsabilità precontrattuale della
pubblica amministrazione. Cenni - 4. la tesi della sezione remittente - 5.
l’indirizzo dell’adunanza Plenaria - 6. Conclusioni. |
PATRIMONIO:
G. Profeta,
La valorizzazione dei beni culturali quale terreno elettivo del partenariato
pubblico-privato e, in particolare, pubblico-pubblico
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2019).
---------------
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il rapporto di partenariato
pubblico-privati - 3. L’in-house quale limite esterno al partenariato
pubblico-privato - 4. La valorizzazione dei beni culturali quale terreno
elettivo del partenariato pubblico-privato e, in particolare,
pubblico-pubblico - 5. Il caso concreto: l’accordo di valorizzazione del
20.02.2017 - 6. Considerazioni conclusive. |
EDILIZIA PRIVATA: M.
A. Sandulli,
Poteri di autotutela della pubblica amministrazione e illeciti edilizi (15.07.2015
- tratto da www.federalismi.it). |
A.N.AC. |
PUBBLICO IMPIEGO: Poteri
dell’Autorità in materia di accertamento e sanzione delle fattispecie di
pantouflage di cui all’art. 53, comma 16-ter, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165
(comunicato
del Presidente 30.10.2019 - link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Pubblicate
due nuove rassegne: Pareri di precontenzioso sulla verifica dell’anomalia e
Requisiti speciali nelle gare di servizi e forniture.
Disponibili on line due nuove pubblicazioni in materia di contratti
pubblici. Si tratta della
Rassegna ragionata dei pareri di precontenzioso in tema di verifica
dell’anomalia, 2017-2019, e della
Rassegna ragionata in tema di requisiti speciali di partecipazione negli
affidamenti di servizi e forniture.
Il documento dell’Anac sul precontenzioso in tema di ‘verifica
dell’anomalia’ ricostruisce molte pronunce dell’Autorità riferite al
periodo 2017-2019, fornendo un quadro sistematico e organico degli
orientamenti assunti in materia nel corso del tempo al fine di assicurare la
corretta valutazione delle offerte, funzionale all’individuazione del
miglior offerente.
Molti i profili che emergono dalla rassegna: l’individuazione delle offerte
anomale e l’avvio della verifica di congruità; le prime decisioni assunte in
merito dall’Autorità dopo l’entrata in vigore del decreto c.d. “sblocca
cantieri”; l’istruttoria nell’ambito della verifica di anomalia e
l’oggetto della verifica di anomalia; l’esito della verifica e l’obbligo di
motivazione; l’esclusione automatica delle offerte e la sindacabilità del
giudizio di anomalia.
Le molteplici pronunce dell’Autorità in merito ai requisiti speciali di
partecipazione negli affidamenti di servizi e forniture hanno consentito di
elaborare una rassegna che, muovendo dalle più recenti determinazioni dell’Anac
post-Codice del 2016, ripercorre i principali aspetti connessi alla
disciplina dei requisiti speciali di partecipazione, evidenziando gli
indirizzi espressi nonché la continuità e i mutamenti di orientamento
rispetto al previgente Codice del 2006.
La rassegna è ripartita nelle tre marco-aree dei requisiti speciali
-idoneità professionale, capacità tecnico-organizzativa, capacità
economico-finanziaria- e illustra i principali profili affrontati
dall’Autorità
(29.10.2019 - link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Oggetto:
Indicazioni relative all’obbligo di acquisizione del CIG e di pagamento del
contributo in favore dell’Autorità per le fattispecie escluse dall’ambito di
applicazione del codice dei contratti pubblici (comunicato
del Presidente 16.10.2019 - link a www.anticorruzione.it). |
SEGRETARI COMUNALI: L'Anac
rafforza le tutele del segretario comunale come responsabile anticorruzione.
L'Anac interviene nuovamente sul tema dell'adozione di
misure discriminatorie nei confronti del segretario comunale nominato
responsabile per la prevenzione della corruzione.
La
delibera 02.10.2019 n. 883 ha riguardato lo scioglimento della
convenzione di segreteria per recesso unilaterale di un Comune. Tale scelta
–è stato segnalato- nella sostanza nasconde la volontà di revocare il
segretario comunale/responsabile prevenzione corruzione sia per liberarsi di
un funzionario scomodo, costituente ostacolo al perpetuarsi di certe
prassi/progetti/intendimenti corruttivi, sia in un'ottica di vendetta per
avere il Rpct bloccato alcuni progetti politici del Sindaco.
La fattispecie concreta sottoposta all'esame dell'Anac non era evidentemente
riconducibile a quella prevista dall'articolo 1, comma 82, della legge n.
190/2012, non essendo stato adottato alcun provvedimento di revoca di
segretario comunale, in base all'articolo 100 del Tuel. Tuttavia, il recesso
unilaterale del Comune dalla convenzione di segreteria, di fatto, ha
comportato la rimozione del segnalante dal suo incarico di segretario
comunale e di Roct, con aspetti qualificabili come misura ritorsiva in base
all'articolo 1, comma 7, legge n. 190/2012.
Le ragioni discriminatorie
L'Anac ha rilevato la vicinanza cronologica del recesso con:
a) il giudizio negativo espresso dal Rpct sul livello di
ottemperanza dell'ente agli obblighi di trasparenza e denuncia
d'inosservanza cronica dei doveri di pubblicazione degli atti, in base al
Dlgs n. 33/2013, per omessa pubblicazione delle determinazioni dirigenziali
del 2019 e del 2018;
b) la segnalazione d'inadempimenti in tema di trasparenza;
c) i solleciti, anche formali, ad ottemperare a detti obblighi,
inviati dal Rpct ai responsabili;
d) la valutazione negativa della performance dell'anno 2018 dei tre
responsabili delle omesse pubblicazioni e la negata erogazione
dell'indennità di risultato;
e) l'intendimento di esprimere parere negativo sulla proposta
deliberativa relativa alla salvaguardia degli equilibri di bilancio, per
omessa pubblicazione di oltre 100 determinazioni dirigenziali degli anni
2018 e 2019 di cui 70 relative all'esercizio finanziario 2019.
Non ha rinvenuto, di contro, un collegamento tra il recesso con altri atti
indicati dal segretario, poiché cronologicamente successivi alla delibera
consiliare di recesso, che però illustrano il contesto interno preesistente
al recesso in cui il Rpct ha operato ed è intervenuto per contrastare
condotte, a suo parere, corruttive, in quanto viziate da conflitto
d'interessi.
Sia il Sindaco, sia il segretario comunale hanno confermato la sussistenza
di rapporti personali conflittuali sin dai tempi in cui il Sindaco era
vicesindaco con delega al bilancio nella giunta precedente, sebbene
diversamente giustificati: incomprensioni personali, per il Sindaco; motivi
lavorativi, per il Rpct.
La richiesta di riesame
Tali considerazioni, unitamente alle altri problemi illustrati dal
segnalante e alle motivazioni del recesso unilaterale del Comune dalla
convenzione di segreteria hanno suscitato perplessità sulla regolarità del
ricorso a tale procedura, sebbene ciò non sia di competenza dell'Autorità.
Per quanto di competenza, la cessazione dell'incarico di Segretario comunale
e conseguentemente di Rpct appare prima facie correlata all'attività
di prevenzione della corruzione da questi svolta in qualità di Rpct. Alla
luce di tutto quanto sopra, l'Anac ha ritenuto che, nel caso specifico, la
deliberazione del consiglio comunale di risoluzione unilaterale dalla
convenzione di segreteria abbia prodotto l'effetto diretto della revoca
dell'incarico di segretario comunale e quello indiretto della revoca
dell'incarico di Rpct per motivi legati a tale sua attività oltre che di
segretario comunale.
L'Anac ha chiesto quindi al Consiglio comunale il riesame, in base
all'articolo15, comma 3, del Dlgs n. 39/2013, della delibera consiliare di
recesso unilaterale della convenzione per la gestione in forma associata del
servizio di segreteria comunale e assegnato all'amministrazione il termine
di 30 giorni per tale adempimento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
01.11.2019). |
APPALTI: Appalti,
Anac boccia il criterio che premia chi arriva prima
Il criterio cronologico, cioè l’ordine di arrivo delle manifestazioni di
interesse al protocollo della stazione appaltante), non può ritenersi
strumento idoneo per assicurare la scelta degli operatori da far concorrere
in quanto «non è in grado di garantire la medesima casualità del sorteggio e
di neutralizzare il possibile rischio di asimmetrie informative tra i
potenziali concorrenti».
In questo senso si è espressa l’Anac con il
Parere di Precontenzioso 18.09.2019 n. 827 - rif. PREC 120/19/L.
L’appaltatore ha contestato la legittimità del criterio adottato dalla
stazione appaltante -per la realizzazione di un impianto di illuminazione-
per individuare i soggetti da invitare alla procedura negoziata. Nell’avviso
di indagine di mercato, la stazione appaltante ha previsto che nell’ipotesi
in cui «il numero delle domande pervenute fosse risultato superiore a tre»,
l’invito da parte del Rup «sarebbe stato rivolto ai primi tre candidati,
in base all’ordine cronologico di arrivo delle istanze di partecipazione»
al protocollo dell’ente.
L’amministrazione ha giustificato il criterio evidenziando l’esigenza di
concludere la gara in tempi rapidi. E ne ha sostenuto la legittimità in
quanto modalità di selezione casuale e oggettiva come il sorteggio .
La tesi non persuade l’Autorità anticorruzione. Nel parere si riafferma che
le procedure sotto soglia (linee guida Anac n. 4) devono essere condotte nel
rispetto del principio della libera concorrenza «quale effettiva
contendibilità degli affidamenti da parte dei soggetti potenzialmente
interessati e il principio di pubblicità e trasparenza quale conoscibilità
della procedura di gara e facilità di accesso alle informazioni».
Le Linee guida suggeriscono, quando la stazione appaltante non abbia
previsto dei criteri oggettivi per la selezione dei fornitori e vengano
presentate manifestazioni di interesse da un numero di operatori superiore a
quello predefinito nell’avviso, di ricorrere a un sistema oggettivo e
trasparente. Queste connotazioni sono sicuramente riconducibili al sistema
del sorteggio «a condizione che ciò sia stato debitamente reso noto
nell’avviso a manifestare interesse».
Invece il criterio cronologico, basato sulla tempestività della domanda, non
può ritenersi «in grado di garantire la medesima casualità del sorteggio
e di neutralizzare il possibile rischio di asimmetrie informative tra i
potenziali concorrenti».
Il mezzo prescelto per la selezione, prosegue il parere, deve essere idoneo
a «raggiungere la più ampia sfera di potenziali operatori interessati
all’affidamento, in relazione all’entità e all’importanza dell’appalto».
L’obiettivo viene frustrato nel caso dell’utilizzo del criterio cronologico
e infatti l’Anac ha segnalato le criticità di questo sistema prevedendo già
«il divieto di prevedere l’adozione del criterio cronologico nella
selezione degli operatori da invitare».
Sotto il profilo pratico, inoltre, al di là delle autorevoli considerazioni
espresse dall’Anac si deve rilevare che l’utilizzo dell’ordine di arrivo al
protocollo si presta anche a possibili censure per potenziali fughe
anticipate di notizie sulla gara da avviare. Circostanza che,
inevitabilmente, finisce per condizionare lo svolgimento della procedura (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
21.10.2019). |
APPALTI: Il
responsabile del servizio non può presiedere la «propria» commissione di
gara.
L'approvazione degli atti di gara non costituisce un'operazione di natura
meramente formale ma integra una «funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta»
(articolo 77, comma 4 del codice dei contratti) il cui svolgimento è
precluso ai componenti della commissione giudicatrice. Ciò determina
l'incompatibilità del dirigente/responsabile del servizio a presiedere le
commissioni di gara relative ad appalti del proprio settore.
È questa la precisazione contenuta nel parere dell'Anac espresso con il
Parere di Precontenzioso 04.09.2019 n. 760 - rif. PREC 119/19/S.
L'istanza
All'Anac è stata posta la questione della illegittimità della composizione
della commissione di gara per incompatibilità del presidente.
Più nel
dettaglio, l'impresa istante –avvalendosi della norma sulla incompatibilità
contenute nel comma 4 dell'articolo 77 del codice secondo cui «I commissari
non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico
tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si
tratta»- ha rilevato l'impossibilità per il responsabile del servizio (che
approva la legge speciale di gara) di svolgere anche le funzioni del
soggetto che approva le risultanze della gara.
Ciò in virtù dell'estensione
delle cause di incompatibilità –a differenza di quanto accadeva con il
vecchio regime normativo (e in specie con l'articolo 84, comma 8) del Dlgs
163/2006– anche al soggetto che presiede la commissione di gara (delibera Anac n. 27/2017).
Il chiarimento dell'Anac
L'autorità anticorruzione ha chiarito che la disposizione in tema di
incompatibilità risponde all'esigenza di assicurare una «rigida separazione
della fase di preparazione della documentazione di gara da quella di
valutazione delle offerte in essa presentate, a garanzia della neutralità
del giudizio ed in coerenza con la ratio generalmente sottesa alle cause di
incompatibilità dei componenti degli organi amministrativi».
Questo divieto,
quindi, sarebbe destinato a prevenire il pericolo concreto di possibili
«effetti distorsivi prodotti dalla partecipazione alle commissioni
giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti
del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso titolo
nella procedura concorsuale, definendo i contenuti e le regole della
procedura (Cons. Stato, sez. V, 28.04.2014, n. 2191)».
Ora, nel ragionamento espresso nel parere, l'approvazione degli atti di gara
non può essere considerata una mera operazione di natura solo formale ma,
trattandosi di un «controllo preventivo di merito, implica necessariamente
un'analisi degli stessi, una positiva valutazione e –attraverso la
formalizzazione– una piena condivisione».
La fase (e gli atti dell'approvazione) implica e concretizza proprio una
funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto da
aggiudicare il cui svolgimento è precluso ai componenti della Commissione
giudicatrice (in tal senso Tar Brescia n. 1306/2017; Tar Puglia, Lecce,
sezione II, n. 1040/2016).
Questa situazione, pertanto, avrebbe l'effetto di
determinare una chiara incompatibilità che non può essere superata –prosegue l'Anac– neppure ammettendo l'ulturavigenza dell'articolo 84 del
vecchio codice. L'ultravigenza, infatti, deve ritenersi limitata alla sola
modalità di nomina delle commissioni di gara e non anche alle
«incompatibilità ovvero gli altri aspetti disciplinati dall'art. 77 del
Codice, né tanto meno appare giuridicamente possibile che una norma
espressamente abrogata –l'art. 84 del d.lgs. 163/2006- possa continuare a
spiegare effetti».
La conclusione è nel senso, quindi, della incompatibilità del ruolo
dirigente/responsabile del servizio che approva la legge di gara con il
ruolo del soggetto tenuto ad approvare le risultanze della gara. Negli enti
locali (e nella altre stazioni appaltanti) il dirigente/responsabile del
servizio a cui è riconducibile l'appalto non può presiedere, quindi, la
propria commissione di gara nonostante quanto disposto nell'articolo 107 del
decreto legislativo 267/2000 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.10.2019). |
APPALTI: L'invito
a tutti gli appaltatori del territorio non esclude l'obbligo di rotazione.
La circostanza che ogni impresa del territorio comunale sia stata invitata
alla procedura di affidamento non esonera il responsabile unico del
procedimento dall'obbligo di rispettare il principio di rotazione. Pertanto
l'affidamento al vecchio affidatario è illegittimo.
In questo senso il
Parere di Precontenzioso 05.06.2019 n. 500 - rif. PREC 63/19/S dell'Anac.
Il quesito
I quesiti inviati all'Anac –in sede di precontenzioso– da un appaltatore,
in relazione all'affidamento, tramite procedure negoziate senza previa
pubblicazione del bando di gara del servizio di manutenzione dei locali
espletato secondo l'articolo 36 del codice dei contratti, riguardavano, in
primo luogo, il mancato rispetto della rotazione. L'appalto, infatti,era
stato aggiudicato al vecchio affidatario che, secondo l'impresa instante,
non avrebbe neppure dovuto essere invitato.
In secondo luogo, l'appaltatore si è lamentato dell'operato della
commissione di gara che non avrebbe valutato la propria richiesta di
partecipazione, nonostante la richiesta di invito, alla luce
dell'orientamento giurisprudenziale che afferma l'obbligo di invitare al
procedimento l'operatore che abbia manifestato l'intendimento di partecipare
alla competizione.
La stazione appaltante ha replicato evidenziando che al
procedimento risultavano invitate tutte le cooperative sociali esistenti nel
territorio comunale e che l'istante non è stata invitata in quanto non
ancora costituita alla data di trasmissione delle lettere d'invito.
Il riscontro
L'autorità anticorruzione ha ribadito la lettura molto rigorosa che
l'attuale giurisprudenza esprime in tema di rispetto
dell'alternanza/rotazione tra imprese. In sostanza, ogni deroga alla
rotazione –sia nel riaffido dell'appalto sia nel reinvito del vecchio
aggiudicatario o ai soggetti già invitati– deve trovare una adeguata
motivazione.
L'aspetto pratico interessante della questione è che la stazione appaltante
ha sostenuto di aver invitato tutti gli operatori locali (tutte le
cooperative sociali) esistenti nel territorio comunale e pertanto non doveva
applicare la rotazione. La circostanza non è stata considerata persuasiva
dall'Anac.
Il fatto che il Rup, nell'effettuare gli inviti al procedimento
semplificato nelle acquisizioni sottosoglia comunitaria (articolo 36 del
codice dei contratti) e, in particolare, nell'ipotesi entro i 40mila euro
(articolo 36, comma 2, lettera a), abbia rivolto gli inviti a ogni operatore
locale (presente nel territorio comunale) non rende, per ciò stesso, il
procedimento "aperto". La procedura realmente aperta, in effetti,
consentirebbe –anche alla luce di quanto disposto nelle linee guida Anac n.
4, in tema di acquisizioni nel sottosoglia comunitario- di apportare delle
deroghe alla rotazione considerata l'affinità del procedimento con quello
"classico" dell'evidenza pubblica.
Ma non può sfuggire, sotto il profilo
tecnico/operativo, che "aprire" il procedimento ai soli operatori locali non
determina, evidentemente, l'esperimento di una procedura formalmente e
sostanzialmente aperta. E' chiaramente una contraddizione visto che la
possibilità di partecipazione, in realtà, è limitata territorialmente.
L'Anac ha ritenuto non persuasive le argomentazioni sviluppate e il
riferimento alla giurisprudenza visto che l'appaltatore –nel caso di specie– non ha presentato una propria offerta/tecnico economica che avrebbe dovuto
essere valutata dalla commissione di gara ma una semplice richiesta di
invito che è stata "ignorata" dal collegio.
Queste affermazioni, in effetti,
confermano quanto emerge dalla recente giurisprudenza (Tar Catania, sentenza
n. 1380/2019) che tende a distinguere il caso in cui il responsabile unico
proceda con avviso pubblico a manifestare interesse su cui, poi, innestare
gli inviti, dal caso in cui la scelta degli operatori sia stata effettuata
in modo "discrezionale" dal responsabile del procedimento. In quest'ultimo
caso, infatti, la mancata formalizzazione dell'avviso legittima la
partecipazione ai soggetti non invitati che si propongono.
Il riscontro dell'Anac, obiettivamente, sembra eccessivamente penalizzante
per l'impresa che venga a conoscenza del procedimento e, seguendo la
procedura, si limiti a richiedere di essere invitata senza presentare una
vera e propria offerta
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.07.2019). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L'ufficio edilizia e l'ufficio lavori pubblici, in gestione
associata all'Unione di Comuni, chiedono quali siano le novità in materia di
"opere a scomputo" avendo avuto notizia di una modifica normativa che però
non si ritrova né nella disciplina edilizia (nazionale e regionale) né in
quella sugli appalti.
La problematica è reale e deriva dall'avvio, da parte della Commissione
europea, di una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia
riguardante, tra l'altro, la violazione dell'art. 5, par. 8, comma 2, Dir.
2014/24/UE in relazione alle opere di urbanizzazione a scomputo.
Alla luce di questa procedura, coinvolgente le Linee guida ANAC n. 4,
l'Autorità Nazionale Anticorruzione preso atto che nelle more della
conclusione della procedura di aggiornamento delle Linee guida n. 4, è
intervenuto il D.L. 18.04.2019, n. 32 recante "Disposizioni urgenti per
il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli
interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a
seguito di eventi sismici", convertito con L. 14.06.2019 n. 55 ha
provveduto all'"Aggiornamento dei punti 1.5, 2.2, 2.3 e 5.2.6 lettera j)
delle Linee guida n. 4 a seguito dell'entrata in vigore della L. 14.06.2019
n. 55 di conversione del D.L. 18.04.2019 n. 32" con la Del. 10.07.2019,
n. 636.
Le Linee guida n. 4, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti "Procedure
per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di
rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli
elenchi di operatori economici" contengono oggi una disciplina specifica
(punto 2.2 e 2.3) su questo tema prevedendo in sintesi che:
- "Per le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale
del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire, nel
calcolo del valore stimato devono essere cumulativamente considerati tutti i
lavori di urbanizzazione primaria e secondaria anche se appartenenti a
diversi lotti, connessi ai lavori oggetto di permesso di costruire, permesso
di costruire convenzionato (art. 28-bis, D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o
convenzione di lottizzazione (art. 28, L. 17.08.1942 n. 1150) o altri
strumenti urbanistici attuativi".
- l'art. 16, comma 2-bis, D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (Nell'ambito
degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati
nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico
generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria ... di
importo inferiore alla soglia ..., funzionali all'intervento di
trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del
permesso di costruire e non trova applicazione il [Codice dei contratti]) e
l'art. 36, comma 4, Codice dei contratti pubblici che rinvia a tale
disposizione si applicano dunque esclusivamente quando il valore di tutte le
opere di urbanizzazione non raggiunge le soglie di rilevanza comunitaria.
I casi possibili sono dunque due:
a) nel caso dunque si rimanga sotto la soglia il privato avrà
titolo ad avvalersi delle citate disposizioni (esecuzione diretta di opere a
scomputo) ma esclusivamente per le opere funzionali. "Per opere
funzionali si intendono le opere di urbanizzazione primaria (ad es. fogne,
strade, e tutti gli ulteriori interventi elencati in via esemplificativa
dall'art. 16, comma 7, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) la cui realizzazione è
diretta in via esclusiva al servizio della lottizzazione ovvero della
realizzazione dell'opera edilizia di cui al titolo abilitativo a costruire
e, comunque, quelle assegnate alla realizzazione a carico del destinatario
del titolo abilitativo a costruire";
b) il valore complessivo di tutte le opere supera la soglia
comunitaria. In questo caso il privato dovrà applicare il Codice di
contratti pubblici (procedure di gara, principi, regole ecc..) sia per le
opere funzionali che per quelle non funzionali.
A questo complesso quadro occorre aggiungere l'ulteriore deroga (della
deroga) prevista dall'art. 35, comma 11, del codice dei contratti pubblici
in base al quale "le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti
aggiudicatori possono aggiudicare l'appalto per singoli lotti senza
applicare le disposizioni del presente codice, quando il valore stimato al
netto dell'IVA del lotto sia inferiore a euro 80.000 per le forniture o i
servizi oppure a euro 1.000.000 per i lavori, purché il valore cumulato dei
lotti aggiudicati non superi il 20 per cento del valore complessivo di tutti
i lotti in cui sono stati frazionati l'opera prevista, il progetto di
acquisizione delle forniture omogenee, o il progetto di prestazione servizi".
In sintesi, rimane in vigore la disciplina sulla realizzazione diretta di
opere a scomputo da parte del titolare del permesso di costruire ma con
forti limitazioni derivanti dal calcolo del valore stimato secondo le
indicazioni di Anac, frutto del recepimento di puntuali indicazioni
comunitarie.
Si conferma che tale disciplina è fuori dalla disciplina
urbanistico-edilizia e del Codice dei contratti, che contiene un richiamo
indiretto e generale solo nell'art. 216, comma 27-octies laddove dispone "Ai
soli fini dell'archiviazione delle citate procedure di infrazione, nelle
more dell'entrata in vigore del regolamento, il Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti e l'ANAC sono autorizzati a modificare
rispettivamente i decreti e le linee guida adottati in materia", norma
che è alla base della Del. 10.07.2019, n. 636 dell'ANAC.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 17.08.1942 n. 1150, art.
28 - D.P.R. 06.06.2001 n. 380, art. 28-bis - D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art.
35 - D.L. 18.04.2019, n. 32 - L. 14.06.2019, n. 55 - Del. 10.07.2019, n. 636
dell'ANAC (30.10.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: La
nomina del direttore dell’esecuzione nei contratti di forniture/servizi.
Domanda
Il nostro ente sta avviando delle procedure d’appalto di servizi e forniture
di importo inferiore ai 500 mila euro. Il responsabile del servizio vorrebbe
procedere con la nomina di un direttore dell’esecuzione diverso dal
responsabile unico del procedimento.
Questo distinguo, per importi inferiori ai 500mila euro è possibile o,
obbligatoriamente, il RUP deve svolgere anche le funzioni di direttore
dell’esecuzione?
Risposta
La questione posta esige un previo chiarimento sui rapporti tra nomina del
direttore dell’esecuzione ed erogazione degli incentivi.
Normalmente, anche per come la questione viene affrontata e chiarita nelle
linee guida ANAC n. 3, le funzioni del direttore dell’esecuzione negli
appalti di forniture e servizi d importo inferiore ai 500mila euro devono
essere svolte dal RUP.
In sostanza, e banalizzando, si ritiene che nell’ambito di tali importi le
funzioni/compiti da svolgere –salvo prova contraria– non siano così
complesse ed articolate.
Ma, a sommesso parere, la preoccupazione sugli incarichi distinti RUP e
direttore dell’esecuzione, trae origine (o almeno appare riconducibile) alla
questione degli incentivi per funzioni tecniche. Nel senso che, questi
ultimi, sono erogabili solo ed esclusivamente se per l’esecuzione del
contratto è stato nominato un DEC diverso dal RUP. E ciò, secondo l’ANAC (ed
il costante orientamento delle sezioni regionali della Corte dei Conti) è
ammissibile solamente nel caso in cui l’appalto superi i 500mila euro.
Ciò emerge, in tempi recenti, con particolare evidenza nella delibera n.
301/2019 della sezione regionale del Veneto in cui si legge, testualmente,
che al di sotto dell’importo appena richiamato “la nomina disgiunta”
DEC/RUP, “non è né necessaria, né tanto meno prevista”, in quanto “il
responsabile del procedimento svolge, nei limiti delle proprie competenze
professionali, anche le funzioni di progettista e direttore dell’esecuzione
del contratto” con la conseguenza che, solo al superamento “della
stessa si impone la scissione delle due figure. Dal quadro normativo non si
evincono ulteriori fattispecie che legittimino la nomina del direttore
dell’esecuzione al di fuori delle ipotesi contemplate”.
L’aspetto, pertanto, sostanziale della questione è quello prospettato ma
nulla esclude, qualora si ravvisassero aspetti tecnici e/o di opportunità
(si pensi al caso in cui il responsabile del servizio sia al contempo RUP/DEC
di diversi servizi/forniture) che rendessero necessario distribuire il
carico di lavoro (ed ovviamente nel caso in cui realmente le funzioni siano
articolate e la scissione risulti davvero necessaria.
In questo caso ben potrebbe, questo soggetto, individuare (se non proprio un
DEC) un responsabile del procedimento con alcuni compiti di quelli
riconducibili ai controlli/verifiche sull’esecuzione del contratto.
Naturalmente questo soggetto non potrebbe avere accesso ad incentivi (visto
i vincoli sopra sintetizzati) ma potrebbe avere benefici in termini di
valutazione sulla performance per i risultati raggiunti
(30.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Verifiche
sui requisiti di nomina dei componenti delle commissioni di concorso.
Domanda
Stiamo nominando una commissione di concorso per il nostro comune e i
componenti sono tutti esterni all’ente. Dobbiamo compiere delle verifiche
particolari sulla situazione dei componenti?
Risposta
La normativa in materia di prevenzione della corruzione ha interessato anche
le procedure di formazione delle commissioni di concorso, attraverso
l’articolo 1, comma 46, della legge 06.11.2012, n. 190, che ha introdotto
l’art. 35-bis, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato “Prevenzione
del fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nelle
assegnazioni agli uffici”. Analoga disposizione è rinvenibile nell’art.
3, del d.lgs. 39/2013, in materia di inconferibilità ed incompatibilità di
incarichi presso le pubbliche amministrazioni.
La nuova disposizione, prevede che coloro che sono stati condannati, anche
con sentenza NON passata in giudicato, per i reati previsti nel Capo I, del
Titolo II del libro secondo del codice penale (articoli da 314 a 335-bis c.p.),
tra gli altri divieti, non possono fare parte, anche con compiti di
segreteria, di commissioni per l’accesso o la selezione a pubblici impieghi.
Come ben specificato nel comma 2, del citato articolo 35-bis, “la
disposizione prevista al comma 1 integra le leggi e regolamenti che
disciplinano la formazione di commissioni e la nomina dei relativi segretari”.
Chiarito l’ambito normativo in cui ci si muove, rispondendo al quesito, è
necessario che l’ente che ha provveduto alla nomina della commissione,
acquisisca, da ciascun componente (presidente + due componenti) e dal
segretario, prima dell’insediamento, un’apposita dichiarazione sostitutiva
di certificazione, resa dall’interessato nei termini e alle condizioni
dell’art. 46 del DPR n. 445/2000, che attesti l’assenza di condanne, anche
non definitive, per i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione.
Ricevuta la dichiarazione, il servizio personale o altro ufficio del comune,
dovrà provvedere ad acquisire il certificato penale e quello dei carichi
pendenti dei quattro interessati, così da compiere la dovuta verifica sulle
dichiarazioni rese. É consigliabile che le dichiarazioni e l’acquisizione
dei certificati penali, avvenga prima dell’insediamento della commissione
giudicatrice.
Sull’argomento, a completamento informativo, si rinvia alla delibera ANAC n.
447 del 17.04.2019, con la quale l’Autorità ha ritenuto applicabile il
principio dell’inconferibilità dell’incarico di componente o di segretario
di una commissione di concorso, anche nei casi in cui la sentenza –anche non
definitiva– sia stata pronunciata non solo per reato “consumato”, ma
anche per “delitto tentato”
(29.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità
amministratori: vige ancora la riduzione del 10% sull’ammontare in essere
alla data del 30/09/2005.
Domanda
L’Amministrazione comunale del mio Ente è stata eletta nello scorso mese di
maggio. Ho un dubbio: la riduzione del 10% sull’indennità spettante agli
amministratori introdotta alcuni anni fa è ancora vigente?
Risposta
Come noto le indennità spettanti agli amministratori degli enti locali
trovano la loro disciplina nell’art. 82 del TUEL. Per la loro
quantificazione, che avviene essenzialmente per fascia demografica di
appartenenza, vige ancora il decreto ministeriale n. 119 del 04/04/2000, a
suo tempo adottato ai sensi dell’art. 23 della legge n. 265/1999.
Il quesito del lettore fa riferimento alla decurtazione del 10% introdotta
dall’art. 1, comma 54, della legge 23/12/2005, n. 266, che deve essere
applicato all’ammontare dell’indennità risultante alla data del 30/09/2005,
a cui devono essere assoggettate sono anche le indennità e i gettoni di
presenza spettanti agli amministratori degli enti locali.
Sul tema è poi intervenuto l’art. 76, comma 3, del d.l. 25/06/2008, n. 112
convertito dalla legge 06/08/2008, n. 133 che ha modificato l’art. 82, comma
11, del TUEL (già in precedenza modificato dall’art. 2, comma 25, della
legge 24/12/2007, n. 244), eliminando ogni possibilità di incremento delle
indennità di funzione e dei gettoni di presenza rispetto alla misura
determinata ai sensi del comma 8 dello stesso articolo, ovvero mediante
decreto ministeriale.
L’art. 5, comma 7, del d.l. 31/05/2010, n. 78 convertito dalla legge
30/07/2010, n. 122 ha infine previsto un’ulteriore rideterminazione in
ribasso delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza per un periodo
non inferiore ai tre anni e in una misura variabile in ragione della
dimensione demografiche dell’ente, rinviandone tuttavia l’attuazione ad un
decreto ministeriale che a tutt’oggi non ha ancora visto la luce. La norma è
pertanto rimasta lettera morta. Sul tema è recentemente intervenuta la Corte
dei conti, sezione regionale di controllo per l’Abruzzo con parere n. 113
del 12 settembre scorso.
I magistrati contabili hanno ribadito l’orientamento giurisprudenziale ormai
da tempo consolidato: affermano che essendo stata abolita fin dal 2008 la
possibilità per gli enti di modificare autonomamente l’importo delle
indennità, le delibere contenenti eventuali riduzioni, superiori a quella
fissate dalla legge, vanno intese come rinunce volontarie ad una parte
dell’indennità. Come tali, esse non hanno alcuna influenza sull’ammontare
delle stesse per gli esercizi successivi (Sezione di controllo per il
Piemonte deliberazione n. 278/2012/PAR).
Il principio è stato poi confermato dalla Sezione delle autonomie con parere
n. 35/2016/QMIG che afferma che le indennità di funzione non possono essere
soggette ad un congelamento rapportato ad un determinato momento storico e
mantenuto negli esercizi futuri, solo perché circostanze di natura personale
e discrezionale (ad esempio, in caso di riduzione volontaria, parziale o
totale, dell’indennità da parte di un amministratore in carica all’atto
della sua rideterminazione) abbiano potuto incidere sugli importi spettanti.
Gli importi decurtati per scelte volontarie e soggettive non possono
costituire una base storica sulla quale rapportare le medesime indennità per
il futuro.
Da ciò discende che le indennità che siano state volontariamente ridotte al
di sotto della soglia stabilita dalla legge possano essere rideterminate in
aumento fino a raggiungere la misura teorica massima legale definita dal DM
n. 119/2000 in ragione della dimensione demografica dell’ente. Resta invece
pienamente confermato l’abbattimento percentuale previsto dall’art. 1, comma
54, della legge 23/12/2005, n. 266, che continua pertanto ad applicarsi
all’ammontare dell’indennità risultante alla data del 30/09/2005
(28.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
TRIBUTI: L'ufficio
tributi di questo Ente pubblico si trova spesso a ricevere scritti difensivi
con richieste di annullamento o rettifica di accertamenti basati sul
principio che l'onere della prova dell'esistenza del tributo è a carico
dell'Amministrazione. E' realmente così ed in base a quali norme?
In linea di principio le obiezioni formulate dagli interessati fanno
riferimento ad un principio immanente nel nostro ordinamento, in base al
quale spetta all'Amministrazione dimostrare le ragioni a fondamento della
propria pretesa impositiva (tributaria e non). Si tratta dei principi di
legalità ricavabili da disposizioni costituzionali (art. 23, 53, 97) e
meglio esplicitati in varie disposizioni della L. 27.07.2000, n. 212 "Disposizioni
in materia di statuto dei diritti del contribuente" quali ad esempio:
- Art. 11, comma 1, "Il contribuente può interpellare
l'amministrazione per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete
e personali relativamente a: a) l'applicazione delle disposizioni
tributarie, quando vi sono condizioni di obiettiva incertezza sulla corretta
interpretazione di tali disposizioni e la corretta qualificazione di
fattispecie alla luce delle disposizioni tributarie applicabili alle
medesime, ove ricorrano condizioni di obiettiva incertezza".
- Art. 6, comma 2, "L'amministrazione deve informare il
contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza dai quali possa
derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l'irrogazione di una
sanzione, richiedendogli di integrare o correggere gli atti prodotti che
impediscono il riconoscimento, seppure parziale, di un credito".
- Art. 6, comma 4, "Al contribuente non possono, in ogni caso,
essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso
dell'amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche
indicate dal contribuente. Tali documenti ed informazioni sono acquisiti ai
sensi dell'articolo 18, commi 2 e 3, della legge 07.08.1990, n. 241,
relativi ai casi di accertamento d'ufficio di fatti, stati e qualità del
soggetto interessato dalla azione amministrativa".
Questi principi e queste disposizioni però non determinano un onere di
ricerca degli elementi della fattispecie tributaria talmente onerosi da
formare una "prova" dell'esistenza del presupposto, potendo
l'amministrazione finanziaria in molti contesti (ma la valutazione va fatta
con riferimento alla singola disposizione) operare mediante elementi
indiziari gravi, precisi e concordati.
Recentemente ad esempio, in relazione all'applicazione dell'art. 63, comma
3, primo periodo, D.Lgs. n. 446 del 1997 che recita "Il canone è
determinato sulla base della tariffa di cui al comma 2, con riferimento alla
durata dell'occupazione e può essere maggiorato di eventuali effettivi e
comprovati oneri di manutenzione in concreto derivanti dall'occupazione del
suolo e del sottosuolo, che non siano, a qualsiasi titolo, già posti a
carico delle aziende che eseguono i lavori" il Consiglio di Stato ha
ritenuto che "L'onere della prova ricadente sull'amministrazione [...]
ben può essere assolto con il ricorso a criteri presuntivi, ferma ovviamente
la possibilità, per la parte controinteressata, di dimostrare l'erroneità o
l'implausibilità di quanto sostenuto dalla parte pubblica".
Alla luce del quadro esposto, ferma restando la necessità di verificare la
singola disposizione impositiva, l'amministrazione potrà assolvere al
proprio onere probatorio anche mediante indizi ed in tal senso rimettere al
contribuente la dimostrazione di eventuali esclusioni, esimenti o altri
elementi che, nel caso concreto, dimostrino l'infondatezza della pretesa
tributaria.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
Art. 23 Cost. - Art. 53 Cost. - Art. 97 Cost. -
L. 07.08.1990, n. 241, art. 1 -
L. 27.07.2000, n. 212 -
L. 01.08.2002, n. 166, art. 10
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 11.10.2018, n. 5862
(23.10.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: Imposta
di bollo nello scambio di lettera commerciale.
Domanda
Da qualche mese ho assunto la responsabilità di un piccolo ufficio gare che
svolge per conto dell’ente prevalentemente procedure sulla piattaforma Mepa,
nelle diverse forme dell’ODA, Trattativa Diretta e RDO. La prassi in
precedenza era di richiedere la marca da bollo solo nel caso di RDO, ma non
per gli acquisti formalizzati medianti Ordine Diretto di Acquisto piuttosto
che Trattativa Diretta.
E’ corretto continuare con questa modalità in ordine all’assolvimento
dell’Imposta di bollo?
Risposta
La prassi dell’ufficio gare poteva ritenersi corretta, almeno limitatamente
alle trattative dirette o Richieste di offerta infra 40.000 euro sino
al 10.09.2019, qualora la stazione appaltante si fosse rifatta alle regole
di sistema di e-procurement della pubblica amministrazione, ed in
particolare all’art. 53 rubricato “La conclusione del contratto” che
consentiva, e consente, ad ogni Soggetto Aggiudicatore, in alternativa al
documento informatico di stipula generato dal sistema, di adottare ulteriori
forme negoziali tra quelle previste e disciplinate dall’art. 32, comma 14,
del Codice dei Contratti, ed in particolare lo scambio di lettera
commerciale. Tipologia contrattuale che ai sensi degli artt. 24 e 25 della
tariffa parte II del D.P.R. 642/1972, secondo l’opinione comune di questi
ultimi anni non richiedeva l’imposta di bollo.
Su quest’ultimo punto tuttavia l’Agenzia delle Entrate, in risposta ad un
quesito sull’imposta di bollo sui contratti stipulati attraverso la
piattaforma “Consip-Mepa acquistiinretepa”, con il parere n. 370 si è
espressa in modo differente con riferimento ai rapporti negoziali instaurati
sotto forma di corrispondenza.
L’Ente dapprima richiama l’art. 2, parte prima, allegata al DPR n. 642 del
1972 che prevede l’applicazione dell’imposta di bollo fin dall’origine per “le
scritture private contenenti convenzioni o dichiarazioni anche unilaterali
con le quali si creano, modificano, si estinguono, si accertano o si
documentano rapporti giuridici di ogni specie”, nonché l’art. 24 della
stessa tariffa che dispone l’applicazione dell’imposta di bollo in caso
d’uso per gli “Atti e documenti di cui all’art. 2 sotto forma di
corrispondenza”, per poi soffermarsi sulla nota a margine di quest’ultimo
articolo che stabilisce che “l’imposta è dovuta sin dall’origine se per
gli atti e documenti è richiesta dal codice civile a pena di nullità la
forma scritta”.
Giunge quindi alla conclusione che “detta norma va intesa nel senso che
non è sufficiente che un atto o un documento sia redatto sotto forma di
corrispondenza, per essere sottoposto al pagamento dell’imposta di bollo
solo in caso d’uso ai sensi dell’art. 24 della tariffa, poiché, qualora ci
si trovi in presenza di atti, quali quelli individuati dalla nota a margine
dell’articolo in commento, l’imposta in argomento è dovuta sin dall’origine”.
Ovviamente nessun dubbio sul fatto che i contratti d’appalto o di
concessione sottoscritti dai una pubblica amministrazione richiedono la
forma scritta (ad substantiam).
Con riferimento al quesito in premessa rileva inoltra quanto riportato già
nel 2013 con la risoluzione 96/E del 16 dicembre, richiamata nel sopra
citato parere, che fornisce chiarimenti sull’imposta di bollo nel Mercato
elettronico, definendo il "documento di stipula, benché firmato
digitalmente solo dall’amministrazione, quale elemento sufficiente ad
instaurare un rapporto contrattuale. Il contratto tra la pubblica
amministrazione ed un fornitore abilitato è dunque stipulato per scrittura
privata e lo scambio di documenti digitali tra i due soggetti concretizza
una particolare procedura prevista per la stipula di detta scrittura privata”.
Pertanto tutti i contratti informatici derivanti dai diversi strumenti del
Mepa, quali ODA, Trattative Dirette e Richieste di Offerta sono soggette
all’imposta di bollo nella misura di € 16,00 per ogni foglio (ovvero 4
facciate)
(23.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - ATTI AMMINISTRATIVI: La
nomina della figura del responsabile per la transizione al digitale.
Domanda
Nel nostro comune deve ancora essere nominato il Responsabile per la
Transizione al Digitale. Chi deve emanare l’atto di nomina e quali altri
adempimenti è necessario predisporre?
Risposta
L’articolo 17, comma 1, del Codice dell’Amministrazione Digitale (decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82, in seguito CAD) prevede che ogni pubblica
amministrazione –e tutti i soggetti previsti dallo stesso Codice– siano
tenuti ad affidare ad un unico ufficio dirigenziale le funzioni di
indirizzo, coordinamento e gestione della trasformazione digitale, così come
configurata dalla normativa, attraverso la nomina di un Responsabile per la
Transizione al Digitale (da ora RTD).
L’obbligo di nominare questa figura risale al 14.09.2016, da quando cioè il
decreto legislativo n. 179/2016, ha novellato la versione del CAD in tal
senso.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha poi recentemente sollecitato in
tal senso le amministrazioni con la Circolare n. 3 del 01.10.2019, recante
“Responsabile per la transizione digitale – art. 17 decreto legislativo
07.03.2005, n. 82 “Codice dell’amministrazione digitale”.
Oltre a stabilire che il RTD debba essere dotato di “adeguate competenze
tecnologiche, di informatica giuridica e manageriali”, la versione
novellata dell’art 17, stabilisce che nello svolgimento dei compiti relativi
alla transizione, questo risponde direttamente all’organo di vertice
politico, o in assenza di quest’ultimo, al vertice amministrativo dell’ente.
Ciò implica che, nel caso di un comune, il RTD sia nominato dalla Giunta
nell’ambito del proprio potere di organizzazione (ex art. 48, comma 3, del
d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e sia sovraordinato, nelle sue attività, alle
altre figure apicali, compreso il Segretario Generale. Il RTD non potrà mai
essere esterno all’amministrazione (incarico di consulenza).
L’importanza strategica di questa figura era già stata ribadita dal Piano
Triennale per l’informatica nella Pubblica amministrazione – il documento di
indirizzo strategico ed economico di riferimento per le amministrazioni per
lo sviluppo dei propri sistemi informativi – che aveva identificato il RTD
come “il principale interlocutore di AgID (Agenzia per l’Italia Digitale)
per il monitoraggio e il coordinamento delle attività di trasformazione
digitale”.
Per quanto riguarda gli altri adempimenti necessari collegati alla nomina,
lo stesso Piano Triennale ha disposto che le amministrazioni devono
registrare i dati del RTD nell’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (IPA –
www.indicepa.gov.it).
A questo scopo, dal 01.12.2017 è stato predisposto in IPA –nell’ambito
dell’anagrafica di ogni ente– il campo dedicato all’Ufficio per la
Transizione Digitale, configurando così la prima fonte attraverso cui
rilevare lo stato di attuazione dell’art 17 del CAD.
La mancata pubblicazione su IPA non significa automaticamente che il
Responsabile non sia stato nominato. Tuttavia, alla luce del combinato
disposto di CAD e Piano Triennale, la pubblicazione dei riferimenti del RTD
su IPA è da intendersi come parte integrante dell’obbligo.
A completamento informativo del presente quesito, si allega testo della
proposta di deliberazione di Giunta, relativa all’individuazione e nomina
del RTD.
---------------
Modello deliberazione giunta nomina figura responsabile transizione digitale
(22.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI: Il
revisore dei conti non può essere revocato per aver dato parere contrario su
una proposta di deliberazione.
Domanda
Sono al mio primo incarico di revisore unico presso un comune di 3500
abitanti circa.
L’eventuale espressione di un parere contrario ai sensi dell’art. 239 del
TUEL su una proposta di deliberazione consiliare può comportare la mia
revoca da parte dell’Amministrazione dell’ente?
Risposta
Sul tema posto dal lettore è intervenuto nei mesi scorsi il Tar di Brescia
che ha emesso una sentenza molto interessante.
Vediamo il caso: il revisore unico dei conti di un comune aveva formulato un
parere contrario sulla proposta di deliberazione consiliare di approvazione
del bilancio di previsione. A fronte di ciò il sindaco dell’ente chiedeva al
revisore di collaborare con gli uffici comunali ai sensi dell’art. 239,
comma 1, del TUEL per includere nella proposta di deliberazione tutte le
modifiche necessarie, in modo da pervenire ad un parere favorevole, o quanto
meno condizionato, da parte del revisore dei conti.
Questi confermava invece il proprio parere contrario. Il consiglio comunale
procedeva all’approvazione del bilancio di previsione pur in presenza di
detto parere sfavorevole. A fronte di ciò poi, il revisore veniva revocato
dal proprio incarico con successiva deliberazione consiliare.
Ciò in quanto, per effetto del parere contrario reso, era venuta meno –così
motiva la delibera– il necessario rapporto di fiducia con l’Amministrazione
dell’ente. Il revisore impugnava la delibera innanzi al Tar competente per
territorio con due ordini di motivazioni: a) l’atto consiliare violava
l’art. 235, comma 2, del TUEL, il quale non prevede la perdita della fiducia
tra le cause di revoca dell’incarico, ma soltanto l’inadempimento ai doveri
d’ufficio; b) il difetto di motivazione, in quanto l’atto dava una visione
solo parziale dell’impegno del ricorrente nell’assistenza resa agli uffici
comunali. Chiedeva poi l’annullamento della deliberazione, nonché il
risarcimento del danno materiale e di immagine subiti.
L’articolo del TUEL richiamato prevede –lo ricordiamo– che il revisore possa
essere revocato solo per inadempienza e, in particolare, per la mancata
presentazione della relazione alla proposta di deliberazione consiliare del
rendiconto entro il termine previsto dall’articolo 239, comma 1, lettera d),
del medesimo TUEL.
Nel caso in esame il parere in oggetto era stato puntualmente reso, sebbene
esso fosse contrario e, come tale, non in linea con le aspettative
dell’ente. Nell’atteggiamento del ricorrente non è quindi ravvisabile alcun
inadempimento ai propri doveri. Mancava infatti il presupposto che potesse
giustificare la revoca dell’incarico per la cessazione del rapporto di
fiducia, ovvero l’omessa presentazione del parere.
In ambito amministrativo, prosegue il Tar, non rileva la fiducia soggettiva
tra le persone, che deve invece essere intesa in senso oggettivo, come
coerenza tra la funzione rivestita e le azioni poste in essere sulla base di
tale funzione. Al contrario il riferimento all’inadempienza dei propri
compiti contenuti nell’art. 235, comma 2, del TUEL va inteso nel senso che
la fiducia viene meno solo se una parte (il revisore dei conti) non adempie
agli obblighi che la legge prevede per il proprio ufficio. E’ evidentemente
impossibile, afferma il TAR, continuare una collaborazione se una delle
parti non interpreta lealmente il proprio ruolo.
Ricordiamo che i pareri dell’organo di revisione presentano il carattere
dell’obbligatorietà nei casi elencati dall’art. 239 del TUEL. Pur
trattandosi di pareri obbligatori, essi non sono vincolanti: l’ente può
sempre deliberare anche in presenza di un parere contrario, a condizione che
fornisca nell’atto deliberativo adeguata motivazione alla propria scelta
decisionale.
Il giudice amministrativo, pertanto, accoglieva il ricorso, annullava la
revoca dell’incarico e accertava la correttezza dell’operato del revisore.
Tuttavia, essendosi ormai consumata l’originaria durata triennale
dell’incarico, l’annullamento non ha avuto conseguenze sull’incarico
conferito al nuovo revisore, che rimaneva così in carica per effetto della
nomina intervenuta subito dopo la revoca del ricorrente
(21.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Spettacolo
all’interno di luoghi sacri.
Domanda
Una associazione vuole organizzare uno spettacolo di danza all’interno di
una chiesa. Chiediamo se tale attività necessiti di una licenza ex art. 68
TULPS (ora SCIA).
Risposta
Lo svolgimento di spettacoli, trattenimenti o intrattenimenti, in luoghi “chiusi”,
ovvero all’interno di locali deve essere oggetto di verifiche dell’idoneità
degli stessi in ordine alla sicurezza dei luoghi e delle diverse
attrezzature utilizzate.
Scopo dell’art. 80 del TULPS, Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza
(R.D. 18.06.1931, n. 773), è quello di garantire la sicurezza strutturale
dei locali; l’autorità pubblica concede la licenza per uno spettacolo previa
verifica della “solidità e sicurezza dell’edificio e l’esistenza di
uscite pienamente adatte a sgombrarlo prontamente in caso di incendio”.
Questo è il principio su cui poggia ogni successiva valutazione: i luoghi
devono essere strutturalmente sicuri per contenere gli spettatori.
Il DPR 311/2001 stabilisce che per i locali fino a 200 posti, le verifiche e
gli accertamenti dell’autorità di p.s., ovvero della C.C.V.L.P.S.
(Commissione Comunale Vigilanza Locali Pubblico Spettacolo) di cui l’art.
141 del Reg. TULPS, sono sostituiti da una relazione tecnica di un
professionista iscritto all’albo/ordine degli ingegneri, o dei geometri o
architetti o periti industriali, che attesta la rispondenza del locale o
dell’impianto alle regole tecniche di cui allo stesso art. 141 citato.
I dubbi che possono nascere sono relativi al fatto che lo spettacolo non ha
natura imprenditoriale e che pertanto non è richiesta la licenza ex art. 68
TULPS (ovvero il rilascio di SCIA).
Si ritiene che, a prescindere da tale passaggio formale, la sicurezza delle
persone che assistono allo spettacolo deve comunque essere garantita, anche
all’interno di un luogo di culto.
Pertanto il consiglio che forniamo agli operatori è quello di acquisire
quantomeno la relazione tecnica del professionista incaricato, comprendente
la dichiarazione di contenere il numero degli spettatori entro le 200
presenze.
Ulteriore consiglio: se il luogo di culto interessato ha una capienza che
supera di gran lunga i 200 posti a sedere, sarebbe certamente più sicuro non
accontentarsi della dichiarazione, optando per le verifiche e gli
accertamenti della C.C.V.L.P.S.
Altra questione è la safety, ossia la sicurezza dell’evento intesa
quale gestione del flusso e capienza massima, piano di emergenza ed
evacuazione, impiego di operatori addetti alla sicurezza (cd. steward),
assistenza sanitaria: l’organizzatore in tal senso dovrà presentare un
adeguato e proporzionato piano, che necessariamente non può essere disgiunto
da eventuali prescrizioni di security assicurate dalle forze di polizia
(18.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Utilizzo
graduatorie.
Domanda
La Corte dei Conti Sardegna e, recentemente, quella delle Marche sono
intervenute in materia di graduatorie. Potete fare la sintesi di quanto
affermato?
Risposta
Il
parere 06.09.2019 n. 41 della Sezione
regionale delle Marche della Corte dei Conti è intervenuto in maniera
precisa e attenta alla questione dell’utilizzo delle graduatorie dopo le
novità contenute nei commi 360 e seguenti della legge 145/2018. Queste, sono
state in sintesi le conclusioni dei magistrati contabili, che peraltro si
condividono:
• le graduatorie di concorsi banditi dopo il 01.01.2019 si possono
utilizzare solo per i posti messi a concorso; queste graduatorie non possono
essere utilizzate da altri enti;
• le graduatorie dal 2010 al 2018 (comprese quelle di concorsi
banditi entro il 31.12.2018) si possono ancora utilizzare per lo scorrimento
degli idonei e possono ancora essere utilizzate da altri enti;
• rimane valido l’art. 91, comma 4, del d.lgs. 267/2000 che prevede
l’impossibilità di scorrere una graduatoria per posti creati o trasformati
dopo la stessa;
• tutte le graduatorie (sia del 2019 che quelle degli anni
precedenti) si possono ancora utilizzare per assumere a tempo determinato,
in quanto l’art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001 è ancora vigente, non è
stato abrogato né modificato
(17.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Servizi pubblici e al cittadino.
La scrivente società privata svolge attività in
concessione di un servizio pubblico. In quanto tale è soggetta all'accesso
civico anche generalizzato e all'accesso agli atti e deve verificare un
interesse particolare nel richiedente o ne è esclusa?
Relativamente al quesito circa l'applicazione della disciplina sull'accesso
civico ordinario e generalizzato (art. 5, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33) e
relativi obblighi di pubblicazione la risposta dipende dalla presenza o meno
delle caratteristiche descritte dall'art. 2-bis, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 in
base al quale la disciplina del decreto, compreso l'accesso, si applica non
solo alle pubbliche amministrazioni in senso stretto, ma anche:
a) agli enti pubblici economici e agli ordini professionali;
b) alle società in controllo pubblico come definite dall'art. 2,
comma 1, lett. m), D.Lgs. 19.08.2016, n. 175. Sono escluse le società
quotate come definite dall'art. 2, comma 1, lett. p), dello stesso decreto
legislativo, nonché le società da esse partecipate, salvo che queste ultime
siano, non per il tramite di società quotate, controllate o partecipate da
amministrazioni pubbliche;
c) alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto
privato comunque denominati, anche privi di personalità giuridica, con
bilancio superiore a cinquecentomila euro, la cui attività sia finanziata in
modo maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi
nell'ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e in cui la totalità dei
titolari o dei componenti dell'organo d'amministrazione o di indirizzo sia
designata da pubbliche amministrazioni.
In tale circostanza si ricorda che (art. 5, comma 3, D.Lgs. 14.03.2013, n.
33) "L'esercizio del diritto [...] non è sottoposto ad alcuna limitazione
quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente. L'istanza di accesso
civico identifica i dati, le informazioni o i documenti richiesti e non
richiede motivazione. L'istanza può essere trasmessa per via telematica".
Se non si ricade in una di tali fattispecie non si è soggetti a tale
disciplina mentre si rimane soggetti, in quanto "gestori di pubblici
servizi" alla disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi (L.
07.08.1990, n. 241).
In questo caso tuttavia l'istanza di accesso deve provenire da soggetto
qualificato che possa dimostrare un interesse diretto, concreto ed attuale
al documento e che motivi la sua richiesta.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L.
07.08.1990, n. 241, artt. 22 e ss. -
D.P.R. 12.04.2006, n. 184 -
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 5
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 02.10.2019, n. 6603 -
Cons. Stato Sez. V, 22.08.2019, n. 5781 (16.10.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: Accesso
civico generalizzato e atti dell’appalto.
Domanda
Questa amministrazione, in relazione a diversi appalti e contratti già
conclusi, ha ricevuto numerose richieste di accesso civico generalizzato da
parte di operatori economici che non sono risultati aggiudicatari degli
stessi.
Alcune tendenti ad ottenere atti relativi alla fase dell’esecuzione del
contratto.
In certi casi non viene esplicitata alcuna motivazione, in altri la
motivazione è quella di “effettuare un controllo sulla corretta
esecuzione degli appalti”.
È possibile avere un chiarimento su come i RUP si debbano comportare ovvero
se riscontrare positivamente o meno queste richieste?
Risposta
La questione dei rapporti tra accesso civico generalizzato (ovvero della
possibilità di ottenere dati/atti deternuti dalla pubblica amministrazione
senza alcuna motivazione specifica, considerato che lo scopo del FOIA è
quello di alimentare un controllo sociale sull’attività della pubblica
amministrazione e sulle modalità di spendita delle risorse pubbliche) è
stata oggetto, effettivamente, di diverse interpretazioni. Ed ora,
oggettivamente, risulta definitivamente risolto.
In particolare, in breve tempo, lo stesso Consiglio di Stato, con due
diverse sentenze (sez. III, n. 3780/2019 e sez. V, n. 5503/2019) si è
espresso in modo differente.
Con la prima delle sentenze citata, il giudice di Palazzo Spada ha ritenuto
che la materia degli appalti deve ritenersi soggetta all’accesso civico
generalizzato e l’incertezza interpretativa sarebbe determinata da una non
chiara tecnica legislativa.
Di diverso approdo la più recente delle due sentenze che disconosce
l’applicabilità dell’accesso civico generalizzato ai “casi” per i
quali esiste già una disciplina specifica. È questo il caso dell’accesso
agli atti dell’appalto che trovano una compiuta disciplina (e connessi
limiti) nell’articolo 53 del codice dei contratti che, come noto, rinvia poi
al quadro generale come delineato dall’articolo 22 della legge 241/1990.
La soluzione, e pertanto la risposta, che deve essere preferita da parte del
RUP è proprio quella contenuta nell’ultima delle sentenze citate da cui
emerge che gli atti di gara (compresa gli atti relativi alla fase esecutiva
e quindi della gestione del contratto) non sono soggetti all’accesso civico
generalizzato.
In sostanza, l’accesso agli atti in parola (ed in particolare quelli
afferenti la fase pubblicistica, ad esempio delle offerte
dell’aggiudicatario) soggiace ai limiti di cui all’articolo 53 del codice
che esige, come anche l’accesso documentale generale, una precisa posizione
giuridica da tutelare.
Secondo il giudice una soluzione diversa deve passare per via legislativa.
Pertanto, in relazione al quesito posto (e nei termini in cui è stato
espresso) il riscontro alle istanze presentate, se fondate sull’articolo 5
della decreto legislativo 33/2013 come modificato dal decreto legislativo
97/2016, deve essere di segno negativo
(16.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI: Pubblicazione
dati sul bilancio comunale.
Domanda
Da pochi mesi sono stato nominato responsabile del settore contabile del mio
comune. Vorrei conoscere gli obblighi di pubblicità e trasparenza in materia
di bilanci e relative scadenze.
Risposta
Il riferimento normativo, per poter rispondere al quesito, va ricercato
nell’articolo 29, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, meglio noto
come “decreto trasparenza”. L’articolo in questione è rubricato:
Obblighi di pubblicazione del bilancio, preventivo e consuntivo, e del Piano
degli indicatori e risultati attesi di bilancio, nonché dei dati concernenti
il monitoraggio degli obiettivi. L’articolo 29, dopo le modifiche introdotte
dal d.lgs. 97/2016, si compone di tre commi e prevede che le pubbliche
amministrazioni (tra cui anche i comuni) pubblichino il bilancio di
previsione e consuntivo, completo di allegati, entro trenta giorni dalla sua
adozione.
Il primo comma, del citato articolo 29, al fine di assicurare la piena
accessibilità e comprensibilità anche da parte dei meno esperti alla lettura
delle informazioni di bilancio, richiede alle stesse amministrazioni di
pubblicare, in aggiunta, i dati relativi al bilancio di previsione e a
quello consuntivo in forma sintetica, aggregata e semplificata, anche con il
ricorso a rappresentazioni grafiche.
Al medesimo scopo è orientata la disposizione contenuta al comma 1-bis, che
richiede alle amministrazioni, di pubblicare e rendere accessibili i dati
relativi alle entrate e alla spesa dei bilanci preventivi e consuntivi in
formato tabellare aperto, in modo da consentirne l’esportazione, il
trattamento e il riutilizzo.
Sul punto, oltre a richiamare l’attenzione sul corretto adempimento
dell’obbligo, si fa presente che ai fini della predisposizione dei relativi
schemi occorre riferirsi al d.p.c.m. 22.09.2014 «Definizione degli schemi
e delle modalità per la pubblicazione su internet dei dati relativi alle
entrate e alla spesa dei bilanci preventivi e consuntivi e dell’indicatore
annuale di tempestività dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni»,
aggiornato con il decreto del Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze,
del 29.04.2016 «Modifica del decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri del 22.09.2014, in materia di definizione degli schemi e delle
modalità per la pubblicazione su Internet dei dati relativi alle entrate e
alla spesa dei bilanci preventivi e consuntivi».
Strettamente connesso, e in qualche modo complementare, alla pubblicazione
integrale e semplificata dei documenti di bilancio, nonché dei dati relativi
alle entrate e alla spesa, risulta essere l’obbligo di pubblicazione del
piano di indicatori di cui al comma 2, con cui si fornisce ai cittadini la
possibilità di esercitare anche un controllo sugli obiettivi della pubblica
amministrazione.
Occorre, inoltre, evidenziare che il d.lgs. 126/2014, fra le diverse
modifiche apportate al d.lgs. 118/2011 («Disposizioni in materia di
armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle
Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e
2 della legge 05.05.2009, n. 42»), ha introdotto l’art. 18-bis («Indicatori
di bilancio») che, di fatto, estende anche agli enti locali l’obbligo di
pubblicazione del Piano degli indicatori.
Si tratta, in sostanza, di un sistema di indicatori misurabili e riferiti ai
programmi, quale parte integrante dei documenti di programmazione e di
bilancio di ciascuna amministrazione ed è diretto a consentire la
comparazione dei bilanci.
Richiamate, in estrema sintesi, la valenza informativa dei dati di bilancio
e di quelli contenuti nel Piano degli indicatori, emerge, pertanto,
l’importanza del corretto assolvimento ai predetti obblighi di
pubblicazione, in quanto diretti a fornire ai cittadini una lettura facile
ed immediata riguardo all’azione degli amministratori in termini di
obiettivi, risultati e risorse impiegate.
Riguardo alle tempistiche sopra ricordate –30 giorni dall’approvazione del
bilancio o del conto consuntivo– a completamento informativo, si fa presente
che gli obblighi dell’articolo 29, non risultano sanzionati, dall’art. 47
del decreto trasparenza (sanzioni pecuniarie da 500 a 10.000 euro) per cui,
in caso di inadempienza, i cittadini potranno richiedere la pubblicazione
dei dati mancanti o incompleti, al responsabile della trasparenza (di norma,
il segretario comunale), attraverso l’istituto dell’accesso civico semplice,
come disciplinato dall’art. 5, comma 1, del d.lgs. 33/2013.
Per acquisire maggiore contezza sui contenuti dell’obbligo, infine, si
consiglia di consultare l’allegato 1, della deliberazione ANAC n. 1310 del
28.12.2016
(15.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: A
seguito dell’approvazione di un regolamento post aggiudicazione di una gara,
durante le verifiche al fine di erogare i pagamenti è sorta una questione:
in materia di appalti di servizi nei quali il Rup e il Direttore di
esecuzione coincidono, il 40% destinato al Direttore dell’esecuzione e ai
suoi collaboratori si deve erogare? Oppure è un’economia e si liquida solo
il 60% al Rup e suoi collaboratori?
Nella materia dei compensi, gli incentivi rappresentano un argomento spinoso
perché la disciplina che si è succeduta nel tempo ha comportato
l’applicazione di una diversa normativa a seconda del momento in cui è stata
pubblicata la gara.
Occorre infatti distinguere:
• gare bandite prima del 18.04.2016: si applica il Dlgs. n.
163/2006;
• gare bandite tra il 20.04.2016 e il 19.05.2017: si
applica il Dlgs. n. 50/2016 “versione 1.0”;
• gare bandite tra il 20.05.2017 e il 18.04.2019: si
applica il Dlgs. n. 50/2016 “versione 2.0” (a seguito del Decreto
“Correttivo” Dlgs. n. 56/2017);
• gare bandite tra il 19.04.2019 e il 17.06.2019: si
applica il Dlgs. n. 50/2016 “versione 3.0” (a seguito del Decreto “Sblocca
cantieri” Dl. n. 32/2019);
• gare bandite dopo il 18.06.2019: si applica il Dlgs. n.
50/2016 “versione 4.0” (a seguito della conversione del Decreto “Sblocca
cantieri” effettuata con Legge n. 55/2019).
Per quanto riguarda gli appalti di servizi, occorre premettere che, ai sensi
dell’art. 112, comma 2, del Dlgs. n. 50/2016 (nella versione introdotta a
seguito del “Correttivo” Dlgs. n. 56/2017) è possibile erogare gli incentivi
solo nel caso in cui sia nominato il Direttore dell’esecuzione del contratto
(Dec).
In proposito, le Linee-guida Anac n. 3, approvate con Delibera n. 1096/2016
e successivamente aggiornate con Delibera n. 1007/2017, hanno precisato che
negli appalti di servizi e forniture il Rup, nei limiti delle proprie
competenze professionali, svolge anche il ruolo di Dec mentre l’obbligo
della nomina del Dec come soggetto diverso dal Rup ricorre nei seguenti
casi:
1. prestazioni di importo superiore ad Euro 500.000;
2. interventi particolarmente complessi sotto il profilo
tecnologico;
3. prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di
competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture
sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione,
vigilanza, sociosanitario, supporto informatico);
4. interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di
processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per
quanto riguarda la loro funzionalità;
5. per ragioni concernenti l’organizzazione interna alla Stazione
appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa
da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento.
La Corte dei conti (Sezione Veneto,
parere 21.05.2019 n. 107) ha affermato che
per quegli appalti di servizi per i quali non sussiste l’obbligo di nomina
del Dec come soggetto diverso dal Rup non sussistono le condizioni per il
riconoscimento degli incentivi per funzioni tecniche. Anche qualora, per
esigenze organizzative, l’Amministrazione decidesse di nominare comunque un
Direttore dell’esecuzione come soggetto diverso dal Rup –in un appalto non
riconducibile ad alcuna delle tipologie sopra indicate– non sarebbe
comunque possibile riconoscere gli incentivi in esame.
Quanto sopra se la gara alla quale si riferiscono le attività incentivabili
è stata bandita tra il 20.05.2017 e il 18.04.2019, quindi dopo le
modifiche apportate al “Codice dei Contratti pubblici” dal “Correttivo” Dlgs.
n. 56/2017.
Se la gara è stata bandita nel periodo precedente, la coincidenza di Dec e
Rup è astrattamente incentivabile.
In ogni caso, occorre fare riferimento al Regolamento interno, che dovrebbe
aver disciplinato le ipotesi di coincidenza di funzioni, prevedendo –ad
esempio– nei casi in cui sullo stesso soggetto vengano a confluire più
funzioni separatamente considerate, la somma delle relative percentuali di
incentivo, magari con un abbattimento percentuale su quella più bassa.
Quindi ricapitolando:
• per gare bandite tra il 20.05.2017 e il 18.04.2019, il Dec può essere nominato solo al ricorrere di precise ipotesi indicate dalle
Linee-guida Anac n. 3. In assenza di tali presupposti, la funzione di Dec
non è incentivabile, anche se nominata dall’Ente per proprie esigenze
organizzative;
• per gare bandite tra il 20.04.2016 e il 19.05.2017, le
funzioni di Dec –se espressamente nominato– possono venir incentivate nei
limiti e con le percentuali previste nel Regolamento interno;
• nelle ipotesi in cui il Rup coincida con il Dec (perché non
ricorrono le condizioni delle Linee-guida n. 3 oppure perché il Dec non è
stato espressamente nominato), non sono previsti gli incentivi. In tal caso
quindi non si tratta di “economia” perché gli incentivi non sono previsti a
monte dell’attività
(11.10.2019 - tratto da e link a www.entilocali-online.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Principio onnicomprensività.
Domanda
Potreste spiegare il principio dell’onnicomprensività della retribuzione
accessoria di un dipendente pubblico?
Risposta
Ogni compenso accessorio che può essere retribuito a un dipendente pubblico
deve necessariamente transitare dal fondo delle risorse decentrate che è
alimentabile solo con le risorse previste dalla contrattazione nazionale.
Quanto sopra è una conseguenza del cosiddetto principio
dell’onnicomprensività della retribuzione del dipendente pubblico statuito
dall’art. 2, comma 3, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165.
Su tale aspetto la giurisprudenza si è soffermata più volte.
Il Consiglio di Stato, V sezione, con la sentenza n. 463/2009, pronunciata
in materia di compensi ai messi notificatori, ha avuto modo di precisare che
tali somme aggiuntive possono essere rese disponibili solamente dopo
l’approvazione del C.C.N.L. 14/09/2000, allorquando tale possibilità è stata
appunto prevista in un contratto nazionale. Diversamente nessun compenso può
essere erogato ai dipendenti pubblici.
L’art. 45 del D.Lgs 30.03.2001, n. 165 prevede che il trattamento economico
fondamentale ed accessorio dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni,
fatto salvo quanto previsto all’articolo 40, commi 3-ter e 3-quater, e
all’articolo 47-bis, comma 1, sia definito dai contratti collettivi.
L’art. 40, comma 3-quinquies del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 afferma altresì
che le regioni, per quanto concerne le proprie amministrazioni, e gli enti
locali possono destinare risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa
nei limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale e nei limiti dei
parametri di virtuosità fissati per la spesa di personale dalle vigenti
disposizioni, in ogni caso nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica
e di analoghi strumenti del contenimento della spesa.
Per quanto concerne specificamente il comparto Funzioni Locali il contratto
collettivo nazionale del 21/05/2018, riprendendo quanto già operato in
passato con l’art. 31, comma 2, del CCNL 22/01/2004, ha introdotto, con
l’art. 67, comma 1, un nuovo consolidamento delle risorse di parte stabile,
definendo come importo unico consolidato, le risorse di parte stabile
destinate nell’anno 2017, come certificate dall’organo di revisione.
Il predetto importo unico consolidato resta confermato, con le stesse
caratteristiche, anche per gli anni successivi.
Nel proseguo del sopra richiamato art. 67 sono elencate, ai commi 2 e 3, le
voci di parte stabile che consentono di incrementare stabilmente l’importo
unico consolidato anno 2017 e le voci di parte variabile che consentono di
alimentare i fondi della contrattazione decentrata integrativa con importi
variabili di anno in anno, comprese quelle “risorse” specificamente
individuate dalla legge (art. 67, comma 3, lett. C).
Il comma 8 introduce una “nuova” possibilità di alimentazione dei
fondi di parte variabile per i fondi delle Regioni a statuto ordinario e per
le città metropolitane, ai sensi dell’art. 23, comma 4, del D.Lgs. n.
75/2017
(10.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
RDO Aperta su Mepa e la trasparenza.
Domanda
La procedura su Mepa nella forma della RDO APERTA, per come costruita in
piattaforma, soddisfa di per sé tutti gli obblighi di trasparenza, oppure è
necessario che al lancio della procedura seguano altre forme di pubblicità?
Risposta
La Richiesta di Offerta (RDO) è quello strumento di negoziazione presente
sul Mepa di Consip attraverso il quale una stazione appaltante seleziona, al
termine di una procedura interamente telematica e secondo modalità ben
definite, il fornitore aggiudicatario di una specifica prestazione. Alle RDO
su Mepa possono partecipare solo gli operatori abilitati al Mercato
Elettronico, ed in particolare a quello specifico bando collegato alla
categoria merceologica di riferimento. Infatti, in base alla tipologia di
attivata effettuata, l’operatore esprimerà in sede di abilitazione, la
propria preferenza alla/e categoria/e o sottocategoria/e merceologica/che di
interesse.
La RDO può essere di due forme, ad “invito”, dove l’Amministrazione
seleziona gli operatori con cui negoziare, oppure “Aperta”, ovvero
quel tipo di procedura a cui possono partecipare tutti i fornitori abilitati
allo specifico bando collegato alla categoria merceologica, nonché coloro
che entro i termini di scadenza previsti per la presentazione dell’offerta
ottengono l’abilitazione. Quest’ultima rappresenta sicuramente quel tipo di
procedura che le linee guida n. 4, definiscono aperta al mercato, dove non
si opera alcuna limitazione in ordine al numero degli operatori da
selezionare, e rispetto alla quale non si applica il c.d. “principio di
rotazione”.
A livello informatico gli operatori prendono conoscenza della procedura, nel
primo caso, entrando in piattaforma lato fornitore, nello spazio dedicato
alle gare ad invito diretto (diversamente da quanto previsto per la
Trattativa Diretta e per l’Ordine Diretto di Acquisto, per le RDO non è
attivo alcun sistema di comunicazione a mezzo mail). Nel caso delle RDO
aperte, invece, la ricerca è possibile sia nel cruscotto del fornitore, che
nella funzione di ricerca bandi (in VENDI – RDO Aperte) dove recentemente è
stata introdotta la possibilità di individuare una negoziazione digitando il
numero generato automaticamente dal sistema al momento della creazione della
gara.
Con riferimento al quesito si precisa che la pubblicazione sul portale di
Consip non esaurisce gli adempimenti previsti dalla vigente normativa. Al
fine di assicurare la pubblicità e la trasparenza delle procedure di gara
come previsto dalle disposizioni codicistiche e dai provvedimenti attuativi,
nel caso di RDO Aperta il “Riepilogo RDO” generato direttamente dal Portale
Informatico deve essere pubblicato:
– sul Profilo Committente dell’Amministrazione aggiudicatrice,
sezione Amministrazione Trasparente, sotto-sezione Bandi e contratti di
gara;
– sul sito del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti anche
tramite i sistemi informatizzati regionali e le piattaforme regionali
e-procurement.
L’art. 29, co. 1 e 2, del codice dei contratti prevede infatti che “tutti
gli atti relativi alle procedure per l’affidamento di appalti pubblici di
servizi, forniture e lavori, di concorsi pubblici di progettazione, di
concorsi di idee e di concessioni, devono essere pubblicati e aggiornati sul
profilo del committente e pubblicati, altresì, sul sito del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti e sulla piattaforma digitale istituita presso
l’ANAC, anche tramite i sistemi informatizzati regionali e le piattaforme
regionali di e-procurement interconnesse tramite cooperazione applicativa"
(09.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Questa Prefettura chiede se ai fini dell'informativa antimafia è
possibile valutare anche ulteriori elementi rispetto a quelli espressamente
contemplati dall'art. 84 del Codice delle leggi antimafia.
Il Codice delle leggi
antimafia (D.Lgs. 06.09.2011, n. 159) all'art. 84 definisce "informazione
antimafia" "l'attestazione della sussistenza o meno di una delle
cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67,
nonché, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 91, comma 6,
nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di
infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi
delle società o imprese interessate indicati nel comma 4. Le situazioni
relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all'adozione
dell'informazione antimafia interdittiva di cui al comma 3 sono desunte: ..."
e sono elencati una serie di atti e provvedimenti da cui desumere tali
circostanze.
Nonostante l'elencazione espressa, per la giurisprudenza, l'adozione di
un'informativa antimafia non richiede una prova che vada al di là di ogni
ragionevole dubbio ma la sussistenza di elementi effettivamente riscontrati,
valutati nel loro complesso e non atomisticamente, che forniscano un quadro
d'insieme in base al quale non sia illogico formulare un giudizio
prognostico negativo.
Ne deriva che l'autorità prefettizia, al fine di valutare il pericolo di
infiltrazione della criminalità organizzata, può prendere in considerazione
anche le pronunce dichiarative della prescrizione aventi ad oggetto reati
rientranti nella normativa di cui all'art. 84, comma 4, D.Lgs. 06.09.2011,
n. 159. Infatti la finalità dell'interdittiva antimafia è quella di
salvaguardare l'ordine pubblico economico, la libera concorrenza tra le
imprese ed il buon andamento della pubblica amministrazione e tale finalità
prevale anche in ottica interpretativa rispetto alle specifiche casistiche
indicate dal legislatore.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 06.09.2011, n. 159, art. 84
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. III, 25.07.2019, n. 5261 -
Cons. Stato Sez. III, 27.06.2019, n. 4431 -
Cons. Stato Sez. III, 02.05.2019, n. 2855 -
TAR Puglia Bari Sez. III, 17.07.2019, n. 1034 -
TAR Veneto Venezia Sez. I, 01.07.2019, n. 795 -
TAR Sicilia Catania Sez. I, 25.06.2019, n. 1561 -
Cons. giust. amm. Sicilia, 15.05.2019, n. 438 (09.10.2019 -
tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Pubblicazione
dati sugli incarichi professionali.
Domanda
Abbiamo notato che nel nostro ente
non c’è una applicazione uniforme, tra i vari settori, in merito agli
obblighi di pubblicità e trasparenza per gli incarichi professionali. I dati
e documenti da pubblicare vanno trattati in base all’art. 15 o all’art. 37
del decreto trasparenza?
Risposta
Il quesito pone in evidenza una delle vicende più controverse di tutta la
normativa in materia di trasparenza che le pubbliche amministrazioni sono
chiamate ad affrontare. La consultazione costante dei siti web dei comuni e
delle province, conferma che l’argomento merita un giusto approfondimento.
Per gli incarichi di “collaborazione e consulenza”, ai fini della
trasparenza, è necessario prendere a riferimento l’art. 15, del d.lgs.
14.03.2013, n. 33, che disciplina la pubblicazione dei dati relativi agli
incarichi conferiti e affidati a soggetti esterni a qualsiasi titolo, sia
oneroso che gratuito.
La base giuridica degli incarichi –nella normativa applicabile agli enti
locali– è rinvenibile nell’art. 7, comma 6 e seguenti del d.lgs. 165/2001 e
nell’art. 110, comma 6, del TUEL 267/2000.
Sempre a livello normativo, per l’affidamento di un incarico di
collaborazione è necessario riferirsi all’articolo 3, comma 55, della legge
24.12.2007, n. 244, come sostituito dall’art. 46, comma 2, del d.l. n.
112/2008, che testualmente recita: “Gli enti locali possono stipulare
contratti di collaborazione autonoma, indipendentemente dall’oggetto della
prestazione, solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite
dalla legge o previste nel programma approvato dal Consiglio ai sensi
dell’articolo 42, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267”.
Altre disposizioni in materia sono rinvenibili nell’art. 3, commi 54, 56 e
57, della legge 24.12.2007, n. 244.
Per ogni incarico di collaborazione e consulenza i dati da pubblicare (art.
15, comma 1, d.lgs. 33/2013), sono i seguenti:
a) gli estremi dell’atto di conferimento dell’incarico;
b) il curriculum vitae;
c) i dati relativi allo svolgimento di incarichi o la titolarità di
cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica
amministrazione o lo svolgimento di attività professionali;
d) i compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di
consulenza o di collaborazione, con specifica evidenza delle eventuali
componenti variabili o legate alla valutazione del risultato
A tali obblighi, si aggiunge quanto previsto dall’art. 53, comma 14, del
d.lgs. 165/2001, il quale prevede l’obbligo di pubblicare l’attestazione
dell’avvenuta verifica dell’insussistenza di situazioni di conflitto di
interessi, anche potenziale.
Si ricorda che i compensi sono da pubblicare al lordo di oneri sociali e
fiscali a carico del collaboratore e consulente.
Si ritiene utile sottolineare, inoltre, che all’interno della sotto-sezione
“Consulenti e collaboratori”, devono essere pubblicati i dati
relativi agli incarichi e alle consulenze che non siano riconducibili al “Contratto
di appalto di servizi” assoggettato alla disciplina dettata nel codice
dei contratti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50).
Diversamente, qualora i dati si riferiscano ad incarichi riconducibili alla
nozione di appalto di servizio (affidamento con Codice Identificativo di
Gara – CIG), si applica l’art. 37, del d.lgs. 33/2013, prevedendo la
pubblicazione dei dati ivi indicati nella sotto-sezione di primo livello “Bandi
di gara e contratti”.
Giova, altresì, sottolineare che gli incarichi conferiti o autorizzati da
un’amministrazione ai propri dipendenti rimangono disciplinati dall’art. 18,
del d.lgs. 33/2013 e devono essere pubblicati nella diversa sotto-sezione
Personale > Incarichi conferiti e autorizzati ai dipendenti.
Tenuto conto della eterogeneità degli incarichi di consulenza e
dell’esistenza di fattispecie di dubbia qualificazione come tali (si pensi,
ad esempio, agli incarichi legali), si rammenta che l’ANAC ha già ricondotto
agli incarichi di collaborazione e consulenza, di cui assicurare la
pubblicazione sui siti, quelli conferiti:
• ai commissari esterni membri di commissioni concorsuali;
• ai componenti del Collegio sindacale;
• ai componenti del Collegio dei revisori dei conti;
• ai collaboratori occasionali.
Per questa tipologia di incarichi, le informazioni richieste vanno
pubblicate entro tre mesi dal conferimento dell’incarico e devono essere
mantenute per i tre anni successivi alla cessazione (art. 15, co. 4, d.lgs.
33/2013).
La mancata pubblicazione degli estremi degli atti di conferimento degli
incarichi e dell’attestazione ex art. 53 d.lgs. 165/2001, comporta
inefficacia dell’atto, non consentendo, quindi, né l’utilizzo della
prestazione eventualmente resa, né la liquidazione del compenso.
Nel caso in cui il pagamento della prestazione sia stato comunque
corrisposto si determina responsabilità in capo a chi l’ha disposto e
l’irrogazione di una sanzione pari alla somma pagata.
Ricapitolando:
• se l’incarico professionale è inteso come affidamento appalto di
servizio, ai sensi del d.lgs. 50/2016, quindi con CIG: i dati vanno
pubblicati su Amministrazione trasparente > Bandi di gara e contratti;
• se l’incarico affidato è un rapporto di collaborazione o
consulenza (art. 7, comma 6 e seguenti, d.lgs. 165/2001) i dati vanno
pubblicati su Amministrazione trasparente > Collaboratori e consulenti.
Avendo consultato direttamente il sito web del comune interpellante, si
consiglia di eliminare dalla sezione Collaboratori e consulenti tutti gli
incarichi affidati con CIG
(08.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI: L’utilizzo
dell’avanzo libero per spese correnti a carattere non permanente: dalla
corte dei conti arriva un utile orientamento per la loro individuazione.
Domanda
L’art. 187 del TUEL prevede la possibilità di finanziare spese correnti a
carattere non permanente con l’avanzo libero. Ma quali sono queste spese?
Risposta
Il quesito proposto dal lettore è di sicura attualità e interesse. Come noto
il comma 2 dell’art. 187 del TUEL fornisce un elenco di spese per il cui
finanziamento è possibile fare ricorso all’avanzo di amministrazione, parte
libera, dell’esercizio precedente. Tali spese, sono elencate dalla lett. a)
alla lett. e) della norma, secondo un tassativo ordine di priorità. Ciò
significa che le spese di ciascuna lettera possono essere finanziate con
avanzo solo se non ricorre la necessità di finanziare, con le medesime
somme, quelle indicate alle lettere precedenti.
Esse sono così elencate:
a) debiti fuori bilancio;
b) provvedimenti necessari per la salvaguardia degli equilibri di
bilancio di cui all’art. 193 ove non possa provvedersi con mezzi ordinari;
c) spese di investimento;
d) spese correnti a carattere non permanente;
e) estinzione anticipata dei prestiti. Per queste ultime, precisa
la norma, qualora l’ente non disponga di una quota sufficiente di avanzo
libero, nel caso abbia somme accantonate per una quota pari al 100 per cento
del fondo crediti di dubbia esigibilità, può ricorrere all’utilizzo di quote
dell’avanzo destinato a investimenti solo a condizione che garantisca,
comunque, un pari livello di investimenti aggiuntivi.
Mentre per le altre lettere l’individuazione delle spese è immediata, non
così può dirsi per quelle di cui alla lett. d). Se leggiamo il d.lgs.
118/2011, vediamo che l’allegato 7), ai fini della codifica delle
transazioni, individua ed elenca al punto 5) le entrate e le spese non
ricorrenti. Sebbene queste ultime non siano sovrapponibili alle spese a
carattere non permanente, l’elencazione fornita è di sicuro aiuto, quanto
meno per le voci a) (consultazioni elettorali o referendarie locali) e c)
(eventi calamitosi).
Di recente tuttavia la Corte dei conti Lazio, con proprio parere n.83/2019/PAR
rilasciato a fronte di specifico quesito, rivoltole da un comune del proprio
territorio, ha fornito utili indicazioni al fine di individuare tali
tipologie di spesa, pur non definendone in maniera netta i confini.
Tutte le spese di cui al comma 2 dell’art. 187 del TUEL, affermano i giudici
contabili, si caratterizzano sempre per la loro estemporaneità e per
l’assenza di una continuità temporale e per il fatto di non essere né fisse
né costanti nel tempo. L’incertezza di tali spese riguarda anche il loro
aspetto quantitativo, ovvero l’impossibilità per l’ente di definirne
anzitempo l’ammontare. Proprio queste caratteristiche sono quelle che
permettono il loro finanziamento con un’entrata (l’avanzo di amministrazione
appunto) che si caratterizza anch’essa per la sua incertezza nell’an
e nel quantum e che, come tale, è verificabile solo ex post,
ad avvenuta approvazione del rendiconto dell’esercizio precedente.
Quest’ultima rappresenta condizione sine qua non per poter procedere alla
copertura della spesa. La ratio della limitazione del suo utilizzo, prosegue
la Corte, discende dal principio per cui la costruzione programmatica del
bilancio previsionale deve comprendere tutta l’attività che il comune è
chiamato a svolgere, individuando le risorse a cui attingere per l’intera
copertura delle spese previste nell’esercizio
(07.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Natura
giuridica cartellino.
Domanda
I cartellini marcatempo o i fogli presenza hanno natura di atto pubblico?
Risposta
Gli orientamenti giurisprudenziali si sono mossi nel tempo sino a
raggiungere direzioni diametralmente opposte, tuttavia, l’orientamento più
recente può dirsi consolidato.
Le meno recenti pronunce configuravano il cartellino marcatempo come un atto
pubblico. Il Consiglio di Stato, sez. II, con sentenza del 06.04.1991, n.
3891 lo aveva precisato definendo atto pubblico “ogni documento
contenente attestazioni suscettibili di produrre effetti giuridici per una
pubblica amministrazione”, ed in ciò identificando anche il cartellino
orario che è destinato a fornire la prova dell’effettuazione della
prestazione di lavoro ai fini del pagamento della retribuzione. Dal
riconoscimento al cartellino della natura di atto pubblico ne conseguiva
che, comportamenti dei dipendenti finalizzati a falsificare le risultanze
dello stesso, fossero inquadrabili come falso ideologico.
Di parere opposto è la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 41426 del
25.09.2018, si pronuncia così “i cartellini marcatempo o i fogli presenza
non hanno natura di atto pubblico (allo stesso modo Sez. U, n. 15983 del
11.04.2006; Cassazione 19299 del 16.04.2012), trattandosi di documenti di
mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a
disciplina privatistica, documenti che, peraltro non contengono
manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla Pubblica
Amministrazione".
La vicenda aveva riguardato alcuni dipendenti i quali timbravano il
cartellino, con modalità tali da attestare falsamente la loro presenza negli
uffici comunali. Ma se è vero che commettevano il reato di truffa aggravata
ai danni dell’ente locale, non è vero che realizzassero un falso in atto
pubblico.
Cartellini e badge rilevano infatti solo nel rapporto con il datore di
lavoro, rapporto che nella Pubblica Amministrazione è di diritto privato.
Sono cioè privi di rilevanza esterna non essendo manifestazione dichiarativa
o di volontà attribuibile alla Pubblica Amministrazione.
L’alterazione delle presenze configura quindi il reato di truffa aggravata
ma non quello di falso in atto pubblico (03.10.2019 - tratto da e
link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Informatizzazione
della P.A..
Anche alla luce della nuova normativa sulla privacy è legittima la
previsione di procedure completamente informatizzate senza l'intervento di
dipendenti?
La questione circa l'utilizzo di sistemi automatizzati coinvolge profili di
carattere amministrativo, rispetto ai quali non si può non sottolineare il
tendenziale favore normativo (a partire dall'art. 97 della Costituzione)
verso una maggiore efficienza dell'azione amministrativa.
"Anche in sede giurisprudenziale ciò è stato più volte sottolineato.
L'automazione del processo decisionale dell'amministrazione mediante
l'utilizzo di una procedura digitale ed attraverso un "algoritmo" -ovvero di
una sequenza ordinata di operazioni di calcolo- che in via informatica sia
in grado di valutare e graduare una moltitudine di domande, soprattutto con
riferimento a procedure seriali o standardizzate, è conforme ai canoni di
efficienza ed economicità dell'azione amministrativa (art. 1, L. 07.08.1990,
n. 241), i quali, secondo il principio costituzionale di buon andamento
dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), impongono all'amministrazione il
conseguimento dei propri fini con il minor dispendio di mezzi e risorse e
attraverso lo snellimento e l'accelerazione dell'iter procedimentale.
Infatti, l'assenza di intervento umano in un'attività di mera
classificazione automatica di istanze numerose, secondo regole
predeterminate (che sono, queste sì, elaborate dall'uomo), e l'affidamento
di tale attività a un efficiente elaboratore elettronico appaiono come
doverose declinazioni dell'art. 97 Cost. coerenti con l'attuale evoluzione
tecnologica".
Fra i settori di maggior sviluppo vi è senz'altro quello degli appalti dove
l'informatizzazione si abbina ad esigenze di anticorruzione e
razionalizzazione. Infatti la gestione telematica della gara offre il
vantaggio di una maggiore sicurezza nella "conservazione"
dell'integrità delle offerte in quanto permette automaticamente l'apertura
delle buste in esito alla conclusione della fase precedente e garantisce l'immodificabilità
delle stesse, nonché la tracciabilità di ogni operazione compiuta; inoltre,
nessuno degli addetti alla gestione della gara potrà accedere ai documenti
dei partecipanti, fino alla data e all'ora di seduta della gara, specificata
in fase di creazione della procedura.
Le stesse caratteristiche della gara telematica escludono in radice ed
oggettivamente la possibilità di modifica delle offerte. Infatti, le fasi di
gara seguono una successione temporale che offre garanzia di corretta
partecipazione, inviolabilità e segretezza delle offerte e i sistemi
provvedono alla verifica della validità dei certificati e della data e ora
di marcatura; l'affidabilità degli algoritmi di firma digitale e marca
temporale garantiscono la sicurezza della fase di invio/ricezione delle
offerte in busta chiusa. Nella gara telematica la conservazione dell'offerta
è affidata allo stesso concorrente, garantendo che questa non venga, nelle
more, modificata proprio attraverso l'imposizione dell'obbligo di firma e
marcatura nel termine fissato per la presentazione delle offerte.
Come evidenziato l'intervento umano non è comunque assente, ma si esplica
nell'ambito della organizzazione del sistema telematico e nella definizione
dell'algoritmo, che non sono esenti dal controllo del giudice a cui è
imposto di valutare in primo luogo la correttezza del processo informatico
in tutte le sue componenti: dalla sua costruzione, all'inserimento dei dati,
alla loro validità, alla loro gestione.
Ciò premesso, qualora l'automatizzazione comporti "una valutazione
sistematica e globale di aspetti personali relativi a persone fisiche,
basata su un trattamento automatizzato, compresa la profilazione, e sulla
quale si fondano decisioni che hanno effetti giuridici o incidono in modo
analogo significativamente su dette persone fisiche" trova applicazione
la particolare disciplina del GDPR (Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE)
che obbliga all'adozione di una specifica "Valutazione d'impatto sulla
protezione dei dati" (artt. 35-36).
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
Art. 97
Cost. -
D.Lgs. 07.03.2005, n. 82 -
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 35 -
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 36
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. VI, 08.04.2019, n. 2270 -
Cons. Stato Sez. V, 21.11.2017, n. 5388 -
Cons. Stato Sez. III, 03.10.2016, n. 4050
(02.10.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI:
Seduta
pubblica virtuale.
Domanda
Alcune amministrazioni anche nel caso di gare telematiche prevedono la
seduta pubblica fisica, è sbagliato escludere questa possibilità quando si
utilizzano strumenti telematici di acquisto? Quando è comunque obbligatorio
prevedere la seduta pubblica fisica?
Risposta
Uno dei pregi delle gare telematiche è sicuramente quello della seduta
pubblica virtuale, strumento che consente di svincolare la stazione
appaltante dalla definizione precisa di un orario e di un luogo specifico
con riferimento all’apertura di una procedura di gara, in un’ottica di
revisione delle modalità operative ed organizzative del personale pubblico,
sempre più volta all’incentivazione del telelavoro.
Numerose sono le sentenze che si sono pronunciate sul punto e tali da
attribuire ormai una natura “consolidata”. Solo per ricordarne
alcune: TAR Campania, Napoli, sez. I, sent. n. 725 del 02.02.2018 “Il
principio di pubblicità delle sedute deve essere rapportato non ai canoni
storici che hanno guidato l’applicazione dello stesso, quanto piuttosto alle
peculiarità e specificità che l’evoluzione tecnologica ha consentito di
mettere a disposizione delle procedure di gara telematiche, in ragione del
fatto che la piattaforma elettronica che ha supportato le varie fasi di gara
assicura l’intangibilità del contenuto delle offerte (indipendentemente
dalla presenza o meno del pubblico) posto che ogni operazione compiuta
risulta essere ritualmente tracciata dal sistema elettronico senza
possibilità di alterazioni; in altri termini, è garantita non solo la
tracciabilità di tutte le fasi, ma proprio l’inviolabilità delle buste
elettroniche contenenti le offerte e l’incorruttibilità di ciascun documento
presentato”; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, sent. n. 365 del 29.05.2017
“La correttezza e l’intangibilità risulta, in questo caso, garantita dal
sistema, con esclusione di ogni rischio di alterazione nello svolgimento
delle operazioni, anche in assenza dei concorrenti. Il rischio di
alterazione nello svolgimento delle operazioni (in passato teoricamente
possibile, proprio, in considerazione della modalità ordinaria di
svolgimento in cartaceo della gara) viene oggi meno (nella sostanza) grazie
all’assoluta certezza della tracciabilità di ogni fase della gara
telematica, attraverso l’utilizzo di strumenti elettronici totalmente
verificabili e ricostruibili, anche ex post”; nonché da ultimo il TAR
Lombardia, Milano, sez. IV n. 793/2018.
La gara telematica, pertanto, consente non solo la tracciabilità delle fasi,
ma anche l’inviolabilità delle buste elettroniche, che seguono, tra l’altro,
una precisa scansione temporale (buste amministrative, al termine, buste
tecniche e quindi economiche).
Lo stesso sistema MEPA ha sviluppato in modo concreto questo “concetto di
seduta pubblica virtuale” consentendo di fatto ai partecipanti di
vedere, una volta aperta la procedura, gli operatori che hanno presentato
offerta (se ammessi od esclusi), la presenza o meno dei file caricati negli
spazzi appositamente creati delle buste amministrative/tecniche ed
economiche, oltre all’esito della gara.
Alla luce di queste considerazioni ritengo sia un surplus prevedere nelle
gare telematiche la seduta pubblica fisica, che diventa sicuramente
obbligatoria nel caso di presentazione di campioni, quando siano oggetto di
valutazione in merito ad un’offerta tecnica, ovvero nel caso di
presentazione di alcuni documenti cartacei che non possono essere
assolutamente sostituiti da una mera dichiarazione sostitutiva (02.10.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Pubblicazione dati sull’organizzazione dell’ente.
Domanda
Nella sezione Amministrazione trasparente del nostro sito, alla sottosezione
“Organizzazione”, tra le altre, ci sono le sottosezioni di Livello 2,
denominate rispettivamente:
• sanzioni per mancata comunicazione dei dati;
• rendiconti gruppi consiliari regionali/provinciali;
• articolazione degli uffici.
È possibile sapere cosa va pubblicato, di preciso, in queste sottosezioni?
Risposta
Secondo le norme del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd: decreto
trasparenza), come ampiamente modificato dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97, ogni
amministrazione deve prevedere nella home-page del proprio sito
istituzionale, una sezione denominata AMMINISTRAZIONE TRASPARENTE.
Tale sezione, sulla base dell’allegato 1, alla delibera ANAC n. 1310 del
28.12.2016, si suddivide in 26 sottosezioni di Livello 1 e 67 sottosezioni
di Livello 2. Tale ripartizione è obbligatoria e gli enti non possono
adottare una propria “Alberatura”, aggiungendo e sottraendo
sottosezioni a proprio piacimento (FAQ ANAC Trasparenza 1.7).
La seconda sottosezione dell’Albero della Trasparenza è quella legata alla “Organizzazione”
dell’ente e si compone di cinque sottosezioni di Livello 2, denominate
rispettivamente:
• Titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione
o di governo;
• sanzioni per mancata comunicazione dei dati;
• rendiconti gruppi consiliari regionali/provinciali;
• articolazione degli uffici;
• telefono e posta elettronica.
Per le tre sottosezioni citate del quesito, gli obblighi di pubblicazione
riguardano:
ORGANIZZAZIONE > SANZIONI PER MANCATA COMUNICAZIONE DEI DATI:
In questa sottosezione vanno pubblicate le (eventuali) sanzioni irrogate
dall’ANAC per mancata o incompleta comunicazione dei dati da parte dei
titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di
governo. Qualora il comune non abbia ricevuto sanzioni, è consigliabile
inserire la seguente dicitura “Il comune di …………. non ha ricevuto
sanzioni per la mancata comunicazione dei dati”. Il riferimento
normativo per la sottosezione è l’articolo 47, comma 1, del d.lgs. 33/2013.
ORGANIZZAZIONE > RENDICONTI GRUPPI CONSILIARI REGIONALI / PROVINCIALI
Trattandosi di un comune, non ci sono dati da pubblicare, ma –come sostenuto
dall’ANAC– non è consigliabile lasciare le sottosezioni vuote. L’Autorità
considera questi casi specifici come omessa pubblicazione. E’ preferibile,
pertanto, inserire una frase o un documento, che dia conto –con estrema
completezza– delle motivazioni della mancanza dei contenuti. Nel caso
specifico, si consiglia in inserire la seguente dicitura: “Ai sensi
dell’art. 28, c. 1, d.lgs. n. 33/2013, la sottosezione non è di competenza
per questo comune”.
ORGANIZZAZIONE > ARTICOLAZIONE DEGLI UFFICI
In questa sottosezione di Livello 2 vanno pubblicare le competenze di
ciascun ufficio e i nomi dei dirigenti responsabili dei singoli uffici. Va,
inoltre, pubblicata una illustrazione, in forma semplificata,
dell’organizzazione dell’amministrazione, mediante l’organigramma o analoghe
rappresentazioni grafiche e i nominativi dei dirigenti responsabili dei
singoli uffici.
Come recentemente previsto nella delibera ANAC n. 1074 del 28/11/2018,
recante “Approvazione definitiva dell’Aggiornamento 2018 al Piano
Nazionale Anticorruzione”, per i comuni sotto 15.000 abitanti –classe
demografica a cui appartiene il comune interpellante– è possibile la
pubblicazione di organigramma semplificato contenente:
• la denominazione degli uffici;
• il nominativo del responsabile;
• l’indicazione dei recapiti telefonici e caselle EMAIL, cui gli
interessati possano rivolgersi.
Il riferimento normativo per i dati da pubblicare in questa sottosezione è
l’articolo 13, comma 1, lettere b) e c), del d.lgs. 33/2013 (01.10.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il parere di regolarità contabile sulle delibere di giunta e di consiglio
(art. 49 TUEL). Dalla corte dei conti arriva un importante chiarimento.
Domanda
Nelle scorse settimane sono stata nominata titolare di P.O. per l’area
finanziaria del mio comune. Vi chiedo: quali sono i confini delle
responsabilità connesse con la mia espressione del parere di regolarità
contabile sulle proposte di deliberazione ai sensi dell’art. 49 del TUEL?
Risposta
Il quesito formulato è condiviso da molti responsabili finanziari di enti
locali. Come ben noto il testo della norma citata è stato riformulato dal
d.l. n. 174/2012.
In particolare il comma 1 prevede che: “Su ogni proposta di deliberazione
sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo
deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del
responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente,
del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri
sono inseriti nella deliberazione”.
Il comma 3 conferma la responsabilità amministrativa e contabile dei
funzionari sui pareri espressi. Questi ultimi, ribadisce il comma 4, non
sono vincolanti per l’organo collegiale, che può comunque deliberare anche
in presenza di pareri contrari, purché ne dia adeguata motivazione nel testo
dell’atto.
Sul tema dei confini delle responsabilità dei funzionari che esprimono i
pareri, dell’organo deliberante e del segretario comunale che presiede alla
seduta, è intervenuta di recente la sezione giurisdizionale della Corte dei
conti Calabria con la
sentenza 27.05.2019 n. 185.
Nell’ipotesi di danno erariale oggetto della sentenza, i magistrati
contabili hanno condannato tutti gli imputati (giunta al completo,
segretario comunale e responsabile del servizio tecnico che ha reso il
parere di regolarità tecnica), ad eccezione del solo responsabile del
servizio finanziario. Con quali motivazioni?
La sentenza afferma che “(…) il legislatore della novella del 2012, (…)
ha inteso differenziare il contenuto del ‘controllo di regolarità
amministrativa e contabile’ (di competenza del responsabile del servizio o
della funzione), che si esprime attraverso il parere di regolarità tecnica e
riguarda la ‘regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa’, dal
‘controllo contabile’ che, esprimendosi attraverso il parere di regolarità
contabile (di competenza del responsabile di ragioneria), ha riguardo
all’aspetto meramente contabile e finanziario del provvedimento. (…)
Nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione
amministrativa, rientra a pieno titolo il controllo sulla legittimità della
proposta di deliberazione, ovverossia la verifica del rispetto delle norme
che presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo, nonché la
legittimità del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale delle
soluzioni adottate. (…) La lettura combinata dall’art. 49 e 147-bis, comma
1, del TUEL permette di individuare, innanzitutto, il contenuto del parere
di regolarità tecnica, che non si limita a verificare l’attendibilità
tecnica della soluzione proposta, ma involge l’insieme del procedimento
amministrativo, coprendo e inglobando le regole sia tecniche, di un
determinato settore, che quelle generali in ordine alla legittimità
dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità della spesa, in
considerazione del fatto che ciascun centro di responsabilità, proponente un
qualsiasi atto deliberativo recante spesa, gestisce autonomamente il piano
esecutivo di gestione assegnato al proprio settore. Invece, con il ‘parere
di regolarità contabile’ il fine perseguito dal legislatore è stato quello
di assegnare al responsabile del servizio di ragioneria un ruolo centrale
nella tutela degli equilibri di bilancio dell’ente e, a tal fine,
nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in particolare, delle
conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli equilibri
finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica
rilasciato dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall’organo
proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e
progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di
gestione”.
E ancora, prosegue la Corte: “(…) la verifica della legittimità delle
deliberazioni, siano esse di giunta che di consiglio, non rientra tra i
controlli che il responsabile del servizio di ragioneria deve effettuare
prima dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile. (…). Si
ritiene che il parere di regolarità contabile non possa che coprire la
legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta
imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare copertura
finanziaria e il rispetto degli equilibri di bilancio, esulando dai compiti
del responsabile del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla
legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di altri organi
istituzionali dell’ente”.
Da quanto sopra, emerge molto chiaramente come l’orientamento dei magistrati
contabili sia pertanto netto nel distinguere e separare le responsabilità
degli attori, confinando nettamente, quella del responsabile finanziario (30.09.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Accessi al server regolati. Connessioni da
remoto, disciplina ad hoc. Consiglieri e protocollo dell’ente: dal Tar
Campania utili parametri.
In un comune siciliano può un consigliere accedere da remoto al server
comunale del protocollo dell'ente in carenza di previsione regolamentare che
lo preveda espressamente?
L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai
sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito
dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo
sull'ente, nell'interesse della collettività (cfr. Consiglio di stato V,
05/09/2014, n. 4525, cit. da Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi del 29.11.2018); si tratta di un diritto dai confini
più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del
comune di residenza (art. 10 Tuoel) o, più in generale, nei confronti della
p.a., disciplinato dalla legge n. 241 del 1990 (cfr. parere della
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014 e
il richiamato del 29.11.2018).
Per i comuni della regione Sicilia si
applica l'art. 217 del Testo coordinato delle leggi regionali relative
all'ordinamento degli enti locali (Art. 199, Ordinamento amministrativo
degli enti locali nella Regione siciliana approvato con legge regionale n.
16/1963 (art. 20, legge regionale n. 1/1976 e art. 56, legge regionale n.
9/1986), il quale prevede, analogamente, che «I consiglieri comunali (...),
per l'effettivo esercizio della loro funzione, hanno diritto di prendere
visione dei provvedimenti adottati dall'ente e degli atti preparatori in
essi richiamati nonché di avere tutte le informazioni necessarie
all'esercizio del mandato e di ottenere, senza spesa, copia degli atti
deliberativi. Copia dell'elenco delle delibere adottate dalla giunta è
trasmessa al domicilio dei consiglieri e depositata presso la segreteria a
disposizione di chiunque ne faccia richiesta».
Il protocollo informatico,
come noto, è stato introdotto dall'art. 50 del dpr n. 445/2000, il quale, al
comma 3, richiede la realizzazione o la revisione dei sistemi informativi
automatizzati in conformità anche alle disposizioni di legge sulla
riservatezza dei dati personali; gli articoli 53 e 55 del citato dpr n. 445
prevedono, rispettivamente, la «registrazione di protocollo» e la «segnatura
di protocollo» che contengono una serie di dati che consentono la
rintracciabilità dei documenti.
La citata Commissione per l'accesso, già con
il parere del 16.03.2010 stabiliva che «l'accesso diretto tramite
utilizzo di apposita password al sistema informatico dell'Ente, ove
operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere
comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni
richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il
consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di
cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuoel)».
Anche
il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del 2004, pag.
19 e 20) aveva specificato che «nell'ipotesi in cui l'accesso da parte dei
consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l'esercizio di tale diritto,
ai sensi dell'art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito se
indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo
politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti
riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per
consentire l'espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità,
(...) che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità
connesse all'esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di
divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi
all'amministrazione destinataria della richiesta accertare l'ampia e
qualificata posizione di pretesa all'informazione ratione officii del
consigliere comunale».
Già il Tar Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha
affermato, tra l'altro, che è consentito prendere visione del protocollo
generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie
coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al
segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia,
01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile
imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli
atti che intendono visionare, giacché trattasi di informazioni di cui gli
stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Sempre il Tar
Sardegna, approfondendo la tematica, con la sentenza n. 531/2018, ha
specificato che il «possesso delle chiavi di accesso telematico, rappresenta
una condizione preliminare, ma nondimeno necessaria, per l'esercizio
consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si svolga non
attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli atti
dell'amministrazione comunale (...), ma mediante una selezione degli oggetti
degli atti di cui si chiede l'esibizione. Peraltro, una delle modalità
essenziali per poter operare in tal senso è rappresentata proprio dalla
possibilità di accedere (non direttamente al contenuto della documentazione
in arrivo o in uscita dall'amministrazione, ma) ai dati di sintesi
ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo». Anche il Tar
Campania (Sezione staccata di Salerno), con la recentissima decisione n. 545
del 04/04/2019 ha confermato il diritto del consigliere comunale all'accesso
anche da remoto al protocollo informatico dell'ente.
Il predetto tribunale,
ribadendo sostanzialmente quanto stabilito dal Tar Sardegna con la
richiamata sentenza 531/2018, ha ritenuto che tale esercizio non dovrebbe
tuttavia essere esteso al contenuto della documentazione in arrivo o in
uscita dall'amministrazione soggetta, invece, alle ordinarie regole in
materia di accesso, tra le quali la necessità di richiesta specifica, ma ai
soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del
protocollo (numero di registrazione al protocollo, data, mittente,
destinatario, modalità di acquisizione, oggetto). Il Tar Campania con la
citata decisione n. 545/2019 ha accolto il ricorso imponendo
all'amministrazione comunale resistente di apprestare, entro il termine di
60 giorni decorrente dalla comunicazione della medesima decisione «le
modalità organizzative per il rilascio di password per l'accesso da remoto
al protocollo informatico al consigliere comunale ricorrente».
Ciò premesso,
si osserva che la disciplina regolamentare si pone anche come strumento di
previsione delle misure tecniche necessarie per l'effettivo esercizio del
diritto in parola in capo al consigliere comunale. Tale strumento,
necessario al fine di porre i competenti uffici comunali nelle condizioni di
operare correttamente, dovrebbe, dunque, essere obbligatoriamente adottato
dall'ente in tempi ragionevoli ben potendo prendersi a parametro i termini
individuati dal sopra citato Tar della Campania o termini più brevi
favorevoli ai consiglieri comunali
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2019). |
NEWS |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Doppio giro contabile per gli incentivi tecnici.
Doppio giro contabile per l'incentivo relativo alle funzioni tecniche
(articolo 113) per garantire il «passaggio» nel fondo incentivante del
personale e la conseguente iscrizione nell'ambito della parte corrente del
bilancio. La spesa iscritta nella specifica voce di spesa (corrente o in
conto capitale) deve trovare una contropartita di entrata nella parte
corrente destinata proprio a finanziare la spesa di personale legata
all'incentivo.
È quanto prevede il decreto del 01.08.2019 di aggiornamento del
Principio contabile applicato n. 4/2 valorizzando una specifica previsione
normativa contenuta nell'articolo 1, comma 526, della legge 205/2017 secondo
la quale questi incentivi «fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto
per i singoli lavori, servizi e forniture».
Partendo da questo presupposto il principio ora chiarisce che «gli impegni
di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui
all'articolo 113 del Dlgs 50/2016, compresi i relativi oneri contributivi ed
erariali, sono assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i
medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono, nel titolo II della
spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e
forniture».
Conto capitale e parte corrente
Di conseguenza, in funzione della previsione normativa, vige una regola di
sostanziale accessorietà, in forza della quale l'incentivo deve essere
imputato agli stanziamenti concernenti le corrispondenti spese a cui si
riferiscono, seguendone anche la collocazione tanto se in conto capitale
quanto se di parte corrente.
L'impegno, più specificamente, è registrato con imputazione all'esercizio in
corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle
risorse stanziate in bilancio e è tempestivamente emesso il relativo ordine
di pagamento a favore del proprio bilancio, al titolo terzo delle entrate,
tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre
entrate correnti Nac», voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001
Fondi incentivanti il personale (articolo 113 del Dlgs 50/2016).
Infatti, non va dimenticato, che trattandosi di incentivi specifici per il
personale devono «transitare» nell'ambito del fondo del comparto, con la
conseguenza che il finanziamento dell'erogazione deve, comunque, avvenire
nell'ambito della parte corrente del bilancio, anche laddove si tratti di un
incentivo correlato a un'opera pubblica con finanziamento, pertanto,
nell'ambito della gestione in conto capitale.
Ecco perché è richiesto, proprio dal principio, di impegnare la spesa
riguardante gli incentivi tecnici anche tra le spese di personale, negli
stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel
rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e
premiale del personale (anche in termini di maturazione della condizione di
esigibilità).
Il finanziamento di questa spesa è rappresentato proprio dall'accertamento
di entrata assunto in corrispondenza e in contropartita
dell'impegno/pagamento effettuato sullo stanziamento relativo alla singola
tipologia di spesa (servizio, fornitura o lavori), con una soluzione che
consente, altresì e congiuntamente, di rettificare il doppio impegno,
evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
Fondo innovazione
Le medesime modalità di registrazione sono adottate anche per la quota del
20 percento, sempre prevista dal comma 4 dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016
(cosiddetto fondo innovazione) destinata all'acquisto di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione nonché per
l'attivazione di tirocini formativi e di orientamento, che, a seguito della
formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio.
Anche in questo caso, infatti, la spesa è impegnata a carico degli
stanziamenti di spesa riguardanti i lavori, servizi e forniture con
imputazione all'esercizio in corso di gestione, ed è tempestivamente emesso
il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al titolo
terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti»,
categoria 3059900 «Altre entrate correnti Nac».
La quota del 20 percento è, infatti, impegnata anche tra le spese correnti o
di investimento in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del
principio contabile della competenza finanziaria, con copertura costituita,
ancora, proprio dall'indicato accertamento di entrata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
10.09.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Definiti
gli step per incentivi tecnici e fondo innovazione.
Chiarite le modalità di contabilizzazione degli incentivi per funzioni
tecniche e delle spese finanziate dal fondo innovazione.
L'undicesimo
decreto correttivo al Dlgs 118/2011, il decreto 01.08.2019 pubblicato
con i suoi allegati sulla Gazzetta Ufficiale del 22.08.2019 n. 196, ha
definito i passaggi contabili finalizzati alla corretta rappresentazione nel
bilancio finanziario dell'ente del pagamento delle somme incentivanti al
personale interno e delle spese finanziate con il fondo innovazione.
Gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche
(articolo 113 del Dlgs 50/2016), compresi i relativi oneri contributivi ed
erariali, devono essere assunti a carico degli stanziamenti riguardanti i
lavori, servizi e forniture cui si riferiscono. La registrazione dunque è
effettuata al titolo II della spesa ove si tratti di opere o lavori pubblici
e al titolo I, nel caso di servizi e forniture, con imputazione
all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al
fondo delle risorse stanziate in bilancio.
Tempestivamente deve essere
emesso l'ordine di pagamento a favore del bilancio, al Titolo terzo delle
entrate, tipologia 500 Rimborsi e altre entrate correnti, categoria 3059900
Altre entrate correnti n.a.c., voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001
Fondi incentivanti il personale (articolo 113 del Dlgs 50/2016).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici deve poi essere impegnata anche
tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la
contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per
il trattamento accessorio e premiale del personale. La copertura della spesa
è costituita dall'accertamento di entrata, che svolge anche la funzione di
rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione
contabile. Gli accertamenti alla voce del piano finanziario E.3.05.99.02.001
e la liquidazione degli impegni correlati non generano formazione di ricavi
o costi.
Analoghe modalità di registrazione sono previste per la quota del 20 per
cento destinata all'acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali
a progetti di innovazione, nonché al finanziamento di tirocini formativi e
di orientamento.
Anche le somme del fondo innovazione devono infatti essere
impegnate a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i lavori, servizi
e forniture con imputazione all'esercizio in corso di gestione, e deve
essere tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del
bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 Rimborsi e altre
entrate correnti, categoria 3059900 Altre entrate correnti n.a.c.
La quota è poi impegnata anche tra le spese correnti o di investimento in
base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio contabile
della competenza finanziaria. La copertura è costituita dall'accertamento di
entrata, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno,
evitando gli effetti della duplicazione della spesa
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.08.2019). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici fuori dai tetti di spesa solo a partire dal 2018.
Ancora un intervento della Sezione Autonomie (deliberazione
30.10.2019 n. 26)
questa volta per chiarire che, solo a partire dalla legge di bilancio 2018 è
possibile considerare esclusi dai limiti del salario accessorio gli
incentivi tecnici, mentre dalla data di approvazione del nuovo codice dei
contratti (Dlgs 50/2016) e per tutto l'anno 2017, gli incentivi tecnici
avrebbero dovuto essere assoggettati ai limiti di crescita del salario
accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017).
La questione non è di poco conto, specie per tutti quegli enti locali che,
seguendo le indicazioni di alcune sezione regionali (Veneto e Umbria), hanno
stanziato e successivamente erogato incentivi non considerandoli soggetti ai
tetti di spesa del salario accessorio.
I ripetuti interventi della Sezione Autonomie
In merito alla corretta contabilizzazione degli incentivi tecnici ci sono
volute tre deliberazione della Sezione Autonomie.
Il primo intervento restrittivo è avvenuto con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
dove è stato precisato che le nuove disposizioni introdotte dal legislatore
sugli incentivi tecnici non avrebbero potuto, così come formulate,
consentire una erogazione al di fuori dei vincoli di crescita del salario
accessorio. Infatti, a differenza degli incentivi per la progettazione, il
legislatore eliminando il collegamento diretto con le opere pubbliche e la
loro destinazione a spese di investimento, avrebbe operato una scelta
diversa assolutamente non sovrapponibile alla precedente.
Principi successivamente ribaditi con la
deliberazione 10.10.2017 n. 24,
dove la Sezione Autonomie è dovuta intervenire dichiarando inammissibile la
sollecitazione della Sezione regionale della Liguria a un possibile
ripensamento.
Il cambio di orientamento, sulla esclusione dai limiti del salario
accessorio, è avvenuta con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6,
ossia all'indomani dell'intervento del legislatore che, con la legge di
bilancio 2018, ha inserito, nell'articolo 113 del Dlgs 50/2018, il comma
5-bis secondo il quale le risorse finanziarie individuate fanno capo agli
stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e
forniture.
I nuovi dubbi delle sezione regionali
Sulla questione di una possibile attrazione degli incentivi tecnici
all'interno delle risorse escluse, tra la data di entrata in vigore del Dlgs
50/2016 e la legge di bilancio 2018, si sono formati due diversi
orientamenti della magistratura contabile.
Il primo restrittivo che, muovendo dalle conclusioni cui era pervenuta la
Sezione Autonomie nel 2018, hanno confermato il comma 5-bis norma innovativa
e non interpretativa, tanto da attrarre tutti gli incentivi, dalla data del
nuovo codice degli appalti (2016) fino al 31/12/2017, nei limiti di crescita
del salario accessorio - nel 2016 individuato dalla legge di stabilità 2016
e nel 2017 dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
Un secondo orientamento ha, invece, precisato che l'effetto innovativo
dell'articolo 5-bis non può non ripercuotersi sugli stanziamenti di bilancio
già effettuati per la realizzazione dell'opera pubblica (tra i quali
rientrano gli incentivi tecnici) i quali –essendo già stanziati sui relativi
capitoli dell'appalto prima dell'avvento della novella introdotta dal comma
5-bis- cessano di concorrere al tetto retributivo dei trattamenti accessori.
La conferma della Sezione Autonomie
La seconda soluzione richiama la «non consumazione del potere»,
perché la conseguenza del cumulo degli incentivi tecnici con il trattamento
accessorio del personale non si sarebbe determinata con il solo impegno
della spesa, salvaguardando, così, per la successione delle leggi nel tempo.
Tuttavia, una scelta contabile produttiva di effetti sul piano del diritto
sostanziale, non appare in linea con il richiamato percorso argomentativo
sviluppato in dettaglio dalla Sezione Autonomie.
Infatti, la natura innovativa e non interpretativa della nuova disposizione
legislativa, muta in senso sostanziale la contabilizzazione degli incentivi
con la conseguente esclusione di queste risorse dalla spesa del personale e
da quella per il trattamento accessorio. In definitiva, le sezione regionali
non possono consentire legittimazioni postume non in linea con quanto
espresso dalla Sezione Autonomie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
04.11.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli
incentivi per funzioni tecniche sono da includere nel tetto della spesa del
personale fino al 01.01.2018.
Gli
incentivi tecnici previsti dall’articolo 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis dello stesso
articolo, maturati nel periodo temporale che decorre dalla data di entrata
in vigore dello stesso, fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del
citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015,
successivamente modificato dall’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017, pur se la
provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei quadri
economici dei singoli appalti, servizi e forniture.
---------------
PREMESSO
La questione di massima, sollevata dalla Sezione regionale di controllo per
le Marche con la
deliberazione 16.05.2019 n. 30, riguarda la necessità di una
pronuncia di orientamento al fine di stabilire se gli incentivi tecnici
-previsti dall’articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, così come
novellato dal comma 5-bis (il quale, si ricorda, dispone che gli incentivi
tecnici fanno capo al medesimo capitolo di spesa per i singoli lavori,
servizi e forniture, sottraendoli, così, ad una loro assimilabilità al
trattamento economico accessorio)- maturati nel periodo temporale che
decorre dall’entrata in vigore dello stesso decreto fino al giorno anteriore
all’entrata in vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), vadano inclusi
nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della
legge n. 208/2015, successivamente sostituito dall’art. 23 del d.lgs. n. 75
del 2017, nel caso la provvista dei predetti incentivi sia stata già
predeterminata nei quadri economici dei singoli appalti, servizi o
forniture.
Lo scrutinio della questione all’esame della Sezione non può prescindere
dalla disamina delle precedenti pronunce rese dalle Sezioni Riunite, dalla
Sezione delle autonomie e da alcune Sezioni regionali di controllo per
risolvere questioni analoghe.
Nella
deliberazione 13.11.2009 n. 16
di questa Sezione , che ha riconosciuto l’esclusione del vincolo per gli
incentivi alla progettazione, è stata considerata rilevante la
provenienza dei fondi, riconoscendo la natura di «spese di investimento,
attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della
spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di
un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento».
Il medesimo percorso ermeneutico è stato condiviso dalle Sezioni Riunite con
la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, che ha
escluso dal rispetto del limite di spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del
d.l. n. 78/2010, tutti quei compensi per prestazioni professionali
specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra i quali l’incentivo per
la progettazione interna.
Sulla specifica questione degli incentivi per funzioni tecniche, nella
deliberazione 06.04.2017 n. 7, è stato
affermato che gli incentivi di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n.
50/2016 «sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui
all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)». Il
principio di diritto si impernia sulla distinzione tra gli incentivi c.d.
“alla progettazione”, che erano previsti dal non più vigente articolo 93,
comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006, e quelli per le funzioni tecniche, di
cui al soprarichiamato art. 113.
Il medesimo orientamento è stato ribadito da questa Sezione nella
deliberazione 10.10.2017 n. 24, con la
quale si è ritenuta inammissibile la questione sottoposta dalla Sezione di
controllo della Liguria con
deliberazione 29.06.2017 n. 58,
in quanto l’assenza di decisioni contrastanti, nel frattempo assunte dalle
Sezioni regionali, e la mancanza di argomentazioni giuridiche e/o fattuali
nuove e diverse da quelle già esaminate con la richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7, facevano sì che la rimessione si configurasse, nella
sostanza, «come una mera richiesta di riesame della decisione già assunta,
sulla base dei medesimi elementi di fatto e di diritto già considerati».
In sostanza, nelle pronunce della Sezione delle autonomie non è stata
rinvenuta una specificità nei compensi previsti per le funzioni tecniche
tale da far ritenere non applicabile il limite stabilito per i trattamenti
accessori. Ciò anche in funzione della rilevata difformità della fattispecie
introdotta dall’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, rispetto
all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione, nonché per il
fatto che tali emolumenti essendo erogabili anche per gli appalti di servizi
e forniture, si configuravano, ai sensi delle disposizioni normative
all’epoca vigenti, come spesa di funzionamento e, dunque, come spese
correnti (e di personale).
La Sezione delle autonomie, con
deliberazione 26.04.2018 n. 6
ha, poi, enunciato
il principio di diritto secondo il quale «Gli incentivi disciplinati
dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1,
comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie
individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli
oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al
vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti
degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017».
La Sezione, dunque, argomentando dal principio per cui «anche se
l’allocazione contabile degli incentivi di natura tecnica nell’ambito del
“medesimo capitolo di spesa” previsto per i singoli lavori, servizi o
forniture potrebbe non mutarne la natura di spesa corrente - trattandosi, in
senso oggettivo, di emolumenti di tipo accessorio spettanti al personale...»,
ha affermato che «...la contabilizzazione prescritta ora dal legislatore
sembra consentire di desumere l’esclusione di tali risorse dalla spesa del
personale e dalla spesa per il trattamento accessorio».
Più precisamente, richiamando quanto già espresso dal Giudice contabile, e,
dunque, che «gli incentivi per le funzioni tecniche sono, per loro natura,
estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente
assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale, che hanno
come parametro di riferimento un predeterminato anno base (qual è anche
l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017)», la Sezione ha ritenuto che
«il comma 5-bis rafforza tale intendimento e individua come determinante, ai
fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra
citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa previsto
per l’appalto».
Dunque, “..sul piano logico..”, continuava la Sezione, «…l’ultimo intervento
normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di
interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la
propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della
sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a
titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni
contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da
sostenere. La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza
tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni
sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e
amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di
specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle
risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara
commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di
tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e
determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale…...
Pertanto, il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di
bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su
risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma
5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse
ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale.
Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non
soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio
dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75
del 2017».
Con riferimento al quesito de quo –e cioè se gli incentivi maturati nel
periodo intertemporale predetto (anni 2016-2017) rientrino nei limiti di
spesa del trattamento accessorio del personale– si richiamano, altresì, i
diversi orientamenti delle Sezioni regionali di controllo successivi alla
richiamata
deliberazione 26.04.2018 n. 6.
Più precisamente, una prima opzione ermeneutica (Veneto
parere 13.11.2018 n. 405, Lombardia
parere 27.09.2018 n. 258 e Umbria
parere 28.03.2019 n. 56) che –proprio valorizzando la
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della Sezione delle autonomie, per la quale
l’articolo 5-bis del citato decreto ha valenza innovativa e non
interpretativa– richiamando il principio tempus regit actum, ritiene, fino
all’entrata in vigore della novella normativa, detti incentivi siano da
includere nel tetto dei trattamenti accessori.
Altro orientamento, di segno opposto, (Veneto
parere 25.07.2018 n. 265 e
parere 14.11.2018 n. 429) considera che l’effetto innovativo dell’articolo 5-bis non può
non ripercuotersi sugli stanziamenti di bilancio già effettuati per la
realizzazione dell’opera pubblica (tra i quali rientrano gli incentivi
tecnici) i quali –essendo già stanziati sui relativi capitoli dell’appalto
prima dell’avvento della novella introdotta dal citato articolo- cessano di
concorrere al tetto retributivo dei trattamenti accessori.
Dal che, secondo la prospettazione effettuata, ne discenderebbe, nel
rispetto di quanto espresso dalla Sezione delle autonomie con
deliberazione 26.04.2018 n. 6, l’intangibilità dell’effetto innovativo e non interpretativo della
norma, non essendosi consumato nel 2017 la conseguenza del cumulo degli
incentivi tecnici col trattamento accessorio del personale.
In conformità a questo orientamento si richiama, altresì, la Sezione Umbria
con
parere 05.02.2018 n. 14, ove afferma che: «sia il comma 1 che il comma 2
dell’art. 113 citato, già disponevano che tutte le spese afferenti agli
appalti di lavori, servizi o forniture, debbano trovare imputazione sugli
stanziamenti previsti per i predetti appalti. Il comma 5-bis rafforza tale
intendimento e individua come determinante, ai fini dell’esclusione degli
incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della
relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto».
CONSIDERATO
La questione, oggetto del richiesto pronunciamento da parte della Sezione
delle autonomie, tende, in sostanza, a conoscere se, ove gli incentivi per
funzioni tecniche siano stati imputati nei singoli quadri economici degli
appalti affidati ancor prima dell’effettiva entrata in vigore -a far data
dal 01.01.2018- della novellata disposizione del Codice degli appalti,
questa imputazione contabile si sottrarrebbe (anche per il periodo temporale
2016–2017) ai limiti di spesa del trattamento accessorio del personale.
Prima di esprimere le proprie considerazioni in merito, il Collegio ritiene
opportuno ripercorrere le principali tappe che la materia de qua ha percorso
nel suo travagliato cammino.
L’articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, nella sua originaria
formulazione, è stato interpretato dalla Sezione delle autonomie con le
deliberazioni n. 7 e n. 24 del 2017, come norma che non sottraeva gli
incentivi tecnici dal tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1,
comma 236, della legge n. 208/2015 e ss.mm.
La disposizione, infatti, secondo le richiamate deliberazioni, a differenza
della normativa relativa agli incentivi dovuti per la progettazione di cui
all’articolo 113, comma 1, disciplinerebbe incentivi per attività -quali
programmazione per la spesa degli investimenti, valutazione preventiva dei
progetti, predisposizione e controllo delle procedure di gara e di
esecuzione dei contratti, di RUP, di direzione dei lavori, di direzione
dell’ esecuzione e di collaudo tecnico, di verifica di conformità, di
collaudatore statico- che non avrebbero carattere di continuità e
sarebbero, conseguentemente, attratti nel solco dei trattamenti economici
accessori del personale in servizio e, dunque, nei relativi tetti di spesa.
In seguito, l’articolo 113 è stato novellato dalla l. n. 205/2017, il cui
articolo 1, comma 526, introducendo il comma 5-bis, ha esplicitamente
disposto che «gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al
medesimo capitolo di spesa per i singoli lavori, servizi e forniture».
In tal senso, dunque, è stata definita anche la portata del comma 2 della
citata disposizione che ha trovato, altresì, l’avallo interpretativo della
Sezione delle autonomie.
La Sezione, infatti, con successiva
deliberazione 26.04.2018 n. 6, ha espresso la
massima per cui «gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n.
50/2016, nel testo modificato dall’art. 1, comma 526 della l. n. 205/2017,
erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi
capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e
forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento
economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma
2, del d.lgs. n. 75 del 2017».
Si chiarisce, dunque, la natura di tali incentivi, sottraendoli al vincolo
del trattamento accessorio a far data dell’entrata in vigore della legge di
bilancio 2018 (01.01.2018).
Nel solco prospettico così delineato, e tornando al quesito posto
all’attenzione di questa Sezione, e cioè se, ove gli incentivi per funzioni
tecniche siano stati imputati nei singoli quadri economici degli appalti
affidati ancor prima dell’effettiva entrata in vigore -a far data dal 01.01.2018- della novellata disposizione del Codice degli appalti, questa
imputazione contabile li sottrarrebbe, anche per il periodo temporale
2016–2017, ai limiti di spesa del trattamento accessorio del personale, la
risposta deve essere, a parere del Collegio, negativa, per le ragioni che
seguono.
La disposizione del codice dei contratti, nella sua originaria formulazione,
era stata, come riferito, chiaramente interpretata dalla Sezione delle
autonomie nelle citate deliberazioni n. 7 e n. 24 del 2017, coerenti, tra
l’altro, con l’orientamento espresso dalla Sezioni Riunite con
deliberazione 04.10.2011 n. 51, nel senso gli incentivi di cui all’articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 «sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di
cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)».
Il principio di diritto era fondato sulla distinzione tra gli incentivi c.d.
“alla progettazione”, che erano previsti dal non più vigente articolo 93,
comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006, e gli incentivi per le funzioni
tecniche, di cui al soprarichiamato art. 113.
Il quadro giuridico, così come delineato in sede nomofilattica dalla
Sezione, dunque, non lasciava margini di opinabilità circa il corretto
inquadramento e il conseguente trattamento contabile di detti incentivi.
Aderire, pertanto, ad una diversa opzione ermeneutica, ritenendo, pur se non
formalmente, sostanzialmente superabile quanto poi chiarito dalla stessa
Sezione delle autonomie con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6
-che ha
espressamente richiamato la portata innovativa e non interpretativa del
comma 5-bis novellante l’articolo 113– rischia in definitiva di
contrastare, oltre che con specifiche disposizioni cristallizzate nel Codice
dei contratti disciplinanti le
relazioni temporali tra azione amministrativa e leggi sopravvenute, altresì
con i principi generali in materia di successione di leggi nel tempo e dei
loro effetti.
Sul piano strettamente testuale, infatti, depone sfavorevolmente ad una
diversa interpretazione la disposizione transitoria contenuta nel codice dei
contratti pubblici –l’art. 216 del d.lgs. n. 50/2016- per cui, in
coerenza con il principio tempus regit actum, «le disposizioni del Testo
unico si applicano alle procedure ed ai contratti per le quali i bandi o
avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano
pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore, nonché, in
caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure ed
ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del
codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte».
Sul piano sostanziale, non persuade l’affermazione per cui l’effetto
innovativo non può non ripercuotersi sugli stanziamenti di bilancio già
effettuati per la «realizzazione dell’opera pubblica, tra i quali rientrano
gli incentivi tecnici, in quanto l’effetto del cumulo degli stessi con il
trattamento accessorio del personale non si sarebbe consumato nell’anno 2017
con l’accertamento del diritto alla corresponsione ed il relativo impegno di
spesa», ma è destinato ad essere considerato e, dunque, escluso, in epoca
successiva all’entrata in vigore della novella normativa (in tal senso,
Veneto,
parere 25.07.2018 n. 265 e
parere 14.11.2018 n. 429).
Con riferimento, infatti, al delicato tema del rapporto tra tempo e azione
amministrativa, noto è il ripensamento del tradizionale principio tempus
regit actum e la tendenza verso un modello di amministrazione incentrato
sull’azione e non sul singolo atto, al fine di delineare correttamente il
perimetro applicativo di una legge sopravvenuta, espressa nel brocardo tempus regit actionem.
Tuttavia, richiamare la non consumazione del potere, perché la conseguenza
del cumulo degli incentivi tecnici con il trattamento accessorio del
personale non si sarebbe determinata con il solo impegno della spesa,
salvaguardando, così, per ius superveniens, una scelta contabile
evidentemente produttiva di effetti sul piano del diritto sostanziale, non
appare in linea con il richiamato percorso argomentativo in precedenza
palesato nei diversi orientamenti della magistratura contabile e
successivamente definito con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione delle
autonomie.
Ove, infatti, la Sezione con tale pronuncia afferma che, «il legislatore,
con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha
stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e
predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte
all’erogazione di compensi accessori al personale» e che, quale logica
conseguenza di questa diversa allocazione contabile, «... Gli incentivi per
le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto
al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti
pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017», evidentemente,
collega ad una diversa contabilizzazione prescritta dal legislatore effetti
sostanziali quali l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e
da quella per il trattamento accessorio.
Tanto è, tra l’altro, ribadito dalla stessa Sezione ove, ancora in quella
sede, nel corso del suo iter argomentativo afferma, con riferimento alle
ragioni di diritto sostanziale sottese la norma, che «...l’ultimo intervento
normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di
interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la
propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della
sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a
titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni
contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da
sostenere».
Opinare diversamente, consentendo, così, una legittimazione ex post a
condotte amministrative non in linea con quanto espresso in sede nomofilattica da questa Sezione nell’interpretare una legge al tempo
vigente, rischia di porsi in contrasto con un principio di certezza del
diritto a cui è funzionale la nomofilachia, ove legislativamente ammessa.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla
questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per le
Marche con la
deliberazione 16.05.2019 n. 30, enuncia il seguente principio
di diritto:
«Gli incentivi tecnici previsti dall’articolo 113, comma
2, del decreto legislativo n. 50/2016, così come integrato dal comma 5-bis
dello stesso articolo, maturati nel periodo temporale che decorre dalla data
di entrata in vigore dello stesso, fino al giorno anteriore all’entrata in
vigore del citato comma 5-bis (01.01.2018), sono da includere nel tetto
dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n.
208/2015, successivamente modificato dall’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017,
pur se la provvista dei predetti incentivi sia già stata predeterminata nei
quadri economici dei singoli appalti, servizi e forniture»
(Corte dei Conti, Sez. autonomie,
deliberazione
30.10.2019 n. 26). |
ENTI LOCALI: Scuolabus,
comuni liberi. Possono erogare gratuitamente il servizio. La sezione
autonomie della Corte conti pone fine alla querelle.
Comuni liberi sul pagamento del servizio di trasporto
scolastico. Nell'ambito della propria autonomia finanziaria e nel rispetto
degli equilibri di bilancio, nonché della clausola di invarianza
finanziaria, gli enti possono coprire i costi del servizio con risorse
proprie e quindi possono erogarlo gratuitamente agli utenti più deboli e
disagiati. Per il resto dell'utenza, i municipi devono definire «un piano
diversificato di contribuzione delle famiglie beneficiarie del servizio» in
base alla diverse situazioni economiche in cui i nuclei familiari versano.
Nella
deliberazione 18.10.2019 n. 25
la sezione autonomie della Corte dei conti trova il punto di equilibrio tra
la salvaguardia dei bilanci comunali e la tutela del diritto allo studio,
messa a rischio da alcune recenti letture dei magistrati contabili che
avrebbero avuto come conseguenza il pagamento degli scuolabus anche da parte
delle fasce di utenti più disagiate per reddito o per provenienza
geografica.
Il problema.
Tutto nasce col
parere 06.06.2019 n. 46
della Corte conti del Piemonte che ha qualificato il servizio di trasporto
scolastico come trasporto pubblico locale e non più come servizio a domanda
individuale, con la conseguenza che i municipi sarebbero tenuti in sede di
copertura alla stretta osservanza del principio dell'equilibrio economico,
scaricando in tal modo i costi a totale carico dell'utenza.
La pronuncia ha creato il panico soprattutto tra i piccoli comuni,
preoccupati di non poter continuare a garantire la gratuità di un servizio
che proprio nei mini-enti, spesso collocati in territori montani e
disagiati, diventa essenziale per garantire il diritto allo studio.
Alla delibera dei giudici contabili piemontesi ha fatto seguito una
pronuncia della Corte conti Puglia (parere 25.07.2019 n. 76)
che ha parzialmente mitigato la tesi della sezione regionale del Piemonte
affermando che tra le risorse volte ad assicurare l'integrale copertura dei
costi possono essere ricomprese «le contribuzioni regionali e quelle
autonomamente destinate dall'ente nella propria autonomia finanziaria purché
reperite nel rispetto della clausola d'invarianza finanziaria espressa nel
divieto di nuovi o maggiori oneri, con corrispondente minor aggravio a
carico dell'utenza».
Una conclusione che, pur confermando la validità delle argomentazioni della
delibera piemontese, ha aperto alla possibilità per i comuni di continuare a
erogare i contributi per il servizio di scuolabus, anche a copertura
integrale dei costi, a condizione che vengano ridotti gli importi di altre
spese in modo da non aumentare la spesa complessiva.
La richiesta di parere dell'Anci.
Per dirimere il contrasto tra la pronuncia più restrittiva della sezione
regionale piemontese e quella più «a maglie larghe» della Corte conti
Puglia, l'Anci ha chiesto un parere alla sezione autonomie, sostenendo la
necessità di una lettura «costituzionalmente orientata» dell'articolo
117 Tuel e delle norme del dlgs 63/2017, fondata sul fatto che il trasporto
scolastico è strumento di garanzia «ampia a sostanziale del diritto allo
studio sancito dall'art. 34 della Costituzione e quindi, in ultima istanza,
strumento fondamentale per il pieno sviluppo della persona umana».
Secondo l'Anci, un'interpretazione rigida delle norme, che escludesse la
possibilità di un qualsiasi intervento finanziario da parte dei comuni,
avrebbe portato al paradosso di negare la natura giuridica del servizio di
scuolabus quale servizio pubblico locale, da garantire utilizzando anche
risorse proprie nel rispetto degli equilibri di bilancio.
La delibera della sezione autonomie.
La sezione autonomie ha condiviso le argomentazioni dell'Anci, aprendo di
fatto alla possibilità per i comuni di dare copertura, nell'ambito della
propria autonomia finanziaria, al trasporto pubblico scolastico. Una chance
che avrebbe potuto essere già sancita da una norma di legge se il cosiddetto
decreto scuola, approvato a inizi agosto dal precedente esecutivo M5S-Lega e
mai approdato in Gazzetta Ufficiale, non fosse stato travolto dalla crisi di
governo.
La possibilità di finanziare il servizio scuolabus è stata inserita nel
nuovo decreto legge approvato il 10 ottobre dal consiglio dei ministri ma
anche questo non è ancora in vigore visto che il dl non è ancora approdato
in Gazzetta. In ogni caso, in attesa che l'intervento del legislatore
diventi finalmente vigente, la sezione autonomie mette un punto fermo alla
querelle giurisprudenziale.
«Se da un lato la copertura dei servizi pubblici generali e di quelli a
domanda individuale o ad istanza di parte, deve avvenire in equilibrio
economico-finanziario ai sensi dell'art. 117 Tuel», si legge nel parere,
«dall'altro la fruibilità del servizio di trasporto scolastico comunale è
rilevante ai fini della concreta implementazione di misure che garantiscano
il diritto allo studio, tutelato a livello costituzionale dagli artt. 3, 33
e 34 Cost. e da intendersi nel senso di possibilità, per chiunque ed a
prescindere dalla sua situazione economica, di accedere al sistema
scolastico: diritto cui lo Stato deve far fronte atteso che l'art. 3 Cost.
pone a suo carico l'onere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
Per questo, conclude la sezione autonomie, «il punto di equilibrio tra i
due valori costituzionalmente tutelati (equilibrio di bilancio e diritto
allo studio) non può prescindere da una lettura dell'art. 117 Tuel e del
comma 2 dell'art. 5 del dlgs n. 63/2017, che consenta agli enti, nell'ambito
della propria autonomia finanziaria e nel rispetto degli equilibri di
bilancio, declinati dalla legge 30.12.2018, n. 145, nonché della clausola d'invarianza
finanziaria, di dare copertura al servizio con risorse proprie».
Il che significa erogare gratuitamente il servizio nei confronti delle
categorie di utenti più deboli e definire in anticipo un piano diversificato
di contribuzione degli altri utenti «in conseguenza delle diverse
situazioni economiche in cui gli stessi versano» (articolo ItaliaOggi del 19.10.2019). |
ENTI LOCALI: Copertura
finanziaria al servizio di trasporto scolastico - equilibri di bilancio
(legge di bilancio, 30.12.2018, n. 145 (legge di bilancio 2019) e
clausola d’invarianza finanziaria.
Gli Enti locali, nell’ambito della propria autonomia
finanziaria, nel rispetto degli equilibri di bilancio, quali declinati dalla
legge 30.12.2018, n. 145 (legge di bilancio 2019) e della clausola d’invarianza
finanziaria, possono dare copertura finanziaria al servizio di trasporto
scolastico anche con risorse proprie, con corrispondente minor aggravio a
carico all’utenza.
Fermo restando i principi di cui sopra, laddove l’Ente ne ravvisi la
necessità motivata dalla sussistenza di un rilevante e preminente interesse
pubblico oppure il servizio debba essere erogato nei confronti di categorie
di utenti particolarmente deboli e/o disagiati, la quota di partecipazione
diretta dovuta dai soggetti beneficiari per la fruizione del servizio può
anche essere inferiore ai costi sostenuti dall’Ente per l’erogazione dello
stesso, o nulla o di modica entità, purché individuata attraverso
meccanismi, previamente definiti, di gradazione della contribuzione degli
utenti in conseguenza delle diverse situazioni economiche in cui gli stessi
versano.
---------------
PREMESSO
1. La questione di massima oggi all’esame è stata sollevata
dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani (di seguito ANCI) ai sensi
dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, come modificato
dall’art. 10-bis del d.l. 24.06.2016, n. 113, convertito dalla l. 07.08.2016, n. 160.
La richiamata disposizione ha, invero, introdotto in materia di attività
consultiva della Corte la richiesta diretta alla Sezione delle autonomie di
pareri in materia di contabilità pubblica, individuando per i Comuni, le
Province e le Città metropolitane le rispettive componenti rappresentative
nell'ambito della Conferenza unificata quali soggetti legittimati alla
medesima.
Avvalendosi, quindi, di tale disposizione di legge l’ANCI, con nota
indirizzata al Presidente della Corte dei conti prot. n. 97/VSG/SD-19 del 23.09.2019 (acquisita in pari data al protocollo della Corte con il n.
2552/PRES-A45-A), ha richiesto un parere in ordine alla modalità di
copertura finanziaria dei costi del servizio di trasporto scolastico e,
nello specifico, se «la quota di partecipazione diretta dovuta dalle
famiglie per l’accesso ai servizi di trasporto degli alunni può essere
inferiore ai costi sostenuti dall’ente locale per l’erogazione del servizio,
o anche nulla, nel rispetto degli equilibri di bilancio di cui all’articolo
1, commi da 819 a 826, della legge 30.12.2018, n. 145».
1.1. In proposito l’ANCI rappresenta che alla luce della normativa di
riferimento -d.lgs. 13.04.2017, n. 63 che dispone in materia di
«Effettività del diritto allo studio attraverso la definizione delle
prestazioni, in relazione ai servizi alla persona, con particolare
riferimento alle condizioni di disagio e ai servizi strumentali, nonché
potenziamento della carta dello studente, a norma dell'articolo 1, commi 180
e 181, lettera f), della legge 13.07.2015, n. 107»- gli enti locali
sono tenuti a garantire i servizi di trasporto scolastico in quanto servizio
prioritario per il
supporto al diritto allo studio, finalizzato a perseguire l'uguaglianza
sostanziale degli studenti.
Richiama in particolare le disposizioni che individuano i servizi prioritari
per il supporto al diritto allo studio che devono essere erogati dallo
Stato, dalle Regioni e dagli Enti locali, finalizzati al perseguimento
dell’uguaglianza sostanziale degli studenti, ai quali deve essere garantita
in tutto il territorio nazionale l’effettività del diritto allo studio fino
al completamento del percorso di istruzione secondaria di secondo grado e,
specificatamente, gli artt. 2, 3 e 5 del menzionato d.lgs. n. 63 del 2017
all’uopo evidenziando che in base al combinato disposto dell’art. 2 (che
individua i servizi da rendere in tutto il territorio nazionale, tra cui
rientrano anche “i servizi di trasporto e forma di agevolazione della
mobilità”) e dell’art. 3 (che determinano la gratuità dei servizi di cui
all’art. 2 ovvero le modalità di contribuzione delle famiglie a copertura dei
costi) il trasporto scolastico, in quanto riconducibile all’art. 2, dovrebbe
essere erogato in forma gratuita.
Il successivo art. 5 che disciplina, specificatamente, i servizi di
trasporto e le forma di agevolazione della mobilità, prevede, da un lato,
che le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze,
assicurino «il trasporto delle alunne e degli alunni delle scuole primarie
statali per consentire loro il raggiungimento della più vicina sede di
erogazione del servizio scolastico» e che il servizio sia assicurato «su
istanza di parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta,
senza nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati» e,
dall’altro, precisa che tale servizio deve essere assicurato «nei limiti
dell'organico disponibile e senza nuovi o maggiori oneri per gli enti
pubblici interessati».
Dalla lettura coordinata del suesposto impianto normativo, quindi, l’ANCI
perviene alla conclusione che «tenuto conto delle rilevanti finalità sociali
che i Comuni perseguono attraverso l’erogazione di tale servizio, non si può
escludere dunque che nell'ambito della propria autonomia finanziaria e nel
rigoroso rispetto degli equilibri di bilancio i Comuni possano finanziare lo
stesso con risorse proprie».
1.2. Di diverso avviso, invece, la giurisprudenza contabile, anche recente,
(nella richiesta di parere si citano le Sezioni regionale di controllo:
Campania,
parere 21.06.2017 n. 222; id., Sicilia,
parere 10.10.2018 n. 178; Piemonte,
parere 06.06.2019 n. 46; Puglia,
parere 25.07.2019 n. 76) che, qualificando il trasporto scolastico come
servizio pubblico di trasporto, lo ha escluso dalla disciplina normativa dei
servizi pubblici a domanda individuale, espressamente individuati dal
dm 31.12.1983, ancorando, di conseguenza, l’erogazione del servizio alla tariffazione di cui all’art. 117 Tuel.
L’Anci si sofferma in particolare sulle conclusioni a cui sono, di recente,
pervenute le Sezioni regionali di controllo per il Piemonte e per la Puglia
rispettivamente
con la
parere 06.06.2019 n. 46 e
parere 25.07.2019 n. 76.
Sebbene in entrambe si affermi che «la natura di servizio pubblico, in
quanto oggettivamente rivolto a soddisfare esigenze della collettività,
comporta, pertanto, che per il trasporto scolastico siano definite dall’Ente
adeguate tariffe a copertura dei costi, secondo quanto stabilito
dall'articolo 117 del Tuel», con la conseguenza che la sua copertura
finanziaria deve avvenire mediante i corrispettivi versati dai richiedenti
il servizio, attraverso una quota «che, nel rispetto del rapporto di
corrispondenza tra costi e ricavi, deve essere finalizzata ad assicurare
l’integrale copertura dei costi del servizio» (in termini, Sezione regionale
di controllo per il Piemonte,
parere 06.06.2019 n. 46 cit.), non
si esclude la possibilità di ricomprendere, tra le risorse volte ad
assicurare l’integrale copertura dei costi, «le contribuzioni regionali e
quelle autonomamente destinate dall’ente nella propria autonomia finanziaria
purché reperite nel rispetto della clausola d’invarianza finanziaria
espressa nel divieto dei nuovi e maggiori oneri (….), con corrispondente
minor aggravio a carico all’utenza» (in termini, Sezione regionale di
controllo per la Puglia,
parere 25.07.2019 n. 76 cit.).
1.3. Ciò rappresentato, l’ANCI sostiene che una lettura costituzionalmente
orientata delle suesposte norme «impone di considerare come il trasporto
scolastico sia strumento di garanzia ampia e sostanziale del diritto allo
studio sancito dall’articolo 34 della Costituzione, e quindi, in ultima
istanza, strumento fondamentale per il pieno sviluppo della persona umana»,
sia in quanto «lo stesso legislatore ammette che il trasporto scolastico e
le altre forme di mobilità, proprio in quanto trattasi di servizi pubblici
essenziali a garanzia del diritto allo studio, possano essere erogati in
forma gratuita, ovvero con contribuzione delle famiglie, dettando anche
criteri di differenziazione per le tariffe», sia perché «Pur disciplinando
quindi nell’articolo 5 del decreto le modalità di erogazione del servizio di
trasporto scolastico, il legislatore, quando fa riferimento al pagamento di
una quota di partecipazione diretta, non esclude che il Comune possa
prevedere un piano tariffario che segua le modalità di cui alla norma
generale di cui all’articolo 3, aggiungendo solo che sia attivabile su
istanza di parte e senza maggiori o nuovi oneri per gli enti territoriali
interessati, ossia rispettando i propri equilibri di bilancio».
Ad ulteriore supporto del proprio convincimento, richiama l’orientamento
giurisprudenziale in virtù del quale la presenza di un corrispettivo non
costituisce un elemento indefettibile nell’ambito dei servizi pubblici
locali in quanto «non incide sulla qualifica di servizio pubblico il fatto
che la prestazione sia o meno subordinata al pagamento di una tariffa: che
lo stesso Testo Unico sull'ordinamento degli enti locali all'articolo 117
disciplini anche i criteri per la determinazione e la riscossione delle
tariffe non esclude dall’ambito dei servizi pubblici locali quelli erogati
senza un corrispettivo, sempre che le prestazioni siano strumentali
all'assolvimento delle finalità sociali dell’ente, come avviene per il
servizio di pubblica illuminazione» (Consiglio di Stato, sez. V, 16.12.2004, n. 8090 e 25.11.2010 n. 8231).
Ad avviso dell’ANCI, quindi, una diversa chiave di lettura protesa
all’applicazione rigida dell’articolo 117 del TUEL, escludendo un qualsiasi
intervento finanziario per il Comune, porterebbe al paradosso di negare la
natura giuridica dello stesso servizio quale servizio pubblico locale, che
va –per definizione- comunque garantito utilizzando anche risorse proprie,
nel rispetto degli equilibri di bilancio.
Di qui la formulazione del parere all’esame.
1.4. Il Presidente della Corte, con propria ordinanza n. 21 del 24.09.2019, ha deferito l’esame e la pronuncia della prospettata questione alla
Sezione delle autonomie.
CONSIDERATO
2.1 La questione di massima all’esame,
sollevata dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani ai sensi dell’art. 7,
comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, come modificato dall’art. 10-bis
del d.l. 24.06.2016, n. 113, convertito dalla l. 07.08.2016, n. 160,
involge la corretta interpretazione delle norme che disciplinano la
copertura finanziaria del servizio di trasposto scolastico e, nello
specifico, se la quota di partecipazione diretta dovuta dalle famiglie per
l’accesso ai servizi di trasporto degli alunni possa essere inferiore ai
costi sostenuti dall’ente locale per l’erogazione del servizio, o anche
nulla, nel rispetto degli equilibri di bilancio di cui all’art. 1, commi da
819 a 826, della legge 30.12.2018, n. 145 (legge di bilancio 2019).
In
altri termini si chiede di conoscere se, tenuto conto delle rilevanti
finalità sociali che gli Enti Locali perseguono attraverso l’erogazione di
tale servizio, sia consentito che gli stessi, nell’ambito della propria
autonomia finanziaria e nel rispetto degli equilibri di bilancio, possano
finanziare il predetto servizio con risorse proprie.
2.2. Il quesito trae
origine dalla necessità di coordinare il quadro normativo del finanziamento
dei servizi pubblici locali che fanno capo all’articolo 117 TUEL con le
finalità sociali perseguite attraverso l’erogazione del servizio di
trasporto scolastico, alla luce anche dei recenti orientamenti espressi
dalla magistratura contabile in sede consultiva. Ciò in quanto la
giurisprudenza contabile (cfr.: Corte dei conti, Sezioni regionali di
controllo: Campania,
parere 21.06.2017 n. 222; Sicilia,
parere 25.02.2015 n. 115 e
parere 10.10.2018 n. 178; Piemonte,
parere 06.06.2019 n. 46;
Puglia,
parere 25.07.2019 n. 76), investita di problematiche analoghe a
quella in questa sede in esame, ha concordemente qualificato il servizio di
trasporto scolastico come “trasporto pubblico locale” e, come tale, lo ha
escluso dalla disciplina normativa dei “servizi pubblici a domanda
individuale” poiché non ricompreso nell’elenco di cui al decreto
interministeriale 31.12.1983, emanato ai sensi dell’art. 6, comma 3,
del d.l. n. 55/1983, conv. L. n. 131/1983.
Pertanto, gli enti,
nell’erogazione del predetto servizio, sarebbero tenuti, in sede di
copertura, alla stretta osservanza del principio dell’equilibrio economico
di cui alle disposizioni dell’art. 117 TUEL, che dispone in materia di
tariffe dei servizi pubblici, ed in particolare all’osservanza del principio
dell’equilibrio ex ante tra costi e risorse a copertura.
In conseguenza, la
copertura del costo dovrebbe essere a totale carico dell'utenza. Ciò in
quanto il richiamato art. 117 TUEL stabilisce che le tariffe –ossia i
corrispettivi- dei servizi pubblici approvate dagli Enti interessati devono
essere determinate in maniera tale «da assicurare l'equilibrio
economico-finanziario dell'investimento e della connessa gestione» ed
individua, quali criteri per il calcolo della tariffa relativa ai servizi
stessi: a) la corrispondenza tra costi e ricavi in modo da assicurare la
integrale copertura dei costi, ivi compresi gli oneri di ammortamento
tecnico-finanziario; b) l'equilibrato rapporto tra i finanziamenti raccolti
ed il capitale investito; c) l'entità dei costi di gestione delle opere,
tenendo conto anche degli investimenti e della qualità del servizio; d)
l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le
prevalenti condizioni di mercato.
Tuttavia, a fronte di tale univocità di
orientamento circa la natura del servizio, differenti appaiono le
conseguenze che le diverse Sezioni interessate hanno definito in ordine alla
copertura dello stesso a mezzo di contributi dell’utenza.
Infatti un
indirizzo non esclude che tra le risorse volte ad assicurare l’integrale
copertura dei costi possono essere ricomprese le contribuzioni regionali e
quelle autonomamente destinate dall’ente, nella propria autonomia
finanziaria purché reperite nel rispetto della clausola d’invarianza
finanziaria espressa nel divieto dei nuovi e maggiori oneri, con
corrispondente minor aggravio a carico dell’utenza (Sezione regionale di
controllo della Puglia,
parere 25.07.2019 n. 76); altro orientamento non
esclude la possibile erogazione gratuita del servizio in funzione di un
motivato interesse pubblico, tanto più se il servizio assume carattere
generalizzato, posto che la normativa non vieta la possibilità di graduare
l’entità dei versamenti dovuti dall’utenza, ovviamente previa adeguata
copertura (Sezioni regionali di controllo: Campania,
parere 21.06.2017 n. 222; Sicilia,
parere 25.02.2015 n. 115 e
parere 10.10.2018 n. 178); una
terza posizione (Sezione regionale di controllo per il Piemonte,
parere 06.06.2019 n. 46) ritiene, infine, che la copertura del
costo deve essere a totale carico dell'utenza, escludendo in radice una
eventuale erogazione a titolo gratuito, posto che, in conformità alla
prescrizione di “invarianza della spesa” di cui all’art. 5 del d.lgs. n.
63/2017, la quota di partecipazione finanziaria a carico dell'utenza deve
necessariamente concorrere alla copertura integrale della spesa sostenuta
dal Comune per l'erogazione del servizio. Per tutte, comunque, «restano
ferme le scelte gestionali e l'individuazione dei criteri di finanziamento
demandate alla competenza dell'ente locale».
2.3. Nel merito, ai fini della
risoluzione della questione di massima in esame, dirimente è la
ricostruzione del quadro normativo in cui si colloca l’erogazione del
servizio di trasporto scolastico comunale.
Ciò al fine di inquadrare
correttamente sia la natura del servizio che la valenza della clausola di invarianza della spesa prescritta dall’art. 5 del d.lgs. 13.04.2017, n.
63 a mente del quale: «1. Nella programmazione dei servizi di trasporto e
delle forme di agevolazione della mobilità, per le alunne e gli alunni, le
studentesse e gli studenti sono incentivate le forme di mobilità sostenibile
in coerenza con quanto previsto dall'articolo 5 della legge 28.12.2015, n. 221.
2. Le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive
competenze, assicurano il trasporto delle alunne e degli alunni delle scuole
primarie statali per consentire loro il raggiungimento della più vicina sede
di erogazione del servizio scolastico. Il servizio è assicurato su istanza
di parte e dietro
pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o maggiori
oneri per gli enti territoriali interessati.
3. Tale servizio è assicurato
nei limiti dell'organico disponibile e senza nuovi o maggiori oneri per gli
enti pubblici interessati».
In particolare, assumono rilievo le conseguenze
da attribuirsi alla menzionata clausola di invarianza finanziaria, contenuta
al secondo comma, in uno con la previsione di pagamento di una quota di
partecipazione diretta di cui alla parte finale del medesimo comma.
2.4. Si
osserva, in proposito, che il d.lgs. 13.04.2017, n. 63 -recante la
disciplina in materia di «Effettività del diritto allo studio attraverso la
definizione delle prestazioni, in relazione ai servizi alla persona, con
particolare riferimento alle condizioni di disagio e ai servizi strumentali,
nonché potenziamento della carta dello studente, a norma dell'articolo 1,
commi 180 e 181, lettera f), della legge 13.07.2015, n. 107»- si
inserisce in un contesto ordinamentale di riforme del settore finalizzate
principalmente ad affermare il ruolo centrale della scuola nella società
della conoscenza, ad innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle
studentesse e degli studenti per contrastare anche le diseguaglianze
socio-culturali e territoriali, per prevenire e recuperare l'abbandono e la
dispersione scolastica, in coerenza con il profilo educativo, culturale e
professionale dei diversi gradi di istruzione, per garantire il diritto allo
studio, le pari opportunità di successo formativo e di istruzione permanente
dei cittadini (art. 1 L. n. 107/2015).
Infatti la legge 13.07.2015, n.
107, recante la “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e
delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti”, ha delegato
il Governo ad adottare, entro i diciotto mesi successivi alla sua entrata in
vigore, uno o più decreti legislativi al fine di provvedere al riordino,
alla semplificazione e alla codificazione delle disposizioni legislative in
materia di istruzione (art. 1, comma 180), nel rispetto dei principi e
criteri direttivi ivi contemplati (art. 1, comma 181) tra cui anche quello
volto a garantire l’effettività «del diritto allo studio su tutto il
territorio nazionale, nel rispetto delle competenze delle regioni in tale
materia, attraverso la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni,
sia in relazione ai servizi alla persona, con particolare riferimento alle
condizioni di disagio, sia in relazione ai servizi strumentali … (lett. f)».
In attuazione di detta delega il menzionato d.lgs. 13.04.2017, n. 63
individua e definisce, compatibilmente con le risorse umane, finanziarie e
strumentali disponibili, le modalità delle prestazioni in materia di diritto
allo studio, in relazione ai servizi erogati dallo Stato, dalle regioni e
dagli enti locali nel rispetto delle competenze e dell'autonomia di
programmazione finalizzati a perseguire su tutto il territorio nazionale
l'effettività del diritto allo studio delle alunne e degli alunni, delle
studentesse e degli studenti fino al completamento del percorso di
istruzione secondaria di secondo grado. Il decreto definisce, altresì, le
modalità per l'individuazione dei requisiti di eleggibilità per l'accesso
alle prestazioni da assicurare sul territorio nazionale e individua i
principi generali per il potenziamento della Carta dello studente (art. 1).
A tal fine il successivo art. 2 dispone che lo Stato, le regioni e gli
enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze e nei limiti delle
effettive disponibilità finanziarie, umane e strumentali disponibili a
legislazione vigente, devono programmare gli interventi per il sostegno al
diritto allo studio delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli
studenti al fine di fornire, su tutto il territorio nazionale, una serie di
servizi, puntualmente identificati, che, ai sensi del successivo art. 3,
devono essere «erogati in forma gratuita ovvero con contribuzione delle
famiglie a copertura dei costi, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica».
In caso di contribuzione delle famiglie, il medesimo art. 3, co.
2, stabilisce che «gli enti locali individuano i criteri di accesso ai
servizi e le eventuali fasce tariffarie in considerazione del valore
dell'indicatore della situazione economica equivalente, di seguito
denominato ISEE, ferma restando la gratuità totale qualora già prevista a
legislazione vigente».
Tra i servizi da garantire su tutto il territorio
nazionale per rendere effettivo il diritto allo studio, di cui al primo
comma dell’art. 2 sopra menzionato, il legislatore colloca alla lett. a) -e, quindi, al primo posto- i “servizi di trasporto e forme di agevolazione
della mobilità”. In ragione del combinato disposto degli artt. 2, co. 1,
lett. a), e dell’art. 3 successivo, detti servizi dovrebbero, quindi, essere
erogati in forma gratuita oppure con contribuzione delle famiglie, previa
individuazione dei criteri di differenziazione per le tariffe. Ciò in quanto
servizi essenziali a garanzia del diritto allo studio, contemplato e
garantito dalla Carta Costituzionale.
Si osserva, a tal proposito, che la
Costituzione all’art. 34, nel contemplare e garantire il diritto allo studio
(“La scuola è aperta a tutti”) dispone l’obbligatorietà dell’istruzione
inferiore per almeno otto anni che, in quanto tale, deve essere gratuita,
nonché il diritto dei capaci e meritevoli a raggiungere i gradi più elevati
del percorso scolastico («L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto
anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di
mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La
Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle
famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»).
Giova, inoltre, ricordare che, l’art. 3 Cost. pone a carico della Repubblica
l’onere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana. Alla luce di tale contesto
costituzionale va analizzato, in particolare, il successivo art. 5 del
menzionato d.lgs. n. 63/2017.
Detto articolo, rubricato genericamente
“Servizi di trasporto e forme di agevolazione della mobilità”, oltre a
promuovere l’incentivazione delle forme di mobilità sostenibile in coerenza
con quanto previsto dall'articolo 5 della legge 28.12.2015, n. 221 -recante le “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali"-
disciplina, nello specifico, il servizio di trasporto scolastico per le cd.
“fasce protette”, in ragione della giovane età, di studenti.
Infatti, stabilisce espressamente che il servizio di trasporto scolastico
deve essere assicurato alle “alunne” e agli “alunni” delle “scuole primarie
statali” -quindi ad una utenza circoscritta in maniera puntuale,
individuata negli studenti della c.d “scuola dell’obbligo”- al fine di
«consentire loro il raggiungimento della più vicina sede di erogazione del
servizio scolastico» e, quindi, allo scopo di garantire effettivamente agli
stessi il diritto allo studio.
Detto diritto, infatti, in assenza del
servizio, potrebbe risultare compromesso dalle probabili difficoltà insite
nel raggiungimento della sede scolastica da parte dei predetti alunni/alunne
che, in quanto minori, necessitano di essere accompagnati. La norma
qualifica espressamente anche la natura del servizio e le modalità di
copertura. Dispone, infatti, che il servizio «è assicurato su istanza di
parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi
o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati». La clausola di invarianza viene ulteriormente ribadita al comma 3 laddove si dispone che
«tale servizio è assicurato nei limiti dell'organico disponibile e senza
nuovi o maggiori oneri per gli enti pubblici interessati».
2.5. Fermo
restando quanto sin qui evidenziato, ai fini della compiuta valutazione
della questione di massima all’esame occorre ora soffermarsi brevemente sui
concetti di “trasporto pubblico locale” e di “servizio pubblico a domanda
individuale” sui quali si fonda essenzialmente la risoluzione dei quesiti
sottoposti all’attenzione delle Sezioni regionali di controllo di cui si è
già detto.
Quanto al “trasporto pubblico locale” deve richiamarsi l’art. 1, co. 2, del d.lgs. 19.11.1997, n. 422 (Conferimento alle regioni ed
agli enti locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico
locale, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15.03.1997, n. 59)
in base al quale: «2. Sono servizi pubblici di trasporto regionale e locale
i servizi di trasporto di persone e merci, che non rientrano tra quelli di
interesse nazionale tassativamente individuati dall'articolo 3; essi
comprendono l'insieme dei sistemi di mobilità terrestri, marittimi,
lagunari, lacuali, fluviali e aerei che operano in modo continuativo o
periodico con itinerari, orari, frequenze e tariffe prestabilite, ad accesso
generalizzato, nell'ambito di un territorio di dimensione normalmente
regionale o infra-regionale».
Ne discende che un servizio può essere
qualificato come “trasporto pubblico locale” se ed in quanto ricomprenda
tutto l’insieme dei sistemi di mobilità operanti sul territorio in modo
continuativo e/o periodico che si caratterizzino per: − l’oggetto del
trasporto, che indifferentemente può essere di persone o merci, ovvero
entrambe; − la fruizione, in quanto ad accesso generalizzato nell’ambito di
un territorio di dimensione regionale o infra-regionale. Per la fruizione
del servizio non vi sono condizioni di accesso salvo il pagamento del
biglietto; − la predeterminazione degli itinerari, degli orari e delle
tariffe.
In conseguenza, il servizio di trasporto scolastico non può essere
qualificato come “trasporto pubblico locale” in quanto privo degli elementi
qualificanti di questo. Al trasporto scolastico infatti può accedere solo
una ben precisa tipologia di utenza (studenti residenti sul territorio e per
il servizio di cui all’art. 5, co. 2, solo studenti della scuola primaria
statale), i percorsi e gli orari sono strettamente funzionali alla fruizione
del servizio scolastico e non vi è una tariffazione ma, al più, una
contribuzione.
Quanto alla qualificazione del “servizio pubblico a domanda
individuale” soccorre il Decreto ministeriale 31.12.1983 -emanato dal
Ministero dell'Interno di concerto con i Ministeri del Tesoro e delle
Finanze, ai sensi e per gli effetti dell'art. 6 del d.l. 28.02.1983,
n. 55, convertito, con modificazioni, nella legge 26.04.1983, n. 131,
recante “Provvedimenti urgenti per il settore della finanza locale per
l'anno 1983”- alla luce del quale per servizi pubblici a domanda individuale
devono intendersi tutte quelle attività gestite direttamente dall'ente, che
siano poste in essere non per obbligo istituzionale oppure che vengono
utilizzate a richiesta dell'utente e che non siano state dichiarate gratuite
per legge nazionale o regionale.
Ad ogni modo non possono essere considerati
servizi pubblici a domanda individuale quelli a carattere produttivo, per i
quali il regime delle tariffe e dei prezzi esula dalla disciplina del
menzionato art. 6 del decreto-legge 28.02.1983, n. 55. Il D.M.
individua le categorie dei servizi pubblici locali a domanda individuale
tenuto conto che, ai sensi del primo comma dello stesso art. 6 del d.l. 28.02.1983, n. 55, sono comunque compresi fra detti servizi gli asili
nido, i bagni pubblici, i mercati, gli impianti sportivi, i trasporti
funebri, le colonie ed i soggiorni, i teatri ed i parcheggi comunali e che,
ai sensi del combinato disposto dell'ultimo comma del menzionato art. 6 e
dell'art. 3 del decreto-legge 22.12.1981, n. 786, convertito in legge
26.02.1982, n. 51, sono esclusi dalla disciplina ivi prevista i
servizi gratuiti per legge statale o regionale, quelli finalizzati
all'inserimento sociale dei portatori di handicap, quelli per i quali le
(allora) vigenti norme prevedevano la corresponsione di tasse, diritti o di
prezzi amministrati ed i servizi di trasporto pubblico.
La qualificazione di
servizio pubblico a domanda individuale implica la predeterminazione della
misura percentuale della quota dei costi complessivi da finanziarsi da
tariffe o contribuzioni, in forza del già richiamato art. 6 del d.l.
55/1983, il quale stabilisce che: «Le province, i comuni, i loro consorzi e
le comunità montane sono tenuti a definire, non oltre la data della
deliberazione del bilancio, la misura percentuale dei costi complessivi di
tutti i servizi pubblici a domanda individuale -e comunque per gli asili
nido, per i bagni pubblici, per i mercati, per gli impianti sportivi, per il
servizio trasporti funebri, per le colonie e i soggiorni, per i teatri e per
i parcheggi comunali- che viene finanziata da tariffe o contribuzioni ed
entrate specificamente destinate. 2. Con lo stesso atto vengono determinate
le tariffe e le contribuzioni (….). Omissis
5.1. (…) L'individuazione dei costi di ciascun anno è fatta con riferimento
alle previsioni di bilancio dell'anno relativo». Il servizio di trasporto
scolastico non è ricompreso nell’elenco di cui al richiamato DM 31.12.1983. Ciò ha determinato l’univoco orientamento giurisprudenziale, in
precedenza richiamato, che ha ritenuto che «il servizio di trasporto
scolastico sia pleno iure un servizio pubblico di trasporto, e, come tale,
escluso dalla disciplina normativa dei servizi pubblici a domanda
individuale» (cfr., Corte dei conti, Sezioni regionali di controllo:
Campania,
parere 21.06.2017 n. 222; Sicilia,
parere 25.02.2015 n. 115
e
parere 10.10.2018 n. 178; Piemonte,
parere 06.06.2019 n. 46; Puglia,
parere 25.07.2019 n. 76).
Più risalente nel tempo, anche se nella piena vigenza del richiamato decreto
interministeriale, la
parere 14.09.2011 n. 80
della Sezione Regionale di controllo per il Molise in cui è stato, invece, sostenuto che, sebbene il servizio di
trasporto scolastico non sia ricompreso nell’elenco di cui al richiamato art. 6
del d.l. n. 55/1983, convertito nella legge 26.04.1983, n. 131, in
relazione allo stesso «possa agevolmente affermarsi che, per le sue
caratteristiche, rientri nel concetto di servizio a domanda individuale.
Condizione fondamentale della decisione di attivare o meno un servizio a
domanda individuale è che sussistano nell’ente le condizioni economiche per
farlo».
Alla luce del richiamato quadro normativo, tuttavia, nonostante ne
presenti alcuni tratti caratteristici, osta alla qualificazione del servizio
di trasporto scolastico come “servizio pubblico a domanda individuale” la
circostanza che la sua erogazione è doverosa per legge.
2.6. Per le
motivazioni di cui appresso, infatti, l’unica qualificazione del servizio di
che trattasi rispettosa del dettato normativo che ne disciplina
l’erogazione, porta a ricondurre il trasporto scolastico ad un servizio
pubblico essenziale a garanzia del primario diritto allo studio la cui
mancata fruizione può, di fatto, inibire allo studente il raggiungimento
della sede scolastica, con conseguente illegittima compressione del diritto
costituzionalmente garantito.
Si impone, quindi, una lettura coordinata
degli artt. 1, 2, 3 e 5 del d.lgs. n. 63/2017 che, come già evidenziato,
detta le disposizioni per rendere effettivo il diritto allo studio
attraverso la definizione delle prestazioni, in relazione ai servizi alla
persona, con particolare riferimento alle condizioni di disagio e ai servizi
strumentali, nonché al potenziamento della carta dello studente di cui al
successivo art. 10.
I richiamati articolati di legge qualificano i servizi
essenziali, i beneficiari degli stessi nonché le modalità di erogazione del
servizio di trasporto scolastico che deve essere erogato, in via generale,
alle «alunne e alunni, studentesse e studenti fino al completamento del
percorso di istruzione secondaria di secondo grado» e, in particolare,
assicurato alle “alunne” e agli “alunni”, della sola scuola primaria
statale, cioè agli studenti della cd. “scuola dell’obbligo”, appartenenti
alla fascia di età più giovane, al fine di consentire loro la possibilità di
raggiungere la sede più vicina in cui possono usufruire del servizio
scolastico.
Per detto servizio il legislatore fa esplicito riferimento al servizio di
trasporto scolastico e dispone che l’accesso avvenga su istanza di parte e
dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o
maggiori oneri per gli enti territoriali interessati.
Ne consegue che il
servizio di che trattasi, per le sue peculiari caratteristiche, assolve alle
funzioni di servizio pubblico essenziale posto a garanzia del diritto allo
studio, diritto contemplato e garantito dalla Carta Costituzionale, la cui
erogazione, nella ricorrenza dei presupposti di legge, deve essere
assicurata da tutti i soggetti costituenti la Repubblica Italiana (art. 114 Cost.) sulla base del principio di sussidiarietà verticale, in conformità al
quale l’erogazione del servizio spetta all’Ente Locale, in quanto soggetto
più prossimo al cittadino.
La norma stessa, poi, stabilisce che, al pari
degli altri servizi contemplati nell’art. 2 (mensa, fornitura dei libri di
testo e degli strumenti didattici indispensabili negli specifici corsi di
studi, quelli per le alunne e gli alunni, le studentesse e gli studenti
ricoverati in ospedale, in case di cura e riabilitazione, nonché per
l'istruzione domiciliare), il servizio di trasporto scolastico può essere
erogato in forma gratuita, oppure con contribuzione delle famiglie: in tal
caso previa individuazione da parte dell’Ente Locale dei criteri di accesso
ai servizi e delle eventuali fasce tariffarie in considerazione del valore
dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), ferma
restando la gratuità totale qualora già prevista a legislazione vigente e
ferma restando la clausola di invarianza finanziaria (senza nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica).
La disposizione, quindi, non esclude né la
possibile erogazione a titolo gratuito del servizio, né la possibile
gradazione della contribuzione delle famiglie in conseguenza delle diverse
situazioni economiche in cui le stesse versano. Detti servizi, infatti,
essendo rimessi all'autonomia degli enti locali nei limiti delle risorse
disponibili, non comportano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica,
così come precisato nella Relazione Tecnica a corredo della legge in esame.
Quanto, poi, al servizio di trasporto scolastico di cui all’art. 5, co. 2,
le modalità di erogazione e di copertura sono già stabilite della norma: il
servizio è assicurato ad istanza di parte e dietro pagamento di una quota di
partecipazione diretta, fermo restando che l’erogazione non deve comportare
nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati.
Anche in tale
caso, la disciplina legislativa non impone la copertura del servizio a
totale carico dell’utenza. Riprova ne è la previsione espressa della
clausola di invarianza finanziaria («l’erogazione non deve comportare nuovi
o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati») che, diversamente
opinando, non avrebbe avuto alcuna utilità e, anzi, sarebbe stata
incongruente con la previsione di una copertura integrale del costo del
servizio da parte dei beneficiari.
Si osserva, sul punto, che, a livello
generale e sia pure in occasione di altre e diverse problematiche
interpretative, la clausola di invarianza finanziaria è stata intesa dalla
magistratura contabile, nel senso che l’amministrazione deve provvedere
attingendo alle
“ordinarie” risorse finanziarie, umane e materiali di cui può disporre a
legislazione vigente. «L’invarianza non preclude la spesa “nuova” solo
perché non precedentemente sostenuta o “maggiore” perché di importo
superiore alla precedente previsione (laddove prevista), ma la decisione di
spesa comporterà “oneri” nuovi e maggiori se aggiuntivi ed esondanti
rispetto alle risorse ordinarie (finanziarie, umane e materiali) che a
legislazione vigente garantiscono l’equilibrio di bilancio» (in termini,
Sezione regionale di controllo per la Campania,
parere 06.05.2019 n. 102).
Ne consegue che la previsione di bilancio costituisce sia il presupposto che
il limite della spesa complessivamente ammessa.
3. In conclusione, dal
ricostruito quadro normativo di riferimento e dall’esame delle finalità
perseguite dal legislatore con la riforma del sistema nazionale di
istruzione e formazione, emerge che, se da un lato la copertura dei servizi
pubblici generali e di quelli a domanda individuale o ad istanza di parte,
deve avvenire in equilibrio economico-finanziario ai sensi dell’art. 117 TUEL, dall’altro la fruibilità del servizio di trasporto scolastico comunale
è rilevante ai fini della concreta implementazione di misure che
garantiscano il diritto allo studio, tutelato a livello costituzionale dagli
artt. 3, 33 e 34 Cost. e da intendersi nel senso di possibilità, per
chiunque ed a prescindere dalla sua situazione economica, di accedere al
sistema scolastico: diritto cui lo Stato deve far fronte atteso che l’art. 3
Cost. pone a suo carico l’onere di rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Si ricorda tra
l’altro che, come in precedenza già precisato, «l’istruzione inferiore,
impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita» (art. 34 Cost.).
Pertanto, il punto di equilibrio tra i due valori costituzionalmente
tutelati (equilibrio di bilancio e diritto allo studio) non può prescindere
da una lettura delle disposizioni di cui all’art. 117 del TUEL e del comma 2
dell’art. 5 del d.lgs. n. 63/2017, in uno con i precedenti art. 2 e 3, che
consenta agli Enti, nell’ambito della propria autonomia finanziaria e nel
rispetto degli equilibri di bilancio, quali declinati dalla legge 30.12.2018, n. 145 (presenza di un risultato di competenza non negativo
desumibile, per ciascun anno dal prospetto della verifica degli equilibri
allegato al rendiconto di gestione), nonché della clausola d’invarianza
finanziaria, di dare copertura finanziaria al servizio con risorse proprie
e, di conseguenza, da un lato, di erogare gratuitamente il servizio nei
confronti delle categorie di utenti più deboli e/o disagiati, laddove
sussista un rilevante e preminente interesse pubblico, e, dall’altro, di
definire un piano diversificato di contribuzione delle famiglie beneficiarie
del servizio, secondo le modalità della norma generale di cui all’articolo
3.
4. Si evidenzia, infine, che la problematica sottoposta a questa Sezione
aveva trovato soluzione nell’ambito del decreto-legge recante «Misure di
straordinaria necessità ed urgenza nei settori dell’istruzione,
dell’università, della ricerca e dell’alta formazione artistica musicale e
coreutica» (cd. decreto “Scuola”), approvato dal Consiglio dei ministri il
06.08.2019, che all’art. 5 -rubricato “Disposizioni urgenti in materia di
servizi di trasporto scolastico”– si esprimeva in senso conforme alle
odierne conclusioni.
Per tale decreto, approvato “salvo intese”, era stata
prevista la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale entro il 28 agosto u.s..
Tuttavia, il previsto termine è spirato inutilmente, comportando di
conseguenza la mancata entrata in vigore della norma.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla
questione di massima sollevata dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani –ANCI–
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, come
modificato dall’art. 10-bis del d.l. 24.06.2016, n. 113, convertito dalla l.
07.08.2016, n. 160, enuncia il seguente principio di diritto:
«Gli Enti locali, nell’ambito della propria autonomia
finanziaria, nel rispetto degli equilibri di bilancio, quali declinati dalla
legge 30.12.2018, n. 145 (legge di bilancio 2019) e della clausola d’invarianza
finanziaria, possono dare copertura finanziaria al servizio di trasporto
scolastico anche con risorse proprie, con corrispondente minor aggravio a
carico all’utenza.
Fermo restando i principi di cui sopra, laddove l’Ente ne ravvisi la
necessità motivata dalla sussistenza di un rilevante e preminente interesse
pubblico oppure il servizio debba essere erogato nei confronti di categorie
di utenti particolarmente deboli e/o disagiati, la quota di partecipazione
diretta dovuta dai soggetti beneficiari per la fruizione del servizio può
anche essere inferiore ai costi sostenuti dall’Ente per l’erogazione dello
stesso, o nulla o di modica entità, purché individuata attraverso
meccanismi, previamente definiti, di gradazione della contribuzione degli
utenti in conseguenza delle diverse situazioni economiche in cui gli stessi
versano» (Corte dei Conti,
Sez. Autonomie,
deliberazione 18.10.2019 n. 25). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Per
l’erogazione dell'incentivo l’ente deve munirsi di un apposito regolamento,
essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra
gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e la sede idonea,
unitamente alla contrattazione decentrata, per circoscrivere
dettagliatamente le condizioni alle quali gli incentivi possono essere
erogati.
Appare, altresì, opportuno rammentare che l’art. 113 D.lgs.
n. 50/2016 contiene un sistema compiuto di vincoli per l’erogazione degli
incentivi stessi e contestualmente ricordare come, per effetto delle
modifiche apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs.
n. 56 del 2017, i compensi incentivanti in parola siano erogabili, in caso
di servizi o forniture, solo laddove sia stato nominato il direttore
dell’esecuzione, nomina richiesta
“secondo le Linee guida
ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e servizi di
importo superiore a 500.000 euro ovvero di particolare complessità”.
Ciò in quanto gli incentivi per le funzioni tecniche vanno
a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili,
direttamente correlati all’adempimento dello specifico compito. Tali
compensi, infatti, non sono rivolti indiscriminatamente al personale
dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”)
nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori. Si tratta,
quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati
dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito
di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge.
Alla luce del suesposto quadro normativo è
incontrovertibile che gli incentivi per funzioni tecniche possono essere
riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di
lavori, servizi o forniture che, secondo la legge, comprese le direttive
ANAC (ben note all’amministrazione richiedente)
o il regolamento dell’ente,
siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa e,
relativamente agli appalti relativi a servizi e forniture, la disciplina sui
predetti incentivi si applica solo “nel caso in cui è nominato il
direttore dell’esecuzione”.
Quest’ultima circostanza, si ricorda,
ricorre soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a
€ 500.000 ovvero di particolare complessità.
In mancanza di una procedura di gara l’art. 113, comma 2,
del decreto legislativo n. 50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle
risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione.
Le predette circostanze, all’evidenza, non ricorrono per i
casi in cui il codice prevede la possibilità di affidamento diretto e,
pertanto, in assenza dei presupposti normativi legittimanti l’erogazione
degli incentivi di che trattasi, va data risposta negativa al primo
quesito formulato dall’amministrazione comunale.
---------------
L’applicabilità degli
incentivi, nell’ambito dei contratti di affidamento di servizi e forniture,
è contemplata soltanto “nel caso in cui sia nominato il direttore
dell’esecuzione” (parte
finale del comma 2, come modificata, in senso limitativo, dall’art. 76,
comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 56/2017), inteso quale
soggetto autonomo e diverso dal RUP, e tale distinta nomina è
richiesta soltanto negli appalti di forniture o servizi di importo superiore
a € 500.000,00 ovvero di particolare complessità, con valutazione spettante
ai dirigenti secondo quanto specificato al punto 10 delle citate Linee guida
emanate dall’ANAC per disciplinare in modo più dettagliato “Nomina, ruolo
e compiti del RUP, per l’affidamento di appalti e concessioni”.
In specie, premesso che l’art. 111, comma 2, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e
s.m.i. prevede che, di norma, il direttore dell’esecuzione del contratto
di servizi o di forniture coincida con il responsabile unico del
procedimento, la particolare complessità che giustifica
la scissione delle due figure viene individuata, dalla disciplina di
attuazione del codice contenuta nelle citate Linee guida, espressamente ed a
prescindere dal valore delle prestazioni, nelle seguenti circostanze:
- interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico
(lett. b);
- prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di
competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture
sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione,
vigilanza, socio sanitario, supporto informatico) lett. c);
- interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di
processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per
quanto riguarda la loro funzionalità (lett. d);
- per ragioni concernenti l’organizzazione interna alla stazione
appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa
da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento (lett.
e).
Dal quadro normativo sopra richiamato non si evincono
ulteriori fattispecie che legittimino la nomina del direttore
dell’esecuzione al di fuori delle ipotesi contemplate.
Ne consegue che la disciplina sugli incentivi non può
trovare applicazione in tutti i casi in cui la legge non prevede la figura
disgiunta del direttore dell’esecuzione rispetto a quella del Rup.
In proposito deve osservarsi, anche, che la giurisprudenza
contabile è concorde nell’escludere l’incentivabilità di funzioni o attività
diverse da quelle considerate dall’art. 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50/2016. Ciò al fine di evitare
un ingiustificato ampliamento dei soggetti beneficiari dell’incentivo
stesso, con il ragionevole rischio di elusione del limite espressamente
posto dall'art. 113, comma 2, ultimo periodo, che a chiare lettere
riconduce, e circoscrive, gli incentivi per gli appalti di servizi o
forniture alle ipotesi sopra rappresentate.
Ne consegue, pertanto, che per le argomentazioni già
rappresentate in tema di presupposti normativi legittimanti l’erogazione
degli incentivi di che trattasi, va data risposta negativa anche al
secondo quesito formulato dall’amministrazione comunale.
----------------
1. Il Sindaco del Comune di Cappella Maggiore (TV) ha inviato una
richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge
05.06.2003, n. 131, in merito alla corretta applicazione della norma sugli
incentivi per funzioni tecniche per appalti relativi a servizi e forniture
(art. 113 d.lgs. n. 50/2016) estrinsecantesi in due quesiti specifici.
1.1. Il primo dei quesiti formulati, coinvolge i primi due commi
dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 ed, in particolare, il comma 2 in base
al quale le amministrazioni aggiudicatrici “destinano ad un apposito
fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure
di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei
lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo
ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di
gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti (…) La disposizione di
cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture
nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”.
Sull’interpretazione di tale disposizione, il Sindaco istante richiama gli
orientamenti formulati dalla magistratura contabile in sede consultiva (in
particolare: Sezione regionale di controllo per le Marche,
parere 08.06.2018 n. 28 e questa Sezione,
parere 07.01.2019 n. 1) in base ai quali l’incentivo è
subordinato all’esperimento di una gara o comunque di una procedura
comparativa.
A tal proposito, il Sindaco osserva che l’art. 36, comma 2, lett. a), del
d.lgs. n. 50/2016 prevede che l’affidamento di lavori, servizi e forniture
di importo inferiore ad € 40.000,00 può avvenire mediante affidamento
diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici,
all’uopo osservando che: “di norma gli Uffici dell'Ente istante,
conformemente ad una pratica diffusa presso anche altri enti, procedono ad
affidamenti diretti di lavori, servizi e forniture con consultazione di due
o più preventivi. In alcuni casi la consultazione viene preceduta da
un'indagine di mercato attivate attraverso una richiesta di manifestazione
d'interesse.
Più in particolare l'Ente pubblica sul proprio sito internet una richiesta
di manifestazione d'interesse per l'affidamento diretto ai sensi dell'art.
36, comma 2, lett. a), del D.lgs. 50/2016 di un determinato lavoro, servizio
fornitura specificando di norma l'importo stimato dell'affidamento,
eventuali requisiti di partecipazione e gli elementi essenziali del
contratto. Pervenute le manifestazioni d'interesse da parte degli operatori
economici interessati, l'Ente richiede un preventivo per l'affidamento
diretto ai sensi dell'art. 36, comma 2, lett. a), del D.lgs. 5012076 a tutti
i soggetti (od ad alcuni di essi) che hanno manifestato l'interesse e
successivamente, valutati i preventivi pervenuti, procede ad affidamento
diretto.
In altri casi la consultazione di due o più preventivi non è preceduta
dall'attività sopradescritta ma l'Ufficio competente procede alla
consultazione di due o più preventivi mediante richiesta diretta ai vari
operatori economici eventualmente selezionati da un registro/albo detenuto
dall'Ente”.
Ciò precisato, l’Ente chiede di sapere se le procedure di affidamento
sopradescritte -affidamento diretto di lavori, servizi e forniture per
importi inferiori a € 40.000,00 attraverso consultazione degli operatori
previa richiesta di manifestazione di interesse oppure richiesta diretta di
due o più preventivi– configurino “una procedura comparativa e quindi,
possano, nel rispetto dell’autonomie regolamentare dell’ente, costituire
presupposto per la costituzione del fondo di cui all’art. 113, comma 2, del
d.lgs. 50/2016”.
1.2. Il secondo dei quesiti formulati coinvolge un altro aspetto del
richiamato comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 che, all'ultimo
periodo, subordina la possibilità di attribuzione dell'incentivo per
funzioni tecniche relative all’affidamento di servizi e forniture alla
circostanza che sia nominato il Direttore dell'Esecuzione.
In proposito il richiedente premesso che: “le Linee Guida Anac n.
3 concernente "Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del
procedimento per l'affidamento di appalti e concessioni' pubblicate sulla
Gazzetta Ufficiale n. 273 del 27.11.2016 e successivamente modificate nel
corso del 2017 dedicano una specifica sezione al Responsabile
dell'esecuzione negli appalti di servizi e forniture (paragrafi 8-9-10). In
particolare il RUP, salvo i casi previsti dal paragrafo 10, svolge anche il
ruolo di Direttore dell'esecuzione” chiede di sapere “se nel caso
di coincidenza delle funzioni di Rup e di Direttore dell'esecuzione,
indipendentemente dalla presenza di un formale atto di nomina del Rup quale
Direttore dell'esecuzione (probabilmente ultroneo stante le indicazioni del
paragrafo 8 delle Linee Guida ANAC n. 3), possano essere accantonate le
relative risorse e procedere quindi alla distribuzione dell'incentivo”.
...
3.1. Ciò precisato si procede all’esame dei quesiti sottoposti
dall’Amministrazione comunale, offrendo, per le motivazioni di cui sopra,
una lettura interpretativa delle norme che regolano la materia in oggetto.
Con il primo dei quesiti formulati l’Ente chiede di sapere se
l’affidamento diretto di lavori, servizi e forniture ai sensi dell’art. 36,
comma 2, lett. a), del d.lgs 50/2016, cioè per importi inferiori a 40.000,00
euro, attraverso consultazione degli operatori previa richiesta di
manifestazione di interesse oppure richiesta diretta di due o più
preventivi, configuri la procedura comparativa che legittima l’Ente, nel
rispetto della propria autonomia regolamentare, a costituire il fondo di cui
all’art. 113, comma 2, del d.lgs 50/2016.
Con il secondo quesito si chiede di sapere se nel caso di coincidenza
delle funzioni di Rup e di Direttore dell’esecuzione, indipendentemente
anche da un atto formale di nomina del Rup quale direttore dell’esecuzione,
possono essere accantonate le relative risorse e procedere quindi alla
distribuzione dell’incentivo,
Ad entrambi i quesiti, per le motivazioni di cui appresso, deve essere data
risposta negativa.
3.2. Si premette che la risoluzione di entrambi i quesiti si colloca
nell’alveo del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016 e
s.m.i.) e, precisamente dell’art. 113, da esaminarsi in combinato disposto
con gli artt. 31 e 213, nei testi aggiornati dapprima dal d.lgs. 19.04.2017,
n. 56 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo
18.04.2016, n. 50), dall’art. 1, comma 526, della L. 27.12.2017, n. 205
(Legge di bilancio 2018), e, quindi dal d.l. 18.04.2019, n. 32 (Disposizioni
urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per
l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e
di ricostruzione a seguito di eventi sismici) nonché con le disposizioni di
“maggior dettaglio” dettate dall’ANAC ai sensi del richiamato art.
31, comma 5, attraverso le Linee guida n. 3, recanti: “Nomina, ruolo e
compiti del responsabile unico dei procedimenti per l'affidamento di appalti
e concessioni”, approvate dal Consiglio dell’Autorità con deliberazione
n. 1096 del 26.10.2016 ed aggiornate al d.lgs. 56 del 19/04/2017 con
deliberazione del Consiglio n. 1007 dell’11.10.2017, aventi natura
vincolante (Consiglio di Stato, parere n. 2044/2017).
Si evidenzia, peraltro, che a seguito dell’intervenuto d.l. 18.04.2019, n.
32 cit., le Linee guida dell’ANAC ex art. 31, comma 5, d.lgs. 50/2016,
unitamente ai decreti adottati in attuazione delle previgenti disposizioni,
dovranno essere sostituite dal regolamento unico recante disposizioni di
esecuzione, attuazione e integrazione del codice degli appalti, di cui al
novellato art. art. 216, comma 27-octies, da emanarsi, entro 180 giorni
dalla data di entrata in vigore della relativa disposizione, ai sensi
dell'articolo 17, comma 1, lettere a) e b), della legge 23.08.1988, n. 400,
su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto
con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza
Stato-Regioni.
Le richiamate Linee guida, pertanto, troveranno applicazione fino alla data
di entrata in vigore del predetto regolamento. Inoltre, va ulteriormente
osservato che, per espressa volontà legislativa, le novelle così introdotte
al d.lgs. 50/2016, trovano applicazione per le procedure i cui bandi o
avvisi, con i quali si indice una gara, sono pubblicati successivamente alla
data del 19.04.2019 (data di entrata in vigore del d.l.), nonché, in caso di
contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, per le procedure in cui,
alla medesima data, non sono ancora stati inviati gli inviti a presentare le
offerte.
Ciò precisato, ai fini della risoluzione delle questioni sottoposte, rileva
l’art. 113, laddove, nel dettare la disciplina dei nuovi “incentivi per
funzioni tecnici”, prescrive (testo vigente dal 19.04.2019) che: “Gli
oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al
direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e
amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico,
agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n.
81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la
redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico
agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti” (comma 1) e che “a valere sugli stanziamenti di cui al
comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le
attività di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di
progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della progettazione
[modifica introdotta dal D.L. 18.04.2019, n. 32 art. 1, comma 1 lett. aa)] ,
di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del
contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi
e costi prestabiliti. (…..) La disposizione di cui al presente comma si
applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è
nominato il direttore dell'esecuzione” (comma 2).
Il D.L. 18.04.2019, n. 32 ha disposto, altresì, che anche la suesposta
modifica all’art. 113, comma 2, trova applicazione per le procedure i cui
bandi o avvisi, con i quali si indice una gara, sono pubblicati
successivamente alla data del 19.04.2019 (data di entrata in vigore del
decreto), nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o
avvisi, alle procedure in cui, alla medesima data, non sono ancora stati
inviati gli inviti a presentare le offerte.
La citata norma dispone che la ripartizione della parte più consistente
delle risorse (l’80% del fondo costituito ai sensi del comma 2) debba
avvenire “per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le
modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico
del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al
comma 2 nonché tra i loro collaboratori. (…..) La corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio
preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche
attività svolte dai predetti dipendenti (…)” (comma 3).
Va rilevato, quindi, che per l’erogazione di detti
incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la
condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto
delle risorse accantonate sul fondo e la sede idonea, unitamente alla
contrattazione decentrata, per circoscrivere dettagliatamente le condizioni
alle quali gli incentivi possono essere erogati
(Sezione delle autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6 cit.; Sezione Regionale di
Controllo per il Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353).
Appare, altresì, opportuno rammentare che l’art. 113 D.lgs.
n. 50/2016 contiene un sistema compiuto di vincoli per l’erogazione degli
incentivi stessi e contestualmente ricordare come, per effetto delle
modifiche apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs.
n. 56 del 2017, i compensi incentivanti in parola siano erogabili, in caso
di servizi o forniture, solo laddove sia stato nominato il direttore
dell’esecuzione, nomina richiesta
-come ricordato recentemente anche dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione
09.01.2019 n. 2)- “secondo le Linee guida
ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e servizi di
importo superiore a 500.000 euro ovvero di particolare complessità”.
Ciò in quanto gli incentivi per le funzioni tecniche vanno
a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili,
direttamente correlati all’adempimento dello specifico compito. Tali
compensi, infatti, non sono rivolti indiscriminatamente al personale
dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”)
nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori. Si tratta,
quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati
dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito
di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge
(in termini, Sezione delle autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6.
In senso conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e
parere 21.09.2017 n. 108; SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
3.3. Alla luce del suesposto quadro normativo è
incontrovertibile che gli incentivi per funzioni tecniche possono essere
riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di
lavori, servizi o forniture che, secondo la legge, comprese le direttive
ANAC (ben note all’amministrazione richiedente) o il regolamento dell’ente,
siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa e,
relativamente agli appalti relativi a servizi e forniture, la disciplina sui
predetti incentivi si applica solo “nel caso in cui è nominato il
direttore dell’esecuzione” (cfr.
SRC Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 190; SRC Marche,
parere 08.06.2018 n. 28; SRC Veneto,
parere 27.11.2018 n. 455; SRC Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57).
Quest’ultima circostanza, si ricorda,
ricorre soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a
€ 500.000 ovvero di particolare complessità.
In mancanza di una procedura di gara l’art. 113, comma 2,
del decreto legislativo n. 50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle
risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione
(cfr.
parere 09.06.2017 n. 185 della Sezione regionale di controllo per
la Lombardia).
Le predette circostanze, all’evidenza, non ricorrono per i
casi in cui il codice prevede la possibilità di affidamento diretto e,
pertanto, in assenza dei presupposti normativi legittimanti l’erogazione
degli incentivi di che trattasi, va data risposta negativa al primo
quesito formulato dall’amministrazione comunale.
Analogamente, in relazione al secondo quesito si osserva che le
menzionate linee guida, in ossequio a quanto disposto dall’art. 31, comma 5,
della normativa di riferimento, stabiliscono (par. 10) l’importo massimo e
la tipologia di servizi e forniture per i quali il RUP può coincidere
con il progettista o con il direttore dell’esecuzione del
contratto e, nel contempo, precisano dettagliatamente i casi in cui
quest’ultimo deve essere soggetto diverso dal responsabile del
procedimento [par. 10.2, lett. da a) ad e)].
La determinazione dell’importo massimo individua con chiarezza il confine
che impone la differenziazione delle due figure professionali. Al di sotto
di detta soglia la nomina disgiunta delle stesse non è né necessaria, né
tanto meno prevista, in quanto “il responsabile del procedimento
svolge, nei limiti delle proprie competenze professionali, anche le funzioni
di progettista e direttore dell'esecuzione del contratto”
(par. 10.1): solo al superamento della stessa si impone la scissione delle
due figure. Dal quadro normativo non si evincono ulteriori fattispecie che
legittimino la nomina del direttore dell’esecuzione al di fuori delle
ipotesi contemplate.
Come già evidenziato, del resto, l’applicabilità degli
incentivi, nell’ambito dei contratti di affidamento di servizi e forniture,
è contemplata soltanto “nel caso in cui sia nominato il direttore
dell’esecuzione” (parte
finale del comma 2, come modificata, in senso limitativo, dall’art. 76,
comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 56/2017), inteso quale
soggetto autonomo e diverso dal RUP, e tale distinta nomina è
richiesta soltanto negli appalti di forniture o servizi di importo superiore
a € 500.000,00 ovvero di particolare complessità, con valutazione spettante
ai dirigenti secondo quanto specificato al punto 10 delle citate Linee guida
emanate dall’ANAC per disciplinare in modo più dettagliato “Nomina, ruolo
e compiti del RUP, per l’affidamento di appalti e concessioni”.
In specie, premesso che l’art. 111, comma 2, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e
s.m.i. prevede che, di norma, il direttore dell’esecuzione del contratto
di servizi o di forniture coincida con il responsabile unico del
procedimento, la particolare complessità che giustifica
la scissione delle due figure viene individuata, dalla disciplina di
attuazione del codice contenuta nelle citate Linee guida, espressamente ed a
prescindere dal valore delle prestazioni, nelle seguenti circostanze:
- interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico
(lett. b);
- prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di
competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture
sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione,
vigilanza, socio sanitario, supporto informatico) lett. c);
- interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di
processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per
quanto riguarda la loro funzionalità (lett. d);
- per ragioni concernenti l’organizzazione interna alla stazione
appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa
da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento (lett.
e).
Dal quadro normativo sopra richiamato non si evincono
ulteriori fattispecie che legittimino la nomina del direttore
dell’esecuzione al di fuori delle ipotesi contemplate.
Ne consegue che la disciplina sugli incentivi non può
trovare applicazione in tutti i casi in cui la legge non prevede la figura
disgiunta del direttore dell’esecuzione rispetto a quella del Rup.
In proposito deve osservarsi, anche, che la giurisprudenza
contabile è concorde nell’escludere l’incentivabilità di funzioni o attività
diverse da quelle considerate dall’art. 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50/2016 (Sezione
delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18; SRC Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204; SRC Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134; SRC per la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71). Ciò al fine di evitare
un ingiustificato ampliamento dei soggetti beneficiari dell’incentivo
stesso, con il ragionevole rischio di elusione del limite espressamente
posto dall'art. 113, comma 2, ultimo periodo, che a chiare lettere
riconduce, e circoscrive, gli incentivi per gli appalti di servizi o
forniture alle ipotesi sopra rappresentate.
Ne consegue, pertanto, che per le argomentazioni già
rappresentate in tema di presupposti normativi legittimanti l’erogazione
degli incentivi di che trattasi, va data risposta negativa anche al
secondo quesito formulato dall’amministrazione comunale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere
11.10.2019 n. 301). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici, effetto retroattivo per il regolamento comunale.
Il regolamento comunale può disciplinare con effetto retroattivo la
distribuzione degli incentivi tecnici accantonati dall'ente sotto il regime
normativo precedente al Dlgs 50/2016.
Con il
parere 10.10.2019 n.
385, la Sezione
regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia chiarisce, in
linea con precedenti interpretazioni giurisprudenziali (Liguria
parere 03.04.2019 n. 31, si veda il Quotidiano degli enti locali
e della Pa del 9 aprile), che la retrodatazione degli effetti, consentita
dai commi primo e terzo dell'articolo 216 del codice dei contratti, deve
però essere valutata alla luce dei limiti e parametri vigenti al momento in
cui sono sorti i presupposti giuridici per l'erogazione del compenso.
Il caso
Il quesito rivolto alla Corte mira a chiarire gli ambiti di manovra della
potestà regolamentare di un Comune, in relazione alla possibilità di
adeguamento del regolamento sugli incentivi tecnici, ancora allineato
all'originario disposto del Dlgs 163/2006, per conformarlo alla disciplina
introdotta nelle more dall'articolo 13-bis del Dl 90/2014 e, alla stregua di
questa, ripartire gli incentivi accantonati e maturati per l'attività svolta
dai dipendenti tra l'entrata in vigore dell'articolo 13-bis e l'intervento
del nuovo codice dei contratti pubblici.
Determinazione del compenso
La modifica normativa che maggiormente incide sulla qualificazione
dell'incentivo riguarda, a parere dei magistrati, le modalità di
determinazione della provvista finanziaria. Mentre in precedenza la
determinazione del compenso e la sua ripartizione avveniva per ogni singola
opera o lavoro appaltato, nella previsione normativa del Dl 90/2014 le
risorse destinate, in misura non superiore al 2 per cento degli importi
posti a base di gara di un'opera o di un lavoro, vengono fatte confluire in
un apposito fondo per la progettazione e l'innovazione.
Un importo pari all'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo è
ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri
stabiliti in apposito regolamento adottato dall'ente e previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa.
L'adozione del regolamento
L'adozione del regolamento, secondo la giurisprudenza contabile (Sezione di
controllo Veneto
parere 07.09.2016 n. 353; Sezione di controllo Friuli Venezia
Giulia
parere 02.02.2018 n. 6,
Sezione di controllo Lombardia
deliberazione 14.03.2019 n. 96
e
parere 07.11.2017 n. 305),
costituisce condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli
aventi diritto delle risorse accantonate nel relativo fondo.
Al regolamento spetta dunque la definizione della percentuale effettiva
delle risorse finanziarie, entro il limite del 2 per cento, in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare e dei relativi
criteri di riparto. L'ente deve poi definire le modalità per la riduzione
delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di
eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, depurato del ribasso d'asta offerto.
Devono poi essere disciplinate le responsabilità connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere, in relazione alla complessità delle opere, escluso
le attività manutentive, e all'effettivo rispetto, in fase di realizzazione
dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo.
Nell'ammettere la possibilità di regolamentazione retroattiva, i magistrati
escludono la possibilità di disciplinare la distribuzione di risorse
accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al tempo
dell'attività incentivabile (in questi termini anche Sezione di controllo
Piemonte parere
09.12.2018 n. 135) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
25.10.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Il regolamento incentivante le funzioni tecniche può disporre
retroattivamente sempre che non sia in contrasto con la legge vigente
ratione temporis.
Il regolamento può disciplinare con effetto retroattivo la
distribuzione di incentivi tecnici accantonati nel regime normativo
antecedente il d.lgs. n. 50/2016 perché la retrodatazione degli effetti è
consentita dall’art. 216, 1° e 3° comma, del medesimo d.lgs. n. 50/2016.
Nella predetta facoltà di incidere retroattivamente con lo strumento del
regolamento sopra indicato pare assorbita la possibilità di intervenire con
una norma regolamentare di adeguamento delle pregresse disposizioni,
aggiornate fino al d.lgs. n. 163/2006, alle previsioni recate dal d.l. n.
90/2014.
Tuttavia, va richiamato
quanto già osservato dalla giurisprudenza di controllo circa i limiti del
potere regolamentare in discorso, con speciale riguardo alla circostanza che
“il regolamento potrà disciplinare le suddette
situazioni pregresse nel rigoroso rispetto dei limiti e parametri che la
normativa, applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva”, risultando
“escluso, di conseguenza, che il regolamento suddetto possa attualmente
disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non
conformi con quelli in vigore al tempo dell’attività incentivabile”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Calolziocorte (LC) ha inviato la richiesta di
parere sopra indicata in materia di incentivi per la progettazione a favore
del personale tecnico interno dell’Ente.
In particolare viene chiesto se «nel caso in cui il Regolamento
Comunale riguardante gli incentivi per la progettazione a favore del
personale tecnico interno all’Ente, aggiornato fino al D.Lgs. 163/2016, non
sia stato adeguato a quanto prescritto dal D.L. 90/2014, che nella legge di
conversione abroga i commi 5 e 6 dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006 e
introduce nell’art. 93 i commi 7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies, che
disciplinano il “fondo per la progettazione e l’innovazione”, è possibile
adottare una norma regolamentare di adeguamento di detto regolamento con
valenza retroattiva al fine di ripartire gli incentivi accantonati in
bilancio e maturati dai dipendenti per l’attività svolta nel periodo
ricompreso tra l’entrata in vigore dell’art. 13-bis del D.L. 90/2014 e
l’entrata in vigore del D.LGS. 50/2016».
...
In ossequio alla costante giurisprudenza delle Sezioni di controllo, le
questioni poste nella richiesta di parere in esame possono essere analizzate
in chiave generale e astratta, non essendo scrutinabili nel merito istanze
concernenti valutazioni su casi o atti gestionali specifici, in una
prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una consulenza generale
della Corte dei conti, incompatibile con le funzioni alla stessa attribuite
dal vigente ordinamento e con la sua fondamentale posizione di indipendenza
e neutralità.
Conseguentemente, il Collegio prenderà in esame il quesito formulato
dall’Amministrazione comunale offrendo una lettura interpretativa generale
del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, non potendo
costituire, di contro, oggetto di valutazione da parte della Sezione i
profili inerenti alla legittimità delle singole corresponsioni dei predetti
incentivi al personale dell’Ente.
Nell’istanza in argomento viene, anzitutto, in rilievo il quadro normativo
in tema di incentivi per funzioni tecniche antecedente all’attuale
disciplina recata dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 s.m.i. e,
segnatamente, la disciplina degli incentivi per la progettazione e
l’innovazione.
Come noto, l’art. 13 del d.l. n. 90/2014 (conv. dalla legge n. 114/2014) ha
abrogato i commi 5 e 6 dell’articolo 92 del d.lgs. n. 163/2006,
introducendo, contestualmente, una nuova, diversa disciplina degli incentivi
per la progettazione ai commi 7-bis e ss. dell’art. 93 dello stesso d.lgs.
n. 163/2006.
Come rilevato nelle pronunce di questa Corte (cfr. Sezione regionale
controllo Piemonte,
parere 02.10.2014 n. 197)
la modifica di maggior sostanza, al riguardo, attiene alle modalità di
determinazione della provvista per l’erogazione degli incentivi: mentre in
precedenza la determinazione del compenso e la sua ripartizione avveniva per
ogni singola opera o lavoro appaltato, nella previsione normativa del d.l.
n. 90/2014 le risorse destinate, in misura non superiore al 2 per cento
degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro, vengono fatte
confluire in un apposito “Fondo per la progettazione e l’innovazione”.
Un importo pari all’80 per cento delle risorse finanziarie del Fondo per la
progettazione e l’innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con
le modalità e i criteri stabiliti in apposito regolamento adottato dall’Ente
e previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa.
In particolare il regolamento in parola è chiamato a stabilire:
· la percentuale effettiva delle risorse finanziarie, entro il
predetto limite del 2 per cento, in rapporto all’entità e alla complessità
dell’opera da realizzare;
· i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con
particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti
nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di
realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo;
· i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse
finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali
incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo, depurato del ribasso d’asta offerto.
Va poi soggiunto che l’adozione del regolamento è considerata, nella
giurisprudenza contabile (cfr., ex multis, Sez. controllo Veneto
parere 07.09.2016 n. 353; Sez. controllo Regione
autonoma Friuli Venezia Giulia
parere 02.02.2018 n. 6 e,
per questa Sezione,
deliberazione 14.03.2019 n. 96
e
parere 07.11.2017 n. 305) condizione essenziale ai
fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate
nel fondo.
Ciò posto, nella richiesta di parere in esame si chiede, in buona sostanza,
se sia attualmente possibile ad un Comune, nell’esercizio della propria
autonomia regolamentare, adeguare il proprio regolamento in tema di
incentivi per la progettazione a favore del personale tecnico dell’Ente,
ancora allineato all’originario disposto del d.lgs. n. 163/2006, per
conformarlo alla disciplina introdotta nelle more dall’art. 13-bis del d.l.
n. 90/2014 e, alla stregua di questa, ripartire gli incentivi accantonati e
maturati per l’attività svolta dai dipendenti tra l’entrata in vigore del
ridetto art. 13-bis e l’intervento del nuovo codice dei contratti pubblici
di cui al d.lgs. n. 50/2016.
In proposito, in termini generali, questa Sezione si è già
pronunciata nel senso che il regolamento in parola possa disporre anche la
ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate dopo l’entrata
in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici e prima dell’adozione del
regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel
quadro economico riguardante la singola opera
(cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185 e
parere 12.06.2017 n. 191;
si veda anche Sezione regionale di controllo per il Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353).
Tale affermazione tiene conto di come l’opzione dell’ultrattività
della pregressa normativa sia già stata recepita dal legislatore del 2016,
consentendo «che il regime previgente continui ad operare in relazione
“alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati
pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016”. Ai sensi
dell’art. 216, comma 1, infatti, le disposizioni introdotte dal d.lgs. n. 50
del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata
in vigore del nuovo “Codice”, fatto salve le disposizioni speciali e
testuali di diverso tenore»
(in questi termini cfr. il citato
parere 12.06.2017 n. 191 di questa
Sezione).
La questione è stata recentemente affrontata dalla Sezione regionale di
controllo per la Liguria nel
parere 03.04.2019 n. 31 (già richiamato
da questa Sezione nel proprio
parere 08.05.2019 n. 163) ove si è
affermato il principio di diritto secondo cui il
regolamento può disciplinare con effetto retroattivo la distribuzione di
incentivi tecnici accantonati nel regime normativo antecedente il d.lgs. n.
50/2016 perché la retrodatazione degli effetti è consentita dall’art. 216,
1° e 3° comma, del medesimo d.lgs. n. 50/2016.
Nella predetta facoltà di incidere retroattivamente con lo
strumento del regolamento sopra indicato pare assorbita la possibilità di
intervenire con una norma regolamentare di adeguamento delle pregresse
disposizioni alle previsioni recate dal d.l. n. 90/2014; né previsioni di
termini decadenziali per il ridetto adeguamento regolamentare sembrano
rinvenibili all’interno dello stesso art. 13-bis del d.l. n. 90 del 2014.
Sul punto, tuttavia, la Sezione richiama quanto osservato dalla stessa
Sezione di controllo per la Liguria nel citato
parere 03.04.2019 n. 31 circa i limiti del potere regolamentare
in discorso, con speciale riguardo alla circostanza che “il
regolamento potrà disciplinare le suddette situazioni pregresse nel rigoroso
rispetto dei limiti e parametri che la normativa, applicabile al tempo di
tali situazioni, imponeva”, risultando “escluso, di conseguenza, che il
regolamento suddetto possa attualmente disciplinare la distribuzione di
risorse accantonate secondo criteri non conformi con quelli in vigore al
tempo dell’attività incentivabile”
(in questi termini anche Sezione regionale di controllo per il Piemonte, (parere
09.12.2018 n. 135) (Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 10.10.2019 n.
385). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Non
è inibito alla norma regolamentare sopravvenuta disciplinare, entro i limiti
che si diranno, tali fattispecie pregresse, proprio perché riferite ad
ambiti temporali ai quali il D.lgs. 50/2016 non si applica per effetto della
ridetta disposizione di diritto transitorio.
Il regolamento dunque potrà disporre per la corresponsione degli incentivi
maturati nel passato, ma solo in attuazione della normativa previgente,
sulla base della sua ultrattività per la regolazione delle fattispecie
pregresse (come disposto dall’art. 216 del d.lgs. 50/2016) e nei limiti in
cui rimette espressamente alla stessa normativa previgente la disciplina di
quelle stesse fattispecie.
Il regolamento sopravvenuto potrà dunque disciplinare le situazioni
pregresse, nel caso di specie la ripartizione degli incentivi tecnici, nel
rigoroso rispetto, tuttavia, dei limiti e parametri che la normativa,
applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva.
Si deve, invece escludere “che lo stesso possa oggi disciplinare la
distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non uniformi a quelli
in vigore al momento dell’attività incentivabile”.
---------------
Con la nota sopra citata, il Sindaco del Comune di Varese pone un quesito in
materia di applicazione dell'articolo 113 del Codice dei contratti pubblici,
approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50, che reca la disciplina degli
incentivi tecnici e demanda a un regolamento comunale e alla contrattazione
decentrata la fissazione delle modalità di riparto degli importi destinati
ai soggetti in esso indicati.
Il parere che si richiede riguarda la possibilità che le due fonti di
auto-normazione dell'istituto (regolamento comunale e contratto decentrato)
disciplinino l'erogazione degli incentivi relativi a lavori, servizi e
forniture conclusisi durante la vigenza del d.lgs. 12.04.2006 n. 163.
In particolare, si chiede se il regolamento comunale e il contratto
decentrato possano contenere alcune norme transitorie con cui dare
applicazione alle disposizioni contenute negli articoli 92 e 93 di detto
decreto, nelle rispettive formulazioni vigenti tempo per tempo.
La richiesta trae origine dalle diverse posizioni assunte dalle Sezioni
regionali di codesta Corte.
Accanto a posizioni che sembrano escludere tale possibilità (Sezione Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57), ma anche codesta Sezione,
parere 12.06.2017 n. 191) altre Sezioni sembrano non scartarla
del tutto. Tra queste, la Sezione Veneto (parere
25.07.2018 n. 264) e la Sezione Liguria.
Quest'ultima, in particolare (parere
03.04.2019 n. 31),
distinguendo tra retroattività "forte" e retroattività "debole",
ha valorizzato tale seconda ipotesi (corrispondente alla "produttività di
effetti attuali ma sulla base di una fattispecie realizzatasi nel passato"),
sembrando ammettere la possibilità che il regolamento disciplini
retroattivamente la fattispecie a condizione che l'accantonamento delle
risorse destinate agli incentivi sia già avvenuto.
Alla luce di quanto sopra il Comune di Varese chiede: “il regolamento
previsto dall'articolo 113, comma 3, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, può
disciplinare, dando applicazione alle disposizioni contenute negli articoli
92 e 93 del d.lgs. 12.04.2006, gli incentivi tecnici relativi a lavori,
servizi e forniture conclusisi durante la vigenza di tale ultimo decreto?”.
...La questione sollevata dal Comune di Varese è stata già affrontata da
diverse Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, esaminandola
da diversi punti di vista e prospettive, al fine di rispondere a quesiti che
di volta in volta sottolineavano aspetti di dettaglio differenti.
Al fine di rispondere al quesito posto nello specifico è utile riprendere e
riassumere due principi chiave, condivisi da questa Sezione.
In primo luogo, è importante ricordare la funzione del regolamento
previsto nell’ambito della disciplina che regola questo istituto
incentivante, sia nella sua formulazione attuale, sia in quella precedente.
Tale regolamento, per quanto riguarda i fini interpretativi del quesito, ha
sostanzialmente una funzione esecutiva interna di recepimento dei criteri di
ripartizione previsti dalla contrattazione decentrata.
Infatti, in entrambe le formulazioni (D.lgs. 163/2006 e ss. e D.lgs.
50/2016) gli incentivi in esame trovano la propria fonte in norme che
prevedono, ai fini della corresponsione, la fissazione dei criteri e della
modalità di distribuzione delle risorse in sede di contrattazione collettiva
integrativa decentrata e la successiva adozione di tali criteri in un
apposito regolamento.
Quest’ultimo costituisce dunque un “passaggio fondamentale per la
regolazione interna della materia” (deliberazione
13.05.2016 n. 18), ma, nell’ottica che qui interessa, è
soprattutto l’atto che, recependo i criteri e le modalità individuati dalla
contrattazione decentrata, consente il riparto delle risorse accantonate e
rende determinabile il quantum dell’incentivo spettante ai singoli
dipendenti (Sez. reg. controllo Veneto
parere 25.07.2018 n. 264).
In questo senso, "dato che i criteri di assegnazione e di riparto del
fondo devono, di regola, essere determinati in sede decentrata con
contrattazione integrativa per essere, poi, recepiti dal Regolamento, ne
consegue che quest’ultimo è solo un contenitore (...), mentre sul piano
sostanziale resta immutata la natura pattizia della disposizione che regola
l’incentivo (...)” (Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per la
Basilicata
parere 08.03.2017 n. 7).
Tanto è vero che, ove nelle more dell’adozione del Regolamento siano stati
comunque già fissati, in sede di contrattazione integrativa, i criteri di
riparto delle risorse accantonate, che lo stesso è chiamato soltanto a
recepire, la mera carenza dell’atto regolamentare o la sua tardiva
emanazione non possono ledere il diritto al compenso incentivante spettante
al dipendente che ha eseguito la funzione incentivata, e la questione è
suscettibile di tutela a livello giurisdizionale, su eventuale iniziativa
del singolo (Sez. reg. controllo Lazio
parere 06.07.2018 n. 57)).
Ciò in quanto “le amministrazioni interessate sono tenute, per il
principio di correttezza e buona fede, a procedere speditamente
all’emanazione e, a seguito di modifica della normativa legislativa,
all’aggiornamento dei regolamenti attuativi (in tal senso Corte di
Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 09.03.2012 n. 3779 ha riconosciuto al dipendente il diritto al risarcimento del
danno discendente dalla mancata possibilità di percepire l’incentivo
previsto dalla normativa)” (Sez. reg. controllo Piemonte,
parere 09.10.2017 n. 177).
In secondo luogo, ai nostri fini, occorre esaminare le questioni di
diritto intertemporale venutesi a porre con l’emanazione del d.lgs. 50/2016.
A questo proposito, Il legislatore del 2016 si è fatto carico delle
questioni e le ha risolte scegliendo l’opzione dell’ultrattività,
consentendo, così, che il regime previgente continui ad operare in relazione
“alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati
pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016”. Ai
sensi dell’art. 216, comma 1, infatti, le disposizioni introdotte dal d.lgs.
n. 50 del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data
dell’entrata in vigore del nuovo “Codice”, fatto salve le
disposizioni speciali e testuali di diverso tenore (Sez. Reg. controllo
Lombardia
(parere
12.06.2017 n. 191).
Non ricorrendo tale ultima eventualità la disposizione richiamata va letta
nel senso che il D.lgs. 50/2016 trova applicazione limitatamente alle
fattispecie concrete, inclusive degli incentivi tecnici, verificatesi dopo
la sua entrata in vigore.
Ne deriva che le fattispecie concrete verificatesi prima di tale vigenza,
sempre inclusive degli incentivi tecnici, restano regolate dalla normativa
precedente.
In conclusione, e sulla base di questi principi, non è,
perciò, inibito alla norma regolamentare sopravvenuta
disciplinare, entro i limiti che si diranno, tali fattispecie pregresse,
proprio perché riferite ad ambiti temporali ai quali il D.lgs. 50/2016 non
si applica per effetto della ridetta disposizione di diritto transitorio.
Il regolamento dunque potrà disporre per la corresponsione degli incentivi
maturati nel passato, ma solo in attuazione della normativa previgente,
sulla base della sua ultrattività per la regolazione delle fattispecie
pregresse (come disposto dall’art. 216 del d.lgs. 50/2016) e nei limiti in
cui rimette espressamente alla stessa normativa previgente la disciplina di
quelle stesse fattispecie.
Il regolamento sopravvenuto potrà dunque disciplinare le situazioni
pregresse, nel caso di specie la ripartizione degli incentivi tecnici, nel
rigoroso rispetto, tuttavia, dei limiti e parametri che la normativa,
applicabile al tempo di tali situazioni, imponeva
(Sez. Reg. controllo Liguria
parere 03.04.2019 n. 31).
Si deve, invece escludere “che lo stesso possa oggi
disciplinare la distribuzione di risorse accantonate secondo criteri non
uniformi a quelli in vigore al momento dell’attività incentivabile”
(Sez. reg. di controllo Piemonte (parere
09.12.2018 n. 135)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere
10.10.2019 n. 383). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Posizioni
organizzative, è colpa grave il mancato controllo sugli atti dei propri
funzionari.
Con la
sentenza 19.09.2019 n. 350, la
Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la regione Toscana, ha
precisato che il responsabile di posizione organizzativa che appone la
propria firma agli atti predisposti dai funzionari senza operare mai alcun
controllo, nemmeno a campione, è suscettibile di condanna per responsabilità
sussidiaria a titolo di colpa grave, per omessa vigilanza e/o controllo.
Il fatto
Nel caso in esame, la Procura erariale, presso la Sezione Giurisdizionale
della regione Toscana, ha instaurato un giudizio di responsabilità nei
confronti di due dipendenti del comune di Cascina, rispettivamente nella
qualità di funzionario e di Responsabile di Posizione Organizzativa del
Settore “Macrostruttura 6-Educativo e Socio Culturale”; detto giudizio è
scaturito dalla segnalazione, da parte del suddetto comune, di un possibile
danno erariale, conseguente alla condotta, penalmente rilevante, posta in
essere dal menzionato funzionario, fra l'altro destinatario di misura di
custodia cautelare in carcere su richiesta della Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Pisa, nonché di provvedimento di sospensione
cautelare adottato dal Comune di Cascina.
Infatti, dall’attività investigativa espletata dalla Guardia di Finanza,
nell’ambito del procedimento penale, era emerso che il funzionario,
assegnato quale unico addetto all’unità operativa “Nidi, Progettazione
Educativa e Diritto allo Studio”, si era appropriato di circa 400.000 euro,
fra i 2012 ed il 2017, stanziati dall'Ente di appartenenza e dalla Regione
Toscana per il potenziamento degli asili nido e per finanziare progetti
sociali a favore di infanti disabili e/o in stato di disagio.
Con riferimento al citato danno, la Procura contabile ha individuato oltre
la responsabilità principale e dolosa del funzionario –la cui condotta
illecita, era stata ampiamente dimostrata dalle risultanze probatorie del
procedimento penale–, anche quella sussidiaria, a titolo di culpa in
vigilando, in capo al Responsabile del Settore in cui il reo operava, poiché
non aveva esercitato sullo stesso alcun controllo, neanche a campione o
saltuario.
Infatti, il Responsabile aveva consentito, o comunque agevolato,
la condotta illecita del funzionario, apponendo, in maniera acritica ed
automatica, la propria firma sui provvedimenti che quest'ultimo gli
sottoponeva, ponendo in essere una condotta gravemente colposa di omesso
controllo e vigilanza, reiterata per ben cinque anni.
Il Responsabile, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’impossibilità di
avere, in qualche modo, contezza del disegno criminoso portato avanti dal
funzionario, tant'è che, all’esito dell’attività istruttoria espletata nel
parallelo procedimento penale, non era stata formulata alcuna ipotesi di
reato nei suoi confronti, essendo emersa, invece, la sua totale estraneità
rispetto ai fatti incriminati, escludendo, di conseguenza, qualsiasi
responsabilità per culpa in vigilando.
Altresì, dall’esame degli atti
istruttori, era emerso che la maggior parte degli episodi criminosi
contestati si erano verificati successivamente all’erogazione delle somme da
parte del Comune, ovvero in una fase in cui non avrebbe potuto esserci alcun
controllo da parte del Responsabile.
Peraltro, da un lato gli atti prodotti
dal funzionario erano stati predisposti al di fuori dei protocolli
istituzionali, mediante documentazione ideologicamente e/o materialmente
falsa, dall'altro, nel corso degli anni, non vi era mai stata alcuna
contestazione sull'operato del funzionario da parte di terzi.
Altresì,
l’assenza di culpa in vigilando derivava dal fatto che il Responsabile
gestiva una macrostruttura con un elevato numero di servizi ed unità
operative (almeno 11) e potendo contare su personale limitato: in tale
contesto, di fronte irregolarità perpetrate prevalentemente al di fuori
dell’orario di servizio ed all’esterno della sede di lavoro ed in assenza di
segnali, anche minimi, che potessero far pensare a comportamenti illeciti
del funzionario, tali da giustificare una vigilanza “straordinaria”
sull’operato dello stesso, il controllo non avrebbe potuto essere diverso da
quello di fatto esercitato.
Le considerazioni della Corte
La Corte, entrando nel merito, ha ritenuto che la pretesa erariale fosse
meritevole di accoglimento nei confronti di entrambi i convenuti, ricorrendo
tutti i presupposti della contestata responsabilità amministrativa.
Per
quanto concerne la posizione del funzionario, il Collegio ha riconosciuto
pacifica la ricorrenza del cd "rapporto di servizio" con l’Amministrazione
danneggiata, nonché acclarate la sussistenza ed antigiuridicità delle
condotte contestate, alla luce della valutazione complessiva degli atti di
causa e di quelli derivanti dal parallelo procedimento penale –che ha
portato alla condanna del funzionario alla pena di 6 anni di reclusione per
i delitti di truffa e peculato, continuato ed in concorso con altri, nonché
all'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici–, dai quali il giudice
contabile è legittimato a trarre elementi utili al proprio convincimento
(Corte Conti, Sez. giur. Lombardia n. 450/2012; Sez. giur. Friuli Venezia
Giulia n. 270/2011).
Alla responsabilità principale, di carattere doloso, per il Collegio si è
affiancata quella sussidiaria del Responsabile di Po: quest’ultimo, infatti,
pur essendo rimasto del tutto estraneo alle vicende penali, sulla base degli
atti e dei fatti esaminati, si è reso responsabile, a titolo di colpa grave,
di omessa vigilanza e/o controllo.
Infatti, per ben cinque anni, egli ha
firmato i provvedimenti di impegno/liquidazione predisposti dal funzionario,
senza avvertire mai la necessità di svolgere controlli, nemmeno a campione,
sull’attività preliminare ed istruttoria espletata. Considerato che la firma
del Responsabile sulle determine comporta, a suo carico, la piena
responsabilità dell’atto e dei relativi effetti, un controllo, anche
saltuario e a campione, sarebbe stato opportuno, se non necessario, a
prescindere ed indipendentemente da eventuali segnalazioni di anomalie e/o
irregolarità da parte di terzi.
In conclusione, alla luce del considerevole arco temporale di reiterazione,
le condotte omissive del Responsabile sono risultate, per la Corte,
connotate da colpa grave, alla luce dell’estrema noncuranza e superficialità
dimostrate per la salvaguardia delle risorse finanziarie del Comune di
Cascina, nonché, più in generale, per la corretta utilizzazione delle stesse
strumentale all’attuazione di valori di rilievo costituzionale, quali
l'imparzialità ed il buon andamento della Pa (articolo 97 della
Costituzione) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
03.10.2019).
---------------
SENTENZA
4. Alla responsabilità principale, di carattere doloso, del Sig. RO.
(per l’intero importo sopra visto) si affianca quella sussidiaria, a titolo
di colpa grave, della convenuta CA..
A tal riguardo, va in primo luogo rilevata la pacifica sussistenza del cd
rapporto di servizio tra l’Amministrazione danneggiata (Comune di Cascina) e
la Sig.ra CA., quale Responsabile di Posizione Organizzativa Autonoma
nell’ambito del Settore “Macrostruttura 6-Educativo e Socio Culturale”
della predetta Amministrazione.
Per quanto concerne il profilo dell’illiceità delle condotte serbate, il
Collegio, sulla base degli atti e fatti di causa, ritiene sicuramente di
escludere, in armonia con quanto fatto dall’Organo requirente, una
corresponsabilità dolosa della convenuta Ca..
Quest’ultima, infatti, è rimasta del tutto estranea alle vicende penali,
venendo, del resto, pienamente scagionata in quella sede dallo stesso Ro.
(vedasi interrogatorio reso al GIP in data 16.05.2017, ove il Ro. ha
espressamente dichiarato “…Le determine venivano firmate dal Dirigente
nel caso di specie la Dott.ssa Ca. che non era assolutamente consapevole di
quello che facevo”).
Nondimeno, sulla base degli stessi atti e fatti, risulta configurabile una
responsabilità della Sig.ra CA., a titolo di colpa grave per omessa
vigilanza e/o controllo.
Risulta, infatti, che la medesima CA., per un considerevole lasso temporale
(dal 2012 al 2017, epoca di svolgimento delle condotte illecite del Ro.,
secondo quanto emergente dai capi d’imputazione penale), si sia
completamente affidata al Ro. stesso, firmando, in maniera del tutto
acritica, i provvedimenti di impegno/liquidazione delle risorse dal medesimo
istruiti e predisposti, senza avvertire mai la necessità di svolgere
controlli, nemmeno a campione, sull’attività preliminare ed istruttoria
espletata (rectius, che avrebbe dovuto essere espletata) dal medesimo
(vedasi anche la relazione della Guardia di Finanza del 28.06.2017, prot. n.
0218909, con la documentazione contenuta nel dischetto informatico
allegato).
Sul punto, è appena il caso di rimarcare che colui il quale
firma, nell’esercizio precipuo delle competenze relative all’incarico di
responsabilità rivestito, determine comportanti l’attribuzione di risorse
finanziarie pubbliche in favore di soggetti terzi, si assume, con la
predetta sottoscrizione, la (piena) responsabilità dell’atto e dei relativi
effetti.
Di qui la necessità di un controllo, anche saltuario e a
campione, nel caso all’esame per
contro del tutto omesso, sull’attività preliminare e
propedeutica svolta dal responsabile del procedimento (o comunque
sull’operato dello stesso).
Tutto ciò a prescindere ed indipendentemente dalla
segnalazione di anomalie e/o irregolarità da parte di terzi.
Tale conclusione risulta invero confortata (anche) dalla particolare valenza
degli interessi coinvolti (nello specifico, quello alla corretta
utilizzazione delle risorse finanziarie pubbliche), strumentali
all’attuazione di valori di rilievo anche costituzionale (imparzialità e
buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost.).
Né può ritenersi, in superamento delle argomentazioni difensive sul punto,
che tale controllo, nella fattispecie all’esame, non avrebbe potuto essere
concretamente esercitato dalla Sig.ra CA., per essersi l’attività illecita
del Sig. Ro. svolta prevalentemente al di fuori del rapporto di servizio
(investendo, in particolare, la richiesta di rimborso, supportata da false
motivazioni, delle somme erogate, a seguito di un’attività di erogazione che
sarebbe risultata di per sé lecita).
A tal riguardo, il Collegio ribadisce che, per quanto emerso in sede penale,
le condotte illecite del Sig. Ro. sono consistite essenzialmente nel:
a) richiedere, con false motivazioni, a vari asili nido la
restituzione di somme erogate in eccesso, al fine di creare una provvista di
cui poi appropriarsi, una volta ottenuta la restituzione di quanto
attribuito in eccesso rispetto al dovuto;
b) riconoscere ad associazioni (TE.TA.) e/o cooperative (TR.) “compiacenti”
contributi cui le stesse non avrebbero avuto diritto, per poi ottenere da
tali soggetti le somme in questione.
In entrambi i casi, l’appropriazione “illecita” è risultata possibile
per essere state le relative risorse previamente assegnate/liquidate con
determine firmate, in assenza di qualsivoglia controllo, da parte della
convenuta Ca..
La medesima assegnazione (e susseguente erogazione) risulta, invero,
anch’essa illecita, in quanto avvenuta in favore di cooperative/associazioni
“compiacenti”, non aventi titolo per beneficiarne, attesa la mancata
presentazione e/o svolgimento dei relativi progetti, ovvero intervenuta in
favore di soggetti (asili nido) astrattamente legittimati ad usufruirne, ma
in concreto destinatari di contributi superiori al dovuto.
Risulta allora evidente come i controlli omessi dalla Sig.ra CA. abbiano
consentito o quanto meno agevolato l’operazione illecita complessiva attuata
dal Ro., partita con l’assegnazione di somme a soggetti terzi (illecita per
le ragioni viste) e sfociata nella definitiva appropriazione (anch’essa
illecita) da parte del Ro. stesso (beneficiario “finale” della
medesima operazione).
Le condotte omissive serbate dalla Sig.ra CA. risultano,
invero, connotate da colpa grave, attesa l’estrema noncuranza e
superficialità mostrate per la salvaguardia delle risorse finanziarie del
Comune di Cascina.
Tutto ciò anche alla luce del considerevole arco temporale di reiterazione
delle condotte in questione e del mancato rinvenimento, nei fascicoli delle
determine acquisiti presso il Comune di Cascina, di traccia alcuna di
attività istruttoria (vedasi su tale ultimo punto pag. 6 della relazione
della Guardia di Finanza del 28.06.2017, prot. n. 218909).
Nondimeno, il Collegio, in considerazione delle peculiari circostanze del
caso concreto e del ruolo effettivamente rivestito nella vicenda de qua,
ritiene di limitare la responsabilità sussidiaria della Sig.ra Ca.
all’importo di euro 150.000,00.
5. In conclusione,
alla luce di tutto quanto sopra esposto, il Sig. RO.Al. va
condannato al pagamento, in favore del Comune di Cascina, dell’importo di
euro 372.863,25, a titolo di responsabilità principale di carattere
doloso.
Nel contempo, la Sig.ra CA.Ga. va condannata al pagamento,
in favore del Comune di Cascina, dell’importo di euro 150.000,00, a titolo
di responsabilità sussidiaria per colpa grave.
Sugli importi per cui è condanna, da ritenersi già comprensivi di
rivalutazione, vanno computati gli interessi, come da dispositivo. |
PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Incentivi
antievasione IMU e TARI solo se il bilancio è approvato entro il 31
dicembre.
Gli incentivi economici a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse al recupero dei tributi erariali (Imu e Tari) possono essere
corrisposti solo se l'ente approva tassativamente il bilancio di previsione
entro il 31 dicembre dell'anno precedente.
È questa l'importante indicazione contenuta nel
parere 18.09.2019 n. 52 della sezione regionale di controllo della
Corte dei conti dell'Emilia Romagna.
Il quesito
Il comma 1091, articolo 1, della legge di bilancio 2019 ha previsto la
possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal
recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale, derogando al limite previsto dall'articolo
23, comma 2, del Dlgs 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione vi è quella
secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il
rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel».
Ciò premesso un ente locale
ha chiesto alla Corte dei conti dell'Emilia Romagna se il termine per
l'approvazione del bilancio debba intendersi solo con riferimento al 31
dicembre dell'anno di riferimento (così come indicato nell'articolo 163,
comma 1, del Tuel) o può essere correttamente riferito al termine differito
(come previsto dal successivo comma 3, dell'articolo 163 del Tuel), con
specifica legge e/o decreti ministeriali.
La risposta
Per i giudici contabili la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l'approvazione del bilancio è da intendersi il 31 dicembre
dell'anno di riferimento e non anche il termine differito.
D'altronde «nell'ipotesi in cui il bilancio di previsione dell'ente non sia
approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore,
all'articolo 163 limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di
attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale. E ciò in base alla sottesa
considerazione concernente la fase di criticità in cui versa quell'ente che
non sia in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo della tempestiva
approvazione del bilancio di previsione, dal che discende, ex lege, una
gestione di tipo provvisorio dell'ente e limitata a specifiche attività».
Conclusioni
La posizione assunta dalla magistratura contabile emiliana spiazza molti
enti locali che hanno seguito l'indicazione fornita dall'Ifel nella nota di
approfondimento al comma 1091 della legge di bilancio 2019 dello scorso 28
febbraio (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 04.03.2019).
L'istituto, infatti, aveva ritenuto soddisfatta la condizione imposta dalla
legge anche con l'approvazione del bilancio di previsione entro i termini
prorogati dal decreto ministeriale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.10.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Incentivi
Imu solo con bilancio entro il 31 dicembre.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti
dell'Emilia Romagna mette in seria crisi l'erogazione dell'incentivo Imu e
Tari introdotto dall'ultima legge di bilancio.
Il
parere 18.09.2019 n. 52
ha stabilito infatti che solo gli enti che hanno approvato il bilancio di
previsione entro il 31 dicembre possono stanziare le somme previste per
l'incentivazione del personale.
La norma della legge di bilancio
L'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018, dopo alcuni anni di assenza,
aveva reintrodotto la possibilità per i Comuni di prevedere somme
incentivanti in favore del personale addetto al raggiungimento degli
obiettivi del settore entrate. Subordinando tuttavia questa facoltà ad
alcune condizioni. In primo luogo, si tratta di una scelta facoltativa,
rimessa alla discrezione degli enti locali interessati.
Inoltre, la destinazione di una somma non superiore al 5 per cento del
maggior gettito accertato e riscosso relativo agli accertamenti Imu e Tari
dell'esercizio fiscale precedente al potenziamento delle risorse comunali
degli uffici entrate e al trattamento accessorio del personale impiegato nel
raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, è subordinata
all'approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto entro i termini
stabiliti dal testo unico degli enti locali.
Il rispetto del termine di approvazione del bilancio
La norma aveva ingenerato dei dubbi sull'individuazione dei suddetti
termini. In particolare per il bilancio di previsione, poiché l'articolo 151
del Dlgs 267/2000 stabilisce che il bilancio di previsione deve essere
approvato entro il 31 dicembre dell'anno precedente, prevedendo tuttavia che
«i termini possono essere differiti con decreto del ministro dell'Interno,
d'intesa con il ministro dell'Economia e delle finanze, sentita la
conferenza Stato-città e autonomie locali, in presenza di motivate esigenze.
L'Ifel, nella nota del 28.02.2019, ritiene che la condizione richiesta dalla
norma è comunque soddisfatta laddove l'ente approvi il bilancio entro i
termini stabiliti dal decreto ministeriale di proroga.
La Corte dei conti dell'Emilia Romagna, con la deliberazione sopra
richiamata, ha invece ritenuto che il termine per l'approvazione del
bilancio è da intendersi il 31 dicembre dell'anno di riferimento di cui
all'articolo 163, comma 1, del Dlgs 267/2000 e non anche il termine
differito di cui al comma 3 del medesimo articolo. Ciò in quanto l'articolo
163 del Tuel limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di attività
tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
La Corte sostiene, infatti, che l'ente, nel caso di mancata approvazione del
bilancio nel termine, versa in una fase di criticità in quanto non è in
grado di corrispondere al fondamentale obiettivo dell'approvazione del
bilancio di previsione, dal che discende ex lege una gestione di tipo
provvisorio e limitata a specifiche attività.
La conclusione è tranchant. L'ente che non ha rispettato il termine del 31
dicembre, pur rispettando il termine fissato dal decreto di proroga, non può
stanziare per quell'anno (l'esercizio di riferimento) il fondo calcolato
sugli accertamenti Imu e Tari. Mettendo fuori gioco la maggior parte dei
Comuni italiani.
Considerazioni
Questa conclusione, a modesto parere di chi scrive, non tiene tuttavia conto
che laddove il legislatore, per consentire agli enti di beneficiare di
eventuali norme agevolative, ha voluto vincolare l'approvazione del bilancio
di previsione alla data del 31 dicembre, lo ha fatto espressamente. Si
pensi, ad esempio, al comma 905 dell'articolo 1 della medesima legge di
bilancio, che ha concesso agli enti che approvano il bilancio entro il 31
dicembre di non applicare alcuni limiti di spesa e di essere dispensati da
alcuni adempimenti, oppure all'analoga norma contenuta nell'articolo 21-bis,
comma 2, del Dl 50/2017.
L'aver fatto riferimento genericamente al termine previsto dal Tuel è indice
della volontà della norma di tenere conto di eventuali differimenti del
termine, sovente dovuti peraltro a cause non imputabili agli enti locali.
Inoltre, seppure è vero che l'ente che non approva il bilancio entro il 31
dicembre si trova a operare nei primi mesi dell'anno successivo in esercizio
provvisorio, tuttavia non si comprende come questa circostanza possa
impedire all'ente di stanziare le somme relative al fondo con l'approvazione
del bilancio di previsione (o meglio dopo l'approvazione del rendiconto
dell'esercizio precedente), incidendo i vincoli dell'esercizio provvisorio
sull'ente solo fino all'approvazione del documento contabile previsionale.
Una siffatta interpretazione appare molto penalizzante, considerando che
spesso i Comuni sono costretti ad approvare il bilancio dopo il termine
ordinario del 31 dicembre (peraltro sempre storicamente prorogato) a causa
delle mancate certezze sulle risorse disponibili, definite solitamente dallo
Stato a ridosso della fine dell'anno, con l'approvazione della legge di
bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
27.09.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO -
TRIBUTI: Con
riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo economico a favore dei
dipendenti comunali per le attività connesse alla partecipazione del Comune
all’accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti e tenuto conto del disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della
legge n. 145 del 2018, il termine per l’approvazione del bilancio deve
intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma
1, del d.lgs. n. 267/2000.
---------------
Il Sindaco del Comune di Sant’Agata Bolognese (BO) formula
seguente richiesta di parere: con riferimento alla possibilità di istituire
l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse alla partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi
erariali e dei contributi sociali non corrisposti e tenuto conto del
disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, “se
il termine per l’approvazione del bilancio debba intendersi solo con
riferimento al 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma
1, del d.lgs. n. 267/2000 o può essere correttamente riferito al termine
differito, ai sensi dell’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, con
apposita legge e/o decreti ministeriali”.
...
2.1. Passando al merito, la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l’approvazione del bilancio è da intendersi il 31/12 dell’anno
di riferimento di cui all’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 e non
anche il termine differito di cui all’art. 163, comma 3, del d.lgs. n.
267/2000.
2.2. Depone in tal senso la chiara disposizione di cui al citato art. 1,
comma 1091, della legge n. 145 del 2018, secondo la quale “1091. Ferme
restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52
del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni che hanno approvato il
bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo
unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, possono, con proprio
regolamento, prevedere che il maggiore gettito accertato e riscosso,
relativo agli accertamenti dell'imposta municipale propria e della TARI,
nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal
conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia
destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle
risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di
qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2,
del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata al trattamento
economico accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP a carico
dell'amministrazione, è attribuita, mediante contrattazione integrativa, al
personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate,
anche con riferimento alle attività connesse alla partecipazione del comune
all'accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti, in applicazione dell'articolo 1 del decreto-legge 30.09.2005,
n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 02.12.2005, n. 248. Il
beneficio attribuito non può superare il 15 per cento del trattamento
tabellare annuo lordo individuale. La presente disposizione non si applica
qualora il servizio di accertamento sia affidato in concessione.”.
Invero, l’inciso di cui alla norma citata consente la facoltà di destinare
risorse per incentivi al personale per l’accertamento di imposte municipali
alla condizione dell’approvazione del bilancio di previsione e del
rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267”, e cioè nei termini previsti dall’art.
163, comma 1, Tuel1, e dunque solo nel caso in cui il bilancio di
previsione sia approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno
precedente.
D’altro canto, nell’ipotesi in cui il bilancio di previsione dell’ente non
sia approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore,
all’art. 163 citato, limita l’attività gestionale dell’ente ad una serie di
attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
E ciò in base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità
in cui versa quell’ente che non sia in grado di corrispondere al
fondamentale obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di
previsione, dal che discende, ex lege, una gestione di tipo
provvisorio dell’ente e limitata a specifiche attività.
---------------
11. Se il bilancio di previsione non è approvato
dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno precedente, la gestione
finanziaria dell'ente si svolge nel rispetto dei principi applicati della
contabilità finanziaria riguardanti l'esercizio provvisorio o la gestione
provvisoria. Nel corso dell'esercizio provvisorio o della gestione
provvisoria, gli enti gestiscono gli stanziamenti di competenza previsti
nell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione
o l'esercizio provvisorio, ed effettuano i pagamenti entro i limiti
determinati dalla somma dei residui al 31 dicembre dell'anno precedente e
degli stanziamenti di competenza al netto del fondo pluriennale vincolato.
2. Nel caso in cui il bilancio di esercizio non sia approvato entro
il 31 dicembre e non sia stato autorizzato l'esercizio provvisorio, o il
bilancio non sia stato approvato entro i termini previsti ai sensi del comma
3, è consentita esclusivamente una gestione provvisoria nei limiti dei
corrispondenti stanziamenti di spesa dell'ultimo bilancio approvato per
l'esercizio cui si riferisce la gestione provvisoria. Nel corso della
gestione provvisoria l'ente può assumere solo obbligazioni derivanti da
provvedimenti giurisdizionali esecutivi, quelle tassativamente regolate
dalla legge e quelle necessarie ad evitare che siano arrecati danni
patrimoniali certi e gravi all'ente. Nel corso della gestione provvisoria
l'ente può disporre pagamenti solo per l'assolvimento delle obbligazioni già
assunte, delle obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali
esecutivi e di obblighi speciali tassativamente regolati dalla legge, per le
spese di personale, di residui passivi, di rate di mutuo, di canoni, imposte
e tasse, ed, in particolare, per le sole operazioni necessarie ad evitare
che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente.
3. L'esercizio provvisorio è autorizzato con legge o con decreto
del Ministro dell'interno che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 151,
primo comma, differisce il termine di approvazione del bilancio, d'intesa
con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza
Stato-città ed autonomia locale, in presenza di motivate esigenze. Nel corso
dell'esercizio provvisorio non è consentito il ricorso all'indebitamento e
gli enti possono impegnare solo spese correnti, le eventuali spese correlate
riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma urgenza o altri
interventi di somma urgenza. Nel corso dell'esercizio provvisorio è
consentito il ricorso all'anticipazione di tesoreria di cui all'art. 222.
4. All'avvio dell'esercizio provvisorio o della gestione
provvisoria l'ente trasmette al tesoriere l'elenco dei residui presunti alla
data del 1° gennaio e gli stanziamenti di competenza riguardanti l'anno a
cui si riferisce l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria previsti
nell'ultimo bilancio di previsione approvato, aggiornati alle variazioni
deliberate nel corso dell'esercizio precedente, indicanti -per ciascuna
missione, programma e titolo- gli impegni già assunti e l'importo del fondo
pluriennale vincolato.
5. Nel corso dell'esercizio provvisorio, gli enti possono impegnare
mensilmente, unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi
precedenti, per ciascun programma, le spese di cui al comma 3, per importi
non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del
bilancio di previsione deliberato l'anno precedente, ridotti delle somme già
impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo accantonato al fondo
pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese: a) tassativamente
regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento frazionato in
dodicesimi; c) a carattere continuativo necessarie per garantire il
mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti,
impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti.
6. I pagamenti riguardanti spese escluse dal limite dei dodicesimi
di cui al comma 5 sono individuati nel mandato attraverso l'indicatore di
cui all'art. 185, comma 2, lettera i-bis).
7. Nel corso dell'esercizio provvisorio, sono consentite le
variazioni di bilancio previste dall'art. 187, comma 3-quinquies, quelle
riguardanti le variazioni del fondo pluriennale vincolato, quelle necessarie
alla reimputazione agli esercizi in cui sono esigibili, di obbligazioni
riguardanti entrate vincolate già assunte, e delle spese correlate, nei casi
in cui anche la spesa è oggetto di reimputazione l'eventuale aggiornamento
delle spese già impegnate. Tali variazioni rilevano solo ai fini della
gestione dei dodicesimi (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 18.09.2019 n. 52). |
INCARICHI PROGETTUALI: «No»
al finanziamento delle sole spese di progettazione dell'opera senza le fasi
successive.
Stop al finanziamento delle sole spese di progettazione svincolate dalle
successive fasi di esecuzione dei lavori e finalizzazione dell'opera;
l'affidamento di un incarico di progettazione va necessariamente correlato
non solo a un'opera che sia stata programmata, ma anche a un'indicazione
sulla effettiva reperibilità delle risorse necessarie per la sua
realizzazione.
Con il
parere 12.09.2019 n. 352, la Sezione
regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia affronta, su
richiesta di un Comune, la pratica diffusa tra gli enti, a fronte della
mancanza di disponibilità di risorse per l'intera opera, di conferire un
incarico per le sole spese relative alla progettazione, imputandole al
titolo II, nella speranza di reperire in un momento successivo quelle
necessarie per il finanziamento dell' opera intera.
Dopo le novità del Dm 01.03.2019, la contabilizzazione, tra gli
investimenti, delle spese per il livello minimo di progettazione, richiede
che i documenti di programmazione dell'ente, che definiscono gli indirizzi
generali riguardanti gli investimenti e la realizzazione delle opere
pubbliche (Dup, Defr o altri documenti di programmazione), individuino in
modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione è destinata,
prevedendone, altresì, le necessarie forme di finanziamento. Secondo i
giudici contabili, la contabilizzazione deve discendere da una chiara e
trasparente programmazione dell'opera da realizzare, dove l'indicazione
«specifica» delle «necessarie» forme di finanziamento ha un ruolo di
particolare rilievo.
In una fase successiva rispetto alla verifica del livello di progettazione
minima, gli interventi sono inseriti nel programma triennale dei lavori
pubblici e le relative spese sono stanziate nel titolo II del bilancio di
previsione, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera
complessiva. Ciò che rileva, dunque, per la corretta contabilizzazione della
spesa di progettazione è il riferimento agli stanziamenti «riguardanti
l'opera complessiva» a cui la fase progettuale è funzionalmente e
strutturalmente correlata.
Va evidenziato inoltre che la progettazione di un'opera, seppur articolata
secondo livelli, non può prescindere da un quadro trasparente determinato a
monte, relativo alla sua realizzazione e, sotto il profilo contabile, a una
chiara previsione ed effettiva individuazione delle forme di finanziamento.
La Corte dei conti ritiene, pertanto, che il conferimento di un incarico
relativo alle spese di progettazione, da contabilizzare tra le spese di
investimento, vada inserito nell'ambito di una effettiva e concreta
programmazione dell'opera, ove, di conseguenza, anche le risorse e i mezzi
finanziari complessivi da utilizzare devono essere conosciuti o conoscibili
ex ante, con un grado di attendibilità tale da evitare che si faccia ricorso
a un affidamento non finalizzato al perseguimento di un concreto interesse
pubblico.
Risulta, altresì, indispensabile, proseguono i giudici, l'accertamento della
fattibilità e della finanziabilità dell'opera pubblica, quale condizione
minima e imprescindibile per il conferimento di un incarico di
progettazione, al fine di evitare una spesa di denaro pubblico inutile, nel
rispetto del più generale criterio di diligenza, che deve sempre
caratterizzare l'agire pubblico. Ciò vale anche nell'ipotesi in cui si
decida di far rientrare l'affidamento dell'incarico tra le spese correnti.
Conferimento dell'incarico
Infine, i giudici si soffermano sulle ipotesi vagliate dalla giurisprudenza
in tema di conferimento di incarichi subordinati alla concessione di
finanziamenti per la realizzazione di un' opera pubblica. L'inserimento nel
contratto d'opera professionale di una clausola di copertura finanziaria, in
base alla quale l'ente pubblico territoriale subordina il pagamento del
compenso al professionista alla concessione di un finanziamento, non
consente di derogare alle procedure di spesa, che non possono essere
differite al momento dell'erogazione del finanziamento; in mancanza di
finanziamento, il rapporto obbligatorio non è riferibile all'ente ma
intercorre tra il privato e l'amministratore o funzionario che abbia assunto
l'impegno.
L'articolo 24, comma 8-bis, del Dlgs 50/2016, da ultimo, prevede che le
stazioni appaltanti non possono subordinare la corresponsione dei compensi
relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività
tecnico-amministrative ad essa connesse, all'ottenimento del finanziamento
dell'opera progettata. Nella convenzione stipulata con il soggetto
affidatario sono previste le condizioni e le modalità per il pagamento dei
corrispettivi (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
10.10.2019).
---------------
La Sezione si pronuncia sul conferimento e sulla contabilizzazione di
incarichi di progettazione, anche alla luce delle modifiche introdotte dal
D.M. 01.03.2019 all’allegato 4/2 del d.lgs. n. 118/2011.
La Sezione evidenzia
che per la corretta contabilizzazione della spesa di progettazione rileva il
riferimento agli stanziamenti sull’opera complessiva, a cui la fase
progettuale è funzionalmente e strutturalmente correlata.
Va, altresì,
rimarcato che la progettazione di un’opera, seppur articolata secondo
livelli, non può prescindere da un quadro trasparente e determinato a monte,
relativamente alla sua realizzazione e, sotto il profilo contabile,
relativamente ad una chiara previsione ed effettiva contezza delle relative
forme di finanziamento.
Il conferimento di un incarico relativo alle spese
di progettazione, secondo le regole predette e da contabilizzare tra le
spese di investimento, pertanto, va inserito nell’ambito di una effettiva e
concreta programmazione dell’opera, ove anche le risorse e i mezzi
finanziari complessivi da utilizzare devono essere conosciuti o conoscibili
ex ante, con un grado di attendibilità tale da evitare che si faccia ricorso
ad un affidamento non funzionalizzato al perseguimento di un concreto
interesse pubblico.
Risulta, altresì, indispensabile l’accertamento della
fattibilità e della finanziabilità dell’opera pubblica, quale condizione
minima e imprescindibile per il conferimento di un incarico di
progettazione; ciò vale anche nell’ipotesi in cui si decida di far rientrare
l’affidamento dell’incarico tra le spese correnti, dovendo l’ente, se del
caso, valutare attentamente tale possibilità, pur sempre nel rispetto dei
principi e delle regole contabili e del perseguimento dell’interesse
pubblico della comunità amministrata.
---------------
Il Sindaco del Comune di Trescore
Balneario (BG) chiede un parere in merito al seguente quesito.
“Il principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria
di cui all’Allegato n. 4/2 del D.Lgs. 118/2011, così come modificato dal
decimo decreto correttivo del 01.03.2019, al punto 5.3.14 prevede, con
riferimento alla registrazione contabile delle spese per interventi inseriti
nel programma triennale dei lavori pubblici e nell’elenco annuale che “A
seguito della validazione del livello di progettazione minima previsto
dall’articolo 21 del d.lgs. 50 del 2016, gli interventi sono inseriti nel
programma triennale dei lavori pubblici e le relative spese sono stanziate
nel Titolo II del bilancio di previsione. L’inserimento di un intervento nel
programma triennale dei lavori pubblici consente l’iscrizione nel bilancio
di previsione degli stanziamenti riguardanti l’ammontare complessivo della
spesa da realizzare, nel rispetto del principio della competenza finanziaria
cd. potenziata. Gli stanziamenti sono interamente prenotati a seguito
dell’avvio del procedimento di spesa e sono via via impegnati a seguito dei
contratti concernenti le fasi di progettazione successive al minimo o la
realizzazione dell’intervento. Gli impegni sono imputati contabilmente nel
rispetto del principio della competenza finanziaria cd. potenziata”.
Il nostro ente ha attualmente la disponibilità di risorse per le sole spese
di progettazione (di livello minimo e successive al livello minimo) e non
anche per il finanziamento dell’intera opera cui la progettazione si
riferisce.
Considerate tali premesse e considerato che molto spesso per ottenere
punteggi più elevati nell’ambito di finanziamenti a fondo perduto è
necessario disporre di un progetto definitivo ed esecutivo, è possibile
conferire un incarico per le sole spese relative alla progettazione
imputandole al titolo II, nella speranza di reperire in un momento
successivo le necessarie risorse per il finanziamento dell’intera opera?”.
...
2.1. Il D.M. 01.03.2019 (pubblicato in G.U. 25.03.2019, n. 71), all’articolo
3, ha apportato diverse modifiche al principio contabile applicato,
concernente la contabilità finanziaria di cui all’allegato 4/2 del d.lgs. n.
118/2011.
Tra le modifiche introdotte, va segnalato l’inserimento dei paragrafi
5.3.12, 5.3.13 e 5.3.14.
In particolare, il paragrafo 5.3.12 riguarda la registrazione contabile
delle spese per il livello minimo di progettazione richiesto per
l’inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici e
nell’elenco annuale e prevede che “La spesa riguardante il livello minimo
di progettazione, richiesto ai fini dell'inserimento di un intervento nel
programma triennale dei lavori pubblici, è registrata nel bilancio di
previsione prima dello stanziamento riguardante l'opera cui la progettazione
si riferisce. Per tale ragione, affinché la spesa di progettazione possa
essere contabilizzata tra gli investimenti, è necessario che i documenti di
programmazione dell'ente, che definiscono gli indirizzi generali riguardanti
gli investimenti e la realizzazione delle opere pubbliche (DUP, DEFR o altri
documenti di programmazione), individuino in modo specifico l'investimento a
cui la spesa di progettazione è destinata, prevedendone altresì le
necessarie forme di finanziamento. In tal caso, la spesa di progettazione
"esterna", consistente in una delle fattispecie previste dall'art. 24, comma
1, esclusa la lettera a), del d.lgs. n. 50 del 2016, è registrata, nel
rispetto della natura economica della spesa, al Titolo II della spesa, alla
voce U.2.02.03.05.001 "Incarichi professionali per la realizzazione di
investimenti" del modulo finanziario del piano dei conti integrato previsto
dall'allegato 6 al presente decreto. I principi contabili riguardanti la
progettazione esterna si applicano anche alle ipotesi di ricorso a una
centrale di committenza o a soggetti aggregatori qualificati. Nel caso di
progettazione "interna", di cui al comma 1, lettera a), dell'art. 24, d.lgs.
n. 50 del 2016, le relative spese sono contabilizzate secondo la natura
economica delle stesse al Titolo I o al Titolo II della spesa. La
capitalizzazione delle spese riguardanti il livello minimo di progettazione
è effettuata attraverso le scritture della contabilità economico
patrimoniale e non richiede alcuna rilevazione in contabilità finanziaria.
Nel caso in cui la copertura dell'intervento sia costituita da un contributo
per il finanziamento dell'opera, comprensivo della spesa di progettazione,
concesso nell'esercizio successivo a quello in cui è stata impegnata la
spesa concernente la progettazione, per la quota riguardante la
progettazione il contributo è gestito come entrata libera, in quanto il
relativo vincolo è già stato realizzato e può essere destinato alla
copertura di spese correnti”.
Il paragrafo 5.3.13 riguarda la registrazione contabile delle spese di
progettazione riguardanti lavori di valore stimato, inferiore a 100.000
euro, prevedendo che “La spesa concernente gli interventi di valore
stimato inferiore a 100.000 euro è stanziata in bilancio anche se detti
interventi non sono inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici. In
tali casi, la spesa di progettazione è registrata nel Titolo II della spesa,
con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel
caso di progettazione interna che di progettazione esterna, in attuazione
dell'art. 113, comma 1, del Codice, il quale prevede "Gli oneri inerenti
alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore
dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero
alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle
ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di
coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione
quando previsti ai sensi del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81, alle
prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un
progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti
previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di
previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti". In ogni
caso, gli stipendi del personale dell'ente incaricato della progettazione
sono classificati tra le spese di personale (spesa corrente). La
capitalizzazione di tali spese è effettuata attraverso le scritture della
contabilità economico patrimoniale e non richiede alcuna rilevazione in
contabilità finanziaria”.
Infine, il nuovo paragrafo 5.3.14 –relativo alla registrazione contabile
delle spese per gli interventi inseriti nel programma triennale dei lavori
pubblici e nell’elenco annuale– prevede che “A seguito della validazione
del livello di progettazione minima previsto dall'articolo 21 del d.lgs. 50
del 2016, gli interventi sono inseriti nel programma triennale dei lavori
pubblici e le relative spese sono stanziate nel Titolo II del bilancio di
previsione. L'inserimento di un intervento nel programma triennale dei
lavori pubblici consente l'iscrizione nel bilancio di previsione degli
stanziamenti riguardanti l'ammontare complessivo della spesa da realizzare,
nel rispetto del principio della competenza finanziaria cd. potenziata. In
particolare, nei casi in cui la copertura di tali spese risulti costituita
da entrate esigibili nel medesimo esercizio in cui sono esigibili le spese
correlate, nel bilancio di previsione gli stanziamenti di entrata e di spesa
sono iscritti distintamente con imputazione ai singoli esercizi di
esigibilità. Nei casi in cui la copertura di tali spese risulti costituita
da entrate esigibili anticipatamente rispetto all’esigibilità delle spese
correlate, nel bilancio di previsione è iscritto il fondo pluriennale
vincolato di spesa. Gli stanziamenti sono interamente prenotati a seguito
dell'avvio del procedimento di spesa e sono via via impegnati a seguito
della stipula dei contratti concernenti le fasi di progettazione successive
al minimo o la realizzazione dell'intervento. Gli impegni sono imputati
contabilmente nel rispetto del principio della competenza finanziaria cd.
potenziata. La spesa di progettazione riguardante i livelli successivi a
quello minimo richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma
triennale dei lavori pubblici è registrata nel titolo secondo della spesa,
con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel
caso di progettazione interna che di progettazione esterna, in attuazione
dell'art. 113, comma 1, del Codice, il quale prevede "Gli oneri inerenti
alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore
dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero
alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle
ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di
coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione
quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle
prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un
progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti
previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di
previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti". In ogni
caso, gli stipendi del personale dell'ente incaricato della progettazione
sono classificati tra le spese di personale (spesa corrente). La
capitalizzazione di tali spese è effettuata attraverso le scritture della
contabilità economico patrimoniale e non richiede alcuna rilevazione in
contabilità finanziaria”.
2.2. Dalle modifiche introdotte e sopra riportate, emerge che
per la contabilizzazione, tra gli investimenti, delle spese per il livello minimo
di progettazione, è necessario che i documenti di programmazione dell'ente,
che definiscono gli indirizzi generali riguardanti gli investimenti e la
realizzazione delle opere pubbliche (DUP, DEFR o altri documenti di
programmazione), individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa
di progettazione è destinata, prevedendone, altresì, le necessarie forme di
finanziamento.
In tal caso, la spesa di progettazione "esterna", consistente in una
delle fattispecie previste dall'art. 24, comma 1, esclusa la lettera a), del
d.lgs. n. 50 del 2016, è registrata, nel rispetto della natura economica
della spesa, al Titolo II della spesa, alla voce U.2.02.03.05.001 "Incarichi
professionali per la realizzazione di investimenti" del modulo
finanziario del piano dei conti integrato previsto dall'allegato 6 al
presente decreto.
Nel caso di progettazione "interna", di cui al
comma 1, lettera a), dell'art. 24, d.lgs. n. 50 del 2016, le relative spese
sono contabilizzate secondo la natura economica delle stesse al Titolo I o
al Titolo II della spesa.
Ne deriva che
la contabilizzazione in parola consegue ad una chiara e
trasparente programmazione dell’opera da realizzare, rispetto a cui
l’indicazione “specifica” delle “necessarie” forme di finanziamento
ne costituisce parte integrante.
Le previsioni di cui al paragrafo 5.3.14 attengono, sotto il profilo
cronologico, ad una fase successiva rispetto alla validazione del livello di
progettazione minima, previsto dall'articolo 21 del d.lgs. 50 del 2016, con
la conseguenza che, a seguito di tale validazione, gli interventi sono
inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici e le relative spese
sono stanziate nel Titolo II del bilancio di previsione.
In particolare, la spesa di progettazione riguardante i livelli successivi a
quello minimo richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma
triennale dei lavori pubblici è registrata nel Titolo II della spesa, con
imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel caso
di progettazione interna che di progettazione esterna. In ogni caso, gli
stipendi del personale dell'ente incaricato della progettazione sono
classificati tra le spese di personale (spesa corrente).
Ciò che rileva, dunque, per la corretta contabilizzazione della spesa di
progettazione è il riferimento agli stanziamenti “riguardanti l’opera
complessiva” a cui, in definitiva, la fase progettuale è funzionalmente
e strutturalmente correlata, ai fini del rispetto delle previsioni dei
principi contabili in parola.
In linea generale, inoltre, va evidenziato che
la progettazione di un’opera,
seppur articolata secondo livelli, non può prescindere da un quadro
trasparente e determinato a monte, relativamente alla sua realizzazione e,
sotto il profilo contabile, relativamente ad una chiara previsione ed
effettiva contezza delle relative forme di finanziamento.
La Sezione ritiene, pertanto,
che il conferimento di un incarico relativo
alle spese di progettazione, secondo le regole predette e da contabilizzare
tra le spese di investimento, vada inserito nell’ambito di una effettiva e
concreta programmazione dell’opera, ove, di conseguenza, anche le risorse e
i mezzi finanziari complessivi da utilizzare devono essere conosciuti o
conoscibili ex ante, con un grado di attendibilità tale da evitare
che si faccia ricorso ad un affidamento –e quindi vengano utilizzate risorse
pubbliche– non funzionalizzato al perseguimento di un concreto interesse
pubblico.
2.3. Occorre, altresì, aggiungere che lo stesso D.M. 01.03.2019, a seguito
delle previsioni normative di cui alla legge n. 145/2018 (articolo 1, commi
909-911), ha apportato modifiche anche in tema di formazione del Fondo
Pluriennale Vincolato (FPV), evidenziando l’importanza del principio di
correlazione dell’acquisizione delle risorse con il reale e monitorato
programma di sviluppo della spesa stessa, ove assume particolare rilievo
l’esatta e specifica declinazione delle fasi che attraversano l’arco
temporale che va dall’inserimento dell’opera nel programma triennale fino
alla esecuzione della stessa.
Sul punto, nella deliberazione della Sezione delle Autonomie n. 19/SEZAUT/2019/INPR,
del 24.07.2019, si fa presente che “Le modifiche apportate dal predetto
provvedimento anticipano i tempi di costituzione del FPV a quello
dell'affidamento della progettazione successiva al livello minimo,
consentendo la prenotazione dell’intero stanziamento di spesa iscritto in
bilancio dopo l’inserimento dell’intervento nel programma triennale delle
opere pubbliche. È quanto mai opportuno alla luce di queste novità ricordare
che il Fondo funziona ed assolve al suo ruolo di contenitore dinamico
dell’acquisizione ed impiego di risorse nella misura in cui realmente è
correlato allo sviluppo del programma di spesa. Misuratore di efficacia di
questo istituto è il suo effettivo utilizzo. Le modifiche apportate al
principio contabile applicato impongono attenzione proprio su detto profilo,
portando in primo piano la necessità di un costante monitoraggio dello
sviluppo dei programmi di spesa per giustificare le ragioni della sua
conservazione e per garantire il corretto utilizzo del FPV. È evidente,
infatti, che più si dilata lo spazio temporale tra acquisizione delle
risorse e utilizzo delle stesse, più cresce l’esigenza di monitoraggio.
Questo spazio è teoricamente individuato nella declinazione delle fasi che
attraversano l’arco temporale che va dall’inserimento dell’opera nel
programma triennale fino alla esecuzione della stessa. Risulta, dunque,
necessario che detto arco temporale venga mantenuto in limiti fisiologici
affinché il complessivo sviluppo della filiera procedimentale non sbiadisca
la natura tipica del FPV quale strumento di rappresentazione della
programmazione e previsione delle spese pubbliche territoriali che possa
evidenziare con trasparenza e attendibilità il procedimento di impiego delle
risorse acquisite dall’ente. Detta esigenza risulta garantita se e nella
misura in cui il tempo che trascorre identifica sempre il tempo
dell’adempimento della prestazione contenuto dell’obbligazione in via di
perfezionamento. Secondo la disciplina del riformato principio contabile la
legittima conservazione delle risorse accantonate nel fondo a copertura di
spese di investimento non impegnate, presuppone sempre e comunque due
condizioni e cioè l’intero accertamento delle relative entrate e
l’inserimento dell’intervento nel programma triennale, con l’eccezione dei
lavori pubblici di importo tra 40 e 100mila euro. A queste condizioni
indispensabili e contestualmente verificate si aggiungono talune qualificate
situazioni alternative di seguito indicate quali l’impegno parziale del
quadro economico sulla base di precise obbligazioni giuridicamente
perfezionate ovvero l’attivazione delle procedure di affidamento dei livelli
di progettazione successivi al minimo e l’attivazione delle procedure di
affidamento dell’intervento da realizzare avviate dopo la validazione del
progetto da porsi a base della gara stessa.”.
2.4. Le disposizioni del d.lgs. n. 50/2016 -da ultimo modificato dal D.L. n.
32/2019, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 55/2019– confermano
tale impostazione, laddove, all’articolo 21, comma 1, si prevede che le
amministrazioni aggiudicatrici adottano il programma triennale dei lavori e
che tali programmi sono approvati nel rispetto dei documenti programmatori e
in coerenza con il bilancio e, “per gli enti locali, secondo le norme che
disciplinano la programmazione economico-finanziaria degli enti”.
Al successivo comma 3, l’articolo 21 stabilisce, altresì, che il programma
triennale dei lavori pubblici e i relativi aggiornamenti annuali contengono
i lavori il cui valore stimato sia pari o superiore a 100.000 euro e “indicano,
previa attribuzione del codice unico di progetto.., i lavori da avviare
nella prima annualità, per i quali deve essere riportata l'indicazione dei
mezzi finanziari stanziati sullo stato di previsione o sul proprio bilancio,
ovvero disponibili in base a contributi o risorse dello Stato, delle regioni
a statuto ordinario o di altri enti pubblici…”.
Ancora, l’articolo 23 del d.lgs. n. 50/2016, nel prevedere che la
progettazione in materia di lavori pubblici si articola secondo tre livelli
di successivi approfondimenti tecnici (progetto di fattibilità tecnica ed
economica, progetto definitivo e progetto esecutivo), pone l’accento sulla
rilevanza della quantificazione delle spese per la realizzazione dell’opera
e del relativo cronoprogramma.
Ne deriva, dunque, che
la progettazione di un’opera pubblica non può
costituire un’attività fine a sé stessa e svincolata dalle successive fasi
di esecuzione dei lavori e finalizzazione dell’opera, con la conseguenza che
l’affidamento di un incarico di progettazione va ontologicamente correlato
non solo ad un’opera che sia stata programmata, ma anche ad un’indicazione
sulla effettiva reperibilità delle risorse necessarie per la sua
realizzazione.
Risulta, altresì, indispensabile l’accertamento della fattibilità e della
finanziabilità dell’opera pubblica, quale condizione minima e
imprescindibile per il conferimento di un incarico di progettazione, al fine
di evitare una spesa di denaro pubblico inutile
(vd. Corte dei conti
Sicilia, Sez. App., 24/11/2008, n. 364)
e nel rispetto del più generale
criterio di diligenza, che deve sempre caratterizzare l’agere
pubblico.
Ciò vale anche nell’ipotesi in cui si decida di far rientrare l’affidamento
dell’incarico tra le spese correnti, dovendo l’ente, se del caso, valutare
attentamente tale possibilità, pur sempre nel rispetto dei principi e delle
regole contabili e del perseguimento dell’interesse pubblico della comunità
amministrata.
2.5. Da ultimo, ed al solo fine di riferire circa le ipotesi vagliate dalla
giurisprudenza in tema di conferimento di incarichi subordinati alla
concessione di finanziamenti per la realizzazione di un'opera pubblica,
si
rammenta che, ai sensi dell’articolo 191 del TUEL, “Gli enti locali
possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul
competente programma del bilancio di previsione e l'attestazione della
copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5… Fermo restando
quanto disposto al comma 4, il terzo interessato, in mancanza della
comunicazione, ha facoltà di non eseguire la prestazione sino a quando i
dati non gli vengano comunicati” e che l’inserimento nel contratto
d’opera professionale di una clausola di cd. copertura finanziaria –in base
alla quale l’ente pubblico territoriale subordina il pagamento del compenso
al professionista incaricato della progettazione di un’opera pubblica alla
concessione di un finanziamento– non consente di derogare alle procedure di
spesa, che non possono essere differite al momento dell’erogazione del
finanziamento; in mancanza, il rapporto obbligatorio non è riferibile
all’ente ma intercorre, ai fini della controprestazione, tra il privato e
l’amministratore o funzionario che abbia assunto l’impegno
(vd. Cass.,
18/12/2014, n. 26657; Cass. civ., Sez. I, ord. 20/03/2018, n. 6970; Cass.
civ., ord. 11/03/2019, n. 6919).
Si ricorda, infine, che ai sensi dell’articolo 24, comma 8-bis, del d.lgs.
n. 50/2016 (comma aggiunto dall'art. 14, comma 1, lett. d), d.lgs.
19.04.2017, n. 56) “Le stazioni appaltanti non possono subordinare la
corresponsione dei compensi relativi allo svolgimento della progettazione e
delle attività tecnico-amministrative ad essa connesse all'ottenimento del
finanziamento dell'opera progettata. Nella convenzione stipulata con il
soggetto affidatario sono previste le condizioni e le modalità per il
pagamento dei corrispettivi con riferimento a quanto previsto dagli articoli
9 e 10 della legge 02.03.1949, n. 143, e successive modificazioni”. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sullo
scorrimento delle graduatorie dei concorsi pre-2019 in Corte dei conti vince
il «sì».
Si possono scorrere le graduatorie dei concorsi banditi prima del 2019? Per
la maggioranza delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti
fin qui intervenute, tra cui in modo esplicito quella della Marche, la
risposta è positiva; per i giudici contabili della Sardegna la risposta è
negativa.
È questa l'ennesima occasione su cui una disposizione di legge,
per la verità molto lacunosa tecnicamente, viene letta in modo differente
dai giudici contabili, peraltro nell'assenza in questa occasione di
indicazioni da parte dei ministeri. Il caso torna a sollevare ancora una
volta la necessità di migliorare la tecnica di redazione delle leggi e di
garantire omogeneità nelle interpretazioni.
Il nuovo quadro normativo
Sulla base delle disposizioni della legge di bilancio del 2019, e questo è
un dato acclarato, le graduatorie dei concorsi banditi a partire dallo
scorso 1° gennaio non potranno essere utilizzate per scorrimento né da parte
degli enti che hanno indetto le selezioni concorsuali né da parte di altre
amministrazioni.
Sulla base delle modifiche introdotte dalla legge di
conversione del Dl 135/2018 le graduatorie dei concorsi banditi dal 2019
vanno comunque utilizzate per scorrimento per la sostituzione dei vincitori
non assunti o decaduti o dimessi durante il periodo di validità della
stessa. Con una deroga introdotta dalla legge di conversione del Dl 34/2019
il divieto di scorrimento per le assunzioni degli idonei non si applica al
personale educativo e docente degli enti locali.
Il
parere
06.09.2019 n. 41 della
sezione regionale di controllo della Corte dei conti delle Marche
(già sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10 settembre) ha
opportunamente aggiunto che queste graduatorie possono comunque essere
utilizzate per le assunzioni del personale a tempo indeterminato, in quanto
la disposizione che lo consente (articolo 36 del Dlgs 165/2001) costituisce
una norma speciale e non è quindi abrogata in modo implicito delle nuove
disposizioni.
Questa stessa deliberazione in modo esplicito e facendo seguito a quanto
implicitamente contenuto nelle pronunce delle sezioni regionali di controllo
della Puglia (parere
09.07.2019 n. 72) e del Veneto (parere
22.05.2019 n. 113) chiarisce che il
legislatore non ha introdotto un divieto di scorrimento delle graduatorie a
tempo indeterminato per i concorsi banditi negli anni precedenti, ma
solamente per quelli banditi a partire dal 2019. Con ciò smentendo il
parere 03.07.2019 n. 36
dei giudici contabili della Sardegna.
È da
considerare assodato che con la legge di bilancio è stata invertita la
logica che ha ispirato il legislatore negli ultimi anni, cioè il favore per
lo strumento dello scorrimento delle graduatorie. Ma, punto del contrasto,
questa inversione si applica solamente per i concorsi del 2019 o si estende
a tutti, con l'abrogazione implicita dell'articolo 3, comma 61, della legge
350/2003?
Effetti e interpretazioni di legge
È del tutto evidente che lo scorrimento delle graduatorie abbrevia i tempi
in cui si porta a conclusione un'assunzione ed è molta "comoda" per l'ente,
perché evita di dovere indire e attuare un concorso e, quindi, comporta
oneri finanziari e organizzativi assai contenuti. Dall'altro lato, è del
tutto evidente che gli idonei non sono dei vincitori e che la possibilità di
attingere senza limiti numerici, tanto più se congiunto all'allungamento dei
periodi di validità delle graduatorie, possono determinare rilevanti effetti distorsivi.
L'eccessiva durata delle graduatorie è stata tolta di mezzo
dalla legge di bilancio, visto che dal 1° gennaio non sono più utilizzabili
le graduatorie approvate fino a tutto il 2009, dal prossimo 30 settembre non
lo saranno più quelle approvate negli anni dal 2010 al 2014 ed entro pochi
anni si ritorna alla validità triennale di tutte le graduatorie. Ma
l'utilizzazione delle graduatorie non ha limiti numerici.
È opportuno ricordare infine, richiamando le indicazioni dei giudici
contabili marchigiani, che lo scorrimento delle graduatorie, sia da parte
dell'ente che ha indetto il concorso sia da parte delle altre
amministrazioni, è vietato per i posti di nuova istituzione o che risultano
dalla trasformazione dei posti esistenti. Un divieto che peraltro deve
essere chiarito dopo che con la legge Madia il rilievo delle dotazioni
organiche è stato significativamente ridimensionato.
E, ancora, si deve ricordare che la possibilità di utilizzare per
scorrimento graduatorie di altri enti sulla base di intese raggiunte dopo
che la loro approvazione costituisce una deroga ai principi di carattere
generale, quindi da applicare in via eccezionale, e comunque le
amministrazioni si devono dare meccanismi predeterminati e trasparenti di
scelta delle graduatorie da utilizzare, senza ad esempio poterne sovvertire
l'ordine di merito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
12.09.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Graduatorie, largo agli idonei. Sì allo
scorrimento per i bandi antecedenti al 2019. La Corte dei conti Marche
sconfessa la sezione Sardegna.
Graduatorie, largo agli idonei Per i bandi antecedenti al 2019 è ancora
possibile sia lo scorrimento delle graduatorie degli idonei, sia l'utilizzo
delle graduatorie di altri enti.
Lo ha chiarito la Corte conti Marche nel
parere
06.09.2019 n. 41.
In risposta ad alcuni quesiti sulla possibilità di scorrere le graduatorie,
la sezione Marche della magistratura contabile si discosta, correttamente,
dall'erronea interpretazione fornita dalla sezione Sardegna col
parere 03.07.2019 n. 36,
ammettendo che per i bandi antecedenti al 2019 sia ancora possibile sia lo
scorrimento delle graduatorie degli idonei, sia l'utilizzo delle graduatorie
di altri enti.
Nell'affrontare la questione della possibilità di scorrere le graduatorie
degli idonei allo scopo di assumere a tempo determinato, invece, il parere
della sezione Marche inciampa in evidenti equivoci. Esso afferma che «per
le assunzioni a tempo determinato di idonei non vincitori di graduatorie a
tempo indeterminato è possibile derogare all'obbligo di utilizzo delle
graduatorie per i soli posti messi a concorso previsto dal combinato
disposto dei commi 361 e 365 dell'art. 1 della legge n. 145 del 2018».
Quindi, per la sezione Marche, mentre i dipendenti a tempo indeterminato si
possono assumere attingendo solo ai vincitori, al contrario i dipendenti a
tempo determinato potrebbero essere assunti anche chiamando gli idonei non
vincitori.
Questo perché «in sostanza, l'art. 36, comma 2, dlgs 165/2001 costituisce
una normativa di carattere speciale rispetto alle previsioni della legge n.
145 del 2018, dettata da una ratio differente». La specialità di tale
disposizione, secondo la magistratura contabile sarebbe «supportata non
solo dalla interpretazione teleologica dell'intervento normativo che l'ha
introdotta ma anche dalla stessa interpretazione letterale e sistematica
della legge n. 145 del 2018, che ha abrogato solo alcune delle disposizioni
contenute nel medesimo art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, ma non
quella modificativa dell'art. 36, comma 2, dlgs 165/2001».
Tale impianto interpretativo non regge. L'articolo 36, comma 2, penultimo
periodo, del dlgs 165/2001 dispone: «Per prevenire fenomeni di
precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni
del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i
vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi
pubblici a tempo indeterminato».
È vero che la disposizione citata consente di sottoscrivere i contratti a
termine sia coi vincitori, sia con gli idonei. Ma, altrettanto vero è che
occorra, nel nuovo regime normativo, coordinare tale disposizioni con le
previsioni contenute nell'articolo 1, comma 361, della legge 145/2018, ai
sensi del quale a partire dalle procedure bandite nel 2019 si possono
assumere solo i vincitori e non gli idonei (ferma la possibilità di scorrere
le graduatorie quando per qualsiasi ragione il rapporto di lavoro con i
vincitori non si sia costituito o si sia interrotto entro la vigenza delle
graduatorie).
Lo scopo dichiarato dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001 è evitare
il fenomeno del precariato. In un regime nel quale lo scorrimento delle
graduatorie fino alla chiamata degli idonei è ammesso, un idoneo assunto a
tempo determinato può contare su una futura assunzione a tempo indeterminato
dovuta appunto allo scorrimento della graduatoria; dunque, la sua assunzione
a termine attenua la «precarietà» insita in un contratto flessibile.
Ma, nel nuovo regime, un idoneo non può vantare alcuna fondata aspettativa
allo scorrimento della graduatoria a tempo indeterminato. Quindi, una sua
assunzione con contratto a termine molto difficilmente precederebbe una
successiva assunzione a tempo indeterminato.
Pertanto, la chiamata con contratto a termine di idonei di graduatorie a
tempo indeterminato, esattamente all'opposto della tesi proposta dalla
sezione Marche, finisce proprio per tradursi senza dubbio alcuno nella
produzione di precariato pubblico, in aperta violazione della prescrizione
normativa, che va vista nella combinazione tra articoli 1, comma 361, della
legge 145/2018 e articolo 36, comma 2, penultimo periodo, del dlgs 165/2001,
norma, quindi, da non poter in alcun modo considerare come «speciale»,
ma necessariamente da coordinare e integrare con le disposizioni della legge
di Bilancio 2019
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2019).
---------------
Con nota a firma del Sindaco del Comune di Falconara Marittima (AN), pervenuta via PEC in data 08.08.2019 per il tramite del CAL,
il Comune
di Falconara Marittima ha avanzato a questa Corte una richiesta di parere,
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003, concernente
l’interpretazione della normativa vigente in materia di utilizzo di
graduatorie concorsuali.
In particolare, l’Ente ha chiesto se:
· alla luce della perdurante vigenza dell’art. 36, comma 2, penultimo
capoverso, del decreto legislativo n. 165 del 2001, le graduatorie di
concorsi, banditi successivamente al 01.01.2019 per posti a tempo
indeterminato, possano essere correttamente utilizzate –nel rispetto dei
limiti e vincoli delle norme contabili– per assunzioni a tempo determinato,
domandando, altresì, in caso positivo, di specificare i limiti e le modalità
procedurali sia nel caso di utilizzo di proprie graduatorie che di
graduatorie di altri comuni;
· alla luce delle vigenti norme, si ritiene ancora possibile l’assunzione
mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro ente formata a
seguito di un bando pubblicato precedentemente al 01.01.2019, in quanto
fuori dall’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018.
Al riguardo, l’Ente ha chiesto l’interpretazione di specifiche disposizioni
di legge, quali l’art. 1, comma 363, della legge n. 145 del 2018; l’art. 4,
comma 3-ter, del decreto-legge n. 101 del 2013; l’art. 36, comma 2, del
decreto legislativo n. 165 del 2001, facendo presente che la propria tesi
interpretativa è favorevole per entrambe le questioni.
...
Nel merito
1. Normativa di riferimento
Passando a trattare il merito della questione sottoposta al vaglio della
Sezione, ferma restando la normativa in materia di vincoli di spesa e di
vincoli assunzionali vigenti, in merito alla quale si rinvia alla costante
giurisprudenza della Corte dei conti (ex multis, Sezione regionale di
controllo per la Puglia,
parere 09.07.2019 n. 72, Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 20.12.2018 n. 548), appare opportuno
effettuare un sintetico excursus della normativa in applicazione.
1.1. Il d.l. 31.08.2013, n. 101, convertito in legge 30.10.2013, n.
125, recante “Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di
razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni”, ha introdotto, all’art.
4, una serie di disposizioni volte a consentire alle pubbliche
amministrazioni di sottoscrivere contratti a tempo determinato con i
vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi
pubblici a tempo indeterminato. In particolare, il medesimo articolo:
· ha modificato l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001,
introducendo l’ultimo periodo, ancora in vigore, che dispone: “Per prevenire
fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle
disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo
determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti
per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l'applicazione
dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n.
350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella
graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo
indeterminato”;
· ha previsto, al comma 3, che “per le amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici e gli enti
di ricerca, l'autorizzazione all'avvio di nuove procedure concorsuali, ai
sensi dell'articolo 35, comma 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, e successive modificazioni, è subordinata alla verifica: a)
dell'avvenuta immissione in servizio, nella stessa amministrazione, di tutti
i vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici
per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve
comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate; b)
dell'assenza, nella stessa amministrazione, di idonei collocati nelle
proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007,
relative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di
equivalenza”;
· ha previsto, al comma 3-bis, che “per la copertura dei posti in organico,
è comunque necessaria la previa attivazione della procedura prevista
dall'articolo 33 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive
modificazioni, in materia di trasferimento unilaterale del personale eccedentario”.
· ha previsto, al comma 3-ter, che “resta ferma per i vincitori e gli idonei
delle graduatorie di cui al comma 3 del presente articolo l'applicabilità
dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n.
350”;
· ha disposto, al comma 3-quater, che “l'assunzione dei vincitori e degli
idonei, nelle procedure concorsuali già avviate dai soggetti di cui al comma
3 e non ancora concluse alla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto, è subordinata alla verifica del rispetto
della condizione di cui alla lettera a) del medesimo comma”.
Fino alla legge n. 145 del 2018, gli interventi normativi hanno esteso la
possibilità di utilizzo delle graduatorie concorsuali, mediante il loro
scorrimento, per l’assunzione dei candidati idonei non vincitori.
In particolare, con il decreto-legge n. 101 del 2013, il legislatore ha
limitato l’autorizzazione all’avvio di nuove procedure concorsuali,
prevedendo preliminarmente la verifica di una serie di condizioni quali:
a)
l’avvenuta immissione in servizio, nella stessa Amministrazione, di tutti i
vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici
per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve
comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate; e
b) l’assenza, nella stessa Amministrazione, di idonei collocati nelle
proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007,
relative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di
equivalenza.
Oltre a ciò, lo stesso corpo normativo ha previsto ulteriori condizioni,
quali la previa attivazione della procedura prevista dall’articolo 33 del
decreto legislativo n. 165 del 2001, in materia di trasferimento unilaterale
del personale eccedentario.
Inoltre, veniva fatta salva, per i vincitori e gli idonei delle graduatorie
di cui sopra, l’applicabilità dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo,
della legge 24.12.2003, n. 350, mentre anche l’assunzione dei
vincitori e degli idonei, nelle procedure concorsuali già avviate dai
soggetti di cui sopra e non ancora concluse alla data di entrata in vigore
della legge di conversione, veniva subordinata alla verifica del rispetto
della condizione dell’avvenuta immissione in servizio, nella stessa
Amministrazione, di tutti i vincitori collocati nelle proprie graduatorie
vigenti di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato per
qualsiasi qualifica, salve comprovate non temporanee necessità organizzative
adeguatamente motivate.
Tali prescrizioni, inizialmente dettate per le amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici e
gli enti di ricerca, sono state estese anche agli enti locali dall’art. 3,
comma 5-ter, del decreto-legge n. 90 del 2014, secondo cui i principi
dell’art. 4, comma 3, del decreto-legge n. 101 del 2013, convertito, con
modifiche, dalla legge n. 114 del 2014, si applicano alle amministrazioni di
cui al comma 5 del medesimo art. 3 ovvero alle regioni e agli enti
sottoposti al patto di stabilità interno.
Peraltro, la giurisprudenza ha riconosciuto un “generale favor
dell’ordinamento per lo scorrimento di graduatorie ancora efficaci ai fini
della copertura di posti vacanti nella pianta organica” (si veda, ex multis,
Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 371/2018/PAR,
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 14/2011, Sezione regionale di
controllo per la Campania, deliberazione n. 158/2018/PAR).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la
decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace
rappresenta ormai la regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso
costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione,
che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle
preminenti esigenze di interesse pubblico (TAR Lazio, sent. n. 3444/2012,
TAR Campania, Napoli, sent. n. 366/2017, Consiglio di Stato, sent. n.
6247/2013), senza che tuttavia sia configurabile un diritto soggettivo
all’assunzione in capo agli idonei per il solo fatto della disponibilità di
posti in organico: infatti, l’Amministrazione deve sempre motivare le forme
prescelte per il reclutamento, tenendo conto delle graduatorie vigenti e del
fatto che “l’ordinamento attuale afferma un generale favore per
l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei, che recede solo in presenza
di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di
ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere
puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso”
(Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 2011).
1.2. Successivamente, il comma 363 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018
ha modificato il decreto-legge n. 101 del 2013 sopra richiamato, abrogando
la lettera b) del comma 3 e i commi 3-ter e 3-quater dell’art. 4.
In particolare, i commi 360-367 della citata legge, concernenti le modalità
delle procedure concorsuali per il reclutamento del personale nelle
pubbliche amministrazioni, hanno ammesso l’utilizzo delle graduatorie
concorsuali solo per la copertura dei posti messi a concorso e hanno
modificato, in via transitoria, i termini di vigenza delle graduatorie
medesime. I commi in esame riguardano tutte le pubbliche amministrazioni (di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, e
successive modificazioni), con esclusione delle assunzioni del personale
scolastico (ivi compresi i dirigenti) e del personale delle istituzioni di
alta formazione artistica, musicale e coreutica.
In particolare, il comma 360 ha esteso a tutte le procedure concorsuali
delle pubbliche amministrazioni le modalità semplificate che verranno
definite con il regolamento ministeriale di cui al precedente comma 300.
I commi 361 e 365 hanno previsto, con riferimento alle procedure concorsuali
bandite dopo il 01.01.2019, che le relative graduatorie siano impiegate
esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso, fermi restando i
termini di vigenza delle medesime graduatorie.
Tali termini sono stati modificati, in via transitoria, dal successivo comma
362, che ha posto termini di durata specifici a seconda dell'anno di
approvazione della graduatoria, con riferimento agli anni 2010-2018, mentre
è stato confermato il termine già vigente di 3 anni per le graduatorie
approvate a decorrere dal 01.01.2019. E’ stata, inoltre, esplicitamente
confermata la possibilità, per le leggi regionali, di stabilire periodi di
vigenza inferiori.
Infine, i commi 363 e 364 hanno abrogato alcune norme, ai fini del
coordinamento con i principi citati.
Come evidenziato nel recente
parere 03.07.2019 n. 36 della Sezione di
controllo della Corte dei conti per la regione Sardegna, i due interventi
normativi hanno una ratio differente: infatti, mente il primo (decreto-legge
n. 101 del 2013) si colloca in un quadro normativo da cui emerge una
preferenza per l’assunzione di personale mediante lo scorrimento di
graduatorie, proprie o altrui, il secondo (legge n. 145 del 2018), con le
disposizioni innanzi richiamate, ha introdotto una evidente discontinuità
con gli interventi normativi precedenti: infatti, la disciplina dettata
dall’art. 1, comma 361, della legge n. 145 del 2018, nel prevedere che le
graduatorie dei concorsi siano utilizzate “esclusivamente” per la copertura
dei posti messi a concorso, impedisce l’utilizzo della medesima graduatoria
per la copertura di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a
concorso, sia esso della medesima o di altra Amministrazione.
Lo scorrimento della graduatoria viene quindi limitato, a partire dal 2019,
alla sola possibilità di attingere ai candidati “idonei” per la copertura di
posti che, pur essendo stati messi a concorso, non siano stati coperti o
siano successivamente divenuti scoperti nel periodo di permanente efficacia
della graduatoria medesima.
Come rimarcato nella deliberazione sopra richiamata, “la regola introdotta
dal menzionato art. 1, comma 361, della legge n. 145/2018, pertanto,
determina una inversione di tendenza nella utilizzabilità delle graduatorie
di concorso, non consentendo più lo scorrimento da parte di altre
amministrazioni, né da parte della medesima Amministrazione che intendesse
utilizzare una propria graduatoria, ancora efficace, per la copertura di un
posto diverso da quelli messi a concorso. Il successivo art. 1, comma 363,
nell’abrogare alcune norme che prevedevano la possibilità di utilizzare le
graduatorie di altre amministrazioni, si pone in coerenza con la volontà
legislativa espressa nella nuova regola generale di cui al comma 361: da un
lato, infatti, si crea uno stretto collegamento tra graduatoria e posto
messo a concorso; dall’altro, coerentemente, vengono abrogate le norme che
prevedevano l’utilizzo della graduatoria per la copertura di posti diversi
da quelli messi a concorso” (Sezione di controllo per la Sardegna,
parere 03.07.2019 n. 36).
1.3. Si evidenzia che i sopra citati commi della legge n. 145 del 2018 sono
stati modificati di recente dall’articolo 9-bis, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 14.12.2018, n. 135, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge 11.02.2019, n. 12, dall'articolo 14-ter,
comma 2, del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge 28.03.2019, n. 26 e dall’articolo 33, comma
2-bis, del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge 28.06.2019, n. 58.
In particolare, il comma 361 è stato modificato dall’art. 14-ter del
decreto-legge 28.01.2019, n. 4, che ha aggiunto, dopo le parole «a
concorso», le seguenti: «nonché di quelli che si rendono disponibili, entro
i limiti di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando
il numero dei posti banditi e nel rispetto dell'ordine di merito, in
conseguenza della mancata costituzione o dell'avvenuta estinzione del
rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori. Le graduatorie
possono essere utilizzate anche per effettuare, entro i limiti percentuali
stabiliti dalle disposizioni vigenti e comunque in via prioritaria rispetto
alle convenzioni previste dall'articolo 11 della legge 12.03.1999, n. 68,
le assunzioni obbligatorie di cui agli articoli 3 e 18 della medesima legge
n. 68 del 1999, nonché quelle dei soggetti titolari del diritto al
collocamento obbligatorio di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 23.11.1998, n. 407, sebbene collocati oltre il limite dei posti ad essi
riservati nel concorso».
Il Collegio osserva come il primo periodo dell’ultima parte del comma 361,
aggiunta dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, non
introduce una deroga al principio di stretto collegamento tra graduatoria e
posto messo a concorso, bensì, con un’endiadi, chiarisce il significato
della locuzione “posti messi a concorso”, evidenziando come la stessa non
coincida con il termine “vincitori”, comprendendo la possibilità di
scorrimento delle graduatorie degli idonei nei casi in cui si verifichino
vicende che possono portare alla mancata costituzione o alla estinzione
anticipata del rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori.
Inoltre, a seguito delle modifiche apportate all’art. 1, comma 366, della
legge n. 145 del 2018 ad opera del decreto-legge n. 34 del 2019, i commi
360, 361, 363 e 364 non si applicano alle assunzioni del personale educativo
degli enti locali.
1.4. Infine, si evidenzia come il principio sancito dal comma 361 sopra
citato non sia stato superato dal recente intervento normativo operato con
la legge 19.06.2019, n. 56 (c.d. legge concretezza).
In particolare, l’articolo 3, comma 4, della legge 19.06.2019, n. 56
(c.d. legge concretezza), dispone che: “Al fine di ridurre i tempi di
accesso al pubblico impiego, per il triennio 2019-2021, fatto salvo quanto
stabilito dall’articolo 1, comma 399, della legge 30.12.2018, n. 145,
le amministrazioni di cui al comma 1” ovvero le amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, le agenzie e gli enti pubblici non economici,
“possono procedere, in deroga a quanto previsto dal primo periodo del comma
3 del presente articolo e all'articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del
2001, nel rispetto dell'articolo 4, commi 3 e 3-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125,
nonché del piano dei fabbisogni definito secondo i criteri di
cui al comma 2 del presente articolo: a) all'assunzione a tempo
indeterminato di vincitori o allo scorrimento delle graduatorie vigenti, nel
limite massimo dell'80 per cento delle facoltà di assunzione previste dai
commi 1 e 3, per ciascun anno”.
L’art. 6 della medesima legge ha esteso l’applicazione delle disposizioni
sopra richiamate anche agli enti locali, prevedendo che le stesse “recano
norme di diretta attuazione dell’art. 97 della Costituzione e costituiscono
principi generali dell’ordinamento” (comma 1) e che “le Regioni, anche per
quanto concerne i propri enti e le amministrazioni del Servizio sanitario
nazionale, e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle disposizioni
della presente legge” (comma 4).
Il citato art. 3, come evidenziato nella rubrica, introduce “Misure per
accelerare le assunzioni mirate e il ricambio generazionale nella pubblica
amministrazione", intervenendo, tra l’altro, in materia di facoltà assunzionali, di procedure per le assunzioni, nonché di concorsi pubblici e
di personale in disponibilità e assunzioni delle categorie protette. In
particolare, il comma 4 del medesimo articolo reca norme transitorie, intese
a ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, in deroga alla procedura
di autorizzazione di cui all’art. 4, comma 3, primo periodo, ed alle norme
sulla mobilità volontaria.
Ritiene questa Sezione che, con il richiamo contenuto nell’art. 3, comma 4,
lettera a), della legge. n. 56 del 2019 allo “scorrimento delle
graduatorie”, il legislatore magis dixit quam voluit, poiché l’intero inciso
di tale comma, più sopra riportato, “Al fine di ridurre i tempi di accesso
al pubblico impiego...”, deve intendersi genericamente riferito allo
snellimento delle procedure di reclutamento del personale, senza alcun
intento di ripristinare la persistente valenza delle graduatorie pregresse.
A riprova di tale assunto, la citata legge n. 56 del 2019 ha espressamente
derogato alle sole disposizioni riferentesi al preventivo espletamento delle
procedure di mobilità e non anche alle più volte menzionate disposizioni
della legge n. 145 del 2018 che hanno escluso (con la decorrenza che più
innanzi sarà specificata) lo scorrimento delle graduatorie per le assunzioni
a tempo indeterminato.
In ragione di tale conclusione, il parere può essere reso nei termini
prospettati dalla richiedente Amministrazione.
2. L’utilizzo, per assunzioni a tempo determinato, di graduatorie di
concorsi per posti a tempo indeterminato e l’art. 36, comma 2, del d.lgs.
165/2001.
2.1. La legge n. 145 del 2018 stabilisce, dunque, un obbligo in capo alle
amministrazioni pubbliche ai sensi dell'art. 1, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001 sulle modalità di utilizzo delle graduatorie di
concorso per il reclutamento del proprio personale: attraverso la previsione
dell'utilizzabilità delle graduatorie “esclusivamente per la copertura dei
posti messi a concorso”, infatti, viene sostanzialmente eliminata tanto la
possibilità di operare uno scorrimento delle graduatorie -nel periodo di
vigenza delle stesse- per far fronte alla copertura di posti che si
rendessero vacanti successivamente all'indizione del concorso, quanto la
possibilità di utilizzo delle graduatorie -nel periodo di vigenza delle
stesse- per la copertura di posti necessari ad altro Ente.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tale principio non possa trovare
applicazione per le assunzioni a tempo determinato.
Il citato comma 363 dell'art. 1, infatti, ha abrogato alcune disposizioni
dell'art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge n. 125 del 2013, che permettevano lo scorrimento
delle graduatorie e l'utilizzo di graduatorie di concorsi banditi da altre
pubbliche amministrazioni, al fine di rendere operativo l'obbligo di cui al
precedente comma 361.
La disposizione in esame, al contempo, non ha abrogato il comma 1 dell'art.
4 del richiamato decreto-legge n. 101 del 2013, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 125 del 2013.
In particolare, l’art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 101 del 2013 ha
modificato l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001,
prescrivendo l'obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni, al fine di
prevenire fenomeni di precariato, di procedere ad assunzioni a tempo
determinato di vincitori e idonei collocati nelle graduatorie vigenti per
concorsi a tempo indeterminato, proprie o approvate da altre
amministrazioni, previo accordo con le stesse. Con riferimento all’utilizzo
di graduatorie di altri enti, lo stesso art. 36, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001 afferma che “È consentita l'applicazione
dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n.
350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella
graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo
indeterminato”.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte evidenziato come la
disposizione citata, contenuta nell’art. 36, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001, come modificato dall’art. 4, comma 1,
decreto-legge n. 101 del 2013, si collochi nell’ambito di una serie di
disposizioni volte a limitare la possibilità per gli enti locali di
utilizzare contratti di lavoro flessibile, in particolare, il tempo
determinato, ribadendo che la regola generale per assumere è il contratto a
tempo indeterminato, quale strumento ordinario per far fronte al fabbisogno
di personale, mentre le assunzioni a tempo determinato possono avvenire
soltanto per esigenze di carattere "esclusivamente" temporaneo o
eccezionale.
In particolare, è stato affermato come la disposizione sopra
richiamata “introduce un evidente favor per i contratti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, da utilizzare per dare risposta ai
fabbisogni ordinari ed alle esigenze di carattere duraturo, nel rispetto
delle norme contrattuali e della disciplina di settore. Al contempo, relega
le forme contrattuali flessibili all’esclusivo soddisfacimento di esigenze
di carattere temporaneo o eccezionale” (cfr. Corte dei conti, Sezione
regionale di controllo per la Campania, n. 31/2017/PAR).
In tale quadro normativo si colloca la disposizione contenuta nel medesimo
art. 36, comma 2, che, sempre nell'ottica di restringere la possibilità di
ricorso a forme di lavoro flessibile, ha previsto la possibilità per le p.a.,
“al fine di prevenire il precariato”, di sottoscrivere contratti a tempo
determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti
per concorsi pubblici a tempo indeterminato. L'intento del legislatore è,
quindi, quello di evitare, attraverso l’assunzione con contratti a tempo
determinato di vincitori di concorsi per posti a tempo indeterminato, la
creazione dei presupposti del precariato.
Infatti, il Dipartimento della
Funzione pubblica, con la circolare n. 5/2013, ha chiarito che il
lavoratore, che si trova all'interno di una graduatoria a tempo
indeterminato, nel caso in cui sia assunto con contratto a termine potrà poi
“essere assunto con rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità
di altre procedure”, una volta verificate le condizioni per l'assunzione
definitiva in ruolo.
Pertanto, per le assunzioni a tempo determinato di idonei non vincitori di
graduatorie a tempo indeterminato è possibile derogare all'obbligo di
utilizzo delle graduatorie per i soli posti messi a concorso previsto dal
combinato disposto dei commi 361 e 365 dell'art. 1 della legge n. 145 del
2018.
In sostanza, l’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001 costituisce una normativa
di carattere speciale rispetto alle previsioni della legge n. 145 del 2018,
dettata da una ratio differente. Peraltro, come già sopra evidenziato, la
specialità di tale disposizione è supportata non solo dalla interpretazione
teleologica dell’intervento normativo che l’ha introdotta ma anche dalla
stessa interpretazione letterale e sistematica della legge n. 145 del 2018,
che ha abrogato solo alcune delle disposizioni contenute nel medesimo art. 4
del decreto-legge n. 101 del 2013, ma non quella modificativa dell’art. 36,
comma 2, d.lgs. 165/2001.
2.2. L’Ente ha chiesto, altresì, di indicare i limiti e le modalità
procedurali sia nel caso di utilizzo di proprie graduatorie sia nel caso di
(eventuale) utilizzo di graduatorie di altri comuni.
Per quanto riguarda i limiti allo scorrimento di graduatorie, si rinvia alla
costante giurisprudenza della Corte dei conti, che si è pronunciata più
volte sulla necessità che i posti da coprire non siano di nuova istituzione
o trasformazione ai sensi dell’art. 91, comma 4, d.lgs. 267/2001 e sulla
identità di posti tra quello oggetto della procedura che ha dato luogo alla
graduatoria e la nuova esigenza assunzionale (ex multis, Corte dei conti,
sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione n. 72 del 2019 e
la giurisprudenza ivi richiamata), nonché, nel caso di utilizzo di
graduatorie di altri Enti, sulle condizioni del “previo accordo” tra le
amministrazioni interessate (sul punto si rinvia al par. 4).
Relativamente alle modalità procedurali nel caso di utilizzo di graduatorie
proprie e di altri comuni, si rammenta che tale decisione esula dalla
funzione consultiva della Corte dei conti, concernente l’esame da un punto
di vista astratto e su temi di carattere generale.
Pertanto, la decisione
relativa alle modalità procedurali non può che essere rimessa alla
valutazione dell’Ente, rientrando nella sfera di competenza amministrativa
del singolo Comune e nella discrezionalità e responsabilità diretta degli
organi di governo, fermo restando il rispetto dei principi di trasparenza ed
imparzialità che devono ispirare le suddette procedure.
3. L’utilizzo, per assunzioni a tempo indeterminato, di graduatorie di
concorsi per posti a tempo indeterminato e l’ambito di applicazione della
legge n. 145 del 2018
3.1. Il secondo quesito riguarda la possibilità di attingere a graduatorie
di altre amministrazioni per posti a tempo indeterminato. In particolare,
l’Ente ha chiesto se sia ancora possibile l’assunzione mediante scorrimento
degli idonei della graduatoria di altro Ente formata a seguito di un bando
pubblicato precedentemente al 01.01.2019, in quanto fuori dall’ambito
applicativo della richiamata legge n. 145 del 2018.
A tale riguardo, il Collegio evidenzia come
per i concorsi banditi
successivamente al 01.01.2019, data di entrata in vigore della legge n.
145 del 2018, l’assunzione mediante scorrimento degli idonei della
graduatoria di altro Ente non sia possibile né per le graduatorie proprie né
per quelle di altro Ente (cfr. Sezione regionale di controllo per la
Sardegna,
parere 03.07.2019 n. 36).
Infatti, il citato comma 361 della
legge n. 145 del 2018 ha eliminato sia la possibilità di operare lo
scorrimento delle graduatorie per far fronte alla copertura di posti che si
rendessero vacanti successivamente all’indizione del concorso sia la
possibilità di utilizzo delle graduatorie per la copertura di posti
necessari ad altro Ente.
Al contrario,
per i concorsi banditi antecedentemente al 31.12.2018,
il Collegio ritiene che non si possa affermare lo stesso principio, dal
momento che l'art. 1, comma 365, dispone che “la previsione di cui al comma
361 si applica alle graduatorie delle procedure concorsuali bandite
successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.
3.2. Come sopra esposto, il principio sancito dal comma 361 citato è stato
mitigato dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4 (si veda
par. 1.3).
4. L’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro
Ente
4.1. Le fattispecie su cui l’Ente ha richiesto il parere si pongono, quindi,
al di fuori dell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018: la prima in
quanto trattasi di utilizzo di graduatorie di concorsi a tempo indeterminato
per assunzioni a tempo determinato, per il quale si applica la normativa
speciale dettata dall’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001; la seconda in
quanto trattasi di utilizzo, per assunzioni a tempo indeterminato, di
graduatorie di procedure concorsuali a tempo indeterminato, bandite prima
del 01.01.2019, per le quali, ai sensi del comma 365, non è applicabile
il comma 361.
In entrambi i casi, trattandosi appunto di fattispecie non rientranti
nell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018, si impone una
precisazione per quanto concerne l’utilizzo di graduatorie di altri enti.
Come già sopra evidenziato, con riferimento alla prima fattispecie, lo
stesso art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 consente
l’utilizzo di graduatorie di altri enti, richiamando l’art. 3, comma 61,
terzo periodo, della legge n. 350 del 2003.
Con riferimento alla seconda fattispecie, il comma 363 della legge n. 145
del 2018 ha abrogato alcune disposizioni contenute nel decreto-legge n. 101
del 2013, ovvero l’art. 1, lettera b), del comma 3 e i commi 3-ter e 3-quater
dell’art. 4.
In particolare, l’art. 3, comma 3-ter, prevedeva che “resta ferma per i
vincitori e gli idonei delle graduatorie di cui al comma 3 del presente
articolo l'applicabilità dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della
legge 24.12.2003, n. 350”. Il comma citato è stato abrogato a
decorrere dal 01.01.2019.
Tuttavia, la legge n. 145 del 2018 non ha abrogato l’articolo 3, comma 61,
terzo periodo, della legge n. 350 del 2003, che dispone: “In attesa
dell'emanazione del regolamento di cui all'articolo 9 della legge 16.01.2003, n. 3, le amministrazioni pubbliche ivi contemplate, nel rispetto delle
limitazioni e delle procedure di cui ai commi da 53 a 71, possono effettuare
assunzioni anche utilizzando le graduatorie di pubblici concorsi approvate
da altre amministrazioni, previo accordo tra le amministrazioni
interessate”.
La sezione Sardegna, con
parere 03.07.2019 n. 36, ha affermato che
non è
possibile procedere allo scorrimento di graduatoria concorsuale formata da
altro Ente pubblico, per l’assunzione di personale a tempo indeterminato,
evidenziando come l’art. 3, comma 61, sebbene non espressamente abrogato
dalla legge n. 145 del 2018, risulterebbe implicitamente abrogato in quanto
incompatibile con la nuova regola generale di cui al comma 361 della legge
n. 145 del 2018.
Il Collegio evidenzia, a tale riguardo, come tale principio si possa
applicare solo ai casi rientranti nell’ambito applicativo della legge n. 145
del 2018, ossia alle graduatorie delle procedure concorsuali bandite
successivamente al 01.01.2019, per espressa previsione normativa (comma
365). Di conseguenza, l’art. 3, comma 61, della legge n. 350 del 2003
risulterebbe inapplicabile solo per dette graduatorie.
Tale soluzione interpretativa è avallata dall’interpretazione letterale
delle disposizioni contenute nella legge n. 145 del 2018, nonché dalla
stessa ratio dell’intervento normativo: infatti, la legge n. 145 del 2018
prevede che le graduatorie dei concorsi siano utilizzate “esclusivamente”
per la copertura dei posti messi a concorso, impedendo, per le graduatorie
delle procedure concorsuali bandite successivamente alla data di entrata in
vigore della medesima legge, l’utilizzo della graduatoria per la copertura
di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a concorso, sia esso della
medesima o di altra Amministrazione. Il principio espresso nel comma 361 ha
uno specifico ambito applicativo, anche dal punto di vista temporale (comma
365), e non può che valere a prescindere da quale Amministrazione utilizzi
la graduatoria, stante la generalità della previsione, che si riferisce
all’utilizzo di graduatorie in generale.
Inoltre, il Collegio, a conferma della perdurante vigenza dell’art. 3, comma
61, della legge n. 350 del 2003, evidenzia come lo stesso sia tuttora citato
in diverse disposizioni (art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165
del 2001; art. 1, comma 100, della legge n. 311 del 2004; art. 9, comma
4-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010); pertanto, tale articolo non
risulterebbe inapplicabile in ogni caso, ma solo con riguardo alle
fattispecie rientranti nel perimetro applicativo della legge n. 145 del
2018, in quanto non compatibile con la ratio del revirement
normativo, risultando invece applicabile ai casi che si collocano al di
fuori di esso (assunzioni a tempo determinato e assunzioni a tempo
indeterminato in caso di utilizzo di graduatorie di bandi pubblicati prima
del 01.01.2019).
4.2. Con specifico riferimento all’utilizzo di graduatorie di altri Enti, si
evidenzia come le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti si
siano più volte pronunciate sulla interpretazione del requisito normativo
del “previo accordo” tra le amministrazioni interessate, necessario
per la legittimità dell’assunzione del candidato idoneo in una graduatoria
di concorso bandito da altro Ente, ai sensi dell’art. 3, comma 61, della
legge n. 350 del 2003, affermando come tale previsione debba necessariamente
raccordarsi con la previsione contenuta nell’art. 91, comma 4, del decreto
legislativo n. 267 del 2001.
A tale riguardo, con deliberazione n.
3/2019/PAR, la Sezione regionale di controllo per il Piemonte ha affermato
che “se l’utilizzo delle proprie graduatorie è escluso per i posti
istituiti o trasformati dopo l’indizione del concorso da parte dello stesso
ente, è evidente che tale limite vale anche per l’utilizzo delle altrui
graduatorie” (cfr. anche Sezione regionale di controllo per l’Umbria,
deliberazione n. 28/2018/PAR e Sezione regionale di controllo per il
Piemonte, n. 114/2018).
Peraltro, è stato evidenziato come tale accordo con le altre Amministrazioni
interessate, sebbene la normativa non lo imponga, dovrebbe, per ragioni di
trasparenza, precedere l’indizione del concorso del diverso Ente o
l’approvazione della graduatoria.
In tal senso, la Sezione regionale di
controllo per l’Umbria, con deliberazione n. 124/2013, ha affermato che ciò
che rileva è che “l’accordo stesso, che comunque deve intervenire prima
dell’utilizzazione della graduatoria, si inserisca in un chiaro e
trasparente procedimento di corretto esercizio del potere di utilizzare
graduatorie concorsuali di altri Enti, così da escludere ogni arbitrio e/o
irragionevolezza e, segnatamente, la violazione delle cennate regole di
“concorsualità” per l’accesso ai pubblici uffici” (cfr. anche Sezione
regionale di controllo per il Veneto, deliberazioni nn. 189/2018 e 371/2018,
che si sofferma anche sugli altri requisiti richiesti dall’ordinamento ai
fini del corretto e legittimo utilizzo della graduatoria di altro Ente)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere
06.09.2019 n. 41). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Danno
erariale per incentivi tecnici «indebiti» anche senza peculato.
La percezione di incentivi tecnici in misura maggiore rispetto a quanto
dovuto può risultare fonte di responsabilità per danno erariale anche se,
per la medesima fattispecie, il tribunale abbia dichiarato l'assoluzione dal
reato di peculato, stante l'autonomia dei giudizi penale e contabile che
tutelano beni giuridici distinti ai diversi livelli del nostro ordinamento.
Tenuto conto di ciò, a pochi mesi di distanza dall'assoluzione dei convenuti
pronunciata dal Tribunale penale di Firenze con la sentenza n. 704/2018, la
Corte dei conti della Toscana con la
sentenza
03.09.2019 n.
329 ha condannato il responsabile del servizio gestione del
territorio e il responsabile dell'ufficio urbanistica di un Comune al
pagamento di 5 mila euro pro-capite, oltre agli interessi legali, per aver
percepito compensi superiori al dovuto, a titolo di corrispettivo per
l'attività professionale avente a oggetto la redazione dello strumento
urbanistico generale (cosiddetto regolamento urbanistico).
Il fatto
La questione vagliata con esiti opposti in sede di giustizia contabile e
penale, riguardava la contestata parcella professionale per il lavoro svolto
dai tecnici in ordine all'iter del nuovo strumento di governo del
territorio, che aveva visto la partecipazione di cittadini e di varie
associazioni di categoria ubicate sul territorio.
L'istruttoria del regolamento urbanistico, nelle due fasi di adozione con
delibera di giunta e approvazione in sede consiliare, aveva comportato un
lavoro complesso, comprendente la disamina dei 62 contributi/proposte,
unitamente al rapporto ambientale contenente la relazione di sintesi della
Vas (valutazione ambientale strategica), nonché ulteriori adempimenti
imposti dalla normativa speciale di settore.
All'adozione della delibera di giunta era seguita un'ulteriore attività di
partecipazione della cittadinanza con numerose osservazioni al regolamento
urbanistico, che veniva definitivamente approvato con la delibera consiliare
n. 61/2012.
Per l'attività svolta i due tecnici comunali hanno emesso una notula
professionale con un incentivo eccedente, in violazione sia della legge
regionale 5/1995, sia dell'articolo 5 della
circolare del ministero dei Lavori pubblici 01.12.1969 n. 6679, secondo cui la maggiorazione dell'onorario
professionale, in caso di progettazione interna, non avrebbe potuto essere
superiore al 50 per cento.
La decisione
Per contro, l'onorario professionale degli imputati era stato aumentato del
70 per cento, dando luogo alla liquidazione di un indebito compenso che la
Corte non ha esitato a qualificare come danno erariale.
Infatti, i giudici hanno scritto che nell'operato degli imputati si ravvisa
«oltre alla condotta antigiuridica, il nesso di causalità e il danno
erariale, perlomeno la colpa grave (se non il dolo eventuale) vista la
chiara indicazione del dettato normativo».
Di qui la condanna a carico dei tecnici, ancorché il giudice penale, come si
è detto, non abbia ravvisato nella loro condotta gli estremi del peculato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
14.10.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Comporta
responsabilità amministrativa l’erroneo calcolo degli oneri di
urbanizzazione posti a carico dei privati ai quali è rilasciata la
concessione edilizia. Il termine di prescrizione decorre dalla data di
rilascio del titolo edilizio.
Fermo restando la concorrente responsabilità degli organi di governo
dell’Ente, causa danno erariale la condotta del responsabile dell’ufficio
tecnico che non abbia segnalato, tra l’altro, la necessità di adottare la
delibera di adeguamento dei costi in esame sulla base delle variazioni
ISTAT.
----------------
FATTO
1. Con la sentenza n. 87/2017, depositata il 06.03.2017 e notificata il
15.05.2017 la Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per la
Puglia, in parziale accoglimento della domanda risarcitoria in tal senso
proposta dalla Procura regionale, ha condannato il sig. Fr.Ma., responsabile
del Settore tecnico del Comune di Salve (LE), a pagare a quest’ultimo, la
somma complessiva di euro 10.000,00, omnicomprensivi di rivalutazione
monetaria, oltre interessi, in misura legale, fino al momento del soddisfo.
1.1. Le contestazioni della Procura, condivise dalla sentenza del giudice di
primo grado attengono alla mancata applicazione nel Comune di Salve (LE),
per il periodo dal 2008 al 2011, del corretto valore del costo di
costruzione da utilizzare per la quantificazione del contributo finanziario
a carico dei privati in sede di rilascio dei permessi di costruire.
1.2. La Sezione regionale, dopo avere affermato la concretezza e l’attualità
del danno sin dalla data del rilascio del permesso di costruire ha accolto
parzialmente la domanda attrice, rideterminando il danno addebitabile al Ma.
in euro 16.839,77.
Ha sostenuto la Sezione che la parte di danno relativa al periodo
interessato dagli aggiornamenti disposti dalla Giunta Comunale non può
essere collegata completamente imputata al convenuto, essendo tali decisioni
state assunte dall'organo di governo, e che pertanto nel periodo in cui sono
intervenute le delibere di Giunta (aprile 2009 e giugno 2011), può
quantificarsi pari a due terzi di quello prodottosi nel 2009 (2.927,06) ed
alla metà di quello scaturito per l'anno 2011 (2.742,28).
Rilevato il recupero da parte del Comune, con riguardo alle pratiche
edilizie del 2008 dell'importo di euro 3.090,61 e per quelle relative al
2009 dell'importo di euro 2.235,53, ha portato in diminuzione per intero
dalla somma il primo importo ed il secondo in riduzione nei limiti della
quota di danno addebitata al convenuto per l'anno 2009 ossia pari ad un
terzo.
In applicazione del potere riduttivo dell'addebito ha, poi, rideterminato
l'importo di danno nella misura di euro 10.000,00 comprensivi anche della
rivalutazione monetaria maturata sino alla data di deposito in Segreteria
della decisione; oltre gli interessi in misura legale, calcolati a decorrere
dalla suddetta data sino al soddisfo.
2. Avverso la sentenza ha proposto appello il sig. Ma. rilevando vari motivi
di gravame.
...
DIRITTO
1. La presente fattispecie ha ad oggetto il danno causato al Comune di
Salve (LE) a causa della mancata applicazione nel Comune di Salve (LE), per
il periodo dal 2008 al 2011, del corretto valore del costo di costruzione da
utilizzare per la quantificazione del contributo finanziario a carico dei
privati in sede di rilascio dei permessi di costruire.
Con il primo motivo l’appellante lamenta, sostanzialmente,
l’inattualità del danno, atteso che il Comune può ancora intervenire nel
termine di prescrizione decennale per recuperare la differenza tra i costi
di costruzione riscossi e quelli dovuti.
Il motivo non ha pregio, perché anche se ciò è vero, le relative partite
contabili non risultano in atto incassate, né è certo se mai lo saranno: la
concretezza e l’attualità del danno, infatti, risiede nella perdita
dell’originaria fonte di credito per l’Ente Locale e poiché gli oneri di
costruzione sono stati riscossi in misura inferiore al dovuto, il
procedimento volto al recupero dei differenziali si appalesa, all’attualità,
di esito incerto e non prevedibile, considerato che i contribuenti, per via
del tempo trascorso, potrebbero più facilmente contestarne la legittimità.
La stessa giurisprudenza del giudice amministrativo ritiene che il costo di
costruzione, sia una prestazione patrimoniale di natura impositiva che trova
la sua ratio nell’incremento patrimoniale che il titolare del permesso di
costruire consegue in dipendenza dell’intervento edilizio e che viene
determinato al momento del rilascio della concessione, che costituisce il
fatto costitutivo del relativo obbligo giuridico.
Relativamente alla dedotta assenza dell’elemento soggettivo della colpa
grave rileva preliminarmente il Collegio che, alla luce della posizione
rivestita dall’appellante, nel 2008, così come negli anni successivi, di
responsabile del settore Tecnico del predetto comune, rientrava, senza alcun
dubbio, tra i doveri e gli obblighi intestati a tale tipologia di
funzionario, la vigilanza sull’ammontare degli introiti, da parte del
Comune, relativi al settore di competenza.
Infatti, gli artt. 4 e 11 del D.L.vo n. 165/2001 e 111 del D.L.vo n.
267/2000 stabiliscono che agli amministratori spettano poteri di indirizzo
politico, mentre ai dirigenti la relativa attuazione e la concreta gestione.
D’altronde, la normativa in materia, nazionale e regionale, prevedeva che il
costo di costruzione venisse determinato periodicamente dalle Regioni e
adeguato annualmente sulla base delle variazioni ISTAT.
E che gli adempimenti di cui trattasi rientrassero tra gli atti di gestione,
trattandosi di autorizzazioni e concessioni edilizie da corredare,
necessariamente con la determinazione del relativo quantum da versare, è
fuor di dubbio.
Ma anche a voler considerare, per gli anni 2008 e 2010 l’inerzia dell’organo
politico, che, secondo l’appellante, non avrebbe adottato la deliberazione
annuale di adeguamento dei costi in questione, resta, pur sempre, inalterata
la responsabilità del Martella il quale, in qualità di responsabile del
settore, avrebbe dovuto segnalare tale inadempimento e sollecitarlo al fine
di evitare le conseguenze dannose derivanti dal mancato adeguamento, nel
tempo, del contributo in argomento.
In tal senso la sentenza deve essere confermata.
In ordine al quantum debetaur, invece, osserva il Collegio che la
documentazione depositata nel corso del giudizio, dalla quale risulta per
tabulas che il Comune ha già recuperato la somma di € 3.772,26, relativa
ai contributi di costruzione per l’anno 2008, la somma di € 3.446,62,
relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2009; la somma di €
5.796,91, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2010; la somma di
€ 4.065,08, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2011, consente
di potere dichiarare la cessazione della materia del contendere fino alla
concorrenza della somma, di € 8.915,09.
Va infatti, nella determinazione del quantum, seguito il calcolo
operato in sentenza (sulle cui modalità si è formato giudicato), e va tenuto
conto che, ai fini della determinazione del danno al 21.12.2016 è già stato
decurtato, con riguardo alle pratiche edilizie del 2008 l'importo di €
3.090,61 e per quelle relative al 2009 l'importo di € 2.235,53.
Pertanto dalla somma di € 10.000,00 (di cui è condanna) va detratta la somma
di euro somma di € 681.65 (€ 3.772,26 – € 3.090,61) relativa ai contributi
di costruzione per l’anno 2008, la somma di € 403,69 (1/3 di € 3.446,62 – €
2.235,53) relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2009; la somma di
€ 5.796,91, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2010; la somma
di € 2.032,84, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2011 ( pari
ad ½ di € 4.065,08).
Per il resto, la sentenza deve essere confermata con il rigetto
dell’appello, fermo restando che, con riferimento alla somma residua pari a
€ 1.084.91, l’interessato potrà far valere –in sede esecutiva– l’eventuale
ulteriore recupero, da parte del Comune, della somma di cui è condanna.
Ogni ulteriore motivo non espressamente affrontato deve ritenersi assorbito
e, in ogni caso, respinto.
Le spese sono compensate ai sensi dell’art. 31, comma 3 c.g.c.
P.Q.M.
La Corte dei Conti - Sezione Terza Centrale d’appello, definitivamente
pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione,
dichiara cessata la materia del contendere fino alla concorrenza di €
8.915,09.
Respinge l’appello e conferma la sentenza impugnata fino alla concorrenza di
€ 1084.91, nei termini di cui in motivazione (Corte dei Conti, Sez. III
centrale d'appello,
sentenza 27.06.2019 n. 127). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima l'ordinanza sindacale contingibile ed urgente circoscritta alla
sola esigenza di ovviare allo “stato di totale abbandono e con gravi
problemi sotto il profilo igienico-sanitario” di un fabbricato, peraltro
comune a numerosi immobili sul territorio, senza il compimento di alcuna
istruttoria volta a verificare la sussistenza all’attualità di fenomeni in
grado di incidere, in concreto e con pregiudizio immediato, sulla sicurezza
pubblica e non diversamente fronteggiabili con gli strumenti ordinari
offerti dall’ordinamento.
Piuttosto, nella fattispecie l’intero assunto motivazionale su cui si basa
il provvedimento gravato sembra fondarsi su mere presunzioni ed indimostrate
asserzioni di ipotetici pericoli di crolli o cadute, pericoli igienici,
d’instabilità, d’intralcio, etc., in assenza di alcun approfondito
accertamento istruttorio, essendo di contro emerso che trattasi di immobile
posto all’interno di un cortile totalmente circondato da una completa e
solida recinzione in sbarre di ferro, dalla quale è distanziato di alcuni
metri, con porte e finestre interamente murate, senza che risulti
diversamente accertata la presenza di segni visibili di distacco di intonaci
o cornicioni suscettibili di invadere la pubblica via.
---------------
Giova ricordare che ai Sindaci non è concessa una discrezionalità
indeterminata nell'ambito delle scelte amministrative aventi conseguenze
sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate,
di modo che i poteri extra ordinem del Sindaco non possono in alcun caso
decampare dai principi ordinamentali che costituiscono presupposto per
l'emanazione di ordinanze contingibili e urgenti a tutela dell'incolumità
pubblica e della sicurezza urbana (cfr. sentenza Corte Costituzionale n. 115
del 07.04.2011).
Al riguardo va ribadito, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza,
che le ordinanze contingibili e urgenti costituiscono provvedimenti “extra
ordinem”, a contenuto atipico e a carattere temporaneo, dotate di capacità
derogatoria dell’ordinamento giuridico, la cui giustificazione si rinviene
nell’esigenza di apprestare alla pubblica autorità adeguati strumenti per
fronteggiare il verificarsi di situazioni caratterizzate da eccezionale
urgenza, tali da non consentire l’utile e tempestivo ricorso alle
alternative ordinarie offerte dall’ordinamento.
La possibilità di utilizzo, in via del tutto residuale, di tale strumento,
recando con sé l’inevitabile compressione di diritti ed interessi privati
con mezzi diversi da quelli aventi un contenuto tipico e indicati dalle
legge, impone il rigoroso rispetto di precisi presupposti, la cui ricorrenza
l’Amministrazione è tenuta ad appurare attraverso un’accurata istruttoria,
nel rispetto di limiti di carattere sostanziale e procedurale, non
giustificandosi, altrimenti, la deviazione dal principio di tipicità degli
atti amministrativi.
Per costante giurisprudenza, in particolare, presupposti indefettibili delle
ordinanze de quibus sono costituiti:
a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in
relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza);
b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo
incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in
quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra
ordinem, diversi da quelli tipici indicati dalle legge.
Più nello specifico si è anche precisato che il potere di ordinanza di cui
all'art. 54, D.Lgs. n. 267/2000 "può essere legittimamente esercitato, quale
immanente prerogativa sindacale di provvedere in via d'urgenza e
contingibile alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica,
nonché quando la violazione delle norme che tutelano i beni previsti dal
Decreto del Ministero dell'Interno del 5 agosto 2008 -situazioni di degrado
o isolamento, tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità, incuria
ed occupazione abusiva di immobili, intralcio alla viabilità o alterazione
del decoro urbano- non assuma rilevanza solo in sé stessa, poiché in tal
caso soccorrono gli strumenti ordinari, ma qualora possa costituire la
premessa per l'insorgere di fenomeni di criminalità suscettibili di minare
la sicurezza pubblica, dato che, in tal caso, vengono in rilievo interessi
che vanno oltre le normali competenze di polizia amministrativa locale.
Soltanto nelle illustrate ipotesi il Sindaco dunque, in qualità di ufficiale
di governo, assume il ruolo di garante della sicurezza pubblica e può
provvedere, sotto il controllo prefettizio ed in conformità delle direttive
del Ministero dell'interno, alle misure necessarie a prevenire o eliminare i
gravi pericoli che la possano minacciare".
---------------
1. Con l’odierno ricorso è controversa la legittimità dell’ordinanza
sindacale, meglio distinta in epigrafe, con la quale il Sindaco del comune
di Mondragone ha ingiunto ai ricorrenti -in quanto proprietari dell’immobile
sito in Via ..., riportato in Catasto Fabbricati al Foglio 25, Particella
5427, versante in asserito stato di totale abbandono e con gravi problemi
sotto il profilo igienico-sanitario- di provvedere, al fine di
salvaguardare, tutelare e preservare la sicurezza ed il decoro urbano:
“- al rifacimento delle facciate degli edifici ivi inclusa la
tinteggiatura delle stesse, o delle parti deteriorate di essi e dei relativi
balconi, il cui degrado arrechi pregiudizio all’incolumità delle persone per
il rischio attuale di cedimento di parti di esse;
- alla sostituzione degli infissi danneggiati prospicienti la
pubblica via o luoghi di transito e sosta di pedoni e mezzi, nonché
all’eliminazione di staffe, tasselli, che per le loro caratteristiche
intrinseche, sporgenza, ed altezza possano arrecare pericolo alla pubblica
incolumità;
- a tenere ordinate e pulite le aree private visibili dagli gli
spazi pubblici;
- a garantire un’adeguata e sicura chiusura degli immobili
inutilizzati, pulire le saracinesche e le soglie, togliere i rifiuti
accumulatisi o gettati all’interno dell’immobile e pulire gli spazi
rientranti rispetto alla proiezione lineare della facciata prospiciente la
pubblica via;
- di sostituire e/o eliminare i pluviali, le tubature o altri
elementi esterni danneggiati prospicienti la pubblica via che possano
arrecare pericolo all’incolumità pubblica ed alla sicurezza urbana, con
obbligo di tenere, all’atto della contestazione la condotta omessa, ovvero
di compiere o cessare il comportamento scorretto, ripristinando lo stato dei
luoghi”.
L’ordinanza è stata inoltre trasmessa al Prefetto della Provincia di
Caserta, in dichiarata attuazione dell’art. 54, comma 4, del vigente D.Lgs.
n. 267/2000 (T.U.E.L.).
A sostegno del gravame, con un unico articolato motivo di ricorso i
ricorrenti lamentano la complessiva illegittimità dell'azione
amministrativa, per carenza dei requisiti e dei presupposti (segnatamente,
del pericolo, della contingibilità e della necessità) per l'esercizio del
potere di ordinanza extra ordinem.
...
4. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
4.1 Deve condividersi la prospettazione di parte ricorrente secondo la quale
l’ordinanza impugnata si connota come esercizio della prerogativa sindacale
di far fronte a situazioni di eccezionale urgenza, a tutela dell'ordine
pubblico e della sicurezza pubblica, attraverso lo strumento dell’ordinanza
contingibile e urgente di cui agli artt. 50, comma 5, e 54, comma 4,
T.U.E.L..
Lo attestano –oltre al tenore del provvedimento, che ne impone l’esecuzione
immediata al momento della contestazione e alla circostanza che lo stesso
sia stato adottato dal Sindaco, piuttosto che dal dirigente comunale
responsabile dell’attuazione del regolamento comunale di “Polizia urbana
e convivenza civile”– il richiamo espresso all’art. 8 D.L. 24.02.2017 n.
14 convertito in L. 18.04.2017 n. 48, modificativo dell’art. 50 D.lgs.
267/2000, nonché all’art. 54 stesso D.lgs. 267/2000, in forza del quale
l’atto è stato contestualmente all’adozione trasmesso al Prefetto della
Provincia di Caserta.
4.2 Così previamente qualificata l’ordinanza in contestazione, gioverà
ricordare che ai Sindaci non è concessa una discrezionalità indeterminata
nell'ambito delle scelte amministrative aventi conseguenze sulla sfera
generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, di modo che i
poteri extra ordinem del Sindaco non possono in alcun caso decampare
dai principi ordinamentali che costituiscono presupposto per l'emanazione di
ordinanze contingibili e urgenti a tutela dell'incolumità pubblica e della
sicurezza urbana (cfr. sentenza Corte Costituzionale n. 115 del 07.04.2011).
4.3 Al riguardo va ribadito, come ripetutamente chiarito dalla
giurisprudenza, che le ordinanze contingibili e urgenti costituiscono
provvedimenti “extra ordinem”, a contenuto atipico e a carattere
temporaneo, dotate di capacità derogatoria dell’ordinamento giuridico, la
cui giustificazione si rinviene nell’esigenza di apprestare alla pubblica
autorità adeguati strumenti per fronteggiare il verificarsi di situazioni
caratterizzate da eccezionale urgenza, tali da non consentire l’utile e
tempestivo ricorso alle alternative ordinarie offerte dall’ordinamento.
La possibilità di utilizzo, in via del tutto residuale, di tale strumento,
recando con sé l’inevitabile compressione di diritti ed interessi privati
con mezzi diversi da quelli aventi un contenuto tipico e indicati dalle
legge, impone il rigoroso rispetto di precisi presupposti, la cui ricorrenza
l’Amministrazione è tenuta ad appurare attraverso un’accurata istruttoria,
nel rispetto di limiti di carattere sostanziale e procedurale, non
giustificandosi, altrimenti, la deviazione dal principio di tipicità degli
atti amministrativi (cfr., ex multis Cons. Stato, sez. V, 26.07.2016,
n. 3369; 22.03.2016, n. 1189; 25.05.2015, n. 2967; TAR Campania, sez. V,
09.11.2016, n. 5162; 10.09.2012, n. 3845; TAR Bari, sez. I, 24.03.2015, n.
479).
Per costante giurisprudenza, in particolare, presupposti indefettibili delle
ordinanze de quibus sono costituiti:
a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in
relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza);
b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo
incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in
quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti
extra ordinem, diversi da quelli tipici indicati dalle legge (cfr. TAR
Campania, Napoli, sez. V, 24.03.2017, n. 621, 09.11.2016, n. 5162 e
17.02.2016, n. 860; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 12.01.2016, n. 69; Cons. di
St., sez. V, 26.07.2016, n. 3369).
4.4 Più nello specifico si è anche precisato che il potere di ordinanza di
cui all'art. 54, D.Lgs. n. 267/2000 "può essere legittimamente
esercitato, quale immanente prerogativa sindacale di provvedere in via
d'urgenza e contingibile alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza
pubblica, nonché quando la violazione delle norme che tutelano i beni
previsti dal Decreto del Ministero dell'Interno del 5 agosto 2008
-situazioni di degrado o isolamento, tutela del patrimonio pubblico e della
sua fruibilità, incuria ed occupazione abusiva di immobili, intralcio alla
viabilità o alterazione del decoro urbano- non assuma rilevanza solo in sé
stessa, poiché in tal caso soccorrono gli strumenti ordinari, ma qualora
possa costituire la premessa per l'insorgere di fenomeni di criminalità
suscettibili di minare la sicurezza pubblica, dato che, in tal caso, vengono
in rilievo interessi che vanno oltre le normali competenze di polizia
amministrativa locale. Soltanto nelle illustrate ipotesi il Sindaco dunque,
in qualità di ufficiale di governo, assume il ruolo di garante della
sicurezza pubblica e può provvedere, sotto il controllo prefettizio ed in
conformità delle direttive del Ministero dell'interno, alle misure
necessarie a prevenire o eliminare i gravi pericoli che la possano
minacciare" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.10.2013, n. 5276).
4.5 Applicando alla fattispecie i richiamati principi giurisprudenziali,
emerge come l'adozione della statuizione contingibile e urgente de qua
sia stata circoscritta alla sola esigenza di ovviare al rappresentato “stato
di totale abbandono e con gravi problemi sotto il profilo igienico-sanitario”,
peraltro comune a numerosi immobili sul territorio, senza il compimento di
alcuna istruttoria volta a verificare la sussistenza all’attualità di
fenomeni in grado di incidere, in concreto e con pregiudizio immediato,
sulla sicurezza pubblica e non diversamente fronteggiabili con gli strumenti
ordinari offerti dall’ordinamento.
Piuttosto, l’intero assunto motivazionale su cui si basa il provvedimento
gravato sembra fondarsi su mere presunzioni ed indimostrate asserzioni di
ipotetici pericoli di crolli o cadute, pericoli igienici, d’instabilità,
d’intralcio, etc., in assenza di alcun approfondito accertamento
istruttorio, essendo di contro emerso che trattasi di immobile posto
all’interno di un cortile totalmente circondato da una completa e solida
recinzione in sbarre di ferro, dalla quale è distanziato di alcuni metri,
con porte e finestre interamente murate, senza che risulti diversamente
accertata la presenza di segni visibili di distacco di intonaci o cornicioni
suscettibili di invadere la pubblica via.
5. In conclusione, il rilevato difetto dei sopra precisati presupposti
fondamentali, legittimanti l’esercizio della potestà in argomento, determina
l’illegittimità dell’ordinanza sindacale impugnata, che va pertanto
annullata, con assorbimento delle ulteriori censure non esaminate e salvezza
degli ulteriori atti
(TAR Campania-Napoli, Sewz. V,
sentenza 04.11.2019 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
1.- Processo amministrativo – impugnazione – atto endoprocedimentale –
autonoma impugnabilità – distinzioni.
2.- Procedimento amministrativo – autotutela – “nuovo” termine di
18 mesi ex art. 6, comma 1, lett. d) della Legge 07.08.2015 n. 124 (c.d.
Riforma Madia) – operatività – limiti.
1. La regola secondo la quale l'atto
endoprocedimentale non è autonomamente impugnabile, giacché la lesione della
sfera giuridica del suo destinatario è normalmente imputabile all'atto che
conclude il procedimento, è di carattere generale: la possibilità di
un'impugnazione anticipata è invece di carattere eccezionale e riconosciuta
solo in rapporto a fattispecie particolari, ossia ad atti di natura
vincolata idonei a conformare in maniera netta la determinazione conclusiva
oppure in ragione di atti interlocutori che comportino un arresto
procedimentale.
2. Il nuovo termine di 18 mesi -introdotto dall'art. 6, comma 1,
lett. d), della Legge 07.08.2015 n. 124 (c.d. Riforma Madia)– resta
predicabile nella sua rigida previsione solo in relazione ai provvedimenti
di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che
siano, anch'essi, successivi all'entrata in vigore della nuova disposizione.
Di contro, nel caso di provvedimenti già adottati il termine suddetto
integra un parametro di riferimento per valutare la "ragionevolezza del
termine" dell’intervento di riesame.
Il nuovo termine legislativamente predeterminato non sostituisce "in toto"
il "termine ragionevole" (e indeterminato) il quale, presente fin
dall'originaria formulazione della disposizione delineata dalla Legge n. 15
del 2005, continua a costituire il parametro normativo di riferimento
laddove non possa trovare applicazione, "ratione temporis", il termine di
mesi.
Peraltro, il termine "ragionevole" decorre soltanto dal momento della
scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti
a fondamento dell'atto di ritiro (massima free
tratta da www.giustamm.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 02.11.2019 n. 7476 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
10. Né la concreta attivazione del potere di annullamento incontra ostacoli
–come erroneamente sostenuto dall’appellato- nelle coordinate che, ai
sensi dell’articolo 21-nonies della legge n. 241/1990, governano il
legittimo esercizio del potere di autotutela; e ciò anche a voler
prescindere dalla verosimile nullità dell’atto fatto oggetto di annullamento
in autotutela per mancanza di elementi essenziali.
10.1 Ed, invero, deve, anzitutto, rilevarsi, come, secondo un consolidato
orientamento giurisprudenziale, il nuovo termine di 18 mesi -introdotto
dall'art. 6, comma 1, lett. d) della Legge 07.08.2015 n. 124 (c.d.
Riforma Madia)– resta predicabile nella sua rigida previsione solo in
relazione ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad
oggetto provvedimenti che siano, anch'essi, successivi all'entrata in vigore
della nuova disposizione.
10.2. Di contro, nel caso di provvedimenti già adottati il termine suddetto
integra un parametro di riferimento per valutare la "ragionevolezza del
termine" dell’intervento di riesame. Il nuovo termine legislativamente
predeterminato non sostituisce "in toto" il "termine ragionevole" (e
indeterminato) il quale, presente fin dall'originaria formulazione della
disposizione delineata dalla Legge n. 15 del 2005, continua a costituire il
parametro normativo di riferimento laddove non possa trovare applicazione, "ratione
temporis", il termine di mesi 18 (cfr. Consiglio di Stato sez. V,
29/05/2019, n. 3583; Cons. Stato, sez. IV, 18.07.2018, n. 4374; Cons. St.,
Sez. VI, 19.01.2017, n. 250; Id., Sez. IV, 09.06.2017, n. 2789; Id.,
Sez. VI, 13.07.2017, n. 3462; Id., Sez. VI, 18.07.2017, n. 3524; Id.,
Sez. VI, 20.07.2017, n. 3586; Id., Sez. III, 28.07.2017, n. 3780).
10.3. Vale, poi, soggiungere che il termine "ragionevole" decorre soltanto
dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle
circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro (Cons. Stato, Ad. Plen.,
17.10.2017, n. 8), che nel caso in esame parrebbe coincidere con
l’acquisizione del parere della Commissione multidisciplinare di vigilanza
strutture ex legge regionale n. 41/2005 dell’AUSL Toscana Nord Ovest del 29.03.2018, in cui si trova affermato che le condizioni cliniche dei
pazienti residenti presso la struttura Vi.So., risultati non
completamente autosufficienti, non sono compatibili con l’autorizzazione al
funzionamento rilasciata dall’Amministrazione e, altresì, nel verbale
ispettivo trasmesso in data 18.05.2018, recante la segnalazione di
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. a), legge regionale n. 41/2005 per
esercizio di struttura residenziale per ospiti non autosufficienti in
assenza di autorizzazione.
10.4. Del pari deve ritenersi compiutamente assolto l’onere esigibile
dall’Amministrazione di motivare la propria scelta in relazione alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione
dell’atto di ritiro, tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati.
Ed, invero, fermo restando che tale onere deve ritenersi qui attenuato in
ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati,
non può essere sottaciuto come l’Amministrazione abbia, ancorché in via
sintetica, adeguatamente rappresentato le rilevanti esigenze pubblicistiche
che hanno ispirato il proprio atto di ritiro, evidenziando la necessità di
recuperare coerenza all’azione svolta dall’operatore qui in rilievo con i
parametri che declinano le condizioni di appropriatezza delle forme di
assistenza predicabili in ambito sociale ed assistenziale.
E’, infatti, chiaramente esposto nel corpo degli atti gravati in prime cure
che l’intervento in autotutela si è reso necessario nel momento in cui
l’Amministrazione ha acquisito conoscenza del fatto che la struttura
assistenziale avesse interpretato la d.d. 132/2013 come una nuova e diversa
autorizzazione che la abilitava ad operare sulla base di requisiti diversi e
mai fatti oggetto di accertamento.
A fronte di quanto appena esposto appare di tutta evidenza non solo
l’adeguatezza motivazionale dell’atto qui in rilievo ma anche l’intrinseca
ragionevolezza della scelta adottata siccome posta a presidio di rilevanti
esigenze pubblicistiche a fronte delle quali gli interessi antagonistici
azionati dall’appellato non possono che restare recessivi. E tanto anche in
ragione della difficoltà di immaginare nel caso qui in rilievo un
affidamento tutelabile a conservare un titolo autorizzatorio recante, in
mancanza di qualsivoglia verifica sul possesso dei relativi requisiti, un
così significativo ampliamento del perimetro delle autorizzazioni già in
godimento. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il riconoscimento del diritto di accesso postula
-indipendentemente dalla natura formalmente pubblica o privata del soggetto
che ha formato o che detiene i documenti di interesse e dalla consistenza
pubblicistica o privatistica del relativo regime operativo- che si versi in
un contesto assoggettato alla applicazione dei principi di parità di
trattamento e di trasparenza: il che accade (nella logica dell'art. 97 Cost.) solo in presenza di
attività (autoritativa o paritetica, esercitata in forma pubblicistica o
mercé il ricorso alle regole del diritto privato) "di interesse pubblico" (cfr.
art. 22, comma 1, lett. e) L. n. 241 del 1990, che scolpisce una nozione
"allargata" di "pubblica amministrazione"; e cfr., altresì, l'art. 1, comma
1-bis, quanto all'attività amministrativa resa in forma "non autoritativa",
nonché il comma 1-ter, quanto ai "soggetti privati" che, in quanto "preposti
all'esercizio di attività amministrative", sono tenuti al rispetto dei
"criteri e dei principi di cui al comma 1" e, quindi, alla imparzialità,
alla pubblicità ed alla trasparenza; cfr. anche, sotto il profilo
processuale, l'art. 7, comma 2 cod. proc. amm.).
Solo entro questi limiti –che sono strettamente legati al perimetro delle
attività di interesse pubblico o, se si preferisce, lato sensu, “amministrative”
affidate al soggetto di diritto privato da disposizioni legislative
speciali- il diritto di accesso può essere esercitato nei confronti di
soggetti privati "gestori di pubblici servizi" (cfr. art. 23 L. n.
241 del 1990).
---------------
Come di recente statuito dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V,
02.10.2019, n. 6603) “….il riconoscimento del diritto di accesso postula
-indipendentemente dalla natura formalmente pubblica o privata del soggetto
che ha formato o che detiene i documenti di interesse e dalla consistenza
pubblicistica o privatistica del relativo regime operativo- che si versi in
un contesto assoggettato alla applicazione dei principi di parità di
trattamento e di trasparenza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 17.03.2017, n.
1213): il che accade (nella logica dell'art. 97 Cost.) solo in presenza di
attività (autoritativa o paritetica, esercitata in forma pubblicistica o
mercé il ricorso alle regole del diritto privato) "di interesse pubblico" (cfr.
art. 22, comma 1, lett. e) L. n. 241 del 1990, che scolpisce una nozione
"allargata" di "pubblica amministrazione"; e cfr., altresì, l'art. 1, comma
1-bis, quanto all'attività amministrativa resa in forma "non autoritativa",
nonché il comma 1-ter, quanto ai "soggetti privati" che, in quanto "preposti
all'esercizio di attività amministrative", sono tenuti al rispetto dei
"criteri e dei principi di cui al comma 1" e, quindi, alla imparzialità,
alla pubblicità ed alla trasparenza; cfr. anche, sotto il profilo
processuale, l'art. 7, comma 2 cod. proc. amm.)".
Solo entro questi limiti –che sono strettamente legati al perimetro delle
attività di interesse pubblico o, se si preferisce, lato sensu, “amministrative”
affidate al soggetto di diritto privato da disposizioni legislative
speciali- il diritto di accesso può essere esercitato nei confronti di
soggetti privati "gestori di pubblici servizi" (cfr. art. 23 L. n.
241 del 1990).
Con riferimento a quest’ultima categoria soggettiva, nel cui novero va
ricondotta anche RAI S.p.a., l’applicazione dell’istituto del diritto di
accesso e, più in generale, dei principi di pubblicità e trasparenza (di cui
l’accesso costituisce la prima e fondamentale, ma non unica, declinazione),
è subordinata al ricorrere di un’attività di natura pubblicistica e, dunque,
alla condizione dell’inerenza dei documenti pretesi a siffatta attività,
come si ricava, agevolmente, dal comma 1-ter dell’art. 1 della legge n. 241
del 1990 (come introdotto dall'art. 1, comma 37, L. 06.11.2012, n. 190),
secondo cui “1-ter. I soggetti privati preposti all'esercizio di attività
amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al
comma 1 (tra i quali vi sono i principi di pubblicità e trasparenza, ndr.),
con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le
pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla presente
legge.”
(TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 30.10.2019 n. 12486 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: Richiesta
di retrocessione di una parte di un terreno che la proprietà aveva venduto
prima della dichiarazione di pubblica utilità.
---------------
Espropriazione per pubblica utilità – Cessione volontaria – Vendita
terreno – Antecedente l’apertura di una formale procedura ablatoria – Non è
tale.
La vendita di un terreno avvenuta prima della
apertura di una formale procedura ablatoria mediante dichiarazione di
pubblica utilità non può essere assimilata alla cessione volontaria prevista
dalla normativa sugli espropri, e ciò per la semplice ragione che l'atto
traslativo non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di
strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo
all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento
amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (1).
---------------
(1) Ha ricordato la Sezione che la cessione volontaria di cui
all’art. 12, l. n. 865 del 1971 costituisce un contratto ad oggetto pubblico
i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale
contratto di compravendita di diritto privato, sono:
a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di
espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve
alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte
dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità
mediante decreto di esproprio;
b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora
efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e
delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità
previste dall’art. 12, l. n. 865 del 1971;
c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge
stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di
espropriazione.
Ne consegue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra
indicati, non potendosi escludere che l’amministrazione abbia inteso
perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto
di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti
tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n.
865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul
bene acquisito dall’amministrazione (Cass. 22.01.2018, n. 1534; id.
22.05.2009, n. 11955;
Cons. St., sez. IV, 27.07.2016, n. 3391).
Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione
volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il
collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo
di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale
funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del
trasferimento immobiliare. Senza l’apertura di una formale procedura
espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per
la semplice ragione che la cessione non potrebbe in tale caso espletare la
sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare
in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al
provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di
esproprio (Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione di cui all’art. 12, l. n.
865 del 1971 va quindi ricondotta ad una modalità alternativa di
realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno
strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti – tra cui la
determinazione del prezzo di cessione - alla disciplina contenuta in norme
di legge imperative (Cons.
Stato, sez. IV, 07.04.2015, n. 1768; id. 03.03.2015, n. 1035;
Cass., S.U., 13.02.2007, n. 3040).
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti su
indicati, la conclusione del contratto di cessione rimane comunque soggetta
alla disciplina del contratto privatistico, non essendo caratterizzata dalla
posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica espropriante bensì
dall’incontro paritetico delle volontà (Cass. 17.11.2000, n. 14901).
Traslando i superiori principi all’odierno gravame, non può che rilevarsi
l’assenza di un requisito essenziale perché possa ritenersi integrata la
fattispecie tipica della cessione volontaria di cui all’art. 12, l. n. 865
del 1971, ovvero quel collegamento necessario tra una procedura
espropriativa per pubblica utilità e quella modalità alternativa di
conclusione della medesima procedura costituita dalla cessione volontaria
dell’immobile espropriando
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.10.2019 n. 7445 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
2.3 La cessione volontaria di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971
costituisce invero un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi
costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale contratto di
compravendita di diritto privato, sono:
a) l’inserimento del negozio
nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel
cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione
del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo
all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio;
b) la preesistenza
non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche
di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative
offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12
della legge n. 865 del 1971;
c) il prezzo di trasferimento volontario
correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la
determinazione dell’indennità di espropriazione. Ne consegue che, ove non
siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati, non potendosi
escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di
pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al
negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione
volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia
l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito
dall’amministrazione (cfr. Cass. 22.01.2018, n. 1534; Id. 22.05.2009, n. 11955; negli stessi termini, Cons. Stato, sez. IV, 27.07.2016,
n. 3391).
Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione
volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il
collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo
di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale
funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del
trasferimento immobiliare.
Senza l’apertura di una formale procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per
la semplice ragione che la cessione non potrebbe in tale caso espletare la
sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare
in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al
provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di
esproprio (cfr. Cass. 29.03.2007, n. 7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione di cui all’art. 12 della
legge n. 865 del 1971 va quindi ricondotta ad una modalità alternativa di
realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno
strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti –tra cui la
determinazione del prezzo di cessione- alla disciplina contenuta in norme
di legge imperative (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015, n. 1768; Id. 03.03.2015, n. 1035; Cass. S.U. 13.02.2007, n. 3040).
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti
su indicati, la conclusione del contratto di cessione rimane comunque
soggetta alla disciplina del contratto privatistico, non essendo
caratterizzata dalla posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica
espropriante bensì dall’incontro paritetico delle volontà (cfr. Cass. 17.11.2000, n. 14901). |
URBANISTICA: Le
convenzioni urbanistiche, ancorché le si voglia qualificare come contratti
pubblici, sono riconducibili ad accordi sostitutivi di atti amministrativi,
soggetti, ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990, alle norme di diritto
privato.
Secondo la giurisprudenza, l’obbligo di pagamento degli
oneri di urbanizzazione e/o del costo di costruzione assume natura
convenzionale e trova causa nella convenzione di lottizzazione laddove sia
fatto oggetto di una convenzione urbanistica, e la relativa debenza deve essere valutata e rapportata alla intera operazione,
la cui complessiva remuneratività “costituisce il reale parametro per
valutare l'equilibrio del sinallagma a base dell’accordo e, quindi, la
sostanziale liceità degli impegni assunti ”.
E' stato anche puntualizzato che “La causa della convenzione urbanistica,
e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, in
particolare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma
con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale della convenzione, in
cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato
sia quelli della pubblica amministrazione” e che , inoltre, “non è affatto escluso dal sistema che un
operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche
maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una
libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al
benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia
privata, non contrastante di per sé con norme imperative”.
Altresì, le convenzioni urbanistiche, ancorché le si voglia
qualificare come contratti pubblici, sono riconducibili ad accordi
sostitutivi di atti amministrativi, soggetti, ai sensi dell’art. 11 della L.
241/1990, alle norme di diritto privato; esse vanno pertanto
considerate, a tutti gli effetti ed al di là della rilevanza pubblicistica
dell’oggetto del contratto, strumenti contrattuali di natura negoziale,
mediante i quali le parti possono legittimamente assumersi obblighi che
vanno al di là di quelli previsti dal legislatore, con l’unico limite della meritevolezza, richiesta dall’art. 1322 c.c.
---------------
9. Il ricorso è meritevole di accoglimento.
10. E’ infondata, anzitutto, l’eccezione di carenza di legittimazione
passiva sollevata dai resistenti, i quali assumono che in qualità di
semplici firmatari della Convenzione Edilizia, e non già anche di
richiedenti e di titolari delle concessioni edilizie rilasciate in
attuazione della medesima, non sarebbero gravati dall’obbligo di pagamento
degli oneri di urbanizzazione: il Comune avrebbe piuttosto dovuto rivolgersi
alla Da. s.r.l., peraltro ormai non più esistente, a seguito del deposito di
bilancio di liquidazione e di cancellazione dal registro delle imprese,
avvenuta il 16.01.2006.
11. L’eccezione è infondata in considerazione del fatto, correttamente
evidenziato dal Comune, che i resistenti, sottoscrivendo la Convenzione del
30.03.2000, si sono assunti personalmente l’obbligo incondizionato di
corrispondere gli oneri di urbanizzazione.
In particolare, proprio il fatto che nella Convenzione i resistenti si sono
assunti l’obbligo in questione anche per i propri aventi causa, senza
specificare che tale obbligo sarebbe venuto a cessare con la cessione della
proprietà dei fondi e/o con il subentro di altro soggetto negli obblighi
previsti dalla Convenzione, evidenzia che la volontà delle parti era,
precisamente, quella di individuare in modo certo il soggetto debitore degli
oneri di urbanizzazione, a prescindere da quelle che sarebbero state le
vicende relative alla proprietà dei fondi compresi nel Piano Esecutivo
Convenzionato, ed in tal senso gli odierni resistenti si sono assunti
spontaneamente l’obbligo, evidentemente a fronte di una ritenuta complessiva
remuneratività della operazione.
11.1. Giova ricordare, a questo punto, che secondo la giurisprudenza,
l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione e/o del costo di
costruzione assume natura convenzionale e trova causa nella convenzione di
lottizzazione laddove sia fatto oggetto di una convenzione urbanistica, e la
relativa debenza deve essere valutata e rapportata alla intera operazione,
la cui complessiva remuneratività “costituisce il reale parametro per
valutare l'equilibrio del sinallagma a base dell’accordo e, quindi, la
sostanziale liceità degli impegni assunti (cfr. Cons. Stato, IV, 15.02.2019,
n. 1069)” (C.d.S., Sez. IV, 04.10.2019, n. 6668).
E' stato anche puntualizzato che “La causa della convenzione urbanistica,
e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, in
particolare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma
con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale della convenzione, in
cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato
sia quelli della pubblica amministrazione (Cons. Stato, V, 26.11.2013, n.
5603)” e che , inoltre, “non è affatto escluso dal sistema che un
operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche
maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una
libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al
benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia
privata, non contrastante di per sé con norme imperative” (C.d.S., Sez.
IV, 04.10.2019, n. 6668).
11.2. Il Collegio non ritiene di doversi discostarsi da tale orientamento,
anche per la ragione che le convenzioni urbanistiche, ancorché le si voglia
qualificare come contratti pubblici, sono riconducibili ad accordi
sostitutivi di atti amministrativi, soggetti, ai sensi dell’art. 11 della L.
241/1990, alle norme di diritto privato (tra le più recenti: C.d.S., Sez. II,
29/07/2019 n. 5304; Consiglio di Stato sez. IV, 07/05/2015, n. 2313;
Consiglio di Stato sez. IV, 26/09/2013, n. 4810); esse vanno pertanto
considerate, a tutti gli effetti ed al di là della rilevanza pubblicistica
dell’oggetto del contratto, strumenti contrattuali di natura negoziale,
mediante i quali le parti possono legittimamente assumersi obblighi che
vanno al di là di quelli previsti dal legislatore, con l’unico limite della meritevolezza, richiesta dall’art. 1322 c.c..
11.3. Il fatto che nel caso di specie vengano in considerazione obblighi
che, in mancanza di una convenzione edilizia, spetterebbero ordinariamente,
in base alla legge, solo al titolare della concessione edilizia, non toglie
dunque legittimità né efficacia alla previsione contenuta nella Convenzione
stipulata tra il Comune di Cercenasco e gli odierni resistenti, in base alla
quale questi ultimi si sono assunti l’obbligo incondizionato di provvedere
al pagamento degli oneri di urbanizzazione.
11.4. Va dunque respinta l’eccezione preliminare di carenza di
legittimazione passiva, sollevata dai resistenti
(TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 30.10.2019 n. 1091 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
16, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce che il privato può assolvere
all’obbligo di concorrere nelle spese di urbanizzazione realizzando
direttamente, a scomputo, opere di urbanizzazione “con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente
acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
E' dunque evidente che, affinché il costo delle opere di urbanizzazione sia
portato a scomputo degli oneri di urbanizzazione, è necessario che il Comune
esprima una preventiva approvazione sul progetto delle opere e sul relativo
computo metrico, all’evidente scopo di garantire che le opere portate a
scomputo siano realizzate in maniera adeguata, e che il costo sia
correttamente valorizzato.
---------------
13.
Infondata è anche la pretesa dei ricorrenti a vedersi accreditare la somma
di € 25.836,27 da essi asseritamente sostenuta per la realizzazione di opere
di urbanizzazione primaria.
13.1. L’art. 16, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, infatti, che il
privato può assolvere all’obbligo di concorrere nelle spese di
urbanizzazione realizzando direttamente, a scomputo, opere di urbanizzazione
“con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente
acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”:
è dunque evidente che, affinché il costo delle opere di urbanizzazione sia
portato a scomputo degli oneri di urbanizzazione, è necessario che il Comune
esprima una preventiva approvazione sul progetto delle opere e sul relativo
computo metrico, all’evidente scopo di garantire che le opere portate a
scomputo siano realizzate in maniera adeguata, e che il costo sia
correttamente valorizzato.
13.2. Nella specie i resistenti nulla hanno prodotto per dimostrare che lo
scomputo del costo delle opere di urbanizzazione da essi realizzate era
stato approvato preventivamente dal Comune, di guisa che, in teoria, nulla a
detto titolo dovrebbe loro essere riconosciuto. Il Comune, tuttavia, con il
ricorso introduttivo del giudizio ha portato in deduzione del dovuto
l’importo di £. 11.000.000, che in effetti rappresenta la valorizzazione
delle opere di urbanizzazione primaria oggetto di scomputo, quantificate in
sede di approvazione del PEC.
13.3. La pretesa dei resistenti di vedersi interamente accreditare, a
scomputo e/o in compensazione di quanto dovuto, l’intero costo delle opere
di urbanizzazione realizzate dalla Da. s.r.l., è pertanto infondata
(TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 30.10.2019 n. 1091 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ammissione
con riserva alle prove di un concorso.
---------------
Concorso – Prove – Ammissione con riserva – Superamento – Conseguenza -
Definizione del ricorso nel merito – Interesse - Permane.
L’ammissione con riserva alle prove di un concorso,
anche quando il concorrente le abbia superate e risulti vincitore del
concorso, è un provvedimento cautelare che non fa venir meno l’interesse
alla definizione del ricorso nel merito, poiché tale ammissione è
subordinata alla verifica della fondatezza delle sue ragioni e, cioè, “con
riserva” di accertarne la definitiva fondatezza nel merito, senza, però,
pregiudicare nel frattempo la sua legittima aspirazione a sostenere le
prove, aspirazione che sarebbe irrimediabilmente frustrata se la sentenza a
lui favorevole sopraggiungesse all’esaurimento della procedura concorsuale e
fosse quindi, a quel punto, inutiliter data, vanificando l’effettività della
tutela giurisdizionale (1).
---------------
(1)
Cons. St., sez. III, 18.01.2017, n. 209; id.
06.05.2016, n. 1839; id.
16.06.2015, n. 3038.
La Sezione ha ritenuto di non poter condividere il diverso orientamento (Cons.
St., sez. VI, 25.07.2019, n. 5263;
01.04.2019, n. 2155) che, in relazione all’ammissione con riserva
di studenti alla frequenza della facoltà a numero di chiuso di medicina,
ossia a fattispecie di natura comunque selettiva, pur non rilevando il testo
dell’art. 4, comma 2-bis, d.l. 30.06.2005, n. 115, ha affermato che
nondimeno “nel caso di specie, vi sia ugualmente una situazione di
affidamento, con avvio in buona fede di un articolato percorso di studio,
quasi completato, che merita un trattamento non dissimile a quello previsto
dal sopra richiamato art. 4-bis quando vi sia stato il conseguimento di una
abilitazione professionale o di un titolo nei casi ivi previsti”.
La Sezione ha ritenuto che siffatta “apertura” giustificata
essenzialmente dall’esigenza di tutela dell’affidamento nello specifico e
peculiare caso degli studenti di medicina, non possa essere considerata
espressiva di un principio generale che giunga ad estendere in via analogica
la prescrizione normativa di cui all’art. 4, comma 2-bis, cit., all’intero
ambito delle procedura selettive. Ne risentirebbe in modo inaccettabile il
principio della par conditio, e ancor prima il principio del pubblico
concorso, posto che si generebbe, in forza di una mera delibazione del
fumus e del periculum in mora in sede giudiziaria, una corsia
parallela di accesso alla professioni e ai pubblici impieghi, pur quando la
sentenza definitiva, nel pieno contradditorio tra le parti, abbia infine
accertato che le ragioni del ricorrente, beneficiario della tutela
cautelare, siano del tutto infondate.
La tutela cautelare non è la rimozione di un ostacolo procedurale interposto
dall’amministrazione, ma è solo l’effetto della protezione interinale di una
posizione giuridica, in guisa che il tempo del processo non abbia a
compromettere definitivamente le utilità cui il ricorrente aspira.
La Sezione ha escluso che la frequenza con profitto e il superamento
dell’esame finale, abbiamo di fatto ed ex post sancito che il bene della
vita è meritato; o, ancora, che sarebbe irragionevole negare il
conseguimento del titolo agli appellanti in considerazione della cronica
carenza di medici di base.
Siffatte argomentazioni obliterano che, alla luce del principio del pubblico
concorso, l’attribuzione del “bene della vita” è frutto della
competizione fra più aspiranti, in un quadro di regole trasparenti in cui “più
meritevoli” sono considerati solo coloro che legittimamente superano il
concorso, talché consentire ad alcuni di ottenere il predetto bene, senza
passare dal vittorioso esito di una competizione, non può che costituire un
pregiudizio per gli altri aspiranti, i cui posti sono attinti.
La cronica carenza dei medici, inoltre, sotto il profilo strettamente
giuridico, non rileva. E’ compito del legislatore, ove le procedure
selettive non siano sufficienti ad assicurare adeguate coperture,
individuare soluzioni e rimedi per un reclutamento straordinario che
eventualmente tenga conto dell’esistenza di medici già formati seppur
all’esito di un percorso avviatosi in forza di provvedimenti giurisdizionale
di natura cautelare (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 29.10.2019 n. 7410 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Aggiudicazione
di un appalto, indetto per la scelta dell'offerta economicamente più
vantaggiosa con il metodo off/on.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta
economicamente più vantaggiosa - Metodo off/on – Limiti.
E’ legittimo il metodo off/on per la scelta
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, sebbene non tutte le voci
rientranti nell'offerta tecnica si prestano, in generale, ad essere vagliate
con tale metodo (che, nello specifico, ha comportato l'appiattimento della
valutazione sul solo aspetto economico, trasformando la gara nella scelta
del prezzo più basso) (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che non è in discussione la possibilità di
aggiudicare l’appalto con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa utilizzando criteri di valutazione incentrati sul metodo
“on/off”.
Del resto l’ANAC nelle Linee Guida n. 2, in materia di “Offerta
economicamente più vantaggiosa” (approvate con la delibera n. 1005 del
21.09.2016 e aggiornate con la delibera n. 424 del 02.05.2018), ha chiarito
che «Per le forniture e per taluni servizi, ovvero quando non è
necessario esprimere una valutazione di natura soggettiva, è possibile
attribuire il punteggio anche sulla base tabellare o del punteggio assoluto.
In questo caso, sarà la presenza o assenza di una data qualità e l’entità
della presenza, che concorreranno a determinare il punteggio assegnato a
ciascun concorrente per un determinato parametro. Anche in questo caso si
attribuisce il punteggio 0 al concorrente che non presenta il requisito
richiesto e un punteggio crescente (predeterminato) al concorrente che
presente il requisito richiesto con intensità maggiore».
Tuttavia nelle predette linee guida è stato specificato altresì che i
criteri di valutazione devono «consentire un effettivo confronto
concorrenziale sui profili tecnici dell’offerta, scongiurando situazioni di
appiattimento delle stesse sui medesimi valori, vanificando l’applicazione
del criterio del miglior rapporto qualità/prezzo».
Ciò -a ben vedere- è quanto è accaduto nel caso in esame per effetto della
combinazione del previsto metodo di attribuzione dei punteggi “on/off”
con la mancata previsione dell’obbligo di allegare documentazione tecnica a
corredo dell’offerta e con la mancata nomina di una commissione incaricata
di verificare quanto dichiarato dai concorrenti.
L’impostazione della lex specialis ha, di fatto, vanificato la
valutazione dell’elemento qualitativo, perché tutti i concorrenti hanno
dichiarato il possesso delle caratteristiche richieste per i dispositivi
offerti in gara, così ottenendo il massimo punteggio tecnico previsto (70
punti), con l’effetto di trasformare il criterio di aggiudicazione prescelto
dalla lex specialis in quello del prezzo più basso (perché l’unico
elemento determinante per l’aggiudicazione dell’appalto in contestazione è
risultato il prezzo offerto da ciascun corrente) e di rinviare alla fase
della stipula e/o dell’esecuzione del contratto la verifica di quanto
dichiarato dal concorrente aggiudicatario in merito alle caratteristiche del
dispositivo offerto in gara, così unificando due momenti (quello relativo
alla gara vera e propria e quello del controllo del prodotto offerto dal
concorrente aggiudicatario) che la legislazione in materia di contratti
pubblici vuole e tiene autonomi e distinti
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 29.10.2019 n. 140 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
atti di determinazione e liquidazione del contributo di concessione in
relazione a un dato intervento edilizio non hanno natura provvedimentale, in
quanto inidonei a incidere autonomamente sulle posizioni giuridiche degli
interessati, dato che svolgono una funzione essenzialmente ricognitiva di un
debito, relativa ad un rapporto obbligatorio.
Esse sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
pur avendo ad oggetto l'accertamento di un rapporto di credito che prescinde
dall'esistenza e dall'impugnazione di atti determinativi della pubblica
amministrazione, non essendo soggette alle regole delle azioni di
annullamento.
L'azione volta alla declaratoria d'insussistenza o della diversa entità del
debito contributivo per oneri di urbanizzazione può, quindi, essere
intentata, qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali
autoritativi di determinazione degli oneri, a prescindere dall'impugnazione
o esistenza degli atti con cui viene richiesto il pagamento.
---------------
Il Collegio non ignora gli arresti giurisprudenziali che ancorano la
determinazione del contributo di concessione, avuto riguardo alla
disciplina, legislativa e regolamentare, applicabile, a quella vigente al
momento del rilascio del titolo edilizio, piuttosto che alla data della
richiesta del titolo abilitativo.
---------------
9. È utile premettere che gli atti di determinazione e liquidazione del
contributo di concessione in relazione a un dato intervento edilizio, come
reiteratamente chiarito da questo Consiglio di Stato, dalle cui risultanze
non è motivo di discostarsi, non hanno natura provvedimentale, in quanto
inidonei a incidere autonomamente sulle posizioni giuridiche degli
interessati, dato che svolgono una funzione essenzialmente ricognitiva di un
debito, relativa ad un rapporto obbligatorio. Esse sono riservate alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo pur avendo ad oggetto
l'accertamento di un rapporto di credito che prescinde dall'esistenza e
dall'impugnazione di atti determinativi della pubblica amministrazione, non
essendo soggette alle regole delle azioni di annullamento (cfr. ex multis
Cons. Stato, Sez. VI, sentenze nn. 2294 e 3298 del 2015).
L'azione volta alla declaratoria d'insussistenza o, come in questo caso,
della diversa entità del debito contributivo per oneri di urbanizzazione
può, quindi, essere intentata, qualora non vengano dedotte censure derivanti
da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri, a prescindere
dall'impugnazione o esistenza degli atti con cui viene richiesto il
pagamento (cfr., oltre alle due sentenze cit. supra, Cons. Stato, Sez. V, n.
5072/2014; nonché Sez. IV, n. 1504/2015).
...
La tematica del regime giuridico
applicabile agli oneri concessori è stata variamente affrontata dalla
giurisprudenza, sia allo scopo di individuare l’esatta decorrenza del
termine di prescrizione del diritto alla relativa riscossione da parte del
Comune, sia, più genericamente, per perimetrarne la consistenza ove si siano
succedute nel tempo discipline del tutto diverse, non necessariamente di
favore.
Il Collegio non ignora a tale proposito gli arresti giurisprudenziali che
ancorano la determinazione del contributo di concessione, avuto riguardo
alla disciplina, legislativa e regolamentare, applicabile, a quella vigente
al momento del rilascio del titolo edilizio, piuttosto che alla data della
richiesta del titolo abilitativo (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV,
07.06.2012, n. 3379; Cons. Stato, Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; TRGA Bolzano
02.11.2016, n. 305; nonché, di recente, TRGA, Sez. di Bolzano, 26.09.2019,
n. 227) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 25.10.2019 n. 7290 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
concetto di "ristrutturazione edilizia" con riguardo alla
disciplina normativa vigente tra il 2003 e il 2013.
La giurisprudenza ha chiarito, con riguardo alla
disciplina normativa vigente tra il 2003 e il 2013, che il concetto di
ristrutturazione edilizia comprende la demolizione e ricostruzione con
la stessa volumetria e sagoma, nel senso che oltre al volume debbano essere
rispettate le linee essenziali della sagoma. Per effetto della normativa
introdotta dall'art. 1 del d.lgs. 27.12.2002, n. 301, applicabile alla
fattispecie, il vincolo della fedele ricostruzione è venuto meno, così
estendendosi ulteriormente il concetto della ristrutturazione edilizia, che,
per quanto riguarda gli interventi di ricostruzione e demolizione ad essa
riconducibili, resta distinta dall'intervento di nuova costruzione per la
necessità che la ricostruzione corrisponda, quanto meno nel volume e nella
sagoma, al fabbricato demolito.
In particolare, è stato affermato che, se anche dall’art. 3 è stato espunto
il riferimento alla “fedele ricostruzione”, occorre però considerare con
rigore i criteri della medesima volumetria e sagoma, in virtù della modifica
dell'istituto. Se quindi con la modifica introdotta dal d.lgs. n. 301 del
2002 la nozione di ristrutturazione è stata ulteriormente estesa, al fine di
conservare una logica normativa è necessaria una interpretazione rigorosa e
restrittiva del mantenimento della sagoma precedente. Proprio perché non vi
è più il limite della “fedele ricostruzione” per la ristrutturazione si
richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell'edificio
preesistente nel senso che debbono essere presenti le linee fondamentali per
sagoma e volumi. Anche escludendo il superato criterio della fedele
ricostruzione, esigenze di interpretazione logico sistematica della nuova
normativa inducono a ritenere che la ristrutturazione edilizia, per essere
tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare
le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva
ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee
fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi.
Rispetto alla definizione contenuta nell’art. 3, non viene poi considerata
in contraddizione la previsione dell’art. 10, comma 1, lettera c), del
D.P.R. 380 del 2001, che richiede il permesso di costruire per “gli
interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio
in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso” (testo vigente al
30.05.2006, data di rilascio del permesso di costruire impugnato).
Infatti, sulla base di tale differente disciplina la giurisprudenza ha
individuato due ipotesi di ristrutturazione edilizia: la
ristrutturazione edilizia cd. “conservativa”, che può comportare anche
l'inserimento di nuovi volumi o modifica della sagoma; la
ristrutturazione edilizia cd. “ricostruttiva”, attuata mediante
demolizione, anche parziale, e ricostruzione, che deve rispettare il volume
e la sagoma dell’edificio preesistente, con la conseguenza che, in difetto,
viene a configurarsi una nuova costruzione.
Tra la norma, che definisce la ristrutturazione edilizia, e quella
relativa agli interventi soggetti a concessione edilizia, non vi è
contraddizione, poiché il legislatore nazionale -a fronte delle due
tipologie di ristrutturazione edilizia- non ha affatto escluso che quest'ultima
possa comportare anche modifiche di volume o di sagoma, ma ha escluso che
possano aversi queste ultime modifiche nel caso di ristrutturazione
caratterizzata da demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato, in
cui è richiesta la ricostruzione di un fabbricato identico per sagoma e
volume.
In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di
demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio
preesistente -intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica
della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e
orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione edilizia.
---------------
Con il primo motivo si sostiene l’errore del giudice di primo grado
rispetto alla qualificazione della ristrutturazione, deducendo che la
fattispecie della ristrutturazione edilizia non possa ritenersi limitata
alla demolizione e ricostruzione con assoluto rispetto della sagoma e del
volume preesistenti, non essendo più contenuto nell’art. 3 del D.P.R. 380
del 2001 il riferimento alla “fedele ricostruzione”; inoltre, ad
avviso della parte appellante, la volumetria originaria era stata calcolata
con esclusione del sottotetto qualificato dalle NTA come volume tecnico.
Tale motivo di appello non è suscettibile di accoglimento.
Ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, nel testo vigente al
momento di rilascio del permesso di costruire impugnato in primo grado, gli
“interventi di ristrutturazione edilizia”, erano definiti “gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o
la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Il testo previgente modificato dal d.lgs. 27.12.2002 n. 301 prevedeva nella
ristrutturazione edilizia la “successiva fedele ricostruzione di un
fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e
caratteristiche dei materiali, a quello preesistente”.
Già in base a tale dato testuale delle disposizioni riportate la
ricostruzione difensiva non può essere condivisa, in quanto la eliminazione
operata dal d.lgs. 301 del 2002 riguarda “l’area di sedime” e “le
caratteristiche dei materiali”, essendo invece confermato il rispetto
sia della sagoma che del volume, mentre il rispetto della sagoma è stato
eliminato solo successivamente con il d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito
dalla l. 09.08.2013, n. 98.
La giurisprudenza ha chiarito, con riguardo alla disciplina normativa
vigente tra il 2003 e il 2013, che il concetto di ristrutturazione
edilizia comprende la demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma, nel senso che oltre al volume debbano essere rispettate
le linee essenziali della sagoma. Per effetto della normativa introdotta
dall'art. 1 del d.lgs. 27.12.2002, n. 301, applicabile alla fattispecie, il
vincolo della fedele ricostruzione è venuto meno, così estendendosi
ulteriormente il concetto della ristrutturazione edilizia, che, per quanto
riguarda gli interventi di ricostruzione e demolizione ad essa
riconducibili, resta distinta dall'intervento di nuova costruzione per la
necessità che la ricostruzione corrisponda, quanto meno nel volume e nella
sagoma, al fabbricato demolito (Cons. Stato Sez. IV, 09.07.2010, n. 4462).
In particolare, è stato affermato che, se anche dall’art. 3 è stato espunto
il riferimento alla “fedele ricostruzione”, occorre però considerare
con rigore i criteri della medesima volumetria e sagoma, in virtù della
modifica dell'istituto. Se quindi con la modifica introdotta dal d.lgs. n.
301 del 2002 la nozione di ristrutturazione è stata ulteriormente estesa, al
fine di conservare una logica normativa è necessaria una interpretazione
rigorosa e restrittiva del mantenimento della sagoma precedente. Proprio
perché non vi è più il limite della “fedele ricostruzione” per la
ristrutturazione si richiede la conservazione delle caratteristiche
fondamentali dell'edificio preesistente nel senso che debbono essere
presenti le linee fondamentali per sagoma e volumi. Anche escludendo il
superato criterio della fedele ricostruzione, esigenze di interpretazione
logico sistematica della nuova normativa inducono a ritenere che la
ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con
la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali
dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba
riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e
volumi (Cons. Stato Sez. IV, 09.08.2018, n. 4880; id. 30.05.2013 n. 2972).
Rispetto alla definizione contenuta nell’art. 3, non viene poi considerata
in contraddizione la previsione dell’art. 10, comma 1, lettera c), del
D.P.R. 380 del 2001, che richiede il permesso di costruire per “gli
interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio
in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso” (testo
vigente al 30.05.2006, data di rilascio del permesso di costruire
impugnato).
Infatti, sulla base di tale differente disciplina la giurisprudenza ha
individuato due ipotesi di ristrutturazione edilizia: la
ristrutturazione edilizia cd. “conservativa”, che può comportare
anche l'inserimento di nuovi volumi o modifica della sagoma; la
ristrutturazione edilizia cd. “ricostruttiva”, attuata mediante
demolizione, anche parziale, e ricostruzione, che deve rispettare il volume
e la sagoma dell’edificio preesistente, con la conseguenza che, in difetto,
viene a configurarsi una nuova costruzione.
Tra la norma, che definisce la ristrutturazione edilizia, e quella
relativa agli interventi soggetti a concessione edilizia, non vi è
contraddizione, poiché il legislatore nazionale -a fronte delle due
tipologie di ristrutturazione edilizia- non ha affatto escluso che quest'ultima
possa comportare anche modifiche di volume o di sagoma, ma ha escluso che
possano aversi queste ultime modifiche nel caso di ristrutturazione
caratterizzata da demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato, in
cui è richiesta la ricostruzione di un fabbricato identico per sagoma e
volume (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 20.04.2017, n. 1847; id. 02.02.2017, n.
443).
In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di
demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio
preesistente -intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica
della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e
orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione edilizia (Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015 n. 1763).
Applicando tali consolidati orientamenti giurisprudenziali, si deve ritenere
che, nel caso di specie siano stati superati i limiti della
ristrutturazione edilizia tramite demolizione e ricostruzione del
fabbricato.
Risulta chiaramente già dagli elaborati progettuali allegati al permesso di
costruire la realizzazione di un organismo edilizio diverso per volumetria e
sagoma rispetto a quello preesistente.
Infatti, al posto di un edificio di due piani fuori terra con un’altezza nei
diversi punti di 6.80 metri e di 7.40 metri più il sottotetto, è stata
assentita la realizzazione di un edificio di tre piani di altezza
complessiva di 10,20 metri, comprensivo del sottotetto.
Inoltre, il verificatore nominato nel giudizio di primo grado ha dato
espressamente atto nella relazione di un aumento della sagoma in orizzontale
di circa il 46%
Con riferimento alla volumetria il verificatore ha considerato il
sottotetto, di complessivi 350,15 metri cubi, pur avendo un altezza
inferiore ai metri 2,40, un volume residenziale essendo munito di finestre e
balconi.
Ritiene il Collegio che sulla base di tali risultanze di fatto correttamente
il giudice di primo grado abbia ravvisato una nuova costruzione,
facendo anche riferimento alle NTA del PRG che ammettono nella zona B gli
interventi di ristrutturazione e di sostituzione edilizia a parità di volume
ed altezza, disposizione palesemente non rispettata nel caso di specie,
essendo stata mutata l’altezza dell’edificio.
Inoltre la realizzazione del piano, qualificato come sottotetto nel
progetto, con finestre e una balconata lungo la facciata dell’edificio
comporta anch’essa la modifica della sagoma dell’edificio, ricostruito nella
sostanza con l’innalzamento di un piano.
L’evidente mutamento della sagoma dell’edificio comporta la irrilevanza,
quindi, delle deduzioni della difesa appellante circa il calcolo del volume
preesistente da cui nel progetto era stato sottratto il precedente volume
tecnico del sottotetto e le contestazioni circa la natura di volume tecnico
del sottotetto, senza considerare che nel progetto approvato è previsto un
volume complessivo di 146,81 metri cubi (rispetto ai precedenti 168,95), ma
con un totale di volumi tecnici per 685 metri cubi, di cui 350,15 metri cubi
di sottotetto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 25.10.2019 n. 7289 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Conformemente
alla costante giurisprudenza di questo Consiglio, la nozione di volume
tecnico corrisponde a un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale,
anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità
di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali di essa.
I volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a
condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile
e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento
edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale
abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere
computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai
fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza.
Anche la giurisprudenza della Cassazione penale ha più volte affermato che
sono volumi tecnici quelli strettamente necessari a contenere ed a
consentire la sistemazione di quelle parti degli impianti tecnici, aventi un
rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione
(serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione
dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di
sopra della linea di gronda età), che non possono, per esigenze tecniche di
funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione entro il corpo
dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche.
Si è anche specificato che per l'identificazione della nozione di “volume
tecnico”, assumono valore tre ordini di parametri, il primo,
positivo, di tipo funzionale, relativo al rapporto di strumentalità
necessaria del manufatto con l'utilizzo della costruzione alla quale si
connette; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un
lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali
costruzioni non devono potere essere ubicate all'interno della parte
abitativa, e dall'altro lato ad un rapporto di necessaria proporzionalità
tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
---------------
Con l’ulteriore motivo di appello si contesta, infatti, la
considerazione del volume del sottotetto come volume residenziale da parte
del giudice di primo grado, sostenendo che correttamente è stato qualificato
dal Comune come volume tecnico, in base alle norme di attuazione del PRG che
considerano i sottotetti come volumi tecnici se di altezza inferiore ai 2,40
di altezza e comunque tale limite sarebbe previsto anche dalla legge
regionale n. 15 del 2000 per la trasformazione dei sottotetti.
Una tale interpretazione non può essere accolta.
In primo luogo, la norma tecnica di attuazione prevede che dal volume lordo
fuori terra “possano” essere dedotti i volumi tecnici, tra cui i
volumi delle coperture a tetto se di altezza non superiore a metri 2,50 ed
altezza minima non superiore a metri 2,00.
Tale norma deve essere, quindi, applicata conformemente alla costante
giurisprudenza di questo Consiglio, per cui la nozione di volume tecnico
corrisponde a un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo
potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di
alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali di essa (Cons. Stato Sez. VI, 17.05.2017, n.
2336; Sez. IV 31.08.2016, n. 3724).
I volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a
condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile
e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento
edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale
abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere
computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai
fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza (cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2019, n. 2101).
Anche la giurisprudenza della Cassazione penale ha più volte affermato che
sono volumi tecnici quelli strettamente necessari a contenere ed a
consentire la sistemazione di quelle parti degli impianti tecnici, aventi un
rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione
(serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione
dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di
sopra della linea di gronda età), che non possono, per esigenze tecniche di
funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione entro il corpo
dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche; si è
anche specificato che per l'identificazione della nozione di “volume
tecnico”, assumono valore tre ordini di parametri, il primo, positivo,
di tipo funzionale, relativo al rapporto di strumentalità necessaria del
manufatto con l'utilizzo della costruzione alla quale si connette; il
secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di
soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono
potere essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro lato
ad un rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le esigenze
effettivamente presenti (Cass. pen, Sez. III, 17.11.2010, n. 7217; id,
27.05.2016, n. 22255).
Inoltre, ai sensi della legge regionale, 28.11.2000, n. 15, art. 3, comma 1,
lettera c), è ammesso il recupero abitativo del sottotetto, quando “l'altezza
media interna, calcolata dividendo il volume interno lordo per la superficie
interna lorda”, non sia inferiore a metri 2,20. “In caso di soffitto
non orizzontale, fermo restando le predette altezze medie, l'altezza della
parete minima non può essere inferiore a metri 1,40”.
Nel caso di specie, l’altezza del sottotetto è indicata in progetto tra i
metri 2 e i metri 2,50, con evidente possibilità di un successivo recupero,
in base alla legge n. 15 del 2000.
Ne deriva che in alcun modo il volume del sottotetto, inoltre di 300 metri
cubi complessivi, di gran lunga superiore al volume del resto dell’edificio,
avrebbe potuto essere calcolato come volume tecnico, ai fini rispetto della
identità di sagoma e di volume richiesto per la ristrutturazione edilizia.
Trattandosi di intervento di nuova costruzione, per la costante
giurisprudenza di questo Consiglio, era, dunque, soggetto ai limiti delle
distanze tra gli edifici (Cons. Stato, sez. IV, 30.05.2013 n. 2972;
12.02.2013 n. 844)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 25.10.2019 n. 7289 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante giurisprudenza, ai fini dell’applicazione della
normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici,
per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione ex
novo di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di
un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro,
direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici
esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una
maggiore volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi.
In particolare la sopraelevazione deve essere considerata come nuova
costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto
della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo
confinante.
---------------
Con il terzo motivo di appello, peraltro, si sostiene che non
sussisterebbe la violazione delle distanze ravvisata dal giudice di primo
grado, in quanto le NTA del PRG del Comune di Marcianise per la zona B
consentirebbero la costruzione sul confine di proprietà in caso di lotti
circostanti edificati sul confine o non edificati; ciò avrebbe consentito il
superamento della distanza minima di 5 metri, in quanto fino all’altezza
dell’edificio confinante sarebbe stata applicabile la prima parte
disposizione, per la parte del sottotetto sarebbe stata applicabile la parte
della norma di attuazione relativi ai fondi non edificati.
Tale interpretazione non può trovare accoglimento.
E’ infatti evidente che l’unica interpretazione consentita da tale norma
tecnica è quella seguita dal giudice di primo grado, per cui nel caso di
specie la distanza inferiore ai 5 metri è ammessa solo fino all’altezza
dell’edificio confinante; per il resto l’edificio è realizzato in violazione
delle distanze, potendo il riferimento a lotti inedificati contenuto nella
detta norma di attuazione essere riferita solo ad un lotto integralmente non
edificato, non alla inedificazione della parte sovrastante un edificio.
Per costante giurisprudenza, infatti, ai fini dell’applicazione della
normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici,
per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione
ex novo di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella
volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della
sagoma d'ingombro, direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra
gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o
meno di una maggiore volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini
abitativi; in particolare la sopraelevazione deve essere considerata come
nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il
rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti
sul fondo confinante (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 28.11.2018, n. 6738)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 25.10.2019 n. 7289 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Allo
scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e
perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi,
autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se
esso sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova
ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un
atto precedente l'atto la cui adozione «sia stata preceduta da un riesame
della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la
rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di
fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può
condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare
vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di
autonoma impugnazione».
Pertanto il mancato annullamento d’ufficio non rileva più autonomamente, e
non si giustifica nella asserita rilevata carenza dell’interesse pubblico
contrapposto; bensì risulta assorbito nella scelta di concludere il
procedimento con una conferma, nel senso novativo sopra richiamato, del
permesso edilizio originario, sostituendolo con uno nuovo che, rivalutati,
in fatto e in diritto, i relativi contenuti, li ha comunque avallati.
---------------
11. Infine, il Comune di Ricadi, a difesa dell’esito confermativo del titolo
edilizio originario, invoca la mancanza di interesse pubblico al richiesto
annullamento, espressamente previsto dall’art. 21-nonies della l. n.
241/1990 nella versione vigente ratione temporis.
Nel caso di specie, tuttavia, come ricordato dal TAR, il provvedimento n.
187 del 09.11.2009, pur conseguendo all’avvio di un procedimento di
annullamento in autotutela, indirettamente stimolato dalle semplici
richieste di chiarimento avanzate dal Pa., si è concretizzato in un atto
reiterativo della scelta precedente.
Esso tuttavia, conseguendo ad una nuova istruttoria, peraltro con attenzione
mirata alla rilevata incongruità dello scomputo degli indici edificatori
pregressi, non ne mutua acriticamente il contenuto, ma ne rinnova la scelta
contenutistica, spostando su di sé i vizi eventualmente già sottesi a quella
originaria.
11.1. A tale riguardo, come reiteratamente affermato da questo Consiglio di
Stato, dalle cui risultanze non è motivo di discostarsi, allo scopo di
stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non
impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo
e da impugnarsi nei termini), occorre proprio verificare se esso sia stato
adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli
interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un
atto precedente l'atto la cui adozione «sia stata preceduta da un riesame
della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la
rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di
fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può
condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare
vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di
autonoma impugnazione» (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.04.2018, n. 2172;
Sez. IV, 14.04.2014, n. 1805; id., 12.02.2015, n. 758; 29.02.2016, n. 812;
12.10.2016, n. 4214; nonché 27.01.2017, n. 357).
Pertanto il mancato annullamento d’ufficio non rileva più autonomamente, e
non si giustifica nella asserita rilevata carenza dell’interesse pubblico
contrapposto; bensì risulta assorbito nella scelta di concludere il
procedimento con una conferma, nel senso novativo sopra richiamato, del
permesso edilizio originario, sostituendolo con uno nuovo che, rivalutati,
in fatto e in diritto, i relativi contenuti, li ha comunque avallati
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 25.10.2019 n. 7285 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Codice
del terzo settore (d.lgs. n. 117/2017) – Sedi di enti del terzo settore e
locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali – Compatibilità
con tutte le destinazioni d’uso urbanistico – Fattispecie: gestione di
attività turistiche di interesse sociale.
E'
illegittimo il provvedimento con il quale il comune inibisce ad una
associazione del terzo settore la prosecuzione dell’attività di sosta camper
su di un’area.
Invero, sussiste la violazione e falsa applicazione degli
articoli 2 e 32 della legge n. 383 del 2000.
Ai sensi di tale normativa, confermata dall’art.
71 del codice del terzo settore (D.Lgs.
03.07.2017 n. 117), le associazioni di promozione
sociale, che svolgono attività senza fini di lucro, possono svolgere la
propria attività in qualsiasi immobile, area o zona del territorio comunale,
a prescindere dalla destinazione urbanistica impressa all’area stessa e
senza che ciò determini un mutamento della destinazione d’uso dell’immobile
o dell’area utilizzati.
Ne consegue che il Comune non può imporre, così come avvenuto con il
provvedimento gravato, la formazione di un piano di lottizzazione
convenzionato con la determinazione di aree per parcheggi e spazi pubblici.
Peraltro, il provvedimento gravato risulta irragionevole, atteso che
l’ospitalità dei camper dura solo per circa cinque mesi l’anno, al termine
dei quali l’area torna libera da ogni mezzo, senza che si realizzi alcuna
modifica permanente dei luoghi o la realizzazione di una struttura ricettiva
permanente necessitante di titoli edilizi.
---------------
1.- Oggetto di impugnativa è il provvedimento con il quale il Comune di
Roseto degli Abruzzi inibisce all’Associazione ricorrente la prosecuzione
dell’attività di sosta camper sull’area distinta in catasto al foglio 55,
particella n. 33
2.- I motivi di ricorso rispondono alla medesima direttrice logica e possono
essere, pertanto, trattati congiuntamente.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente lamenta la violazione
e falsa applicazione degli articoli 2 e 32 della legge n. 383 del 2000.
Ai sensi di tale normativa, confermata dall’art. 71 del codice del terzo
settore, le associazioni di promozione sociale, che svolgono attività senza
fini di lucro, possono svolgere la propria attività in qualsiasi immobile,
area o zona del territorio comunale, a prescindere dalla destinazione
urbanistica impressa all’area stessa e senza che ciò determini un mutamento
della destinazione d’uso dell’immobile o dell’area utilizzati.
Ne consegue che il Comune non può imporre, così come avvenuto con il
provvedimento gravato, la formazione di un piano di lottizzazione
convenzionato con la determinazione di aree per parcheggi e spazi pubblici.
Peraltro, il provvedimento gravato sarebbe irragionevole, atteso che
l’ospitalità dei camper dura solo per circa cinque mesi l’anno, al termine
dei quali l’area torna libera da ogni mezzo, senza che si realizzi alcuna
modifica permanente dei luoghi o la realizzazione di una struttura ricettiva
permanente necessitante di titoli edilizi.
Parte ricorrente lamenta -secondo motivo- l’incompetenza del Comune
ad inibire un’attività di promozione sociale regolarmente affiliata alla
Federazione nazionale liberi circoli, a sua volta iscritta ex art. 7 L.
383/2000 al registro delle associazioni di promozione sociale, tenuto presso
la Presidenza del consiglio dei Ministri.
Inoltre, il provvedimento muove da un erroneo presupposto di fatto -terzo
motivo- ovvero che l’area in cui sorge il camping, in quanto trasformata
in un’area turistica e ricettiva, necessiterebbe della dotazione di
parcheggi e di altri spazi pubblici da destinare al verde. Il Comune omette
di considerare che la ricorrente si limita a mettere a disposizione degli
utenti del campeggio un’area di terreno ove vanno a sostare massimo trenta
camper per un periodo limitato della stazione estiva.
Infine -quarto motivo- è dedotta la violazione degli articoli 2, 3, 9
e 18, perché il provvedimento determina l’inibizione dell’attività
esercitata in precedenza autorizzata.
3.- Il ricorso è fondato.
L’art. 2, recante l’individuazione delle associazioni di promozione sociale,
e l’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000- il quale prevedeva che la
sede delle associazioni di promozione sociale ed i locali nei quali si
svolgono le relative attività sono compatibili con tutte le destinazioni
d'uso omogenee (previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici
02.04.1968) indipendentemente dalla destinazione urbanistica- sono stati
abrogati dall'art. 102, comma 1, lett. a), D.Lgs. 03.07.2017, n. 117, a
decorrere dal 03.08.2017, ai sensi di quanto disposto dall'art. 104, comma
3, del medesimo D.Lgs. n. 117/2017.
Il disposto normativo recato dal sopra citato articolo 2 è stato riprodotto
nell’art. 71, comma 1, del D.Lgs. 03/07/2017, n. 117, recante il codice del
terzo settore, laddove prevede che: <<le sedi degli enti del Terzo
settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali,
purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni
d'uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici
02.04.1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione
urbanistica>>.
L’art. 5 del d.lgs. 117/2017, dopo aver qualificato come enti del terzo
settore quelli che “esercitano in via esclusiva o principale una o più
attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro,
di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” elenca in modo
tassativo una serie di attività che si considerano di interesse generale,
purché svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano
l'esercizio.
Orbene, tra le attività incluse nell’elenco, che sono considerate di
interesse generale, vi è la “gestione di attività turistiche di interesse
sociale” (art. 5, comma 1, lett. k) ovvero quelle attività perseguite da
enti privati “costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di
finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”.
Tali attività, in considerazione della meritevolezza delle finalità
perseguite dalle associazioni di promozione sociale, possono essere
localizzabili in tutte le parti del territorio urbano, essendo compatibile
con ogni destinazione d'uso urbanistico, e a prescindere dalla destinazione
d'uso edilizio impresso specificamente e funzionalmente all’area (in senso
conforme: Cons. Stato Sez. V Sent., 15/01/2013, n. 181).
Ciò in virtù delle previsioni dell’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del
2000 e dell’art. 71 del d.lgs. 117/2017, disposizioni che, in attuazione del
principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 della Costituzione), "intendono
promuovere e favorire le associazioni private che realizzano attività di
interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di
mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi” (art. 1 della L.
06/06/2016, n. 106, recante la delega al Governo per la riforma del terzo
settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile
universale).
Illustrato il quadro normativo di riferimento, occorre allora verificare se
l’Associazione ricorrente si occupi di “gestione di attività turistiche
di interesse sociale” senza scopo di lucro ovvero persegua “attività
di utilità sociale”, mediante lo svolgimento, in via esclusiva o
principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione
volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di
mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi.
Come emerge dallo Statuto dell’Associazione Ca.cl.Ro.Ma.Bl. (allegato 10 del
fascicolo di parte ricorrente), si tratta di ente senza fini di lucro, che
ha una finalità di promozione del turismo in campeggio.
Ciò emerge dall’art. 2 dello Statuto ove, tra gli scopi perseguiti
dall’associazione, ci sono, tra gli altri, quelli di: “promuovere,
coordinare e tutelare l’attività campeggistica, il turismo itinerante,
l’associazionismo ricreativo e culturale tra quanti esercitano il turismo
all’aria aperta, con particolare riferimento all’assistenza ed alla
propaganda turistica”; “sollecitare la collaborazione degli operatori
pubblici e privati, degli enti pubblici e privati, degli organi di
informazione interessati al turismo campeggistico ed itinerante, per
l’integrazione di tale attività nel turismo in generale, anche con accordi
commerciali a favore dei soci”.
E’ pertanto da escludere l’esercizio, da parte della ricorrente, di un
attività diretta a ricavare introiti commerciali con carattere di stabilità.
Né si evince dallo Statuto un nesso diretto tra la concessione del diritto a
stazionare nel parcheggio e il versamento di un corrispettivo, atteso che
all’associazione sono ammessi tutti i cittadini di qualsiasi età che ne
accettino lo Statuto.
Il camping non è quindi una struttura ricettiva propriamente detta, non
riservata ai soci e aperta al pubblico, ma si tratta di un’area messa a
disposizione dei soli soci, il che consente di configurare l’attività svolta
come attività di promozione sociale ovvero di attività turistica di
interesse sociale.
Al riguardo, il Comune non ha contestato che il Ca.Ro.Ma.bl. non avesse i
requisiti per essere considerato come associazione di promozione sociale o
che li avesse persi per non aver ottenuto l’iscrizione nel registro unico
nazionale del Terzo settore (art. 4, comma 1, del d.lgs. 117/2017).
Né ha allegato concreti elementi dai quali desumere che la situazione di
fatto non fosse in realtà conforme a quella di diritto, ovvero che il
campeggio nominalmente associazione senza fini di lucro destinata ai soli
soci, operasse in realtà come struttura aperta al pubblico. Non consta
documentazione fiscale o di altro tipo, da cui risulti appunto un’attività
di tipo commerciale, né esistono agli atti, sotto forma di verbali di
ispezione o simili, esiti di accertamenti o verifiche in tal senso.
Al contrario, non risulta che il Comune abbia mai mosso rilievi al camping,
né quando si è trattato di emettere un avviso di accertamento per il
pagamento della TARI per gli anni 2015 e 2018 (all. 14 e 15 al fascicolo di
parte ricorrente), né quando a mezzo della società in house Ru.Re.
s.p.a. è stato autorizzato l’allaccio al collettore comunale delle acque
reflue domestiche provenienti da wc, lavandini e docce a servizio dell’area
adibita a parcheggio per camper (all. 16 ricorrente).
In definitiva, non avendo il Comune contestato che la ricorrente svolgesse
attività di interesse generale ovvero attività turistica di interesse
sociale, il provvedimento gravato è illegittimo, per violazione della fonte
normativa gerarchicamente superiore (art. 32, comma 4, della legge n. 383
del 2000 e art. 71 del d.lgs. 117/2017), laddove pretende, per l’utilizzo
dell’area in questione, di applicare la norma di natura regolamentare (art.
17 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G.), che impone il piano di
lottizzazione privato di cui all’art. 23 della legge 18/1983, con il
rispetto della viabilità e dei parcheggi e degli altri spazi pubblici
previsti all’interno delle singole perimetrazioni.
Il Comune avrebbe dovuto considerare l’area sede del camping, come
compatibile con tutte le destinazioni d'uso omogenee.
In proposito, non coglie nel segno l’interpretazione della legge statale
fornita dall’ente locale secondo la quale solo i “locali” e non le “aree”
beneficerebbero del regime agevolativo e derogatorio alla disciplina
urbanistica in materia di destinazioni d’uso.
Invero, osserva il Collegio, l’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000
e l’ art. 71 del d.lgs. 117/2017 si riferiscono non solo ai “locali”,
ma anche alle “sedi”. Quest’ultime, per le attività come quella di
sosta dei camper, che può essere ontologicamente svolta solo all’aperto, non
possono che farsi coincidere con le aree scoperte.
Appare, peraltro, irragionevole subordinare l’attività di camping al piano
di lottizzazione convenzionata, non risultando contestata la circostanza che
l’attività esercitata non implica l’installazione di costruzioni o di altri
manufatti inamovibili. La ricorrente, infatti, si limita a metter a
disposizione ai propri associati l’area per lo stazionamento temporaneo (nel
solo periodo estivo) dei camper (strutturati in modo da servire come
abitazioni durante la sosta).
L’attività svolta dalla ricorrente sembra dunque compatibile con quella dei
campeggi temporanei disciplinata dall’art. 8 della legge regionale
23.10.2003, n. 16, secondo la quale: <<1. le associazioni senza scopo di
lucro che operano per finalità ricreative, culturali, religiose o sociali
possono usufruire, esclusivamente per i propri associati, di aree
appositamente messe a disposizione dal Comune o da privati per periodi di
sosta di non più di trenta giorni, purché forniti di mezzi autonomi di
pernottamento e le presenze non superino le cento unità giornaliere.
2. L'autorizzazione viene concessa dal Comune purché siano assicurate le
attrezzature indispensabili per garantire il rispetto delle norme
igienico-sanitarie e, comunque, nel rispetto di tutte le altre prescrizioni
contenute nell'autorizzazione stessa, volte alla salvaguardia dei valori
naturali ed ambientali>>.
Contrariamente a quanto affermato dal Comune la norma regionale appena
citata non può essere interpretata nel senso di non consentire
l’utilizzazione di aree a prescindere dalla loro destinazione urbanistica,
perché la legge regionale n. 16/2003, recante la disciplina delle strutture
ricettive all’aria aperta, prevede che l’autorizzazione comunale debba
verificare la sussistenza delle seguenti due condizioni:
a) il rispetto delle norme igienico sanitarie (art. 8, comma 2,
L.R. cit.), quali ad esempio l’allaccio alla rete fognaria comunale
(requisito comprovato dalla ricorrente);
b) la salvaguardia dei valori naturali e ambientali.
4.- In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, assorbita ogni
altra doglianza, il provvedimento impugnato che inibisce alla ricorrente la
prosecuzione dell’attività di sosta camper per mancanza del piano di
lottizzazione convenzionata, è illegittimo e deve essere, pertanto,
annullato
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 25.10.2019 n. 519 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Responsabilità
della P.A. per condotta che ha ingenerato nel privato un legittimo
affidamento.
---------------
Risarcimento danni – Contributi e finanziamenti – Inserimento in
graduatoria – Espunzione dopo anni – Responsabilità per violazione del
legittimo affidamento.
Sussiste la responsabilità della Pubblica
amministrazione per violazione dei canoni di correttezza e buona fede ex
art. 1337 c.c. laddove, dopo aver ammesso a finanziamento un’iniziativa
imprenditoriale inserendola nella relativa graduatoria per la fruizione
delle risorse all’uopo stanziate, solo a distanza di anni, in sede di
rendicontazione dell’attività svolta, il soggetto pubblico rappresenti che
questa non rientrava fra quelle ammissibili in base alla normativa europea
di riferimento.
In tale ipotesi, infatti, il carattere doveroso e vincolato per la P.A.
dell’attività consistente nell’evitare l’indebita erogazione di risorse
pubbliche (ovvero, ove le stesse siano state già erogate, nel loro
recupero), non esclude che per effetto della pregressa condotta della stessa
Amministrazione possa essersi formato in capo al privato un ragionevole
affidamento nella legittimità del riconoscimento dei contributi in proprio
favore, tale da indurlo a portare avanti l’iniziativa imprenditoriale e a
sostenere i relativi oneri nella legittima convinzione che gli stessi
sarebbero stati coperti dalle risorse pubbliche (1).
---------------
(1) La Sezione ha premesso di aderire all’indirizzo secondo cui la
revoca del contributo pubblico costituisce un atto dovuto per
l’Amministrazione concedente, che è tenuta a porre rimedio alle conseguenze
sfavorevoli derivanti all’Erario per effetto di un’indebita erogazione di
contributi pubblici” quando risulti che il beneficio sia stato accordato in
assenza dei presupposti di legge, “essendo l’interesse pubblico
all’adozione dell’atto in re ipsa quando ricorra un indebito esborso di
danaro pubblico con vantaggio ingiustificato per il privato” (Cons. St.,
sez. III, 13.05.2015, nn. 2380 e 2381).
Nella fattispecie, la Sezione ha però ravvisato gli estremi della colpa
della P.A. nella stessa circostanza, addotta in giudizio dalla stessa a
sostegno della legittimità della propria determinazione di non erogare il
finanziamento, della chiarezza delle disposizioni che individuavano gli
interventi ammissibili a contributo e nell’onere degli interessati di
esserne a conoscenza: circostanze che, se opponibili al richiedente, a
fortiori dovevano valere per la stessa amministrazione fin dalla fase
dell’esame delle istanze ammissibili.
Né, secondo la Sezione, il legittimo affidamento poteva essere escluso nella
specie per il fatto che il bando riservasse in capo all’Amministrazione un
potere di rideterminazione e anche decurtazione del contributo nella fase di
rendicontazione, atteso che tale previsione logicamente riguardava il
controllo sulle attività svolte e non quello sull’ammissibilità delle
domande di contributo, che doveva essere svolto a monte della formazione
della graduatoria dei soggetti ammessi
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 24.10.2019 n. 7246 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio – Ordinanza
di demolizione – Preventiva verifica della sanabilità – Non
è prevista – Artt. 27, 31 e 36 d.P.R. n. 380/2001.
In presenza di un abuso edilizio, la
vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo
all’autorità comunale, prima di emanare l’ordinanza di
demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell’art.
36, d.P.R. n. 380/2001: tanto si evince chiaramente dagli
artt. 27 e 31 dello stesso d.P.R. che, in tal caso,
obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a
reprimere l’abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità,
nonché dal citato art. 36 che rimette all’esclusiva
iniziativa della parte interessata l’attivazione del
procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi
disciplinato (cfr.,
fra le ultime, TAR Campania, Napoli, sez. II, 12.07.2019, n.
3864) (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 24.10.2019 n. 823 - link a www.ambientediritto.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Procedure di affidamento in condizioni di somma urgenza –
Art. 163, c. 7, d.lgs. n. 50/2016 – Recesso da parte
dell’amministrazione aggiudicatrice – Pagamento del valore
delle opere già eseguite
Ai sensi dell’art. 163, comma 7, D.Lgs.
50/2016, nelle le procedure di affidamento in condizioni di
somma urgenza, anche quando le amministrazioni
aggiudicatrici recedano dal contratto, è fatto salvo il
pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso
delle spese eventualmente già sostenute per l’esecuzione
della parte rimanente, nei limiti delle utilità conseguite (TAR
Abruzzo-L’Aquila,
sentenza 24.10.2019 n. 506 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Commistione
tra requisiti soggettivi di partecipazione e
requisiti oggettivi di valutazione delle
offerte.
Il divieto di commistione tra
requisiti soggettivi di partecipazione e
requisiti oggettivi di valutazione delle
offerte deve essere applicato secondo
criteri di proporzionalità, ragionevolezza e
adeguatezza, non potendo negarsi la
legittimità di criteri di valutazione che
possano premiare le caratteristiche
organizzative dell’impresa sotto il profilo
ambientale, così come sotto i profili della
tutela dei lavoratori e delle popolazioni
interessate e della non discriminazione, al
fine di valorizzare la compatibilità e
sostenibilità ambientale della filiera
produttiva e distributiva dei prodotti che
costituiscono, comunque, l’oggetto
dell’appalto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 23.10.2019 n. 2214 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2.2. Quanto al secondo motivo, osserva il
Collegio che:
- la lex specialis prevede l’attribuzione di un punteggio
pari a 4 punti, sui 100 complessivi, per il
possesso della certificazione SA 8000, ossia
di una certificazione dell’impegno etico e
sociale dell’azienda nello svolgimento
dell’attività di impresa, volta a
certificare alcuni aspetti della gestione
aziendale, tra cui il rispetto dei diritti
umani, dei diritti dei lavoratori, della
sicurezza e salubrità nei posti di lavoro,
della filiera di produzione dei lavoratori,
dei consumatori;
- tale previsione non può ritenersi in contrasto con il divieto di
commistione tra requisiti di partecipazione
e criteri di valutazione dell’offerta,
atteso che il criterio in parola risulta in
linea con il disposto di cui all’art. 95,
comma 6, lett. a) del d.lgs. n. 50/2016, che
consente di utilizzare quali elementi di
valutazione dell’offerta tecnica “certificazioni
e attestazioni in materia di sicurezza e
salute dei lavoratori, quali OSHAS 18001,
caratteristiche sociali, ambientali,
contenimento dei consumi energetici e delle
risorse ambientali dell'opera o del
prodotto, caratteristiche innovative,
commercializzazione e relative condizioni”;
- la giurisprudenza condivisa dal Collegio (cfr. C.d.S., Sez. III,
n. 1635/2019; TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
n. 1869/2018) ha chiarito che
il divieto di
commistione tra requisiti soggettivi di
partecipazione e requisiti oggettivi di
valutazione delle offerte deve essere
applicato secondo criteri di
proporzionalità, ragionevolezza e
adeguatezza, non potendo negarsi la
legittimità di criteri di valutazione che
possano premiare le caratteristiche
organizzative dell’impresa sotto il profilo
ambientale, così come sotto i profili della
tutela dei lavoratori e delle popolazioni
interessate e della non discriminazione, al
fine di valorizzare la compatibilità e
sostenibilità ambientale della filiera
produttiva e distributiva dei prodotti che
costituiscono, comunque, l’oggetto
dell’appalto;
- secondo la stessa giurisprudenza l’art. 95, comma 13, del d.lgs.
n. 50/2016 già consentiva alle
amministrazioni di indicare criteri premiali
per la valutazione dell’offerta che potevano
essere relativi, oltre che al maggior rating
di legalità dell’impresa, anche al “minor
impatto sulla salute e sull’ambiente”;
parimenti il comma 6 del medesimo articolo,
allorché elenca gli elementi che possono
costituire criteri valutativi, non esclude
il richiamo a caratteristiche proprie e
soggettive dell’impresa: tale possibilità è
stata già confermata dalla giurisprudenza
del Consiglio di Stato (Sez. III, n.
4283/2018) secondo la quale il principio
della netta separazione tra criteri
soggettivi di prequalificazione e criteri di
aggiudicazione della gara deve essere
interpretato cum grano salis,
consentendo alle stazioni appaltanti, nei
casi in cui determinate caratteristiche
soggettive del concorrente, in quanto
direttamente riguardanti l’oggetto del
contratto, possano essere valutate anche per
la selezione dell’offerta, di prevedere nel
bando di gara anche elementi di valutazione
dell’offerta tecnica di tipo soggettivo,
concernenti la specifica attitudine del
concorrente;
- peraltro, le predette considerazioni valgono a maggior ragione
qualora i criteri in questione non siano
preponderanti nella determinazione
complessiva del punteggio tecnico, come
accade nella vicenda di cui è causa, in cui
il peso ponderale di 4 punti su 100
complessivi e 70 attribuibili all’offerta
tecnica, assegnato nella lettera di invito
al possesso della certificazione SA 8000,
non costituisce il 22% del punteggio
tecnico, contrariamente a quanto affermato
da parte ricorrente, ma si avvicina al
5,72%;
- inoltre, la censurata previsione della lex specialis si
giustifica anche alla luce delle indicazioni
contenute nelle linee guida ANAC n. 2,
secondo le quali: “Si deve anche
considerare che con l’elenco di cui all’art.
95, viene definitivamente superata la rigida
separazione tra requisiti di partecipazione
e criteri di valutazione che aveva
caratterizzato a lungo la materia della
contrattualistica pubblica. Nella
valutazione delle offerte possono essere
valutati profili di carattere soggettivo
introdotti qualora consentano di apprezzare
meglio il contenuto e l'affidabilità
dell’offerta o di valorizzare
caratteristiche dell’offerta ritenute
particolarmente meritevoli; in ogni caso,
devono riguardare aspetti, quali quelli
indicati dal Codice, che incidono in maniera
diretta sulla qualità della prestazione.
Naturalmente, anche in questo caso, la
valutazione dell’offerta riguarda, di
regola, solo la parte eccedente la soglia
richiesta per la partecipazione alla gara,
purché ciò non si traduca in un escamotage
per introdurre criteri dimensionali. Al
comma 13 dell’art. 95 viene anche stabilito
che, compatibilmente con il rispetto dei
principi che presidiano gli appalti
pubblici, le stazioni appaltanti possono
inserire nella valutazione dell’offerta
criteri premiali legati al rating di
legalità, all’impatto sulla sicurezza e
salute dei lavoratori, a quello
sull’ambiente”.
La censura, pertanto, va respinta. |
EDILIZIA PRIVATA: Come
noto, con l’art. 31 del DPR 380/2001 il legislatore statale ha dettato
innanzi tutto la regola secondo cui l’opera abusiva acquisita al patrimonio
comunale deve essere demolita e ha consentito, in via di eccezione a tale
regola, ai singoli Comuni –con attribuzione della relativa competenza al
consiglio comunale– di utilizzare, anziché demolire, l’opera abusiva quando
ritengano l’esistenza di un interesse pubblico alla conservazione e la
prevalenza di esso sul concorrente interesse, anch’esso pubblico, al
ripristino della conformità del territorio alla normativa
urbanistico-edilizia.
Ne consegue che l’opera abusiva acquisita al patrimonio comunale debba, di
regola, essere demolita e che possa essere conservata, in via eccezionale,
soltanto se, con autonoma deliberazione del consiglio comunale relativa alla
singola opera, si ritenga, sulla base di tutte le circostanze del caso,
l’esistenza di uno specifico interesse pubblico alla conservazione della
stessa e la prevalenza di questo sull’interesse pubblico al ripristino della
conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia, nonché
l’assenza di un contrasto della conservazione dell’opera con rilevanti
interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.
Peraltro, la facoltà riconosciuta ai Comuni di non demolire le opere abusive
in discorso deve implicare un’analisi puntuale delle caratteristiche di
ognuna di esse, rispettosa dei canoni individuati dalla legge statale, che
sola può garantire uniformità sull’intero territorio nazionale.
---------------
Il Collegio ritiene di prendere le mosse dalla disamina del secondo
motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti lamentano la violazione di
legge per carenza del presupposto cui la norma, richiamata dal Comune nel
provvedimento impugnato, àncora la possibilità di non procedere alla
demolizione del bene abusivo e cioè la ricorrenza di “prevalenti
interessi pubblici” alla sua conservazione.
Il motivo coglie nel segno.
Come noto, con l’art. 31 del DPR 380/2001 il legislatore statale ha dettato
innanzi tutto la regola secondo cui l’opera abusiva acquisita al patrimonio
comunale deve essere demolita e ha consentito, in via di eccezione a tale
regola, ai singoli Comuni –con attribuzione della relativa competenza al
consiglio comunale– di utilizzare, anziché demolire, l’opera abusiva quando
ritengano l’esistenza di un interesse pubblico alla conservazione e la
prevalenza di esso sul concorrente interesse, anch’esso pubblico, al
ripristino della conformità del territorio alla normativa
urbanistico-edilizia.
Ne consegue che l’opera abusiva acquisita al patrimonio comunale debba, di
regola, essere demolita e che possa essere conservata, in via eccezionale,
soltanto se, con autonoma deliberazione del consiglio comunale relativa alla
singola opera, si ritenga, sulla base di tutte le circostanze del caso,
l’esistenza di uno specifico interesse pubblico alla conservazione della
stessa e la prevalenza di questo sull’interesse pubblico al ripristino della
conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia, nonché
l’assenza di un contrasto della conservazione dell’opera con rilevanti
interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.
Peraltro, la facoltà riconosciuta ai Comuni di non demolire le opere abusive
in discorso deve implicare un’analisi puntuale delle caratteristiche di
ognuna di esse, rispettosa dei canoni individuati dalla legge statale, che
sola può garantire uniformità sull’intero territorio nazionale (cfr. Corte
Cost., 05/06/2018, nr. 140).
Operate tali premesse, deve dunque ritenersi che nel caso qui in esame
difettino, in violazione di legge, quei prevalenti interessi pubblici alla
conservazione del bene che avrebbero potuto legittimamente sorreggere la
delibera comunale in oggetto. La decisione del Comune è difatti imperniata,
sostanzialmente, sulla pendenza di un contenzioso in ordine all’ordine di
demolizione dell’immobile in precedenza adottato, e sulle conseguenze
negative, di carattere patrimoniale, che potrebbero derivare dall’eventuale
accoglimento del ricorso del controinteressato, autore dell’opera abusiva.
Ora, se è vero che il legislatore, nel dettare la norma di cui al comma V
citato, non ha operato una selezione “a monte” del novero degli
interessi pubblici che possono giustificare la scelta di non rimuovere
l’opera abusiva, è d’altro canto vero che un’interpretazione della
disposizione in esame coerente con la sua ratio (in precedenza
sinteticamente illustrata sulla scorta dei canoni ermeneutici offerti dalla
Corte Costituzionale) non può conciliarsi con una scelta di mantenimento del
bene fondata su una situazione di carattere del tutto transeunte, quale la
pendenza di un contenzioso relativo all’ordine di demolizione del bene (il
ricorso, peraltro, alla data odierna risulta rinunciato).
E’ infatti evidente che solo un interesse pubblico concretantesi in una
situazione di carattere permanente può ritenersi “prevalente”
rispetto agli interessi contrapposti, ed è dunque suscettibile di
giustificare la conservazione, in via definitiva, del bene, avuto riguardo
alla circostanza –già evidenziata- che la mancata demolizione deve
considerarsi un’eccezione rispetto alla regola generale che è quella della
rimessione in pristino.
Né a diverse conclusioni può portare la considerazione di quanto osservato
dall’Amministrazione circa il fatto che alla demolizione avrebbero potuto
procedere gli stessi ricorrenti, nella qualità di comproprietari del bene
(non responsabili dell’abuso). Tale circostanza, difatti, non elide certo
l’illegittimità del provvedimento impugnato per carenza dei presupposti che
in base alla legge lo devono giustificare.
Alla luce della fondatezza del secondo motivo di ricorso, risulta assorbita
la necessità di procedere al vaglio degli ulteriori motivi di impugnazione.
3. Il ricorso deve, dunque, essere accolto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 23.10.2019 n. 1124 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
1.- Provvedimento amministrativo – interpretazione – ipotesi dubbie.
2.- Provvedimento amministrativo – interpretazione – modulazioni
defensionali della p.A. – preclusione dei nova – limiti.
1. In ipotesi dubbie deve essere
privilegiata l’esegesi che, nel rispetto della latitudine semantica
consentita dalla formulazione letterale dell’atto amministrativo, ne
preservi la legittimità: milita in tal senso il principio generale di
conservazione dei valori giuridici; inoltre, una tale interpretazione meglio
si conforma con il principio speciale, proprio del diritto amministrativo,
dell’economicità dell’azione amministrativa, di cui costituisce, per così
dire, un riflesso ermeneutico.
2. L’interpretazione attribuita ad un atto amministrativo rientra
nelle mere difese che, ai sensi del C.P.A., non scontano limiti né
preclusioni, argomentandosi, a contrario, ex art. 104 C.P.A.. Peraltro,
l’Amministrazione interessata a difendere la legittimità di un provvedimento
può anche mutare, nel corso del giudizio, le proprie prospettazioni
difensive, ove queste non integrino eccezioni in senso tecnico-giuridico.
Le considerazioni in punto di mutatio libelli, infatti, attengono alla
formulazione della domanda di giustizia, mentre l’Amministrazione
interessata alla reiezione dell’istanza demolitoria svolta dal ricorrente
può ottenere il proprio obiettivo processuale, ossia il rigetto
dell’iniziativa giurisdizionale avanzata ex adverso, anche modificando le
proprie (mere) difese, senza con ciò incorrere in preclusioni, limitazioni o
divieti di nova.
Allorché, infatti, l’Amministrazione tende alla mera conferma dello status
quo e non sollecita, quindi, la modificazione per via giudiziaria
dell’assetto degli interessi delineato nel provvedimento, la modulazione
delle (mere) difese in corso di causa non determina un mutamento
dell’oggetto del giudizio, rappresentato dallo scrutinio dei vizi di
illegittimità, come delineati nel ricorso (massima free tratta da www.giustamm.it).
---------------
8. Il ricorso, peraltro, è infondato anche nel merito.
9. Valgono, in proposito, le seguenti ragioni.
10. In primo luogo, il Tar, interpretando in maniera letterale il decreto
impugnato, ha ritenuto che con lo stesso sia stato semplicemente fissato il
tetto massimo della tariffa, lasciando per il resto libere le parti di
individuarne, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, la concreta
misura.
10.1. Sul fondamento di tale esegesi il Tar ha accolto il ricorso,
condannando l’Amministrazione regionale al risarcimento dei danni
sull’assunto dell’illegittimità del decreto de quo.
10.2. Il Collegio osserva che, a ben vedere, del decreto può darsi una
diversa esegesi, sulla scorta di un approccio logico-sistematico che tenga,
altresì, conto della peculiare situazione per cui è causa.
10.3. In particolare, nel verbale del gruppo di lavoro per la determinazione
delle tariffe di accesso in discarica del 09.12.2002, richiamato dal decreto
ed allo stesso allegato, si precisa che “la tariffa comunicata dalla E.
Gi. e pari a € 34,3636/tonnellata può essere considerata il prezzo limite
massimo di accesso in discarica”: è, pertanto, ragionevole assumere che
l’Amministrazione abbia inteso condividere la proposta di prezzo avanzata
dal gestore, espressamente qualificandola, ad ogni buon conto, come limite
insuperabile (ossia, appunto, come tariffa “massima”).
10.4. Oltretutto, un’interpretazione del genere è da preferirsi in quanto
secundum legem: in ipotesi dubbie, invero, deve essere privilegiata
l’esegesi che, nel rispetto della latitudine semantica consentita dalla
formulazione letterale dell’atto amministrativo, ne preservi la legittimità.
10.5. Milita in tal senso il principio generale di conservazione dei valori
giuridici; inoltre, una tale interpretazione meglio si conforma con il
principio speciale, proprio del diritto amministrativo, dell’economicità
dell’azione amministrativa, di cui costituisce, per così dire, un riflesso
ermeneutico.
10.6. Il Collegio, peraltro, osserva che la Regione, nel corso del giudizio
di prime cure, ha propugnato un’esegesi del decreto analoga a quella fatta
propria dal Tar, sostenendo, tuttavia, la legittimità della previsione, da
parte del decreto de quo, di una tariffa “massima”.
10.7. Nel ricorso in appello, invece, la Regione sostiene che la tariffa
indicata nel decreto sia fissa e rigida, a nulla rilevando l’apposizione
dell’aggettivo “massima”.
10.8. Tale oggettiva distonia defensionale, tuttavia, non esonda in
inammissibilità o, comunque, in infondatezza dell’appello.
10.9. Anzitutto, parte appellata niente ha osservato in proposito.
10.10. Inoltre, l’interpretazione attribuita ad un atto amministrativo
rientra nelle mere difese che, ai sensi del c.p.a. (applicabile ratione
temporis al presente grado di giudizio), non scontano limiti né
preclusioni (arg. a contrario ex art. 104 c.p.a.).
10.11. Invero, l’Amministrazione interessata a difendere la legittimità di
un provvedimento può anche mutare, nel corso del giudizio, le proprie
prospettazioni difensive, ove queste non integrino eccezioni in senso
tecnico-giuridico.
10.12. Le considerazioni in punto di mutatio libelli, infatti,
attengono alla formulazione della domanda di giustizia, mentre
l’Amministrazione interessata alla reiezione dell’istanza demolitoria svolta
dal ricorrente può ottenere il proprio obiettivo processuale, ossia il
rigetto dell’iniziativa giurisdizionale avanzata ex adverso, anche
modificando le proprie (mere) difese, senza con ciò incorrere in
preclusioni, limitazioni o divieti di nova.
10.13. Allorché, infatti, l’Amministrazione tende alla mera conferma dello
status quo e non sollecita, dunque, la modificazione per via giudiziaria
dell’assetto degli interessi delineato nel provvedimento, la modulazione
delle (mere) difese in corso di causa non determina un mutamento
dell’oggetto del giudizio, rappresentato, come noto, dallo scrutinio dei
vizi di illegittimità come delineati nel ricorso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.10.2019 n. 7153 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Gli
ingegneri ed architetti, iscritti ad altre forme di previdenza, devono
comunque iscriversi alla gestione separata INPS.
Gli ingegneri e gli architetti, che siano iscritti ad altre forme di
previdenza obbligatorie e che non possano conseguentemente iscriversi all'INARCASSA,
rimanendo obbligati verso quest'ultima soltanto al pagamento del contributo
integrativo in quanto iscritti agli albi, sono tenuti comunque ad iscriversi
alla Gestione separata presso l'INPS, in quanto la ratio universalistica
delle tutele previdenziali cui è ispirato l'art. 2, comma 26, l. n.
335/1995, induce ad attribuire rilevanza, ai fini dell'esclusione
dell'obbligo di iscrizione di cui alla norma d'interpretazione autentica
contenuta nell'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011 (conv. con l. n.
111/2011), al solo versamento di contributi suscettibili di costituire in
capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale, ciò che
invece non può dirsi del c.d. contributo integrativo, in quanto versamento
effettuato da tutti gli iscritti agli albi in funzione solidaristica.
---------------
CONSIDERATO IN FATTO:
1.La Corte d'appello di Caltanissetta, confermando la sentenza del Tribunale
di Enna, ha dichiarato l'ing. Ba.Gi.Pr. non tenuto all'iscrizione alla
gestione separata INPS in relazione all'attività libero-professionale svolta
in concomitanza con l'attività di lavoro dipendente per la quale risultava
iscritto presso altra gestione assicurativa obbligatoria.
...
RITENUTO IN DIRITTO
4. L'Inps denuncia, con il
primo motivo, violazione dell'art. 2, comma 26, L. n. 335/1995,
dell'art. 18, comma 12, DL n. 98/2011 conv. in L. 111/2011; nonché in
connessione dell'art. 3 L. n. 179/1958; degli artt. 10 e 21 L. n. 6/1981;
degli artt. 7, 23 e 37 statuto Inarcassa del 28/07/1995 applicabile
ratione temporis.
Ha censurato la sentenza per avere affermato l'insussistenza dell'obbligo di
iscrizione alla Gestione separata e del pagamento della contribuzione in
capo agli ingegneri ed architetti che svolgono attività di lavoro
subordinato (in forza della quale godano di tutela previdenziale presso Inps
ex Inpdap) e contestualmente attività di lavoro autonomo professionale per
la quale non sussiste obbligo di iscrizione alla Cassa nazionale di
previdenza degli ingegneri ed architetti- INARCASSA, senza considerare che
l'art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995 deve trovare applicazione nella
fattispecie, essendo presenti i presupposti richiesti: esercizio di attività
professionale soggetta all'iscrizione all'albo; assenza di obbligo di
iscrizione alla cassa professionale, per effetto del divieto posto dall'art.
7 dello Statuto in ragione del concomitante esercizio dell'attività
dipendente con diversa copertura assicurativa.
Con il secondo motivo l'Istituto denuncia violazione dell'art. 3,
comma 9, L. n. 335/1995 e dell'art. 18, comma 12, DL n. 98/2011 conv. in L.
n 111/2011; nonché dell'art. 2 DPR n 322/1998 ribadendo
l'infondatezza dell'eccezione di prescrizione relativa ai contributi del
2007, questione ritenuta assorbita dalla Corte.
5. La questione principale, oggetto del ricorso, concerne l'obbligo di
iscrizione alla Gestione separata presso I'INPS degli ingegneri e degli
architetti, iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie, e che non
possono iscriversi ad INARCASSA, alla quale versano esclusivamente un
contributo integrativo in quanto iscritti agli albi, cui non segue la
costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio.
6. Il motivo è fondato, essendosi ormai consolidato il principio di diritto
secondo cui gli ingegneri e gli architetti, che siano iscritti ad altre
forme di previdenza obbligatorie e che non possano conseguentemente
iscriversi all'INARCASSA, rimanendo obbligati verso quest'ultima soltanto al
pagamento del contributo integrativo in quanto iscritti agli albi, sono
tenuti comunque ad iscriversi alla Gestione separata presso l'INPS, in
quanto la ratio universalistica delle tutele previdenziali cui è ispirato
l'art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, induce ad attribuire rilevanza, ai fini
dell'esclusione dell'obbligo di iscrizione di cui alla norma
d'interpretazione autentica contenuta nell'art. 18, comma 12, d.l. n.
98/2011 (conv. con l. n. 111/2011), al solo versamento di contributi
suscettibili di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata
prestazione previdenziale, ciò che invece non può dirsi del c.d. contributo
integrativo, in quanto versamento effettuato da tutti gli iscritti agli albi
in funzione solidaristica (Cass. n. 30344 del 2017, cui ha dato seguito, a
seguito di ordinanza interlocutoria di questa Sesta sezione n. 19124 del
2018, Cass. n. 32166 del 2018).
6. Non essendosi la Corte di merito conformata all'anzidetto principio di
diritto, la sentenza impugnata va cassata, in accoglimento del primo motivo,
restando assorbito il secondo motivo (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 17.10.2019 n. 26469). |
EDILIZIA PRIVATA: In
generale il provvedimento implicito è configurabile unicamente allorquando
l'Amministrazione pur non adottando formalmente un provvedimento, ne
determina univocamente i contenuti sostanziali attraverso un comportamento
conseguente ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a
fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro
volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale
corrispondente.
Peraltro, in materia di edilizia, se per un verso la trasformazione di un
bene privato presuppone la previa specifica istanza progettuale dello stesso
diretto interessato, rispetto alla quale la mera rappresentazione grafica
appare all’evidenza insufficiente, per un altro verso nessun rilievo può
riconoscersi al principio suddetto, non avendo la p.a. adottato alcuna fase
istruttoria tale da ingenerare l’invocato affidamento.
A conferma di ciò va richiamato il consolidato principio per cui l’attività
sanzionatoria della p.a. concernente l'attività edilizia abusiva è connotata
dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di
difformità dell'intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell'irrogazione delle sanzioni,
non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento
di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può mai legittimare.
Inoltre, costituisce jus receptum il principio a mente del quale l’ordine di
demolizione è atto vincolato, per la cui adozione non è necessaria la
valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né la
comparazione di questi con gli interessi privati coinvolti, né tanto meno
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed
attuale alla demolizione, non essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza
di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva.
---------------
3. In proposito assumono rilievo preminente le considerazioni svolte dalla
giurisprudenza prevalente, anche della sezione, in merito
all’inammissibilità del titolo edilizio implicito.
In generale il provvedimento implicito è configurabile unicamente
allorquando l'Amministrazione pur non adottando formalmente un
provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali attraverso
un comportamento conseguente ovvero determinandosi in una direzione, anche
con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può
essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del
provvedimento formale corrispondente (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
27/04/2015 , n. 2112).
Peraltro, in materia di edilizia, se per un verso la trasformazione di un
bene privato presuppone la previa specifica istanza progettuale dello stesso
diretto interessato, rispetto alla quale la mera rappresentazione grafica
appare all’evidenza insufficiente, per un altro verso nessun rilievo può
riconoscersi al principio suddetto, non avendo la p.a. adottato alcuna fase
istruttoria tale da ingenerare l’invocato affidamento.
A conferma di ciò va richiamato il consolidato principio per cui l’attività
sanzionatoria della p.a. concernente l'attività edilizia abusiva è connotata
dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di
difformità dell'intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell'irrogazione delle sanzioni,
non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento
di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può mai legittimare (cfr. ad es. Consiglio di
Stato, sez. VI, 06.09.2017, n. 4243).
Inoltre, costituisce jus receptum il principio a mente del quale l’ordine di
demolizione è atto vincolato, per la cui adozione non è necessaria la
valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né la
comparazione di questi con gli interessi privati coinvolti, né tanto meno una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza di un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva
(cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 17.07.2018, n. 4368).
3.1 Tali principi assumono preminente rilievo sia in generale, in termini di
inammissibilità del principio invocato del titolo edilizio implicito, sia in
relazione al caso di specie, laddove il provvedimento è basato su adeguata
istruttoria e motivazione, consistenti nella descrizione delle opere abusive
e nella constatazione della loro illegittimità, oltre che nel rispetto delle
formalità tese a garantire la partecipazione procedimentale, senza che la
parte ne abbia approfittato.
Parimenti irrilevante è la invocazione del certificato di agibilità del 04.02.1984, atto dotato di presupposti specifici e di funzione propria,
senza che in quest’ultima possa annoverarsi anche quella di titolo
abilitativo implicito in sanatoria. Peraltro, nel caso di specie il
contenuto del certificato è generico, nel fare rinvio a quanto assentito dal
titolo edilizio, cosicché non potrebbe in ogni caso integrare e confermare
le carenze della relazione tecnica illustrativa dell’intervento progettato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.10.2019 n. 7059 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea generale va ribadito che deve ritenersi legittimo
l'ordine di demolizione in caso di variazioni essenziali e che anche
gli interventi edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso
di costruire soggiacciano alla sanzione demolitoria, a meno che, non potendo essa
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, si debba
applicare la sanzione pecuniaria.
Se nel caso di specie nessun elemento risulta invocato a quest’ultimo riguardo, né lo sarebbe logicamente a fronte della evidenziata
autonoma rilevanza, neppure è invocabile la soglia del due per cento.
Invero, il legislatore, con la modifica apportata dall'art. 5,
comma 2, lett. a), num. 5), del d.l. 13.05.2011 n. 70, convertito in l.
12.07.2011 n. 106, ha ridotto il campo di applicazione dell'art. 34 t.u.
edilizia. Proprio l'assenza di una compiuta definizione della categoria dei
lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto a fissare
una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito
edilizio.
Si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di
misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito
edilizio.
L'ambito di applicazione della nuova disposizione viene
espressamente circoscritto alla materia edilizia e non opera, dunque, nel
caso di interventi su immobili “vincolati”; inoltre presuppone il rispetto
del relativo presupposto (cfr. art. 34, comma 2-ter: “ai fini
dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura
o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per
cento delle misure progettuali”).
---------------
A fronte della risalenza del manufatto assume rilievo dirimente, in linea di
diritto, il principio a mente del quale la sanzione ripristinatoria
costituisce atto vincolato, per la cui adozione non è necessaria la
valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né la
comparazione di questi con gli interessi privati coinvolti, né tanto meno
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed
attuale alla demolizione, non essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza
di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva.
---------------
3.2 Del pari priva di fondamento è l’invocazione della natura di variazione
essenziale a fronte del rispetto della soglia del due per cento. Infatti, la
consistenza, la dimensione e la funzionalità del rilevante manufatto ne
escludono in radice l’invocata qualificazione. Trattasi infatti di un
manufatto di rilevanti dimensioni (m 10,50 x 9,40 = mq 98,70 x 5,00 = mc
493,50), dotato di autonomia funzionale quale capannone suscettibile di
autonomo e specifico utilizzo, realizzato in muratura e quindi non
ipotizzabile in termini di precarietà.
Peraltro, in linea generale va ribadito che deve ritenersi legittimo
l'ordine di demolizione in caso di variazioni essenziali e che anche gli
interventi edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire
soggiacciano alla sanzione demolitoria, a meno che, non potendo essa
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, si debba
applicare la sanzione pecuniaria (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
04/06/2018, n. 3371). Se nel caso di specie nessun elemento risulta invocato a quest’ultimo riguardo, né lo sarebbe logicamente a fronte della evidenziata
autonoma rilevanza, neppure è invocabile la soglia del due per cento.
Come già evidenziato dalla sezione (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI,
30/03/2017, n. 1484), il legislatore, con la modifica apportata dall'art. 5,
comma 2, lett. a), num. 5), del d.l. 13.05.2011 n. 70, convertito in l.
12.07.2011 n. 106, ha ridotto il campo di applicazione dell'art. 34 t.u.
edilizia. Proprio l'assenza di una compiuta definizione della categoria dei
lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto a fissare
una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito
edilizio.
Si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di
misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito
edilizio. L'ambito di applicazione della nuova disposizione viene
espressamente circoscritto alla materia edilizia e non opera, dunque, nel
caso di interventi su immobili “vincolati”; inoltre presuppone il rispetto
del relativo presupposto (cfr. art. 34, comma 2-ter: “ai fini
dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura
o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per
cento delle misure progettuali”).
Nel caso di specie la rilevanza
dimensionale ed autonoma esclude in radice l’applicabilità di tale
disposizione. Né può essere invocata, nella presente sede sanzionatoria,
l’eventuale conformità urbanistica, previgente ed attuale, in assenza di una
domanda di accertamento di conformità.
3.3 Infine, relativamente al terzo ed ultimo ordine di rilievi, a fronte
della risalenza del manufatto assume rilievo dirimente, in linea di diritto,
il principio a mente del quale la sanzione ripristinatoria costituisce atto
vincolato, per la cui adozione non è necessaria la valutazione specifica
delle ragioni di interesse pubblico, né la comparazione di questi con gli
interessi privati coinvolti, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
in alcun modo ammissibile l'esistenza di un affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva (cfr. ex multis Consiglio
di Stato, sez. VI, 17.07.2018, n. 4368)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.10.2019 n. 7059 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L’illegittimità
del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli
indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri,
quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli
elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa,
l'ambito più o meno ampio della discrezionalità dell'amministrazione.
Con specifico riferimento all'elemento psicologico la colpa della pubblica
amministrazione viene individuata nella violazione dei canoni di
imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza,
omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in
ragione dell'interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un
rapporto con l'amministrazione.
In tale contesto, pertanto, escludere in radice l’illegittimità dell’atto
che avrebbe causato il danno comporta in radice l’impossibilità di ritenere
sussistente la responsabilità risarcitoria.
In materia, infatti, il diritto al risarcimento del danno presuppone una
condotta non iure che abbia determinato, nel patrimonio del danneggiato, la
lesione di una situazione soggettiva meritevole di tutela secondo
l'ordinamento giuridico; nello specifico ambito della responsabilità civile
della pubblica amministrazione per atto amministrativo illegittimo, la
responsabilità risarcitoria postula, più specificamente, una spendita
viziata del potere che, esorbitando dallo schema sostanziale e
procedimentale delineato dalla legge attributiva, abbia leso almeno
colposamente un interesse legittimo del privato, vulnerandone la sfera
giuridica.
---------------
1. L’appello principale è prima facie fondato, sotto tutti i profili
dedotti.
2. Infatti, dall’analisi della documentazione prodotta emerge la censurata
contraddittorietà della sentenza appellata che, dopo aver respinto la
domanda di annullamento ed i relativi vizi di legittimità dedotti, ha
contraddittoriamente accolto la domanda risarcitoria.
2.1 In proposito, già in linea di diritto assume rilievo il principio a
mente del quale l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove
acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza,
da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della
normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere
vincolato della statuizione amministrativa, l'ambito più o meno ampio della
discrezionalità dell'amministrazione; con specifico riferimento all'elemento
psicologico la colpa della pubblica amministrazione viene individuata nella
violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione,
ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti
non scusabili, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto di colui
che instaura un rapporto con l'amministrazione (cfr. ad es. Consiglio di
Stato , sez. III , 04.03.2019, n. 1500).
In tale contesto, pertanto, escludere in radice l’illegittimità dell’atto
che avrebbe causato il danno comporta in radice l’impossibilità di ritenere
sussistente la responsabilità risarcitoria.
In materia, infatti, il diritto al risarcimento del danno presuppone una
condotta non iure che abbia determinato, nel patrimonio del danneggiato, la
lesione di una situazione soggettiva meritevole di tutela secondo
l'ordinamento giuridico; nello specifico ambito della responsabilità civile
della pubblica amministrazione per atto amministrativo illegittimo, la
responsabilità risarcitoria postula, più specificamente, una spendita
viziata del potere che, esorbitando dallo schema sostanziale e
procedimentale delineato dalla legge attributiva, abbia leso almeno
colposamente un interesse legittimo del privato, vulnerandone la sfera
giuridica (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. V, 30/11/2018, n. 6819).
2.2 Nel caso di specie il contrasto emerge altresì nei confronti della
domanda formulata, come peraltro rilevabile dalla stessa sentenza che, in
primo luogo sul punto, afferma che “può essere ora esaminata la domanda di
danno con cui l’interessato chiede condannarsi il solo comune di Imperia al
risarcimento del danno per l’illegittimità dell’azione amministrativa”;
subito dopo, contraddittoriamente, si afferma che “in ordine
all’illegittimità dell’atto impugnato in principalità (la cosiddetta
fiscalizzazione dell’abuso) il collegio si è pronunciato con quanto esposto
sin qui, sì che non v’è motivo di rimeditare la decisione” e poi che invece
“gli altri profili dedotti a corredo della domanda risarcitoria sono invece
fondati”.
Né a diversa soluzione si può giungere in relazione alla parte della
sentenza che ha censurato la mancata adozione di un atto di sospensione
lavori, sia per mancanza di qualsiasi specifica contestazione a monte sulla
illegittimità di tale comportamento, sia a fronte del conseguente vizio, in
termini processuali, di ultrapetizione, nei termini compiutamente censurati
dal Comune appellante.
Inoltre, in termini invero dirimenti, erra il Giudice di prime cure laddove
ha ritenuto che fosse doverosa l’adozione di un atto di sospensione lavori
“attesa l’immediata esecutorietà della decisione di primo grado”; al
riguardo, infatti, proprio l’esecutività della statuizione giurisdizionale
produce effetti diretti ed immediati, per norma e principio consolidati,
senza alcuna necessità di essere intermediata da un atto cautelare comunale
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.10.2019 n. 7057 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’art. 38 DPR 380/2001 si ispira ad un principio di tutela degli
interessi del privato mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un
titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi
abusivi eseguiti sin dall'origine in assenza di titolo, per tutelare un
certo affidamento del privato, sì da ottenere la conservazione d'un bene che
è pur sempre sanzionato.
Il fondamento del regime sanzionatorio più mite riservato dalla norma
agli interventi edilizi realizzati in presenza di un titolo abilitativo che
solo successivamente sia stato dichiarato illegittimo rispetto al
trattamento ordinariamente previsto per le ipotesi di interventi realizzati
in originaria assenza del titolo va quindi rinvenuto nella specifica
considerazione dell'affidamento riposto dall'autore dell'intervento sulla
presunzione di legittimità e comunque sull'efficacia del titolo assentito.
A
tal fine, all'amministrazione si impone di verificare se i vizi formali o
sostanziali siano emendabili, ovvero se la demolizione sia effettivamente
possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari.
In presenza degli anzidetti presupposti per convalidare l'atto, «l'integrale
corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti
del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36» del testo
unico (art. 38, comma 2, del d.P.R. 380 del 2001).
La norma in definitiva ha previsto tre possibili rimedi:
a) la sanatoria
della procedura nei casi in cui sia possibile la rimozione dei vizi della
procedura amministrativa, con conseguente non applicazione di alcuna
sanzione edilizia;
b) nel caso in cui non sia possibile la sanatoria,
l'Amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione in forma specifica
della demolizione;
c) soltanto nel caso in cui non sia possibile applicare
la sanzione in forma specifica, in ragione della natura delle opere
realizzate, l'Amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione
pecuniaria nel rispetto delle modalità sopra indicate. Si tratta di una
gradazione di sanzioni modulata alla luce della gravità della violazione
della normativa urbanistica.
Secondo l'interpretazione della norma coerente alla ricordata ratio, il
concetto di possibilità di ripristino non è inteso come "possibilità
tecnica", occorrendo comunque valutare l'opportunità di ricorrere alla
demolizione, dovendosi comparare l'interesse pubblico al recupero dello status quo ante con il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del
privato incolpevole che aveva confidato nell'esercizio legittimo del potere
amministrativo; la scelta di escludere la sanzione demolitoria, infatti,
laddove adeguatamente motivata ed accompagnata alle indicazioni contenute
nell'annullamento, appare quella maggiormente rispettosa di tutti gli
interessi coinvolti nella singola controversia ed anche del principio di
proporzionalità dell'azione amministrativa, di diretta derivazione dal
diritto dell'Unione Europea, principio che impone all'Amministrazione il
perseguimento del pubblico interesse col minor sacrificio possibile
dell'interesse privato.
Invero, la corretta interpretazione di tale nozione di "impossibilità" ha
dato luogo a dibattiti anche dottrinali; in proposito, coerentemente a
quanto sopra evidenziato, appare ragionevole l'opzione ermeneutica a mente
della quale l'individuazione dei casi di impossibilità non può arrestarsi
alla mera impossibilità (o grave difficoltà), tecnica, potendo anche trovare
considerazione ragioni di equità o al limite di opportunità. Al riguardo, si
è ritenuto che, nel caso di opere realizzate sulla base di titolo annullato,
la loro demolizione debba essere considerata quale extrema ratio,
privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso
di costruire emendato dai vizi riscontrati.
In definitiva, l'art. 38 rappresenta "speciale norma di favore" che
differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato l'opera
abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno
realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo, tutelando
l'affidamento del privato che ha avviato i lavori in base a titolo ottenuto.
In tale ambito, a seguito di annullamento di titolo abilitativo edilizio -secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale da cui il Collegio non ha
motivo di discostarsi- l'Amministrazione non può dirsi vincolata ad
adottare misure ripristinatorie, dovendo anzi la scelta -tipicamente
discrezionale quale essa sia, nel senso della riedizione o della
demolizione- essere adeguatamente motivata. Incidentalmente va evidenziato
come tale approfondito onere motivazionale trovi conferma nell’orientamento
espresso dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio in
tema di annullamento in autotutela di titolo in sanatoria illegittimamente
rilasciato.
Nel procedere a tale rilevante attività valutativa la p.a., sulla scorta
delle indicazioni di principio sin qui richiamate, deve, per un verso,
verificare l’emendabilità dei vizi e, per un altro verso, se la demolizione
sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere
del tutto regolari.
---------------
3. Passando all’analisi dell’appello incidentale, lo stesso appare infondato
sotto tutti i profili dedotti, sia di carattere sostanziale che
procedimentale.
3.1 Con riferimento al primo motivo concernente il difetto dei presupposti
applicativi della norma di cui all’art. 38 t.u. edilizia, in linea generale
va ribadito quanto già approfondito dalla giurisprudenza di questo Consiglio
(cfr. ad es. sez. VI, 28.11.2018, n. 6753): l’art. 38 cit. si ispira ad
un principio di tutela degli interessi del privato mirando ad introdurre un
regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un
titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi
abusivi eseguiti sin dall'origine in assenza di titolo, per tutelare un
certo affidamento del privato, sì da ottenere la conservazione d'un bene che
è pur sempre sanzionato (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. VI 09.04.2018 n. 2155 e 10.05.2017 n. 2160).
3.1.1 Il fondamento del regime sanzionatorio più mite riservato dalla norma
agli interventi edilizi realizzati in presenza di un titolo abilitativo che
solo successivamente sia stato dichiarato illegittimo rispetto al
trattamento ordinariamente previsto per le ipotesi di interventi realizzati
in originaria assenza del titolo va quindi rinvenuto nella specifica
considerazione dell'affidamento riposto dall'autore dell'intervento sulla
presunzione di legittimità e comunque sull'efficacia del titolo assentito.
A
tal fine, all'amministrazione si impone di verificare se i vizi formali o
sostanziali siano emendabili, ovvero se la demolizione sia effettivamente
possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari.
In presenza degli anzidetti presupposti per convalidare l'atto, «l'integrale
corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti
del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36» del testo
unico (art. 38, comma 2, del d.P.R. 380 del 2001).
La norma in definitiva ha previsto tre possibili rimedi:
a) la sanatoria
della procedura nei casi in cui sia possibile la rimozione dei vizi della
procedura amministrativa, con conseguente non applicazione di alcuna
sanzione edilizia;
b) nel caso in cui non sia possibile la sanatoria,
l'Amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione in forma specifica
della demolizione;
c) soltanto nel caso in cui non sia possibile applicare
la sanzione in forma specifica, in ragione della natura delle opere
realizzate, l'Amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione
pecuniaria nel rispetto delle modalità sopra indicate. Si tratta di una
gradazione di sanzioni modulata alla luce della gravità della violazione
della normativa urbanistica.
Secondo l'interpretazione della norma coerente alla ricordata ratio, il
concetto di possibilità di ripristino non è inteso come "possibilità
tecnica", occorrendo comunque valutare l'opportunità di ricorrere alla
demolizione, dovendosi comparare l'interesse pubblico al recupero dello
status quo ante con il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del
privato incolpevole che aveva confidato nell'esercizio legittimo del potere
amministrativo; la scelta di escludere la sanzione demolitoria, infatti,
laddove adeguatamente motivata ed accompagnata alle indicazioni contenute
nell'annullamento, appare quella maggiormente rispettosa di tutti gli
interessi coinvolti nella singola controversia ed anche del principio di
proporzionalità dell'azione amministrativa, di diretta derivazione dal
diritto dell'Unione Europea, principio che impone all'Amministrazione il
perseguimento del pubblico interesse col minor sacrificio possibile
dell'interesse privato.
Invero, la corretta interpretazione di tale nozione di "impossibilità" ha
dato luogo a dibattiti anche dottrinali; in proposito, coerentemente a
quanto sopra evidenziato, appare ragionevole l'opzione ermeneutica a mente
della quale l'individuazione dei casi di impossibilità non può arrestarsi
alla mera impossibilità (o grave difficoltà), tecnica, potendo anche trovare
considerazione ragioni di equità o al limite di opportunità. Al riguardo, si
è ritenuto che, nel caso di opere realizzate sulla base di titolo annullato,
la loro demolizione debba essere considerata quale extrema ratio,
privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso
di costruire emendato dai vizi riscontrati (cfr. ad es. Consiglio di Stato,
sez. IV, 16.03.2010, n. 1535).
In definitiva, l'art. 38 rappresenta "speciale norma di favore" che
differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato l'opera
abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno
realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo (cfr. in tal senso
Consiglio di Stato, sez. IV, 14.12.2002, n. 7001), tutelando
l'affidamento del privato che ha avviato i lavori in base a titolo ottenuto.
In tale ambito, a seguito di annullamento di titolo abilitativo edilizio -secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale da cui il Collegio non ha
motivo di discostarsi- l'Amministrazione non può dirsi vincolata ad
adottare misure ripristinatorie, dovendo anzi la scelta -tipicamente
discrezionale quale essa sia, nel senso della riedizione o della demolizione- essere adeguatamente motivata. Incidentalmente va evidenziato come tale
approfondito onere motivazionale trovi conferma nell’orientamento espresso
dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (cfr. decisione n. 982017) in
tema di annullamento in autotutela di titolo in sanatoria illegittimamente
rilasciato.
Nel procedere a tale rilevante attività valutativa la p.a., sulla scorta
delle indicazioni di principio sin qui richiamate, deve, per un verso,
verificare l’emendabilità dei vizi e, per un altro verso, se la demolizione
sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere
del tutto regolari.
3.1.2 Nel caso di specie il Comune ha svolto una valutazione che, oltre ad
apparire corroborata da elementi istruttori sufficienti (nei limiti di
sindacato giurisdizionale sugli aspetti di dettaglio tecnico), appare
coerente ai principi suddetti.
Sul primo versante, la valutazione contestata si basa su di un duplice
approfondimento tecnico: quello predisposto dalla parte interessata
(depositata in data 31.03.2015), seguito dalla verifica degli uffici
comunali, redatta in data 28.05.2015, rispetto ai quali nessun elemento di
manifesta illogicità o travisamento dei fatti emerge dalla perizia di parte
appellata.
Sul secondo versante il provvedimento impugnato ha svolto una
attenta ricostruzione della vicenda contenziosa, acquisendo tutti i relativi
elementi, giungendo ad una soluzione che si muove ben all’interno dei binari
tracciati, anche con riferimento alla nozione di “possibilità” come
sopra intesa
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.10.2019 n. 7057 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il vicino controinteressato non è un soggetto cui debba essere inviata la
comunicazione di avvio del procedimento per un titolo edilizio, ai sensi
dell'art. 7 l. 241/1990, pur se egli già si sia opposto in precedenti
occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante.
Infatti, ove sia in corso di valutazione un iter edilizio su di un immobile
limitrofo, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono
intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie
l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del
procedimento.
---------------
3.3 Se con riferimento al
terzo motivo vanno richiamate le considerazioni
svolte sub punto 3.1.2 in relazione alla specifica adeguatezza
dell’istruttoria e della motivazione posta a fondamento della determinazione
contestata, in relazione al quarto motivo, concernente la violazione delle
garanzie partecipative, va ribadito il consolidato principio (cfr. ad es.
Consiglio di Stato, sez. VI, 10.04.2014, n. 1718) a mente del quale il
vicino controinteressato non è un soggetto cui debba essere inviata la
comunicazione di avvio del procedimento per un titolo edilizio, ai sensi
dell'art. 7 l. 241 cit., pur se egli già si sia opposto in precedenti
occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante; infatti, ove
sia in corso di valutazione un iter edilizio su di un immobile limitrofo, il
vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel
procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non
hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.10.2019 n. 7057 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reiterazione di un’istanza di sanatoria e
riadozione dell’ordine di demolizione.
La presentazione di una
(ennesima) istanza di sanatoria non impone
al Comune di riadottare l’ordine di
rimessione in pristino all’esito della
delibazione (negativa) della predetta
istanza, come invece ritenuto di regola
dalla giurisprudenza, giacché un tale onere
non sussiste a fronte della ripetuta
reiterazione di identiche istanze del
privato, volte nella sostanza a paralizzare
per un tempo indeterminato la potestà
sanzionatoria dell’Amministrazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.10.2019 n. 2188 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso introduttivo e i ricorsi per
motivi aggiunti sono improcedibili per
sopravventa carenza di interesse.
2.1. Come eccepito dalla difesa del Comune
di Milano –cfr. pagg. 20-21 e 25-26 della
memoria depositata in data 11.06.2019– con
il provvedimento comunale, datato
12.12.2018, è stata dichiarata l’improcedibilità/inammissibilità
della s.c.i.a. e della comunicazione di
mutamento di destinazione d’uso
dell’immobile da laboratorio a residenza,
presentata dai ricorrenti in data 03.12.2018
(all. 32 del Comune).
La mancata impugnazione del predetto atto
comunale rende privo di interesse lo
scrutinio del merito dei ricorsi proposti
nella presente sede, atteso che l’eventuale
annullamento degli atti impugnati non
potrebbe superare l’arresto procedimentale,
quale atto non meramente confermativo (sulla
distinzione tra atto confermativo in senso
proprio e meramente confermativo e relative
differenze, cfr. Consiglio di Stato, IV,
27.01.2017, n. 357; TAR Lombardia, Milano,
II, 08.01.2019, n. 36; 10.05.2018, n. 1242),
ormai divenuto definitivo e inoppugnabile.
2.2. A rafforzare un tale esito concorre
anche la mancata impugnazione dell’atto
comunale del 27.08.2018, con cui è stata
respinta l’istanza di permesso di costruire
a sanatoria, in quanto il bene risultava già
acquisito al patrimonio comunale (all. 26
del Comune).
Inoltre va richiamata la sentenza di questa
Sezione n. 739/2016 del 15.04.2016, passata
in giudicato, che ha dichiarato
l’inammissibilità del ricorso rivolto
avverso la sospensione dei lavori e il
contestuale ordine di demolizione della
scala in ferro e dei ballatoi; risulta
rilevante anche la sentenza, sempre di
questa Sezione, n. 1647/2017 del 18.07.2017,
appellata ma non sospesa, che ha respinto il
ricorso avverso il provvedimento del
27.12.2016, che non ha accolto l’istanza di
condono presentata in data 26.09.2016 sempre
con riguardo ai medesimi interventi (cfr.
all. 16 del Comune); infine, appare
rilevante anche la sentenza, sempre di
questa Sezione, n. 344/2019 del 20.02.2019,
appellata ma non sospesa, che ha respinto il
ricorso avverso il provvedimento di diniego
delle dd.ii.aa., datate 10 e 17.11.2015, in
variante dell’intervento oggetto della
d.i.a. dell’agosto 2014, in quanto le stesse
erano state presentate quando i ricorrenti
non erano ancora proprietari dell’immobile e
dell’area interessata dall’intervento
edilizio.
2.3. Ad abundantiam va specificato
che, nella fattispecie de qua, la
presentazione di una (ennesima) istanza di
sanatoria non impone al Comune di riadottare
l’ordine di rimessione in pristino all’esito
della delibazione (negativa) della predetta
istanza, come invece ritenuto di regola
dalla giurisprudenza di questa Sezione (cfr.,
ex multis, TAR Lombardia, Milano, II,
03.05.2019, n. 1003), giacché un tale onere
non sussiste a fronte della ripetuta
reiterazione di identiche istanze del
privato, volte nella sostanza a paralizzare
per un tempo indeterminato la potestà
sanzionatoria dell’Amministrazione. |
EDILIZIA PRIVATA:
In
ambito urbanistico ed edilizio, incombe
sulla parte che adduce un rilievo a sé
favorevole l’onere di fornire adeguata
dimostrazione del proprio assunto, con la
conseguenza che laddove ciò non avvenga il
fatto non si può ritenere provato.
A rafforzare tale conclusione, concorre
anche la regola che la situazione di fatto
di un immobile non è mai idonea a fondare un
titolo che possa legittimarne l’assetto
anche da un punto di vista giuridico.
---------------
L’ordinanza
di ripristino, quale atto di carattere del
tutto vincolato, si pone come conseguenza
immediata e diretta discendente dalla
verifica dell’abusività degli interventi e
non richiede una particolare motivazione né
con riguardo all’interesse pubblico alla
stessa sotteso e all’ipotetico interesse del
privato alla permanenza in loco dell’opera
edilizia, né con riguardo alla puntuale
indicazione delle norme violate, allorquando
dalla descrizione delle stesse emerga la
natura e la consistenza dell’abuso.
A fronte della pacifica inottemperanza
all’ordine di demolizione, deve essere
applicato l’art. 31, comma 4, del D.P.R. n.
380 del 2001 secondo cui “l’accertamento
dell’inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al comma 3,
previa notifica all’interessato, costituisce
titolo per l’immissione nel possesso e per
la trascrizione nei registri immobiliari,
che deve essere eseguita gratuitamente”; ne
consegue che l’effetto traslativo della
proprietà avviene ipso iure e costituisce
effetto automatico dell’omessa ottemperanza
all’ingiunzione a demolire, essendo il
formale provvedimento di acquisizione
funzionale all’immissione nel possesso e
alla trascrizione nei registri immobiliari.
L’esclusiva acquisizione del sedime su cui è
posto l’immobile non impone poi una
specifica motivazione al proposito,
diversamente da quanto avviene per
l’acquisizione di un’area più consistente
rispetto a quella su cui è stato realizzato
l’abuso.
---------------
3.2. Dalla
descrizione delle opere realizzate dalle
parti ricorrenti –che hanno dato luogo ad un
nuovo organismo edilizio in assenza dei
presupposti necessari titoli abilitativi
(cui consegue l’applicabilità dell’art. 31
del D.P.R. n. 380 del 2001)– emerge con
evidenza che la destinazione effettiva
impressa all’immobile è di carattere
residenziale, in quanto struttura ospitante
studenti, mentre la destinazione
legittimamente assentita è produttiva
(laboratorio), come riconosciuto anche dagli
stessi ricorrenti nelle loro richieste di
sanatoria (cfr. all. 29 e 31 del Comune; cfr.
altresì la descrizione dell’immobile
contenuta nel decreto di trasferimento n.
2646/2016 del Giudice civile
dell’esecuzione, all. 9 al ricorso).
La documentazione prodotta in giudizio dalle
parti dimostra, dunque, in maniera
inequivocabile la originaria destinazione
produttiva dell’immobile, non rilevando
eventuali difformi indicazioni contenute
presso la Conservatoria dei registri
immobiliari, dove vengono registrati atti di
provenienza privata, che in quanto tali non
possono variare il contenuto degli atti
pianificatori ed essere opposti all’Ente
pubblico estraneo al rapporto sottostante.
Pertanto, non si può che ribadire come, in
ambito urbanistico ed edilizio, incomba
sulla parte che adduce un rilievo a sé
favorevole l’onere di fornire adeguata
dimostrazione del proprio assunto, con la
conseguenza che laddove ciò non avvenga il
fatto non si può ritenere provato. A
rafforzare tale conclusione, concorre anche
la regola che la situazione di fatto di un
immobile non è mai idonea a fondare un
titolo che possa legittimarne l’assetto
anche da un punto di vista giuridico (cfr.
TAR Lombardia, Milano, II, 11.06.2019, n.
1320).
3.3. Inoltre non può essere trascurata la
circostanza che gli interventi realizzati
hanno determinato anche una violazione delle
distanze tra costruzioni, in particolare
rispetto all’edificio posto in Via ... n.
39, con la conseguente non sanabilità di un
tale abuso (sulla inderogabilità delle
distanze tra edifici, da ultimo, Consiglio
di Stato, V, 11.09.2019, n. 6136; II,
23.05.2019, n. 3367).
3.4. Da quanto evidenziato in precedenza,
risulta pienamente legittimo l’operato del
Comune di Milano, che dapprima ha ordinato
la demolizione degli interventi abusivi e
poi, preso atto dell’inottemperanza del
privato al predetto ordine, ha disposto
l’acquisizione del bene al patrimonio
comunale, con successiva demolizione.
Difatti, l’ordinanza di ripristino, quale
atto di carattere del tutto vincolato, si
pone come conseguenza immediata e diretta
discendente dalla verifica dell’abusività
degli interventi e non richiede una
particolare motivazione né con riguardo
all’interesse pubblico alla stessa sotteso e
all’ipotetico interesse del privato alla
permanenza in loco dell’opera edilizia, né
con riguardo alla puntuale indicazione delle
norme violate, allorquando dalla descrizione
delle stesse emerga la natura e la
consistenza dell’abuso (cfr. TAR Lombardia,
Milano, II, 21.01.2019, n. 112; 06.08.2018,
n. 1946; 02.05.2018, n. 1190).
A fronte della pacifica inottemperanza
all’ordine di demolizione, deve essere
applicato l’art. 31, comma 4, del D.P.R. n.
380 del 2001 secondo cui “l’accertamento
dell’inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al comma 3,
previa notifica all’interessato, costituisce
titolo per l’immissione nel possesso e per
la trascrizione nei registri immobiliari,
che deve essere eseguita gratuitamente”;
ne consegue che l’effetto traslativo della
proprietà avviene ipso iure e costituisce
effetto automatico dell’omessa ottemperanza
all’ingiunzione a demolire, essendo il
formale provvedimento di acquisizione
funzionale all’immissione nel possesso e
alla trascrizione nei registri immobiliari (cfr.
Consiglio di Stato, VI, 25.06.2019, n.
4336).
L’esclusiva acquisizione del sedime su cui è
posto l’immobile non impone poi una
specifica motivazione al proposito,
diversamente da quanto avviene per
l’acquisizione di un’area più consistente
rispetto a quella su cui è stato realizzato
l’abuso (cfr., sul punto, TAR Lombardia,
Milano, II, 03.05.2018, n. 1198)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.10.2019 n. 2188 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta
di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono
al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si
dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze.
Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell’edificazione
dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è
finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità
locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi
dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate
con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono
corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la
gestione urbanistica del territorio.
Altresì, “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla
pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono
essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate
da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei
fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare".
---------------
Secondo una consolidata giurisprudenza, “le osservazioni formulate dai
proprietari interessati nei confronti di uno strumento urbanistico generale
costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti
urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro
rigetto non richiede una dettagliata motivazione”.
---------------
Secondo una consolidata giurisprudenza, la reformatio in peius della
disciplina urbanistica è interdetta solo da determinazioni vincolanti per
l’amministrazione in ordine ad una diversa “zonizzazione” dell’area stessa,
ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un
affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola
della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in
modo non abusivo.
---------------
7. Entrando in medias res, occorre prendere l’abbrivio dalla disamina
del primo motivo di ricorso.
7.1. In linea generale va premesso che “la pianificazione urbanistica
implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative
degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità
del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti
dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo
alla disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli ma, per mezzo della
disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche
sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con
riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di
aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed
interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi
prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del
territorio” (Consiglio di Stato, sez. I, 29.01.2015, n. 283/2015).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza dell’intestato Tribunale
secondo cui “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla
pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono
essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate
da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei
fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare”
(TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 09.12.2016, n. 2328; cfr.,
inoltre, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 03.12.2018, n.
2715; Id., 03.12.2018, n. 2718; Id., 21.01.2019, n. 119; Id., 05.07.2019, n.
1557).
7.2. Nel caso di specie, il Comune delimita un comparto (denominandolo “m_1”)
al cui interno sono inserite l’area della ricorrente (“m1_11_s1”),
l’area di proprietà della controinteressata e l’area all’interno della quale
si trova la cascina Colcellace (“m1_7_1”) (cfr. tavola 12 del Piano
delle Regole e dei servizi del P.G.T. - documento n. 5 di parte resistente).
Tale ambito è regolato dalla previsione di cui all’articolo 41 del P.d.R.
che, al comma 1, detta gli “obiettivi generali da attuare con la
realizzazione degli interventi”, consistenti:
a) nella ridefinizione del bordo urbano esistente valorizzando il rapporto
con la spazio aperto di scala sopracomunale;
b) nell’incremento delle dotazioni di aree per servizi di uso pubblico;
c) nella realizzazione dei nuovi insediamenti in continuità con quelli
esistenti;
d) nella realizzazione di connessioni tra le grandi aree di pregio
ambientale poste attorno all’edificato della città e le aree verdi e gli
spazi di interesse generale all’interno della città consolidata;
e) nella definizione di percorsi per la mobilità lenta;
f) nella realizzazione di spazi parti di uso pubblico valorizzando gli
elementi del paesaggio agrario presenti (cfr. documento n. 6 di parte
resistente).
In sostanziale coerenza con gli obiettivi di cui alle lettere b), c) ed f),
il P.G.T. prevede, da un lato, un pur limitato completamento degli edifici
produttivi collocati sulla via Firenze, e, dall’altro, l’ampliamento (rectius:
revisione) dell’area a standard a tutela della limitrofa cascina Colcellate
(cfr., fogli 146 ss. del P.d.R. – Disposizioni di attuazione; documento n. 6
di parte resistente).
In particolare, le regole all’attenzione del Collegio prevedono che lo
spazio aperto di interesse generale sia collocato a sud del campo della
modificazione sulla via Alessandrini. All’interno si colloca l’accesso alle
superfici fondiarie, uno spazio adibito a parcheggio ed uno spazio verde. Al
contrario, gli edifici sono collocati a nord “e rappresentato un
completamento degli edifici esistenti su via Firenze” (cfr., foglio 146
del P.d.R. – Disposizioni di attuazione; documento n. 6 di parte
resistente).
7.3. La regolazione urbanistica comunale descritta risulta esente dai vizi
denunciati da parte ricorrente. Infatti, la conformazione dell’area a
standard (e, in generale, dell’intero comparto) non può ritenersi affetto da
illogicità od irrazionalità.
La fascia in esame è, infatti, collocata –con scelta ragionevole- in
aderenza al nucleo della cascina ove sussistono le esigenze di tutela
individuate dal P.G.T. come specifico obiettivo da perseguire nell’ambito.
Inoltre, risultano insussistenti i vizi denunciati attesa la ragionevolezza
della decisione di incrementare le dotazioni di uso pubblico anche con
funzione di tutela e valorizzazione della cascina e del paesaggio agrario
circostante.
Esigenza perseguibile mediante “un’operazione unitaria che coinvolga
l’intero perimetro e che consenta la concentrazione delle aree fondiarie a
nord e la cessione di aree a servizi a sud” (controdeduzioni
all’osservazione n. 116 della ricorrente; documento n. 9 di parte
resistente).
7.4. Neppure irragionevole risulta la scelta di consentire l’accesso
all’area produttiva attraverso la via Alessandrini, attraversando, quindi,
lo spazio pubblico destinato a standard. Come spiegato dalla difesa comunale
e condiviso dal Collegio, la scelta risulta del tutto logica in quanto
concentra nello spazio aperto posto a sud del campo sulla via Alessandrini,
i necessari servizi di interesse generale per l’intero comparto.
In tal modo, lo spazio pubblico accentra tutti i servizi e da esso si
consente l’accesso sia ai futuri nuovi edifici sia alla cascina medesima,
senza intervenire mediante nuove opere, come il prolungamento di via Vicenza
(ipotizzato dalla ricorrente).
7.5. La ragionevolezza della decisione comunale non risulta scalfita dalle
censure che investono le controdeduzioni formulate dall’Amministrazione in
replica all’osservazione presentata dalla ricorrente.
Si consideri che, secondo una consolidata giurisprudenza, “le
osservazioni formulate dai proprietari interessati nei confronti di uno
strumento urbanistico generale costituiscono un mero apporto collaborativo
alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari
aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata
motivazione” (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede di
Milano, sez. II, 03.12.2018, n. 2714; Id., 03.01.2019, n. 7).
Nel caso di specie, l’Amministrazione indica, pur sinteticamente, le ragioni
ostative all’accoglimento dell’osservazione evidenziando: a) il contrasto
con gli obiettivi del Documento di Piano e del Piano delle regole; b) la
regolamentazione dei diritti edificatori; c) la concentrazione di un unico
accesso alle aree e l’impossibilità di una diversa soluzione che interessa
un altro campo della modificazione; d) la conformità della previsione di cui
all’articolo 41 del P.d.R. alle disposizioni vigenti.
7.6. L’Amministrazione fornisce, quindi, risposta alle deduzioni delle
ricorrente che può non essere condivisa dalla stessa ma che non risulta “stereotipata”
o inconferente. Né può ritenersi necessario nel caso di specie uno sforzo
motivazionale ulteriore rispetto a quello profuso dall’Amministrazione. Va,
infatti, considerato che la scelta dell’Ente non risulta ex se
illegittima soltanto perché difforme dalle previgenti regolazioni
urbanistiche dell’area.
Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza, la reformatio in peius
della disciplina urbanistica è interdetta solo da determinazioni vincolanti
per l’amministrazione in ordine ad una diversa “zonizzazione”
dell’area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi
configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in
presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione
in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo (cfr., da ultimo, TAR per la Lombardia – sede
di Milano, sez. II, 21.01.2019, n. 119, e giurisprudenza ivi citata al punto
2.3; cfr. inoltre, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II,
30.05.2019, n. 1235).
Situazioni che non ricorrono nel caso di specie con conseguente
insussistenza di limiti alla decisione urbanistica e di peculiari
motivazioni da parte dell’Amministrazione.
7.7. In definitiva, il primo motivo di ricorso deve ritenersi privo
di fondamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.10.2019 n. 2176 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
Approvazione del piano attuativo quale presupposto al
rilascio del titolo abilitativo edilizio – Urbanizzazione
dell’area – Non costituisce, di per sé, motivo sufficiente a
superare la prescrizione.
L’urbanizzazione dell’area, di per sé,
non è sufficiente a superare la prescrizione della
preventiva approvazione del piano attuativo; la necessità
dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali
la situazione di fatto, in presenza di una pressoché
completa edificazione della zona, sia addirittura
incompatibile con un piano attuativo, ma non anche
nell’ipotesi in cui, per effetto di una edificazione
disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che
esige un intervento idoneo a restituire efficienza
all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il
sistema della viabilità secondaria o integrando
l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli
standards minimi per spazi e servizi pubblici e le
condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue,
già asservite all’edificazione.
E ciò, in quanto l’esigenza di un piano di lottizzazione,
quale presupposto per il rilascio della concessione
edilizia, s’impone anche al fine di un armonico raccordo con
il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e,
quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree
già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una
necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in
caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona
già edificata e urbanizzata
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.04.2016, n. 1434) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.10.2019 n. 2176 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA -
URBANISTICA:
L’urbanizzazione dell’area “di per sé non è sufficiente a
superare la prescrizione della preventiva approvazione del piano attuativo,
giacché nel caso in cui l’edificazione della zona sia avvenuta in modo
disomogeneo è comunque necessario un intervento che consenta di restituire
efficienza allo sviluppo urbanistico, riordinando e recuperando le aree
interessate”.
Sicché, “anche in presenza
di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è
esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile
con un piano attuativo, ma non anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una
edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige
un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e
talora definendo ex novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio,
completando il sistema della viabilità secondaria o integrando
l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi
per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con
le zone contigue, già asservite all'edificazione”.
E “ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate,
che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in
caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata”.
---------------
8. Passando al secondo motivo di ricorso, osserva il Collegio come lo
stesso sia infondato per le ragioni di seguito esposte.
8.1. L’urbanizzazione dell’area dedotta da parte ricorrente “di per sé
non è sufficiente a superare la prescrizione della preventiva approvazione
del piano attuativo, giacché nel caso in cui l’edificazione della zona sia
avvenuta in modo disomogeneo è comunque necessario un intervento che
consenta di restituire efficienza allo sviluppo urbanistico, riordinando e
recuperando le aree interessate” (TAR per la Lombardia – sede di Milano,
sez. II, 22.05.2019, n. 1147).
Lo afferma lo stesso Consiglio di Stato osservando come “anche in
presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo
è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile
con un piano attuativo, ma non anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una
edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige
un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e
talora definendo ex novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio,
completando il sistema della viabilità secondaria o integrando
l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi
per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con
le zone contigue, già asservite all'edificazione”.
E “ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale
presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al
fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo
scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi,
anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed
urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e
perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona
già edificata e urbanizzata” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
13.04.2016, n. 1434).
8.2. Declinato tali principi al caso di specie, non si ritiene illegittima
la decisione comunale di subordinare lo sviluppo del comparto ad un piano
attuativo attesa la sussistenza della necessità di garantire, come spiegato
dalla difesa comunale, l’ordinato sviluppo del territorio, mediante la
realizzazione di un definitivo ed equilibrato assetto urbanistico
dell’intero comparto. Esigenza che legittima il ricorso alla pianificazione
attuativa (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 16.10.2019 n. 2176 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Inosservanza
di prescrizioni a tutela dell’ambiente e provvedimenti ripristinatori della
P.A..
---------------
Ambiente - Valutazione di impatto ambientale - Prescrizioni finalizzate
all’eliminazione o alla mitigazione degli impatti sfavorevoli sull’ambiente
- Accertamento di un profilo di responsabilità del destinatario - Necessità.
In materia di valutazione di impatto ambientale (V.I.A.),
qualora la legislazione regionale consenta di subordinare l’esclusione di un
progetto dalla relativa procedura a specifiche prescrizioni finalizzate
all’eliminazione o alla mitigazione degli impatti sfavorevoli sull’ambiente,
prevedendo la possibilità di provvedimenti sanzionatori e ripristinatori
dell’amministrazione in caso di inosservanza delle prescrizioni stesse,
l’adozione di questi ultimi non può prescindere dall’accertamento di un
profilo di responsabilità del destinatario, quanto meno con riguardo alla
sussistenza di un nesso causale tra la condotta da questi tenuta e il
pregiudizio ambientale (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che anche in queste ipotesi la normativa
interna va interpretata in conformità agli orientamenti consolidati della
giurisprudenza nazionale ed eurounitaria relative alla responsabilità cd.
ambientale, per cui in materia di misure di riparazione ambientale è
necessario almeno l’accertamento, anche per presunzioni, della esistenza di
un nesso di causalità tra l’attività degli operatori cui sono dirette le
misure di riparazione e l’inquinamento di cui trattasi.
Di conseguenza, l’amministrazione non può emettere i provvedimenti in
questione nei confronti di un soggetto che sia subentrato nell’esercizio
dell’impianto in un momento successivo a quello in cui le prescrizioni
ambientali avrebbero dovuto essere adempiute e che non abbia concorso nella
loro inosservanza né abbia avuto in concreto la possibilità di avvedersene e
porvi rimedio
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 15.10.2019 n. 7033 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
pergotenda retrattile non può considerarsi nuova costruzione. Il Consiglio
di Stato supporta la propria decisione citando il Glossario dell'edilizia
libera.
La “pergotenda” è un’opera che, secondo il condivisibile orientamento di questa
Sezione, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, non
necessità di titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle
caratteristiche costruttive e della sua funzione.
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR
06/06/2001, n. 380 e 15 della L.R. 06/06/2008, n. 16 (applicabile ratione
temporis), sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi
di nuova costruzione”, che determinano una “trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio”, mentre una struttura leggera destinata ad
ospitare pannelli retrattili in materiale plastico non integra tali
caratteristiche.
L'opera principale non è, infatti, l’intelaiatura in sé, ma la tenda, quale
elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad
una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la
conseguenza che l’intelaiatura medesima si qualifica in termini di mero
elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Quest'ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi
una “nuova costruzione”, anche laddove per ipotesi destinata a
rimanere costantemente chiusa, posto che essa è in materiale plastico e
retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un
organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non
presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, per il carattere
retrattile della tenda e dei pannelli, onde, in ragione della inesistenza di
uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo
edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie.
---------------
La presente controversia ha ad oggetto l’appello proposto nei confronti
della sentenza 6319/2018 con cui il Tar Lazio ha respinto l’originario
ricorso; quest’ultimo era stato proposto dall’odierna parte appellante,
avverso la determinazione dirigenziale numero 1454 del 06.10.2016, recante
ordine di demolizione degli interventi di ristrutturazione edilizia abusivi
consistenti nella realizzazione di una pergotenda ritraibile di m 9 per m
4,30 di altezza variabile da m 2,60 a m 2,25 circa, comandata
elettricamente, tamponata su due lati con pannelli di vetro scorrevole
richiudibili a pacchetto; il terrazzo risulta arredato con tavoli e sedie da
giardino e sono stati installati due climatizzatori.
...
1. L’appello è fondato sotto un assorbente profilo, concernente la
qualificazione degli abusi in contestazione, con conseguente applicabilità
del principio di cui all’art. 74 cod. proc. amm.
2. Come si evince dall’impugnata ordinanza di demolizione e dalla
documentazione depositata in giudizio con i relativi allegati fotografici,
l’odierna appellante ha installato sul terrazzo di un’unità abitativa di sua
proprietà una struttura così individuata dal provvedimento: pergotenda
retraibile di mt. 9,00 x 4,30 H altezza varabile da mt 2,60 a 2,25 circa,
comandata elettricamente, tamponata su due lati con pannelli di vetro
scorrevole richiudibili a pacchetto.
3. Trattasi quindi, secondo la stessa definizione della p.a., di una “pergotenda”,
ovvero di un’opera che, secondo il condivisibile orientamento di questa
Sezione, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, non
necessità di titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle
caratteristiche costruttive e della sua funzione (Cons. Stato, Sez. VI,
2206/2019, 4777/2018, 306/2017, 1619/2016).
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR
06/06/2001, n. 380 e 15 della L.R. 06/06/2008, n. 16 (applicabile ratione
temporis), sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi
di nuova costruzione”, che determinano una “trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio”, mentre una struttura leggera destinata ad
ospitare pannelli retrattili in materiale plastico non integra tali
caratteristiche.
L'opera principale non è, infatti, l’intelaiatura in sé, ma la tenda, quale
elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad
una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la
conseguenza che l’intelaiatura medesima si qualifica in termini di mero
elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Quest'ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi
una “nuova costruzione”, anche laddove per ipotesi destinata a
rimanere costantemente chiusa, posto che essa è in materiale plastico e
retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un
organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non
presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, per il carattere
retrattile della tenda e dei pannelli, onde, in ragione della inesistenza di
uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo
edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie.
4. L’esposta conclusione trova conforto anche nell’allegato al D.M.
02/03/2018 avente ad oggetto il “glossario contenente l'elenco non
esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività
edilizia libera, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo
25.11.2016, n. 222”, il quale, al n. 50, include le pergotende tra gli
interventi realizzabili in regime di edilizia libera.
5. Piuttosto, in termini di delimitazione della nozione di pergotenda, con i
caratteri predetti risulterebbero incompatibili i condizionatori e/o i
climatizzatori, di cui, peraltro, nel caso di specie la p.a., premessa
l’irrilevanza di ingombro edilizio, non ne ha accertato e dimostrato
l’allaccio ed il funzionamento (l’atto impugnato parla genericamente di “istallati
due climatizzatori”).
Se quindi nel caso di specie non risultano provati
l’allaccio ed il funzionamento dei climatizzatori, in linea generale va
precisato come sia evidente che gli stessi apparecchi, laddove funzionanti,
darebbero vita ad uno spazio destinato ad un utilizzo ben più ampio e
continuativo rispetto alla nozione di transitorietà e precarietà della vera
e propria pergotenda.
6. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va accolto in
parte qua; per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va accolto il
ricorso di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.10.2019 n. 6979 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione
di un campo-boe e tutela dei valori paesaggistici.
---------------
Paesaggio – Tutela – Campo-boe - Specchio acqueo prospiciente il
territorio costiero vincolato con il d.m. 27.08.1980 – Esclusione.
Lo specchio acqueo prospiciente il territorio
costiero vincolato con il d.m. 27.08.1980, in cui dovrebbe essere realizzato
un campo-boe, non è coinvolto nella tutela dei valori paesaggistici (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che in tal senso convergono sia argomenti di
carattere testuale, basati sul contenuto, la descrizione e l’estensione del
vincolo ministeriale, sia argomenti di natura teleologica e funzionale
Sotto il primo profilo, si consideri che nel decreto ministeriale si
giustifica il «notevole interesse pubblico» della zona costiera del
Comune di San Vero Milis non solo perché essa rientra nel più ampio
complesso naturalistico del Sinis, caratterizzato da «un paesaggio
spiccatamente desertico con lande spoglie all’interno ed imponenti sistemi
di dune altissime», ma -in particolare– perché nel territorio costiero,
in cui «è presente un sistema di stagni di importanza rilevante»,
sono presenti delle «ampie spiagge bianchissime che si estendono a
perdita d’occhio, insieme agli altri cordoni di sabbia che si estendono alle
spalle» e alle «garighe costiere contornate dalla macchia
mediterranea».
L’eccezionale valore naturalistico del complesso territoriale costiero,
sopra descritto, non può non estendersi anche allo spazio del mare
prospiciente la costa, quantomeno nei limiti in cui la realizzazione di
opere nello specchio acqueo possa compromettere lo specifico oggetto della
tutela come descritto dall’art. 1, l. 29.06.1939, n. 1497 (norma in base
alla quale, ratione temporis, il vincolo è stato apposto, come si
evince anche dalla proposta formulata dalla Commissione per la tutela delle
bellezze naturali della Provincia di Oristano, allegata al decreto
ministeriale); e, in specie, possa compromettere le «bellezze panoramiche
considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di
belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di
quelle bellezze» (n. 4 dell’art. 1 cit.).
Ne deriva come conseguenza che l’autorizzazione paesaggistica di cui
all’art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004, contrariamente a quanto nella
fattispecie ritenuto dalla ricorrente (e dalla Regione), è necessaria anche
per gli interventi e i progetti di opere che debbano eseguirsi nella parte
del mare a ridosso del territorio costiero vincolato, anch’essi
potenzialmente in grado di pregiudicare il mantenimento dei valori
paesaggistici tutelati (TAR
Sardegna, Sez. I,
sentenza 14.10.2019 n. 782 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
10.1. - Preliminarmente, tuttavia, occorre chiarire che non è
condivisibile l’affermazione secondo cui lo specchio acqueo prospiciente il
territorio costiero vincolato con il D.M. 27.08.1980, in cui dovrebbe essere
realizzato il campo-boe della ricorrente, non sarebbe coinvolto nella tutela
dei valori paesaggistici. In tal senso convergono sia argomenti di carattere
testuale, basati sul contenuto, la descrizione e l’estensione del vincolo
ministeriale, sia argomenti di natura teleologica e funzionale.
Sotto il primo profilo, si consideri che nel decreto ministeriale si
giustifica il «notevole interesse pubblico» della zona costiera del Comune
di San Vero Milis non solo perché essa rientra nel più ampio complesso
naturalistico del Sinis, caratterizzato da «un paesaggio spiccatamente
desertico con lande spoglie all’interno ed imponenti sistemi di dune
altissime», ma -in particolare– perché nel territorio costiero, in cui «è
presente un sistema di stagni di importanza rilevante», sono presenti
delle «ampie spiagge bianchissime che si estendono a perdita d’occhio,
insieme agli altri cordoni di sabbia che si estendono alle spalle» e
alle «garighe costiere contornate dalla macchia mediterranea».
10.2. - L’eccezionale valore naturalistico del complesso territoriale
costiero, sopra descritto, non può non estendersi anche allo spazio del mare
prospiciente la costa, quantomeno nei limiti in cui la realizzazione di
opere nello specchio acqueo possa compromettere lo specifico oggetto della
tutela come descritto dall’articolo 1 della legge 29.06.1939, n. 1497 (norma
in base alla quale, ratione temporis, il vincolo è stato apposto,
come si evince anche dalla proposta formulata dalla Commissione per la
tutela delle bellezze naturali della Provincia di Oristano, allegata al
decreto ministeriale); e, in specie, possa compromettere le «bellezze
panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista
o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di
quelle bellezze» (n. 4 dell’art. 1 cit.).
10.3. - Ne deriva come conseguenza che l’autorizzazione paesaggistica di cui
all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, contrariamente a quanto nella
fattispecie ritenuto dalla ricorrente (e dalla Regione), è necessaria anche
per gli interventi e i progetti di opere che debbano eseguirsi nella parte
del mare a ridosso del territorio costiero vincolato, anch’essi
potenzialmente in grado di pregiudicare il mantenimento dei valori
paesaggistici tutelati.
10.4. - In tale prospettiva si colloca anche l’orientamento della
giurisprudenza, puntualmente richiamata anche dalla difesa
dell’amministrazione, sia di primo grado (cfr. TAR Campania, Salerno,
Sezione I, 24.10.2012, n. 1926), sia del giudice di appello (si veda
Consiglio di Stato, Sezione VI, 31.08.2004, n. 5723).
11. - Devono essere poi disattese anche le censure basate sulla preesistente
compromissione del territorio (presenza nel medesimo spazio acqueo di
diverse boe, presenza di edifici e dei detriti delle vecchie abitazioni dei
pescatori), posto che da tempo si è affermato che la situazione di degrado
di una determinata zona soggetta a vincolo paesaggistico non giustifica il
sostanziale abbandono degli obiettivi di tutela ma, anzi, impone
all’autorità preposta un maggiore rigore nella valutazione della
compatibilità di ulteriori interventi (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI,
03.03.2014, n. 961; VI, 14.10.2015, n. 4750). |
APPALTI: Valutazione
degli elementi progettuali che non modificano l’oggetto dell’appalto ma
ottimizzano il risultato finale dell’intervento.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto lavori – Offerta –
Offerta migliorativa dell’opera – Offerta che non modifica l’oggetto
dell’appalto – Non può essere qualificata offerta di opera aggiuntiva
rispetto a quella posta a base di gara – E’ compatibile con il divieto di
cui all’art. 95, comma 14-bis, d.lgs. n. 50 del 2016 nei limiti stabiliti
dalla lex specialis.
Per opera aggiuntiva si deve intendere un intervento
che modifichi in senso quantitativo e/o qualitativo l’identità strutturale
e/o funzionale dell’opera oggetto dell’appalto, con il risultato di falsare
il confronto concorrenziale, laddove invece, gli accorgimenti progettuali
volti alla valorizzazione ed alla implementazione dell’opera in senso
estetico e/o prestazionale, che non ne modifichino sostanzialmente identità
e dimensioni, devono essere sussunti nel genus delle migliorie e/o della
varianti, e come tali sono compatibili con il divieto di cui all’art. 95,
comma 14-bis, d.lgs. n. 50 del 2016, purché contenuti nei limiti stabiliti
dalla lex specialis (1).
---------------
(1) Il Tar ha osservato innanzi tutto che l’art. 95, comma 14-bis,
d.lgs. n. 50 del 2016 non sanziona con l’esclusione dalla gara la ditta che
abbia proposto opere aggiuntive rispetto a quelle oggetto di gara, ma si
rivolge alla stazione appaltante, precludendo l’attribuzione di un apposito
punteggio; conseguentemente ha ritenuto manifestamente infondata la censura
con cui la ricorrente pretende di correlare la sanzione escludente alla
offerta di opere ritenute aggiuntive rispetto a quelle poste a base di gara.
Ha chiarito il Tar che le soluzioni progettuali proposte non possono essere
qualificate opere aggiuntive rispetto a quella descritta dal progetto
esecutivo, ma costituiscono una miglioria coerente con gli obiettivi
perseguiti dall’amministrazione comunale; pertanto sono compatibili con il
divieto di cui all’art. 95, comma 14-bis, d.lgs. n. 50 del 2016.
Nel caso di specie la ricorrente, con un’unica ed articolata censura, aveva
denunciato che le ditte collocate ai primi due posti della graduatoria di
gara avrebbero previsto nelle proprie offerte la realizzazione di opere
aggiuntive rispetto ai lavori oggetto dell’appalto, consistenti nel
risanamento strutturale ai fini del miglioramento sismico di un ponte di
importanza strategica, avendo rispettivamente proposto la realizzazione “di
un parcheggio pubblico sottostante l’impalcato con bacheche informative di
metallo, fioriere, illuminazione”, nonché “di un parco e di un parco
giochi con pavimentazione e allestimenti di varia natura”
(TAR Molise,
sentenza 14.10.2019 n. 340 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In
caso di contrasto tra le indicazioni grafiche del piano regolatore generale
e le prescrizioni normative, sono queste ultime a prevalere, in quanto in
sede di interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche
possono solo chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma
non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
---------------
8.3. Neppure merita di essere condivisa la tesi dell’appellante
secondo la quale gli elaborati grafici prevalgono sulla parte normativa del PRG.
Al contrario, la giurisprudenza dominante (ex plurimis, Cons. Stato,
sez. IV, 19.03.2013, n. 2158) di questo Consiglio ritiene che in caso di
contrasto tra le indicazioni grafiche del piano regolatore generale e le
prescrizioni normative, sono queste ultime a prevalere, in quanto in sede di
interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono
solo chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma
non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
Nella
fattispecie, peraltro, la parte normativa non è redatta in modo tale da
impedire di accedere ad una sua autonoma interpretazione, sicché non può
farsi leva sulla portata ausiliaria della parte grafica del piano. Pertanto,
nessun onere di impugnazione poteva validamente invocarsi in capo
all’appellata in relazione alla deliberazione consiliare 15.11.2005,
n. 43
(CGARS,
sentenza 11.10.2019 n. 892 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO – Emissioni sonore – Condominio –
Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone –
Configurabilità della fattispecie contravvenzionale prevista
dall’art. 659 cod. pen. – Elementi soggettivi e oggettivi –
Rumori siano idonei ad arrecare disturbo a un gruppo
indeterminato di persone – Superamento della normale
tollerabilità delle emissioni sonore – Fattispecie: canto di
tre galli nel cortile del complesso condominiale.
Per la configurabilità della fattispecie
contravvenzionale prevista dall’art. 659 cod. pen., non sono
necessarie né la vastità dell’area interessata dalle
emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di
persone, essendo sufficiente che i rumori siano idonei ad
arrecare disturbo a un gruppo indeterminato di persone,
anche se raccolte in un ambito ristretto, come un
condominio.
Nel caso di specie, l’elemento oggettivo del reato risulta
ampiamente comprovato dovendosi ritenere superata la normale
tollerabilità delle emissioni sonore, soprattutto nella
fascia notturna, e ciò alla luce della prolungata estensione
temporale dei fatti, che hanno provocato, a più di un
condomino, disturbi del sonno debitamente documentati.
Le obiezioni sull’assenza della “suitas” della condotta e
dell’elemento soggettivo non risultano pertinenti, potendosi
anzi affermare che la condotta del ricorrente rimasto
indifferente alle sollecitazioni ricevute negli anni, appare
inquadrabile più nell’alveo del dolo eventuale che in quello
della colpa. Fattispecie: tre galli nel cortile del
complesso condominiale che erano soliti cantare di giorno e
di notte, alla vista della luce naturale, dei lampioni e dei
fari delle automobili.
Tale situazione, prolungatasi per diversi anni, nonostante
le proteste degli interessati e i richiami formali
dell’amministratore di condominio, provocava non pochi
disagi ai condomini, impedendo loro di dormire regolarmente
e di compiere durante il giorno le ordinarie attività
domestiche senza fastidi, al punto che un condomino decideva
per questo di cambiare casa (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.10.2019 n. 41601 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Il
nuovo codice degli appalti (d.lgs. n. 50 del 2016) ha eliminato la categoria
dell'aggiudicazione provvisoria.
L'art. 32 del d.lgs. n. 50 del 2016 -al fine di
assicurare con la massima celerità la certezza delle situazioni giuridiche
ed imprenditoriali - ha del tutto eliminato la tradizionale categoria
dell'aggiudicazione provvisoria, ma distingue solo tra: la 'proposta di
aggiudicazione', che è quella adottata dal seggio di gara, ai sensi
dell'art. 32, co. 5, e che ai sensi dell'art. 120, co. 2-bis ultimo periodo
del codice del processo amministrativo non costituisce provvedimento
impugnabile; la 'aggiudicazione' tout court che è il provvedimento
conclusivo di aggiudicazione.
Il che elimina in radice la possibilità che un atto adottato dalla stazione
appaltante nell'ambito della procedura di gara possa essere ragionevolmente
confuso per "aggiudicazione provvisoria", proprio perché, a partire
dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016, la figura
dell'aggiudicazione provvisoria risulta ormai espunta dall'ordinamento (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 10.10.2019 n. 6904 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA: Effetti
dell’annullamento giurisdizionale di
previsioni urbanistiche.
In presenza di un annullamento
giurisdizionale delle previsioni
urbanistiche rivivono provvisoriamente le
previgenti regole fino all’adozione di una
determinazione da parte del Comune che
potrebbe, in ipotesi, estrinsecarsi
nell’accettazione dell’assetto conseguente
alla reviviscenza.
Tesi questa che pare
conciliare il rigore dogmatico della tesi
che regola i rapporti tra le due discipline
in termini di reviviscenza con l’esigenza
(parimenti rilevante) di non ritenere la previgente normativa ad applicazione
obbligata preservando il potere/dovere
comunale di rieditare il potere di
conformazione del territorio anche in
conseguenza dell’assetto che si crea per
effetto dell’annullamento delle prescrizioni
nei limiti dello specifico oggetto del
giudizio e, quindi, della sentenza.
In tal
modo, si consente all’Amministrazione di
intervenire anche al fine di assoggettare le
aree ad una regolazione comune evitando la
policromia regolatoria che potrebbe, in
ipotesi, crearsi (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 09.10.2019 n. 2116 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. Con ricorso depositato in data 21.07.2011 la società So.Ma.Ge.
s.r.l. (successivamente Pe. s.r.l.)
impugna il P.G.T. del comune di Gallarate
approvato con delibera del Consiglio
comunale del 15.03.2001 e pubblicata sul B.U.R. del 18.05.2011, in relazione alle
previsioni relative all’ambito territoriale
“AT_05” e all’articolo 10 delle N.T.A. del
documento di piano.
2. In punto di fatto, la ricorrente deduce:
a) di essere proprietaria di un’area sita a
Gallarate, via ..., n. 24,
contraddistinta in catasto al foglio 9,
mappali nn. 1919 - 5213 - 5545 - 5546 - 5547
- 5748, edificabile – in base alle
previsioni del previgente P.R.G. – per
interventi con destinazione commerciale e
terziaria ed assoggettata a piano attuativo;
b) di presentare una proposta di piano
attuativo in data 02.07.2010 con istanza
di autorizzazione paesaggistica rigettata
con provvedimento del 15.11.2010 che
viene impugnato con ricorso straordinario al
Capo dello Stato;
c) di non ricevere riscontro in ordine alla
proposta di piano attuativo stante la
decisione del comune di Gallarate di
sospendere ogni determinazione in seguito
all’adozione del P.G.T.;
d) di formulare osservazioni al P.G.T.
adottato rimaste prive di riscontro stante
l’intervenuta approvazione del P.G.T. che si
limita ad escludere dall’ambito AT_5 un’area
di proprietà di terzi.
3. La ricorrente articola quattro motivi di
ricorso.
3.1. Con il primo motivo (rubricato:
“Illegittimità per travisamento dei fatti,
carenza di istruttoria e ingiustizia
manifesta”), la società lamenta l’erroneità
della classificazione che muove dalla
considerazione che l’area sia dismessa
diversamente dallo stato reale della stessa.
3.2. Con il secondo motivo (rubricato:
“Illegittimità per irragionevolezza, difetto
di motivazione e ingiustizia manifesta”), la
società deduce l’impossibilità di realizzare
gli interventi edificatori previsti per il
comparto atteso che, sottraendo la
percentuale destinata a superficie
permeabili (40 per cento) e quelle soggetto
ad obbligo di cessione (50 per cento), ne
consegue che la sola superficie realizzabile
sia pari al 10 per cento.
Inoltre, nota come
la realizzazione di parcheggi privati –per
come imposti dal P.G.T.– comporti la
necessità di edificare strutture interrate
di almeno dieci piani. Inoltre, la
ricorrente contesta le prescrizione dettate
in tema di impostazione generale di
progetto.
3.3. Con il terzo motivo (rubricato:
“Illegittimità per violazione di legge,
irragionevolezza e ingiustizia manifesta”),
la ricorrente contesta le previsioni che
impongono oneri suppletivi per il comparto
ritenuti esorbitanti rispetto allo stesso.
3.4. Con il quarto motivo (rubricato:
“Illegittimità per violazione di legge,
incompetenza, eccesso di potere per
ragionevolezza”), la ricorrente deduce
l’illegittimità della previsione che
consente di derogare alle previsioni di
piano demandando tale valutazione ad un
nucleo di valutazione che verifichi
l’onerosità degli interventi proposti e la
compatibilità con l’assetto del territorio.
4. Le Amministrazioni intimate (comune di
Gallarate, regione Lombardia e provincia di
Varese) non si costituiscono in giudizio
nonostante la rituale notificazione.
5. In vista dell’udienza di merito
straordinario del 24.09.2019 la parte
deposita istanza di trattazione congiunta
della causa con il ricorso R.G. 2451/2015
proposto dalla società avverso la variante
approvata dal comune di Gallarate nel 2015
avente “contenuti dispositivi del tutto
analoghi a quelli del Piano di Governo del
territorio impugnato”.
La società ricorrente
deposita, inoltre, memoria difensiva finale
con la quale evidenzia la permanenza
dell’interesse alla decisione del ricorso
stante la ritenuta reviviscenza delle
previsioni generali in caso di accoglimento
del ricorso avverso la variante del 2005 e,
di conseguenza, l’interesse ad ottenere, in
caso di accoglimento di entrambi i ricorsi,
che l’area sia regolata dalle previsioni
urbanistiche antecedenti al P.G.T. del 2011.
Nel merito la società insiste nel motivo di
ricorso articolato nell’atto introduttivo
del giudizio.
6. All’udienza di merito straordinario del
24.09.2019 il Collegio avvisa la
parte ricorrente della necessità di valutare
la sussistenza dei presupposti per la
declaratoria di improcedibilità del ricorso
stante la nuova regolazione urbanistica
dettata per l’area dalla variante del 2005.
Parte ricorrente insiste sulla richiesta di
differimento della causa per decisione
congiunta con quella di cui alla variante
approvata dal comune di Gallarate nel 2015 o
sulla decisione della causa ritenendo non
sussistenti i presupposti per la
declaratoria di improcedibilità prospettata
dal Collegio.
7. Osserva il Collegio come il ricorso non
possa essere deciso nel merito difettando,
allo stato, l’essenziale presupposto
dell’interesse a ricorrere che, costituendo
una condizione dell'azione e consistendo
nell'utilità concreta ed attuale ritraibile
dalla stessa, deve essere sussistente per
tutta la durata del processo (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede di
Milano, sez. II, 26.04.2019, n. 932).
7.1. Nel caso di specie la decisione di
merito del ricorso non determinerebbe alcuna
utilità diretta ed immediata nella sfera
giuridica di parte ricorrente. Infatti,
anche l’eventuale decisione di accoglimento
non sprigionerebbe effetti sulla realtà
sostanziale avendo il comune di Gallarate
adottato una nuova variante generale.
Anche
accedendo alla tesi di Mo. s.r.l.
(incentrata sulla reviviscenza delle previgenti prescrizioni urbanistiche), si
osserva come una simile decisione potrebbe
determinare il conseguimento di una
effettiva utilità per la parte ricorrente
solo in caso di eventuale duplice
annullamento della regolazione urbanistica.
L’interesse fatto valere in giudizio
troverebbe realizzazione, infatti, solo in
caso di accoglimento del ricorso avverso la
nuova variante (che, come spiegato, regola
attualmente la zona) e di accoglimento di
questo ricorso. In considerazione di quanto
esposto, deve escludersi il potere/dovere
del Collegio di pronunciare una decisione
sul merito del ricorso.
8. Un maggior approfondimento si impone in
ordine alla tematica relativa alla necessità
di disporre il rinvio della decisione per
trattazione congiunta con il ricorso R.G.
2450/2015 proposto dalla società avverso la
variante approvata dal comune di Gallarate
nel 2015 ed avente “contenuti dispositivi
del tutto analoghi a quelli del Piano di
Governo del territorio impugnato”.
8.1. Simile rinvio può accordarsi solo
accedendo alla tesi della c.d. reviviscenza
delle prescrizioni urbanistiche previgenti
in caso di annullamento delle attuali da
parte del Giudice amministrativo. Evidente,
infatti, come l’alternativa tra decisione
sul rito del presente ricorso per
sopravvenuta carenza di interesse o
differimento della decisione della lite
/sospensione del giudizio dipenda dalla non
adesione o adesione del Collegio alla tesi
secondo la quale l’annullamento della nuova
disciplina determini la reviviscenza della
previgente.
8.2. Sul punto, osserva il Collegio come
parte della giurisprudenza aderisca a simile
tesi osservando che “l’eventuale
annullamento in sede giurisdizionale del
provvedimento di approvazione [della]
variante implicherebbe la reviviscenza della
disciplina introdotta da quella precedente,
sicché permane l’interesse di parte
ricorrente a coltivare [l’impugnazione]"
(TAR per la Liguria – sez. I, 30.08.2018, n. 683; TAR per la Puglia - sede di
Bari, Sez. II, 20.03.2012, n. 580; TAR
per il Veneto, sez. I, 08.02.1996, n.
156; TAR per il Lazio – sede di Roma,
sez. II, 02/11/2000, n. 8874).
Dello stesso
avviso si mostra parte della giurisprudenza
del Giudice d’Appello a partire dalla
decisione dell’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato n. 7 del 02.04.1984
secondo cui “l'annullamento di una
previsione contenuta in una variante ad un
piano regolatore generale comporta la
reviviscenza della destinazione
preesistente”. La tesi trova conferma nella
giurisprudenza successiva del Consiglio di
Stato secondo cui “l'adozione da parte
dell'amministrazione di una nuova variante
al piano regolatore, operando con effetti
“ex nunc” non fa venir meno l'interesse
della parte incisa dalla variante precedente
a vederla annullata, ben potendo il privato
ottenere in tal modo l'affermazione del
principio di diritto applicabile alla
fattispecie e la declaratoria
dell’illegittimità degli effetti
pregiudizievoli “medio tempore” verificatisi
e di conseguirne, quindi, l'eventuale
ristoro” (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.02.1998 n. 312; cfr., inoltre,
Consiglio di Stato, Sez. V, 22.02.2007, n. 954; Id., sez. IV,
06.05.2004,
n. 2800, con ulteriori citazioni; Id., Sez.
V, del 27.03.2000, n. 1749; Id., Sez. V,
23.09.1997, n. 1008; Id., Sez. V, 06.10.1997, n. 1110; Id., Sez. IV, 15.11.1988, n. 868).
Le pronunce citate
muovono, quindi, dall’esatto rilievo secondo
cui le nuove prescrizioni urbanistiche hanno
effetto ex nunc; al contrario,
l’annullamento giurisdizionale le rimuove,
di norma, sin dal momento di sprigionarsi
dell’effettualità propria del provvedimento
(per una deroga a simile principio, pur non
operante nel caso di specie, si veda:
Consiglio di Stato, sez. VI, 10.05.2011,
n. 27552; TAR per la Lombardia – sede di
Milano, sez. II, 12.10.2018, n. 2265).
La combinazione tra le differenti portate
effettuali dei due atti sul piano temporale
comporta, quindi, la reviviscenza della
precedente disciplina urbanistica.
8.3. Di diverso avviso si mostra altra parte
della giurisprudenza secondo cui “allorché
nelle more del giudizio di impugnazione di
una prescrizione urbanistica intervenga
altro strumento, completamente sostitutivo
del precedente, più nessun interesse a
discutere sul precedente strumento
urbanistico può residuare, e ciò anche
quando il nuovo abbia riprodotto la
prescrizione impugnata, palesandosi
altrimenti un’eventuale pronuncia sul primo
atto inutiliter data” (TAR per la
Lombardia, Sez. II, 30.07.2018, n. 1877
che richiama TAR per la Lombardia – sede
di Milano, Sez. II, 15.03.2018, n. 731; Id., Sez. I, 26.06.2017, n. 1435;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 03.06.2010,
n. 3538).
Tale giurisprudenza introduce
un’eccezione nella ipotesi in cui lo
scrutinio degli atti sia funzionale alla
deliberazione dell’eventuale domanda risarcitoria precisando, tuttavia, che la
disposizione di cui all’articolo 34 c.p.a.
“deve applicarsi in via restrittiva e quindi
si può accertare l’illegittimità degli atti
ai fini risarcitori soltanto laddove la
relativa domanda sia stata proposta nello
stesso giudizio, oppure quando la parte
ricorrente dimostri che ha già incardinato
un separato giudizio di risarcimento o che è
in procinto di farlo; in mancanza di tali
adempimenti il ricorso deve essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuta
carenza di interesse (cfr., ex multis,
TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1471; 14.03.2017, n. 621; 26.07.2016, n. 1501)” (TAR per la
Lombardia – sede di Milano, sez. II, 15.03.2018, n. 731; negli stessi termini cfr.,
inoltre, TAR per la Lombardia – sede di
Milano, sez. II, 01.02.2019, n. 222).
8.4. La sentenza da ultimo citata (TAR
per la Lombardia – sede di Milano, sez. II,
15.03.2018, n. 731) si riferisce,
tuttavia, ad una ipotesi in cui il nuovo
strumento urbanistico non è oggetto di
impugnazione. In un simile caso, è evidente
come la regolamentazione dell’area dipenda
dalle nuove prescrizioni che, in quanto non
impugnate, risultano definitive. Diversa è
un’ipotesi come quella all’attenzione del
Collegio ove l’interesse alla decisione
risulta, allo stato, non attuale ma potrebbe
divenire tale in caso di accoglimento del
ricorso avverso la variante che è pertanto
pregiudiziale rispetto al primo ricorso.
8.5. Va, inoltre, considerato che
la mancata
reviviscenza della previgenti previsioni
urbanistiche determinerebbe, come evidente,
un vuoto di regolazione. Un vuoto che,
invero, non sembrerebbe potersi colmare
attraverso l’applicazione della regola di
cui all’articolo 9 del D.P.R. 380 del 2001
che riguarda il diverso caso di Comuni
sprovvisti dello strumento urbanistico e non
di Comuni il cui strumento sia annullato in
sede giurisdizionale (cfr., TAR per il
Lazio – sede di Roma, sez. II-quater, 28.01.2019, n. 1049 che esclude la
reviviscenza delle previgenti prescrizioni e
l’applicazione della regola in esame in una
fattispecie in cui le previsioni del P.R.G.
non si ritengono perfezionate stante la loro
mancata approvazione finale; soluzione che,
a contrario, non dovrebbe applicarsi laddove
lo strumento previgente sia regolarmente
approvato, deponendo, quindi, per la tesi
della reviviscenza di tale regolazione).
8.6. Né sembra al Collegio argomento
risolutivo quello fondato sulla doverosità
dell’intervento comunale che risulterebbe
imposto dalla ritenuta applicazione della
regola di cui all’articolo 9 del D.P.R. 380
del 2001. Un simile impostazione non tiene,
invero, conto che anche, laddove si
ipotizzasse la reviviscenza delle previgenti
disposizioni urbanistiche, graverebbe, in
ogni caso, sul Comune l’obbligo di
provvedere alla nuova regolazione, se
ritenuto necessario. Infatti,
costituisce ius receptum il principio secondo cui
l'effetto immediato dell'annullamento di uno
strumento urbanistico consiste nel dovere
dell'Amministrazione di riesercitare la
propria potestà di pianificazione del
territorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
22.08.2013, n. 4255; Consiglio di Stato, Sez. IV,
07.06.2004, n. 3563; Consiglio
di Stato, Sez. V, 23.04.2001, nr. 2415).
Lo conferma la recente sentenza del
Consiglio di Stato, sez. IV, 20.03.2019,
n. 1831 che osserva, in primo luogo, come
“la reviviscenza della precedente disciplina
di piano, conseguente all’effetto
retroattivo dell’annullamento
giurisdizionale, ha […] solo carattere
provvisorio, specie se tale annullamento
riguardi non già il nuovo strumento
urbanistico nella sua integralità e ab imis
(è il caso per esempio affrontato da Cons.
Stato, sez. V, 02.08.2013, n. 4054, con
richiamo a numerosi precedenti) bensì una
sua previsione puntuale”.
Aggiunge il
Giudice d’Appello che, “in tale ipotesi,
come rilevato dalla giurisprudenza
richiamata dallo stesso Comune (TAR per la
Toscana, 10.12.2009, n. 3267), si
pongono evidenti problemi di coordinamento e
compatibilità con l’impianto complessivo
della disciplina generale. L’annullamento fa
quindi contestualmente sorgere in capo
all’Amministrazione l’obbligo di rideterminarsi, rinnovando il segmento
procedimentale annullato e quindi
riesercitando la propria potestà di
pianificazione del territorio (Cons. Stato,
sez. IV, 12.01.2011, n. 133, che
richiama altresì sez. IV, 07.06.2004, n.
3563; sez. V, 23.04.2001, nr. 2415)”.
Conclude il Consiglio di Stato: “ne deriva
che -quand’anche l’Amministrazione si
determinasse ad accettare l’assetto
conseguente alla reviviscenza, in parte qua,
della disciplina previgente- si tratterebbe
pur sempre di una forma di riedizione
dell’attività amministrativa la cui
legittimità va scrutinata in rapporto alle
indicazioni conformative contenute nella
sentenza di annullamento”.
8.7. In sostanza, in presenza di un
annullamento giurisdizionale delle
previsioni urbanistiche rivivono
provvisoriamente le previgenti regole fino
all’adozione di una determinazione da parte
del Comune che potrebbe, in ipotesi,
estrinsecarsi nell’accettazione dell’assetto
conseguente alla reviviscenza.
Tesi questa
che pare conciliare il rigore dogmatico
della tesi che regola i rapporti tra le due
discipline in termini di reviviscenza con
l’esigenza (parimenti rilevante) di non
ritenere la previgente normativa ad
applicazione obbligata preservando il
potere/dovere comunale di rieditare il
potere di conformazione del territorio anche
in conseguenza dell’assetto che si crea per
effetto dell’annullamento delle prescrizioni
nei limiti dello specifico oggetto del
giudizio e, quindi, della sentenza. In tal
modo, si consente all’Amministrazione di
intervenire anche al fine di assoggettare le
aree ad una regolazione comune evitando la
policromia regolatoria che potrebbe, in
ipotesi, crearsi.
8.8. In ragione di quanto esposto,
paiono,
quindi, preferibili le argomentazioni che
sorreggono il primo degli orientamenti
esaminati pur con le ulteriori precisazioni
esposte nel presente provvedimento.
9. L’affermata sussistenza di una possibile
reviviscenza delle previgenti disposizioni
urbanistiche impone, quindi, di adottare
un’ordinanza di sospensione del giudizio ex
articolo 79, primo comma, c.p.a. Infatti, la
non attualità e la ipoteticità
dell'interesse ad agire discende, come
spiegato, dall’essere simile interesse
condizionato dall’esito dell’altro giudizio.
Sussiste, quindi, un legame di
pregiudizialità tra i due giudizi che si
traduce nella doverosità della sospensione
del presente in attesa della definizione del
giudizio condizionante la reviviscenza della
pregressa disciplina sostanziale e, per
l’effetto, dell’interesse processuale
all’annullamento della stessa azionato nel
presente giudizio (cfr., per la necessità
della sospensione in simili casi, le
argomentazioni di Cassazione civile, sez.
lavoro, 23.11.2007, n. 24434).
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia (Sezione Seconda),
Sospende il giudizio. |
EDILIZIA PRIVATA:
Divisione di fabbricati abusivi – Atti di scioglimento della
comunione – Atti mortis causa e inter vivos – Atti
costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di
garanzia o di servitù – Atti da procedure esecutive
immobiliari individuali o concorsuali – Disciplina vigente.
L’art. 40, comma 2, della legge n. 47
del 1985 è applicabile anche agli atti di scioglimento della
comunione. Restano fuori dal campo di applicazione dell’art.
40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, così come –d’altra
parte– dal campo di applicazione dell’art. 46, comma 1, del
d.P.R. n. 380 del 2001 (e prima dell’art. 17, comma 1, della
legge n. 47 del 1985), gli atti mortis causa e, tra quelli
inter vivos, gli atti privi di efficacia traslativa reale
(ossia quelli ad effetti meramente obbligatori), gli atti
costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di
garanzia o di servitù (espressamente esclusi dalle
richiamate disposizioni) e gli atti derivanti da procedure
esecutive immobiliari individuali o concorsuali (artt. 46,
comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della
legge n. 47 del 1985).
...
Atti di scioglimento delle comunioni relativi ad edifici
abusivi o a loro parti – Scioglimento della comunione
ordinaria (comproprietà) – Nullità – Applicazione e limiti.
Gli atti di scioglimento delle comunioni
relativi ad edifici, o a loro parti, sono soggetti alla
comminatoria della sanzione della nullità prevista dall’art.
46 del D.P.R. 380/2001, comma 1, (già art. 17 della L.
47/1985) e dall’art. 40, secondo comma, della legge n. 47
del 1985 per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti
reali relativi ad edifici realizzati prima della entrata in
vigore della legge n. 47 del 1985 dai quali non risultino
gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o
della concessione rilasciata in sanatoria ovvero ai quali
non sia unita copia della domanda di sanatoria corredata
dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione
o dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che
la costruzione dell’opera è stata iniziata in data anteriore
al 01.09.1967.
...
Diritti reali sugli edifici abusivi – Atto di scioglimento
della comunione ereditaria – Natura di negozio inter vivos –
Divisione contrattuale – Differenza con la divisione
testamentaria – Natura di atto mortis causa –
Trasmissibilità iure ereditatis e limiti tra coheredes –
Eliminazione dell’abuso edilizio.
L’atto di scioglimento della comunione
ereditaria costituisce un negozio inter vivos, allo stesso
modo dell’atto di scioglimento della comunione ordinaria.
Mentre, la divisione testamentaria costituisce certamente un
atto mortis causa, perché scaturisce dalla volontà del
testatore e produce i propri effetti, ipso iure, con la
morte del testatore e con l’apertura della successione; la
divisione contrattuale, invece, non può che essere un
negozio tra vivi, in quanto scaturisce dalla volontà degli
eredi ed i suoi effetti sono indipendenti dall’evento della
morte del de cuius.
Né può ritenersi illogico che al de cuius sia consentito
–mediante il testamento– dividere tra i futuri eredi
l’edificio abusivo di cui è proprietario, mentre agli eredi
sia vietato dividere tra loro il medesimo edificio con
apposito contratto divisorio.
La ratio delle disposizioni di cui all’art. 46, comma 1, del
d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 40, comma 2, della legge
n. 47 del 1985 è, infatti, quella di rendere i diritti reali
sugli edifici abusivi “non negoziabili” con atto tra vivi e,
nel contempo, di assicurare –a garanzia della certezza e
della stabilità dei rapporti giuridici– la loro
trasmissibilità iure ereditatis. Gli eredi subentrano nella
medesima posizione del defunto ed acquistano, perciò, il
fabbricato abusivo nel medesimo stato di fatto e di diritto
in cui era posseduto dal de cuius.
È naturale allora che, come il de cuius non avrebbe potuto
alienare l’immobile abusivo a terzi o dividerlo con
l’eventuale comproprietario di esso, così –ove l’edificio
abusivo cada in comunione ereditaria– anche i coheredes non
possano alienare a terzi o dividere tra loro il fabbricato
abusivo edificato dal loro dante causa, essendo tale
immobile destinato a rimanere in comunione fino a quando non
sia sanato (ove possibile) o fino a quando l’abuso edilizio
non sia materialmente eliminato.
...
Divisione endoesecutiva e endoconcorsuale di un fabbricato
abusivo – Atti sottratti alla comminatoria di nullità –
Processo di espropriazione – Garanzie dei creditori –
Domanda di sanatoria dell’abuso.
In materia urbanistica, la divisione
endoesecutiva e quella endoconcorsuale di un fabbricato
abusivo va ricompresa tra gli atti sottratti alla
comminatoria di nullità di cui agli artt. 46 del d.P.R. n.
380 del 2001 e 40 della legge n. 47 del 1985. Inoltre, il
giudizio di divisione endoesecutiva non è affatto autonomo
dal processo di espropriazione, ma si trova in rapporto di
“strumentalità necessaria” rispetto ad esso.
Sicché la possibilità di espropriare i fabbricati abusivi,
nell’ambito delle procedure esecutive individuali e
concorsuali, è necessaria per assicurare ai creditori di chi
è proprietario esclusivamente di fabbricati abusivi la
medesima tutela giurisdizionale dei diritti che è assicurata
ai creditori di chi è proprietario di fabbricati
urbanisticamente legittimi, risultando così implicata dai
principi costituzionali di cui agli artt. 3, primo comma e
24 Cost. e coerente con essi.
Deve pertanto escludersi che le disposizioni di cui agli
artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5
e 6, della legge n. 47 del 1985 pongano norme che possano
essere definite “eccezionali” e che l’interpretazione di
esse incontri limiti di sorta. Impedire la divisione
dell’edificio privo di legittimità urbanistica vorrebbe
dire, perciò, ridurre l’espropriazione forzata alla vendita
della quota indivisa, indirizzandola così verso esiti
economicamente irrisori quanto al possibile ricavato.
In definitiva, deve ritenersi che, con le disposizioni di
cui agli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40,
commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, la legge ha inteso
esentare dalla comminatoria di nullità tutti gli atti
finalizzati a portare a termine la procedura esecutiva
immobiliare, individuale o concorsuale. In tal senso
depongono le disposizioni eccettuative in esame, laddove
esse prevedono, in favore dell’aggiudicatario dell’immobile
abusivo, la riapertura dei termini per presentare domanda di
sanatoria dell’abuso (quando consentita).
...
Opere edilizie abusive – Scioglimento della comunione
(ordinaria o ereditaria)- Divisione effettuata nell’ambito
di esproprio o procedura concorsuale.
In forza delle disposizioni eccettuative
di cui all’art. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e
all’art. 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, lo
scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria)
relativa ad un edificio abusivo che si renda necessaria
nell’ambito dell’espropriazione di beni indivisi (divisione
c.d. “endoesecutiva o nell’ambito del fallimento (ora,
liquidazione giudiziale) e delle altre procedure concorsuali
(divisione c.d. “endoconcorsuale”) è sottratta alla
comminatoria di nullità prevista, per gli atti di
scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici
abusivi, dall’art. 46, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n.
380 e dall’art. 40, comma 2, della legge 28.02.1985, n. 47.
...
Fabbricato abusivo – Domanda di scioglimento di una
comunione (ordinaria o ereditaria) – Divisione giudiziale
della comunione – Compravendite e atti traslativi
immobiliari – Estremi del permesso/concessione o atti ad
essi equipollenti – Mancanza della documentazione attestante
la regolarità edilizia Nullità – Rilevabilità d’ufficio in
ogni stato e grado del giudizio -Sanabilità – Presupposti –
Giurisprudenza.
Quando sia proposta domanda di
scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che
sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad
oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza
della dichiarazione circa gli estremi della concessione
edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti
dall’art. 46 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e dall’art. 40,
comma 2, della legge 28.02.1985, n. 47, costituendo la
regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex
art. 713 cod. civ., sotto il profilo della “possibilità
giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice
realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello
che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia
negoziale.
La mancanza della documentazione attestante la regolarità
edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte
del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado
del giudizio. Pertanto, in presenza nell’atto della
dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo
urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è
valido a prescindere dal profilo della conformità o della
difformità della costruzione realizzata al titolo
menzionato» (Cass.,
Sez. Un., n. 8230 del 22/03/2019).
Trattasi di una nullità che costituisce la
sanzione per la violazione di norme imperative in materia
urbanistico-ambientale, dettate a tutela dell’interesse
generale all’ordinato assetto del territorio, ciò spiega
perché tale nullità sia rilevabile d’ufficio in ogni stato e
grado del giudizio
(cfr. Cass. Sez. Un., n. 23825 del 11/11/2009; Cass., Sez.
2, n. 6684 del 07/03/2019).
Seppur la nullità scaturisca dalla mancata
dichiarazione nell’atto degli estremi del titolo abilitativo
dell’edificio, e non dal carattere illecito dell’edificio in
sé (la nullità, tuttavia, non è impedita dalla dichiarazione
di un titolo abilitativo inesistente; mentre la mancata
dichiarazione del titolo abilitativo esistente può essere
emendata –ex art. 46, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001 e
40, comma 3, della legge n. 47 del 1985– con atto successivo
che contenga la dichiarazione prescritta).
...
Divisione parziale o totale dell’asse ereditario –
Esclusione dell’immobile abusivo – Diritti dei coeredi –
Art. 713 c.c..
Allorquando tra i beni costituenti
l’asse ereditario vi siano edifici abusivi, ogni coerede ha
diritto, ai sensi all’art. 713 del Codice civile, comma 1,
di chiedere e ottenere lo scioglimento giudiziale della
comunione ereditaria per l’intero complesso degli altri beni
ereditari, con la sola esclusione degli edifici abusivi,
anche ove non vi sia il consenso degli altri condividenti (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 07.10.2019 n. 25021 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza di un vincolo paesaggistico, ove per l’intervento edilizio non sia
stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica, l’ordine demolizione
costituisce atto vincolato, a prescindere da quale sia il titolo edilizio
necessario per l’intervento e quindi anche ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche
di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo
paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi
applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva
e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto
paesaggistico circostante..
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione
di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.”
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica
dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca
visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato,
secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di
“visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può
ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare
l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità
dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto
paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato.
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità
amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione
effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento.
---------------
1. Il presente giudizio verte sulla legittimità dell’ordinanza di
demolizione e ripristino adottata dal Comune di Lumezzane a seguito
dell’accertamento della realizzazione, in difformità rispetto al titolo
edilizio, di un sopralzo del sottotetto di una porzione del fabbricato di
proprietà dei ricorrenti.
...
16. Con l’ultimo motivo è denunciata l’inconferenza del richiamo,
contenuto nella motivazione del provvedimento avversato, alla localizzazione
del manufatto in area soggetta a vincolo paesistico ai sensi dell’articolo
142, comma 1, lett. c), d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Secondo i ricorrenti la difformità nella realizzazione del sopralzo non
creerebbe infatti alcun danno al bene tutelato, ovvero al fiume nella cui
fascia di rispetto si trova l’abitazione, non incidendo in alcun modo sul
suo alveo, sulla regimazione delle acque o sulla loro portata e deflusso.
Aggiungono che l’immobile in questione non ha alcun valore storico,
tipologico, simbolico e ha uno scarso valore percettivo.
17. La doglianza è priva di pregio.
18. Va evidenziato, infatti, che in presenza di un vincolo paesaggistico,
ove per l’intervento edilizio non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione
paesistica, l’ordine demolizione costituisce atto vincolato, a prescindere
da quale sia il titolo edilizio necessario per l’intervento e quindi anche
ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche
di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo
paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi
applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva
e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto
paesaggistico circostante (TAR Campania, Napoli, sez. III, 29.05.2019, n.
2881).
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di
demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.”
19. Inoltre quanto alla supposta irrilevanza paesistica dell’opera, “la
giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica
dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca
visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato,
secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di
“visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può
ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare
l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità
dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto
paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato” (TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 01.07.2019, n. 1523).
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità
amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione
effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 07.10.2019 n. 865 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha reiteratamente sancito la natura pertinenziale della
piscina di ridotte dimensioni e cioè:
- “La realizzazione di una piscina prefabbricata di dimensioni
relativamente modeste in rapporto all’edificio a destinazione residenziale,
sito in zona agricola, rientra nell’ambito delle pertinenze […] Ciò che
rileva, infatti, è che sussista un rapporto pertinenziale tra un edificio
preesistente e l’opera da realizzare e tale rapporto sia oggettivo nel senso
che la consistenza dell’opera deve essere tale da non alterare in modo
significativo l’assetto del territorio e deve inquadrarsi nei limiti di un
rapporto adeguato e non esorbitante rispetto alle esigenze di un effettivo
uso normale del soggetto che risiede nell’edificio principale”;
- “Una piscina prefabbricata, di dimensioni normali, annessa ad un
fabbricato ad uso residenziale sito in zona agricola, ha natura obiettiva di
pertinenza e costituisce un manufatto adeguato all’uso effettivo e
quotidiano del proprietario dell’immobile principale”.
---------------
6.2.2. Occorre pertanto stabilire se la piscina della società Il Gi. abbia o
meno carattere pertinenziale rispetto all’immobile abitativo ad essa
attiguo.
La giurisprudenza ha reiteratamente sancito la natura pertinenziale della
piscina di ridotte dimensioni: “La realizzazione di una piscina
prefabbricata di dimensioni relativamente modeste in rapporto all’edificio a
destinazione residenziale, sito in zona agricola, rientra nell’ambito delle
pertinenze […] Ciò che rileva, infatti, è che sussista un rapporto
pertinenziale tra un edificio preesistente e l’opera da realizzare e tale
rapporto sia oggettivo nel senso che la consistenza dell’opera deve essere
tale da non alterare in modo significativo l’assetto del territorio e deve
inquadrarsi nei limiti di un rapporto adeguato e non esorbitante rispetto
alle esigenze di un effettivo uso normale del soggetto che risiede
nell’edificio principale” (TAR Sicilia, Palermo, III, 13.02.2015 n.
441); “Una piscina prefabbricata, di dimensioni normali, annessa ad un
fabbricato ad uso residenziale sito in zona agricola, ha natura obiettiva di
pertinenza e costituisce un manufatto adeguato all’uso effettivo e
quotidiano del proprietario dell’immobile principale” (TAR Liguria,
Genova, I, 21.07.2014 n. 1142; cfr: TAR Puglia, Lecce, I, 01.06.2018 n. 931;
II, 14.01.2019 n. 40; Consiglio di Stato, V, 16.04.2014 n. 1951).
Del resto, in termini sostanzialmente equivalenti si è recentemente espresso
anche questo Tribunale (TAR Umbria, Perugia, I, 09.04.2019 n. 193) alla luce
della disciplina regionale di cui all’art. 118, c. 1, lett. d), L.R. 1/2015
e 21, c. 3, lett. o), R.R. 2/2015.
Considerata la presenza, nel caso di specie, degli indici individuati dalla
giurisprudenza sopra riportata (in particolare: dimensioni relativamente
modeste, adeguatezza all’uso normale da parte del proprietario
dell’abitazione, difetto di autonoma utilizzabilità), la piscina realizzata
dalla società ricorrente deve considerarsi stabilmente destinata al servizio
e/o all’ornamento del fabbricato principale, in modo da integrare una
pertinenza di esso
(TAR Umbria,
sentenza 07.10.2019 n. 509 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva negoziale – Frazionamento – Mutazione
della destinazione giuridica – Classamento degli immobili –
Destinazione turistico alberghiera – Confisca dei manufatti
e attribuzione al patrimonio del Comune – Offerta in vendita
dei singoli lotti abusivamente frazionati – Artt. 30, 44,
D.P.R. n. 380/2001.
Integra il reato di lottizzazione
abusiva negoziale non solamente l’avvenuta cessione di una
porzione immobiliare in maniera tale che, attraverso il suo
frazionamento attuato per via contrattuale, ne sia
irreversibilmente mutata la destinazione giuridica, ma,
trattandosi di un reato di pericolo anche il compimento di
atti che siano astrattamente idonei a dare corso ad una
trasformazione del territorio diversa da quella divisata con
gli strumenti di programmazione urbanistica adottati dagli
organi competenti; atti fra i quali vi è anche, in caso di
lottizzazione negoziale, la offerta in vendita dei singoli
lotti abusivamente frazionati
(nel senso della integrazione del reato anche attraverso la
sola offerta in vendita: Corte di cassazione, Sezione IV
penale, 10.05.2017, n. 22961).
...
Confisca di un immobile abusivamente lottizzato nei
confronti dei terzi acquirenti – Buona fede – Onere della
prova.
In materia urbanistica, la confisca di
un immobile abusivamente lottizzato può essere disposta
anche nei confronti dei terzi acquirenti, qualora nei
confronti degli stessi siano riscontrabili quantomeno
profili di colpa nell’attività precontrattuale e
contrattuale svolta, per non aver assunto le necessarie
informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e
sulla compatibilità dell’intervento con gli strumenti
urbanistici. Il mancato riscontro di tale atteggiamento
soggettiva in capo agli acquirenti esclude la confiscabilità
degli immobili da costoro acquistati. Ciò posto, invece, è
corretta la conferma della confisca degli immobili offerti
in vendita (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2019 n. 40781 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di repressione dell’abusivismo edilizio, non sussiste alcun termine
decadenziale poiché è orientamento costante della giurisprudenza
amministrativa quello secondo cui le opere realizzate senza titolo (quindi
abusive) costituiscono illecito permanente, salve le rare ipotesi (che qui
non vengono dedotte) in cui può essere salvaguardato l’affidamento del
privato rispetto all’atteggiamento ingiustificatamente inerte serbato per
lunghissimo tempo dell’amministrazione pubblica.
---------------
Riguardo al secondo profilo di doglianza, va ricordato che, in materia di
repressione dell’abusivismo edilizio, non sussiste alcun termine
decadenziale, poiché è orientamento costante della giurisprudenza
amministrativa (anche di questo Tribunale), quello secondo cui le opere
realizzate senza titolo (quindi abusive) costituiscono illecito permanente,
salve le rare ipotesi (che qui non vengono dedotte) in cui può essere
salvaguardato l’affidamento del privato rispetto all’atteggiamento
ingiustificatamente inerte serbato per lunghissimo tempo
dell’amministrazione pubblica (cfr. tra le ultime, TAR Marche, 26/04/2019 n.
270; 27/04/2018 n. 318; 20/02/2015 n. 141)
(TAR Marche,
sentenza 04.10.2019 n. 620 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della valutazione circa la necessità del permesso di costruire di
un’opera e della presupposta autorizzazione paesaggistica, nonché della
conseguente sanzione, è necessario considerare nello specifico come essa è
realizzata (forma, dimensioni, ecc.).
Pertanto l'Amministrazione ha l'onere di motivare in modo esaustivo,
attraverso una corretta e completa istruttoria, che rilevi esattamente le
opere compiute, il perché non ritenga che si tratti di una struttura
realizzabile in regime di edilizia libera.
---------------
Il gazebo in legno di facile rimozione, dunque non stabilmente
infissa al suolo e a carattere non permanente, può rientrare a buon titolo
tra gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici, ai sensi
dell’art. 6, comma 1°, lett. e-quinquies), del D.P.R. n. 380/2001, in
coordinamento con quanto stabilito dall’art. 3, comma 1°, lett. e.1),
trattandosi di struttura che non amplia il preesistente edificio, ma di un
manufatto separato a servizio dello stesso, realizzato in area pertinenziale.
Il glossario delle opere libere, di cui al D.M. del 02.03.2018 prevede,
altresì, che il gazebo realizzabile senza titoli edificatori debba essere di
limitate dimensioni e non stabilmente ancorato al suolo.
---------------
Le apparecchiature per il contenimento dei consumi energetici (pannelli
solari) rientrano nell’attività di edilizia libera, ai sensi dell’art.
6, comma 1°, lett. e-quater), del D.P.R. n. 380/2001, e come tali sono
contemplate nel glossario delle opere libere, di cui al D.M. del 02.03.2018.
---------------
La tettoia e il muro di contenimento necessitano delle
autorizzazioni.
La prima -nel caso di specie- è un’opera in legno stabilmente ancorata al
suolo (dunque a carattere permanente e, perciò, a modifica dello stato dei
luoghi) e di dimensioni medie (mq 15,00); le predette caratteristiche
rendono la struttura suscettibile di alterare l’assetto del territorio e di
incidere sul carico urbanistico in termini volumetrici.
Quanto al muro, esso è descritto quale opera “di considerevoli dimensioni” e
realizzata fuori terra; perciò, per l’impatto che essa ha sul territorio e
sull’assetto urbanistico, necessita dei titoli edificatori.
---------------
Va, invece, esaminato nel merito il contenuto dell’ordinanza n. 60/2018,
impugnata con i motivi aggiunti.
Essa ingiunge la demolizione del cancello posto sulla particella 1650 (in
quanto realizzato senza autorizzazione edilizia e paesaggistica), di un
gazebo e di una tettoia (in quanto realizzati senza titoli edilizi e
paesaggistici), di apparecchiature per i consumi energetici poste sulla
copertura dell’edificio (in quanto realizzate in assenza di titoli e non
rientranti nella tipologia di cui all’all. A del D.P.R. n. 31/2017, punto
6), di un muro di contenimento (in quanto realizzato in totale difformità
dalla D.I.A. in data 11.10.2004 e successiva variante, peraltro priva di
efficacia perché carente di autorizzazioni paesaggistiche e archeologiche).
In proposito il Collegio rileva:
1. Il cancello è stato realizzato sulla particella 1650, che
l’ordinanza n. 35/2018, annullata d’ufficio, aveva ritenuto costituire parte
della strada pubblica di proprietà comunale. Quest’affermazione è stata
corretta nell’ordinanza n. 60/2018, ivi riconoscendosi la proprietà dei
ricorrenti sulla particella 1650, in forza di contratto di cessione
stipulato il 07.06.1980, conseguito alla sdemanializzazione dell’area.
Tuttavia l’ordinanza n. 60/2018 ingiunge la demolizione del cancello
ritenendo necessari per la sua installazione titoli edilizi e paesaggistici.
Né l’ordinanza n. 35/2018, né l’ordinanza n. 60/2018 descrivono le
dimensioni e la forma dell’opera, per la cui installazione non sarebbero
necessarie autorizzazioni qualora essa non sia –per dimensioni e
conformazione– idonea ad alterare la sagoma dell’edificio o l’assetto
urbanistico del territorio (art. 22, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 380/2001).
Orbene, ai fini della valutazione circa la necessità del permesso di
costruire di un’opera e della presupposta autorizzazione paesaggistica,
nonché della conseguente sanzione, è necessario considerare nello specifico
come essa è realizzata (forma, dimensioni, ecc.); pertanto l'Amministrazione
ha l'onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa
istruttoria, che rilevi esattamente le opere compiute, il perché non ritenga
che si tratti di una struttura realizzabile in regime di edilizia libera (cfr.
Cons. St., VI, 29.11.2018 n. 6798; id. n. 5781/2018; n. 2715/2018; n.
2701/2018).
2. Il gazebo è descritto come opera in legno di facile rimozione,
dunque non stabilmente infissa al suolo e a carattere non permanente. Essa,
pertanto, può rientrare a buon titolo tra gli elementi di arredo delle aree
pertinenziali degli edifici, ai sensi dell’art. 6, comma 1°, lett.
e-quinquies), del D.P.R. n. 380/2001, in coordinamento con quanto stabilito
dall’art. 3, comma 1°, lett. e.1), trattandosi di struttura che non amplia
il preesistente edificio, ma di un manufatto separato a servizio dello
stesso, realizzato in area pertinenziale (cfr. Cass. pen., III, 02.10.2018
n. 54692); il glossario delle opere libere, di cui al D.M. del 02.03.2018
prevede, altresì, che il gazebo realizzabile senza titoli edificatori debba
essere di limitate dimensioni e non stabilmente ancorato al suolo.
3. Le apparecchiature per il contenimento dei consumi energetici
(pannelli solari), la cui installazione era stata comunicata
all’Amministrazione il 16.03.2004, rientrano nell’attività di edilizia
libera, ai sensi dell’art. 6, comma 1°, lett. e-quater), del D.P.R. n.
380/2001, e come tali sono contemplate nel glossario delle opere libere, di
cui al D.M. del 02.03.2018.
L’installazione delle predette opere (cancello, gazebo e impianti ecologici)
non richiede, dunque, preventivi titoli edificatori o nulla osta.
Diversamente, la tettoia e il muro di contenimento necessitano delle
autorizzazioni. La prima è un’opera in legno stabilmente ancorata al suolo
(dunque a carattere permanente e, perciò, a modifica dello stato dei luoghi)
e di dimensioni medie (mq 15,00); le predette caratteristiche rendono la
struttura suscettibile di alterare l’assetto del territorio e di incidere
sul carico urbanistico in termini volumetrici (cfr.: TAR Campania, Napoli,
III, 27.6.2018 n. 4282; Salerno, II, 02.01.2019 n. 1).
Quanto al muro, esso è descritto quale opera “di considerevoli dimensioni”
e realizzata fuori terra; perciò, per l’impatto che essa ha sul territorio e
sull’assetto urbanistico, necessita dei titoli edificatori (Cons. St., VI,
09.07.2018 n. 4169; TAR Veneto, II, 21.06.2018 n. 663; TAR Piemonte, II,
07.02.2018 n. 160; Cass. pen., III, 21.11.2018 n. 55366).
In conclusione, delle opere per le quali l’ordinanza n. 60/2018 ingiunge la
demolizione solo il gazebo, il cancello e le apparecchiature tecnologiche
sono insuscettibili di titoli edificatori. Perciò sul punto il provvedimento
deve essere annullato, mentre può essere confermato per il resto
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 04.10.2019 n. 564 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione da parte dei ricorrenti di un’istanza di “permesso di
costruire” in sanatoria postuma rispetto agli interventi contestati, implica
acquiescenza rispetto alla necessità del titolo abilitativo edilizio e
smentisce pertanto la sostenibilità dell’assunto circa la riconducibilità
del manufatto contestato ad una delle tipologie di c.d. edilizia libera.
---------------
Il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380
è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti completo ed
ultimato, e non anche per la sanatoria di opere a farsi, dal momento che la
doppia conformità deve sussistere oltre che con riguardo alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della
domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del manufatto
che deve quindi necessariamente precedere e non seguire la domanda di
sanatoria.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto
edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità
non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò
significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul
quale ha chiesto il permesso di costruire.
---------------
2.1 Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
Preliminarmente, quanto all’assoggettabilità degli interventi al previo
rilascio del permesso di costruire, la presentazione da parte dei medesimi
ricorrenti di un’istanza di “permesso di costruire” in sanatoria
postuma rispetto agli interventi contestati, implica acquiescenza rispetto
alla necessità del titolo abilitativo edilizio e smentisce pertanto la
sostenibilità dell’assunto circa la riconducibilità del manufatto contestato
ad una delle tipologie di c.d. edilizia libera.
In ogni caso parte ricorrente, nel riconoscere la non conformità del
manufatto alla normativa urbanistico edilizia vigente nel Comune di
Fossacesia, ha dichiarato, inammissibilmente, di voler ottenere una
sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 condizionata alla “riconduzione
a conformità” dell’intervento abusivo con caratteristiche diverse sì da
renderlo assentibile ai sensi della locale disciplina urbanistica ed
edilizia.
Una tale domanda non è all’evidenza riconducibile allo schema legale tipico
della sanatoria di cui all’art. 36 d.p.r. n. 38072001 che presuppone il
completamento e l’ultimazione dell’intervento in tutte le sue componenti sì
da renderne verificabile la doppia conformità prima della definizione della
istanza e non successivamente.
Ed infatti, il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R.
06.06.2001 n. 380, è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti
completo ed ultimato, e non anche per la sanatoria di opere a farsi, dal
momento che la doppia conformità deve sussistere oltre che con riguardo alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione
della domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del
manufatto che deve quindi necessariamente precedere e non seguire la domanda
di sanatoria.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto
edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità
non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò
significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul
quale ha chiesto il permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. V,
11.10.2005, n. 5495)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 04.10.2019 n. 233 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La riconducibilità di una struttura alla categoria di “pergola”
si verifica se trattasi di strutture in legno o metallo costituite da
elementi verticali portanti e “aperte su tutti i lati e non coperte”.
Sul punto peraltro il Consiglio di Stato, nel delineare i tratti distintivi
delle diverse tipologie di strutture realizzabili all’aperto, ha affermato
che il pergolato ha una funzione ornamentale, è realizzato in una
struttura leggera in legno o in altro materiale di minimo peso, deve essere
facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, e funge da sostegno per
piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e ombreggiatura di
superfici di modeste dimensioni.
Dalla pergola si distingue poi il gazebo quale una struttura leggera,
non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai
lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o
in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente
rimuovibili, che può essere realizzato sia come struttura temporanea, sia in
modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o
ampi terrazzi.
Diversamente la veranda, realizzabile su balconi, terrazzi, attici o
giardini, è caratterizzata quindi da ampie superfici vetrate che
all’occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro, per essa,
dal punto di vista edilizio, determina un aumento della volumetria
dell’edificio e una modifica della sua sagoma e necessita quindi del
permesso di costruire.
---------------
2.2 Di qui correttamente l’istanza di sanatoria avente ad oggetto una
struttura asseritamente amovibile è stata valutata dall’amministrazione
comunale sulla base delle caratteristiche dell’intervento concretamente
realizzato, consistente nella chiusura della terrazza a livello
dell’abitazione di proprietà dei ricorrente attraverso l’installazione di
una struttura in legno chiusa lateralmente da infissi e copertura.
Sicché legittimamente è stata esclusa la riconducibilità della struttura
alla categoria di “pergola” assentibile ai sensi dell’art. 6,
comma 1, del regolamento edilizio, a tenore del quale, esse sono
configurabili quali strutture in legno o metallo costituite da elementi
verticali portanti e “aperte su tutti i lati e non coperte”, mentre
nella specie trattasi di una struttura annessa all’abitazione dei ricorrenti
e dotata di copertura e di chiusure laterali.
Sul punto peraltro il Consiglio di Stato, nel delineare i tratti distintivi
delle diverse tipologie di strutture realizzabili all’aperto, ha affermato
che il pergolato ha una funzione ornamentale, è realizzato in una
struttura leggera in legno o in altro materiale di minimo peso, deve essere
facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, e funge da sostegno per
piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e ombreggiatura di
superfici di modeste dimensioni (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 5409 del
29.09.2011).
Dalla pergola si distingue poi il gazebo quale una struttura leggera,
non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai
lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o
in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente
rimuovibili, che può essere realizzato sia come struttura temporanea, sia in
modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o
ampi terrazzi.
Diversamente la veranda, realizzabile su balconi, terrazzi, attici o
giardini, è caratterizzata quindi da ampie superfici vetrate che
all’occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro, per essa,
dal punto di vista edilizio, determina un aumento della volumetria
dell’edificio e una modifica della sua sagoma e necessita quindi del
permesso di costruire (cfr C.d.S. sez. VI, n. 306/2017)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 04.10.2019 n. 233 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza del tutto consolidata, l'impugnativa del provvedimento di
acquisizione gratuita, non preceduta dalla tempestiva impugnazione
dell'ordinanza di demolizione relativa ad opere abusive, nonché del diniego
di sanatoria delle medesime, comporta che non possano essere denunciati
eventuali vizi di tale atto presupposto in sede di gravame avverso l'atto
applicativo che lo richiami.
Nei casi di mancata impugnazione del provvedimento presupposto deve pertanto
essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento
di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di
acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell'area di
sedime, salvo che non si facciano valere vizi propri della misura
acquisitiva.
---------------
CONSIDERATO:
- che l'impugnata constatazione di inottemperanza con acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate
costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all'inottemperanza all'ordine di demolizione, né in senso
ostativo all'acquisizione può assumere rilevanza l'assenza di motivazione
specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite mediante
l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della
misura, stante la natura interamente vincolata del provvedimento, sicché
risulta necessario solo che in detto atto siano esattamente individuate ed
elencate le opere e le relative pertinenze urbanistiche.
Per giurisprudenza del tutto consolidata -da cui il Tar non ravvisa ragioni
per discostarsi- l'impugnativa del provvedimento di acquisizione gratuita,
non preceduta dalla tempestiva impugnazione dell'ordinanza di demolizione
relativa ad opere abusive, nonché del diniego di sanatoria delle medesime,
comporta che non possano essere denunciati eventuali vizi di tale atto
presupposto in sede di gravame avverso l'atto applicativo che lo richiami.
Nei casi di mancata impugnazione del provvedimento presupposto deve pertanto
essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento
di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di
acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell'area di
sedime, salvo che non si facciano valere vizi propri della misura
acquisitiva (ex multis,Tar Umbria, 20.06.2017, n. 470; Tar Emilia
Romagna, Bologna, II, 13.05.2015, n. 458; Tar Campania, Napoli, III,
03.02.2015, n. 640; Tar Puglia, Bari, III, 16.05.2014, n. 621)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 03.10.2019 n. 231 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di reati edilizi con l'acquisizione al patrimonio del Comune
dell'immobile abusivo viene meno l'interesse alla revoca o alla sospensione
dell'ordine di demolizione da parte del precedente proprietario, ormai terzo
estraneo alle vicende giuridiche dell'immobile».
Infatti, «L'interesse, quale condizione di ammissibilità
dell'impugnazione, sussiste solo se il gravame è idoneo ad eliminare una
decisione pregiudizievole per l'impugnante determinando per il medesimo una
situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente (fattispecie di
richiesta al giudice dell'esecuzione di revoca di ordine di demolizione di
opera abusiva già demolita dal medesimo richiedente).
---------------
In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa
di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita
dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione
stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le
sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
---------------
La questione della natura sanzionatoria penale dell'ordine di
demolizione relativamente alle sentenze Cedu è mal posta.
Nessuna equiparazione può,
infatti, logicamente farsi tra la demolizione e la
confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani
completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione
in pristino (riporta il territorio alla condizione iniziale, prima
dell'abuso) del bene leso, la demolizione.
Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente
prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della
legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa anche dalla eventuale alienazione a
terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale
acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze
della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti
del venditore.
Il tempo trascorso dalla realizzazione della costruzione
abusiva alla demolizione dell'opera non rileva,
pertanto, per la considerazione della violazione di norme
interne e Cedu, poiché fondamentalmente la ricorrente non ha adempiuto sia
all'ordine di demolizione del Comune e sia a quello della sentenza.
Inoltre il tempo potrebbe rilevare solo per un
eventuale abuso di necessità per le esigenze abitative.
---------------
In
materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'imposizione dell'ordine
di demolizione di un manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale
ai sensi dell'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di
sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria
del bene giuridico leso e non ha finalità punitive, producendo effetti sul
soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere o meno
quest'ultimo l'autore dell'abuso, e non comportando la violazione del
principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande
Stevens c. Italia del 04.03.2014.
---------------
5. Il ricorso è inammissibile, principalmente per mancanza di interesse in
quanto l'immobile è stato acquisito al patrimonio del Comune (come
evidenziato dalla stessa ricorrente nel ricorso in cassazione e nella
memoria di replica) e, comunque, per manifesta infondatezza dei motivi (art.
606, comma 3, del cod. proc. pen.).
5.1. L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio disponibile
del Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal
giudice con la sentenza di condanna, e con la sua successiva esecuzione ad
opera del Pubblico ministero, ostandovi soltanto la delibera consiliare che
abbia stabilito l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento
delle opere abusive. (Sez. 3, n. 1904 del 18/12/2006 - dep. 23/01/2007,
Turianelli, Rv. 235645).
L'acquisizione al patrimonio del Comune come principale effetto fa venire
meno l'interesse della ricorrente alla revoca o alla sospensione dell'ordine
di demolizione. Il bene, infatti, ormai è di proprietà del Comune e sullo
stesso nessun interesse giuridico può essere rivendicato dalla ricorrente,
responsabile dell'illecito edilizio (in tal senso già Sez. 3, 07.03.2017 -
udienza del 06.10.2016 - n. 10964, Brio, non massimata e Sez. 3, n. 45432
del 25/05/2016 - dep. 27/10/2016, Ligorio, Rv. 26813301; vedi ora
espressamente Sez. 3, del 01.08.2019, n. 35203, Centioni, non massimata).
Può, quindi, esprimersi il seguente principio di diritto: «In
tema di reati edilizi con l'acquisizione al patrimonio del Comune
dell'immobile abusivo viene meno l'interesse alla revoca o alla sospensione
dell'ordine di demolizione da parte del precedente proprietario, ormai terzo
estraneo alle vicende giuridiche dell'immobile».
Infatti, «L'interesse, quale condizione di ammissibilità
dell'impugnazione, sussiste solo se il gravame è idoneo ad eliminare una
decisione pregiudizievole per l'impugnante determinando per il medesimo una
situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente (fattispecie di
richiesta al giudice dell'esecuzione di revoca di ordine di demolizione di
opera abusiva già demolita dal medesimo richiedente)»
(Sez. 3, n. 24272 del 24/03/2010 - dep. 24/06/2010, Abagnale, Rv. 24768501;
vedi anche Sez. 6, n. 17686 del 07/04/2016 - dep. 28/04/2016, Conte, Rv.
26717201).
6. Comunque il ricorso è manifestamente infondato anche nel merito, poiché in materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa
di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita
dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione
stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le
sanzioni pecuniarie con finalità punitiva
(Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015 - dep. 09/09/2015, Formisano, Rv. 264736;
Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011 - dep. 19/05/2011, Mercurio e altro, Rv.
250336).
6.1. La questione della natura sanzionatoria penale dell'ordine di
demolizione relativamente alle sentenze Cedu è mal posta.
Nessuna equiparazione può,
infatti, logicamente farsi tra la demolizione e la
confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani
completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione
in pristino (riporta il territorio alla condizione iniziale, prima
dell'abuso) del bene leso, la demolizione
(vedi Cass. Sez. 3, 22/10/2009, n. 48925, Viesti; Cass. Sez. 3, 11/02/2016,
n. 5708, Wolgar).
6.2. Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente
prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della
legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa anche dalla eventuale alienazione a
terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale
acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze
della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti
del venditore (Sez. 3, 28/03/2007,
n. 22853, Coluzzi).
Il tempo trascorso dalla realizzazione della costruzione
abusiva alla demolizione dell'opera non rileva,
pertanto, per la considerazione della violazione di norme
interne e Cedu, poiché fondamentalmente la ricorrente non ha adempiuto sia
all'ordine di demolizione del Comune e sia a quello della sentenza.
6.3. Inoltre il tempo potrebbe rilevare solo per un
eventuale abuso di necessità per le esigenze abitative,
ma tale prospettazione risulta assente nel ricorso e genericamente
richiamata (senza nessuna specificazione) nella memoria di replica.
Le questioni personali e familiari della ricorrente non sono rappresentate,
quindi, a questa Corte, che pertanto non può verificare (in linea del tutto
teorica, stante l'inammissibilità del ricorso, per mancanza di motivi
specifici -autosufficienza-) l'incidenza sul caso della recente sentenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo del 21.04.2016, Ivanova e
Cherkezov V/Bulgaria, ricorso 46577/15. La violazione o no, nella
fattispecie concreta, dell'art. 8 della convenzione europea, sotto il
profilo della proporzionalità, tra l'abuso -se di dimensioni tali da farlo
ritenere di necessità- e gli interessi generali della comunità al rispetto
delle norme.
7. Non sussiste neanche una violazione del principio del ne bis in idem,
e conseguentemente di esecuzione di un giudicato ingiusto, come già deciso
da questa Corte di Cassazione con decisione che deve riaffermarsi: «In
materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'imposizione dell'ordine
di demolizione di un manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale
ai sensi dell'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di
sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria
del bene giuridico leso e non ha finalità punitive, producendo effetti sul
soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere o meno
quest'ultimo l'autore dell'abuso, e non comportando la violazione del
principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande
Stevens c. Italia del 04.03.2014»
(Sez. 3, n. 51044 del 03/10/2018 - dep. 09/11/2018, M, Rv. 27412801)
(Corte di cassazione, Sez. II penale,
sentenza 02.10.2019 n. 40396).
---------------
Al riguardo sei legga anche:
● L. B. Molinaro,
Dopo la Corte
Europea anche la Cassazione “apre” all’“abuso di necessità” (28.10.2019
- link a www.filodiritto.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistico-edilizi – Opere accessorie e complementari
e superfetazioni successive – Carattere abusivo
dell’originaria costruzione – Abusiva prosecuzione delle
opere – Inesistenza di un titolo – Ordine di demolizione –
Restitutio in integrum dello stato dei luoghi – Art.
31, c. 9, D.P.R. n. 380/2001 (T.U.E.) – Giurisprudenza.
In materia urbanistica, a prescindere
dall’inesistenza di un titolo che disponga la demolizione
delle opere abusive successivamente eseguite, quando queste
non siano fisicamente separate dall’originaria opera di cui
è stata ingiunta la demolizione, vale il principio secondo
cui l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto
dall’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda
l’edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali
aggiunte o modifiche successive all’esercizio dell’azione
penale e/o alla condanna, atteso che l’obbligo di
demolizione si configura come un dovere di “restitutio in
integrum” dello stato dei luoghi e, come tale, non può non
avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente
contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché
le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il
carattere abusivo dell’originaria costruzione
(Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016, dep. 2017, Molinari,
relativa ad un caso in cui il giudice dell’esecuzione, con
provvedimento ritenuto legittimo, aveva respinto la
richiesta, formulata dal proprietario del piano primo di un
edificio, di revoca o modifica dell’ordine di demolizione
del piano terreno, disposto con sentenza nei confronti del
responsabile dell’abuso; Sez. 3, n. 21797 del 27/04/2011,
Apuzzo, concernente un’ipotesi in cui sul manufatto abusivo
erano stati eseguiti interventi che ne avevano determinato
ulteriori aumenti volumetrici; Sez. 3, n. 2872 del
11/12/2008, dep. 2009, Corimbi) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.10.2019 n. 40074 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Calcolo della distanza tra pareti finestrate
e necessità che sussista almeno un segmento
di esse tale che l'avanzamento di una o di
entrambe le facciate porti al loro incontro.
Il principio affermato
dal Consiglio di Stato, secondo il quale la
distanza fra pareti di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n.
1444, va calcolata con riferimento ad ogni
punto dei fabbricati e non solo alle parti
che si fronteggiano e tutte le pareti
finestrate, prescindendo anche dal fatto che
esse siano o meno in posizione parallela,
vuole dire che la distanza deve computarsi
con riferimento ad ogni punto dei fabbricati
e non solo alle parti che si fronteggiano e
a tutte le pareti finestrate e non solo a
quelle principali e prescindendo dal fatto
che esse siano o meno in posizione
parallela.
Ma tale principio, così come gli analoghi
principi della giurisprudenza di
legittimità, implica pur sempre che sussista
almeno un segmento di esse tale che
l'avanzamento di una o di entrambe le
facciate porti al loro incontro, sia pure
per quel limitato segmento
(Corte di Cassazione, Sez. II,
sentenza 01.10.2019 n. 24471 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
4. Il secondo motivo del ricorso
principale è fondato.
La Corte d'appello di Milano, nell'esame
della fattispecie, ha riconosciuto che,
nella specie, l'intervento edilizio
realizzato dalla Fa. doveva avvenire secondo
la previsione dell'art. 9, n. 2, del d.m.
02.04.1968, recepito dalle NTA del Piano
regolatore generale del Comune di Milano,
approvato il 26.02.2000.
In relazione a tale norma -che impone una
distanza minima di dieci metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti-
la corte d'appello ha richiamato principi
consolidati nella giurisprudenza della
Suprema Corte, sui quali non è il caso di
soffermarsi: la norma è
integrativa della disciplina del codice
civile sulle distanze; non è derogabile in
sede locale
(Cass. n. 1556/2005; n. 19554/2009);
il giudice ha la potestà di
disapplicare la norma regolamentare difforme
ed applicare le distanze previste dal d.m.
1444 quale norma di relazione immediatamente
efficace nei rapporti fra privati
(Cass., S.U. n. 14953/2011).
La corte, quindi, è passata dal piano dei
principi a quello della fattispecie
concreta, rilevando innanzitutto che «il
rispetto della distanza di 10 metri non può
escludersi nel caso in esame in
considerazione del fatto che gli edifici non
potrebbero considerarsi "antistanti"».
Al fine di giustificare tale affermazione ha
ritenuto di poter trovare appiglio nel
principio secondo il quale la "distanza
fra pareti di edifici antistanti, prevista
dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non solo alle parti che si
fronteggiano e tutte le pareti finestrate,
prescindendo anche dal fatto che esse siano
o meno in posizione parallela (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731)".
Quindi ha richiamati i principi di
giurisprudenza sui punti di misurazione
delle distanze, per concludere
perentoriamente che, nel caso di specie,
alla luce delle misurazioni effettuate dal
consulente tecnico, «la distanza tra
l'edificio eretto dalla Fa. e quello di
proprietà degli appellati non rispetto la
distanza di dieci metri, il che rende
evidente l'esistenza della violazione in cui
Fa. s.r.l. è incorsa sotto il profilo in
esame».
5. Secondo la ricostruzione della sentenza
impugnata la proprietà Za. consiste «in
un complesso edilizio a destinazione
residenziale ed artigianale collocato in
fregio alla via ... civico 10, che occupa
quindi la parte nord ovest del lotto e da un
secondo edificio a destinazione artigianale,
che si innesta ad angolo retto ed occupa il
suo lato lungo il rimanente confine nord».
Si può dare per acquisito:
a) che Fa. ha costruito in aderenza rispetto al muro dell'edificio
a destinazione artigianale per poi
realizzare le pareti finestrate a distanza
inferiore a 10 metri dal muro su cui ha
costruito in aderenza;
b) che la parete finestrata è stata edificata dalla Fa. interamente
sul lato nord dell'edificio di fronte
all'edificio a destinazione artigianale,
posto sul confine fra i due lotti e sul cui
muro avanzato la Fa. ha costruito in
aderenza per tutta la sua altezza;
c) che le pareti finestrate sono state edificate in arretramento
rispetto a tale muro: si legge nella
sentenza che l'edificio eretto dalla Fa.
s.r.l. edificate in posizione arretrata «a
partire dal primo piano fuori terra (alla
quota di + mt. 5,20) e per i successivi, per
una lunghezza di mt. 13 sul totale di mt. 24
di lunghezza»;
d) che fra le facciate finestrate dell'edificio la facciata
finestrata del fabbricato degli originari
attori esiste uno sfasamento di 0,72 cm..
6. L'art. 9 del d.m.
1444/1968 prescrive la distanza minima tra
parete e parete finestrata. È pacifico che
l'art. 9 è applicabile anche nel caso in cui
una sola delle due pareti fronteggiantesi
sia finestrata
(Cass., S.U., n. 1486/1997; n. 1984/1999)
e indipendentemente dalla
circostanza che tale parete sia quella del
muovo edificio o dell'edificio preesistente
(Cass. n. 13547/2011), o
che si trovi alla medesima altezza o diversa
altezza rispetto all'altro
(Cass. n. 8383/1999).
Finalità della norma è la
salvaguardia dell'interesse
pubblico-sanitario a mantenere una
determinata intercapedine fra gli edifici
che si fronteggiano quando uno dei due abbia
una parete finestrata
(Cass. n. 20574/1997).
La «antistanza» va
intesa come circoscritta alle porzioni di
pareti che si fronteggiano in senso
orizzontale. Nel caso in cui i due edifici
siano contrapposti solo per un tratto
(perché dotati di una diversa estensione
orizzontale o verticale, o perché sfalsati
uno rispetto all'altro, il giudice che
accerti la violazione delle distanze deve
disporre la demolizione «fino al punto in
cui i fabbricati si fronteggiano»
(Cass. n. 4639/1997).
La Suprema Corte ha osservato che,
ai fini dell'art. 9 del d.min. n.
1444/1968, due fabbricati, per essere
antistanti, non devono essere
necessariamente paralleli, ma possono
fronteggiarsi con andamento obliquo, purché
«fra le facciate dei due edifici sussista
almeno un segmento di esse tale che
l'avanzamento di una o di entrambe le
facciate medesime porti al loro incontro,
sia pure per quel limitato segmento»
(Cass. n. 4175/2001).
Non danno luogo a pareti
antistanti gli edifici posti ad angolo
retto, né quello in cui sono opposti gli
spigoli a potersi toccare se prolungati
idealmente uno verso l'altro. Poiché lo
scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c.
è quello di impedire intercapedini nocive, «la
norma non trova applicazione quando i
fabbricati non si fronteggiano, ma sono
disposti ad angolo retto in modo da non
avere parti tra loro contrapposte»
(Cass. n. 4639/1997). Le
distanze fra edifici non si misurano perciò
in modo radiale, come avviene per le
distanze rispetto alle vedute, ma in modo
lineare
(Cass. n. 9649/2016).
Con riferimento all'analoga materia di "pareti
frontistanti" vigente in materia
antisismica «la
giurisprudenza di questa corte ha avuto modo
di affermare che la disposizione contenuta
nella L. n. 1684 del 1962, art. 6, n. 4 -a
norma della quale l'area posta tra edifici e
sottratta al pubblico transito deve avere la
larghezza minima di sei metri misurata tra i
muri frontali- attiene a tutte le ipotesi in
cui i muri perimetrali di costruzioni
finitime si trovino in posizione
antagonista, idonea a provocare, in caso di
crollo di uno degli edifici, danni a quello
finitimo: pertanto la presenza nei detti
muri perimetrali di spigoli o angoli non
esula dalla sfera di applicazione della
detta norma, in quanto ogni angolo o spigolo
è formato da due linee che, sul piano
costruttivo, costituiscono vere e proprie
"fronti", le quali, a loro volta, realizzano
rispetto all'opposta costruzione, quella
posizione antagonista la cui potenzialità
viene eliminata o attenuata dal rispetto
della distanza minima.
Ha, però, soggiunto che tale principio trova
applicazione nel caso in cui le due rette
che si dipartano dall'angolo secondo le
direttrici dei lati di questo vadano ad
intersecare il perimetro della costruzione
che si vuole opposta, mentre, qualora tali
linee non attraversino idealmente il corpo
dell'edificio vicino, non v'è antagonismo
tra le costruzioni, ne' sussiste quella
frontalità che la norma in oggetto prevede
come presupposto dell'osservanza della
distanza di sei metri a scopo di prevenzione
antisismica tra i segmenti perimetrali degli
edifici»
(Cass. n. 14606/2007).
È stato anche chiarito che «l'art.
9, n. 2, del d.m. n. 1444 del 1968 non
impone di rispettare in ogni caso una
distanza minima dal confine, ma va
interpretato, in applicazione del principio
di prevenzione, nel senso che tra una parete
finestrata e l'edificio antistante va
mantenuta la distanza di mt. 10, con obbligo
del prevenuto di arretrare la propria
costruzione fino ad una distanza di mt. 5
dal confine, se il preveniente, nel
realizzare tale parete finestrata, abbia a
sua volta osservato una distanza di almeno
mt. 5 dal confine.
Ove, invece, il preveniente abbia posto una
parete finestrata ad una distanza inferiore
a detto limite, il vicino non sarà tenuto ad
arretrare la propria costruzione fino alla
distanza di mt. 10 dalla parete stessa, ma
potrà imporre al preveniente di chiudere le
aperture e costruire (con parete non
finestrata) rispettando la metà della
distanza legale dal confine, ed
eventualmente procedere all'interpello di
cui all'art. 875, comma 2, c.c., qualora ne
ricorrano i presupposti»
(Cass. n. 4848/2019; n. 3340/2002).
7. La corte d'appello non si è attenuta a
tali principi.
Il principio affermato dal
Consiglio di Stato (sent. n. 7731/2010),
utilizzato dalla corte d'appello quale
criterio guida nella valutazione della
fattispecie, vuole dire che la distanza deve
computarsi con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non solo alle parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate
e non solo a quelle principali e
prescindendo dal fatto che esse siano o meno
in posizione parallela. Ma tale principio,
così come gli analoghi principi della
giurisprudenza di legittimità, implica pur
sempre che «sussista almeno un segmento
di esse tale che l'avanzamento di una o di
entrambe le facciate porti al loro incontro,
sia pure per quel limitato segmento»
(Cass. n. 4715/2001).
Al contrario la corte di merito, dopo avere
descritto la posizione dei fabbricati, ha
ravvisato la violazione della norma senza
verificare se, in dipendenza della
edificazione Fa. in aderenza fino al colpo
del muro cieco del preesistente edificio
destinato a laboratorio, vi fosse una
effettiva e attuale posizione di frontalità
fra due facciate, nel senso che facendo
avanzare idealmente in linea retta una
facciata verso il fabbricato vicino, le due
facciate si sarebbero incontrate almeno in
un punto (Cass. n. 2548/1972; n. 3480/1972;
n. 9649/2016).
Si ribadisce che la corte di merito non ha
ravvisato la violazione nel fatto in sé
dell'avere la Fa. costruito in aderenza sul
muro cieco preesistente, ma nel minore
arretramento dell'edificio una volta
raggiunto il colmo del tetto; tanto ha fatto
non in applicazione dei principi della
prevenzione integrati con le previsioni di
cui all'art. 9 del d.min. 02.04.1969 (Cass.
n. 3340/2002 cit.), ma avuto riguardo alla
situazione attuale dei fabbricati, così dome
delineatasi per effetto della edificazione
in aderenza.
In questo senso, però, è stata completamente
omessa dalla corte d'appello
la verifica di un'attuale situazione
di frontalità fra le due facciate,
costituente l'essenziale «presupposto per
l'operatività dell'art. 9 del d.min.
02.04.1968, n. 1444»
(Cass. n. 4715/2001, cit.). |
EDILIZIA PRIVATA: Natura
di pertinenza di una piscina condominiale.
E’ qualificabile come pertinenza una piscina
condominiale allocata in un’area di sedime diversa da quella progettuale.
D’altra parte una piscina, collocata in una proprietà privata e posta al
servizio esclusivo della stessa, non ha una sua autonomia immobiliare ed è,
invece, destinata a determinare un qualcosa che si pone al servizio
dell'immobile principale è vicenda effettivamente abbastanza evidente.
La natura pertinenziale determina l’inapplicabilità della regola demolitoria
valevole per le variazioni essenziali, dovendo invece imporre una
considerazione in concreto della procedura da adottare, una volta assodata
la reale natura delle opere.
---------------
1. - L’appello è fondato e merita accoglimento entro i termini di
seguito precisati.
2. - Con il primo motivo di impugnazione, contenuto nel ricorso introduttivo
in primo grado e reiterato in appello, Ba. S. Gi. contestava le
motivazioni del primo giudice in merito alle censure proposte avverso il
diniego opposto dal Comune di Genova alla istanza di accertamento di
conformità relativa alla variante introdotta nel corso dei lavori
autorizzata con permesso di costruire 17/08/2004, relativo alla complessiva
sistemazione del parco pertinenziale di Villa Candida, compresa la piscina
condominiale di proprietà.
Il TAR aveva infatti respinto le censure
dedotte sulla base di più argomenti, ossia: a) la piscina sarebbe stata
realizzata su un’area di sedime diversa da quella individuata nel permesso
di costruire 548/2004; b) la diversa localizzazione della piscina sull’area
di sedime prevista dal p.d.c. costituirebbe una totale difformità rispetto
al titolo; c) il diniego di accertamento di conformità era corretto perché i
lavori della piscina si ponevano in contrasto con il vincolo a destinazione
pubblica previsto nella convenzione di lottizzazione del 1991.
Avverso la ricostruzione del primo giudice, la ricorrente evidenzia, per un
verso, come la localizzazione della piscina, realizzata in prossimità della
localizzazione progettuale originaria doveva essere considerata in un
contesto complessivo, visto che l’oggetto del permesso di costruire del 2004
era tutto il parco di Villa Candida e la sistemazione delle aree interne,
rispetto alle quali la piscina e la sua positura all’interno del compendio,
costituivano elementi pertinenziali di minor rilevanza; per altro verso, la
relativamente diversa positura della piscina sull’area non poteva integrare
una totale difformità ai sensi degli artt. 33, comma 1, D.P.R. 380/2001 e
44, comma 1, L.R. 16/2008 non assimilabile ad alcuna delle fattispecie di
totale difformità ma soprattutto in quanto a sensi dell’art. 44 comma 3,
L.R. 16/2008 una totale difformità era esclusa –come dedotto da Ba. S.
Gi.- dalla natura pertinenziale della piscina.
2.1. - La doglianza deve essere condivisa.
Occorre evidenziare come la natura pertinenziale o meno di un manufatto sia
valutabile sulla scorta di una giurisprudenza del tutto consolidata, che
evidenzia come l'accezione civilistica di pertinenza sia più ampia di quella
applicata nella materia urbanistico-edilizia.
Va così ricordato che la
pertinenza urbanistico-edilizia è configurabile allorquando sussista un
oggettivo nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un
uso servente durevole e sussista una dimensione ridotta e modesta del
manufatto rispetto alla cosa in cui esso inerisce.
A differenza della
nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il
manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo
preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale ed è
funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche allorquando è sfornito di
un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto "carico
urbanistico" proprio in quanto esauriscono la loro finalità nel rapporto
funzionale con l'edificio principale (da ultimo Cons. Stato, II, 22.07.2019, n. 5130; id., IV,
02.02.2012, n. 615; id., V, 13.06.2006, n. 3490).
La detta giurisprudenza continua a mantenere valore anche a seguito
dell’adozione del Testo unico dell’edilizia che, all’art. 3, individua la
nozione di pertinenza, facendo riferimento al titolo necessario alla loro
realizzazione, qualora si tratti di interventi “che le norme tecniche degli
strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale
e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova
costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore
al 20% del volume dell'edificio principale”, permettendo di chiarire la
portata del dettato normativo nei casi dubbi.
Nella situazione in esame, ritiene il Collegio che possa ritenersi assodata
la natura pertinenziale dell’opera oggetto di demolizione, ossia la piscina
allocata in un’area di sedime diversa da quella progettuale, sulla base di
due distinte considerazioni.
In primo luogo, va effettivamente rilevato come l’oggetto del permesso di
costruire del 2004 aveva una consistenza del tutto maggiore, riguardando
l’intero parco di Villa Candida e la sistemazione delle aree interne. In una
ottica di proporzionalità o normalità, che è sempre presente nella
valutazione giurisdizionale sulla natura pertinenziale delle opere (si veda,
in tema di piscine, Cons. Stato, II, 03.09.2019, n. 6068; id., V, 13.10.1993, n. 1041), appare quindi erroneo attribuire un valore esclusivo
ed autonomo alla realizzazione della piscina e al suo collocamento
all’interno del compendio, quando complessivamente l’impatto del manufatto
deve essere mediato con la considerazione complessiva delle opere
autorizzate dal permesso di costruire.
In secondo luogo, non va sottaciuta la rilevanza dell’assenso espresso,
mediante autorizzazione alla proposta variante, dalla Soprintendenza ai beni
architettonici (prot. 21.02.2006 n. 2056) che implicitamente
evidenziava la carenza di fatti lesivi per i beni superindividuali dalla
stessa tutelati.
Conclusivamente, se può apparire scontato “che una piscina, collocata in una
proprietà privata e posta al servizio esclusivo della stessa, non abbia una
sua autonomia immobiliare e sia invece destinata appunto a determinare un
qualcosa che si pone al servizio dell'immobile principale è vicenda
effettivamente abbastanza evidente” (Cons. Stato, IV, 08.08.2006, n. 4780),
è del pari vero che la natura pertinenziale determina l’inapplicabilità
della regola demolitoria valevole per le variazioni essenziali, dovendo
invece imporre una considerazione in concreto della procedura da adottare,
una volta assodata la reale natura delle opere.
3. - L’accoglimento, in parte qua, del primo motivo di diritto, incidendo
radicalmente sul presupposto degli atti oggetto di impugnativa, ne determina
l’annullamento, con assorbimento delle restanti censure, salvo restando
l’obbligo dell’amministrazione di rideterminarsi sulle istanza proposte
dalla parte appellante.
4. - L’appello va quindi accolto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 01.10.2019 n. 6576 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Obbligo
di contribuzione nelle convenzioni urbanistiche.
Il principio generale, secondo cui l'obbligo di
contribuzione è indissolubilmente correlato all'effettivo esercizio dello
ius aedificandi, non opera rispetto ai casi in cui la partecipazione agli
oneri di urbanizzazione costituisca oggetto di un'obbligazione non già
imposta ex lege, ma assunta contrattualmente nell'ambito di un rapporto di
natura pubblicistica correlato alla pianificazione territoriale.
---------------
... per la riforma della
sentenza 13.03.2018 n. 718
del Tar per la Lombardia, Sede di Milano, Sezione Seconda.
...
1. Il Tar per la Lombardia, Sede di Milano, Sezione Seconda, con la sentenza
13.03.2018, n. 718, ha accolto il ricorso proposto dalla Pe.Re s.r.l. (ora
Re.Im. s.r.l.) e, per l’effetto, ha condannato il Comune di Bernareggio al
pagamento, in favore della ricorrente, delle somme di cui in motivazione
(somme a suo tempo versate per le opere non effettivamente realizzate, a
titolo di oneri di urbanizzazione secondaria e di contributo per lo
smaltimento dei rifiuti, per un totale di euro 198.555,92), maggiorate degli
interessi legali dalla domanda giudiziale sino al soddisfo.
Di talché, il Comune di Bernareggio –nel premettere, tra l’altro, come la
convenzione urbanistica del 1998 abbia previsto che il rilascio della prima
concessione edilizia facesse insorgere un obbligo complessivo di pagamento
degli oneri secondari, mentre non avrebbe mai previsto che l’obbligo potesse
ridursi in proporzione a quanto effettivamente edificato entro il periodo di
validità della convenzione– ha proposto il presente appello, articolando i
seguenti motivi di impugnativa:
- la sentenza sarebbe erronea laddove ha escluso l’acquiescenza
mostrata dall’appellata quale evidente conseguenza della stipula di una
nuova convenzione urbanistica in data 20.02.2018, relativa al comparto D,
che rimodulava per questa parte gli accordi urbanistici, disciplinando
sostanzialmente le stesse edificazioni previste dalla convenzione del 1998 e
dalla SCIA del 16.10.2013 per cui erano stati già versati i relativi oneri;
- la convenzione del 20.02.2018 non ha affrontato il tema della
restituzione delle somme versate in precedenza, né contiene clausole di
riserva relative all’esito del giudizio allora pendente al Tar, sicché la
Società avrebbe implicitamente rinunciato a coltivare l’azione ed il
relativo preteso diritto di rimborso, autovincolandosi a rispettare i nuovi
accordi convenzionali per il comparto D;
- rispetto ad alcune bozze iniziali della convenzione, in cui
l’appellata espressamente chiedeva venisse inserito il rimborso degli oneri
oggetto del contenzioso, in compensazione degli oneri dovuti, oppure una
clausola di salvezza degli esiti del presente giudizio, nella versione
finale approvata e sottoscritta non risulterebbe nulla di tutto questo, per
cui la modifica delle bozze e l’accettazione della versione finale da parte
dell’appellata assumerebbero un significato inequivoco;
- la sentenza appellata sarebbe erronea laddove riconosce il
diritto in capo all’appellata alla restituzione degli oneri secondari e
della tassa di smaltimento proporzionalmente alle quote di superficie lorda
non effettivamente edificate rispetto a quanto in origine autorizzato,
atteso che, secondo una giurisprudenza costante, il contenuto della
convenzione urbanistica, una volta sottoscritta, sarebbe vincolante tra le
parti anche qualora preveda oneri più elevati di quelli tabellari usualmente
previsti nel caso di rilascio di permessi singoli;
- negli interventi soggetti a pianificazione attuativa e
convenzione urbanistica non sussisterebbe un principio generale di rigida
proporzionalità tra quanto si edifica e quanto si deve pagare;
- il principio pacta sunt servanda opererebbe persino quando
non si edifichi un metro cubo, mentre, nel caso di specie, si sarebbe
edificato il 97% del totale;
- non potrebbe sostenersi l’inesistenza di differenze sostanziali
tra permesso semplice e convenzione urbanistica, in quanto, in tal modo, il
privato potrebbe sottrarsi liberamente ed unilateralmente ai propri
obblighi, lasciando all’amministrazione comunale complesse problematiche di
“buco di cassa”, nonostante la trasformazione territoriale sia
avvenuta per la quasi totalità;
- gli oneri secondari sarebbero stati quantificati di comune
accordo in sede di rilascio del permesso di costruire del 2009, in
attuazione di un superiore legame contrattuale che ha vincolato l’operatore
a corrispondere tutte le somme come esattamente calcolate secondo l’accordo
convenzionale, per il solo effetto della presentazione di una concessione
edilizia e senza alcun vincolo proporzionale all’edificazione in conclusione
realizzata;
- la convenzione del 1998 avrebbe previsto che il semplice rilascio
della concessione edilizia per attuare le volumetrie convenzionate comporti
l’obbligo di pagare tutti gli oneri concordati;
- in via subordinata, dovrebbe essere fatto valere il diritto del
Comune di Bernareggio di estinguere parzialmente, mediante compensazione ex
art. 1241 c.c., eventuali crediti vantati dalla appellata in relazione al
credito vantato dal Comune in riferimento agli oneri secondari e alla tassa
smaltimento che la Società si è impegnata a versare, sempre in relazione al
comparto D, con la convenzione urbanistica del 2018.
...
2. L’appello è fondato e va di conseguenza accolto.
In particolare, sono fondate le doglianze -in relazione alle quali non
assumono rilievo le eccezioni di inammissibilità formulate dalla Re.Im.
s.r.l.- secondo cui la convenzione del 1998 avrebbe previsto che il semplice
rilascio della concessione edilizia per attuare le volumetrie convenzionate
comporti l’obbligo di pagare tutti gli oneri concordati, per cui, in base al
principio pacta sunt servanda, l’appellata avrebbe dovuto pagare
integralmente i detti oneri sebbene non avesse ultimato l’edificazione
prevista dalla convenzione.
A tale conclusione si perviene attraverso un’analisi sistematica, e non
atomistica, della complessiva operazione posta in essere, onde individuare,
in ragione degli interessi pubblici (di titolarità del Comune di Bernareggio)
e privati (di titolarità dell’imprese stipulante) tutelati dalle parti, i
diritti e le obbligazioni a loro carico che in essa trovano la propria fonte
e la propria giustificazione causale.
2.1. In linea generale, occorre chiarire che gli impegni
assunti in sede convenzionale -al contrario di quanto si verifica in caso
rilascio del singolo titolo edilizio, in cui gli oneri di urbanizzazione e
di costruzione a carico del destinatario sono collegati alla specifica
trasformazione del territorio oggetto del titolo, con la conseguenza che
ove, in tutto o in parte, l’edificazione non ha luogo, può venire in essere
un pagamento indebito fonte di un obbligo restitutorio- non vanno riguardati
isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività
dell'operazione, che costituisce il reale parametro per valutare
l'equilibrio del sinallagma contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità
degli impegni assunti (Cons.
Stato, IV, 15.02.2019, n. 1069).
La causa della convenzione urbanistica, e cioè l'interesse
che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, quindi, va valutata
non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla
oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare
equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della
pubblica amministrazione (Con.
Stato, Sez. V, 26.11.2013, n. 5603).
Inoltre, occorre sottolineare che non è affatto escluso dal
sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere
oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge,
trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera
scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella
ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme
imperative.
La giurisprudenza di questa Sezione, pertanto, con sentenza n. 6339 del
12.11.2018, ha affermato che il principio generale, secondo
cui l’obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all’effettivo
esercizio dello ius aedificandi, non vale rispetto ai casi in cui la
partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisce oggetto di
un’obbligazione non già imposta ex lege, ma assunta contrattualmente
nell’ambito di un rapporto di natura pubblicistica correlato alla
pianificazione territoriale.
2.2. L’esegesi della convenzione stipulata in data 08.04.1998 tra il
Comune di Bernareggio e la Pr.Ro. s.p.a. (cui è succeduta la Società
appellata) porta ad affermare che, nella fattispecie in esame, l’impresa
avrebbe dovuto versare, a seguito del rilascio della prima concessione
edilizia, l’intera somma per oneri di urbanizzazione secondaria e per tassa
di smaltimento rifiuti, sicché, contrariamente a quanto statuito dal giudice
di primo grado, nessun obbligo restitutorio grava sul Comune di Bernareggio.
Nelle premesse alla convenzione, costituenti parte integrante dell’atto, gli
stipulanti hanno rappresentato che:
- il Comune di Bernareggio, con deliberazione del Consiglio
Comunale n. 3 del 15.02.1980, ha adottato un Piano delle aree da destinare
ad insediamenti produttivi (P.I.P.) ai sensi dell’art. 27 della legge n. 865
del 1971;
- il suddetto P.I.P. è stato approvato ai sensi di legge;
- il Comune, conseguentemente, intende dare esecuzione allo stesso
assegnando in proprietà le aree a favore dei soggetti interessati alla
realizzazione delle opere previste dal P.I.P.;
- la società Pr.Ro. s.p.a. ha chiesto ed intende accettare
l’assegnazione in proprietà di alcune aree oltre individuate, assumendo
tutte le conseguenti obbligazioni, giusta delibera n. 76 del 28.11.1997.
Pertanto, il Comune di Bernareggio, ai sensi dell’art. 2 della convenzione,
ha trasferito ed assegnato in proprietà alla Pr.Ro. s.p.a. un’area, facente
parte del P.I.P., convenzionalmente denominata lotto 1 e l’assegnatario, ai
sensi dell’art. 3, si è impegnato a realizzare e mantenere sulla detta area
tutte le costruzioni di cui al progetto e relative descrizioni.
Ciò che maggiormente interessa in questa sede, però, è il contenuto del
combinato disposto degli artt. 4 e 7 della convenzione.
L’art. 4 stabilisce che “la domanda di concessione edilizia per
realizzare le opere di cui al presente art. 3 dovrà essere presentata entro
e non oltre dieci anni da oggi, salvo proroga da concedersi dietro
valutazione dell’Autorità Comunale in caso di giustificato ritardo” e
che “la domanda di concessione edilizia potrà riguardare, anziché tutte
le opere previste dal progetto, parte di dette opere purché la consistenza
delle stesse non sia inferiore a …”, mentre l’art. 7 dispone che “a
fronte del rilascio della concessione edilizia di cui al precedente art. 4
l’assegnatario corrisponderà al Comune il 100% degli oneri afferenti
l’urbanizzazione secondaria e lo smaltimento rifiuti solidi urbani”.
Di talché, l’opzione ermeneutica più plausibile, in quanto
più coerente con la lettera e con la ratio dell’accordo stipulato, è
quella di ritenere che l’obbligazione di pagamento del 100% degli oneri di
urbanizzazione e di smaltimento rifiuti solidi urbani abbia la propria fonte
nel rilascio della concessione edilizia e sia perciò dovuta nella sua
interezza, ancorché l’edificazione prevista non sia poi completamente
realizzata dall’impresa.
Decorsi dieci anni dalla stipula della convenzione, il Comune, con
deliberazione del Consiglio Comunale n. 23 del 22.04.2009, con ampia
motivazione, ha concesso una proroga dei termini di validità della
convenzione, ai sensi dell’art. 4 della stessa, limitatamente al tempo
massimo necessario previsto dalle norme in materia di edificazione
corrispondente a 3 anni, nonché l’ulteriore spazio temporale dalla data di
scadenza della validità della convenzione alla data di rilascio del permesso
di costruire.
La decisione è stata assunta:
“ritenuta la opportunità di prorogare per le motivazioni sopra esposte il
termine di validità della convenzione, al solo fine di consentire il
completamento delle attività edilizie oggetto della richiesta di permesso di
costruire pervenuta al prot. n. 5956 del 20/04/2009 in quanto senza la
proroga del termine di validità della convenzione mancherebbe il presupposto
per l’edificazione nell’ambito del PIP;
considerato inoltre che la proroga della convenzione viene concessa
limitatamente al tempo massimo necessario previsto dalle norme in materia di
edificazione corrispondente a 3 anni, nonché l’ulteriore spazio temporale
dalla data di scadenza della validità della convenzione alla data di
rilascio del permesso di costruire”.
Il permesso di costruire è stato rilasciato in data 23.06.2009, sicché in
tale data è sorta l’obbligazione a carico dell’impresa per il pagamento
integrale degli oneri di urbanizzazione secondaria e tassa di smaltimento
dei rifiuti.
In tale contesto la sentenza di primo grado ha rappresentato come la
ricorrente abbia affermato che:
- la SLP (superficie lorda di pavimento) prevista dal permesso di
costruire del 2009 e in relazione alla quale sono stati corrisposti a suo
tempo gli oneri di urbanizzazione secondaria e il contributo per lo
smaltimento dei rifiuti era pari a 16.685,76 mq;
- a seguito delle varianti al titolo, la superficie in progetto si
è ridotta a 13.420,41 mq, dei quali 1.853,40 mq imputabili al lotto D, non
realizzato;
- la superficie non effettivamente realizzata, rispetto a quanto
previsto dal permesso di costruire originario, ammonterebbe a mq 4.896,74
(al netto di due atti di cessione di volumetria agli acquirenti degli
immobili effettivamente realizzati, per complessivi mq 220,00);
- conseguentemente, la società sarebbe creditrice del Comune per il
complessivo importo di euro 189.944,54 derivante dalla somma dei maggiori
oneri di urbanizzazione secondaria (la parte ha poi precisato l’importo del
credito in euro 198.555,92).
In senso contrario a tale conclusione va, tuttavia, ribadito che, a fronte “del
rilascio della concessione edilizia di cui al precedente art. 4” era,
ormai, sorta l’obbligazione per l’assegnatario di corrispondere al Comune “il
100% degli oneri afferenti l’urbanizzazione secondaria e lo smaltimento
rifiuti solidi urbani”, e in tale momento, alla stregua della chiara
previsione dell’art. 7 della convenzione, non solo era sorto l’obbligo ma
era stata definitivamente cristallizzata la determinazione del suo importo.
In relazione a tali premesse, in un contesto convenzionale nel quale –come
anticipato- l’obbligo di contribuzione non è indissolubilmente correlato
alla esatta misura dell’effettivo esercizio dello ius aedificandi,
vicende successive al rilascio della concessione, quali parziali varianti in
diminuzione della superficie in progetto, non altrimenti recuperata, non
assumono pattiziamente rilievo ai fini della riduzione del quantum
debeatur; né viene in considerazione, nella fattispecie, l’ipotesi
estrema in cui tutto l’intervento edificatorio previsto dalla convenzione
divenga del tutto o in misura largamente prevalente irrealizzabile.
La Re.Im. s.r.l., nelle proprie memorie difensive, nel sostenere di non
essere tenuta al pagamento degli oneri per la parte non edificata, ha, poi,
posto in rilievo che il Comune ha impedito di proseguire nell’edificazione,
ritenendo (a torto, secondo la prospettazione dell’impresa) che la
sopraggiunta norma del piano territoriale di coordinamento provinciale della
Provincia di Monza e Brianza fosse a ciò di impedimento, sicché
l’inadempimento della convenzione, in caso di incompatibilità con il PTCP,
sarebbe imputabile all’Amministrazione, ovvero l’inadempimento sarebbe
quantomeno giustificato da impossibilità sopravvenuta della prestazione.
La tesi non è persuasiva.
Con provvedimento del 09.08.2013, emesso in relazione a un’istanza di
permesso di costruire in variante presentata dalla società Pe.Re s.r.l., il
Comune ha affermato che la proroga del permesso di costruire non può essere
concessa in quanto non motivata da fatti sopravvenuti estranei alla volontà
del titolare del permesso.
La realizzazione dell’intervento sarebbe stata poi preclusa dalla
sopravvenienza del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) di
Monza e della Brianza, che avrebbe reso l’area inedificabile.
Il ricorso proposto dalla Re.Im. Srl e dalla Pe.Re srl per l’annullamento
della deliberazione del Consiglio provinciale della Provincia di Monza e
della Brianza n. 16 del 10.07.2013, avente ad oggetto l’approvazione del
Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Monza e della Brianza
è stato dichiarato in parte improcedibile ed in parte respinto con la
sentenza del Tar per la Lombardia, Sede di Milano, Sezione Seconda,
30.06.2017, n. 1474 e avverso tale sentenza non risulta proposto appello.
Pertanto –fermo quanto detto circa la particolare natura del sinallagma nel
caso della presente convenzione, che la rende nel caso di specie insensibile
alle predette parziali riduzioni della superficie edificata-
deve ritenersi che l’obbligazione di integrale pagamento degli oneri
non si sia estinta neppure a seguito di una qualche forma di risoluzione,
totale o parziale, della convenzione per impossibilità sopravvenuta dovuta a
causa non imputabile ai sensi degli artt. 1463 o 1464 c.c., non essendo
stata integrata alcuna di tali fattispecie risolutorie; parimenti è da
escludere che si sia in presenza di un inadempimento della convenzione
imputabile al Comune.
In proposito va ribadito che il PTCP della Provincia di Monza e della
Brianza, come rilevato, è stato approvato ben oltre dieci anni dopo la
stipula della convenzione in data 08.04.1998.
Di talché, l’impossibilità di eseguire per intero l’edificazione può essere
imputata all’imprenditore, il quale, ai sensi del richiamato art. 4 della
convenzione stessa ben avrebbe potuto e dovuto chiedere la concessione o le
concessioni per tutti gli interventi nel termine di dieci anni
originariamente previsto e completare tempestivamente la loro realizzazione
(o eventualmente, per effetto, della proroga, realizzare tempestivamente
tutte le opere a seguito dell’effettivo rilascio della prima concessione).
3. Per tutto quanto esposto, assorbite le ulteriori doglianze, l’appello
proposto dal Comune di Bernareggio deve essere accolto e, per l’effetto, in
riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso proposto
in primo grado dalla Re.Im. s.r.l.
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.10.2019 n. 6561 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire in sanatoria condizionato alla
realizzazione di interventi volti a
eliminare gli abusi.
Un provvedimento di
accertamento di conformità in sanatoria
condizionato all’eliminazione degli abusi si
palesa abnorme in quanto la previsione che
l’immobile sia accertato conforme a
condizione che in futuro siano eliminati gli
abusi rilevati (nella fattispecie tra
l’altro già accertati definitivamente con
una sentenza) si pone in contrasto con la
stessa natura dell’atto di accertamento di
conformità.
Invero, la giurisprudenza ha chiarito che la
sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 può
essere rilasciata solo previa verifica della
doppia conformità dell’intervento edilizio
alla disciplina urbanistica vigente sia al
momento della realizzazione dell’intervento
abusivo, sia al momento della presentazione
della domanda; essa presuppone quindi la già
avvenuta esecuzione delle opere e il
permesso di costruire in sanatoria non può
pertanto essere subordinato alla
realizzazione di ulteriori interventi, sia
pur finalizzati a ricondurre l'immobile
abusivo nell'alveo di conformità degli
strumenti urbanistici o compatibili con il
paesaggio: la conformità agli strumenti
urbanistici deve già sussistere
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.10.2019 n. 2088 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
B.1 Venendo all’esame del primo ricorso
per motivi aggiunti, diretto contro il
provvedimento dei SUAP Associato Lomazzo
prot. 1520 del 06.03.2017 (recante
l’annullamento in autotutela del permesso di
costruire in sanatoria prot. 7212 del
10.11.2015) e contro la conseguente
ordinanza di demolizione del Comune di
Cermenate n. 1/17 dell’11.04.2017, il motivo
6.a), con il quale la ricorrente fa valere
vizi di illegittimità derivata dagli atti
impugnati in via principale, è infondato in
quanto quegli atti sono venuti meno e i
nuovi provvedimenti si reggono su profili
autonomi, oggetto delle doglianze che ora
verranno esaminate.
B.2 Il motivo 6.b è infondato.
In primo luogo occorre precisare che
l’atto
di autotutela impugnato ha per oggetto un
provvedimento di accertamento di conformità
in sanatoria condizionato all’eliminazione
degli abusi.
L’atto annullato si palesa abnorme in quanto
la previsione che l’immobile sia accertato
conforme a condizione che in futuro siano
eliminati gli abusi rilevati (e già
accertati definitivamente con una sentenza)
si pone in contrasto con la stessa natura
dell’atto di accertamento di conformità.
Infatti la giurisprudenza ha chiarito che “la
sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 può
essere rilasciata solo previa verifica della
doppia conformità dell’intervento edilizio,
alla disciplina urbanistica vigente sia al
momento della realizzazione dell’intervento
abusivo, sia al momento della presentazione
della domanda. Essa presuppone quindi la già
avvenuta esecuzione delle opere. Il permesso
di costruire in sanatoria non può pertanto
essere subordinato alla realizzazione di
ulteriori interventi, sia pur finalizzati a
ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di
conformità degli strumenti urbanistici o
compatibili con il paesaggio: la conformità
agli strumenti urbanistici deve già
sussistere” (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 20.11.2015 n. 1239; Cons. Giust.
Amm. Regione Siciliana, 15.10.2009, n. 941;
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.11.2010,
n. 7311; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
22.10.2014, n. 2523; 13.08.2015, n. 1900).
Si tratta quindi di un atto con sviamento
dalla causa tipica e che correttamente
l’Amministrazione comunale ha ritenuto di
dover rimuovere in autotutela, in quanto non
conforme allo schema legale tipico; il
deposito, poi, da parte della ricorrente, di
una perizia rivelatrice dell’impossibilità
di demolizione delle opere abusive,
successiva ad altri atti con i quali la
ricorrente si era invece impegnata a
demolire dette opere, è solo un motivo
ulteriore che ha reso palese
all’amministrazione che la ricorrente non
aveva intenzione di ricondurre lo stato di
fatto allo stato di diritto.
Neppure a tale atto di autotutela è
possibile applicare le regole dettate
dall'art. 15 del DPR 380/2001 per la
dichiarazione di decadenza del permesso di
costruire per mancata esecuzione dei lavori
nei termini, in quanto l’atto di
accertamento di conformità non abbisogna,
per sua natura, di termini di esecuzione dei
lavori.
Venendo poi all’affermazione secondo la
quale l’amministrazione avrebbe effettuato
con il suddetto atto una nuova valutazione
della situazione di fatto e di diritto
dell’immobile tale da superare quanto
stabilito nella sentenza del TAR Lombardia,
Milano, sez. II 19/02/2015 n. 514, deve
escludersi che questa sia stata l’intenzione
dell’amministrazione, che nell’atto
ribadisce più volte l’intenzione di dare
esecuzione alla sentenza.
Per quanto riguarda le ulteriori
contestazioni di merito relative alla
legittimità della realizzazione del
fabbricato posto sul mappale n. 651 e 829,
occorre in linea generale precisare che il
giudizio di impugnazione dell’atto di
annullamento dell’accertamento di conformità
e del conseguente ordine di demolizione, non
può estendersi all’accertamento della
legittimità o dell’idoneità del Permesso di
Costruire a Sanatoria n. 2015- CER/104 del
10.11.2015 prot. n. 7212 annullato, a
ripristinare la situazione quo ante, né
tanto meno può essere utilizzato per
contestare il provvedimento prot. n.
5782/2012 del 19.11.2012, con il quale è
stata respinta la prima richiesta di
accertamento di conformità e l’ordinanza di
demolizione prot. n. 3688 del 22.02.2013 del
Comune di Cermenate, ormai divenuti
inoppugnabili. Osta a tale conclusione la
natura impugnatoria del giudizio
amministrativo ed il principio di
autosufficienza dei motivi sulla base dei
quali l’amministrazione ha adottato l’atto
impugnato.
Così relativamente alle distanze legali tra
le costruzioni e dalla strada, occorre
precisare che la ricorrente intende
conservare le “prescrizioni imposte dal
titolo edilizio che, ora, si intende
illegittimamente rimuovere”. In merito
il profilo di impugnazione è inammissibile
in quanto non è indicato alcuna ragione
giuridica in base alla quale tali distanze
debbano essere confermate.
Per quanto riguarda, invece, “la
questione della fascia di rispetto stradale”,
come dice la ricorrente, il motivo è
inammissibile. Infatti il provvedimento
impugnato si limita ad affermare che
sussiste un interesse pubblico ad evitare “una
riduzione della fascia di rispetto della
strada”, mentre la ricorrente contesta
la mancata applicazione dell’art. 6.3 delle
NTA in una situazione specifica senza
indicare di quale situazione si tratti e
senza che l’atto contesti l’abuso. E’
intuibile che la ricorrente faccia
riferimento ai vizi individuati negli atti
precedenti che però sono ormai divenuti
definitivi.
Anche la questione relativa
all’insussistenza della dedotta violazione
delle distanze legali ex art. 9 del DM
LL.PP. 1444/1968 è inammissibile in quanto
la questione dell’idoneità dell’arretramento
della parete finestrata a rimuovere il vizio
è superata dall’affermata impossibilità di
demolizione per danno alla parte conforme,
accertata dai tecnici della ricorrente.
A ciò si aggiunge che, secondo
l’orientamento di questo Tribunale in
materia di distanze tra costruzioni (TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 26/06/2019 n.
1484), l’adozione di misure alternative alla
demolizione al fine di ricondurre la
situazione di fatto a quella di diritto si
scontra con l’art. 36 del DPR 380/2001, il
quale dispone che il permesso in sanatoria
può essere ottenuto se l’intervento abusivo
risulti conforme alla disciplina urbanistica
ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda (cd.
doppia conformità). L’accertamento della
doppia conformità costituisce quindi
condicio sine qua non per il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria (ex
multis: Cons. Stato, VI, 02.01.2018, n.
2; 20.11.2017, n. 5327; 13.10.2017, n. 4759;
18.07.2016, n. 3194; Cons. Stato, IV,
05.05.2017, n. 2063).
Per quanto riguarda poi il profilo della
dedotta violazione del principio di
proporzionalità nella sanzione, in quanto
l’amministrazione vorrebbe “far demolire
un intiero fabbricato per la quasi totalità
regolare per il solo fatto che non sia
tecnicamente possibile demolire la porzione
irregolare”, occorre rammentare quanto
stabilito dalla sentenza TAR Lombardia,
Milano, sez. II 19/02/2015 n. 514 passata in
giudicato.
La sentenza, al punto 42, afferma che "Per
quanto concerne infine l’argomentazione che
lamenta la mancata valutazione della
possibilità di applicazione della sanzione
pecuniaria, si rileva che, come detto sopra,
il manufatto oggetto di causa è stato
realizzato in totale assenza di titolo; e
che, quindi, trova applicazione nel caso di
specie l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001
il quale disciplina specificante il
trattamento sanzionatorio riservato a questa
tipologia di abusi, prevedendo, quale unica
misura, la demolizione".
L’istanza redatta dalla ricorrente in data
07.10.2016 è supportata dalla perizia
dell’ing. Vi. (doc. 7 e 8 della ricorrente)
secondo la quale alla fattispecie è
applicabile l’art. 34 del DPR 380/2001,
relativo agli interventi eseguiti in
parziale difformità dal permesso di
costruire, in quanto la rimozione delle
strutture portanti verticali non
permetterebbe alle travi che sorreggono le
porzioni rimanenti delle solette di avere
appoggio.
Tale tesi tuttavia si pone in
contrasto con quanto già affermato dalla
sentenza citata, che ha già espressamente
specificato che l’abuso oggetto del giudizio
rientra nell’ambito di applicazione
dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 e
non nell’art. 34 del medesimo corpo
normativo, con la conseguenza che su tale
questione si è già formato il giudicato
esplicito che impedisce di riproporre la
questione in un nuovo giudizio.
Alla stessa conclusione della sentenza, e
ponendo essa a fondamento del suo
ragionamento, è giunto il Comune di
Cermenate nel parere pervenuto allo
Sportello Unico di Lomazzo in data
16.11.2016 prot. 8237 (doc. 2 e 3 della
ricorrente) il quale evidenzia come l’art.
34, c. 2, del DPR 380/2001 non sia
applicabile alla diversa fattispecie di
edificio realizzato in assenza di titolo
abilitativo.
B.3 Anche il motivo 6c) è infondato.
Quanto all’esercizio del potere di
autotutela, occorre precisare che il decorso
di un certo tempo tra l’emanazione dell’atto
di accertamento di conformità condizionato
alla demolizione degli abusi, avvenuta in
data 10.11.2015, ed il suo annullamento del
06/03/2017 è stato determinato anche dal
fatto che la ricorrente prima si è impegnata
a realizzare le demolizioni e poi ha
dichiarato, con perizia depositata in data
31.01.2017, che la demolizione del capannone
non poteva essere eseguita senza danno per
la parte conforme.
Quindi il mutamento della posizione comunale
e dello Sportello unico di Lomazzo è dipeso
dalla modifica dell’atteggiamento della
parte ricorrente la quale, chiamata a
giustificare l’inadempimento ai termini
delle demolizioni, ha sorprendentemente
cambiato la sua posizione, rendendosi
indisponibile all’eliminazione dell’abuso
relativo alla distanza legale.
A ciò si aggiunge che, come chiarito nel
ricorso per motivi aggiunti, l’istanza di
accertamento di conformità presentata dalla
ricorrente era volta proprio a superare gli
effetti della pronuncia del TAR adito resa
tra le parti.
Non è quindi possibile ritenere che sussista
un affidamento meritevole di tutela nella
ricorrente.
B.4 Anche il motivo 7.a), che ha per oggetto
l'ordinanza comunale di demolizione n. 1/17
emanata a seguito dell’annullamento in
autotutela dell’atto di accertamento di
conformità in sanatoria condizionato, è
infondato.
L'art. 2, comma 1, del DPR 160/2010
stabilisce, tra l'altro, che "è
individuato il SUAP quale unico soggetto
pubblico di riferimento territoriale per
tutti i procedimenti che abbiano ad oggetto
l'esercizio di attività produttive e di
prestazione di servizi, e quelli relativi
alle azioni di localizzazione,
realizzazione, trasformazione,
ristrutturazione o riconversione,
ampliamento o trasferimento, nonché
cessazione o riattivazione delle suddette
attività".
L'art. 4, poi, prevede che "i
comuni possono esercitare le funzioni
inerenti al SUAP in forma singola o
associata tra loro" (comma 5), nonché "salva
diversa disposizione dei comuni interessati
e ferma restando l'unicità del canale di
comunicazione telematico con le imprese da
parte del SUAP, sono attribuite al SUAP le
competenze dello sportello unico per
l'edilizia produttiva" (comma 6).
La giurisprudenza (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 06.11.2009 n. 1585), seppur in
epoca anteriore alla su indicata disciplina
ma con considerazioni che appaiono comunque
coerenti con la normativa in esame, ha
chiarito che
la trasmissione della pratica
al SUAP non implica recesso del Comune dalle
proprie prerogative e responsabilità,
giacché lo Sportello Unico non rappresenta
un nuovo centro di competenze, ma, com’è
noto, un modulo organizzativo e
procedimentale composito, una sorta di “procedimento
di procedimenti” nel quale confluiscono
gli atti e gli adempimenti facenti capo a
diverse competenze, e richiesti dalle norme
in vigore perché l'insediamento produttivo
possa legittimamente essere realizzato; in
questo senso, quelli che erano, in
precedenza, autonomi provvedimenti, ciascuno
dei quali veniva adottato sulla base di un
procedimento a sé stante, diventano “atti
istruttori” al fine dell'adozione
dell'unico provvedimento conclusivo, titolo
per la realizzazione dell'intervento
richiesto.
In sostanza
la legge attribuisce al SUAP una
competenza ad adottare i provvedimenti di
amministrazione attiva relativi alle
imprese, realizzando un ufficio comune a più
amministrazioni che costituisce un centro
unico di riferimento per i titolari di
impresa. Tra di essi rientra anche la
cessazione dell’attività d’impresa, nel
senso che lo sportello è il punto unico per
la presentazione delle comunicazioni
relative alla chiusura dell’impresa.
Negli
atti relativi alla cessazione dell’attività,
a differenza di quanto afferma la
ricorrente, non rientra l’adozione di un
provvedimento repressivo di abusi edilizi,
trattandosi di un procedimento ad iniziativa
d’ufficio, i cui effetti sull’attività
economica sono del tutto eventuali ed
indiretti. |
EDILIZIA PRIVATA: Ciò
che viene sanzionato -nella misura massima
di € 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è
la realizzazione dell'abuso edilizio in sé
considerato (nel qual caso, evidentemente,
rileverebbe la consistenza e l'entità dello
stesso), bensì (unicamente) la mancata
spontanea ottemperanza all'ordine di
demolizione legittimamente impartito dalla
P.A. per opere abusivamente realizzate in
zona vincolata, che è condotta (omissiva)
identica, sia nel caso di abusi edilizi
macroscopici, sia nell'ipotesi di più
modesti abusi edilizi: il disvalore (ex
se rilevante) "colpito" è
l'inottemperanza all'ingiunzione di
ripristino (legittimamente impartita dalla
P.A.) inerente agli abusi in quelle
particolari (e circoscritte) "aree"
ed in quei particolari (e circoscritti)
"edifici" specificamente indicati nell'art.
27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del
2001.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che
l’abuso sia stato realizzato prima
dell’entrata in vigore della norma, non
avendo la ricorrente provveduto alla
demolizione dopo l’entrata in vigore della
norma citata.
Per l’inconfigurabilità, in
simili casi, di una violazione del principio
di irretroattività delle norme che
introducono misure sanzionatorie si è
espresso di recente il Consiglio di Stato, assegnando rilievo
decisivo alla circostanza che la mancata
esecuzione dell’ordine di demolizione si
collochi in epoca successiva all’entrata in
vigore del menzionato art. 31, comma 4-bis.
---------------
D. Con il terzo ricorso per motivi
aggiunti la ricorrente ha impugnato
l'ordinanza comunale n. 3 del 16.11.2017,
notificata in data 17.11.2017, recante
irrogazione di sanzione pecuniaria ex art.
31, comma 4-bis, del DPR 380/2001 nella
misura massima pari ad € 20.000,00, e la
delibera di giunta comunale n. 217 del
30.10.2017 recante approvazione dei criteri
per la determinazione ed applicazione delle
sanzioni ex art. 31, comma 4-bis, del DPR
380/2001.
Il motivo n. 11), di invalidità derivata è
infondato a causa della reiezione di tutti i
motivi precedenti.
Anche il motivo n. 12), secondo il quale la
sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31,
comma 4-bis, del DPR 380/2001 non può essere
applicata ad abusi realizzati prima
dell'entrata in vigore della stessa, è
infondato.
La giurisprudenza alla quale il Collegio si
conforma (TAR Campania, Salerno, Sez. I n.
1045 del 06.07.2018) ha chiarito che ciò che
viene sanzionato -nella misura massima di
Euro 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è
la realizzazione dell'abuso edilizio in sé
considerato (nel qual caso, evidentemente,
rileverebbe la consistenza e l'entità dello
stesso), bensì (unicamente) la mancata
spontanea ottemperanza all'ordine di
demolizione legittimamente impartito dalla
P.A. per opere abusivamente realizzate in
zona vincolata, che è condotta (omissiva)
identica, sia nel caso di abusi edilizi
macroscopici, sia nell'ipotesi di più
modesti abusi edilizi: il disvalore (ex
se rilevante) "colpito" è
l'inottemperanza all'ingiunzione di
ripristino (legittimamente impartita dalla
P.A.) inerente agli abusi in quelle
particolari (e circoscritte) "aree"
ed in quei particolari (e circoscritti)
"edifici" specificamente indicati nell'art.
27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del
2001.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che
l’abuso sia stato realizzato prima
dell’entrata in vigore della norma, non
avendo la ricorrente provveduto alla
demolizione dopo l’entrata in vigore della
norma citata.
Per l’inconfigurabilità, in
simili casi, di una violazione del principio
di irretroattività delle norme che
introducono misure sanzionatorie si è
espresso di recente il Consiglio di Stato (Sez.
VI, 16/04/2019 n. 2484), assegnando rilievo
decisivo alla circostanza che la mancata
esecuzione dell’ordine di demolizione si
collochi in epoca successiva all’entrata in
vigore del menzionato art. 31, comma 4-bis
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.10.2019 n. 2088 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di acquisizione di opere
abusive al patrimonio comunale ha come unico
presupposto l'accertata inottemperanza ad un
ordine di demolizione, con la conseguenza
che, trattandosi di atto dovuto, lo stesso
non è subordinato ad alcuna valutazione
sulla compatibilità delle opere con gli
interessi urbanistici e ambientali e
sull'utilizzabilità delle stesse a fini
pubblici, e risulta sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata
inottemperanza all'ordine di demolizione.
Trattandosi di atto vincolato, di natura
sanzionatoria, rientra nella competenza
dirigenziale prevista dall’art. 107, c. 3,
del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale sono
attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di
attuazione degli obiettivi e dei programmi
definiti con gli atti di indirizzo adottati
dai medesimi organi, tra i quali in
particolare, secondo le modalità stabilite
dallo statuto o dai regolamenti dell'ente:
g) tutti i provvedimenti di sospensione dei
lavori, abbattimento e riduzione in pristino
di competenza comunale, nonché i poteri di
vigilanza edilizia e di irrogazione delle
sanzioni amministrative previsti dalla
vigente legislazione statale e regionale in
materia di prevenzione e repressione
dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale.
In merito la giurisprudenza amministrativa
ha chiarito che “decorso
infruttuosamente il termine di novanta
giorni dalla notificazione dell'ordinanza di
demolizione della costruzione abusiva, se
l'inottemperanza non sia giustificata, si
verifica automaticamente l'acquisizione al
patrimonio del comune di tale costruzione,
nonché dell'area di sedime e di quella
ulteriore necessaria ai fini
urbanistico-edilizi; la suddetta
acquisizione al patrimonio del Comune, si
precisa, è infatti atto dovuto sottoposto
esclusivamente all'accertamento della
volontaria inottemperanza e del decorso dei
termini prescritti”.
L’esclusione della competenza consiliare si
radica quindi nel fatto che l’acquisto è un
effetto ex lege che sottrae tale tipo
di acquisto alle scelte discrezionali
fondamentali riservate al consiglio comunale
dall’art. 42 del D.Lgs. 267/2000.
Ed infatti la giurisprudenza ha specificato
che il provvedimento dirigenziale di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale
delle opere abusive nonché del terreno
sottostante e circostante costituisce atto
dichiarativo dell'intervenuta acquisizione ex lege
in conseguenza dell'inutile decorso del
termine fissato dall'art. 7 della l. n. 47
del 1985 al trasgressore per l'ottemperanza
all'ingiunzione di demolizione.
Oltre alla natura dichiarativa dell’atto la
giurisprudenza riconosce anche la natura
sanzionatoria del medesimo atto. Infatti
l'acquisizione gratuita al patrimonio del
comune dell'area sulla quale insiste la
costruzione abusiva non è una misura
strumentale per consentire al Comune di
eseguire la demolizione, né una sanzione
accessoria di questa, bensì costituisce una
sanzione autonoma che consegue ad un duplice
ordine di condotte, poste in essere da chi,
dapprima esegue un'opera abusiva e, poi, non
adempie all'obbligo di demolirla.
Né l’esistenza di un potere di determinare
l'ulteriore area che può essere acquisita in
quanto «necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive» (art. 31, c. 3, DPR 380/2001), può
comportare il mutamento della natura
dell’atto in considerazione della natura di
accertamento tecnico della scelta da
effettuare. L’acquisizione al patrimonio
comunale degli immobili abusivi rientra
quindi tra le competenze gestionali della
dirigenza.
La competenza del consiglio comunale può
radicarsi, invece, ai sensi dell’art. 31, c.
5, del DPR 380/2001, in un momento
successivo in quanto, dopo l’adozione
dell’ordinanza di demolizione e
dell'ulteriore provvedimento sanzionatorio
di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'opera abusiva, come
conseguenza della mancata esecuzione
dell'ordine di demolizione, residua
l'eventualità che il Consiglio Comunale
possa, con apposita delibera, escludere la
demolizione dell'opera acquisita al
patrimonio comunale (ravvisando l'esistenza
di prevalenti interessi pubblici al suo
mantenimento e sempre che l'opera non
contrasti con rilevanti interessi
urbanistici) e si configura quale
alternativa all'ulteriore ordinanza di
demolizione in danno delle opere abusive
gratuitamente acquisite.
---------------
E. Venendo all’esame del quarto ricorso
per motivi aggiunti, con cui la ricorrente
ha impugnato l’acquisizione dell’immobile al
patrimonio comunale e l’ordine di sgombero
dei locali, il motivo n. 14), di invalidità
derivata, è infondato, a seguito della
reiezione dei precedenti motivi.
Il motivo n. 15), fondato sull’incompetenza
del dirigente ad adottare un provvedimento
di acquisizione gratuita dell’immobile al
patrimonio comunale, è infondato.
Il provvedimento di acquisizione di opere
abusive al patrimonio comunale ha come unico
presupposto l'accertata inottemperanza ad un
ordine di demolizione, con la conseguenza
che, trattandosi di atto dovuto, lo stesso
non è subordinato ad alcuna valutazione
sulla compatibilità delle opere con gli
interessi urbanistici e ambientali e
sull'utilizzabilità delle stesse a fini
pubblici, e risulta sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata
inottemperanza all'ordine di demolizione.
Trattandosi di atto vincolato, di natura
sanzionatoria, rientra nella competenza
dirigenziale prevista dall’art. 107, c. 3,
del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale sono
attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di
attuazione degli obiettivi e dei programmi
definiti con gli atti di indirizzo adottati
dai medesimi organi, tra i quali in
particolare, secondo le modalità stabilite
dallo statuto o dai regolamenti dell'ente:
g) tutti i provvedimenti di sospensione dei
lavori, abbattimento e riduzione in pristino
di competenza comunale, nonché i poteri di
vigilanza edilizia e di irrogazione delle
sanzioni amministrative previsti dalla
vigente legislazione statale e regionale in
materia di prevenzione e repressione
dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale.
In merito la giurisprudenza amministrativa
(Consiglio di Stato, sez. V 26.01.2000, n.
341) ha chiarito che “decorso
infruttuosamente il termine di novanta
giorni dalla notificazione dell'ordinanza di
demolizione della costruzione abusiva, se
l'inottemperanza non sia giustificata, si
verifica automaticamente l'acquisizione al
patrimonio del comune di tale costruzione,
nonché dell'area di sedime e di quella
ulteriore necessaria ai fini
urbanistico-edilizi; la suddetta
acquisizione al patrimonio del Comune, si
precisa, è infatti atto dovuto sottoposto
esclusivamente all'accertamento della
volontaria inottemperanza e del decorso dei
termini prescritti” (Sez. V, 23.01.1991,
n. 66; cfr. anche Sez. V, 20.04.1994, n.
333).
L’esclusione della competenza consiliare si
radica quindi nel fatto che l’acquisto è un
effetto ex lege che sottrae tale tipo
di acquisto alle scelte discrezionali
fondamentali riservate al consiglio comunale
dall’art. 42 del D.Lgs. 267/2000.
Ed infatti la giurisprudenza ha specificato
che il provvedimento dirigenziale di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale
delle opere abusive nonché del terreno
sottostante e circostante costituisce atto
dichiarativo dell'intervenuta acquisizione
ex lege in conseguenza dell'inutile
decorso del termine fissato dall'art. 7
della l. n. 47 del 1985 al trasgressore per
l'ottemperanza all'ingiunzione di
demolizione (TAR Sicilia, Palermo, III,
02/08/2018 n. 1745; TAR Sicilia, Palermo,
Sez. II, 04.06.2012, n. 4610).
Oltre alla natura dichiarativa dell’atto la
giurisprudenza riconosce anche la natura
sanzionatoria del medesimo atto. Infatti
l'acquisizione gratuita al patrimonio del
comune dell'area sulla quale insiste la
costruzione abusiva non è una misura
strumentale per consentire al Comune di
eseguire la demolizione, né una sanzione
accessoria di questa, bensì costituisce una
sanzione autonoma che consegue ad un duplice
ordine di condotte, poste in essere da chi,
dapprima esegue un'opera abusiva e, poi, non
adempie all'obbligo di demolirla.
Né l’esistenza di un potere di determinare
l'ulteriore area che può essere acquisita in
quanto «necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive» (art. 31, c. 3, DPR 380/2001), può
comportare il mutamento della natura
dell’atto in considerazione della natura di
accertamento tecnico della scelta da
effettuare. L’acquisizione al patrimonio
comunale degli immobili abusivi rientra
quindi tra le competenze gestionali della
dirigenza.
La competenza del consiglio comunale può
radicarsi, invece, ai sensi dell’art. 31, c.
5, del DPR 380/2001, in un momento
successivo in quanto, dopo l’adozione
dell’ordinanza di demolizione e
dell'ulteriore provvedimento sanzionatorio
di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'opera abusiva, come
conseguenza della mancata esecuzione
dell'ordine di demolizione, residua
l'eventualità che il Consiglio Comunale
possa, con apposita delibera, escludere la
demolizione dell'opera acquisita al
patrimonio comunale (ravvisando l'esistenza
di prevalenti interessi pubblici al suo
mantenimento e sempre che l'opera non
contrasti con rilevanti interessi
urbanistici) e si configura quale
alternativa all'ulteriore ordinanza di
demolizione in danno delle opere abusive
gratuitamente acquisite (cfr., ex multis,
Tar Campania, Napoli, IV, 23/05/2019 n.
2758)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.10.2019 n. 2088 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Disciplina
applicabile per la determinazione del
contributo di concessione e della
monetizzazione degli standard.
Il contributo di
concessione va determinato con riferimento
alla disciplina, legislativa e
regolamentare, vigente al momento del
rilascio del titolo edilizio, che segna il
perfezionamento della fattispecie
concessoria (o autorizzatoria, a seconda
della tipologia di titolo edilizio).
La rideterminazione del contributo di
costruzione può effettuarsi solo in caso di
errore di calcolo rispetto al contributo
dovuto in base alla situazione di fatto e
alla disciplina vigente al tempo del
rilascio del titolo; principio valevole
anche in caso di monetizzazione di standard,
in quanto la fonte dell’obbligazione è
comunque costituita dal provvedimento
assentivo dell’intervento, sia esso un atto
espresso del Comune o un atto privato
rispetto al quale l’Amministrazione non
esercita alcun potere inibitorio.
A non diversa conclusione può condurre la
ritenuta applicazione delle nuove
disposizioni del P.G.T. operante in regime
di salvaguardia; infatti, occorre
considerare che la normativa relativa alle
misure di salvaguardia ha lo scopo di
evitare la realizzazione di interventi che
nelle more dell'approvazione degli strumenti
urbanistici adottati possono compromettere
l'assetto del territorio programmato dal
Comune, vanificandone la sua concreta
attuazione e, proprio per ovviare a tali
inconvenienti, la legge ha stabilito che a
decorrere dalla data della deliberazione di
adozione dei piani regolatori generali e
fino all'emanazione del decreto di
approvazione il dirigente dell'ufficio
comunale sia obbligato a sospendere ogni
determinazione in ordine ai progetti che
risultino in contrasto con le relative
previsioni.
Le misure di salvaguardia sono, quindi,
unicamente finalizzate ad evitare
l’immediata realizzazione di interventi che
ledano le scelte programmatorie del Comune
quali risultanti dall’adozione del nuovo
piano, ma non si traducono in una
applicazione anticipata delle previsioni
contenute in quest’ultimo; in particolare,
ove l’intervento risulti in sé legittimo e,
come tale, si sottragga alla preclusione
temporanea di cui all’articolo 12, comma 3,
del D.P.R. 380/2001, non può neppure
configurarsi la ratio sottesa alle misure di
salvaguardia al solo fine di dare attuazione
anticipata alle diverse regole in tema di
determinazione degli standards e
quantificazione del contributo di
costruzione.
---------------
Il contributo per
oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione per le opere oggetto di una
concessione in variante dev’essere calcolato
sommando le opere dei due titoli edilizi
assentiti (concessione originaria e
variante), scomputando quanto già pagato al
momento del rilascio del titolo originario.
Per la concessione in variante, però, la
quota percentuale della parte del contributo
commisurato al costo di costruzione delle
opere ad essa riferite deve essere calcolata
con riferimento alle norme vigenti al
momento del rilascio della variante stessa
e, come detto, limitatamente alle opere che
ne costituiscono oggetto, escludendo cioè
quelle già considerate (e quantificate) al
momento del rilascio della concessione
originaria.
Con la concessione in variante
il Comune deve quindi determinare, in via di
conguaglio gli oneri e il corrispondente
contributo non in relazione all'intero
complesso in via di realizzazione, ma con
riferimento alle sole opere nuove e
ulteriori volumetrie assentite con la
concessione in variante, da calcolare sulla
base del nuovo parametro vigente al momento
del rilascio del titolo in variante.
Sulla
complessiva somma dovuta per oneri, da
quantificarsi come sopra, va poi scorporata
la somma già versata dalla società
ricorrente.
---------------
MASSIMA
11. In relazione al secondo motivo di
ricorso vanno richiamati, in primo luogo, i
principi posti a sostegno dell’ordinanza
cautelare n. 1325/2018. Punto d’abbrivio per
la disamina del motivo è, infatti, il
consolidato principio secondo cui “il
contributo di concessione va determinato con
riferimento alla disciplina, legislativa e
regolamentare, vigente al momento del
rilascio del titolo edilizio, che segna il
perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda
della tipologia di titolo edilizio)”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2015,
n. 2294; nello stesso senso, ex plurimis: Id.,
Sez. IV, 07.06.2012, n. 3379; Id., Sez.
IV, 25.06.2010, n. 4109; Id, Sez. V, 13.06.2003, n. 3332; v., inoltre, nella
giurisprudenza della Sezione, TAR per la
Lombardia – sede di Milano, sez. II, 31.08.2018, n. 2039).
La rideterminazione
del contributo di costruzione può
effettuarsi solo in caso di errore di
calcolo rispetto al contributo dovuto in
base alla situazione di fatto e alla
disciplina vigente al tempo del rilascio del
titolo (cfr., Consiglio di Stato, Sez. IV,
12.06.2017, n. 2821).
Principio valevole
anche in caso di monetizzazione di standards,
in quanto la fonte dell’obbligazione è
comunque costituita dal provvedimento
assentivo dell’intervento, sia esso un atto
espresso del Comune o un atto privato
rispetto al quale l’Amministrazione non
esercita alcun potere inibitorio. Aspetto
che, pertanto, rende indifferente ai fini in
esame la differente natura di tale pretesa
rispetto a quella relativa al costo di
costruzione (cfr., Consiglio di Stato, Sez.
IV, 28.12.2012, nn. 6706, 6707 e 6708,
nonché l’ulteriore giurisprudenza richiamata
nell’ordinanza cautelare n. 1325/2018 della
Sezione).
11.1. Secondo l’elaborazione effettuata al
precedente punto la quantificazione degli standards deve, quindi, determinarsi in
ragione della normativa vigente all’epoca
della formazione dell’effettivo titolo che
costituisce la fonte o il presupposto di
tale obbligazione. Inoltre, a non diversa
conclusione può condurre la ritenuta
applicazione delle nuove disposizioni del
P.G.T. operante in regime di salvaguardia;
infatti, occorre considerare che “la
normativa relativa alle misure di
salvaguardia ha lo scopo di evitare la
realizzazione di interventi che nelle more
dell'approvazione degli strumenti
urbanistici adottati possono compromettere
l'assetto del territorio programmato dal
Comune, vanificandone la sua concreta
attuazione e […], proprio per ovviare a tali
inconvenienti, la legge ha stabilito che a
decorrere dalla data della deliberazione di
adozione dei piani regolatori generali e
fino all'emanazione del decreto di
approvazione il dirigente dell'ufficio
comunale sia obbligato a sospendere ogni
determinazione in ordine ai progetti che
risultino in contrasto con le relative
previsioni” (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.01.2014, n. 257).
Le misure di
salvaguardia sono, quindi, unicamente
finalizzate ad evitare l’immediata
realizzazione di interventi che ledano le
scelte programmatorie del Comune quali
risultanti dall’adozione del nuovo piano, ma
non si traducono in una applicazione
anticipata delle previsioni contenute in
quest’ultimo.
In particolare, ove
l’intervento risulti in sé legittimo e, come
tale, si sottragga alla preclusione
temporanea di cui all’articolo 12, comma 3,
del D.P.R. 380/2001, non può neppure
configurarsi la ratio sottesa alle misure di
salvaguardia al solo fine di dare attuazione
anticipata alle diverse regole in tema di
determinazione degli standards e
quantificazione del contributo di
costruzione.
11.3. Declinando i principi esposti al caso
all’attenzione del Collegio si osserva che
la pretesa comunale si riferisce ad un
complesso intervento attuato in forza di una
pluralità di titoli edilizi.
In particolare,
secondo l’Amministrazione comunale,
“l’operatore, con le d.i.a. in variante
essenziale, ed in particolare con l’ultima
d.i.a. del 2014, [apporta] modifiche
progettuali incidenti sui parametri
urbanistici e sulle volumetrie, con modifica
dei prospetti, (pag. 2 d.i.a.; relazione
tecnica progettista all. doc. 9); tale
variante essenziale comporta il ricalcolo
del contributo concessorio. L’intervento
edilizio, da ultimo legittimato con d.i.a.
2014, risulta dunque soggetto alle
disposizioni del PGT, adottato in data
14.07.2010 ed entrato in vigore dal
21.11.2012” (foglio 4 della memoria
conclusiva del comune di Milano).
11.3.1. La prospettazione comunale non è,
tuttavia, condivisibile.
Gli interventi
legittimati con le denunce di inizio
attività del 29.03.2011 e del 25.05.2012 risultano, infatti, assoggettate alla previgente disciplina operante sul
territorio comunale e non alle disposizioni
del nuovo P.G.T., adottato in data 14.07.2010 ed entrato in vigore dal 21.11.2012. Come spiegato in precedenza, le nuove
disposizioni non operano retroattivamente né
simili regole possono qualificarsi come
misure di salvaguardia per le ragioni
esposte al punto 11.2 della presente
sentenza a cui si rinvia.
11.3.2. Un diverso discorso vale per gli
interventi realizzati in forza della denunce
di inizio attività del 30.11.2012 e
del 04.08.2014, trattandosi di titoli
formatisi dopo l’entrata in vigore dello
strumento urbanistico. Tale circostanza non
comporta, tuttavia, l’applicazione della
previsione di cui all’articolo 9.1.1. del P.G.T. all’insieme delle opere realizzate
anche in forza di titoli precedenti
all’entrata in vigore dello strumento
urbanistico. Diversamente opinando, si
determinerebbe l’applicazione di una nuova e
diversa normativa per un intervento regolato
da una cornice diversa.
In tale situazione,
opera, al contrario, il principio affermato
dalla sentenza del TAR per il Molise,
sez. I, 05.03.2018, n. 118 (richiamata, in
memoria difensiva finale, anche da parte
ricorrente), secondo cui “il contributo per
oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione per le opere oggetto di una
concessione in variante dev’essere calcolato
sommando le opere dei due titoli edilizi
assentiti (concessione originaria e
variante), scomputando quanto già pagato al
momento del rilascio del titolo originario.
Per la concessione in variante, però, la
quota percentuale della parte del contributo
commisurato al costo di costruzione delle
opere ad essa riferite deve essere calcolata
con riferimento alle norme vigenti al
momento del rilascio della variante stessa
e, come detto, limitatamente alle opere che
ne costituiscono oggetto, escludendo cioè
quelle già considerate (e quantificate) al
momento del rilascio della concessione
originaria. Con la concessione in variante
il Comune deve quindi determinare, in via di
conguaglio gli oneri e il corrispondente
contributo non in relazione all'intero
complesso in via di realizzazione, ma con
riferimento alle sole opere nuove e
ulteriori volumetrie assentite con la
concessione in variante, da calcolare sulla
base del nuovo parametro vigente al momento
del rilascio del titolo in variante. Sulla
complessiva somma dovuta per oneri, da
quantificarsi come sopra, va poi scorporata
la somma già versata dalla società
ricorrente” (cfr., inoltre, TAR per la
Sardegna, sez. II, 28.11.2013, n.
780).
Ne consegue che l’eventuale pretesa
comunale può fondarsi solo sui nuovi titoli
e sull’incidenza delle opere con essi
assentite senza effettuare alcun computo
complessivo delle opere (e di conseguenza
delle somme ritenute dovute).
In ragione di quanto esposto, il
provvedimento comunale deve essere
annullato, fatte salve le ulteriori
eventuali determinazioni
dell’Amministrazione da effettuarsi nel
rispetto dei principi affermati dalla
presente sentenza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.10.2019 n. 2085 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In ordine alla legittimazione ad impugnare il silenzio
serbato dal Comune sull'istanza presentata volta ad ottenere l'attuazione
degli obblighi previsti dalla convenzione di lottizzazione stipulata, sul piano generale è sufficiente rilevare che:
“a) gli accordi di lottizzazione convenzionata rivestono una
finalità pubblica, in quanto strumento regolativo dell’ordinato assetto
urbanistico del territorio in funzione dell’interesse della collettività;
b) non può pertanto essere attribuita alla convenzione di
lottizzazione il solo obiettivo di regolamentazione meramente privatistica
di interessi riservata esclusivamente alle parti della convenzione,
rilevando in senso contrario il preminente interesse al governo del
territorio che tramite essa viene perseguito;
c) da ciò ne consegue che i soggetti residenti nelle aree del
territorio comunale coinvolte dagli accordi convenzionali, pur essendo terzi
rispetto alla convenzione, possono vantare una qualificata pretesa
soggettiva, individuabile più propriamente nella situazione giuridica
dell’interesse legittimo, all’osservanza da parte dell’autorità comunale
degli obblighi di realizzazione e di gestione delle opere pubbliche previste
dalla convenzione di lottizzazione;
d) pertanto, in linea di principio anche il singolo proprietario è
ben legittimato a veder garantita l’attuazione delle previsioni delle
convenzioni concluse in materia di lottizzazione, ai sensi dell’art. 28
della legge 17.08.1942, n. 1150”.
---------------
... per l'annullamento per la dichiarazione di illegittimità del silenzio
serbato dal Comune di Reggello sull'istanza presentata da At.Fo. in data
14.05.2018 volta ad ottenere l'attuazione degli obblighi previsti dalla
convenzione di lottizzazione stipulata in data 27.07.2004 e per
l'accertamento dell'obbligo del Comune di Reggello di provvedere
all'esercizio dei diritti e dei poteri derivanti dalla predetta convenzione
nonché di quelli aventi ad oggetto la repressione degli abusi realizzati
dagli attuatori della predetta convenzione.
...
1- I Sigg. Fo. e Mo. hanno proposto ricorso avverso il silenzio serbato dal
Comune di Reggello sulla loro istanza volta ad ottenere l’attuazione degli
obblighi previsti dalla convenzione di lottizzazione stipulata tra il
predetto Comune e l’Im.Ma. & Fi. S.r.l.
Nelle more del giudizio, il Comune ha provveduto sull’istanza, dal che
consegue la declaratoria di improcedibilità del ricorso (come richiesto
dagli stessi ricorrenti i quali hanno anche domandato che siano loro
liquidate le spese di giudizio).
A tale richiesta si è opposta la difesa del Comune di Reggello, che ha
domandato la compensazione delle spese di lite.
Il Collegio è dunque chiamato ad accertare la c.d. soccombenza virtuale al
fine di decidere in ordine alle spese.
2 – Il ricorso è fondato alla luce delle considerazioni che seguono.
In ordine alla legittimazione dei ricorrenti ad impugnare il silenzio
serbato dal Comune, negata dalla difesa comunale, sul piano generale (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 09.01.2019 n. 199), è sufficiente rilevare che:
“a) gli accordi di lottizzazione convenzionata rivestono una
finalità pubblica, in quanto strumento regolativo dell’ordinato assetto
urbanistico del territorio in funzione dell’interesse della collettività;
b) non può pertanto essere attribuita alla convenzione di
lottizzazione il solo obiettivo di regolamentazione meramente privatistica
di interessi riservata esclusivamente alle parti della convenzione,
rilevando in senso contrario il preminente interesse al governo del
territorio che tramite essa viene perseguito;
c) da ciò ne consegue che i soggetti residenti nelle aree del
territorio comunale coinvolte dagli accordi convenzionali, pur essendo terzi
rispetto alla convenzione, possono vantare una qualificata pretesa
soggettiva, individuabile più propriamente nella situazione giuridica
dell’interesse legittimo, all’osservanza da parte dell’autorità comunale
degli obblighi di realizzazione e di gestione delle opere pubbliche previste
dalla convenzione di lottizzazione;
d) pertanto, in linea di principio anche il singolo proprietario è
ben legittimato a veder garantita l’attuazione delle previsioni delle
convenzioni concluse in materia di lottizzazione, ai sensi dell’art. 28
della legge 17.08.1942, n. 1150”.
Al caso in esame non si attaglia la giurisprudenza, invocata dalla difesa
comunale, secondo cui gli acquirenti dei lotti, non essendo parti della
convenzione, non possono vantare pretese derivanti dal regolamento
contrattuale (cfr. TAR Toscana, I, n. 156472018).
Nella fattispecie in esame, rilevano invece i seguenti elementi:
a) come emerge dalla planimetria allegata alla convenzione di
lottizzazione di cui trattasi, l’intervento di urbanizzazione interessava
una strada poderale per metà di proprietà dei ricorrenti;
b) come risulta dalla C.T.U. resa nel contenzioso civile promosso
dai ricorrenti nei confronti della ditta lottizzante (cfr. doc. 6), non solo
il previsto allargamento stradale non è stato realizzato ma il manufatto
costruito non rispetta la distanza di 5 metri dal confine della proprietà
dei ricorrenti;
c) l’istanza presentata al Comune è motivata anche con riferimento
alle esigenze di tutela dell’igiene e della salute dei residenti sull’area
interessata (che sarebbero state compromesse dalla mancata attuazione delle
opere previste in convenzione), come già segnalato al Comune dall’A.S.L. di
Firenze (cfr. doc. 7-9).
Nel contesto sopra descritto, anche alla luce della recente giurisprudenza
sopra citata, non sembra possibile negare ai ricorrenti la qualità di
portatori di un interesse qualificato e differenziato, tale da legittimarli
ad impugnare il silenzio mantenuto dal Comune sull’istanza volta a chiedere
l’attuazione degli obblighi previsti dalla convenzione.
Nel merito, il ricorso è certamente fondato, sussistendo l’obbligo del
Comune, quanto meno, a determinarsi espressamente sulle richieste avanzate
nella predetta istanza, salva la discrezionalità nel definire le concrete
misure da adottare. Né vale opporre che il Comune si è comunque determinato
con la nota del 27.06.2019, il che ha solo determinato l’improcedibilità del
ricorso, anteriormente proposto
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 01.10.2019 n. 1304 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
LAVORI PUBBLICI: Avvalimento
della certificazione SOA.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Avvalimento
certificazione S.O.A. - Specifica indicazione dei mezzi – Necessità.
Anche nel caso di avvalimento concernente la
certificazione S.O.A. è necessaria la specifica indicazione dei mezzi,
compresi tra quelli che hanno consentito all'ausiliaria di ottenere la
certificazione, messi a disposizione dell'impresa ausiliata (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che l’attestazione S.O.A., il cui possesso è
ammesso possa anche integrarsi per relationem ricorrendo all’istituto dell’avvalimento,
non si connota (solo) quale requisito di ordine economico-finanziario. Ai
sensi dell’art. 84, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016 le attestazioni
rilasciate dagli appositi organismi autorizzati dall’ANAC, infatti, non
provano unicamente il possesso dei requisiti di qualificazione di cui al
comma 1, lett. b) (capacità economica e finanziaria) dell’art. 83, d.lgs. n.
50 del 2016, ma si riferiscono anche alle capacità tecniche e professionali
della lettera c) del comma 1 del medesimo articolo.
Se da un lato la qualificazione dell’avvalimento come di mera garanzia,
quindi non comportante l’obbligo di specificazione nel relativo contratto
delle risorse messe a disposizione, deve essere esclusa, dall’altro va in
ogni caso rilevato che l’indicazione dei mezzi aziendali messi a
disposizione per l’esecuzione dell’appalto è necessaria a pena di esclusione
anche se l’avvalimento riguarda l’attestazione SOA, che pure viene
rilasciata previa verifica della complessiva capacità tecnico–organizzativa
ed economico–finanziaria dell’impresa (C.d.S., V, n. 4973/2017; n.
2316/2017; n. 2226/2017; n. 852/2017; n. 2384/2016; n. 264/2016).
In sostanza, il possesso da parte dell’impresa ausiliaria dell’attestazione
S.O.A. non accompagnato da un contratto che indichi specificamente quali
mezzi e risorse vengono messi a disposizione dell’ausiliata non consente che
la stazione appaltante possa confidare su un impegno contrattuale certo e
vincolante per le proprie aspettative di buona esecuzione del servizio. In
altre parole, l'avvalimento di attestazione in questione non può risolversi
in un prestito meramente cartolare e astratto del requisito di
partecipazione, ma deve essere soddisfatto concretamente e con
specificazioni controllabili dalla stazione appaltante.
Questa conclusione si pone in coerente continuità con il criterio direttivo
che ha ispirato la previsione dell’ultimo periodo dell’art. 89, comma 1,
d.lgs. n. 50 del 2016, enunciato quanto all’istituto dell’avvalimento dalla
direttiva europea n. 2014/24/UE sulle procedure di affidamento degli appalti
nei settori ordinari (art. 1, comma 1, lett. zz) secondo cui l’istituto in
questione deve essere disciplinato “nel rispetto dei princìpi dell’Unione
europea e di quelli desumibili dalla giurisprudenza amministrativa in
materia, imponendo che il contratto di avvalimento indichi nel dettaglio le
risorse e i mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui
l’oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di qualità o
certificati attestanti il possesso di adeguata organizzazione
imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara, e rafforzando gli
strumenti di verifica circa l’effettivo possesso dei requisiti e delle
risorse oggetto di avvalimento da parte dell’impresa ausiliaria nonché circa
l’effettivo impiego delle risorse medesime nell’esecuzione dell’appalto (…)”
(TRGA Trentino Alto Adige,
sentenza 01.10.2019 n. 121
- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
III) Ciò premesso, il thema decidendum della controversia, focalizzato nel
primo motivo, attiene essenzialmente al contenuto che deve assumere un
contratto di avvalimento riguardante il possesso del requisito
dell’attestazione S.O.A. In particolare la materia del contendere ha
riguardo alla sussistenza di un obbligo legale di indicare espressamente, in
modo determinato e specifico, le risorse e i mezzi oggetto di prestito in un
contratto di avvalimento a mezzo del quale l’impresa ausiliaria mette a
disposizione dell’impresa avvalente il requisito dell’attestazione S.O.A.
Nella fattispecie in esame non assume peraltro la rilevanza pretesa
dall’amministrazione resistente e dall’aggiudicataria la distinzione,
riconosciuta dalla giurisprudenza (ex multis: C.d.S., sez. V, n.
6693/2018; n. 1216/2018) tra avvalimento cosiddetto di garanzia, che ha ad
oggetto i requisiti di carattere economico-finanziario e, in particolare, il
fatturato globale o specifico e che ricorre nel caso in cui l’ausiliaria
metta a disposizione dell’ausiliata la propria solidità economica e
finanziaria, e avvalimento definito tecnico od operativo, che ha ad oggetto
i requisiti di capacità tecnico-professionale e che ricorre nel caso in cui
l’ausiliaria si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata le proprie
risorse tecnico-organizzative indispensabili per l’esecuzione del
contratto di appalto.
E’ ben vero che l’avvalimento di garanzia non comporta che il relativo
contratto si riferisca “alla messa a disposizione di beni da descrivere
ed individuare con precisione, ma è sufficiente che dalla ridetta
dichiarazione emerga l’impegno contrattuale a prestare ed a mettere a
disposizione dell’ausiliata la complessiva solidità finanziaria ed il
patrimonio esperienziale” diversamente dall’avvalimento tecnico od
operativo rispetto al quale “sussiste sempre l’esigenza di una messa a
disposizione in modo specifico di risorse determinate: onde è imposto alle
parti di indicare con precisione i mezzi aziendali messi a disposizione
dell’ausiliata per eseguire l’appalto”.
Tuttavia l’attestazione S.O.A., richiesta dal punto 2.2, lett. B) del bando
di gara e il cui possesso è ammesso possa anche integrarsi per relationem
ricorrendo all’istituto dell’avvalimento, non si connota (solo) quale
requisito di ordine economico-finanziario. Ai sensi dell’art. 84, comma 4,
del d.lgs. n. 50/2016 le attestazioni rilasciate dagli appositi organismi
autorizzati dall’ANAC, infatti, non provano unicamente il possesso dei
requisiti di qualificazione di cui al comma 1, lettera b) (capacità
economica e finanziaria) dell’art. 83 del d.lgs. n. 50/2016, ma si
riferiscono anche alle capacità tecniche e professionali della lettera c)
del comma 1 del medesimo articolo.
Va, quindi, confutata la ricostruzione, proposta dall’amministrazione
resistente e dalla controinteressata, tendente a sostenere che, nel caso di
specie, in ragione delle caratteristiche delle lavorazioni oggetto
dell’appalto e delle risorse in concreto possedute dall’aggiudicataria, si
tratterebbe in realtà soltanto di un avvalimento di (mera) garanzia, che
come tale non implica la specificazione delle risorse messe a disposizione.
Il ragionamento finisce per cozzare irrimediabilmente con il sistema unico
di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici, che non tollera
deroghe in relazione ai singoli casi concreti, stabilito dal citato art. 84
secondo cui i requisiti di qualificazione per la partecipazione ad una gara
sono provati dalle attestazioni SOA le quali, come si è detto, riguardano
sia la capacità economica e finanziaria sia le capacità tecniche e
professionali. La stessa lex specialis, del resto, quanto ai
requisiti di qualificazione/partecipazione, ha prescritto, nella fattispecie
in esame, il possesso, anche per relationem, dell’attestazione SOA in
categoria OG3 senza ammettere modalità alternative né con riferimento al
profilo economico e finanziario, né a quello tecnico e professionale.
Se da un lato la qualificazione dell’avvalimento in questione come di mera
garanzia, quindi non comportante l’obbligo di specificazione nel relativo
contratto delle risorse messe a disposizione, deve essere esclusa,
dall’altro va in ogni caso rilevato che l’indicazione dei mezzi aziendali
messi a disposizione per l’esecuzione dell’appalto è necessaria a pena di
esclusione anche se l’avvalimento riguarda l’attestazione SOA, che pure
viene rilasciata previa verifica della complessiva capacità
tecnico–organizzativa ed economico–finanziaria dell’impresa (C.d.S., V, n.
4973/2017; n. 2316/2017; n. 2226/2017; n. 852/2017; n. 2384/2016; n.
264/2016).
In sostanza, il possesso da parte dell’impresa ausiliaria dell’attestazione
SOA non accompagnato da un contratto che indichi specificamente quali mezzi
e risorse vengono messi a disposizione dell’ausiliata non consente che la
stazione appaltante possa confidare su un impegno contrattuale certo e
vincolante per le proprie aspettative di buona esecuzione del servizio. In
altre parole, l'avvalimento di attestazione in questione non può risolversi
in un prestito meramente cartolare e astratto del requisito di
partecipazione, ma deve essere soddisfatto concretamente e con
specificazioni controllabili dalla stazione appaltante.
Questa conclusione si pone in coerente continuità con il criterio direttivo
che ha ispirato la previsione dell’ultimo periodo dell’art. 89, comma 1, del
d.lgs. n. 50/2016, enunciato quanto all’istituto dell’avvalimento dalla
direttiva europea n. 2014/24/UE sulle procedure di affidamento degli appalti
nei settori ordinari (art. 1, comma 1, lett. zz) secondo cui l’istituto in
questione deve essere disciplinato “nel rispetto dei princìpi dell’Unione
europea e di quelli desumibili dalla giurisprudenza amministrativa in
materia, imponendo che il contratto di avvalimento indichi nel dettaglio le
risorse e i mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui
l’oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di qualità o
certificati attestanti il possesso di adeguata organizzazione
imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara, e rafforzando gli
strumenti di verifica circa l’effettivo possesso dei requisiti e delle
risorse oggetto di avvalimento da parte dell’impresa ausiliaria nonché circa
l’effettivo impiego delle risorse medesime nell’esecuzione dell’appalto (…)”.
Non giova alla amministrazione neppure il riferimento alla sentenza
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 23 del 04.11.2016, tra
l’altro precedente all’introduzione dell’ultimo periodo dell’art. 89, comma
1, del d.lgs. n. 50/2016, secondo la quale non si configura la nullità del
contratto di avvalimento nel caso in cui una parte dell’oggetto, pur non
essendo puntualmente determinato sia “agevolmente determinabile dal
tenore complessivo del documento”. Nella fattispecie in esame rileva che
non solo una parte ma l’intero oggetto del contratto non sia “agevolmente
determinabile”, visto che il “documento” non individua in alcun
modo risorse e attrezzature messe a disposizione.
Il contratto di avvalimento stipulato dall’aggiudicataria è, quindi,
irrimediabilmente inidoneo ad attribuirle il requisito dell’attestazione
S.O.A. riferita alla categoria prevalente OG3 di cui è priva, non inducendo
a diversa conclusione, come si è visto, neppure le argomentazioni difensive
circa la capacità in proprio, in concreto asseritamente più che adeguata,
posseduta per l’esecuzione del tipo di appalto in esame. Si tratta, infatti,
di una mera circostanza di fatto che, dovendo il requisito di qualificazione
essere provato dall’attestazione SOA, di per sé non vale ad escludere
l’obbligo di determinare, ove oggetto di avvalimento, le risorse e i mezzi
oggetto di prestito.
L’inadeguatezza del contratto di avvalimento prodotto in gara dalla società
Da D. rispetto alle previsioni dell’art. 89, comma 1, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 neppure risulta sanabile mediante l’invocato
soccorso istruttorio processuale. A tacere del fatto che, in realtà,
diversamente da quanto ritenuto dall’amministrazione, la documentazione
versata in sede processuale dall’aggiudicataria non vale ad integrare quanto
inadeguatamente prodotto in sede di gara, in ogni caso la limitazione del
soccorso istruttorio nel corso della procedura di gara ai casi di mancata
presentazione o sottoscrizione del contratto di avvalimento prevista dalla
lex specialis impedisce di utilizzare il rimedio in sede processuale con
riferimento ad un contratto di avvalimento carente. |
EDILIZIA PRIVATA: Opposizione
alla decisione assunta in sede di conferenza di servizi dalle
Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità.
---------------
Conferenza di servizi – Dissenso - Amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela
della salute e della pubblica incolumità - Individuazione.
Le Amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità dei cittadini cui è riservata l’opposizione in
sede di Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 14-quinquies, l. n. 241
del 1990, devono identificarsi –anche alla luce del combinato disposto degli
artt. 14-quinquies e 17, comma 2, della stessa l. n. 241 del 1990- in quelle
amministrazioni alle quali norme speciali attribuiscono una competenza
diretta, prevalentemente di natura tecnico-scientifica, e ordinaria ad
esprimersi attraverso pareri o atti di assenso comunque denominati a tutela
dei suddetti interessi così detti “sensibili”, e tale attribuzione non si
rinviene, di regola e in linea generale, nelle competenze comunali di cui
all’art. 13, d.lgs. n. 267 del 2000, né tra le competenze in campo sanitario
demandate al Sindaco e al Comune dal testo unico delle leggi sanitarie di
cui al r.d. n. 1265 del 1934, né tra le altre funzioni fondamentali (proprie
o storiche) dei Comuni, fatta salva, comunque, la necessità di una verifica
puntuale, da condursi caso per caso, della insussistenza di norme speciali,
statali o regionali che, anche in via di delega, attribuiscano siffatte
funzioni all’ente comunale (1).
---------------
(1) La Sezione ha affermato la tesi che esclude la “legittimazione”
dei Comuni, che abbiano manifestato dissenso in seno alla conferenza di
servizi, a sollevare opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies, l. n. 241
del 1990 a tutela di interessi così detti “sensibili”.
E ciò essenzialmente perché un siffatto potere non può rinvenire un suo
adeguato fondamento attributivo nella generale competenza del Comune, quale
ente esponenziale della collettività rappresentata, a “tutelare”
tutti gli interessi ad essa facenti capo, essendo invece necessaria, come si
evince dalla lettera stessa della disposizione, un’apposita “preposizione”,
con norma speciale, all’esercizio di funzioni, eminentemente
tecnico-scientifiche (art. 17, comma 2, l. n. 241 del 1990), di tutela di
quegli interessi “sensibili”, preposizione che, riguardo ai Comuni,
di regola non si rinviene nella legislazione di settore che provvede alla
allocazione delle funzioni amministrative ai sensi dell’art. 118 Cost..
Tuttavia, anche in considerazione del non infrequente ricorso, in specie
nella legislazione regionale in materia ambientale, a ciò abilitata dalla
legge nazionale, a forme di delega di funzioni di tutela agli enti locali e,
in taluni casi, tra questi, anche ai Comuni, non appare possibile enunciare
in questa sede una conclusione in termini assoluti, valida una per volta per
tutte e per tutti i casi applicativi, che neghi in radice e a priori un
siffatto potere di opposizione comunale, potere che potrebbe invece
ravvisarsi come sussistente allorquando la pertinente legislazione speciale
di settore, statale e, soprattutto, regionale, abbia attribuito o delegato
talune competenze (propriamente) di tutela ambientale ai Comuni.
Alla luce di questa impostazione interpretativa, dunque, codesta Presidenza
dovrà, ogni qual volta pervenga un’opposizione comunale ex art.
14-quinquies, al fine di poter motivatamente escludere la legittimazione
comunale e dichiarare inammissibile l’opposizione, operare un’attenta
analisi specifica della disciplina di settore applicabile, alla luce delle
coordinate ermeneutiche qui elaborate.
Ha poi affermato la sezione che la “preposizione” di un ente pubblico
(o di organi e uffici di pubbliche amministrazioni) alla cura (più nello
specifico alla “tutela”) di determinati beni-interessi pubblici
richieda un’attribuzione specifica di competenza mediante norme speciali di
settore, e dunque debba distinguersi dalla generale competenza, riconosciuta
per tradizionale assunto dottrinario ai Comuni in quanto enti storicamente
preesistenti allo stesso ordinamento costituzionale vigente, di una generale
“rappresentanza” esponenziale di tutti gli interessi riconducibili
alla collettività organizzata nel rispettivo ambito territoriale,
rappresentanza che trova fondamento, dunque, non già e non necessariamente
in specifici riconoscimenti normativi, ma trae origine dalla natura stessa
dell’ente locale, e che tuttavia recede di fronte a specifiche attribuzioni
di competenze settoriali fondate su norme speciali.
Una traccia normativa ulteriore che corrobora questa impostazione può
rinvenirsi nella generale previsione dell’art. 17, l. n. 241 del 1990, che
distingue e qualifica in termini “forti”,
rispetto all'ordinaria attività consultiva, le valutazioni tecniche di
organi od enti appositi, ove richieste per disposizione espressa di legge o
di regolamento per l'adozione di un provvedimento, valutazioni qualificate
dalla legge (comma 2) non superabili e imprescindibili nel procedimento nel
caso in cui debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.
Questa previsione, relativa ai pareri “qualificati” di
amministrazioni “tecniche”, presenta, sotto il profilo soggettivo,
un’area di parziale sovrapponibilità a quella, contenuta nell’art.
14-quinquies, riguardante i pareri (e gli atti di assenso comunque
denominati) delle amministrazione preposte alla tutela di tali interessi.
Può invero ritenersi che “le amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela
della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” (di cui all’art.
14-quinquies) si identifichino tendenzialmente con quelle, contemplate dal
comma 2 dell’art. 17 della stessa l. n. 241 del 1990, “preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini”,
le cui valutazioni tecniche sono non surrogabili, a norma del comma 2 ora
citato.
Questo rilievo consente inoltre di focalizzare un altro profilo, pure
essenziale per la risposta al quesito proposto: al fine del soddisfacimento
del concetto di “preposizione” (alle funzioni di tutela ... etc.)
utile agli effetti dell’art. 14-quinquies in esame, non basterà una norma
(di fonte statale o regionale, a seconda dei casi) di attribuzione o di
delega di funzioni di tutela in quanto tali, ma occorrerà che queste
funzioni di tutela (attribuite o delegate) si concretizzino e debbano
esprimersi proprio attraverso la pronuncia di pareri tecnici (potenzialmente
ostativi e non surrogabili) o di atti di assenso comunque denominati
potenzialmente impeditivi dell’approvazione del progetto di intervento in
conferenza di servizi.
In tal senso sembra condivisibile la traccia argomentativa rinvenibile nella
sentenza di questo Consiglio (sez.
VI, 10.09.2008, n. 4333), richiamata nella relazione, che ha
riservato alle "amministrazioni specificamente preposte" alla cura di
siffatti interessi sensibili la legittimazione alla rimessione alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Sembra sotto questo profilo corretta l’impostazione suggerita da codesta
Presidenza, secondo la quale l’opposizione ex art. 14-quinquies debba essere
riservata alle sole amministrazioni specificamente ed ordinariamente
deputate alla cura di determinati interessi sensibili (Consiglio di Stato,
Sez. I,
parere 30.09.2019 n. 2534 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
parere
OGGETTO: Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per il
coordinamento amministrativo. Richiesta di parere sulla “Legittimazione
del comune dissenziente a proporre opposizione avverso la determinazione
conclusiva della conferenza di servizi, ai sensi dell'articolo 14-quinquies,
della legge 07.08.1990, n. 241, come introdotto dall'articolo 7 del decreto
legislativo 30.06.2016, n. 127”.
...
Premesso:
1. Riferisce l’Amministrazione richiedente che le pervengono numerose
opposizioni, ai sensi dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990,
formulate da amministrazioni comunali a vario titolo chiamate ad esprimersi
in seno a conferenze di servizi aventi ad oggetto impianti od opere da
autorizzare da parte di amministrazioni prevalentemente regionali (ad es.,
impianti di smaltimento di rifiuti, impianti di produzione di energia da
fonte rinnovabile, opere di mitigazione del rischio idrogeologico, etc.),
sicché è emersa la questione della possibilità, per le amministrazioni
comunali che hanno manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi
di primo livello, di attivare lo strumento dell’opposizione davanti al
Consiglio dei ministri previsto dall’art. 14-quinquies della legge n. 241
del 1990, come introdotto dal decreto legislativo n. 127 del 2016.
2. Dopo aver raffrontato il nuovo regime introdotto dalla riforma del 2016
con quello previgente e dopo aver illustrato le opposte tesi che sono state
al riguardo prospettate –dichiarando di optare per la tesi negativa– la
Presidenza del Consiglio dei Ministri ha posto i seguenti due quesiti:
2.a. In linea generale, se le amministrazioni comunali possano a pieno
titolo rientrare tra i soggetti deputati alla cura di taluni interessi
sensibili e, dunque, risultare conseguentemente legittimate a sollevare
opposizione ai sensi dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990;
2.b. con particolare riguardo al procedimento AIA, se valgano le eventuali
stesse limitazioni di cui al punto A oppure se, fermo restando il ricorrere
di talune condizioni, le amministrazioni comunali possano eccezionalmente
ricorrere —e in questa ipotesi in quali evenienze— allo strumento oppositivo
di cui alla citata disposizione della legge generale sul procedimento
amministrativo.
Considerato:
1. Anticipando (in estrema sintesi) il risultato dell’indagine, è parere
della Sezione -riguardo al primo quesito, di carattere generale- che sia
sostanzialmente da condividersi la tesi, sostenuta da codesta Presidenza del
Consiglio, che esclude la “legittimazione” dei Comuni, che abbiano
manifestato dissenso in seno alla conferenza di servizi, a sollevare
opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990 a
tutela di interessi così detti “sensibili” (ossia, secondo il testo
qui pertinente del medesimo art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990,
gli interessi di “tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei
cittadini”).
E ciò essenzialmente perché un siffatto potere non può rinvenire un suo
adeguato fondamento attributivo nella generale competenza del Comune, quale
ente esponenziale della collettività rappresentata, a “tutelare”
tutti gli interessi ad essa facenti capo, essendo invece necessaria, come si
evince dalla lettera stessa della disposizione, un’apposita “preposizione”,
con norma speciale, all’esercizio di funzioni, eminentemente
tecnico-scientifiche (cfr. art. 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del
1990), di tutela di quegli interessi “sensibili”, preposizione che,
riguardo ai Comuni, di regola non si rinviene nella legislazione di settore
che provvede alla allocazione delle funzioni amministrative ai sensi
dell’art. 118 della Costituzione.
Tuttavia, anche in considerazione del non infrequente ricorso, in specie
nella legislazione regionale in materia ambientale, a ciò abilitata dalla
legge nazionale, a forme di delega di funzioni di tutela agli enti locali e,
in taluni casi, tra questi, anche ai Comuni, non appare possibile enunciare
in questa sede una conclusione in termini assoluti, valida una per volta per
tutte e per tutti i casi applicativi, che neghi in radice e a priori un
siffatto potere di opposizione comunale, potere che potrebbe invece
ravvisarsi come sussistente allorquando la pertinente legislazione speciale
di settore, statale e, soprattutto, regionale, abbia attribuito o delegato
talune competenze (propriamente) di tutela ambientale ai Comuni.
Alla luce di questa impostazione interpretativa, dunque, codesta Presidenza
dovrà, ogni qual volta pervenga un’opposizione comunale ex art.
14-quinquies, al fine di poter motivatamente escludere la legittimazione
comunale e dichiarare inammissibile l’opposizione, operare un’attenta
analisi specifica della disciplina di settore applicabile, alla luce delle
coordinate ermeneutiche qui elaborate.
2. Fatta questa premessa chiarificatrice e precisante, ritiene la Sezione,
come anticipato, che un primo criterio orientativo per la soluzione del
quesito si rinvenga nella stessa lettera della disposizione oggi recata dal
testo dell’art. 14-quinquies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, che
attribuisce il potere di proporre opposizione dinanzi al Consiglio dei
Ministri avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza
alle “amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità dei cittadini” (a condizione che abbiano
espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della
conclusione dei lavori della conferenza).
Il participio “preposte”, infatti, riveste un suo significato
proprio, idoneo a designare non già una generica e generale rappresentanza
di interessi riconoscibile sul piano politico all’ente territoriale, ma una
specifica e puntuale attribuzione normativa di competenza amministrativa, di
solito caratterizzata da una netta connotazione tecnica, in favore di
determinati enti e plessi amministrativi, che presentano sotto questo
profilo un’apposita specializzazione nella cura di determinati interessi
“sensibili” (tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei
cittadini).
3. In prima approssimazione e in sintesi, può ritenersi che la “preposizione”
di un ente pubblico (o di organi e uffici di pubbliche amministrazioni) alla
cura (più nello specifico alla “tutela”) di determinati
beni-interessi pubblici richieda un’attribuzione specifica di competenza
mediante norme speciali di settore, e dunque debba distinguersi dalla
generale competenza, riconosciuta per tradizionale assunto dottrinario ai
Comuni in quanto enti storicamente preesistenti allo stesso ordinamento
costituzionale vigente, di una generale “rappresentanza” esponenziale
di tutti gli interessi riconducibili alla collettività organizzata nel
rispettivo ambito territoriale, rappresentanza che trova fondamento, dunque,
non già e non necessariamente in specifici riconoscimenti normativi, ma trae
origine dalla natura stessa dell’ente locale, e che tuttavia recede di
fronte a specifiche attribuzioni di competenze settoriali fondate su norme
speciali.
4. Una traccia normativa ulteriore che corrobora questa impostazione può
rinvenirsi nella generale previsione dell’art. 17 della legge n. 241 del
1990, che distingue e qualifica in termini “forti”, rispetto
all'ordinaria attività consultiva, le valutazioni tecniche di organi od enti
appositi, ove richieste per disposizione espressa di legge o di regolamento
per l'adozione di un provvedimento, valutazioni qualificate dalla legge
(comma 2) non superabili e imprescindibili nel procedimento nel caso in cui
debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.
Questa previsione, relativa ai pareri “qualificati” di
amministrazioni “tecniche”, presenta, sotto il profilo soggettivo,
un’area di parziale sovrapponibilità a quella, contenuta nell’art.
14-quinquies, riguardante i pareri (e gli atti di assenso comunque
denominati) delle amministrazione preposte alla tutela di tali interessi.
Può invero ritenersi che “le amministrazioni preposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela
della salute e della pubblica incolumità dei cittadini” (di cui all’art.
14-quinquies) si identifichino tendenzialmente con quelle, contemplate dal
comma 2 dell’art. 17 della stessa legge n. 241 del 1990, “preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini”,
le cui valutazioni tecniche sono non surrogabili, a norma del comma 2 ora
citato.
Questo rilievo consente inoltre di focalizzare un altro profilo, pure
essenziale per la risposta al quesito proposto: al fine del soddisfacimento
del concetto di “preposizione” (alle funzioni di tutela ... etc.)
utile agli effetti dell’art. 14-quinquies in esame, non basterà una norma
(di fonte statale o regionale, a seconda dei casi) di attribuzione o di
delega di funzioni di tutela in quanto tali, ma occorrerà che queste
funzioni di tutela (attribuite o delegate) si concretizzino e debbano
esprimersi proprio attraverso la pronuncia di pareri tecnici (potenzialmente
ostativi e non surrogabili) o di atti di assenso comunque denominati
potenzialmente impeditivi dell’approvazione del progetto di intervento in
conferenza di servizi.
In tal senso sembra condivisibile la traccia argomentativa rinvenibile nella
sentenza di questo Consiglio (sez. VI, 10.09.2008, n. 4333), richiamata
nella relazione, che ha riservato alle "amministrazioni specificamente
preposte" alla cura di siffatti interessi sensibili la legittimazione alla
rimessione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Sembra sotto questo profilo corretta l’impostazione suggerita da codesta
Presidenza, secondo la quale l’opposizione ex art. 14-quinquies debba essere
riservata alle sole amministrazioni specificamente ed ordinariamente
deputate alla cura di determinati interessi sensibili.
5. Conforta la tesi negativa anche la considerazione della “storia”
recente della disciplina della conferenza di servizi, anteriormente alla
riforma del 2016, che aiuta altresì a penetrare la ratio dell’istituto: come
bene evidenziato anche nella richiesta di parere, nel regime anteriore alla
riforma del 2016 (si veda l’antevigente art. 14-quater, comma 3), era
inconfigurabile un potere del Comune di provocare l’esame dell’affare da
parte del Consiglio dei Ministri facendo valere un interesse “sensibile”
oppositivo alla realizzazione del progetto.
Il “ricorso” a questo rimedio era infatti riservato, in termini
speculari rispetto al regime attuale, non già all’amministrazione contraria
alla conclusione positiva della conferenza, bensì all’amministrazione
procedente che intendesse superare il parere negativo di un’amministrazione
preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei
cittadini, parere negativo che determinava un effetto ostativo alla
conclusione positiva della conferenza e impeditivo dell’approvazione del
progetto, dinanzi al quale l’amministrazione procedente, interessata invece
alla conclusione positiva della conferenza, non aveva altro rimedio se non
la rimessione dell’affare alla sede “politica” del Consiglio dei
Ministri.
6. La competenza del Consiglio dei Ministri (che si esprime in un atto di
alta amministrazione connotato da discrezionalità amministrativa, in veste
quasi sostitutiva della ordinaria sede tecnico-discrezionale: cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 23.05.2012, n. 3039: Id., 15.01.2013, n. 220; sez. IV,
12.06.2014, n. 2999; sez. VI, 04.02.2014, n. 505, sez. IV, 24.08.2017, n.
4062; Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 12.07.2019, n.
18829) “scattava” dunque solo a fronte di un parere negativo
vincolante, non ordinariamente superabile, opposto da un’amministrazione
preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei
cittadini. E dunque, nel sistema della conferenza di servizi antevigente
alla riforma introdotta dal decreto legislativo 30.06.2016, n. 127 in
attuazione dell’articolo 2 della legge di delega 07.08.2015, n. 124, la
competenza sussidiaria del Consiglio dei Ministri poteva attivarsi solo se “innescata”
(indirettamente) da un’amministrazione titolare di un siffatto potere di “veto”,
ossia di pronuncia di un parere (o di un diniego di un atto di assenso)
vincolante (in senso negativo) l’esito del procedimento.
Orbene, in quel sistema ai Comuni non sembra sia stato mai riconosciuto un
siffatto potere di veto tramite un parere negativo vincolante a tutela dei
ripetuti interessi “sensibili” (l’art. 14-quater, comma 3, della
legge n. 241 del 1990 nel testo antevigente alla riforma del 2016 prevedeva
che “ove venga espresso motivato dissenso da parte di un'amministrazione
preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la
questione, in attuazione e nel rispetto del principio di leale
collaborazione e dell'articolo 120 della Costituzione, è rimessa
dall’amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei
Ministri, che ha natura di atto di alta amministrazione”; la norma
peraltro contemplava espressamente il caso del dissenso motivato “espresso
da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria
competenza”, ma non considerava il caso di dissenso manifestato da un
Comune).
7. La ratio della riforma di cui al d.lgs. n. 127 del 2016 -che ha
ribaltato quel sistema, privilegiando l’esito positivo della conferenza di
servizi e onerando della rimessione dell’affare al Consiglio dei Ministri
non più l’amministrazione procedente, ma quella preposta alla tutela di
interessi sensibili il cui parere negativo sia stato giudicato superabile
nel meccanismo di prevalenza quali-quantitativa che caratterizza il modulo
decisionale della conferenza di servizi– risiede nello snellimento e
nell’accelerazione dei procedimenti, con deflazione del carico gravante sul
Consiglio dei Ministri, anche in considerazione del fatto che la rimessione
dell’affare amministrativo alla suddetta sede “politica” (di alta
amministrazione connotata da discrezionalità amministrativa e non più
tecnica) dovrebbe costituire l’eccezione e non la regola, trattandosi pur
sempre di una deroga alla regola generale di riserva del provvedimento di
gestione agli organi amministrativi ordinari e non al vertice dell’indirizzo
politico-amministrativo.
Sarebbe dunque paradossale una soluzione interpretativa che, ammettendo per
la prima volta una tale competenza comunale di “veto” ostativo alla
conclusione della conferenza di servizi per profili di tutela di interessi “sensibili”
e la conseguente legittimazione a opporsi alla decisione favorevole dinanzi
al Consiglio dei Ministri, finirebbe per complicare il quadro regolatorio di
riferimento e per rallentare, anziché snellire i procedimenti, in evidente
contraddizione con la ratio sottesa alla riforma.
8. Così fissate le linee argomentative generali che definiscono la logica di
base del presente parere, occorre ora indagare più nel dettaglio l’ambito e
la natura delle possibili competenze riconoscibili in capo ai Comuni nelle
materie di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni
culturali, della salute e della pubblica incolumità dei cittadini: ed
invero, come già preannunciato nel par. 1, la vastità e l’eterogeneità delle
fonti di possibili attribuzioni di competenze comunali non consentono di
enunciare in termini assoluti in questa sede una regola di necessaria
esclusione della legittimazione comunale a proporre opposizione; una tale
conclusione, come tratteggiata nei precedenti paragrafi, vale sicuramente in
linea di massima, ma non esime dalla necessità di effettuare un
approfondimento analitico caso per caso alla luce anche della specifica
legislazione regionale applicabile.
La Sezione potrà, dunque, in questa sede solo dettare l’impostazione
generale di tale indagine, ma essa, per la sua ampiezza, non potrà certo
concludersi in termini esaustivi, residuando comunque uno spazio di
ulteriore verifica caso per caso che dovrà necessariamente essere compiuta
da codesta Presidenza nel singolo procedimento concreto.
8.1 Occorre in primo luogo operare una fondamentale distinzione, nell’ambito
delle competenze degli enti locali, tra le funzioni così dette storiche, “proprie”
e/o “fondamentali” [art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.; Corte
cost., sentenze n. 179 del 2019, n. 160 del 2016, n. 378 del 2000, nn. 83
del 1997 e 286 del 1997], nonché le funzioni speciali attribuite da
particolari norme, e la generale competenza di rappresentanza degli
interessi della popolazione locale.
Al riguardo, come condivisibilmente annotato dalla Presidenza nella
richiesta di parere, non va confuso l’ambito della legittimazione
procedimentale e anche processuale (sotto il profilo della legittimazione a
ricorrere dinanzi al Giudice amministrativo), riconosciuta al Comune in
termini molto ampi a “tutela” di tutte le situazioni soggettive di
carattere collettivo e di interesse generale locale facenti capo alla
comunità territoriale rappresentata, con l’attribuzione specifica
(preposizione) di competenze “tecniche” di tutela di particolari
beni-interessi pubblici.
È noto e incontroverso che è consentito, ad esempio, ai Comuni di impugnare
dinanzi al Giudice amministrativo provvedimenti dell’autorità statale o
regionale che, operando una riorganizzazione territoriale degli uffici,
possano determinare una riduzione della prestazione dei servizi offerti a
livello comunale (si pensi ai noti e numerosi casi di chiusura di strutture
sanitarie pubbliche, di posti di polizia, di uffici postali, di uffici
giudiziari, di plessi scolastici, etc.), ma non si è mai per questo
sostenuto che i Comuni fossero titolari di una corrispondente funzione
amministrativa propria di tutela (sanitaria, di pubblica sicurezza, in
materia postale, giudiziaria, scolastica, etc.).
La legittimazione dei Comuni a impugnare atti e provvedimenti di altre
amministrazioni (soprattutto statali) storicamente è stata sempre ammessa
sulla base della previsione generale (poi rifluita nell’art. 26 del testo
unico delle leggi sul Consiglio di Stato di cui al regio decreto n. 1054 del
1924) che accordava il ricorso a tutti gli “individui o enti morali
giuridici” titolari di un interesse che fosse oggetto di atti e
provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo amministrativo
deliberante.
Su questa base è stata sempre ripetuta in giurisprudenza la massima secondo
cui al Comune, quale ente territoriale esponenziale di una determinata
collettività di cittadini, istituzionalmente legittimato a curarne e a
difenderne gli interessi e a promuoverne lo sviluppo, deve riconoscersi la
legittimazione ad agire contro tutti gli atti ritenuti in qualche modo
lesivi di quegli interessi.
Ma tale legittimazione ad agire non implica affatto, evidentemente, il
riconoscimento di una corrispondente competenza di amministrazione attiva
comunale in quelle materie e su quegli interessi.
8.2. Operata questa fondamentale chiarificazione, occorre adesso richiamare
il quadro costituzionale di riferimento per l’attribuzione delle funzioni
agli enti locali territoriali.
L’art. 114, secondo comma della Costituzione, nel testo risultante dalla
riforma introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, prevede che “I
Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi
con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione”. L’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione
riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la disciplina delle materie
“legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di
Comuni, Province e Città metropolitane”. L’art. 118, nei commi primo e
secondo, stabilisce che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai
Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a
Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I Comuni, le Province e le
Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di
quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive
competenze”.
8.3. A livello di legge ordinaria deve essere menzionato, benché
sostanzialmente superato dalla riforma costituzionale del 2001, il decreto
legislativo n. 112 del 1998 (Conferimento di funzioni e compiti
amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione
del capo I della legge 15.03.1997, n. 59), che, all’art. 3 (Conferimenti
alle regioni e agli enti locali e strumenti di raccordo), commi 1 e 2,
anticipando per certi aspetti la riforma del titolo V della Costituzione,
stabiliva che “Ciascuna regione, ai sensi dell'articolo 4, commi 1 e 5,
della legge 15.03.1997, n. 59, entro sei mesi dall'emanazione del presente
decreto legislativo, determina, in conformità al proprio ordinamento, le
funzioni amministrative che richiedono l'unitario esercizio a livello
regionale, provvedendo contestualmente a conferire tutte le altre agli enti
locali, in conformità ai principi stabiliti dall'articolo 4, comma 3, della
stessa legge n. 59 del 1997, nonché a quanto previsto dall'articolo 3 della
legge 08.06.1990, n. 142” e che “2. La generalità dei compiti e delle
funzioni amministrative è attribuita ai comuni, alle province e alle
comunità montane, in base ai principi di cui all'articolo 4, comma 3, della
legge 15.03.1997, n. 59, secondo le loro dimensioni territoriali,
associative ed organizzative, con esclusione delle sole funzioni che
richiedono l'unitario esercizio a livello regionale”.
8.4. Viene dunque in rilievo soprattutto il decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267, recante il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, il quale stabilisce, all’art. 3, commi 2 e 5, che “2. Il comune è
l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e
ne promuove lo sviluppo” e che “5. I comuni e le province sono
titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello
Stato e della regione, secondo il principio di sussidiarietà”.
L’art. 13 (Funzioni) prevede che “1. Spettano al comune tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale,
precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità,
dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico,
salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
L’art. 50, comma 5, prevede poi il potere del sindaco, quale rappresentante
della comunità locale, di emanare ordinanze contingibili e urgenti in caso
di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente
locale (o in relazione all'urgente necessità di interventi volti a superare
situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del
patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana,
con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del
riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita,
anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e
superalcoliche).
L’art. 112 (Servizi pubblici locali) prevede che “1. Gli enti locali,
nell'ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei
servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività
rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e
civile delle comunità locali”.
8.5. L’art. 11 della legge 05.05.2009, n. 42 (recante Delega al Governo in
materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della
Costituzione) prevedeva, tra i princìpi e criteri direttivi concernenti il
finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane, che
i decreti legislativi attuativi del federalismo fiscale dovessero
classificare le spese relative alle funzioni di comuni, province e città
metropolitane, in: “1) spese riconducibili alle funzioni fondamentali ai
sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, come
individuate dalla legislazione statale; 2) spese relative alle altre
funzioni”.
8.6. Il decreto legislativo 26.11.2010, n. 216 (Disposizioni in materia di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città
metropolitane e Province), all’art. 3, ha previsto che “fino alla data di
entrata in vigore della legge statale di individuazione delle funzioni
fondamentali di Comuni, Città metropolitane e Province, le funzioni
fondamentali ed i relativi servizi presi in considerazione in via
provvisoria, ai sensi dell'articolo 21 della legge 05.05.2009, n. 42, sono:
a) per i Comuni: 1) le funzioni generali di amministrazione, di gestione e
di controllo, nella misura complessiva del 70 per cento delle spese come
certificate dall'ultimo conto del bilancio disponibile alla data di entrata
in vigore della legge 05.05.2009, n. 42; 2) le funzioni di polizia locale;
3) le funzioni di istruzione pubblica, ivi compresi i servizi per gli asili
nido e quelli di assistenza scolastica e refezione, nonché l'edilizia
scolastica; 4) le funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti; 5) le
funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell'ambiente, fatta
eccezione per il servizio di edilizia residenziale pubblica e locale e piani
di edilizia nonché per il servizio idrico integrato; 6) le funzioni del
settore sociale”, mentre le “funzioni nel campo della tutela
ambientale” sono attribuite dal n. 5) della lettera b) del comma 1 alle
Province.
8.7. Il decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 122 del 2010, all’art. 14 (Patto di stabilità interno ed altre
disposizioni sugli enti territoriali), comma 27 (come modificato dall’art.
19 del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 135 del 2012), stabilisce che “sono funzioni fondamentali dei
comuni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della
Costituzione: a) organizzazione generale dell'amministrazione, gestione
finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici
di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di
trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni
mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione
urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla
pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito
comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei
primi soccorsi; f) l'organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta,
avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei
relativi tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi
sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo
quanto previsto dall'articolo 118, quarto comma, della Costituzione; h)
edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle
province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia
municipale e polizia amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato
civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in
materia di servizi elettorali, nell'esercizio delle funzioni di competenza
statale; l-bis) i servizi in materia statistica”.
9. Le norme, costituzionali e di legge ordinaria, sopra passate in rassegna,
dimostrano che i Comuni in generale non sono preposti –nel senso tecnico e
specifico del termine– ad alcuna delle funzioni di “tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità dei cittadini” di cui all’art. 14-quinquies
della legge n. 241 del 1990.
Naturalmente, secondo il disegno istituzionale chiaramente delineato
nell’art. 118 Cost., la legge nazionale e la legge regionale, ciascuna per
le materie rientranti nella rispettiva competenza legislativa, possono
attribuire le funzioni amministrative, per assicurarne l'esercizio unitario,
alle Regioni, alle Province, alle Città metropolitane, in attuazione dei
principi di differenziazione e adeguatezza (che bilanciano e fanno da
contrappeso al principio di sussidiarietà verticale).
Ne consegue, come già avvertito nei paragrafi 1 e 8, che la seguente
disamina, che non può evidentemente spingersi fino alla verifica delle leggi
regionali di tutte le Regioni, non può escludere del tutto il caso –per il
quale si deve dunque lasciare aperto uno spazio ipotetico residuale– in cui
le leggi regionali, nelle materie di competenza legislativa regionale (o in
caso di delega delle funzioni di tutela prevista nella legge statale),
possano aver attribuito talune competenze di tutela ai Comuni.
Si segnala, a mero titolo di esempio, la legge della Regione Piemonte n. 42
del 2000, che ha delegato ai Comuni le funzioni, in materia di bonifica dei
siti inquinati, di approvazione del progetto e di autorizzare degli
interventi previsti, nonché in tema di realizzazione degli interventi di
messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale, che costituiscono
sicuramente competenze di tutela ambientale.
E tuttavia, anche in un caso del genere, in cui si assiste a una delega
regionale di funzioni di tutela ambientale in favore dei Comuni, occorre
rilevare –come già chiarito nel par. 4, ultimo periodo- che una siffatta
attribuzione non pare rilevante e risolutiva ai fini della proponibilità
dell’opposizione al Consiglio dei Ministri ex art. 14-quinquies della legge
n. 241 del 1990, poiché, a tal fine, si deve trattare non già di competenze
“qualsiasi”, purché in materia di tutela ambientale, ma occorre che
si tratti, evidentemente, di competenze a pronunciare pareri o atti di
assenso comunque denominati in conferenze di servizi per progetti,
interventi o attività da approvare o autorizzare. Nell’esempio proposto
della legge regionale del Piemonte, invero, la tutela delegata in materia di
bonifica dei siti inquinati pone il Comune delegato nella posizione di
autorità procedente e non di autorità chiamata a rendere un parere o un atto
di assenso comunque denominato, e dunque non rileva ai fini del presente
quesito.
10. Fatte queste ulteriori considerazioni di carattere generale, che
avvertono (nuovamente) della necessità che sia condotta caso per caso una
verifica puntuale circa l’eventuale sussistenza di attribuzioni comunali,
anche delegate, di funzioni di tutela di “interessi sensibili”, che
si traducano nel potere di rendere pareri o atti di assenso comunque
denominati (ma a particolare connotazione tecnica), occorre ora procedere a
una disamina più di dettaglio con riguardo alla principale legislazione di
settore nelle materie della tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità
dei cittadini.
10.1. Guardando alla “tutela ambientale”, occorre fare riferimento
soprattutto al decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, recante Norme in
materia ambientale.
10.1.a. Volendo svolgere una rapida disamina dei principali istituti di
tutela disciplinati in detto decreto legislativo, seguendo l’ordine del suo
indice sommario, emerge in primo luogo che, in materia di V.I.A., di V.A.S.
e di A.I.A., l’art. 7 prevede (comma 6) che “In sede regionale,
l'autorità competente ai fini della VAS e dell'AIA è la pubblica
amministrazione con compiti di tutela, protezione e valorizzazione
ambientale individuata secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle
Province autonome” e che (comma 7) “Le Regioni e le Province autonome
di Trento e di Bolzano disciplinano con proprie leggi e regolamenti le
competenze proprie e quelle degli altri enti locali in materia di VAS e di
AIA”; l’art. 7-bis, analogamente, stabilisce per la V.I.A. (comma 5) che
“In sede regionale, l'autorità competente è la pubblica amministrazione
con compiti di tutela, protezione e valorizzazione ambientale individuata
secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle Province autonome”
e che (comma 8) “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano
disciplinano con proprie leggi o regolamenti l'organizzazione e le modalità
di esercizio delle funzioni amministrative ad esse attribuite in materia di
VIA, nonché l'eventuale conferimento di tali funzioni o di compiti specifici
agli altri enti territoriali sub-regionali”.
Ai fini che qui interessano le eventuali attribuzioni ai Comuni di talune
delle ora dette funzioni non parrebbero rilevanti sotto il profilo della
legittimazione a proporre l'opposizione ex art. 14-quinquies, poiché si
tratterebbe di funzioni di autorità precedente e non di autorità titolare di
poteri di rendere atti di assenso comunque denominati. Tuttavia, nel caso in
cui il Comune fosse delegato alla conclusione di un procedimento di
valutazione di impatto ambientale, che si conclude con un atto che diviene
presupposto per l’autorizzazione dell’intervento, non potrebbe evidentemente
negarsi la legittimazione comunale ad opporsi nel caso in cui l’autorità che
ha indetto la conferenza di servizi (ad es., la Provincia o la Regione)
ritenga di poter superare la V.I.A. negativa e di poter comunque pervenire
(non interessa qui se legittimamente o illegittimamente) a una conclusione
favorevole della conferenza.
10.1.b. In materia di difesa del suolo l’art. 62 (Competenze degli enti
locali e di altri soggetti) prevede che “1. I comuni, le province, i loro
consorzi o associazioni, le comunità montane, i consorzi di bonifica e di
irrigazione, i consorzi di bacino imbrifero montano e gli altri enti
pubblici e di diritto pubblico con sede nel distretto idrografico
partecipano all'esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del
suolo nei modi e nelle forme stabilite dalle regioni singolarmente o
d'intesa tra loro, nell'ambito delle competenze del sistema delle autonomie
locali”.
Sembra tuttavia che si tratti di competenze di tutela di regola concentrate
in capo alle apposite Autorità di bacino distrettuale istituite per ciascun
distretto idrografico.
10.1.c. In materia di tutela delle acque dall’inquinamento l’art. 75
(Competenze), comma 1, lettera b), stabilisce che “le regioni e gli enti
locali esercitano le funzioni e i compiti ad essi spettanti nel quadro delle
competenze costituzionalmente determinate e nel rispetto delle attribuzioni
statali”.
In tema di autorizzazione agli scarichi è dunque possibile che sussistano,
in base alle pertinenti leggi regionali, attribuzioni comunali. Ma non
sembra che tali funzioni autorizzatorie possano assumere la consistenza
specifica e tecnica che è necessaria agli effetti del meccanismo della
conferenza di servizi. L’eventuale diniego comunale sembra superabile con
gli ordinari mezzi decisionali della conferenza di servizi e non può,
dunque, dare ingresso a un potere comunale di opposizione dinanzi alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri.
10.1.d. In materia di servizio idrico integrato e di gestione dei rifiuti il
“codice ambiente” prevede sostanzialmente compiti gestionali dei
relativi servizi, non compiti di tutela.
10.1.e. Neppure in materia di tutela dell’aria si rinvengono in capo ai
Comuni specifici compiti di tutela, al di là del monitoraggio, di solito
svolto in collaborazione con le Agenzie regionali per la protezione
dell’ambiente o con le Aziende sanitarie locali, in disparte i poteri di
ordinanza
10.1.f. Le funzioni di tutela ambientale a livello locale sono state del
resto tradizionalmente attribuite alle Province, enti territoriali di area
vasta: il TUEL (d.lgs. n. 267 del 2000), all’art. 19, attribuisce alla
provincia “le funzioni amministrative di interesse provinciale che
riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale nei
seguenti settori: a) difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente
e prevenzione delle calamità; b) tutela e valorizzazione delle risorse
idriche ed energetiche; ... e) protezione della flora e della fauna parchi e
riserve naturali; ... g) ... disciplina e controllo degli scarichi delle
acque e delle emissioni atmosferiche e sonore; h) servizi sanitari, di
igiene e profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazione statale e
regionale”. Tali attribuzioni non risultano peraltro escluse dalla legge
07.04.2014, n. 56 (recante Disposizioni sulle città metropolitane, sulle
province, sulle unioni e fusioni di comuni).
10.2. Guardando alla “tutela paesaggistico-territoriale”, essa,
riferita [pur nell’improprietà lessicale della disposizione) alla tutela
paesaggistica e non alla ordinaria “tutela” (recte: “vigilanza”)
in materia edilizia e urbanistica (di cui al capo I del titolo IV -
Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia - del Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001), sicuramente spettante ai Comuni, ma irrilevante
agli effetti dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990 qui in
esame], deve osservarsi, come già rilevato, che, nel testo normativo
speciale di riferimento, costituito dal codice dei beni culturali e del
paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, le “funzioni amministrative di
tutela dei beni paesaggistici sono esercitate dallo Stato e dalle regioni
secondo le disposizioni di cui alla Parte terza del presente codice”
(art. 5, comma 6) e (art. 146, comma 6) “La regione esercita la funzione
autorizzatoria in materia di paesaggio avvalendosi di propri uffici dotati
di adeguate competenze tecnico-scientifiche e idonee risorse strumentali.
Può tuttavia delegarne l'esercizio, per i rispettivi territori, a province,
a forme associative e di cooperazione fra enti locali come definite dalle
vigenti disposizioni sull'ordinamento degli enti locali, agli enti parco,
ovvero a comuni, purché gli enti destinatari della delega dispongano di
strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze
tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di
tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia
urbanistico-edilizia, in modo che sia sempre assicurato un livello di
governo unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite”.
In ogni caso, nel procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica è tuttora previsto il parere vincolante degli organi
periferici ministeriali. Deve dunque escludersi che, tecnicamente, il Comune
possa dirsi “preposto” alla tutela dei beni paesaggistici e del
paesaggio, agli effetti dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990.
10.3. Analoghe conclusioni devono a fortiori valere per le funzioni
di tutela dei beni culturali, pacificamente riservate agli organi statali
(art. 5 cit. e parte seconda, titolo primo, del codice di settore)
10.4. Riguardo alle funzioni di tutela della salute ritiene la Sezione che
analoghe considerazioni debbano valere in relazione alle funzioni in materia
di igiene e sanità riconosciute al Sindaco dagli artt. 216 e 217 del testo
unico delle leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934, in tema di
lavorazioni insalubri, e al Comune dagli artt. 218 ss. stesso testo unico,
in tema di igiene degli abitati urbani e rurali e delle abitazioni.
Come si chiarirà anche nei paragrafi 13 ss., a proposito del secondo quesito
proposto da codesta Presidenza, tali poteri sindacali e comunali devono
infatti essere correttamente inquadrati nel più ampio contesto normativo di
riferimento, come si è evoluto ed è oggi vigente; essi, in particolare, in
presenza di competenze statali e regionali fondate su titoli speciali di
attribuzione normativa di tutela ambientale, devono ritenersi recessivi
rispetto ai pareri e agli atti di assenso o di diniego provenienti dalle
autorità tecniche, e ciò anche in relazione alle già richiamate previsioni
dell’art. 17 della legge n. 241 del 1990, che rendono non superabili (e
imprescindibili) le valutazioni tecniche di organi od enti appositi
richieste per l'adozione di un provvedimento allorquando tali valutazioni
debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini, nonché in base al
già richiamato (par. 8.4) art. 13 del TUEL (ove si precisa che spettano al
comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il
territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla
persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e
dello sviluppo economico, “salvo quanto non sia espressamente attribuito
ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive
competenze”).
10.5. Sempre in materia sanitaria, non costituisce idonea preposizione ai
fini dell’art. 14-quinquies in esame la norma, richiamata anche nella
relazione della Presidenza del Consiglio, contenuta nell’art. 50, comma 5,
del TUEL: essa prevede infatti un potere straordinario del sindaco, quale
rappresentante della comunità locale, di emanare ordinanze contingibili e
urgenti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica, potere però,
come detto, straordinario e come tale inidoneo a fondare un titolo di
preposizione specifica alla tutela ordinaria di quegli interessi; il potere
sindacale de quo, invero, si pone ed opera “a valle” dell’ordinaria
funzione di tutela sanitaria ed ambientale, quale rimedio “di chiusura”
del sistema, per il caso in cui debba farsi fronte ad eventuali situazioni
imprevedibili che, eccedendo il quadro dell’ordinarietà della gestione e
cura di quegli interessi, richiedano interventi contingibili e urgenti per
porre rimedio a eventi che li minaccino o pregiudichino; si tratta, dunque,
di un potere che non riguarda il momento (ex ante) della valutazione
e dell’approvazione dei progetti degli interventi e delle attività
potenzialmente idonee a incidere sui suddetti profili sanitari e ambientali.
10.6. Riguardo alle funzioni di tutela della pubblica incolumità dei
cittadini, in disparte le funzioni di ordinanza contingibile e urgente del
Sindaco, non rilevanti, per quanto detto sopra, ai fini della questione
all’esame del Collegio, occorre domandarsi se le numerose funzioni comunali
che direttamente o indirettamente attengono alla tutela della pubblica
incolumità dei cittadini siano tali da poter fondare la legittimazione
comunale a proporre l’opposizione contemplata dall’art. 14-quinquies della
legge n. 241 del 1990.
A giudizio della Sezione la risposta deve al riguardo essere negativa,
poiché, in particolar modo in questo campo, emerge e viene in rilievo quella
particolare connotazione tecnica e specialistica delle funzioni di tutela
–presa in considerazione dal ripetuto art. 14-quinquies– di cui si è già
detto sopra nei paragrafi 4, ultimo periodo, e 9, ultimo periodo,
connotazione che sembra mancare affatto nelle competenze comunali in esame,
appartenendo, invece, a speciali corpi e complessi organizzativi statali (ad
es., Vigili del fuoco) e di altre amministrazioni (si pensi alla Protezione
civile).
Non v’è dubbio sul fatto che anche i Comuni partecipino, e con compiti di
indubbio rilievo, alla “filiera” territoriale del sistema di
protezione civile, ma con compiti e funzioni di primo intervento, oltre che
di monitoraggio e di allerta, gestionali e organizzativi, ma mai tecnici in
quel senso proprio di cui agli artt. 14-quinquies e 17, comma 2, della legge
n. 241 del 1990.
11. Concludendo sul primo quesito, la Sezione ritiene che in linea di
massima debba escludersi una competenza comunale idonea a legittimare la
proposizione dell’opposizione ai sensi dell’art. 14-quinquies della legge n.
241 del 1990, ma che tale possibilità non possa essere esclusa a priori con
assoluta certezza, residuando comunque la possibilità che essa possa trovare
il suo fondamento in attribuzioni o deleghe di funzioni di tutela ad opera
di leggi statali o regionali settoriali. Con l’ulteriore corollario
conclusivo per cui codesta Presidenza, pur nell’ambito delle coordinate
interpretative generali qui fornite, tendenzialmente negative di una
siffatta competenza comunale, dovrà in ogni caso, riguardo al singolo affare
concreto, svolgere una puntuale disamina sulla legislazione settoriale e
regionale applicabile alla fattispecie.
12. Con il secondo quesito specifico codesta Presidenza ha domandato, con
particolare riguardo al procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione
integrata ambientale (A.I.A.), se valgano le eventuali stesse limitazioni
sopra dette oppure se, fermo restando il ricorrere di talune condizioni, le
amministrazioni comunali possano eccezionalmente ricorrere —e in questa
ipotesi in quali evenienze— allo strumento oppositivo di cui alla citata
disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo.
13. Più nel dettaglio codesta Presidenza ha osservato che, ai sensi
dell’art. 29-quater del decreto legislativo n. 152 del 2006 (codice
dell'ambiente), nel combinato disposto con gli artt. 216 e 217 del testo
unico delle leggi sanitarie, la posizione del Comune in seno alla conferenza
preordinata al rilascio della autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.)
appare “connotata da elementi di una certa particolarità”, poiché è
previsto (comma 6 dell’art. 29-quater) che siano acquisite nell'ambito della
conferenza dei servizi “le prescrizioni del sindaco di cui agli articoli 216
e 217 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265” e che (comma 7) “In presenza
di circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione
di cui al presente titolo, il sindaco, qualora lo ritenga necessario
nell'interesse della salute pubblica, può, con proprio motivato
provvedimento, corredato dalla relativa documentazione istruttoria e da
puntuali proposte di modifica dell'autorizzazione, chiedere all’autorità
competente di riesaminare l'autorizzazione rilasciata ai sensi dell'articolo
29-octies”.
14. Anche rispetto a questa tematica specifica, come riferisce la
Presidenza, si sarebbero proposte due soluzioni alternative, l’una
affermativa della piena legittimazione delle amministrazioni comunali a
sollevare, sempre e comunque, il ridetto strumento dell’opposizione ai sensi
dell'art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, dal momento che il
Sindaco agirebbe come autorità sanitaria ai sensi e per gli effetti di cui
ai citati artt. 216 e 217 del testo unico leggi sanitarie del 1934, l’altra,
invece, tendente a configurare questa ipotesi come eccezionale e comunque
limitata al potere di richiedere “determinate cautele”, senza il
potere di “preventiva inibitoria”, limitata dunque a un parere sul
quomodo, mediante l’indicazione di specifiche modalità o misure ritenute
necessarie per la tutela della salute dei residenti, con esclusione del
dissenso sull’an, ossia del potere di opporre veti assoluti sulla
fattibilità in sé del singolo impianto.
15. Osserva al riguardo la Sezione che il caso specifico sottoposto a parere
con il secondo quesito rappresenta un esempio applicativo degli indirizzi
sopra formulati e può agevolmente risolversi alla stregua di tali criteri
interpretativi: ai fini della “legittimazione” a proporre
l’opposizione non basta una qualsiasi attribuzione di funzioni di tutela
ambientale e sanitaria, ma occorre una particolare attribuzione di
competenza, caratterizzata altresì da quelle connotazioni tecniche e
specialistiche evincibili dal parallelo tra il testo dell’art. 14-quinquies
e quello dell’art. 17, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990.
L’esame delle norme recate dagli artt. 29-quater del decreto legislativo n.
152 del 2006 e 216-217 del testo unico delle leggi sanitarie dimostra, alla
luce della condivisibile prospettazione operata da codesta Presidenza delle
modifiche normative successivamente intervenute, che le competenze
attribuite dalle suddette disposizioni al Sindaco del Comune nel cui
territorio ricade l’insediamento di un’industria insalubre non presentano
più le suddette caratterizzazioni di specificità e tecnicità, tali da
renderle idonee a legittimare all’opposizione ex art. 14-quinquies in esame.
Rispetto ad esse, infatti, da un lato opera la prevalenza della competenza
tecnica rimessa dalla norma speciale all’autorità decidente o ad altre
autorità tecniche chiamate ad esprimersi in sede di conferenza di servizi
(ARPA, ASL, Vigili del fuoco, etc.), dall’altro lato opera la delimitazione
introdotta dalla disciplina speciale della procedura di A.I.A. contenuta nel
così detto “codice ambiente” del 2006, che comporta necessariamente
l’esclusione che la conclusione favorevole della conferenza di servizi,
basata sui pareri tecnici favorevoli, possa essere impedita dal dissenso del
Sindaco, espresso in base all’art. 216 del ripetuto testo unico del 1934.
16. Vengono in rilievo, sotto questo profilo, da un lato il già
citato art. 19 del TUEL, nella parte in cui, come si è visto ai par. 8.4 e
10.4, chiarisce che le funzioni amministrative generali spettanti al Comune
sono da valere salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri
soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze;
dall’altro lato l’art. 14-quater del d.lgs. n. 152 del 2006, che non
consente logicamente di ipotizzare come ancora applicabile un potere
inibitorio del Sindaco, ammettendo solo eventuali poteri di richiedere
prescrizioni e il riesame successivo dell’A.I.A. in caso di sopravvenienze e
di emissioni ritenute insalubri che si discostino dai valori e dai parametri
approvati.
17. I commi 6 e 7 del citato art. 14-quater prevedono, rispettivamente, che
“Nell'ambito della Conferenza dei servizi di cui al comma 5, vengono
acquisite le prescrizioni del sindaco di cui agli articoli 216 e 217 del
regio decreto 27.07.1934, n. 1265, etc.” e che “In presenza di
circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione di
cui al presente titolo, il sindaco, qualora lo ritenga necessario
nell'interesse della salute pubblica, può, con proprio motivato
provvedimento, corredato dalla relativa documentazione istruttoria e da
puntuali proposte di modifica dell'autorizzazione, chiedere all'autorità
competente di riesaminare l'autorizzazione rilasciata ai sensi dell'articolo
29-octies”.
Appare dunque evidente che, sotto il primo profilo (comma 6), la
partecipazione del Sindaco alla conferenza di servizi non può assumere
carattere ostativo della (eventuale) conclusione favorevole (che deve
fondarsi evidentemente sui pareri e sugli altri atti di assenso tecnici
delle amministrazioni preposte in modo specifico e ordinario alla tutela
ambientale e sanitaria), ma deve limitarsi a richiedere le prescrizioni di
cui agli artt. 216 e 217 del testo unico delle leggi sanitarie; e che, sotto
il secondo profilo (comma 7), il Sindaco non ha più il potere di inibire
successivamente la prosecuzione dell’attività, ma può solo, a fronte di
circostanze intervenute successivamente al rilascio dell'autorizzazione,
chiedere all'autorità competente di riesaminare l'autorizzazione.
18. In tal senso paiono condivisibili le conclusioni prospettate da codesta
Presidenza, che mostra di aderire alla tesi restrittiva, secondo la quale “non
sembra essere ulteriormente consentita neppure la "successiva inibitoria" ex
art. 217, primo comma, TULS, ma soltanto la "richiesta di riesame" del
provvedimento AIA già rilasciato”, poiché il potere del Sindaco di cui agli
artt. 216 e 217 del r.d. n. 1254 del 1934 “sembra essere stato ridisegnato o
meglio fortemente ridimensionato dalla stessa normativa in tema di AIA”,
essendo passato “da un potere misto di "preventiva inibitoria" e
"determinate cautele" da impartire (art. 216, sesto comma, TULS, cit.) ... a
sole prescrizioni (ossia quelle che prima erano considerate le "determinate
cautele")”, nonché da un potere di "successiva inibitoria" ex
art. 217, primo comma, TULS, a un potere di "richiesta di riesame"
del provvedimento AIA già rilasciato.
Risultano condivisibili le indicazioni in tal senso provenienti dalla
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, richiamate nella richiesta di
parere (Cons. Stato, sez. IV, 15.12.2011, n. 6612), secondo le quali il
Comune non possiede né strumenti, né competenze per accertare “in proprio”
le condizioni sanitarie di una industria insalubre ed è tenuto ad attenersi
alle prescrizioni dell'autorità sanitaria, pena lo stravolgimento
dell'ordine delle competenze.
19. Non sembra, invece, condivisibile la proposta conclusiva prospettata da
codesta Presidenza, riguardo alla tipologia di affari in esame, secondo la
quale “l'eventuale valutazione (negativa) espressa dalla amministrazione
comunale in difformità rispetto al parere (positivo) della ASL dovrebbe
essere analiticamente istruita e motivata, ai fini del riconoscimento della
legittimazione di cui in questa sede si discute, soprattutto in termini di
sicura inattendibilità della posizione manifestata dalla amministrazione
istituzionalmente competente alla tutela della salute”.
Una tale soluzione, oltre che di complessa e incerta applicazione pratica,
non pare persuasiva poiché anticipa al procedimento amministrativo quel
giudizio di legittimità, sotto il profilo del non eccesso di potere per
inattendibilità manifesta dell’esercizio della discrezionalità tecnica
dell’organo specialistico (nell’esempio, la ASL), che appartiene in realtà
al processo e al sindacato giurisdizionale sull’esercizio della funzione
dell’organo tecnico.
In sostanza, in un caso del genere, il Comune potrà se del caso agire
dinanzi al Tar, in forza della sua ampia legittimazione ad agire (di cui qui
si è detto nel par. 8.1), avverso la conclusione favorevole della conferenza
di servizi e il provvedimento di A.I.A. nella parte in cui abbiano acquisito
e condiviso un parere tecnico (nell’esempio, della ASL) in realtà affetto da
illegittimità per eccesso di potere per erroneo uso della discrezionalità
tecnica, ma non potrà logicamente per tali motivi essere ammesso a proporre
l’opposizione ex art. 14-quinquies di cui si discute. Un siffatto giudizio
di inattendibilità delle conclusioni cui è pervenuto l’organo tecnico,
dunque, non può essere rimesso a codesta Presidenza per essere usato come
criterio per decidere in sede amministrativa dell’ammissibilità o della
inammissibilità dell’opposizione comunale.
20. In conclusione, le amministrazioni preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla
tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini cui è
riservata l’opposizione in sede di Consiglio dei ministri ai sensi dell’art.
14-quinquies della legge n. 241 del 1990, devono identificarsi
–anche alla luce del combinato disposto degli artt. 14-quinquies e 17, comma
2, della stessa legge n. 241 del 1990- in quelle
amministrazioni alle quali norme speciali attribuiscono una competenza
diretta, prevalentemente di natura tecnico-scientifica, e ordinaria ad
esprimersi attraverso pareri o atti di assenso comunque denominati a tutela
dei suddetti interessi così detti “sensibili”, e tale attribuzione
non si rinviene, di regola e in linea generale, nelle competenze comunali di
cui all’art. 13 del d.lgs. n. 267 del 2000, né tra le competenze in campo
sanitario demandate al Sindaco e al Comune dal testo unico delle leggi
sanitarie di cui al r.d. n. 1265 del 1934, né tra le altre funzioni
fondamentali (proprie o storiche) dei Comuni, fatta salva, comunque, la
necessità di una verifica puntuale, da condursi caso per caso, della
insussistenza di norme speciali, statali o regionali che, anche in via di
delega, attribuiscano siffatte funzioni all’ente comunale. |
EDILIZIA PRIVATA: Inserimento
di balconi.
L'inserimento dei
balconi, pur non comportando un aumento di
volumetria o di superficie utile, varia
l'aspetto estetico dell'edificio,
comportando, quindi, un apprezzabile
mutamento nel “prospetto” dell'edificio
stesso.
Siffatte opere devono considerarsi soggette
a permesso di costruire, a norma dell'art.
10 D.P.R. n. 380 del 2001 che vi assoggetta
oltre gli interventi di nuova costruzione e
di ristrutturazione urbanistica anche quelli
di ristrutturazione edilizia, tra i quali
appaiono sussumibili gli interventi che
determinano modifiche dei prospetti.
Da ciò consegue, sul piano della
qualificazione dell’intervento, che mentre
la mera apertura può in particolari casi
essere ricondotta all’attività di restauro e
risanamento conservativo, così non può
affermarsi per il balcone aggettante che,
modificando sempre e sistematicamente
l’aspetto esterno, configura una
ristrutturazione edilizia, in quanto, muta,
seppure in parte, gli elementi tipologici
formali e strutturali dell'organismo
preesistente
(TAR Lombardia-Milano, Sez II,
sentenza 30.09.2019 n. 2059 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
1) Il ricorso è fondato.
La questione centrale del presente ricorso è
la qualificazione dell’intervento realizzato
dal vicino della ricorrente, consistente
nella creazione di un balcone che prospetta
sul cortile interno.
L’immobile in base alla disciplina
urbanistica comunale è incluso nel “Tessuto
Storico e Nuclei Frazionali”, la cui
regolamentazione è posta nell’art. 55 delle
NTA del PGT, che nell’ambito degli
interventi di risanamento conservativo
prevede la possibilità di “dare nuovi
allineamenti e dimensioni alla partitura
delle finestre ed introdurre nuove aperture
solo sulle facciate interne purché queste
non abbiano pregevoli connotati
architettonici”.
Ritiene la ricorrente che l’intervento si
ponga in contrasto con la suddetta
disposizione, che permette nuove aperture,
ma non la realizzazione di nuovi balconi.
Sarebbe anche errata la qualificazione
dell’intervento come opera di restauro e
risanamento e verrebbero altresì violate le
norme in materia di distanza tra edifici,
cioè l’art. 9 del DM 1444/1968 e l’art. 6
delle NTA del PGT.
2) Ad avviso del Collegio la tesi della
ricorrente sulla qualificazione
dell’intervento e sulla interpretazione
della normativa pianificatoria locale, è
fondata.
L’art. 55.6, c. 3), delle NTA del PGT del
Comune di Santa Maria della Versa ammette
interventi di risanamento conservativo al
fine di salvaguardare il “valore
storico-ambientale dell’edificio da
conseguire attraverso la conservazione della
distribuzione, della tecnologia edilizia e
della morfologia dell’edificio”.
La disposizione alla lett. h) prevede la
possibilità di “dare nuovi allineamenti e
dimensioni alla partitura delle finestre ed
introdurre nuove aperture solo sulle
facciate interne purché queste non abbiano
pregevoli connotati architettonici”.
Ritiene il Collegio che il dato testuale
della disposizione deponga univocamente nel
senso che il riferimento sia solo a nuove
aperture, cioè le classiche finestre o
affacci, che non modificano lo stato di
fatto preesistente, a differenza del balcone
che realizza un aggetto prima inesistente.
La facoltà di nuove aperture di cui al sopra
citato art. 55 si ricollega proprio alla
finalità dell’attività di risanamento
conservativo di quella zona, cioè di
permettere opere che qualifichino gli
stabili, conservandone però la morfologia
originaria, che può non essere mutata con
l’apertura di una finestra (sempre che, come
dice la norma, si tratti di facciate interne
che non abbiano pregevoli connotati
architettonici), mentre varia sicuramente se
viene modificato il contorno con un balcone
aggettante.
L'inserimento dei balconi,
pur non comportando un aumento di volumetria
o di superficie utile, varia l'aspetto
estetico dell'edificio, comportando, quindi,
un apprezzabile mutamento nel “prospetto”
dell'edificio stesso. E’ stato rilevato in
giurisprudenza che siffatte opere devono
considerarsi soggette a permesso di
costruire, a norma dell'art. 10 D.P.R. n.
380 del 2001, che vi assoggetta oltre gli
interventi di nuova costruzione e di
ristrutturazione urbanistica anche quelli di
ristrutturazione edilizia, tra i
quali appaiono sussumibili gli interventi
che determinano modifiche dei prospetti
(v. TAR Puglia, Bari, Sez. III, 01.04.2019
n. 470).
Da ciò consegue, sul piano
della qualificazione dell’intervento, che
mentre la mera apertura può in particolari
casi essere ricondotta all’attività di
restauro e risanamento conservativo, così
non può certamente affermarsi per il balcone
aggettante che, modificando sempre e
sistematicamente l’aspetto esterno,
configura una ristrutturazione edilizia, in
quanto, muta, seppure in parte, gli elementi
tipologici formali e strutturali
dell'organismo preesistente.
Secondo l’orientamento consolidato infatti
sono annoverabili tra gli interventi di
restauro o di risanamento conservativo
soltanto le opere di recupero abitativo, che
mantengono in essere le preesistenti
strutture, alle quali apportano un
consolidamento, un rinnovo o l'inserimento
di nuovi elementi costitutivi, a condizione
che siano complessivamente rispettate
tipologia, forma e struttura dell'edificio
(ex multis Consiglio di Stato, Sez.
IV, 16.12.2016 n. 5358). Il che consente di
prescindere dall’approfondimento della
novella legislativa del 2017, in quanto
successiva alla vicenda oggetto della
presente controversia (v. su questa tematica
v. TAR Lazio, Sez. II, 20.09.2019 n. 11155).
Si verte invece
nell’ipotesi di ristrutturazione edilizia,
secondo la definizione fornita dal D.P.R. n.
380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d),
quando l'esecuzione dei lavori, anche se di
entità modesta, porta pur sempre alla
creazione di "un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente".
Nel caso di specie, il
balcone è creato ex novo e integra,
comportando la modifica del prospetto
dell’edificio, un intervento di
ristrutturazione edilizia.
Sul punto l’orientamento giurisprudenziale è
consolidato: la modifica dei prospetti viene
qualificata come intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi degli
artt. 3, c. 1, lett. d) e 10, c. 1, lett. c)
del T.U. 06.06.2001, n. 380, non potendo
viceversa configurarsi un mero intervento di
manutenzione
(Consiglio di Stato, sez. VI, 04/10/2011 n.
5431; TAR Napoli, (Campania), sez. VII,
07/06/2012, n. 2717; TAR Napoli, (Campania)
sez. IV, 28/11/2017, n. 5643; TAR Bari,
(Puglia) sez. III, 01/04/2019, n. 470; da
ultimo anche questa sezione 06/09/2018, n.
2049).
Stante la fondatezza delle censure
imperniate sull’errata qualificazione
dell’intervento edilizio e
sull’ingiustificata decisione di assentire
le opere in forza dell’art. 55 della NTA del
PGT, le ulteriori censure possono essere
assorbite.
3) Il ricorso va quindi accolto, con
conseguente annullamento degli atti
impugnati e obbligo dell’Amministrazione di
riesaminare l’istanza della ricorrente,
tenendo conto della presente decisione. |
EDILIZIA PRIVATA: Mutamento
di destinazione d’uso di un magazzino.
La gestione di un magazzino è assimilabile
all’attività produttiva quando ha a oggetto
le materie prime o i semilavorati destinati
a essere impiegati nel ciclo produttivo,
mentre, di contro, si inserisce nella fase
della commercializzazione quando finge da
deposito di prodotti finiti pronti per
essere immessi nel mercato; ne consegue che
l’attività di stoccaggio di prodotti finiti
(alimenti) in attesa della loro spedizione
ai destinatari finali (i.e. coloro che
acquistano i prodotti via web o telefono)
deve essere qualificata come commerciale.
Non essendo in
contestazione che l’immobile ove venivano
stoccati detti prodotti avesse
originariamente destinazione produttiva,
nella fattispecie è verificato un cambio di
destinazione d’uso urbanisticamente
rilevante ai sensi dell’articolo 52, comma
3, L.R. Lombardia n. 12/2005 che determina
un aumento del carico urbanistico, come si
ricava dall’articolo 5 D.M. 1444/1968, e
giustifica la debenza di un maggior
contributo di costruzione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.09.2019 n. 2055 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è infondato e non merita
accoglimento.
Dalla documentazione in atti si evince
incontrovertibilmente che l’attività svolta
da Eu. S.r.l. nell’immobile di
proprietà della società In. S.p.A. sia di
vendita all’ingrosso di alimenti: si vedano,
in particolare, il contratto di locazione
stipulato da Eu.Im. S.r.l. e Eu. S.r.l. in cui si dà esplicitamente
atto che l’immobile locato sarà destinato a
deposito e magazzino per il commercio
all’ingrosso, e alla dichiarazione di inizio
attività presentata da Eu. S.r.l. per
vendita all’ingrosso di alimentari (docc. 6
e 7 fascicolo di In. S.p.A.).
Né può negarsi che l’attività ivi svolta non
sia commerciale, limitandosi la società
Eu. S.r.l. a stoccare gli alimenti in
attesa della loro spedizione ai destinatari
finali (i.e. coloro che acquistano i
prodotti via web o telefono). Infatti, come
la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire,
la gestione di un magazzino è assimilabile
all’attività produttiva quando ha a oggetto
le materie prime o i semilavorati destinati
a essere impiegati nel ciclo produttivo,
mentre, di contro, si inserisce nella fase
della commercializzazione quando finge da
deposito di prodotti finiti pronti per
essere immessi nel mercato (cfr., C.d.S.,
Sez. IV, sentenza n. 6388/2018).
Dunque, poiché Eu. S.r.l. stoccava
nell’immobile per cui è causa prodotti
finiti (alimenti) l’attività da essa svolta
deve essere qualificata come commerciale.
Ora, non essendo in contestazione che
l’immobile di via ... avesse
originariamente destinazione produttiva, ne
consegue che si è verificato un cambio di
destinazione d’uso urbanisticamente
rilevante ai sensi dell’articolo 52, comma
3, L.R. Lombardia n. 12/2005 (cfr., sentenza
n. 1536/2015 della Sezione). Il mutamento da
artigianale/produttivo a commerciale
determina, infatti, un aumento del carico
urbanistico come si ricava dall’articolo 5
D.M. 1444/1968 (cfr., TAR Toscana, Sez.
III, sentenza n. 309/2018) e giustifica la
debenza di un maggior contributo di
costruzione.
Peraltro, ai fini del calcolo dell’aumento
del contributo di costruzione dovuti da
proprietario e utilizzatore del bene,
correttamente l’Amministrazione ha tenuto
conto, oltre che della parte destinata a
magazzino, anche della superficie lorda
occupata dalla celle frigorifere, dagli
uffici e dai locali accessori, in quanto
vani tutti strettamente funzionali
all’attività commerciale medesima, e ha
applicato le tabelle per l’attività
commerciale, quale è quella svolta da
Eu. S.r.l.. Sicché, non vi è stato
alcun errore di quantificazione del dovuto.
Infine, la pendenza del ricorso promosso da
Eu. S.r.l. avverso analoga ingiunzione
di pagamento emessa nei suoi confronti dal
Comune non incide in alcun modo sulla
legittimità dell’atto qui impugnato.
Peraltro, quel giudizio risulta estinto per
perenzione.
Né è causa di illegittimità il fatto che
l’ingiunzione di pagamento ordini alla
società In. S.p.A. il versamento di €uro
303.103,01 a titolo di oneri di
urbanizzazione e costi di costruzione,
mentre nella nota del 21.07.2001 la stessa
somma capitale è richiesta solamente a
titolo di oneri di urbanizzazione, facendo
salvo il successivo calcolo del costo di
costruzione.
Invero, la suddetta nota è un
mero atto endoprocedimentale e non l’atto
conclusivo del procedimento; peraltro,
l’ingiunzione di pagamento, proprio perché
qualifica la somma ivi indicata come
definitiva e non più come parziale, è più
favorevole alla ricorrente, che dunque non
ha interesse a dolersene.
In conclusione, il ricorso è infondato e per
questo viene respinto. |
EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, "la realizzazione di una recinzione non
richiede un idoneo titolo edilizio solo in presenza di una trasformazione
che, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le
dimensioni dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione
ambientale, estetica e funzionale, con la conseguenza che la distinzione tra
esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios ex art. 831
cod. civ. va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del
manufatto".
---------------
Secondo la costante giurisprudenza, in forza di quanto previsto dagli artt. 22 e 37, comma 1,
d.P.R. n. 380/2001, l'applicabilità della sanzione pecuniaria è, difatti,
limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa segnalazione
certificata di inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti
urbanistici vigenti.
---------------
Per pacifico principio giurisprudenziale, l'ordinanza di demolizione di un
immobile abusivo, essendo un atto dovuto e vincolato, deve considerarsi come
dotato di un'adeguata e sufficiente motivazione qualora contenga la
descrizione delle opere abusive e la constatazione della loro abusività.
---------------
Il sig. -OMISSIS- ha impugnato l’ordinanza n. -OMISSIS-con cui il Comune di
-OMISSIS- gli ha ordinato di rimuovere una recinzione e il provvedimento del
-OMISSIS-, di inibitoria della scia in sanatoria, presentata il 04.03.2014, articolando le seguenti doglianze: ...
...
Le censure non sono fondate.
Per giurisprudenza costante, "la realizzazione di una recinzione non
richiede un idoneo titolo edilizio solo in presenza di una trasformazione
che, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le
dimensioni dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione
ambientale, estetica e funzionale, con la conseguenza che la distinzione tra
esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios ex art. 831
cod. civ. va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del
manufatto" (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 14.06.2018, n. 3661).
Nel caso di specie, la circostanza che la recinzione sia costituita da
blocchi prefabbricati in calcestruzzo è già di per sé sola sufficiente ad
escludere l’assenza di modifica dell’assetto del territorio.
Non può neppure ritenersi che l’opera in questione sia realizzabile in forza
di una scia e che trovi conseguentemente applicazione la sola sanzione
pecuniaria.
L’opera contrasta, difatti, con la previsione di cui all’art. 51, c. 3, delle nta, secondo cui nelle zone urbanistiche EE le recinzioni fisse devono
essere realizzate integralmente in legno o con montanti in legno
direttamente infissi nel ruolo e rete metallica di altezza non superiore a
150 cm.
Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, quanto contestato con i
provvedimenti impugnati circa le caratteristiche costruttive della
recinzione realizzata dal sig. -OMISSIS- in zona agricola non deriva da mere
valutazioni estetiche dell’amministrazione ma è previsto in una disposizione
vincolante, contenuta nelle nta del prg.
Deve, pertanto, escludersi che potesse essere irrogata la sola sanzione
pecuniaria in luogo di quella demolitoria: secondo la costante
giurisprudenza, in forza di quanto previsto dagli artt. 22 e 37, comma 1,
d.P.R. n. 380/2001, l'applicabilità della sanzione pecuniaria è, difatti,
limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa segnalazione
certificata di inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti
urbanistici vigenti (Cons. Stato Sez. VI, 24.05.2013, n. 2873; Tar Piemonte,
sent. n. 70/2019; n. 1296/2018).
In considerazione della natura vincolata del potere esercitato –in un
contesto in cui la scia è stata presentata dal sig. -OMISSIS- a fronte di
lavori già eseguiti ed a seguito della comunicazione di avvio del
procedimento demolitorio– e della correttezza del contenuto dispositivo dei
provvedimenti impugnati, la censura con cui viene dedotta la violazione del
principio del contraddittorio non può portare all’annullamento della nota
con cui il Comune si è pronunciato sulla scia del 04.03.2014, così come
previsto dall’art. 21-octies, l. n. 241/1990.
Non sussiste, infine, il lamentato difetto di motivazione: per pacifico
principio giurisprudenziale, l'ordinanza di demolizione di un immobile
abusivo, essendo un atto dovuto e vincolato, deve considerarsi come dotato
di un'adeguata e sufficiente motivazione qualora contenga la descrizione
delle opere abusive e la constatazione della loro abusività (cfr., fra le
tante, Consiglio di Stato sez. VI, 30/04/2019, n. 2823).
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata è esente da questo vizio,
indicando con precisione l’opera abusiva e le disposizioni violate, senza
che assuma alcun rilievo il richiamo ad un parere, pur non necessario.
Per le ragioni esposte il ricorso è, dunque, infondato e deve essere
respinto
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 30.09.2019 n. 1013 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
costante la giurisprudenza nell'affermare la natura reale o “propter rem”
delle obbligazioni di pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di
costruzione (nonché delle sanzioni per ritardato pagamento) sicché le stesse, caratterizzate
dalla stretta inerenza alla res e destinate a circolare unitamente ad essa
per il carattere dell'ambulatorietà che le contraddistingue, gravano anche
sull'acquirente nel caso di trasferimento del bene.
Invero, ribadendo un costante principio giurisprudenziale, l'obbligazione in
solido per il pagamento degli oneri di urbanizzazione e la natura reale
dell'obbligazione riguardano i soggetti che stipulano la convenzione, quelli
che richiedono la concessione e quelli che realizzano l'edificazione, nonché
i loro aventi causa.
---------------
6.1. La controversia de qua ruota intorno alla natura della
obbligazioni di pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Il Collegio, al riguardo, rammenta che è costante la giurisprudenza (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 30.11.2011, n. 6333; Id., sez. IV, 23.11.2018, n. 6624; Cass. civ., sez. II,
09.06.2011, n. 12571; Id. sez. III,
17.06.1996, n. 5541) nell'affermare la natura reale o “propter rem”
delle obbligazioni di pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di
costruzione (nonché delle sanzioni per ritardato pagamento, cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 01.04.2011, n. 2037), sicché le stesse, caratterizzate
dalla stretta inerenza alla res e destinate a circolare unitamente ad essa
per il carattere dell'ambulatorietà che le contraddistingue, gravano anche
sull'acquirente nel caso di trasferimento del bene.
Invero, ribadendo un costante principio giurisprudenziale, l'obbligazione in
solido per il pagamento degli oneri di urbanizzazione e la natura reale
dell'obbligazione riguardano i soggetti che stipulano la convenzione, quelli
che richiedono la concessione e quelli che realizzano l'edificazione, nonché
i loro aventi causa (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2019 n. 3141) (CGARS,
sentenza 30.09.2019 n. 848 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la prescrizione per la riscossione degli oneri di urbanizzazione, risulta
pacifica l'applicazione dell'ordinario termine decennale ex art. 2946 c.c..
Al riguardo, detto termine decorre dalla data in cui il credito può essere fatto
valere, ossia dal momento del rilascio della concessione, poiché è da tale
momento che l'amministrazione determina (o può determinare) i relativi
importi e che, di conseguenza, il relativo diritto può esser fatto valere
(art. 2935 c.c.).
---------------
8.
Quanto alla dedotta prescrizione per la riscossione degli oneri di
urbanizzazione, premesso che risulta pacifica l'applicazione dell'ordinario
termine decennale ex art. 2946 c.c., il Collegio deve osservare che:
a) detto termine decorre dalla data in cui il credito può essere fatto
valere, ossia dal momento del rilascio della concessione, poiché è da tale
momento che l'amministrazione determina (o può determinare) i relativi
importi e che, di conseguenza, il relativo diritto può esser fatto valere
(art. 2935 c.c.) (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 05.07.2018, n. 4123; Id.,
sez. IV, 26.02.2013, n. 1188; Id., 03.10.2012, n. 5201; Id., 19.01.2009, n. 216) (CGARS,
sentenza 30.09.2019 n. 848 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
1.- Criminalità – Enti locali – art. 143 TUEL - scioglimento degli organi
elettivi ed amministrativi per infiltrazioni di stampo mafioso - elementi
sintomatici.
2.- Criminalità – Enti locali – scioglimento degli organi elettivi ed
amministrativi per infiltrazioni di stampo mafioso – garanzie procedimentali
– limiti.
1. Gli elementi sintomatici del
condizionamento criminale devono caratterizzarsi per concretezza ed essere,
anzitutto, assistiti da un obiettivo e documentato accertamento nella loro
realtà storica; per univocità, intesa quale loro chiara direzione agli scopi
che la misura di rigore è finalizzata a prevenire; per rilevanza, che si
caratterizza per l’idoneità all’effetto di compromettere il regolare
svolgimento delle funzioni dell’ente locale.
L’art. 143 del T.U.E.L., al comma 1 (nel testo novellato dall’art. 2, comma
30, della l. n. 94 del 2009), richiede infatti che gli elementi capaci di
evidenziare la sussistenza di un rapporto tra l’organizzazione mafiosa e gli
amministratori dell’ente considerato infiltrato devono essere «concreti,
univoci e rilevanti» ed assumere una valenza tale da determinare
un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi
elettivi ed amministrativi e da compromettere l’imparzialità delle
amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei
servizi ad esse affidati.
La coesistenza di elementi oggettivi ed elementi soggettivi è indubbiamente
necessaria ad integrare la fattispecie dell’art. 143 del T.U.E.L.: gli uni e
gli altri devono convergere non in una rappresentazione statica e
dicotomica, ma dinamica e sinergica: la vita politica e amministrativa di un
ente, infatti, nella sua complessità, non può essere letta e valutata in
modo esasperatamente analitico, sicché, se è vero che elementi oggettivi e
soggettivi devono sussistere entrambi, è anche vero che essi devono essere
letti insieme, secondo una connessione che, per quanto non assolutamente
certa, deve apparire almeno altamente probabile e assistita da una valida
spiegazione razionale, rispetto alla quale tutte le altre spiegazioni
risultino meno plausibili.
Se è vero che il mero disordine amministrativo o che semplici prassi quanto
meno opinabili o addirittura estese sequenze di atti illegittimi adottati
dall’ente locale non bastano, in sé, a giustificare la misura dissolutoria,
non si può negare però che le irregolarità nella gestione dei pubblici
appalti, possano costituire un indice significativo della grave
compromissione che l’esercizio delle funzioni amministrative risente per
effetto della penetrazione diffusa delle logiche mafiose all’interno
dell’apparato politico e amministrativo locale, ad ogni livello.
2. L’avvio del procedimento, di cui all’art. 143 del T.U.E.L., non
deve essere preceduto dalla comunicazione, di cui all’art. 7 della l. n. 241
del 1990, né da particolari guarentigie procedimentali non solo per il tipo
di interessi coinvolti che non concernono, se non indirettamente, le
persone, ma la complessiva rappresentazione operativa dell’ente locale e,
quindi, in ultima analisi, gli interessi dell’intera collettività comunale,
ma anche perché la difesa delle ragioni degli amministratori coinvolti e dei
componenti del consiglio disciolto, scaturenti dal principio del giusto
procedimento, è comunque assicurata –per quanto posticipata– alla sede del
controllo giurisdizionale: è dunque sul piano della tutela giurisdizionale
che si sposta, essenzialmente, il controllo sull’emissione di queste misure
preventive, straordinarie ed eccezionali, tutela giurisdizionale.
A fronte, infatti, di una misure caratterizzate dal fatto di costituire la
reazione dell’ordinamento alle ipotesi di attentato all’ordine ed alla
sicurezza pubblica, non è ipotizzabile alcuna violazione dell’art. 97 Cost.
per l’assenza o per la diminuzione delle garanzie partecipative, dato che la
disciplina del procedimento amministrativo è rimessa alla discrezionalità
del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri
principi costituzionali, tra i quali non è compreso quello del “giusto
procedimento” amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive
è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt. 24 e 113 Cost.
(massima free tratta da www.giustamm.it -
Consiglio di Stato, Sezione III,
sentenza 26.09.2019 n. 6435 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Il
diritto europeo osta a una normativa nazionale che limita al 30% la parte
dell’appalto che l’offerente può subappaltare a terzi.
La
Corte di giustizia UE ha dichiarato che la normativa europea in materia di
appalti pubblici deve essere interpretata nel senso che essa osta a una
normativa nazionale che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente
è autorizzato a subappaltare a terzi.
---------------
Contratti pubblici – Subappalto – Limiti alla quota subappaltabile –
Automaticità – Esclusione
La direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici, che abroga la
direttiva 2004/18/CE, come modificata dal regolamento delegato (UE)
2015/2170 della Commissione, del 24 novembre 2015, deve essere interpretata
nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi
nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell’appalto che
l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi (1).
---------------
(1) I. – Secondo la Corte di giustizia UE, la direttiva 2014/24/UE,
in materia di appalti pubblici, deve essere interpretata nel senso che essa
osta a una normativa nazionale che limita al 30% la parte dell’appalto che
l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.
II. – La questione pregiudiziale era stata sollevata dal
Tar per la Lombardia, sez. I, ordinanza 19.01.2018, n. 148 (in
Riv. giur. edilizia, 2018, I, 263, nonché oggetto della
News US, in data 06.02.2018, alla quale si rinvia per ulteriori
approfondimenti, sulla quale si veda infra, par. e).
La questione è sorta
nell’ambito di un contenzioso avviato da un’impresa esclusa da una procedura
ristretta, indetta ai sensi dell'art. 61 del nuovo codice dei contratti
pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) per l'affidamento dei lavori di ampliamento
di una corsia autostradale. In particolare l’impresa è stata esclusa dalla
procedura di gara per aver superato la percentuale del 30% prevista come
limite al subappalto dalla normativa nazionale.
III. – Con la sentenza in rassegna, la Corte di giustizia, dopo
aver analizzato la normativa interna ed europea, ha osservato che:
a) la direttiva 2014/24/UE:
a1) persegue l’obiettivo di garantire il rispetto, nell’aggiudicazione degli
appalti pubblici, in particolare, della libera circolazione delle merci,
della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi e dei
principi che ne derivano, in particolare la parità di trattamento, la non
discriminazione, la
proporzionalità e la trasparenza, nonché di garantire che l’aggiudicazione
degli appalti pubblici sia aperta alla concorrenza;
a2) a tal fine, prevede
espressamente, all’art. 63, par. 1, la possibilità per gli offerenti di fare
affidamento, a determinate condizioni, sulle capacità di altri soggetti, per
soddisfare determinati criteri di selezione degli operatori economici;
a3) analogamente alla abrogata direttiva 2004/18/CE, prevede la possibilità,
per gli offerenti, di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un
appalto, purché le condizioni da essa previste siano soddisfatte;
b) in materia di appalti pubblici, pertanto, è interesse dell’Unione europea
che l’apertura di un bando di gara alla concorrenza sia la più ampia
possibile e il ricorso al subappalto può favorire l’accesso delle piccole e
medie imprese agli appalti pubblici. Infatti, durante la vigenza della
direttiva 2004/18/CE, la Corte ha stabilito che una clausola che impone
limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata
in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, a
prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali
subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli
incarichi di cui si tratterebbe, è incompatibile con tale direttiva;
c) l’art. 71 della direttiva 2014/24/UE, pur ricalcando il tenore dell’art.
25 della direttiva 2004/18/CE, prevede che:
c1) le amministrazioni aggiudicatrici possano chiedere o essere obbligate
dallo Stato membro a chiedere all’offerente di informarla sulle intenzioni
in materia di subappalto;
c2) l’amministrazione aggiudicatrice possa, a determinate condizioni,
trasferire i pagamenti dovuti direttamente al subappaltatore per i servizi,
le forniture o i lavori forniti al contraente principale;
c3) le amministrazioni aggiudicatrici possono verificare o essere obbligate
dagli Stati membri a verificare se sussistano motivi di esclusione dei
subappaltatori in relazione alla partecipazione a un’organizzazione
criminale, alla corruzione o alla frode;
d) tuttavia, dalla presenza di una disciplina più specifica su alcuni
aspetti del subappalto non si può dedurre che gli Stati membri dispongano
della facoltà di limitare il ricorso al subappalto a una parte dell’appalto
fissata in maniera astratta e in una determinata percentuale dello stesso;
d1) a tale conclusione non si può pervenire dall’applicazione del principio
di trasparenza, muovendo dalla considerazione che in Italia il subappalto ha
da sempre costituito uno degli strumenti di attuazione di intenti criminosi;
d2) la Corte ha già dichiarato che il contrasto al fenomeno
dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti
pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una
restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si
applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici;
d3) tuttavia, anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso
al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare siffatto
fenomeno, una restrizione quale quella attuata nel procedimento principale
eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo;
d4) durante tutta la procedura, le amministrazioni aggiudicatrici devono
rispettare i principi di aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 18
della direttiva 2014/24/UE, tra i quali figurano, in particolare, i principi
di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità;
d5) la normativa nazionale vieta in modo generale e astratto il ricorso al
subappalto che superi una percentuale fissa dell’appalto pubblico, cosicché
tale divieto si applica indipendentemente dal settore economico interessato
dall’appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall’identità dei
subappaltatori e non lascia alcuno spazio a una valutazione caso per caso da
parte dell’ente aggiudicatore;
d6) ne consegue che, per tutti gli appalti, una parte rilevante dei lavori,
delle forniture o dei servizi interessati deve essere realizzata
dall’offerente stesso, sotto pena di vedersi automaticamente escluso dalla
procedura di aggiudicazione dell’appalto, anche nel caso in cui l’ente
aggiudicatore sia in grado di verificare le identità dei subappaltatori
interessati e ove ritenga, in seguito a verifica, che siffatto divieto non
sia necessario al fine di contrastare la criminalità organizzata nell’ambito
dell’appalto in questione;
d7) misure meno restrittive sarebbero idonee a raggiungere l’obiettivo
perseguito dal legislatore italiano e il diritto italiano prevede già
numerose attività interdittive espressamente finalizzate a impedire
l’accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento
mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali
organizzazioni criminali operanti nel paese;
d8) pertanto, una restrizione al ricorso al subappalto come quella di cui
trattasi nel procedimento principale non può essere ritenuta compatibile con
la direttiva 2014/24/UE.
IV. – Per completezza si segnala che:
e) la questione pregiudiziale, come anticipato, è
stata sollevata dal Tar per la Lombardia, sez. I, ordinanza 19.01.2018, n. 148, cit., secondo cui:
e1) “Va rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la questione
pregiudiziale se i principi di libertà di stabilimento e di libera
prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), l’articolo 71 della direttiva
2014/24 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014, il
quale non contempla limitazioni quantitative al subappalto, e il principio eurounitario di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa
nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta
nell’articolo 105, comma 2, terzo periodo, del decreto legislativo18 aprile
2016, n. 50, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del 30
per cento dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o
forniture”;
e2) la previsione del limite generale del 30% per il subappalto, con
riferimento all’importo complessivo del contratto, sia per il contratto di
lavori, sia per quello di servizi e forniture, impedendo agli operatori
economici di subappaltare a terzi una parte cospicua delle opere (70%), può
rendere più difficoltoso l’accesso delle imprese, in particolar modo di
quelle di piccole e medie dimensioni, agli appalti pubblici, così
ostacolando l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera
prestazione dei servizi e precludendo, peraltro, agli stessi acquirenti
pubblici l’opportunità di ricevere offerte più numerose e diversificate;
e3) è dubbio che la misura della limitazione del 30% dell’importo
complessivo del contratto possa rappresentare lo strumento più efficace e
utile al soddisfacimento dell’obiettivo di assicurare l’integrità del
mercato dei contratti pubblici e tale misura risulterebbe sproporzionata
anche avuto riguardo alle finalità di deterrenza dell’infiltrazione
criminale in quanto già oggetto di adeguata considerazione mediante altri
strumenti previsti dall’ordinamento giuridico;
f) dinanzi alla Corte di giustizia UE pende analoga questione sollevata dal
Consiglio di Stato, sez. VI, ordinanza 11.06.2018, n. 3553
(in Guida al dir., 2018, fasc. 29, 84, con nota di TOMASSETTI, e in Riv. giur.
edilizia, 2018, I, 857, nonché oggetto della
News US, in data 15.06.2018, alla quale si rinvia per
ulteriori approfondimenti), secondo il quale “Va rimessa alla Corte di
giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale se i principi di
libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli
articoli 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE),
gli artt. 25 della Direttiva 2004/18 del Parlamento Europeo e del Consiglio
del 31.03.2004 e 71 della Direttiva 2014//24 del Parlamento Europeo e del
Consiglio del 26.02.2014, che non contemplano limitazioni per quanto
concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare ai
subappaltatori, nonché il principio eurounitario di proporzionalità, ostino
all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici,
quale quella italiana contenuta nell’art. 118 commi 2 e 4, del decreto
legislativo 12.04.2006 n. 163, secondo la quale il subappalto non può
superare la quota del trenta per cento dell’importo complessivo del
contratto e l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in
subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un
ribasso non superiore al venti per cento”.
La questione sollevata dal
Consiglio di Stato si differenzia da quella sollevata dal Tar per la
Lombardia per due profili:
f1) il Tar per la Lombardia ha sollevato una questione pregiudiziale
relativamente alla vigente disciplina di cui all’art. 105 del d.lgs. n. 50
del 2016, mentre la sesta sezione del Consiglio di Stato ha proceduto
relativamente alla disposizione previgente applicabile ratione temporis;
f2) l’ordinanza del Consiglio di Stato, oltre alla questione della quota di
prestazione subappaltabile, ha rimesso anche la questione dell’ulteriore
limite al ribasso di prezzo praticabile nei confronti del subappaltatore
(disposizione presente oltre che nel d.lgs. n. 163 del 2006 anche nel d.lgs.
n. 50 del 2016, ma non tenuta in considerazione dal Tar per la
Lombardia);
g) sul subappalto in generale:
g1) con riferimento alla disciplina di cui all’art. 118 d.lgs. n. 163 del
2006 si vedano: N. CENTOFANTI, M. FAVAGROSSA e P. CENTOFANTI, Il subappalto,
Padova, 2012; A. GUARNIERI, D. TESSERA, commento all’art. 118, in
Commentario al codice dei contratti pubblici, a cura di G. F. FERRARI, G.
MORBIDELLI, Milano, 2013; A. DI RUZZA, C. LINDA, commento all’art. 118, in
Codice dell'appalto pubblico, a cura di S. BACCARINI, G. CHINÈ, R. PROIETTI,
Milano, 2015, 1366 ss.; D. GALLI e C. GUCCIONE, Contratti pubblici: «avvalimento»
e subappalto in Giornale dir. amm., 2015, 127; C. SADILE, Il subappalto dei
lavori pubblici, Milano, 2014;
g2) con riferimento alla disciplina di cui all’art. 105 d.lgs. n. 50 del
2016 si vedano: MANCINI G., Brevi note sui limiti di ammissibilità del
subappalto ai sensi dell'art. 105 del nuovo codice degli appalti in Riv.
trim. appalti, 2016, 711; M. GENTILE, Il subappalto nel «nuovo» codice:
aumentano limiti, vincoli e dubbi applicativi in Appalti & Contratti, 2016,
fasc. 6, 43; R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1488
ss.;
g3) con riferimento alla disciplina successiva al correttivo al Codice dei
contratti pubblici (d.lgs. n. 56 del 2017) si vedano: GENTILE M., Il
correttivo allarga <con moderazione> le maglie del subappalto in Appalti &
Contratti, 2017, fasc. 7, 15; G. BALOCCO, La riforma del subappalto e
principio di concorrenza in
Urbanistica e appalti, 2017, 621; G.A. GIUFFRE’, Le novità in tema di
subappalto in Il correttivo al Codice dei contratti pubblici, a cura di M.A.
SANDULLI, M. LIPARI, F. CARDARELLI, Milano, 2017, p. 331;
h) sulla compatibilità con il diritto europeo dei limiti al subappalto posti
dalla legislazione italiana:
h1) in dottrina spunti specifici sul tema sono offerti da M. MARTINELLI, La
capacità economica e finanziaria, in Il nuovo diritto degli appalti pubblici
a cura di R. GAROFOLI, M.A. SANDULLI, Milano, 2005, 633 (ove si evidenzia
che “la giurisprudenza comunitaria appare orientata a riconoscere la
possibilità di ricorrere al subappalto oltre i limiti eventualmente
stabiliti dalla normativa interna, allorché i requisiti di capacità del
terzo subappaltatore siano stati valutati in corso di gara
dall’amministrazione aggiudicatrice…in tal caso, infatti, vi sono tutte le
garanzie che l’appalto venga effettivamente eseguito da soggetti dotati di
adeguata qualificazione”), M. E. COMBA, L'esecuzione delle opere
pubbliche - Con cenni di diritto comparato, Torino, 2011, 61 ss., R. CARANTA,
I contratti pubblici, Torino, 2012, 364, che, evidenziati i limiti al
subappalto della legislazione italiana, stigmatizza che “si tratta di
limiti tout court in contrasto con il diritto europeo”;
h2) il tema è anche affrontato nell’ambito dei pareri resi dal Consiglio di
Stato sul nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016), reso
sul progetto di nuovo codice dei contratti pubblici, e sul correttivo allo
stesso (d.lgs. n. 56 del 2017), reso sul progetto di decreto correttivo al
codice: nel parere n. 855/2016 il Consiglio di Stato aveva osservato, in
relazione all’art. 105, che il legislatore nazionale potrebbe porre, in tema
di subappalto, limiti di maggior rigore rispetto alle direttive europee, che
non costituirebbero un ingiustificato goldplating, ma sarebbero giustificati
da pregnanti ragioni di ordine pubblico, di tutela della trasparenza e del
mercato del lavoro; nel parere n. 782 del 2017 il Consiglio di Stato, pur
partendo dalla premessa che “questo Consesso non ignora la giurisprudenza
della C. giust. UE, e, segnatamente, da ultimo, la decisione C. giust. UE,
III, 14.07.2016 C-406/14 (ma v. anche C. giust.UE, 10.10.2013 C-94/12; Id.,
18.03.2004 C-314/01), secondo cui il diritto europeo non consente agli Stati
membri di porre limiti quantitativi al subappalto”, afferma che “tuttavia,
tale giurisprudenza eurounitaria si è appunto formata in relazione alla
previgente direttiva 2004/18” e conclude nel senso che “la
complessiva disciplina delle nuove direttive, più attente, in tema di
subappalto, ai temi della trasparenza e della tutela del lavoro, in una con
l’ulteriore obiettivo, complessivamente perseguito dalle direttive, della
tutela delle micro, piccole e medie imprese, può indurre alla ragionevole
interpretazione che le limitazioni quantitative al subappalto, previste da
legislatore nazionale, non sono in frontale contrasto con il diritto europeo”;
h3) quanto alla giurisprudenza europea si vedano, tra le altre:
- Corte di
giustizia UE, sez. IV, 20.09.2018, C-546/16, Montte SL, (in Appalti &
Contratti, 2018, fasc. 10, 68), secondo cui, tra l’altro, “L’art. 66
direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una
normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento
principale, che autorizza le amministrazioni aggiudicatrici ad imporre, nel
capitolato d'oneri di una gara d'appalto con procedura aperta, requisiti
minimi per la valutazione tecnica, cosicché le offerte presentate che, al
termine di tale valutazione, non raggiungono una soglia di punteggio minima
prestabilita sono escluse dalle fasi successive dell'aggiudicazione
dell'appalto, e ciò a prescindere dal numero di offerenti restanti”, “La
direttiva 2014/24/Ue del parlamento europeo e del consiglio 26.02.2014,
sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/Ce, deve essere
interpretata nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella
di cui trattasi nel procedimento principale, che autorizza le
amministrazioni aggiudicatrici ad imporre, nel capitolato d'oneri di una
gara d'appalto con procedura aperta, requisiti minimi per la valutazione
tecnica, cosicché le offerte presentate che, al termine di tale valutazione,
non raggiungono una soglia di punteggio minima prestabilita sono escluse
dalla successiva valutazione fondata sia su criteri tecnici sia sul prezzo”;
- Corte di giustizia UE, sez. V, 05.04.2017, C-298/2015, Borta UAB, secondo
cui “per gli appalti pubblici di rilievo transfrontaliero, anche se sotto
la soglia di applicazione delle direttive europee, è interesse dell'Unione
che l'apertura della procedura alla concorrenza sia la più ampia possibile,
e il ricorso al subappalto, che può favorire l'accesso delle piccole e medie
imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale
obiettivo. Pertanto, una disposizione nazionale, che preveda che in caso di
ricorso a subappaltatori per eseguire un appalto pubblico di lavori,
l'aggiudicatario sia tenuto a realizzare l'opera principale, come descritta
dall'amministrazione aggiudicatrice, costituisce una restrizione alla
libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi”;
-
Corte di giustizia UE, sez. IV, 27.10.2016, C-292/15, GmbH
(oggetto della
News US, in data 08.11.2016), secondo la quale “l’articolo 5,
paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 1370/2007 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 23.10.2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di
passeggeri su strada e per ferrovia, deve essere interpretato nel senso che,
nel corso di una procedura di aggiudicazione di un appalto di servizio
pubblico di trasporto di passeggeri con autobus, l’articolo 4, paragrafo 7,
di tale regolamento -che prevede la limitazione del ricorso al subappalto
(commisurata in funzione dei chilometri tabellari)– deve ritenersi
applicabile a tale appalto. L’articolo 4, paragrafo 7, del regolamento n.
1370/2007, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che
l’amministrazione aggiudicatrice stabilisca nella misura del 70% la quota di
fornitura diretta da parte dell’operatore a cui è affidata la gestione e la
prestazione di un servizio pubblico di trasporto di passeggeri con autobus,
come quello oggetto del procedimento principale”;
- Corte di giustizia UE,
sez. III, 14.07.2016, C-406/14, Wroclaw (in Foro it., 2016, IV, 389),
secondo cui “la direttiva 2004/18/Ce del parlamento europeo e del
consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi,
come modificata dal regolamento (Ce) 2083/2005 della commissione, del
19.12.2005, deve essere interpretata nel senso che un’amministrazione
aggiudicatrice non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del
capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro
aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di
detto appalto avvalendosi di risorse proprie”;
- Corte di giustizia UE,
sez. X, 22.10.2015, C-425/2014, Edilux – Sicef (in Appalti & Contratti,
2015, fasc. 12, 90 (m), con nota di CANAPARO, Riv. corte conti, 2015, fasc.
5, 381, Giur. it., 2016, 1459 (m), con nota di CRAVERO, Giornale dir. amm.,
2016, 318 (m), con nota di VINTI) secondo cui “le norme fondamentali e i
principi generali del Tfue, segnatamente i principi di parità di trattamento
e di non discriminazione nonché l'obbligo di trasparenza che ne deriva,
devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una disposizione
di diritto nazionale in forza della quale un'amministrazione aggiudicatrice
possa prevedere che un candidato o un offerente sia escluso automaticamente
da una procedura di gara relativa a un appalto pubblico per non aver
depositato, unitamente alla sua offerta, un'accettazione scritta degli
impegni e delle dichiarazioni contenuti in un protocollo di legalità, come
quello di cui trattasi nel procedimento principale, finalizzato a
contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli
appalti pubblici; tuttavia, nei limiti in cui tale protocollo preveda
dichiarazioni secondo le quali il candidato o l'offerente non si trovi in
situazioni di controllo o di collegamento con altri candidati o offerenti,
non si sia accordato e non si accorderà con altri partecipanti alla gara e
non subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad altre imprese partecipanti
alla medesima procedura, l'assenza di siffatte dichiarazioni non può
comportare l'esclusione automatica del candidato o dell'offerente da detta
procedura”;
i) sul c.d. subappalto necessario cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015,
n. 9 (in Foro it., 2016, III, 65, con nota di CONDORELLI; Contratti Stato e
enti pubbl., 2015, fasc. 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e
appalti, 2016, 167, con nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir.
amm., 2016, 365 (m), con nota di GALLI, CAVINA; Nuovo dir. amm., 2016, fasc.
3, 53, con nota di NARDOCCI), che ha inteso risolvere il contrasto
giurisprudenziale in tema di subappalto necessario, escludendo dunque
l'obbligatorietà dell'indicazione del nominativo del subappaltatore già in
sede di presentazione dell'offerta, anche nell'ipotesi in cui il concorrente
non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili previste
dall'art. 107, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, che disciplina i requisiti
di partecipazione alla gara; cfr. anche A. SENATORE, Il subappalto
necessario nella prospettiva evolutiva del d.leg. n. 50/2016 in Urbanistica
e appalti, 2017, 456;
j) sul riparto della competenza legislativa fra Stato e regioni specie avuto
riguardo al subappalto, Corte cost., 17.12.2008, n. 411 (in Foro amm. CDS
2009, 5, 1192 con nota di CASALINI; Corriere giur., 2009, 640, con nota di
MUSOLINO; Urbanistica e appalti, 2009, 301, con nota di CONTESSA);
k) la validità del limite del 30% per la parte di opera oggetto di
subappalto è stata oggetto di rilievo della Commissione europea, mediante la
lettera di costituzione in mora 2018/2273 del 24.01.2019, con la quale è
stato contestato, in relazione ad alcune disposizioni del codice, il non
corretto recepimento delle direttive europee. In particolare, ad avviso
della Commissione: nelle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE non
vi sono disposizioni che consentano un siffatto limite obbligatorio
all’importo dei contratti pubblici che può essere subappaltato; al
contrario, le direttive si basano sul principio secondo cui occorre favorire
una maggiore partecipazione delle piccole e medie imprese agli appalti
pubblici, e il subappalto è uno dei modi in cui tale obiettivo può essere
raggiunto, e pertanto un limite quantitativo al subappalto non può essere
imposto in astratto, ma solo caso per caso in relazione alla particolare
natura della prestazione da svolgere;
l) con il
d.l. 18.04.2019, n. 32, “Disposizioni urgenti per il rilancio del
settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi
infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di
eventi sismici” (cd. “Sblocca cantieri”), convertito con
modificazioni in l. 14.06.2019, n. 55 (oggetto della
News normativa, n. 74 del 10.07.2019, alla quale si rinvia per
approfondimenti e, in particolare, al contributo di DE NICTOLIS, Le novità
sui contratti pubblici recate dal d.l. n. 32/2019, ivi richiamato), il
legislatore interno è intervenuto sulla disciplina del subappalto al fine di
superare i rilievi della Commissione europea.
Il d.l. n. 32 del 2019 recava
nella versione originaria un parziale adeguamento dell’art. 105 d.lgs. n. 50
del 2016 ai rilievi della Commissione europea in quanto modificava il limite
generale del subappalto, portandolo dal 30% al 50% dell’importo
contrattuale. Non veniva accolto, invece, il rilievo della Commissione
europea relativo al limite del subappalto per le opere di cui all’art. 89,
comma 11 (art. 105, comma 5), ritenendosi tale limite giustificato dalla
particolare natura delle prestazioni (secondo la Commissione europea sono
consentiti limiti quantitativi del subappalto giustificati dalla particolare
natura della prestazione).
Tali previsioni non sono state convertite in legge.
In sede di conversione, la l. n. 55 del 2019 ha operato sul subappalto un
intervento transitorio, dando una parziale e temporanea risposta alla
procedura di infrazione, senza novellare il codice, ma limitandosi a
sospendere l’efficacia di alcune norme e a derogarne altre.
Con specifico riferimento al subappalto, si prevede, all’art. 1, comma 18,
del citato d.l., che “nelle more di una complessiva revisione del codice
dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50,
fino al 31.12.2020, in deroga all'articolo 105, comma 2, del medesimo
codice, fatto salvo quanto previsto dal comma 5 del medesimo articolo 105,
il subappalto è indicato dalle stazioni appaltanti nel bando di gara e non
può superare la quota del 40 per cento dell'importo complessivo del
contratto di lavori, servizi o forniture. Fino alla medesima data di cui al
periodo precedente, sono altresì sospese l'applicazione del comma 6
dell'articolo 105 e del terzo periodo del comma 2 dell'articolo 174, nonché
le verifiche in sede di gara, di cui all'articolo 80 del medesimo codice,
riferite al subappaltatore”.
Viene, pertanto, imposto, come limite quantitativo del subappalto, il 40%
dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi e forniture, in
deroga all’art. 105, comma 2, del codice, che resta in vigore, e solo
temporaneamente, fino al 31.12.2020. Anche in sede di conversione è stato
confermato il limite al subappalto per le opere di cui all’art. 89, comma
11, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Con la pronuncia in rassegna la Corte di giustizia non esclude la
possibilità per gli Stati membri di adottare limiti al subappalto anche più
stringenti rispetto a quelli utilizzati dal legislatore interno, per
contrastare la criminalità organizzata, ma richiede che tali limiti non
siano generalizzati e applicati in modo aprioristico, ma oggetto di una
valutazione casistica. Il c.d. sblocca cantieri non sembra, sotto questo
profilo, adattarsi pienamente alla pronuncia in rassegna
(Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. V,
sentenza 26.09.2019, C-63/18 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Potere
della P.A. di non procedere all’aggiudicazione della gara e disporre la
revoca.
Anche in materia di procedure ad evidenza pubblica e
contratti della pubblica amministrazione, l’esercizio del potere
discrezionale dell’amministrazione di non procedere affatto
all’aggiudicazione della gara e di disporne la revoca deve trovare
fondamento in specifiche ragioni di pubblico interesse che devono essere
chiaramente indicate e non risultare manifestamente irragionevoli ed esige
quindi una motivazione adeguata e convincente circa i contenuti e l’esito
della necessaria valutazione dei contrapposti interessi, a tutela del
legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha partecipato alla gara,
rispettandone le regole e organizzandosi in modo da vincerla.
---------------
6.1. Deve anzitutto rammentarsi che con il provvedimento gravato la stazione
appaltante ha reiterato la revoca della gara in oggetto nella quale Om. era
stata dichiarata aggiudicataria provvisoria.
6.2. Va inoltre evidenziato, in linea generale, come, anche in materia di
procedure ad evidenza pubblica e contratti della pubblica amministrazione,
l’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione di non procedere
affatto all’aggiudicazione della gara e di disporne la revoca deve trovare
fondamento in specifiche ragioni di pubblico interesse che devono essere
chiaramente indicate e non risultare manifestamente irragionevoli (Cons. di
Stato, III, 15.05.2012, n. 2805; id., III, 16.02.2012, n. 833)
ed esige
quindi una motivazione adeguata e convincente circa i contenuti e l’esito
della necessaria valutazione dei contrapposti interessi, a tutela del
legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha partecipato alla gara,
rispettandone le regole e organizzandosi in modo da vincerla.
6.3. Come già accennato nella parte in fatto, in applicazione di tali
principi il Tribunale amministrativo aveva annullato la prima revoca del
procedimento di gara (con la sentenza n. 1205/2018, passata in giudicato),
ritenendo appunto che la sua stringata motivazione non desse contezza delle
effettive ragioni che avevano indotto Aeroporti all’adozione dell’atto
gravato: non erano, infatti, chiarite le concrete ragioni per le quali il
modello operativo posto a base della gara revocata fosse inadatto o
inadeguato a garantire la convenienza rispetto al nuovo modello, in termini
di soddisfazione delle sopravvenute esigenze, neppure peraltro adeguatamente
rappresentate effettivamente come tali, nei pochi mesi conseguenti alla
pubblicazione del bando e dirompenti al punto tale da imporre l’abbandono
della vecchia procedura per addivenire ad una nuova gara; motivazioni tanto
più necessarie in presenza di puntuali contestazioni da parte della Om. tese
a smentire l’esistenza in radice di quelle sopravvenienze e a rimarcare che
le diverse modalità di gestione che avrebbero dovuto sorreggere la nuova
gara erano in realtà già presenti nella gestione in corso.
6.4. Tanto premesso, il Collegio qui rileva che correttamente il primo
giudice ha ritenuto il provvedimento adottato in sede di riesercizio del
potere esente dai vizi di carenza di motivazione riscontrati nella revoca
originaria.
6.5. Ed infatti, Aeroporti ha compiutamente rappresentato nel provvedimento
reiterativo le ragioni di interesse pubblico che, alla luce di circostanze
di fatto, sopravvenute ed imprevedibili al momento della pubblicazione del
bando, giustificavano la revoca della gara in questione e ne sconsigliavano
la prosecuzione.
6.6. In particolare, quanto alle sopravvenienze, la stazione appaltante ha
evidenziato, in primo luogo, come il considerevole aumento del traffico di
passeggeri sugli scali pugliesi, di cui Aeroporti ha potuto avere
compiutamente contezza solo al termine dell’anno 2017, si sia nel tempo
attestato su livelli assai rilevanti rispetto agli incrementi previsti e del
tutto inattesi, registrando un aumento stabile dell’8,4 per cento nel 2017
rispetto all’anno precedente (a fronte di un tasso di crescita previsto per
il 2016, sulla base di una valutazione ex ante effettuata dal gestore
aeroportuale, pari al 2,6 per cento).
Inoltre, la nuova revoca ha richiamato a suo fondamento la comunicazione
(solo dopo la pubblicazione del bando di gara) delle nuove (e più
restrittive) policy aziendali da parte di due delle principali compagnie
aeree operanti negli scali pugliesi (l’ungherese Wi.Air e l’irlandese
Ry.) in base alle quali, con riguardo al trasporto dei bagagli a mano, i
passeggeri senza imbarco prioritario avrebbero dovuto imbarcare il secondo
bagaglio in stiva.
6.7. Non può poi condividersi quanto assume l’appellante circa l’asserita
mancata dimostrazione da parte della stazione appaltante dell’incidenza di
tali circostanze sulla gara revocata: al contrario, il provvedimento
impugnato contiene una puntuale disamina delle concrete ragioni per cui tali
sopravvenienze erano idonee a riflettersi sull’organizzazione del servizio
di gestione dei mezzi aeroportuali.
6.7.1. Il provvedimento gravato evidenzia, infatti, come il contestuale
verificarsi di tali circostanze imponessero al gestore aeroportuale di avere
la disponibilità di un numero maggiore di mezzi sempre tutti efficienti e
fruibili e disponibili anche contemporaneamente durante le operazioni da
compiere sotto bordo, anche in considerazione degli esigui tempi di transito
degli aeromobili e dell’incidenza delle compagnie anzidette sul totale del
traffico degli aeroporti di Bari e Brindisi, precisando ad ulteriore riprova
che, nelle more dell’espletamento della gara per l’affidamento del servizio
full service, Aeroporti si fosse già dovuta dotare di mezzi in
aggiunta a quelli attualmente di sua proprietà da destinarsi ai predetti
scali.
In presenza di una siffatta modifica degli elementi di fatto rispetto a
quelli considerati al momento dell’indizione della precedente, si imponeva,
dunque, o era quanto meno opportuna una revisione delle modalità di gestione
del servizio, poiché, come testualmente si legge nel provvedimento
impugnato, “una tale disponibilità di mezzi ed efficienza di gestione
possono essere garantite soltanto mediante un contratto full service che
preveda anche il noleggio dei mezzi, oltre che la loro manutenzione, e che
imponga all’appaltatore stringenti obblighi di servizio in tal senso, quali
ad esempio: i) l’obbligo di assicurare e garantire sempre un numero
prefissato di mezzi giornalieri; ii) l’obbligo di ridurre la frequenza dei
guasti; iii) l’obbligo di ridurre il tempo di indisponibilità dei mezzi”.
Al fine di disporre di mezzi ulteriori rispetto a quelli già in dotazione,
più nuovi e in stato di continua e piena efficienza sì da sopperire alle
mutate esigenze, la stazione appaltante si è determinata a modificare le
modalità di svolgimento del servizio mediante una gestione full service
che comprendesse anche il noleggio e ogni tipo di manutenzione sia ordinaria
sia straordinaria dei mezzi di rampa, precisando al contempo che si trattava
di un servizio diverso da quello oggetto della precedente gara, nella quale
l’oggetto e l’importo stimato si riferivano solo ed esclusivamente alla
manutenzione ordinaria mentre quella straordinaria era solo eventuale e
rimessa alla preventiva valutazione e richiesta della stazione appaltante,
potendo essere oggetto di affidamento diretto da parte di quest’ultima.
In sintesi, solo una modalità di gestione full service garantiva più
elevati livelli di servizio (così evitando l’applicazione delle penali
previste dai contratti di handling), posto che la disponibilità costante di
tutti i mezzi di rampa assicura la puntualità dei voli in partenza e
diminuisce pure gli spostamenti degli stessi tra le varie piazzole di sosta
aeromobili, con conseguente riduzione dei possibili rischi derivanti da
eventuali interferenze con altri mezzi presenti contestualmente su dette
piazzole: di tutti questi profili il provvedimento di revoca gravato dà
compiutamente contezza.
6.8. In conclusione, come rilevato dal primo giudice, Aeroporti ha, dunque,
individuato nell’esigenza di assicurare, alla luce dei nuovi fabbisogni, una
migliore e più efficace organizzazione e operatività del servizio e, per
tale via, l’efficienza e la sicurezza degli scali aeroportuali i concreti
motivi di interesse pubblico che imponevano la revoca della gara in oggetto,
al contempo precisando che gli interessi privati dell’impresa, anche in
considerazione dello status della procedura al momento della revoca e
dell’assenza di effetti già consolidatisi nella propria sfera giuridica, non
potevano che assumere carattere recessivo.
Del resto, l’interesse dell’appellante ben poteva essere soddisfatto
mediante la partecipazione della concorrente alla nuova gara indetta
all’esito della revoca della precedente, evenienza tuttavia non
verificatasi.
6.9. Pertanto, alla luce delle precedenti considerazioni, il primo giudice
ha a ragione rilevato che la Om. si fosse limitata ad affermare
genericamente che il nuovo provvedimento fosse inficiato dai medesimi vizi
della revoca originaria senza però fornire prova alcuna, neanche indiziaria,
né dell’insussistenza e della non incidenza delle sopravvenienze né
dell’asserita identità dell’oggetto della nuova gara e di quella precedente:
ed ha quindi concluso, con statuizioni esenti dalle censure dedotte, che da
un lato nel fare riferimento agli affidamenti diretti cui Aeroporti ha
dovuto fare ricorso per la manutenzione straordinaria dei mezzi nelle more
dell’espletamento della nuova procedura, l’appellante avesse implicitamente
ammesso l’inadeguatezza del precedente modello operativo su cui si fondava
la gara revocata (così smentendo l’assunto secondo cui detti affidamenti
dimostravano che la revoca in questione fosse in effetti solo volta a
rimuovere gli esiti del confronto concorrenziale a favore di una concorrente
non gradita); dall’altro che le due gare non avessero affatto lo stesso
oggetto posto che, come evincibile dal raffronto tra i due capitolati, la
nuova procedura aveva un oggetto ben più ampio, comprensivo sia
dell’attività di noleggio sia della manutenzione straordinaria, che nella
prima gara costituiva un servizio a richiesta non remunerato dal canone
dovuto all’affidataria.
Risultano parimenti generiche e indimostrate, assurgendo così a mere
affermazioni di principio, le doglianze di parte appallante circa l’inutile
aggravamento della spesa pubblica con riguardo ai prezzi accordati per le
singole prestazioni di manutenzione, asseritamente maggiori di quelli già
corrisposti al gestore uscente.
7. Sono poi infondate le critiche nei confronti della sentenza di prime cure
laddove il Tribunale amministrativo ha respinto le censure sollevate dalla
Om. riguardo all’asserita lesione delle garanzie procedimentali ex art. 7
della legge n. 241 del 1990 stante l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento della seconda revoca da parte di Aeroporti.
7.1. Come recentemente statuito dalla giurisprudenza anche di questa Sezione
(cfr. Cons. di Stato, V, 14.12.2018, n. 7056), va anzitutto osservato come
le invocate garanzie procedimentali non trovano applicazione per gli atti
meramente procedimentali, tra cui deve annoverarsi l’aggiudicazione
provvisoria, che fa nascere in capo all’interessato solo una mera
aspettativa alla definizione positiva del procedimento stesso, ma non
costituisce il provvedimento conclusivo della procedura di evidenza
pubblica, avendo, per sua natura, un’efficacia destinata ad essere superata
(all’esito dell’aggiudicazione definitiva): a conferma di tale ricostruzione
deve aggiungersi che con l’entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti
(d.lgs. 18.04.2016, n. 50) l’aggiudicazione provvisoria è stata sostituita
dalla “proposta di aggiudicazione” (art. 33) che a fortiori
postula la non definitività dell’atto. Pertanto, ai fini del suo ritiro, non
vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento ovvero di preavviso di
rigetto ex art. 10-bis l. n. 241 del1990.
7.2. Vero è che, nel caso di specie, la stazione appaltante non ha solo
revocato l’aggiudicazione provvisoria, ma l’intera procedura di gara:
tuttavia, per un verso non può ignorarsi che al momento dell’intervenuta
revoca era soltanto intervenuta una proposta di aggiudicazione a favore
della prima classificata nella graduatoria provvisoria (la cui revoca o
mancata conferma, secondo la giurisprudenza, non è qualificabile alla
stregua di un esercizio del potere di autotutela, sì da richiedere un
raffronto tra l’interesse pubblico e quello privato sacrificato: cfr. Cons.
di Stato, V, 14.12.2018, n. 7056); per altro verso l’appellante non ha
dimostrato quale ulteriore e concreta utilità avrebbe potuto apportare in
caso di instaurazione del contraddittorio procedimentale né ha indicato
quali elementi avrebbe potuto fornire al fine di determinare diversamente la
stazione appaltante e indurla alla conservazione degli atti di gara, posto
che, come già rilevato, non ha comprovato nemmeno in giudizio né
l’insussistenza e ininfluenza delle sopravvenienze né l’identità
dell’oggetto dei due affidamenti
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.09.2019 n. 6432 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza è costante nel ritenere che la variante in senso proprio
al titolo edilizio comporti “modificazioni qualitative o quantitative di
non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non
comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto
a quello oggetto di approvazione”; mentre la variante essenziale,
caratterizzata da “incompatibilità quali-quantitativa con il progetto
edificatorio originario”, sulla base dei parametri indicati dall'art. 32 del
T.U. 380/2001 costituisca un permesso a costruire del tutto nuovo ed
autonomo rispetto a quello originario.
---------------
La costante giurisprudenza afferma che nel caso di variante semplice
rimangono i termini di efficacia originari del titolo, mentre nel caso della
variante essenziale valgono nuovi termini indicati nel nuovo titolo.
Pertanto, si deve ritenere, pena la violazione della disciplina relativa ai
termini di efficacia del titolo edilizio, che la variante non essenziale non
possa comunque più intervenire quando siano già scaduti i termini originari.
Inoltre, la decadenza del titolo edilizio è considerata effetto legale del
verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine, sì che
il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo.
Ne deriva che la decadenza, intervenuta per il superamento dei termini
previsti per la realizzazione della costruzione, comporta la impossibilità
di realizzare la “parte non eseguita” dell’opera a suo tempo
assentita, e la necessità del rilascio di un nuovo titolo edilizio per le
opere ancora da eseguire.
Una volta intervenuta la decadenza, chiunque intenda completare la
costruzione necessita di un nuovo ed autonomo titolo edilizio, che deve
provvedere a richiedere, sottoponendosi ad un nuovo iter procedimentale,
volto sia a verificare la coerenza di quanto occorre ancora realizzare con
le prescrizioni urbanistiche vigenti nell’attualità, sia, se del caso a
provvedere al “ricalcolo del contributo di costruzione”.
---------------
Ritiene il Collegio che tale motivo di appello sia infondato.
Risulta, infatti, evidente dalla documentazione agli atti di causa e anche
dalla relazione del consulente tecnico nominato nel giudizio di primo grado
che il permesso di costruire dell’8 ottobre 2007 sia del tutto autonomo dal
precedente.
Ciò risulta in fatto sia dalla nuova istruttoria effettuata
dall’Amministrazione, di cui dà atto lo stesso Comune nella nota del
Responsabile del procedimento, prot. n. 12110 del 03.07.2008, allegata alla
relazione del C.T.U. e citata dal giudice di primo grado sia dalle
sostanziali modifiche di sagoma, di prospetti e di cubatura introdotte
rispetto al progetto originario, secondo quanto indicato dal consulente.
Il parametro normativo per la definizione di varianti cd. essenziali che
comportano il rilascio di un nuovo titolo edilizio è costituito dall’art. 32
del D.P.R. 380 del 2001 che, nel testo allora vigente indicava le varianti
essenziali come quelle “mutamento della destinazione d'uso che implichi
variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968; b) aumento
consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in
relazione al progetto approvato; c) modifiche sostanziali di parametri
urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione
dell'edificio sull'area di pertinenza; d) mutamento delle caratteristiche
dell'intervento edilizio assentito; e) violazione delle norme vigenti in
materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali".
La giurisprudenza è costante nel ritenere che la variante in senso proprio
al titolo edilizio comporti “modificazioni qualitative o quantitative di
non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non
comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto
a quello oggetto di approvazione”; mentre la variante essenziale,
caratterizzata da “incompatibilità quali-quantitativa con il progetto
edificatorio originario”, sulla base dei parametri indicati dall'art. 32
del T.U. 380/2001 costituisca un permesso a costruire del tutto nuovo ed
autonomo rispetto a quello originario (Consiglio di Stato sez. VI 30.03.2017
n. 1484).
Peraltro, nel caso di specie, a monte la configurabilità di una variante è
esclusa anche dalla circostanza che la concessione edilizia rilasciata il
30.01.1997 era scaduta senza che fossero mai stati completati i lavori né
concessa una proroga prima della scadenza del titolo.
Infatti, la concessione edilizia rilasciata il 30.01.1997 prevedeva i
termini di 12 mesi per l’inizio dei lavori e di 36 mesi per l’ultimazione
dalla data del rilascio, aveva quindi perso efficacia il 30.01.2000.
L’immobile non è stato realizzato nel termine previsto dall’originario
titolo edilizio; infatti l’atto del 22.11.2005 di “voltura e rinnovo”
della concessione ha fatto riferimento, quale presupposto per la sua
adozione, “al ritardo sulle lavorazioni dovuto alla particolare
complessità delle opere geotecniche”; a tale data, quindi, i lavori non
erano ancora terminati.
L’art. 4 della legge 28.01.1977 n. 10, da cui era disciplinata la
concessione rilasciata nel 1997, disponeva che l’atto di concessione
indicasse i termini di inizio e di ultimazione dei lavori. Inoltre,
prevedeva: “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore
ad un anno; il termine di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere
abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni e può essere
prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti estranei alla volontà
del concessionario, che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la
loro esecuzione. Un periodo più lungo per l'ultimazione dei lavori può
essere concesso esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da
realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive;
ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto
in più esercizi finanziari.
Qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario
deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal
caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata”.
Analoga disciplina è contenuta nell’art. 15 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380,
per cui “il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad
un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale
l'opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei
lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del
permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte
non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una
proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato,
esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle
sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi
finanziari”.
Inoltre, in base al comma 3 della medesima disposizione, “la
realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito
è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire,
salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante denuncia
di inizio attività (ora SCIA) ai sensi dell'articolo 22. Si procede altresì,
ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione”. Infine “il
permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati
entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
Tale disciplina comporta che a seguito della concessione edilizia del
30.01.1997, scaduta senza che fosse presentata alcuna richiesta di proroga
prima della scadenza, in alcun modo si potesse configurare una variante; né,
in difetto di proroga tempestiva, avrebbero potuto essere salvati gli
effetti di un titolo edilizio già scaduto.
La costante giurisprudenza afferma, altresì, che nel caso di variante
semplice rimangono i termini di efficacia originari del titolo, mentre nel
caso della variante essenziale valgono nuovi termini indicati nel nuovo
titolo (Cons. Stato Sez. VI, 20.11.2017, n. 5324; Sez. IV, 11.10.2017, n.
4704).
Pertanto, si deve ritenere, pena la violazione della disciplina relativa ai
termini di efficacia del titolo edilizio, che la variante non essenziale non
possa comunque più intervenire quando siano già scaduti i termini originari.
Inoltre, la decadenza del titolo edilizio è considerata effetto legale del
verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine, sì che
il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo.
Ne deriva che la decadenza, intervenuta per il superamento dei termini
previsti per la realizzazione della costruzione, comporta la impossibilità
di realizzare la “parte non eseguita” dell’opera a suo tempo
assentita, e la necessità del rilascio di un nuovo titolo edilizio per le
opere ancora da eseguire.
Una volta intervenuta la decadenza, chiunque intenda completare la
costruzione necessita di un nuovo ed autonomo titolo edilizio, che deve
provvedere a richiedere, sottoponendosi ad un nuovo iter procedimentale,
volto sia a verificare la coerenza di quanto occorre ancora realizzare con
le prescrizioni urbanistiche vigenti nell’attualità, sia, se del caso a
provvedere al “ricalcolo del contributo di costruzione” (Cons. Stato
sez. IV 11.04.2014 n. 1747).
Infine, i provvedimenti abilitativi in materia edilizia sono tipizzati dal
legislatore
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 25.09.2019 n. 6424 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ENTI LOCALI:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Responsabilità per i danni
causati dai cani randagi – Responsabilità solidale del
Comune e dell’Azienda Unità Sanitaria – Legge quadro
nazionale n. 281/1991 – Rischio per l’incolumità della
popolazione – FAUNA – Randagismo – Eventuale pericolosità
degli animali – DIRITTO SANITARIO – Compito della cattura e
della custodia dei cani vaganti o randagi – RISARCIMENTO
DANNI – Responsabilità del Comune e ASL.
L’attribuzione per legge ad uno o più
determinati enti pubblici del compito della cattura e della
custodia degli animali vaganti o randagi (e cioè liberi e
privi di proprietario) può infatti considerarsi il
fondamento della responsabilità per i danni eventualmente
arrecati alla popolazione dagli animali suddetti, anche
sotto l’aspetto della responsabilità civile. Non può invece
ritenersi sufficiente, a tal fine, l’attribuzione di
generici compiti di prevenzione del randagismo, e a maggior
ragione di semplici compiti di controllo delle nascite della
popolazione canina e felina.
Tali ultime competenze, in particolare, non possono
ritenersi direttamente riferibili alla prevenzione dello
specifico rischio per l’incolumità della popolazione
derivante dalla eventuale pericolosità degli animali
randagi, e non possono quindi fondare una responsabilità
civile per i danni da questi ultimi arrecati, avendo ad
oggetto il solo controllo “numerico” della popolazione
canina, a fini di igiene e profilassi e, al più, una solo
generica e indiretta prevenzione dei vari inconvenienti
legati al randagismo. Poiché la legge quadro statale n.
281/1991 non indica direttamente a quale ente spetta il
compito di cattura e custodia dei cani randagi, ma rimette
alle Regioni la regolamentazione concreta della materia,
occorre analizzare la normativa regionale, caso per caso
(Cass. 12495/2017).
Nella specie, ai sensi della L.R. Lazio
21.10.1997, n. 34, art. 2, comma 1, lett. b), e art. 3,
comma 3, lett. a), sussiste la responsabilità solidale del
Comune di Ceprano e dell’Azienda Unità Sanitaria Locale
Frosinone per i danni causati a terzi da cani randagi, dei
quali l’uno e l’altra non abbiano assicurato la cattura e la
custodia. Tale competenza in relazione alla cattura e
custodia dei cani vaganti non è in alcun modo condizionata
al fatto che il Comune od altri enti o privati cittadini
segnalino l’esistenza di cani randagi da accalappiare
(Cass. civ. Sez. III, 20.06.2017, n. 15167) (Corte
di Cassazione, Sez. III civile,
ordinanza 24.09.2019 n. 23633 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Consultazioni
preliminari di mercato.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Gara - Consultazioni
preliminari di mercato – Natura.
L'istituto delle consultazioni preliminari di
mercato è una semplice pre-fase di gara, non finalizzata all'aggiudicazione
di alcun contratto, risolvendosi in uno strumento a disposizione della
stazione appaltante con cui è possibile avviare un dialogo informale con gli
operatori economici e/o con soggetti comunque esperti dello specifico
settore di mercato onde acquisire quelle informazioni di cui è carente per
giungere ad una migliore consapevolezza relativamente alle disponibilità e
conoscenze degli operatori economici rispetto a determinati beni o servizi
(1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che in tale ottica, le consultazioni
preliminari ben possono costituire lo strumento attraverso il quale
accertare l'eventuale infungibilità di beni, prestazioni, servizi, che
costituisce la premessa necessaria per derogare al principio della massima
concorrenzialità nell'affidamento dei contratti pubblici.
Al riguardo, con le proprie linee guida n. 8 del 13.09.2017, l'ANAC ha
condivisibilmente chiarito che per fare luogo all'affidamento mediante
procedura negoziata senza pubblicazione di bando spetta alla stazione
appaltante verificare rigorosamente l'esistenza dei presupposti che
giustifichino l'infungibilità del prodotto o servizio che si intende
acquistare.
L’adozione di scelte limitative del confronto concorrenziale si giustifica
solo se sostenuta da specifica motivazione sulla sostanziale impossibilità
della stazione appaltante, rigorosamente accertata, di soddisfare le proprie
esigenze rivolgendosi indistintamente al mercato.
Le consultazioni di mercato possono costituire, dunque, "lo strumento per
acquisire le informazioni necessarie per svolgere la richiamata istruttoria
e per fondare la conseguente motivazione" ovvero per validare le conoscenze
già aliunde acquisite.
In tale ultima evenienza è di tutta evidenza come le determinazioni
acquisite devono essere incontrovertibili, sì da rendere addirittura inutile
il sondaggio pubblico dovendo altrimenti risultare strutturalmente cedevoli
a fronte di un possibile diverso esito del sondaggio in questione
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 23.09.2019 n. 6302 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
Com’è noto, l’art 66 del codice dei contratti pubblici, riferito alle
“Consultazioni preliminari di mercato”, nel recepire la direttiva 2014/24/UE
(artt. 40 e 41) così dispone: 1. Prima dell'avvio di una procedura di
appalto, le amministrazioni aggiudicatrici possono svolgere consultazioni di
mercato per la preparazione dell'appalto e per lo svolgimento della relativa
procedura e per informare gli operatori economici degli appalti da esse
programmati e dei requisiti relativi a questi ultimi.
2. Per le finalità di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici
possono acquisire consulenze, relazioni o altra documentazione tecnica da
parte di esperti, di partecipanti al mercato nel rispetto delle disposizioni
stabilite nel presente codice, o da parte di autorità indipendenti. Tale
documentazione può essere utilizzata nella pianificazione e nello
svolgimento della procedura di appalto, a condizione che non abbia l'effetto
di falsare la concorrenza e non comporti una violazione dei principi di non
discriminazione e di trasparenza.
Il successivo art. 67, relativo alla “Partecipazione precedente di candidati
o offerenti”, stabilisce: 1. Qualora un candidato o un offerente o
un'impresa collegata a un candidato o a un offerente abbia fornito la
documentazione di cui all'articolo 66, comma 2, o abbia altrimenti
partecipato alla preparazione della procedura di aggiudicazione
dell'appalto, l'amministrazione aggiudicatrice adotta misure adeguate per
garantire che la concorrenza non sia falsata dalla partecipazione del
candidato o dell'offerente stesso. La comunicazione agli altri candidati e
offerenti di informazioni pertinenti scambiate nel quadro della
partecipazione del candidato o dell'offerente alla preparazione della
procedura o ottenute a seguito di tale partecipazione, nonché la fissazione
di termini adeguati per la ricezione delle offerte costituisce minima misura
adeguata.
2. Qualora non sia in alcun modo possibile garantire il rispetto del
principio della parità di trattamento, il candidato o l'offerente
interessato è escluso dalla procedura. In ogni caso, prima di provvedere
alla loro esclusione, la amministrazione aggiudicatrice invita i candidati e
gli offerenti, entro un termine comunque non superiore a dieci giorni, a
provare che la loro partecipazione alla preparazione della procedura di
aggiudicazione dell'appalto non costituisce causa di alterazione della
concorrenza.
3. Le misure adottate dall'amministrazione aggiudicatrice sono indicate
nella relazione unica prevista dall'articolo 99 del presente codice.
Nella lettura giurisprudenziale più accreditata del quadro normativo sopra
richiamato (sintetizzata da ultimo nel parere licenziato dal CdS, Sezione
Consultiva per gli Atti Normativi, Adunanza di Sezione del 17.01.2019)
si è evidenziato che l'istituto delle consultazioni preliminari di mercato è
una semplice pre-fase di gara, non finalizzata all'aggiudicazione di alcun
contratto, risolvendosi in uno strumento a disposizione della stazione
appaltante con cui è possibile avviare un dialogo informale con gli
operatori economici e/o con soggetti comunque esperti dello specifico
settore di mercato onde acquisire quelle informazioni di cui è carente per
giungere ad una migliore consapevolezza relativamente alle disponibilità e
conoscenze degli operatori economici rispetto a determinati beni o servizi.
In tale ottica, le consultazioni preliminari ben possono costituire lo
strumento attraverso il quale accertare l'eventuale infungibilità di beni,
prestazioni, servizi, che costituisce la premessa necessaria per derogare al
principio della massima concorrenzialità nell'affidamento dei contratti
pubblici. Al riguardo, con le proprie linee guida n. 8 del 13.09.2017, l'ANAC ha condivisibilmente chiarito che per fare luogo
all'affidamento mediante procedura negoziata senza pubblicazione di bando
spetta alla stazione appaltante verificare rigorosamente l'esistenza dei
presupposti che giustifichino l'infungibilità del prodotto o servizio che si
intende acquistare.
Coerentemente, il comma 8 dell’art. 31 della Legge Regionale n. 4/2010,
prevede che prima di procedere all’acquisizione di beni infungibili è
necessario avviare una specifica istruttoria intesa ad accertare se
sussistono ragioni di natura tecnica o artistica ovvero attinenti alla
tutela dei diritti di esclusiva in grado di confermare se sul mercato sia
presente un’unica impresa in grado di garantire la fornitura con il grado di
perfezione tecnica richiesto.
In definitiva, l'adozione di scelte limitative del confronto concorrenziale
si giustifica solo se sostenuta da specifica motivazione sulla sostanziale
impossibilità della stazione appaltante, rigorosamente accertata, di
soddisfare le proprie esigenze rivolgendosi indistintamente al mercato.
Le consultazioni di mercato possono costituire, dunque, "lo strumento per
acquisire le informazioni necessarie per svolgere la richiamata istruttoria
e per fondare la conseguente motivazione" ovvero per validare le conoscenze
già aliunde acquisite.
In tale ultima evenienza è di tutta evidenza come le determinazioni
acquisite devono essere incontrovertibili, sì da rendere addirittura inutile
il sondaggio pubblico dovendo altrimenti risultare strutturalmente cedevoli
a fronte di un possibile diverso esito del sondaggio in questione. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Ricorso per la declaratoria
dell’illegittimità del silenzio serbato su
un’istanza di interpretazione autentica
delle NTA.
L’elemento decisivo a
favore dell’inammissibilità del ricorso per
la declaratoria dell’illegittimità del
silenzio serbato su un’istanza diretta al
consiglio comunale di interpretazione
autentica di una norma delle NTA di un PGT è
che non sussiste l’obbligo di provvedere
richiesto dall’art. 31 del c.p.a., secondo
il quale “Decorsi i termini per la
conclusione del procedimento amministrativo
e negli altri casi previsti dalla legge, chi
vi ha interesse può chiedere l'accertamento
dell'obbligo dell'amministrazione di
provvedere”.
Infatti, l’art. 13, c. 14-bis, della L.R.
12/2005 stabilisce che “I comuni, con
deliberazione del consiglio comunale
analiticamente motivata, possono procedere
alla correzione di errori materiali, a
rettifiche e a interpretazioni autentiche
degli atti di PGT non costituenti variante
agli stessi”.
La norma evidentemente considera facoltativo
questo strumento, come d’altronde lo è
sempre il potere di interpretazione
autentica di atti normativi da parte
dell’organo che ha posto in essere le norme
da interpretare; il titolare della potestà
normativa ha piena discrezionalità sia nello
stabilire se i dubbi in merito
all’applicabilità della norma siano
oggettivi o soggettivi, sia nella scelta tra
l’atto interpretativo e quello modificativo
delle norme
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.09.2019 n. 1997 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2.2 Per quanto riguarda l’eccezione di
inammissibilità del rito del silenzio in
quanto utilizzato per ottenere l’adozione di
un atto amministrativo normativo o generale,
qual è un atto interpretativo delle NTA
comunali (nel senso della natura normativa
delle NTA comunali Consiglio di stato,
Adunanza Generale, parere 06.06.2012 n.
2735), occorre precisare che la
giurisprudenza più recente (Cons. Stato, IV,
17/12/2018 n. 7090) ha evidenziato che la
contrapposizione tra l’orientamento
prevalentemente negativo (cfr. cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2017, n. 6096;
id., sez. V, 09.03.2015, n. 1182; id., sez.
IV, 22.06.2011, n. 3798; id., 07.07.2009, n.
4351), che argomenta dalla impossibilità di
individuare specifici “destinatari”
degli atti in questione in capo ai quali
possa radicarsi una posizione giuridica
qualificata e differenziata, definibile come
di interesse legittimo, e l’orientamento
positivo (CGA sent. 19.04.2012 n. 396),
secondo il quale dal punto di vista testuale
non vi è alcun indice di una preclusione
normativa all’esperibilità del rito sul
silenzio rispetto agli atti generali e che
il problema sia piuttosto quello di
verificare con attenzione l’effettiva
sussistenza di una posizione giuridica
legittimante in capo a coloro i quali, in
relazione alla propria qualità di possibili
futuri destinatari delle previsioni
regolamentari o generali da adottarsi (ad
esempio, in quanto rientranti in una
particolare categoria o in possesso di
particolari requisiti), possono dirsi
specificamente interessati all’adozione
degli stessi, è più apparente che reale,
perché traslare il problema dalla natura
dell’atto alla posizione giuridica del
ricorrente, non sposta più di tanto il
problema in quanto “proprio in ragione
dell’ordinario rivolgersi di tali atti a una
pluralità indifferenziata di soggetti
destinatari, non individuabili ex ante e
destinati anche a cambiare nel corso del
tempo, è molto complessa e delicata l’opera
di individuazione dei requisiti della
legittimazione e dell’interesse a ricorrere
in capo a chi si attivi per l’adozione di
provvedimenti di tal natura”.
2.3 L’elemento decisivo a favore
dell’inammissibilità del ricorso è che non
sussiste l’obbligo di provvedere richiesto
dall’art. 31 del c.p.a., secondo il quale “Decorsi
i termini per la conclusione del
procedimento amministrativo e negli altri
casi previsti dalla legge, chi vi ha
interesse può chiedere l'accertamento
dell'obbligo dell'amministrazione di
provvedere”.
Infatti l’art. 13, c. 14-bis, della L.R.
12/2005 invocato dal ricorrente, stabilisce
che “I comuni, con deliberazione del
consiglio comunale analiticamente motivata,
possono procedere alla correzione di errori
materiali, a rettifiche e a interpretazioni
autentiche degli atti di PGT non costituenti
variante agli stessi”. La norma
evidentemente considera facoltativo questo
strumento, come d’altronde lo è sempre il
potere di interpretazione autentica di atti
normativi da parte dell’organo che ha posto
in essere le norme da interpretare. Il
titolare della potestà normativa ha piena
discrezionalità sia nello stabilire se i
dubbi in merito all’applicabilità della
norma siano oggettivi o soggettivi, sia
nella scelta tra l’atto interpretativo e
quello modificativo delle norme.
2.4 Ad abundantiam occorre notare
che, anche a voler ritenere che l’azione nei
confronti del silenzio-rifiuto sia
proponibile, in conformità all’ampio tenore
letterale dell’art. 31, comma 1, del codice
del processo amministrativo, con riguardo ad
un potere ufficioso (problema che si è posto
anche Consiglio di Stato, adunanza plenaria
sentenza 29.07.2011 n. 15 par. 6.1.1.),
anche la legittimazione e l’interesse a
ricorrere risultano inesistenti. Il
ricorrente infatti radica la propria
legittimazione nel fatto di aver presentato
una domanda ed aver ricevuto diverse
interpretazioni non condivise dalla
struttura amministrativa, ed il proprio
interesse a ricorrere nell’intenzione di
ripresentare correttamente la domanda di
autorizzazione del suo progetto edilizio.
Tuttavia la mera presentazione di un’istanza
non può creare un obbligo di risposta se
l’istante non è titolare di una posizione di
interesse legittimo differenziata e
qualificata (in tal senso Cons. Stato, sez.
VI, 25.01.2008, n. 215; Cons. Stato, sez. V,
25.02.2009, n. 1116; Cons. Stato, sez. VI,
12.11.2009, n. 7057), né il fatto di aver
presentato altre domande già respinte e
fondate su un’interpretazione normativa non
condivisa, permette di riconoscere nel
ricorrente una posizione differenziata, se
non a costo di trasformare l'istanza di
interpretazione proposta al consiglio
comunale in una richiesta mascherata di
autotutela delle precedenti risposte
dell’ufficio tecnico, in contrasto con
l’orientamento giurisprudenziale che da
sempre ritiene insufficienti a legittimare
l’azione contro il silenzio inadempimento la
richiesta di riesame di atti sfavorevoli (ex
plurimis Cons. Stato, VI, 27/07/2017, n.
3758).
L’inammissibilità della domanda contro il
silenzio si estende anche alla correlativa
domanda risarcitoria in quanto impedisce
l’accertamento della posizione giuridica
tutelata. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
1.- Pubblica Amministrazione – Responsabilità –illecito aquiliano c.d. da
illegittima attività amministrativa – atto amministrativo illegittimo
generale – atti esecutivi - indebita sottrazione al mercato degli
affidamenti di pubblici servizi – perdita di “chance”.
La fattispecie costitutiva dell’illecito aquiliano c.d.
da illegittima attività amministrativa -così come si è venuta delineando
nell’evoluzione giurisprudenziale in materia di azione risarcitoria contro
la pubblica Amministrazione- potrebbe, in astratto, non essere interamente
compiuta al momento dell’adozione di un atto amministrativo illegittimo
generale, avente cioè natura regolamentare e programmatica, ove questo sia,
in sé, privo di autonoma efficacia lesiva, in quanto necessitante allo scopo
di distinti successivi atti esecutivi. In ipotesi, gli atti esecutivi
potrebbero essere elementi necessari a “completare” la fattispecie oggettiva
dell’illecito causativo di responsabilità, sia quanto alla condotta dannosa
che quanto al danno risarcibile.
In particolare, gli atti amministrativi esecutivi, illegittimi perché
viziati da illegittimità derivata dall’atto amministrativo generale
(dovendosi poi distinguere, nei singoli casi, se si tratti di invalidità ad
effetto caducante o ad effetto viziante), potrebbero, volta a volta,
risultare necessari per dare luogo ad una compiuta fattispecie di illecito,
consentendo di individuare i soggetti titolari degli interessi legittimi
incisi dall’attività amministrativa illegittima e/o di concretizzare le
conseguenze pregiudizievoli da questa prodotti nella sfera patrimoniale di
tali soggetti.
Con la precisazione che il danno risarcibile in caso di illegittima attività
amministrativa comportante l’indebita sottrazione al mercato degli
affidamenti di pubblici servizi mantiene sempre la medesima natura, che è
quella di danno c.d. da perdita della chance (di partecipare ad uno o più
procedimenti di evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi, qualora
l’impresa abbia la seria probabilità di conseguire un risultato utile
all’esito di tale partecipazione); piuttosto, la sua quantificazione -pur
continuando ad essere equitativa, in quanto danno che non può essere provato
nel suo preciso ammontare (arg. ex art. 1226 cod. civ.)- diviene tuttavia
riferibile al singolo servizio oggetto della convenzione di affidamento
diretto, piuttosto che ad un numero indeterminato di servizi affidabili in
forza della sola deliberazione di indirizzo (nello specifico, della giunta
regionale).
In sintesi, si può affermare che, nel caso di adozione di un atto
amministrativo generale e programmatico seguito dall’adozione di atti
esecutivi, l’illegittimità del primo e l’illegittimità derivata dei secondi
danno luogo ad un’unitaria fattispecie di illecito produttiva di
responsabilità della pubblica amministrazione, potendosi verificare, in
concreto, che gli elementi costitutivi della relativa fattispecie risultino
integrati sin dal momento dell’adozione dell’atto generale ovvero che, volta
a volta, necessitino, allo scopo, dell’adozione degli atti esecutivi, nei
termini su enunciati
(massima free tratta da www.giustamm.it).
---------------
5. I primi tre profili di censura, da trattare congiuntamente
perché connessi, sono infondati.
5.1. In primo luogo, l’assunto sub 1) è smentito dalla formulazione della
domanda di cui al ricorso n. 1337/2013 così come proposto dinanzi al Tar,
in quanto questo individua causa petendi e petitum della domanda
risarcitoria nell’adozione delle deliberazioni della G.R. n. 516/2009 e, per
quanto qui rileva, n. 751/2009 e nel loro annullamento con la sentenza n.
458/2013, a sostegno dell’affermazione circa “l’evidente ed incontestabile
obbligo della Regione Puglia di risarcire Me. per il danno patito a
causa dell’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa consumatosi
con l’adozione delle citate deliberazioni n. 516 e n. 751 del 2009”; nel
conseguente “affidamento diretto dei predetti servizi in favore di InnovaPuglia”, con convenzioni e relativi atti deliberativi, rispetto ai
quali la “DGR 751/2009 costituisce il presupposto fondante la decisione di
avvalersi di InnovaPuglia senza ricorrere a procedure di evidenza pubblica”;
nella portata “dei successivi atti adottati dalla Regione per dare
esecuzione alle attività previste dalla deliberazione n. 751/2009” di atti
“meramente ricognitivi e reiterativi della convenzione generale approvata
con la stessa deliberazione”; negli “affidamenti che la Regione Puglia, a
partire dal 2009 e sino ad oggi, ha continuato a disporre in favore di Innovapuglia ai fini dello svolgimento di ulteriori prestazioni ancorché non
espressamente contemplate dalla delibera DGR n. 751/2009” (sui quali ultimi
si tornerà infra), ma sempre nella prospettiva che si sia trattato di
rapporti “perfezionati in ragione (e secondo il regolamento negoziale) della
convenzione generale oggetto di approvazione con la DGR n. 751/2009”.
5.1.1. Date tali allegazioni (precisate con la memoria depositata il 04.06.2015), non è decisivo, come sostenuto dalla ricorrente, che la
condotta illecita, nel presente giudizio, venga individuata, piuttosto che
nell’adozione della deliberazione della giunta, nella stipulazione, da parte
dei dirigenti regionali, delle diverse convenzioni di affidamento diretto
dei servizi mediante l’utilizzo dello schema di convenzione approvato con la
deliberazione di G.R. n. 751/2009: si tratta comunque di atti negoziali
esecutivi, la cui illegittimità è derivata dall’illegittimità di tale ultima
deliberazione, la quale -come detto nel ricorso introduttivo della stessa
Megatrend- ha costituito “la fonte di legittimazione negoziale degli organi
regionali a contrarre” con InnovaPuglia.
Le determinazioni dirigenziali a contrarre e/o la stipulazione delle singole
convenzioni di affidamento sono condotte che rinvengono la propria efficacia
lesiva della posizione soggettiva dell’impresa, operante nello stesso
settore di attività ed aspirante all’affidamento dei medesimi servizi,
nell’atto generale presupposto e perciò sono condotte inidonee ad
interrompere la relazione di interdipendenza esistente tra la deliberazione
di indirizzo (di individuazione della società ritenuta in house e di
approvazione della convenzione-tipo per l’affidamento diretto dei servizi
regionali) ed i singoli affidamenti diretti (che si assumono produttivi di
danno), la quale comporta la riconducibilità causale del danno lamentato
alla prima, sia pure per il tramite dei secondi.
5.2. E’ vero piuttosto che la fattispecie costitutiva dell’illecito
aquiliano c.d. da illegittima attività amministrativa -così come si è venuta
delineando nell’evoluzione giurisprudenziale in materia di azione
risarcitoria contro la pubblica amministrazione- potrebbe, in astratto, non
essere interamente compiuta al momento dell’adozione di un atto
amministrativo illegittimo generale, avente cioè natura regolamentare e
programmatica, ove questo sia, in sé, privo di autonoma efficacia lesiva, in
quanto necessitante allo scopo di distinti successivi atti esecutivi.
5.2.1. In ipotesi, gli atti esecutivi potrebbero essere elementi necessari a
“completare” la fattispecie oggettiva dell’illecito causativo di
responsabilità, sia quanto alla condotta dannosa che quanto al danno
risarcibile.
In particolare, gli atti amministrativi esecutivi, illegittimi perché
viziati da illegittimità derivata dall’atto amministrativo generale (non
rileva qui se si tratti di invalidità ad effetto caducante o ad effetto
viziante), potrebbero, volta a volta, risultare necessari per dare luogo ad
una compiuta fattispecie di illecito, consentendo di individuare i soggetti
titolari degli interessi legittimi incisi dall’attività amministrativa
illegittima e/o di concretizzare le conseguenze pregiudizievoli da questa
prodotti nella sfera patrimoniale di tali soggetti.
Con la precisazione che il danno risarcibile in caso di illegittima attività
amministrativa comportante l’indebita sottrazione al mercato degli
affidamenti di pubblici servizi mantiene sempre, contrariamente a quanto
assume l’appellante, la medesima natura, che è quella di danno c.d. da
perdita della chance (di partecipare ad uno o più procedimenti di evidenza
pubblica per l’affidamento dei servizi, qualora l’impresa abbia -secondo la
ricostruzione di tale tipologia di danno, di cui si dirà- la seria
probabilità di conseguire un risultato utile all’esito di tale
partecipazione); piuttosto, la sua quantificazione -pur continuando ad
essere equitativa, in quanto danno che non può essere provato nel suo
preciso ammontare (arg. ex art. 1226 cod. civ.)- diviene tuttavia riferibile
al singolo servizio oggetto della convenzione di affidamento diretto,
piuttosto che ad un numero indeterminato di servizi affidabili in forza
della sola deliberazione di indirizzo della giunta regionale.
5.2.2. In sintesi, si può affermare che, nel caso di adozione di un atto
amministrativo generale e programmatico seguito dall’adozione di atti
esecutivi, l’illegittimità del primo e l’illegittimità derivata dei secondi
danno luogo ad un’unitaria fattispecie di illecito produttiva di
responsabilità della pubblica amministrazione, potendosi verificare, in
concreto, che gli elementi costitutivi della relativa fattispecie risultino
integrati sin dal momento dell’adozione dell’atto generale ovvero che, volta
a volta, necessitino, allo scopo, dell’adozione degli atti esecutivi, nei
termini su enunciati.
5.3. Siffatta conclusione così come le, pur corrette, deduzioni
dell’appellante sopra sintetizzate sub 2) e 3) – rispettivamente in punto di
portata generale, regolamentare e programmatica della deliberazione della
G.R. n. 751/2009 ed in punto di non “deducibilità” delle singole convenzioni attuative nel giudizio che ebbe ad oggetto quest’ultima deliberazione di
giunta- non valgono a superare la portata del giudicato di rigetto formatosi
sulla domanda risarcitoria avanzata in quel giudizio di annullamento.
In proposito va fatta applicazione dei principi elaborati dalla
giurisprudenza per l’individuazione dell’ambito oggettivo del giudicato, e
segnatamente di quello per il quale allorquando due giudizi tra le stesse
parti vertano sullo stesso rapporto giuridico e uno di essi sia stato
definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento già compiuto in
ordine a una situazione giuridica e la soluzione di una questione di fatto o
di diritto che abbiano inciso su un punto fondamentale comune ad entrambe le
cause e abbiano costituito la logica premessa contenuta nel dispositivo
della sentenza passata in giudicato, precludono nel secondo giudizio il
riesame del punto accertato nel primo (cfr. Cass. sez. III, 03.03.2004, n.
4352 e, di recente, id., sez. II, 21.02.2019, n. 5138).
5.3.1. Orbene, la portata unitaria del fatto costitutivo dell’illecito
aquiliano cui dà luogo, secondo quanto detto sopra, l’attività
amministrativa consistita in un atto amministrativo generale illegittimo,
seguito da atti esecutivi viziati da illegittimità derivata, comporta che i
due giudizi tra le stesse parti aventi ad oggetto rispettivamente, in ordine
cronologico successivo, il primo ed i secondi, vertano sul medesimo rapporto
giuridico e che abbiano quale punto fondamentale comune l’illegittimità
dell’atto amministrativo generale e la sua potenzialità lesiva della
situazione giuridica soggettiva della parte privata presente in entrambi i
giudizi.
In sintesi, le due azioni risarcitorie trovano fondamento in fatti
costitutivi che non sono tra loro totalmente diversi (come nei precedenti in
cui si è esclusa la preclusione nascente dal giudicato, per essere distinto
l’oggetto della domanda o perché comunque la pretesa trovava fondamento in
fatti costitutivi diversi: cfr. Cons. Stato, IV, 17.11.2015, n. 5223,
citata dalla ricorrente) ma coincidenti, sia pure parzialmente.
5.3.2. Nel caso di specie, l’ambito oggettivo del giudicato è delineato
dalla sentenza di questa Sezione V, 13.03.2014, n. 1181, in termini tali
da doversi escludere che esso consentisse la (ri)proposizione della domanda
risarcitoria per l’illegittimità (derivata) delle convenzioni esecutive
della deliberazione n. 751/2009 dichiarata illegittima e perciò annullata,
perché la decisione ha escluso, in radice, l’efficacia lesiva nei confronti
di Megatrend (quindi, la sussistenza di un “danno ingiusto”, effetto)
dell’atto di indirizzo favorevole ad InnovaPuglia.
La sentenza infatti ha respinto l’appello incidentale, con il quale era
stata riproposta la pretesa risarcitoria di Me. connessa al ristoro
delle attività sottratte alle ordinarie dinamiche concorrenziali, in termini
di perdita di chance concorrenziali, già disattesa dal tribunale
amministrativo regionale con la sentenza del 02.04.2013, n. 458,
espressamente condividendo le argomentazioni del primo giudice “quanto ad
assenza di prova specifica del danno” ed osservando che “[…] quando si
chiede il risarcimento da perdita di chance, si fa valere il danno associato
alla perdita di una probabilità non trascurabile di conseguire il risultato
utile, con la conseguenza che l'istanza non può essere accolta ove il
danneggiato non dimostri, anche in via presuntiva, ma con serietà ed
adeguatezza, l'esistenza dei concreti presupposti per la realizzazione del
risultato sperato; va quindi dedotta una probabilità di successo maggiore
del 50%, statisticamente valutabile con giudizio prognostico ex ante, in
base agli elementi di fatto forniti dal danneggiato, e alla mancanza di tale
prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ex art. 1226
c.c., atteso che l'applicazione di tale norma richiede che risulti provata o
comunque incontestata l'esistenza di un danno risarcibile ed è diretta a far
fronte all'impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno (cfr.
Consiglio di Stato, sez. III, 04.09.2013, n. 4408).
Nel caso di specie, non essendovi alcuna dimostrazione di una probabilità di
successo maggiore del 50%, da parte dell’appellante incidentale, di poter
ottenere i servizi che sono stati illegittimamente chiusi alle dinamiche
concorrenziali, la relativa domanda risarcitoria non può essere accolta”.
5.3.3. La sentenza, quindi, ha escluso la risarcibilità del danno da perdita
di chance non per la natura di atto generale a contenuto programmatorio
della deliberazione impugnata né per la mancata stipulazione (o per la
mancata deduzione in giudizio della stipulazione) delle convenzioni
attuative, bensì perché è mancata la prova da parte di Megatrend di avere
una “probabilità di successo maggiore del 50%” (così irrevocabilmente
individuata la chance rilevante) in riferimento a tutti “i servizi che sono
stati illegittimamente chiusi alle dinamiche concorrenziali”.
La portata preclusiva di tale statuizione è evidente, in quanto riferisce il
difetto di prova ad un punto fondamentale comune sia a quel giudizio che al
presente, vale a dire la (mancanza di) efficacia lesiva nei confronti di
Megatrend della deliberazione illegittima con riferimento a tutti i servizi
regionali ivi contemplati o ad essa riconducibili. Costituendo tale
deliberazione l’antecedente logico-giuridico necessario delle determinazioni
dirigenziali e/o convenzioni che nel presente giudizio si assumono viziate
da illegittimità derivata, la mancanza di prova “del danno” risarcibile (id
est, del “danno ingiusto”) nei confronti della ricorrente così come
accertata nella sentenza passata in giudicato, rende impossibile, in forza
del principio del ne bis in idem, colmare tale lacuna probatoria, fornendo
nel presente giudizio la prova dell’evento di danno in riferimento a
ciascuno dei servizi, poi fatto oggetto di specifico affidamento.
5.4. La riferibilità della pronuncia di questa Sezione n. 1181/2014 a tutte
le attività sottratte alle dinamiche concorrenziali in forza della
deliberazione impugnata con l’azione di annullamento è confermata da altra
sentenza intervenuta tra le stesse parti, parimenti passata in giudicato,
secondo quanto appresso.
5.4.1. Con ricorso per ottemperanza ai sensi dell’art. 112 Cod. proc. amm.
proposto dinanzi al Tar per la Puglia la società Megatrend, nel
denunciare l’(asserita) inerzia della Regione Puglia nel conformarsi alla
sentenza n. 458/2013, aveva infatti richiesto ancora una volta la condanna
della regione al ristoro dei danni subiti con riferimento sia “alla perdita
delle chanches contrattuali di Megatrend di risultare aggiudicataria a
seguito di gara pubblica delle attività già oggetto di affidamento in favore
di InnovaPuglia” sia ad un’(asserita) elusione del giudicato.
Già la sentenza di primo grado del 07.07.2016, n. 864, nell’escludere
tale ultima fattispecie, aveva ritenuto formato il giudicato di rigetto
sulla domanda risarcitoria per perdita di chance contrattuali, in forza
delle sentenze n. 458/2013 e n. 1181/2014.
La sentenza di questa Sezione, 27.07.2017, n. 3704, decidendo l’appello
proposto in sede di ottemperanza, l’ha respinto anche nella parte in cui
contestava la “ratifica” da parte della Regione Puglia dei rapporti
contrattuali pregressi, conclusi con InnovaPuglia, quando questa non era un
soggetto in house , motivando che “sotto questo profilo, risulta dirimente
la considerazione secondo cui, essendosi questi rapporti ormai svolti, non
c’è più interesse da parte di Megatrend ad ottenerne la caducazione o
l’accertamento della inefficacia. I relativi servizi, già espletati, non
potrebbero, infatti, essere oggi oggetto di gara. Potrebbe al più residuare
un profilo risarcitorio (in termini di danno da perdita della chance, per
non esserci stata la gara in conseguenza dell’illegittimo affidamento
diretto illo tempore disposto a favore di InnovaPuglia).
Questo tipo di danno, tuttavia, è riconducibile al provvedimento
originariamente impugnato e, dunque, oggi anche la correlata pretesa
risarcitoria è coperta dal giudicato che aveva respinto, per difetto di
prova, la domanda di risarcimento del danno provocato dal provvedimento
annullato”.
Anche tale sentenza evidenzia, quindi, il rapporto di pregiudizialità
logico-giuridica esistente, nel caso concreto, tra la pronuncia riguardante
la domanda risarcitoria dei danni causati dall’atto deliberativo generale e
la presente pronuncia, non potendosi reputare esistente, in riferimento ai
servizi pubblici via via affidati, quella “probabilità di successo maggiore
del 50%” che è stata esclusa in riferimento ai medesimi servizi
unitariamente considerati come oggetto della deliberazione di giunta.
5.5. Come argomentato nella memoria di replica dell’appellante, è tuttora
controverso l’indirizzo interpretativo secondo cui la risarcibilità del
danno da perdita di chance sia condizionata alla prova certa di una
probabilità di successo almeno pari al 50%. Tuttavia, la preclusione
nascente dal giudicato impedisce di riconsiderare, nel presente giudizio,
sia la statuizione in diritto contenuta nella sentenza n. 1181/2014 sia
l’accertamento in fatto che ne sta a fondamento (circa la mancata
dimostrazione delle probabilità di aggiudicazione, da parte di Me., di
gare pubbliche aventi ad oggetto i servizi informatici affidati in house a InnovaPuglia, in misura superiore alla soglia del 50%), per le ragioni sopra
esposte.
5.6. Per tali ragioni, va confermata la sentenza appellata di
inammissibilità della domanda risarcitoria per violazione del principio del
ne bis in idem.
6. Al punto sub 4) del ricorso in appello si sostiene, in subordine, che
tale conclusione non sarebbe riferibile a quegli affidamenti diretti ad
InnovaPuglia che non rinverrebbero il loro immediato presupposto nell’atto
deliberativo generale, perché estranei all’elenco delle 14 tipologie di
attività analiticamente descritte nelle schede contrassegnate con le sigle
da INP001 a INP0014 allegate alla stessa deliberazione.
La censura non merita favorevole apprezzamento.
6.1. Il ricorso depositato il 18.10.2013 è proposto per la “condanna
della Regione Puglia al risarcimento del danno ingiusto conseguente
all’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, così come accertato
e dichiarato dal TAR Puglia–Bari, sez. I, con sentenza n. 458/2013 del 02.04.2013” (come da intestazione) e nella parte espositiva, come già
detto, la deliberazione di giunta n. 751/2009 è individuata come l’effettiva
fonte del danno lamentato, in quanto “presupposto fondante la decisione di
avvalersi di InnovaPuglia senza ricorrere a procedure di evidenza pubblica”
ed in quanto anche gli affidamenti relativi a servizi (asseritamente) ivi
non contemplati, risulterebbero “perfezionati in ragione (e secondo il
regolamento negoziale) della convenzione generale oggetto di approvazione
con la DGR n. 751/2009”; parimenti, nella memoria depositata il 04.06.2015, pur essendosi precisato che il danno lamentato sarebbe da imputarsi in
via diretta ed immediata, non tanto alla predetta deliberazione (ed
all’altra precedentemente impugnata, adottata col n. 516/2009), bensì agli
atti dirigenziali recanti l’affidamento diretto ad InnovaPuglia, si continua
ad individuare questi ultimi come attuativi di quelle deliberazioni.
Da qui la novità della prospettazione contenuta nell’atto di appello.
6.2. Correlato a tale profilo di inammissibilità risulta quello, dirimente,
dovuto all’assoluta genericità della domanda.
Ed invero, proprio in ragione del fatto che negli scritti del primo grado la
ricorrente non aveva nettamente distinto gli affidamenti diretti aventi ad
oggetto i servizi contemplati nell’allegato alla deliberazione n. 751/2009
da quelli riguardanti servizi (asseritamente) diversi ed ulteriori, né in
tali scritti né in quelli del giudizio di appello si rinviene indicazione
alcuna riguardante tali ultimi servizi, né quanto alla loro individuazione
né quanto alle ragioni dell’asserita loro non riconducibilità all’elenco di
cui alla ridetta deliberazione di giunta.
Si tratta di elementi di fatto costitutivi della domanda risarcitoria che la
ricorrente aveva l’onere di allegare già con il ricorso introduttivo, previo
eventuale accesso agli atti, e la cui mancata indicazione dà luogo ad una
lacuna che non può essere colmata in giudizio mediante attività istruttoria
(in particolare, con l’ordine di esibizione o con la verificazione o la CTU
su cui si insiste con l’atto d’appello) che avrebbe finalità “esplorative”,
oltre che inammissibilmente integrative degli atti di parte.
7. In conclusione, l’appello va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.09.2019 n. 6225 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI FORNITURE: Principio
di equivalenza negli appalti di fornitura.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione - Appalto fornitura - Principio
di equivalenza – Applicabilità - Limiti.
L’ambito di applicazione del principio di
equivalenza è piuttosto ampio e permea l’intera disciplina dell’evidenza
pubblica, atteso che la possibilità di ammettere a seguito di valutazione
della stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche equivalenti a
quelle richieste risponde al principio del favor partecipationis e
costituisce espressione del legittimo esercizio della discrezionalità
tecnica da parte dell’Amministrazione (1).
---------------
(1) La Sezione ha
preliminarmente evidenziato l’importanza che la formulazione della lex
specialis, sotto il profilo della univocità e completezza dei parametri
valutativi, assume ai fini della legittimità della procedura di valutazione
e della “elasticità” consentita alla Commissione di gara nell’apprezzamento
delle offerte tecniche.
Ha ricordato la Sezione che le valutazioni qualitative della Commissione di
gara, a salvaguardia della par condicio dei concorrenti, debbano svolgersi
nell’ambito del perimetro delineato dalla lex specialis, quanto in
particolare alle caratteristiche dei prodotti offerti, non potendo una
valutazione positiva degli aspetti tecnici dell’offerta, operata dalla
Commissione, sovrapporsi alla definizione contenuta nella disciplina di
gara. L’esplicazione del principio di concorrenza non è incondizionata ma
temperata da quello, altrettanto cogente, di tutela della par condicio,
ed il punto di incontro tra le relative esigenze è dato dalla disciplina di
gara, che fissa –in termini, a seconda dei casi, più o meno rigidi– i limiti
entro i quali deve svolgersi il confronto concorrenziale (Cons. St., sez.
III, n. 747 del 2018).
Occorre tuttavia considerare che, a dare elasticità al parametro valutativo,
così tutelando la massima partecipazione al confronto concorrenziale,
interviene il principio di c.d. equivalenza funzionale.
Secondo l’art. 68, d.lgs. n. 50 del 2016, che attua nell’ordinamento
nazionale l’art. 42 della direttiva 2014/24/UE, le “specifiche tecniche”
(qui da intendersi in senso lato, alla stregua di parametri di definizione
dell’offerta tecnica) sono indicate nella lex specialis secondo diverse
modalità (comma 3): “in termini di prestazioni o di requisiti funzionali … a
condizione che i parametri siano sufficientemente precisi da consentire agli
offerenti di determinare l'oggetto dell'appalto e agli enti aggiudicatori di
aggiudicare l'appalto” (lettera a); ovvero “mediante riferimento a
specifiche tecniche e, in ordine di preferenza, alle norme nazionali che
recepiscono norme europee, alle valutazioni tecniche europee, alle
specifiche tecniche comuni, alle norme internazionali, ad altri sistemi
tecnici di riferimento adottati dagli organismi europei di normalizzazione
o, se non esiste nulla in tal senso, alle norme nazionali, alle omologazioni
tecniche nazionali o alle specifiche tecniche nazionali in materia di
progettazione, di calcolo e di realizzazione delle opere e di uso delle
forniture; ciascun riferimento contiene la menzione “o equivalente”” (lett.
b); oppure, sostanzialmente, abbinando specifiche tecniche dell’uno e
dell’altro dei tipi predetti (lett. c) e d).
Il comma 5 prevede che un’offerta non può essere respinta perché non
conforme alle prescrizioni di cui al comma 3, lett. b), previste dalla lex
specialis, qualora l’offerente provi che “le soluzioni proposte ottemperano
in maniera equivalente ai requisiti definiti dalle specifiche tecniche”.
Il successivo comma 6 aggiunge che un’offerta non può essere respinta
qualora risulti conforme ad una “norma nazionale che recepisce una norma
europea, a una omologazione tecnica europea, ad una specifica tecnica
comune, ad una norma internazionale o a un riferimento tecnico elaborato da
un organismo europeo di normalizzazione” [in sostanza, alle specifiche
tecniche di cui al comma 3, lett. b)], se tali specifiche “contemplano le
prestazioni o i requisiti funzionali … prescritti” dalla lex specialis.
Inoltre, in ogni caso, secondo il comma 4, “Salvo che siano giustificate
dall’oggetto dell’appalto, le specifiche tecniche non menzionano una
fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare
caratteristico dei prodotti o dei servizi forniti da un operatore economico
specifico, né fanno riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a
un’origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di
favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti. Tale menzione o
riferimento sono autorizzati, in via eccezionale, nel caso in cui una
descrizione sufficientemente precisa e intelligibile dell'oggetto
dell'appalto non sia possibile applicando il paragrafo 3. Una siffatta
menzione o un siffatto riferimento sono accompagnati dall'espressione “o
equivalente””.
Quanto appena ricordato evidenzia l’importanza che la formulazione della lex
specialis, sotto il profilo della univocità e completezza dei parametri
valutativi, assume ai fini della legittimità della procedura di valutazione
e della “elasticità” consentita alla Commissione di gara nell’apprezzamento
delle offerte tecniche.
La Sezione ha poi ricordato che il principio di equivalenza trova
applicazione indipendentemente da espressi richiami negli atti di gara o da
parte dei concorrenti, in tutte le fasi della procedura di evidenza pubblica
e “l’effetto di “escludere” un’offerta, che la norma consente di
neutralizzare facendo valere l’equivalenza funzionale del prodotto offerto a
quello richiesto, è testualmente riferibile sia all’offerta nel suo
complesso sia al punteggio ad essa spettante per taluni aspetti … e la ratio
della valutazione di equivalenza è la medesima quali che siano gli effetti
che conseguono alla difformità” (Cons. St., sez. III, n. 6721 del 2018).
Ha aggiunto che l’art. 68, comma 7, d.lgs. n. 50 del 2016 non onera i
concorrenti di un’apposita formale dichiarazione circa l’equivalenza
funzionale del prodotto offerto, potendo la relativa prova essere fornita
con qualsiasi mezzo appropriato; la commissione di gara può effettuare la
valutazione di equivalenza anche in forma implicita, ove dalla
documentazione tecnica sia desumibile la rispondenza del prodotto al
requisito previsto dalla lex specialis
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 18.09.2019 n. 6212 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
SENTENZA
19. Il Collegio osserva anzitutto che il TAR, nella sentenza appellata, è
partito da una premessa condivisibile, affermando che nelle gare d'appalto
vige il principio interpretativo che vuole privilegiata, a tutela
dell'affidamento delle imprese, l’interpretazione letterale del testo della
lex specialis, dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una
sua obiettiva incertezza.
Occorre infatti evitare che il procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle regole di gara palesando
significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale,
posto che l’interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli
atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt.
1362 e ss., c.c., tra le quali assume carattere preminente quella collegata
all’interpretazione letterale (cfr. tra le altre, Cons. Stato, n. 7/2013;
III, n. 3715/2018; V, n. 4684/2015).
20. Ne discende che le valutazioni qualitative della Commissione di gara, a
salvaguardia della par condicio dei concorrenti, debbano svolgersi
nell’ambito del perimetro delineato dalla lex specialis, quanto in
particolare alle caratteristiche dei prodotti offerti, non potendo una
valutazione positiva degli aspetti tecnici dell’offerta, operata dalla
Commissione, sovrapporsi alla definizione contenuta nella disciplina di
gara. L’esplicazione del principio di concorrenza non è incondizionata ma
temperata da quello, altrettanto cogente, di tutela della par condicio, ed
il punto di incontro tra le relative esigenze è dato dalla disciplina di
gara, che fissa –in termini, a seconda dei casi, più o meno rigidi– i
limiti entro i quali deve svolgersi il confronto concorrenziale (cfr. Cons.
Stato, III, n. 747/2018).
21. Occorre tuttavia considerare che, a dare elasticità al parametro
valutativo, così tutelando la massima partecipazione al confronto
concorrenziale, interviene il principio di c.d. equivalenza funzionale.
Secondo l’art. 68 del d.lgs. 50/2016, che attua nell’ordinamento nazionale
l’art. 42 della direttiva 2014/24/UE, le “specifiche tecniche” (qui da
intendersi in senso lato, alla stregua di parametri di definizione
dell’offerta tecnica) sono indicate nella lex specialis secondo diverse
modalità (comma 3): “in termini di prestazioni o di requisiti funzionali … a
condizione che i parametri siano sufficientemente precisi da consentire agli
offerenti di determinare l'oggetto dell'appalto e agli enti aggiudicatori di
aggiudicare l'appalto” (lettera a); ovvero “mediante riferimento a
specifiche tecniche e, in ordine di preferenza, alle norme nazionali che
recepiscono norme europee, alle valutazioni tecniche europee, alle
specifiche tecniche comuni, alle norme internazionali, ad altri sistemi
tecnici di riferimento adottati dagli organismi europei di normalizzazione
o, se non esiste nulla in tal senso, alle norme nazionali, alle omologazioni
tecniche nazionali o alle specifiche tecniche nazionali in materia di
progettazione, di calcolo e di realizzazione delle opere e di uso delle
forniture; ciascun riferimento contiene la menzione “o equivalente””
(lettera b); oppure, sostanzialmente, abbinando specifiche tecniche dell’uno
e dell’altro dei tipi predetti (lettere c) e d).
Secondo il comma 5, un’offerta non può essere respinta perché non conforme
alle prescrizioni di cui al comma 3, lettera b), previste dalla lex
specialis, qualora l’offerente provi che “le soluzioni proposte ottemperano
in maniera equivalente ai requisiti definiti dalle specifiche tecniche”.
Secondo il comma 6, un’offerta non può essere respinta qualora risulti
conforme ad una “norma nazionale che recepisce una norma europea, a una
omologazione tecnica europea, ad una specifica tecnica comune, ad una norma
internazionale o a un riferimento tecnico elaborato da un organismo europeo
di normalizzazione” (in sostanza, alle specifiche tecniche di cui al comma
3, lettera b)), se tali specifiche “contemplano le prestazioni o i requisiti
funzionali … prescritti” dalla lex specialis.
Inoltre, in ogni caso, secondo il comma 4, “Salvo che siano giustificate
dall’oggetto dell’appalto, le specifiche tecniche non menzionano una
fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare
caratteristico dei prodotti o dei servizi forniti da un operatore economico
specifico, né fanno riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a
un’origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di
favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti. Tale menzione o
riferimento sono autorizzati, in via eccezionale, nel caso in cui una
descrizione sufficientemente precisa e intelligibile dell'oggetto
dell'appalto non sia possibile applicando il paragrafo 3. Una siffatta
menzione o un siffatto riferimento sono accompagnati dall'espressione “o
equivalente””.
22. Quanto appena ricordato evidenzia l’importanza che la formulazione della
lex specialis, sotto il profilo della univocità e completezza dei parametri
valutativi, assume ai fini della legittimità della procedura di valutazione
e della “elasticità” consentita alla Commissione di gara nell’apprezzamento
delle offerte tecniche.
23. La sentenza appellata ha preso posizione in ordine alla portata
applicativa del principio di equivalenza funzionale, riconoscendone la
centralità nel sistema, ma affermandone l’inapplicabilità alla gara in
questione (in relazione all’offerta Si., il cui prodotto differisce
sotto diversi aspetti dalle caratteristiche indicate nei sottoparametri di
valutazione) in mancanza di una previsione nella lex specialis, ovvero di
una esplicita dichiarazione o evidenziazione da parte del concorrente.
Tale punto è contestato dagli appellanti incidentali, i quali prospettano le
loro tesi sul presupposto che detti parametri contemplino, anche se talvolta
attraverso il riferimento a determinate specifiche caratteristiche o
modalità operative del prodotto da fornire, l’indicazione delle prestazioni
o dei requisiti funzionali richiesti (riconducibili all’art. 86, comma 3,
lettera a), cit).
L’appellante principale sostiene invece che i parametri si collocano al di
fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 86, cit., in quanto limitato ai
requisiti di partecipazione o di ammissibilità dell’offerta.
24. Il Collegio osserva che secondo la giurisprudenza prevalente di questa
Sezione, l’ambito di applicazione del principio di equivalenza è piuttosto
ampio, essendo stato affermato che:
- il principio di equivalenza “permea l’intera disciplina dell’evidenza
pubblica e la possibilità di ammettere a seguito di valutazione della
stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche equivalenti a quelle
richieste risponde al principio del favor partecipationis (ampliamento della
platea dei concorrenti) e costituisce altresì espressione del legittimo
esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione” (cfr.
Cons. Stato, III, n. 4364/2013; n. 4541/2013; n. 5259/2017; n. 6561/2018);
- trova applicazione indipendentemente da espressi richiami negli atti di
gara o da parte dei concorrenti, in tutte le fasi della procedura di
evidenza pubblica e “l’effetto di “escludere” un’offerta, che la norma
consente di neutralizzare facendo valere l’equivalenza funzionale del
prodotto offerto a quello richiesto, è testualmente riferibile sia
all’offerta nel suo complesso sia al punteggio ad essa spettante per taluni
aspetti … e la ratio della valutazione di equivalenza è la medesima quali
che siano gli effetti che conseguono alla difformità” (cfr. Cons. Stato, III,
n. 6721/2018);
- l’art. 68, comma 7, del d.lgs. 50/2016 non onera i concorrenti di
un’apposita formale dichiarazione circa l’equivalenza funzionale del
prodotto offerto, potendo la relativa prova essere fornita con qualsiasi
mezzo appropriato; la commissione di gara può effettuare la valutazione di
equivalenza anche in forma implicita, ove dalla documentazione tecnica sia
desumibile la rispondenza del prodotto al requisito previsto dalla lex
specialis (cfr. Cons. Stato, III, n. 2013/2018; n. 747/2018).
In questo senso, risultano condivisibili, in linea di principio, le
argomentazioni delle appellanti incidentali. |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Esecuzione di lavori in
terreni vincolati – Cambio destinazione d’uso -Manufatti da
rurale a residenziale – Assenza dell’autorizzazione
paesaggistica – Reati paesaggistici – Differenza tra
difformità parziale e totale – Irrilevanza – Disciplina
urbanistica e paesaggistica – Art. 181, D.Leg.vo 42/2004 –
Configurabilità.
La disposizione contenuta all’art. 181,
D.Leg.vo 42/2004 punisce l’esecuzione dei lavori in assenza
dell’autorizzazione paesaggistica «o in difformità di essa»,
senza che assuma rilievo la distinzione tra le ipotesi di
difformità parziale e totale rilevante invece nella
disciplina urbanistica.
Ai soli fini del reato urbanistico, integra l’ipotesi di
difformità totale c.d. qualitativa che, per l’art. 31, comma
1, prima parte, T.U.E. ricorre quando gli interventi
«comportano la realizzazione di un organismo edilizio
integralmente diverso per caratteristiche tipologiche,
planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del
permesso stesso».
Sia per quanto riguarda le caratteristiche tipologiche degli
organismi edilizi oggetto d’intervento (trasformazione da
depositi rurali ad edifici di civile abitazione) sia quanto
al conseguente diverso utilizzo –peraltro vietato dallo
strumento urbanistico– è indiscutibile che nel caso di
specie si sia realizzato quell’allud pro alio che integra
gli estremi della contravvenzione urbanistica ritenuta e non
possa parlarsi soltanto di parziale difformità
(Cass. Sez. 3, n. 40541 del 18/06/2014, Cinelli e aa.).
...
Permesso di costruire – Assenza, totale difformità o
variazione essenziali – Ordinanza di sospensione dei lavori
– Ingiunzione a demolire – Art. 31, c. 3, T.U.E.
Nel caso interventi eseguiti in assenza
di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazione essenziali, il provvedimento richiamato dalla
norma è quello dell’ingiunzione a demolire di cui all’art.
31, comma 3, T.U.E.
Decorso il suddetto termine di quarantacinque giorni
dall’ordinanza di sospensione dei lavori, sia che venga
emanata l’ingiunzione a demolire (o altro provvedimento
previsto in caso di differente inosservanza), sia che il
comune non adotti invece alcun provvedimento, la sospensione
dei lavori perde efficacia, trattandosi di provvedimento
cautelare che il legislatore ha appunto costruito come
funzionale all’adozione, in tempi contenuti e
predeterminati, dei provvedimenti sanzionatori definitivi di
competenza dell’autorità amministrativa.
...
Reati edilizi – Direttore dei lavori – Responsabilità –
Assenza dal cantiere – Onere di vigilanza – Permane anche
dopo l’ordine di sospensione dei lavori – Dovere di
contestare le irregolarità riscontrate – Rinuncia
all’incarico da parte del tecnico – Cantiere sia sottoposto
a sequestro – Artt. 27, 29, 31 e 44 D.P.R. 380/2001.
In tema di reati edilizi, l’assenza dal
cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi
commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l’onere
di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie
ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se
del caso rinunziando all’incarico.
Pertanto, l’obbligo di vigilanza che l’art. 29, D.P.R.
380/2001 pone in capo al direttore dei lavori circa la
conformità delle opere al permesso di costruire, con la
conseguente responsabilità penale nel caso di reati da altri
commessi senza che intervenga quella forma di dissociazione
prevista dal comma 2 della disposizione, permane sino a che
non venga comunicata la formale conclusione dell’intervento
ovvero sino a che il tecnico non rinunci all’incarico, e non
viene meno in caso di adozione dell’ordinanza di sospensione
dei lavori di cui all’art. 27, comma 3, D.P.R. 380/2001
salvo che –e fintanto che– il cantiere sia sottoposto a
sequestro.
...
Conformità delle opere al permesso di costruire –
Responsabilità del Direttore dei lavori anche in caso di
assenza dal cantiere – Omessa (diligente) vigilanza –
GIURISPRUDENZA.
Sussiste, in capo al direttore dei
lavori una posizione di garanzia per il rispetto della
normativa urbanistica ed edilizia, addebitandogli le
conseguenze penali dell’omesso controllo sulla corretta
esecuzione delle opere rispetto al permesso di costruire
(art. 29, comma 1, d.P.R. 380 del 2001), ed imponendogli
altresì di “dissociarsi” dalla condotta illecita da altri
commessa, anche se trattisi del suo stesso committente.
In particolare, «il direttore dei lavori non è responsabile
qualora abbia contestato agli altri soggetti la violazione
delle prescrizioni del permesso di costruire, con esclusione
delle varianti in corso d’opera, fornendo al dirigente o
responsabile del competente ufficio comunale contemporanea e
motivata comunicazione della violazione stessa. Nei casi di
totale difformità o di variazione essenziale rispetto al
permesso di costruire, il direttore dei lavori deve inoltre
rinunciare all’incarico contestualmente alla comunicazione
resa al dirigente» (art. 29, comma 2, T.U.E.).
Se quest’ultima disposizione prevede una causa personale di
non punibilità che vale esclusivamente per il reato nella
forma omissiva e che consente al professionista di sfuggire
all’applicazione delle sanzioni qualora adempia alle
prescrizioni previste nel tassativo modello legale, essa
–letta unitamente alla norma contenuta nel primo comma–
individua invece una vera e propria posizione di garanzia
che fonda la penale responsabilità del direttore dei lavori
nel caso di condotta da altri commessa.
Non si tratta, tuttavia, di una responsabilità oggettiva,
essendo sempre necessario che il tecnico, volutamente o per
negligenza, non ponga in essere quanto gli si impone.
Certamente negligente è la condotta del direttore dei lavori
che si disinteressi del cantiere ove riveste tale formale
qualità (Sez. 3,
n. 7406 del 15/01/2015, Crescenzi; Sez. 3, n. 34602 del
17/06/2010, Ponzio) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2019 n. 38479 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA – Qualificazione giuridica di
bosco – Nozione di bosco ai fini penali – AGRICOLTURA –
Lavori di bonifica agraria in area boschiva – BENI CULTURALI
ED AMBIENTALI – Trasformazione bosco a prato – Assenza della
autorizzazione paesaggistica – Rimessione in pristino dello
stato dei luoghi – D.lgs. n. 227/2001 – Art. 181 d.lgs. n.
42/2004.
Dopo l’entrata in vigore del d.lgs.
18.05.2001, n. 227, deve qualificarsi come bosco –meritevole
di protezione ai sensi dell’art. 181 del d.lgs. 22.01.2004,
n. 42– ogni terreno coperto da vegetazione forestale arborea
associata o meno a quella arbustiva, da castagneti,
sughereti o da macchia mediterranea, purché aventi
un’estensione non inferiore a mq. duemila, con larghezza
media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore
al 20 per cento (Sez.
3, n. 32807 del 23/04/2013, Timori; Sez. 3, n. 1874 del
16/11/2006, dep. 2007, Monni).
Le leggi regionali possono dettare una
diversa disciplina ai fini dell’individuazione delle zone
assoggettate a vincolo paesaggistico e classificate “bosco”
e, ai fini penali, tale nozione deve intendersi in senso
normativo e non naturalistico, in quanto finalizzata ad
evitare deturpamenti “a macchia” di aree boschive.
La disposizione normativa prende in considerazione le
caratteristiche di tutte le aree omogenee limitrofe a quelle
interessate dalla opere, e non solo queste ultime, giacché
in tal caso si potrebbero realizzare senza autorizzazione
interventi di modifica di territori aventi estensione
inferiore ai 2000 metri quadrati, ancorché limitrofi a più
ampie aree omogenee ed aventi copertura boschiva, ciò che la
normativa citata ha appunto voluto vietare
(Cass. Sez. 3, n. 28135 del 11/01/2012, Galluccio; Sez. 3,
n. 28928 del 18/05/2011, Sardu) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2019 n. 38471 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Impugnazione proposta dal solo
imputato – Principio del divieto della “reformatio in
peius” Poteri e limiti del giudice di appello – Ipotesi
di aggravamento per specie o quantità della pena – Art. 597,
comma 3, cod. proc. pen. – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA –
Ordine di demolizione della costruzione abusiva – Pene
accessorie – Applicazione d’ufficio – BENI CULTURALI ED
AMBIENTALI – Tutela dei beni paesaggistici e ambientali.
In tema di “reformatio in peius”, nel
caso di impugnazione proposta dal solo imputato,
l’ordinamento processuale impone al giudice di appello, di
attenersi alle ipotesi di aggravamento –per specie o
quantità– della pena, di applicazione di nuova o più grave
misura di sicurezza, di pronunzia di proscioglimento con
formula meno favorevole o di revoca di benefici; in detto
divieto non è compreso l’ordine di demolizione della
costruzione abusiva, impartito dal giudice ai sensi
dell’art. 7 legge 28.02.1985 n. 47 (oggi D.P.R. n.
380/2001), trattandosi non di pena accessoria, ma di
sanzione amministrativa di tipo ablatorio, consequenziale
alla sentenza di condanna e la cui irrogazione costituisce
atto dovuto.
Del resto, è altrettanto pacifico che la previsione di cui
all’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. non contempla, tra i
provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice di appello, le
pene accessorie che, ex art. 20 cod. pen., conseguono di
diritto alla condanna come effetti penali di essa.
È pertanto legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del
giudice di appello, tramite il procedimento di correzione di
errore materiale, delle pene accessorie non applicate in
primo grado. Sicché, il divieto della “reformatio in peius”,
previsto dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. quando
appellante è il solo imputato, non impedisce che il giudice
d’appello ordini la rimessione in pristino dello stato dei
luoghi prevista in caso di sentenza di condanna dall’art.
181, comma 2, d.lgs. 42 del 2004, allorquando, per mera
omissione, la stessa non sia stata disposta con la sentenza
di primo grado, trattandosi di sanzione amministrativa la
cui irrogazione costituisce atto dovuto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2019 n. 38471 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Verifica
dell’anomalia: quando è possibile la motivazione per relationem.
Nelle gare pubbliche la valutazione con cui la P.A.
faccia proprie le ragioni addotte dall'impresa a giustificazione della
propria offerta anomala, considerando attendibili le spiegazioni fornite,
non deve essere corredata da un'articolata motivazione ripetitiva delle
medesime giustificazioni ritenute accettabili, o espressiva di ulteriori
apprezzamenti, potendo il giudizio favorevole essere espresso per relationem
alle giustificazioni presentate dal concorrente.
---------------
La tesi attorea, per quanto suggestiva, non può essere condivisa.
È pur vero, infatti, che la voce relativa alla presenza del galleggiante è
contenuta all’interno del paragrafo 1, rubricato “caratteristiche di minima
richieste”, con la conseguenza che, ad una prima lettura, sembrerebbero
ascriversi a tale categoria tutte le specifiche declinazioni tecniche
contenute nei sotto paragrafi pur sempre compresi nell’elencazione interna
al suddetto paragrafo.
Pur tuttavia, tale approdo ermeneutico viene, però, smentito dal fatto che
il capitolato tecnico, quanto alla definizione delle caratteristiche
tecniche, reca un solo paragrafo ed in esso risultano incluse oltre alle
caratteristiche tecniche di base della cartuccia monouso –da ritenersi
dunque caratteristiche di minima in senso stretto– anche caratteristiche
aggiuntive (tra cui la presenza del galleggiante meccanico) ed elementi
accessori, che si collocano al di fuori del perimetro dei requisiti minimi
essenziali, come d’altronde è fatto palese dalla previsione di un punteggio
premiante che, opinando diversamente, non avrebbe ragione d’essere.
Va, dunque, confermata la decisione di prime cure nella parte in cui ha
rilevato che il galleggiante meccanico –non compreso nell’offerta della
ditta aggiudicataria– costituiva una “caratteristica aggiuntiva” del
prodotto offerto –e non “di minima”– rilevando, come tale, solo ai
fini dell’attribuzione di un punteggio aggiuntivo.
Ne discende che i chiarimenti resi dalla stessa stazione appaltante, lungi
dal riflettere un contenuto innovativo e modificativo degli assetti
regolatori mutuabili dalla disciplina di gara, si mantengono, contrariamente
a quanto dedotto, nei limiti della funzione interpretativa della previsione
capitolare.
D’altronde, è noto che, a fronte di una clausola cui si riconnette una
portata escludente, e a fronte del carattere non univoco della disposizione
in essa racchiusa, l'interprete deve conformare la propria attività
interpretativa al criterio del favor partecipationis, favorendo
l'applicazione della disposizione che consenta la massima partecipazione
possibile alla procedura (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. III,
07/03/2019, n. 1577).
Del pari, non possono essere condivise le ulteriori argomentazioni censoree
che involgono l’assegnazione alla controinteressata, per la voce
“caratteristiche aggiuntive”, di 5 punti.
Anche in questo caso il costrutto giuridico dell’appellante riposa su una
controversa interpretazione della disciplina di gara, muovendo dall’assunto
secondo cui il disciplinare di gara, all’articolo 6, premiasse la presenza
–secondo il criterio “on/off”- del galleggiante di tipo meccanico con
l’assegnazione di un punteggio di 10 punti.
Sul punto, però, rileva il Collegio che la clausola in argomento, nel suo
significato letterale, non è di univoca lettura nel senso sopra prospettato.
E ciò per due circostanze: da un lato richiama le “caratteristiche
aggiuntive” e, dall’altro, indica che il punteggio di 10 è un punteggio
massimo, circostanza questa evidentemente incompatibile con la lettura
offerta dall’appellante secondo cui il criterio applicativo dovesse
intendersi incentrato sulla metodica “on/off”, ammettendo, viceversa, una
graduazione di punteggio.
È noto che l'interpretazione delle clausole del bando deve essere letterale,
non essendo consentito rintracciarvi significati ulteriori e procedere con
estensione analogica. Tanto in ragione di esigenze di certezza connesse alla
necessità che la via del procedimento ermeneutico non conduca a un effetto,
indebito, di integrazione delle regole di gara aggiungendo significati del
bando in realtà non chiaramente e sicuramente rintracciabili nella sua
espressione testuale (Cons. Stato, V, 12.09.2017, n. 4307).
A tutela dell'affidamento dei partecipanti ad una gara pubblica, della par
condicio dei concorrenti e dell'esigenza della più ampia partecipazione,
l'amministrazione può legittimamente discostarsi in via di interpretazione
dalle norme della lex specialis solo in presenza di una sua obiettiva
incertezza (cfr. Consiglio di Stato sez. III, 15/01/2019, n. 389; Cons. St.,
sez. V, 29.10.2018, n. 6132; id., sez. III, 18.06.2018, n. 3715).
Orbene, nell’applicazione delle richiamate coordinate di riferimento –ed a
fronte della non univocità del dato letterale valorizzato dall’appellante
che risulta non essere in rapporto di sintonia, nel significato proposto,
con gli ulteriori elementi letterali pur contenuti nella medesima
disposizione (id est riferimento alla voce “caratteristiche aggiuntive” e
previsione di un punteggio “massimo”)- appare coerente l’approccio
esegetico privilegiato dalla stazione appaltante che ha ritenuto il
punteggio de quo come complessivamente riferito a tutte le caratteristiche
tecniche che componevano la voce delle “caratteristiche aggiuntive” (“grandi
capacità, pre-gelificate, ecc.”), assegnando all’espresso richiamo al
galleggiante, in essa contenuto, la valenza di un dato esemplificativo.
Ed, infatti, in una visione sistemica, appare più aderente alla complessiva
disciplina di gara la valorizzazione della previsione della voce
“caratteristiche aggiuntive” come elenco aperto di possibili qualità
aggiuntive che gli operatori avrebbero potuto offrire e che coerentemente
meritavano di essere premiate concorrendo, così come il galleggiante, a
giustificare l’assegnazione di un punteggio aggiuntivo.
Nella detta prospettiva, il seggio di gara, pur rilevando la mancanza del
galleggiante nel prodotto offerto dalla controinteressata, ha inteso,
comunque, premiare, con il riconoscimento di un punteggio di 5 punti
(all’appellante sono stati riconosciuti 10 punti), il possesso di altre
qualità in ragione di valutazioni che, ricadendo nell’alveo della
discrezionalità tecnica, restano sindacabili nei limiti della manifesta
illogicità e ragionevolezza, qui non in rilievo.
Infine, nemmeno hanno pregio le residue censure che involgono la pretesa
insufficienza del corredo motivazionale delle valutazioni afferenti al
giudizio di congruenza dell’offerta presentata dall’aggiudicataria.
Vale premettere che l’intero sub procedimento di verifica risulta
ricostruito in ragione dei verbali della gara e dei documenti depositati
dall’aggiudicataria in prime cure e che, ciò nondimeno, il ventaglio delle
censure articolato è rimasto circoscritto ai soli profili afferenti alla
motivazione.
Tanto premesso, rileva il Collegio che, anche in questo caso, il giudice di
prime cure ha fatto buon governo dei principi che governano la disciplina di
settore.
È, infatti, ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui
la valutazione con cui l'Amministrazione faccia proprie le ragioni addotte
dall'impresa a giustificazione della propria offerta anomala, considerando
attendibili le spiegazioni fornite, non deve necessariamente essere
corredata da un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime
giustificazioni ritenute accettabili o espressiva di ulteriori apprezzamenti
e, pertanto, il giudizio favorevole di non anomalia, non richiedendo una
motivazione puntuale ed analitica, può essere espresso semplicemente per
relationem nelle stesse giustificazioni presentate dal concorrente (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 05/03/2019, n. 1518; Consiglio di Stato, sez. III, 18/12/2018 , n. 7128).
È di tutta evidenza, avuto riguardo al caso di specie, come, anche in
ragione della sequenzialità degli adempimenti che hanno caratterizzato il
procedimento qui in rilievo, come il positivo superamento del giudizio
tragga diretto alimento dalle informazioni fornite dall’impresa offerente i
cui dati sono stati evidentemente condivisi dalla stazione appaltante che,
sulla scorta di essi, ed indipendentemente dall’uso di formule sacramentali,
ha favorevolmente concluso il relativo procedimento, determinandosi
coerentemente con i suddetti arresti procedimentali.
L'infondatezza dei motivi dedotti con l'appello principale comporta il
rigetto anche della domanda di risarcimento danni in forma specifica o, in
subordine, per equivalente, nonché del danno curriculare e del danno da
ritardo. È noto, infatti, che l'illegittimità del provvedimento impugnato è
condizione necessaria per accordare il risarcimento richiesto; la reiezione
della parte impugnatoria del gravame impedisce infatti che il danno stesso
possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta
dall'Amministrazione (Cons. St., sez. V, 01.10.2015, n. 4588; id., sez.
IV, 29.12.2014, n. 6417; id., sez. V, 05.12.2014, n. 6013; id. 27.08.2014, n. 4382; id. 13.01.2014, n. 85; id., sez. IV, 17.09.2013, n. 4628; id., sez. V, 15.01.2013, n. 176)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 17.09.2019 n. 6206 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
costante giurisprudenza, per la realizzazione di verande, tettoie,
pergolati, pensiline e gazebi, è necessario il permesso di costruire o la
S.c.i.a, ove si alteri la sagoma dell’edificio; difettino i requisiti tipici
delle pertinenze e degli interventi precari; le strutture siano infisse al
suolo; si determini l’aumento della superficie utile; ovvero, le opere non
siano facilmente amovibili e di modeste dimensioni e non abbiano natura
puramente ornamentale.
---------------
6.5.1. Al riguardo, il Collegio evidenzia che:
a) non si ravvisa il dedotto errore, atteso che il primo giudice,
nella pagina n. 6 della citata sentenza, fa riferimento alla autorizzazione
n. 51 del 04.08.1994 esclusivamente per ricordare la sussistenza del titolo
edilizio per l’avvenuta realizzazione del portale in pietra;
b) per converso, la dichiarazione, peraltro effettuata in via
meramente incidentale, in ordine alla condivisione del rilievo della
illegittimità ha riguardato correttamente l’autorizzazione n. 4 del
04.11.1998 (v. pag. n. 9 della sentenza Tar);
c) a prescindere dall’individuazione dello specifico oggetto della
richiamata D.I.A. del 17.02.2003, è pacifico che la presente controversia
attiene (quanto meno in parte) all’opera realizzata sulla particella 796,
non rilevando in questa sede quanto insistente sulla particella 1014, come
correttamente statuito nella pronuncia impugnata;
d) per costante giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, n. 306 del
2017; sez. IV, n. 2864 del 2016; sez. VI, n. 1619 del 2016; sez. VI, n. 1777
del 2014; Cass. pen., sez. III, 20.06.2013, n. 26952; 25.10.2012, n. 41698;
25.01.2012, n. 3093), per la realizzazione di verande, tettoie, pergolati,
pensiline e gazebi, è necessario il permesso di costruire o la S.c.i.a, ove
si alteri la sagoma dell’edificio; difettino i requisiti tipici delle
pertinenze e degli interventi precari; le strutture siano infisse al suolo;
si determini l’aumento della superficie utile; ovvero, le opere non siano
facilmente amovibili e di modeste dimensioni e non abbiano natura puramente
ornamentale;
e) nel caso di specie l’opera non presenta natura precaria, atteso
che, da quanto emerge dalla approfondita istruttoria posta a fondamento
dell’impugnato provvedimento, trattasi di un capanno o manufatto di mq 16,53
(4,35 x 3,80), con pareti in calcestruzzo armato, con copertura di lastre di
zinco, pavimentato;
f) pertanto, condividendo quanto statuito sul punto dal primo
giudice, atteso che i connotati strutturali di detto manufatto denotano una
destinazione naturale a fornire una utilità prolungata nel tempo, la
struttura può essere ritenuta di carattere residenziale, determinando
incremento di volumetria
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.09.2019 n. 6194 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
parità di genere nella giunta comunale prevale sullo statuto.
Il rispetto della parità di genere nella composizione delle giunte comunali
è insuperabile. La natura fiduciaria della carica di assessore non può
giustificare la limitazione di un eventuale interpello alle sole donne
appartenenti allo stesso partito o alla stessa coalizione che ha espresso il
primo cittadino. In altre parole va adeguatamente comprovata, certificata da
parte del sindaco, l'accidentale situazione di obiettiva e assoluta
impossibilità di rispettare la percentuale di genere femminile nella
composizione dell'organo politico-amministrativo. Sono in gioco i principi
costituzionali di uguaglianza tra tutti i cittadini e di democraticità della
Repubblica nell'avvalersi di competenze e capacità, ma anche i principi di
legalità, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
Con la
sentenza
17.09.2019 n. 1578, il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
ha affrontato il delicato tema della parità tra i generi, soffermandosi su
alcuni dei profili più sensibili di concreta applicazione: l'esercizio delle
funzioni democratico-rappresentative dei cittadini.
La vicenda
Alcuni consiglieri comunali di minoranza si sono rivolti al Tar per ottenere
l'annullamento dei decreti con i quali il sindaco della loro cittadina aveva
provveduto a designare la giunta municipale indicando come assessori tre
uomini e una sola donna.
Secondo i ricorrenti, il sindaco, oltre a non rispettare il dettato
normativo, non avrebbe svolto alcuna effettiva attività istruttoria, non
potendosi realmente desumere quale procedura avesse posto in atto per
acquisire la disponibilità da parte di persone di genere femminile. Non
solo, il sindaco neppure avrebbe dato conto di rinunce all'incarico
assessorile, tanto all'interno della stessa maggioranza consiliare, che
della società civile tutta.
La decisione
Il Tar ha ammesso che solo l'effettiva impossibilità di assicurare la
presenza dei due generi nella misura stabilita dalla legge giustifica
deroghe a questi principi. Inattuabilità che però deve essere comprovata
attraverso un'accurata e approfondita istruttoria e una conforme e puntuale
motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori.
L'impossibilità di rispettare la percentuale di rappresentanza di genere
deve risultare in concreto, in modo circostanziato e inequivoco e deve avere
un carattere tendenzialmente oggettivo.
Non è pensabile che mere situazioni soggettive o contingenti -come ad
esempio quelle che possano derivare dall'applicazione di disposizioni
statutarie relative al funzionamento degli organi comunali ovvero che
attengano alle modalità di elezione degli stessi ovvero dipendenti dalla
mancanza di candidati all'interno del partito o della coalizione vincitrice
delle elezioni, o comunque di piena ed esclusiva fiducia del sindaco-
possano legittimare la deroga alla effettiva applicazione della normativa.
Nel caso in cui lo statuto comunale non preveda la figura dell'assessore
esterno, per la piena attuazione del principio di pari opportunità tra
uomini e donne l'ente dovrà dunque procedere a modifiche statutarie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.10.2019).
---------------
SENTENZA
1. Fr.Ca., Al.Fi. e An.Gi.Ma., in qualità di cittadini e di consiglieri
comunali di minoranza di Castrolibero hanno adìto questo Tribunale allo
scopo di ottenere l’annullamento dei decreti nn. 10936, 10938, 10939 e 10941
del 14.06.2018 con i quali il Sindaco ha provveduto a designare la Giunta
Municipale dell’ente indicando tra gli assessori tre uomini e una
rappresentante femminile, così violando, secondo la prospettazione contenuta
nel ricorso, l’art. 1, comma 137, della Legge 56/2014 che fa obbligo, nel
caso di comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, di garantire una
rappresentanza di genere nella misura del 40%.
2. Oltre a non rispettare il dettato normativo, sostengono i ricorrenti, il
Sindaco non avrebbe svolto alcuna attività istruttoria, non potendosi
desumere quale procedura abbia posto in atto per acquisire l’eventuale
disponibilità per lo svolgimento delle funzioni assessorili da parte di
persone di genere femminile; neppure avrebbe dato conto di eventuali rinunce
all’incarico de quo tanto all’interno della stessa maggioranza
consiliare quanto nella società civile.
...
6. Nel merito è palese la fondatezza del ricorso per violazione del
menzionato referente normativo.
6.1. La natura fiduciaria della carica assessorile non può giustificare,
infatti, la limitazione di un eventuale interpello -di cui in ogni caso non
vi è alcuna prova- alle sole persone appartenenti allo stesso partito o alla
stessa coalizione di quella che ha espresso il Sindaco, soprattutto in
realtà locali niente affatto estese, come quella di cui ci si occupa, ciò
tanto più in considerazione del principio alla cui attuazione è finalizzata
la norma in questione. Nessuna prova, inoltre, è stata effettivamente
fornita in ordine a una adeguata istruttoria svolta per reperire, per la
nomina di assessore femminile, idonee personalità nell’ambito territoriale
di riferimento.
6.2. Deve quindi ritenersi che non risulti provata quella situazione di
obiettiva ed assoluta impossibilità di rispettare la percentuale di genere
femminile nella composizione della giunta comunale fissata dal legislatore,
condizione che, in una logica di contemperamento dei principi costituzionali
che vengono in gioco costituisce il “limite intrinseco,
logico–sistematico, di operatività della norma in questione” (Consiglio
di Stato, Sez. V, 406/2016).
7. Nemmeno può, da ultimo, convenirsi con l’approccio ermeneutico sostenuto
nel ricorso, teso a configurare in chiave non immediatamente precettiva la
più volte enunciata disposizione di legge, impostazione che appare
eccessivamente svalutativa del relativo disposto normativo, rispondente a
specifici valori di rango costituzionale, sinteticamente riassumibili nella
necessità di assicurare la parità di genere.
7.1. E’ pertanto palesemente infondata, ad avviso del Collegio, la questione
di legittimità della norma stessa prospettata dall’amministrazione con
riferimento agli artt. 5 e 97 della Costituzione.
7.2. Ciò tanto più se si tiene conto che rientra nella esclusiva
discrezionalità del legislatore nazionale la scelta delle modalità ritenute
più idonee ed adeguate per rendere tendenzialmente effettivo, anche
nell’accesso alle cariche elettive, il principio di uguaglianza sancito
dall’articolo 3 della Costituzione, assicurando pari opportunità per la
partecipazione alla concreta gestione della cosa pubblica, finalità cui è
preordinata in modo non macroscopicamente illogico o irragionevole la
fissazione di una soglia percentuale minima di rappresentanza di genere
all’interno della giunta comunale, la quale, quindi, neppure può ritenersi
lesiva delle prerogative delle autonomie locali attesa, tra l’altro, la
proclamata unità e indivisbilità della Repubblica.
8. Il ricorso, per quanto osservato, è fondato. |
APPALTI: Soccorso
istruttorio per carenze che affliggono
l’offerta economica e quella tecnica.
Le carenze che
affliggono l’offerta economica e quella
tecnica non sono colmabili per il tramite
del soccorso istruttorio; e invero, l'art.
83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016,
seppure con una formulazione a contrario
-che fa salva tra l'altro la ipotesi,
innovativa, della mancanza,
dell'incompletezza e di ogni altra
irregolarità essenziale degli elementi e del
documento di gara unico europeo, sanabili
con il c.d. soccorso istruttorio oneroso- ha
escluso, in linea di continuità con
l'interpretazione degli arti. 38 e 46 del
previgente d.lgs. n. 163 del 2006, che
possano essere oggetto di sanatoria mediante
soccorso istruttorio la mancanza,
l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale riguardanti l'offerta tecnica ed
economica, nonché le carenze della
documentazione che non consentano
l'individuazione del contenuto o del
soggetto responsabile della stessa, ipotesi
tutte che concretano mancanze non sanabili
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 16.09.2019 n. 1980 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2.7. Né le carenze che affliggono la offerta
economica e quella tecnica della
aggiudicataria, sotto i due concorrenti
profili sopra evidenziati, sarebbero stati
colmabili per il tramite del soccorso
istruttorio.
E, invero, l'art. 83, comma 9, del d.lgs. n.
50 del 2016, seppure con una formulazione a
contrario -che fa salva tra l'altro la
ipotesi, innovativa, della mancanza,
dell'incompletezza e di ogni altra
irregolarità essenziale degli elementi e del
documento di gara unico europeo, sanabili
con il c.d. soccorso istruttorio oneroso- ha
escluso, in linea di continuità con
l'interpretazione degli arti. 38 e 46 del
previgente d.lgs. n. 163 del 2006, che
possano essere oggetto di sanatoria mediante
soccorso istruttorio la mancanza,
l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale “riguardanti l'offerta tecnica
ed economica, nonché le carenze della
documentazione che non consentano
l'individuazione del contenuto o del
soggetto responsabile della stessa, ipotesi
tutte che concretano mancanze non sanabili”
(CdS, III, 08.05.2017, n. 2093; TAR
Lombardia, I, 05.11.2018, n. 2500; TAR
Campania, I, 10.01.2019, n. 152). |
EDILIZIA PRIVATA:
1.- Edilizia ed Urbanistica – “volume utile” – nozione – rilievo ai fini
edilizi e paesaggistici – differenza.
La nozione di superficie e volume utile rilevante a fini
urbanistici deve considerarsi esclusivamente in relazione all’estensione dei
diritti edificatori, laddove nei giudizi paesistici è utile solo il volume
percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile
nell'insieme paesistico: ne consegue che un volume irrilevante ai fini
urbanistici può integrare un ingombro lesivo del paesaggio, e, come tale,
classificabile come utile in base ai parametri estetici attraverso cui viene
data protezione al vincolo paesistico.
Si tratta, quindi, di qualificazioni che interessano le superfici e i volumi
di qualsiasi natura, in quanto rileva la loro percepibilità come ingombro
alla visuale ovvero la modificazione alla realtà preesistente, tale da
arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio
(massima free tratta da www.giustamm.it).
---------------
14. Nel merito il ricorso è infondato.
15. I motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente stante la
loro evidente connessione logica.
16. Il gravato provvedimento della Soprintendenza, cui correttamente si è
adeguata l’Amministrazione civica, come anticipato, ha ritenuto
insussistenti le condizioni di legge per procedere alla richiesta di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria limitatamente al pergolo ligneo a
giorno, al relativo pavimento, al muretto a parziale contorno e, infine, ai
telai in anticorodal.
17. Parte ricorrente, viceversa, ritiene in primis, che le opere in
questione non sarebbero soggette alla tutela paesaggistica, non costituendo
una nuova superficie utile ai sensi del DPR 31/2017, All. A) -lettere A19,
A10 e A12.
La Soprintendenza, poi, non solo non avrebbe rispettato l’obbligo
di comunicazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis L. 241/1990
espressamente richiamato dall’art. 146, comma 8, del D.lgs 42/2004, ma avrebbe
violato l’obbligo di puntuale istruttoria e motivazione del provvedimento.
Il parere della Soprintendenza, infine, risulterebbe in contrasto con le
valutazioni della Commissione Paesaggistica.
18. Le censure in questione non meritano favorevole apprezzamento.
19. Premesso che risulta incontestato che le opere insistano su area
sottoposta a vincolo paesaggistico (ex D.M del 01.08.1985, ex lett. a), comma
1, art. 142, del dlgs 42/2004 ed ex art. 38, comma 3, delle NTA del PPTR),
l'art. 167, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004 prevede il possibile
accertamento postumo della compatibilità paesaggistica solo nei seguenti
tassativi casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria (art. 3 D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
T.U. Edilizia).
19.1. In tali ipotesi non rientrano le opere realizzate dal ricorrente dato
che la creazione della zona d’ombra a giorno realizzata con materiale ligneo
e sovrastante cannucciato, delimitata da un muretto e realizzata lungo il
lato sud del lotto di intervento, in adiacenza al trullo in uno alla
relativa pavimentazione, attesa l’effettiva e non irrilevante percettibilità
visiva –anche a distanza- dell’intervento e, soprattutto, la modifica
dell’originarie caratteristiche morfologiche dell’area (cfr. la
documentazione fotografica in atti), integrano certamente aumento di
superficie utile con conseguente obbligo di rimozione ex art. 167 Dlgs
42/2004.
20. Al riguardo, infatti, non rileva la circostanza che l’intervento
predetto non sia stato considerato dall’Autorità comunale preposta ai fini
urbanistici quale aumento di superficie.
20.1. La nozione di superficie e volume utile, infatti, rilevante a fini
urbanistici viene considerata esclusivamente in relazione all’estensione dei
diritti edificatori, laddove nei giudizi paesistici è utile solo il volume
percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile
nell'insieme paesistico (conforme, TAR Firenze, sez. III, 22/02/2019, n. 276)
Ne consegue che un volume irrilevante ai fini urbanistici può integrare un
ingombro lesivo del paesaggio, e, come tale, classificabile come utile in
base ai parametri estetici attraverso cui viene data protezione al vincolo
paesistico. Si tratta, quindi, di qualificazioni che interessano le
superfici e i volumi di qualsiasi natura, “in quanto rileva la loro
percepibilità come ingombro alla visuale ovvero la modificazione alla realtà
preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di
tutela del paesaggio” (ex multis, TAR Friuli Venezia Giulia, 31/05/2019 n.
239).
21. D’altra parte, l’Amministrazione ha correttamente e dettagliatamente
motivato in ordine all’incidenza dell’intervento progettato dal punto di
vista paesistico, precisando che la zona d’ombra a giorno va a modificare
l’originaria conformazione morfotipologica del trullo in pietra,
“identificato nella sua preesistenza come elemento isolato e ben
percettibile esternamente su tutti i lati e pertanto tipologicamente
compromesso dalla presenza della suddetta struttura lignea, che, tra l’altro
non risulta essere allineata né orizzontalmente né verticalmente ai
preesistenti gradoni lapidei conformanti la costruzione originaria”.
22. In riferimento, invece, alla realizzazione del pavimento in gres
(ceramica), al muretto di calcestruzzo sagomato e ai telai in anticorodal
(alluminio), a dispetto delle valutazioni effettuate dalla Commissione
locale per il paesaggio (il cui parere, tuttavia, è consultivo e non esplica
alcun effetto vincolante rispetto alle valutazioni della Soprintendenza, cfr.
TAR Campania, Napoli sez. III, 03/09/2018 n. 5317), dalla documentazione
fotografica versata in atti se ne desume l’immediata percettività e la
natura paesaggisticamente impattante degli stessi perché composti da
materiali non tradizionali e diversi rispetto a quelli tipici dei luoghi.
23. Per quanto sopra, non può trovare applicazione alla fattispecie in esame
l’Allegato A del DPR 31/2017 ove sono indicati gli interventi esclusi
dall’autorizzazione paesaggistica.
23.1. Quanto al pavimento in gres, la lettera A10 dell’Allegato A al dpr
31/2017, sebbene riguardi opere di manutenzione ed adeguamento di spazi
esterni, limita, tuttavia, l’esclusione dall’autorizzazione paesaggistica ad
opere diverse da quelle realizzate nel caso in esame (manufatti esistenti,
quali marciapiedi, banchine stradali, aiuole, componenti di arredo urbano),
e in ogni caso eseguite “nel rispetto delle caratteristiche morfo-tipologiche, dei materiali e delle rifiniture preesistenti e dei
caratteri tipici del contesto locale”, che l’utilizzo del gres (più
precisamente ceramica, come indicato nella relazione allegata all’istanza di
accertamento di conformità), non è idoneo a garantire.
23.2. Inconferente è poi il richiamo alla disposizione contenuta nella
lettera A12 in considerazione della modifica non insignificante degli
assetti planimetrici e vegetazionali esistenti in precedenza.
23.3. Neppure il pergolato, delimitato da un muretto (ove in sede di
sopralluogo disposto dal Comune di Manfredonia è stata riscontrata la
presenza di un piano di lavoro su cui sono posizionati un lavello e una
cucina) può farsi rientrare nella disciplina della lettera A 19 dell’allegato A al dpr 31/2017, riferendosi tale ultima disposizione
esclusivamente ai pergolati realizzati in legno per il ricovero di attrezzi
agricoli (là dove, al contrario, il ricorrente ha dichiarato l’utilizzazione
dello stesso per la preparazione del cibo) e ancorati al suolo senza opere
di fondazione o opere murarie (mentre nel caso in esame, è stato realizzato
un muretto con anima di calcestruzzo in funzione di chiusura del pergolato).
23.4. Le connotazioni strutturali del muretto, peraltro, determinano
l’inapplicabilità del procedimento autorizzatorio semplificato previsto per
gli interventi di lieve entità di cui Allegato B, lettera B21, del citato dpr
31/2017, che si riferisce, invece, precipuamente alla diversa ipotesi dei
muri di cinta o di contenimento del terreno.
23.5. In ogni caso, le singole opere realizzate non possono essere
isolatamente considerate, ma deve effettuarsi una valutazione globale delle
stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non
consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione ai fini della
corretta tutela del paesaggio (conforme, TAR Napoli, sez. VI, 12/05/2016,
n. 2433).
Il che conduce ad escludere che la zona d’ombra (pergolato e opere
connesse) possa essere ritenuta irrilevante sul piano della tutela
paesaggistica e della modifica dell'assetto del territorio ovvero che possa
essere ricompreso sotto lo scudo degli interventi di minima importanza di
cui all’art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, proprio nella considerazione
delle significative modifiche all’originario assetto del territorio che
l’intervento oggetto di causa ha effettivamente prodotto (TAR Napoli,
sez. II, 16/07/2019, n. 3917).
24. Ne deriva l'infondatezza di ogni ulteriore doglianza articolata in
ricorso, non potendosi ritenere, per le ragioni anzidette, il provvedimento
della Soprintendenza impugnato ed il conseguenziale atto comunale, affetti
da illogicità o da insufficienza motivazionale. Sicché, la carica ostativa
prodotta dal richiamato art. 167, comma 4 rende del tutto ininfluente
l’indicazione da parte del ricorrente della possibile parziale utilizzazione
di materiali diversi rispetto a quelli originariamente previsti in progetto
(rimozione dei telai in anticorodal e rivestimento del muretto con materiale
diverso dal cemento).
25. Né coglie nel segno la lamentata violazione da parte della
Soprintendenza delle garanzie partecipative: trattandosi, infatti, di
attività vincolata, in quanto le opere realizzate non rientrano nelle
ipotesi dei commi 4 e 5 dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 il provvedimento emanato
non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto
adottato, con conseguente operatività dell’art. 21-octies L. 241/1990
(Consiglio di Stato sez. IV, 03/09/2019, n. 6073).
Tanto più che l’art. 167 dlgs 42/2004, sulla cui base è stato richiesto dal ricorrente l’accertamento
ex post di conformità paesaggistica, -a differenza della diversa ipotesi
disciplinata dall’art. 146, comma 8, Dlgs 42/2004- non prevede a carico della
Soprintendenza la comunicazione di preavviso di rigetto, che, invece,
spetta, piuttosto, al termine del procedimento, all’autorità competente alla
gestione del vincolo paesaggistico ai fini accertamento della compatibilità
paesaggistica (ex art. 167, comma 5, dlgs 42/2004), e la cui violazione non è
stata lamentata nel caso in esame.
26. Per le suesposte ragioni il ricorso va rigettato
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 15.09.2019 n. 1218 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA:
Assenza di trasferimento all’appaltatore del potere di fatto
sull’immobile – Dovere di custodia e di vigilanza – Sussiste
– Committente e detentore del bene – Rischio specifico –
Responsabilità di tutte le ingerenze dannose, dolose o
colpose – Responsabilità ex art. 2051 c.c. – Giurisprudenza.
In materia di appalti, non viene meno
per il committente e detentore del bene il dovere di
custodia e di vigilanza e, con esso, la conseguente
responsabilità ex art. 2051 c.c. laddove non vi sia il
totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto
sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera
appaltata (Cass.,
14/05/2018, n. 11671), quest’ultimo d’altro
canto rispondendo anche dei danni cagionati a terzi dal
preposto o dall’ausiliario della cui opera, ancorché non
alle proprie dipendenze, si avvalga nell’espletamento della
propria attività di adempimento dell’obbligazione, assumendo
il rischio connaturato alla relativa utilizzazione
nell’attuazione della propria obbligazione (cuius commoda
eius et incommoda, ovvero dell’appropriazione o
“avvalimento” dell’attività altrui per l’adempimento della
propria obbligazione), essendo pertanto responsabile di
tutte le ingerenze dannose, dolose o colpose, che a costui,
sulla base di un nesso di occasionalità necessaria
(v. Cass., 17/05/2001, n. 6756; Cass., 15/02/2000, n. 1682),
siano state rese possibili in virtù della posizione
conferitagli nell’adempimento dell’obbligazione medesima
rispetto al danneggiato, e che integrano il “rischio
specifico” a tale stregua assunto
(Cass., 12/10/2018, n. 25373 ).
Pertanto, mentre l’art. 2053 c.c. indica
come soggetto responsabile il proprietario, e quindi il
titolare del diritto reale o della concessione che legittima
il controllo giuridico sul bene», l’«art. 2051 c.c.
considera responsabile il custode dell’edificio», e “la
qualifica di proprietario e quella di custode … non
coincidono necessariamente” (Corte
di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 05.09.2019 n. 22163 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Conoscenza
dei nominativi dei soggetti che hanno
chiesto di effettuare il sopralluogo in una
procedura di gara.
La mera conoscenza dei
nominativi dei soggetti che hanno chiesto di
effettuare il sopralluogo non integra
violazione dell’art. 53, comma 3, del d.lgs.
n. 50 del 2016, nelle procedure aperte, in
relazione all’«elenco dei soggetti che hanno
presentato offerte, fino alla scadenza del
termine per la presentazione delle medesime»
(art. 53, comma 2, lett. a), poiché la
richiesta di sopralluogo o la proposizione
di quesiti circa le sue modalità alla
stazione appaltante non costituisce elemento
infallibilmente sintomatico, anche per altri
soggetti eventualmente interessati a
partecipare, di certa futura partecipazione
alla gara né, ancor meno, immediata
manifestazione di volontà partecipativa o
forma equipollente di offerta
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 04.09.2019 n. 6097 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
6.2. Bene ha rilevato la sentenza impugnata,
con statuizione che va immune da censura,
come la lamentata violazione dell’art. 53
del codice dei contratti pubblici si
collegava alla circostanza che l’Azienda
avrebbe consentito ai potenziali concorrenti
di conoscere quali fossero le imprese, che
avevano partecipato alla gara, attraverso la
pubblicazione delle richieste di sopralluogo
sul portale EmPULIA.
6.3. Questa pubblicazione, come ben rammenta
la sentenza qui impugnata, era espressamente
contemplata dal disciplinare di gara
(combinato disposto dei punti 2.6.1 e
2.8.2).
6.4. La lex specialis aveva infatti
previsto, al punto 2.8.2, che «la richiesta
di sopralluogo deve essere inoltrata,
tramite EmPULIA, utilizzando la funzionalità
“Chiarimenti” con l’indicazione del
nominativo e della qualifica della persona
incaricata del sopralluogo» e, al precedente
punto 2.6.1., aveva disciplinato tale
funzionalità e aveva disposto che «le
risposte ad eventuali quesiti in relazione
alla presente gara saranno pubblicate sul
Portale EmPULIA entro il 19/10/2017»,
sicché, come ha osservato il primo giudice,
le richieste di sopralluogo e le relative
risposte sarebbero state pubblicate sul
portale EmPULIA, in base alle previsioni
appena richiamate, senza prescrizione di
anonimato.
6.5. La qui dedotta violazione del principio
di anonimato, in asserita violazione
dell’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016, si
è perciò realizzata per effetto di queste
previsioni o, a tutto concedere, con la
pubblicazione delle richieste e delle
risposte sul portale, momento nel quale,
secondo la tesi dell’appellante stessa,
l’asserita segretezza dei partecipanti
sarebbe stata in concreto compromessa e,
cioè, entro il 19.10.2017, con la
conseguenza che il ricorso, notificato solo
il successivo 05.02.2018, è
irrimediabilmente tardivo.
6.6. La corretta statuizione di
irricevibilità del ricorso in parte qua non
è in nessun modo incrinata dalle contrarie
argomentazioni dell’appellante, che si è
limitata ad affermare, semplicemente, che
era corretto e tempestivo avanzare la
censura a chiusura del procedimento
concorsuale (p. 19 del ricorso), mentre è
evidente, al contrario, che la qui
contestata violazione della segretezza si
sarebbe consumata, al più tardi, al momento
della pubblicazione delle richieste di
sopralluogo e non già a chiusura della gara,
sicché la relativa censura è
irrimediabilmente tardiva, come ha statuito
il primo giudice, con motivazione che va
quindi anche essa immune da censura.
6.7. Né giova osservare in senso contrario,
come fa l’appellante nella propria memoria
di replica depositata il 12.07.2019, che
era necessario attendere l’esatto perimetro
dei presentatori dell’offerta perché, se
l’effetto perturbatore sul regolare
svolgimento della gara era dato dalla stessa
pubblicazione dei nominativi delle imprese
che intendevano partecipare al sopralluogo,
era in quel momento che la lesività anche
potenziale della lesione sul regolare
svolgimento della gara, siccome denunciata
dalla ricorrente, poteva dirsi
cristallizzata e non solo dopo la formale
presentazione delle offerte.
6.8. È evidente che, secondo la stessa
prospettazione dell’appellante, la sola
conoscenza di tali nominativi può
influenzare negativamente la presentazione
delle offerte sicché delle due l’una: o
l’effetto perturbatore della gara è
immediato, con la conseguenza che le
previsioni della lex specialis dovevano
essere immediatamente impugnate, o non
sussiste perché la presentazione delle
offerte non può essere influenzata dalla
mera conoscenza dei nominativi delle imprese
che hanno chiesto di partecipare al
sopralluogo prima e con il mero intento di
partecipare alla gara.
6.9. La tesi dell’appellante, per la sua
stessa prospettazione, perciò non sfugge ad
una secca alternativa di irricevibilità o,
per converso, di infondatezza.
7. E invero essa è infondata anche nel
merito perché la mera conoscenza dei
nominativi dei soggetti che hanno chiesto di
effettuare il sopralluogo non integra
violazione dell’art. 53, comma 3, del d.lgs.
n. 50 del 2016, nelle procedure aperte, in
relazione all’«elenco dei soggetti che hanno
presentato offerte, fino alla scadenza del
termine per la presentazione delle medesime»
(art. 53, comma 2, lett. a), poiché la
richiesta di sopralluogo o la proposizione
di quesiti circa le sue modalità alla
stazione appaltante non costituisce elemento
infallibilmente sintomatico, anche per altri
soggetti eventualmente interessati a
partecipare, di certa futura partecipazione
alla gara né, ancor meno, immediata
manifestazione di volontà partecipativa o
forma equipollente di offerta. |
ESPROPRIAZIONE: Alla
Corte costituzionale la disciplina regionale sull’inserimento dell’opera nel
programma dei lavori pubblici e conseguente proroga del vincolo
espropriativo.
Il Tar per la Lombardia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9,
comma 12, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 (“Legge per
il governo del territorio”), nella parte in cui stabilisce che i vincoli
preordinati all’espropriazione, di durata quinquennale, non decadono quando
l’opera sia inserita, prima della scadenza del quinquennio, nel programma
triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Tale previsione sarebbe, infatti, violativa dei principi fondamentali della
materia e sarebbe stata dettata oltre i limiti della competenza concorrente
delle regioni a statuto ordinario, avendo essa dato luogo, in assenza di
indennizzo, ad un’ipotesi di attuazione del vincolo espropriativo –volta ad
impedirne la decadenza– difforme dalla disciplina statale la quale,
diversamente, ricollega tale effetto di mantenimento dell’efficacia del
vincolo ad un serio inizio della procedura espropriativa.
---------------
Espropriazione per pubblico interesse – Vincolo preordinato all’esproprio
– Reiterazione – Regione Lombardia – Effetti della previsione dell’opera nel
piano triennale dei lavori pubblici – Questione non manifestamente infondata
di costituzionalità
È rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge
regionale della Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui, in violazione
dei limiti alla propria competenza legislativa concorrente definiti
dall’art. 117 Cost. e comunque dei principi fondamentali relativi ai limiti
del potere espropriativo discendenti dall’art. 42 Cost., attribuisce
all’inserimento della previsione della realizzazione di un’opera pubblica
nella programmazione triennale di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016
l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo quinquennale preordinato
all’esproprio per la sua esecuzione (1).
---------------
(1) I. – Con
l’ordinanza in rassegna il Tar per la Lombardia dubita della legittimità
costituzionale –in relazione agli artt. 42 e 117 Cost., oltre che con
riferimento all’art. 1 del Primo protocollo della C.E.D.U.– dell’art. 9,
comma 12, l.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 nella parte in cui stabilisce che
l’inserimento dell’opera nel programma triennale dei lavori pubblici
previsto dall’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016, ove intervenuto nel periodo
di efficacia quinquennale del vincolo, impedisce la decadenza dello stesso
vincolo. L’ordinanza evidenzia come la previsione di cui trattasi violerebbe
le regole che connotano l’esercizio del potere ablatorio, ivi compreso
l’obbligo di erogazione di un indennizzo in caso di espropriazione di
valore, fermo restando che il programma triennale dei lavori pubblici
sarebbe uno strumento inidoneo ad integrare il presupposto del “serio
avvio della procedura espropriativa” che la Corte costituzionale ha
considerato necessario per l’attuazione
del vincolo medesimo. Il Tar rimettente, adìto per l’annullamento degli atti
della procedura espropriativa, con sentenza non definitiva n. 736 del 2019
ha dichiarato talune doglianze in parte inammissibili e in parte infondate
ed ha riservato all’ordinanza in rassegna lo scrutinio dei dubbi di
legittimità costituzionale.
II. – Il ragionamento del Ter si articola nelle seguenti considerazioni:
a) il riparto di competenze tra disciplina
statale e disciplina regionale stabilito all’art. 117, terzo comma, Cost.,
non consentirebbe al legislatore regionale (e, segnatamente, a quello di una
regione a statuto ordinario) titolare della potestà legislativa concorrente,
di individuare ipotesi di “attuazione” del vincolo espropriativo
–idonee ad impedirne la decadenza per superamento del termine di efficacia
quinquennale– ulteriori rispetto a quelle dettate dalla disciplina statale;
b) l’assetto normativo statale ha mutuato le regole previgenti (già
contenute nella legge n. 1187 del 1968 in tema di durata dei vincoli) ed i
principi espressi da Corte cost. 20.05.1999, n. 179 (in Foro it., 1999, I,
1705, con nota di BENINI, all’esito di questioni sollevate da Cons. Stato,
ad. plen., 25.09.1996, n. 20, in Foro it., 1997, III, 4) in tema di
reiterazione del divieto di edificazione, così compendiati:
b1) il potere espropriativo è ammesso solo nei limiti in cui ciò sia
previsto dalla legge, a condizione che l’assoggettamento all’attività
ablatoria sia limitato nel tempo e che, a fronte di una pur possibile
indeterminatezza temporale del vincolo, il proprietario sia indennizzato per
la perdita, in via di fatto, della proprietà (Corte cost. 22.12.1989, n.
575, in Foro it., 1990, I, 1130);
b2) la decadenza del vincolo per superamento del quinquennio di efficacia è
preclusa dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero
del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”
(quale quella data dall’approvazione di un piano attuativo o di
provvedimento che dichiari la pubblica utilità dell’opera);
b3) la reiterazione del vincolo è ammessa all’esito di un procedimento che
preveda la garanzia partecipativa per i proprietari interessati e che sia
concluso con un provvedimento motivato che tenga conto, in particolar modo,
delle esigenze di soddisfacimento degli standard;
b4) la reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio deve dar luogo ad
un indennizzo ancorché, come chiarito da Cons. Stato, ad. plen., n. 7 del
2007 (in Foro it., 2007, III, 350, con nota di TRAVI), per la legittimità
della reiterazione non sia necessaria la puntuale quantificazione, da parte
dell’Amministrazione, dell’effettivo danno subìto da parte del proprietario
inciso;
c) una previsione quale quella contenuta nell’art. 9, comma 12, l.r. cit.,
secondo cui “I vincoli preordinati all'espropriazione per la
realizzazione, esclusivamente ad opera della Pubblica Amministrazione, di
attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi hanno la durata di
cinque anni, decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso. Detti
vincoli decadono qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono
preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua
realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo
aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne
preveda la realizzazione […]”, violerebbe: I) le regole di riparto di
competenze costituzionalmente stabilite (art. 117 Cost.); II) l’art. 1 del
Primo protocollo della C.E.D.U. poiché integrerebbe l’ipotesi di una
espropriazione di valore non indennizzata;
III) i principi fondamentali in materia espropriativa dettati dall’art. 42
Cost. e dal d.P.R. n. 327 del 2001;
d) in particolare: la scelta del legislatore regionale di considerare
l’inserimento dell’opera –nel termine di efficacia del vincolo– nel piano
triennale dei lavori pubblici previsto dall’art. 21 del d.lgs. n. 50 del
2016 inteso quale strumento di attuazione della volontà espropriativa, per
un verso, non sarebbe conforme al perimetro della competenza legislativa
concorrente delle regioni a statuto ordinario e, per altro verso, non
sarebbe sincronizzabile con l’assetto dei principi statali posti alla base
dell’attribuzione del potere espropriativo per pubblica utilità;
e) in tal senso deve essere evidenziato che la legge regionale di cui
trattasi avrebbe previsto un “atipico” procedimento espropriativo
fondato su un potere ablatorio esercitabile con uno strumento –il programma
triennale dei lavori pubblici che preveda la realizzazione anche dell’opera
oggetto del vincolo in scadenza– inidoneo ad integrare il presupposto del “serio
inizio dell’attività preordinata all’espropriazione” in considerazione
che:
e1) le modalità di adozione, declinate da apposita normativa di dettaglio,
non garantiscono –malgrado l’obbligo della sua preliminare pubblicazione ai
sensi del predetto art. 21 d.lgs. n. 50 del 2016– l’esercizio di una vera e
propria partecipazione del privato al procedimento, in presenza di un atto
che, così come è configurato dalla legislazione regionale, dà l’avvio al
procedimento espropriativo;
e2) si tratterebbe di uno strumento –previsto dalla disciplina nazionale dei
contratti pubblici– la cui funzione è connessa fondamentalmente alla
programmazione finanziaria, di bilancio ed all’assetto organizzativo
dell’attività dell’ente chiamato alla realizzazione dell’opera;
e3) non offre alcuna garanzia circa il fatto che l’opera sia effettivamente
realizzata, non comportando alcun impegno di spesa e non essendo previsto
alcun termine di efficacia entro cui i lavori debbano essere conclusi;
e4) le previsioni del programma possono essere reiterate nel tempo senza
bisogno né di motivazione, né di indennizzo;
e5) conseguentemente, esso svuoterebbe, di fatto, completamente di contenuto
il diritto di proprietà;
e6) la connotazione attribuita al piano quale strumento di attuazione del
vincolo preordinato all’esproprio (ciò che, in realtà, non è come tale
neppure previsto dalla disciplina statale sulla programmazione dei lavori
pubblici), violerebbe anche il fondamentale presupposto, introdotto in
recepimento del principio individuato da Corte cost. n. 179 del 1999, cit.,
e trasfuso nell’art. 39 del d. P.R. n. 327 del 2001, secondo cui “nel
caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo
sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità,
commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto”.
III. – Si segnala per completezza quanto segue:
f) sui rapporti tra disciplina C.E.D.U. e ordinamento interno in materia
espropriativa: Corte cost., 24.10.2007, n. 348 (in Corriere giur., 2008,
185, con note di LUCIANI, CONTI; Immobili & dir., 2008, 1, 54, con nota di
SCAGLIONE; Giur. it., 2008, 565, con note di CONFORTI, CALVANO; Arch.
locazioni, 2008, 25, con nota di SCRIPELLITI; Urbanistica e appalti, 2008,
163 (m), con nota di MIRATE; Riv. giur. urbanistica, 2007, 356, con nota di
CORVAJA; Dir. uomo, 2007, 3, 105, con note di DONATI, GULLOTTA, SACCUCCI;
Giornale dir. amm., 2008, 25 (m), con note di RANDAZZO, MAZZARELLI, PACINI;
Riv. dir. internaz., 2008, 197, con note di GAJA, CANNIZZARO, PADELLETTI,
SACCUCCI; Resp. civ. e prev., 2008, 52, con nota di MIRATE; Giust. civ.,
2008, I, 51 (m), con nota di DUNI, STELLA) e 24.10.2007, n. 349 (in Foro it.
2008, I, 39);
g) sulla indeterminatezza temporale del vincolo espropriativo, v. Corte
cost. n. 575 del 1989, cit., secondo cui:
g1) “è propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare
illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come
ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata
in relazione alle effettive esigenze urbanistiche. Tale possibilità,
tuttavia, darebbe luogo ad un sistema non conforme ai principi affermati
nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo venga protratto
a tempo indeterminato senza la previsione di indennizzo”;
g2) “i due requisiti della temporaneità e della indennizzabilità sono
difatti tra loro alternativi, per cui l'indeterminatezza temporale dei
vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli indefinitamente nel
tempo anche se con diversa destinazione o con altri mezzi, é
costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà
non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà
secondo i principi affermati nelle sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968”;
h) sulla possibilità per l’amministrazione espropriante di reiterare i
vincoli urbanistici scaduti:
h1) con riferimento all’obbligo di indennizzo: Corte cost. n. 179 del 1999,
cit. –e, in diretta linea di continuità con questa, 09.05.2003, n. 148 in
Foro it., 2003, I, 1955 con nota di BENINI e 18.12.2001, n. 411, id., 2002,
I, 2252, con nota di CIAMPA– secondo cui “E' costituzionalmente
illegittimo, per violazione dell'art. 42, comma terzo, Cost., il combinato
disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. 17.08.1942, n. 1150 (Legge
urbanistica) e 2, comma 1, l. 19.11.1968, n. 1187 (Modifica ed integrazioni
alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), nella parte in cui consente
all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati
all'espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione
di indennizzo, in quanto -posto che il problema di un indennizzo a seguito
di vincoli urbanistici (come alternativa non eludibile tra previsione di
indennizzo ovvero di un termine di durata massima dell'efficacia del
vincolo) si può porre sul piano costituzionale quando si tratta di vincoli
che a) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere
sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico
uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della
proprietà, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a
titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità
assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal
legislatore dello Stato o delle Regioni, b) superino la durata che dal
legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non
arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo
soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non
intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa
(preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani
particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di
attuazione fissati dalla legge, c) superino sotto un profilo quantitativo la
normale tollerabilità secondo una concezione della proprietà, che resta
regolata dalla legge per i modi di godimento ed i limiti preordinati alla
funzione sociale (art. 42, comma secondo, Cost.); che la reiterazione in via
amministrativa dei vincoli urbanistici decaduti (preordinati
all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) ovvero la
proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi
prevista in talune regioni a statuto speciale non sono fenomeni di per sé
inammissibili dal punto di vista costituzionale; che essi assumono, invece,
carattere certamente patologico, in assenza di previsione alternativa di
indennizzo e fermo che l'obbligo di indennizzo opera una volta superato il
periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia),
quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga "sine die" o
all'infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che
si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale
sia indeterminato, e cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche
non contenuto in termini di ragionevolezza; e che restano al di fuori
dell'ambito della indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di
generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni (ivi compresi i
vincoli ambientali-paesistici), i vincoli derivanti da limiti non ablatori
posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque
estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa
privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto
il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti
la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile- una
volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da
ogni indennizzo), il vincolo urbanistico, avente le anzidette
caratteristiche, se permane a seguito di reiterazione, non può essere
dissociato, in via alternativa all'espropriazione (o al serio inizio
dell’attività preordinata all'espropriazione stessa mediante approvazione
dei piani attuativi), dalla previsione di un indennizzo”;
h2) sulla alternatività tra temporaneità e indennizzabilità del vincolo
preordinato all’esproprio: Corte cost. 29.04.1982, n. 82 (in Regioni, 1982,
681, con nota di BARDUSCO e in Riv. giur. edilizia, 1982, I, 421, con nota
di ALPA) secondo cui, in linea con la sentenza n., 55 del 1968, è stata
posta un’alternativa nel senso che la Corte “ha ritenuto come necessaria
la previsione di un indennizzo ovvero quella di un termine di durata
dell'efficacia del vincolo. Data questa alternativa, pacificamente
riconosciuta in dottrina e giurisprudenza, il legislatore correttamente si è
limitato a fissare, per l'efficacia del vincolo, un termine massimo di
durata”;
h3) con riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento con cui è
reiterato il vincolo: Cons. Stato, Ad. plen. 24.05.2007, n. 7 (in Foro it.,
2007, III, 350 con nota di TRAVI; Guida al dir., 2007, 24, 73 con nota di
FORLENZA; Riv. amm., 2007, 5-6, 461 con nota di CACCIAVILLANI; Corriere
merito, 2007, 1092, con nota di VELTRI; Urbanistica e appalti, 2007, 1113,
con nota di CARBONELLI; Giornale dir. amm., 2007, 1174, con nota di
MAZZARELLI; Resp. e risarcimento, 2007, 7, 95, con nota di PAPPALARDO;
Quaderni centro documentaz., 2007, 3, 242, con nota di COLLACCHI ) secondo
cui:
I) “l'esercizio del potere di reiterazione di un vincolo preordinato
all'esproprio decaduto per decorrenza del termine quinquennale può essere
esercitato unicamente sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata
motivazione che escluda un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei
relativi atti”;
II) “per valutare l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti di
reiterazione di vincoli preordinati all'esproprio occorre distinguere se
questi riguardano o meno una pluralità di aree, se riguardano solo una parte
già incisa da vincoli decaduti, se, infine, la reiterazione sia disposta (o
meno) per la prima volta sull'area”;
III) “si ha adeguato supporto motivazionale dell'atto di reiterazione del
vincolo preordinato all'esproprio qualora l'amministrazione,
nell'evidenziare l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, abbia a
seguito di specifica istruttoria, tenuto conto delle seguenti circostanze:
1) in caso di reiterazione disposta con riguardo o meno una
pluralità di aree, nell'ambito dell'adozione di una variante generale o
comunque riguardante una consistente parte del territorio comunale, si
devono distinguere le ipotesi in cui la reiterazione del vincolo riguardi
un'area ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per
soddisfare i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico)
e quelle in cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una
consistente parte del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno
strumento urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di
vincoli preordinati all'esproprio (necessari per l'adeguamento degli
standard, a seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Tale
distinzione ha ragion d'essere perché solo nell'ipotesi in cui vengono
reiterati «in blocco» i vincoli decaduti, già riguardanti una pluralità di
aree, la sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta
dalla perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard
(indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l'assenza di un
intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i
destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
2) in caso di reiterazione disposta con riguardo solo ad una parte
delle aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l'altra parte non è
disposta la reiterazione in quanto il vincolo venga impresso su nuovi
terreni. Tale scelta, pur costituendo senz'altro un'anomalia della funzione
pubblica, deve fondarsi, pena il profilarsi di un intento vessatorio nei
confronti dei proprietari delle aree riassoggettate a vincolo, su una
motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico che
giustifichino il vantaggio di chi non è più coinvolto nelle determinazioni
di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo
stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all'esproprio;
3) in caso di reiterazione disposta per la prima volta, può
ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni; di converso,
quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, l'autorità urbanistica
deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti,
evidenziano le ragioni, con riferimento al rispetto degli standard, alle
esigenze della spesa, agli specifici accadimenti riguardanti le precedenti
fasi procedimentali, che diano conto dell'attuale sussistenza dell'interesse
pubblico”;
IV) “secondo il quadro normativo vigente antecedentemente al
testo unico sugli espropri approvato con il d.P.R. n. 327 del 2001, valeva
il principio che, in caso di atti di reiterazione dei vincoli preordinati
all'esproprio, imponeva l'obbligo di un'adeguata motivazione (poi
espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, d.P.R. cit.), nella quale
l'amministrazione doveva indicare la ragione che l'avevano indotta a
scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la precedente scelta si era
appuntata, evidenziando, a tal fine, l'attualità dell'interesse pubblico da
soddisfare, ciò in quanto tale specie di determinazione è destinata ad
incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio
è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica
utilità e successivamente di esproprio”;
V) la deliberazione riguardante la reiterazione del vincolo
espropriativo non necessita di copertura finanziaria volta a garantire il
pagamento del corrispondente indennizzo (“la delibera impugnata in primo
grado non doveva essere preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’”);
h4) sulla copertura finanziaria dell’indennizzo: cfr. Tar per la Sicilia,
sez. III, 10.07.2012, n. 1464, secondo cui “La relazione
economico-finanziaria richiesta dall'art. 30 della legge 17.08.1942 n. 1150
non costituisce elemento essenziale del piano regolatore generale, potendo
essa sopravvenire in un momento successivo, e cioè allorché il Comune deve
deliberare circa l'espropriazione delle aree private ai sensi dell'art. 18
della legge citata; pertanto, è a fortiori pienamente valido il piano
regolatore generale che difetti di adeguate previsioni
economico-finanziarie. La previsione succitata deve essere ormai letta alla
luce dell’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali introdotto
dapprima con il d.lgs. n. 77 del 1995 e, successivamente, con il d.lgs. n.
267 del 2000 (Testo unico degli enti locali), le cui disposizioni
costituiscono oggetto del rinvio cd. «dinamico» disposto dal legislatore
regionale con l’art. 1 della l.r. n. 48 del 1991. Ne deriva che ogni
preesistente previsione normativa di carattere finanziario e contabile deve
essere ricondotta al sistema ordinamentale che regola la spesa dell’ente
territoriale la quale, come è noto non prescinde da specifiche forma di
programmazione all’uopo previste (si pensi, fra tutte, al programma
triennale dei lavori pubblici ed all’elenco annuale dei lavori, i quali
contemplano strumenti progettuali e piani economici che involgono anche
spese per indennizzi espropriativi)";
h5) sull’inapplicabilità del criterio della edificabilità di fatto alle “aree
bianche” e relativo regime indennitario: Cass. civ., sez. I, 29.10.2015,
n. 22992 (in Foro it., 2015, 5, I, 1690) secondo cui “Ai fini della
determinazione dell'indennità, il regime urbanistico, nel senso dell'edificabilità
o inedificabilità, di un'area al momento del decreto di esproprio, è
definibile, nell'ipotesi in cui l'originario vincolo di inedificabilità sia
scaduto per decorso del termine quinquennale, tenendo conto della
reiterazione del vincolo, che può dare diritto ad una speciale indennità,
tuttavia distinta da quella di esproprio, restando inapplicabile il criterio
dell'edificabilità di fatto, riservato all'ipotesi in cui al momento del
concludersi della vicenda ablatoria persista, riguardo alla stessa area, una
situazione di carenza di pianificazione”;
i) sulla natura e finalità del programma triennale dei lavori pubblici: C.
conti, sez. contr. Reg. Campania, 06.06.2018, n. 77/18, secondo cui l’art.
21 del d.lgs. n. 50 del 2016 “pone a carico delle amministrazioni
aggiudicatrici l’obbligo di adottare il programma biennale degli acquisti
dei beni e dei servizi e il programma triennale dei lavori pubblici, nonché
i relativi aggiornamenti annuali. Tali programmi «sono approvati nel
rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il bilancio e, per
gli enti locali, secondo le norme che disciplinano la programmazione
economico-finanziaria degli enti»”; sulla correlazione tra programma
triennale e strumenti finanziari, v. Allegato n. 4/1 al d.lgs. n. 118 del
2011, “principio contabile applicato concernente la programmazione di
bilancio”, punti 5.4., 8.2., 9.8);
j) sul rapporto tra programma triennale dei lavori pubblici e vincoli
urbanistici: Tar per la Sicilia, sez. I, 30.09.2008, n. 1234, secondo cui “ai
sensi dell’art. 10 T.U. cit., qualora la realizzazione di un'opera pubblica
o di pubblica utilità non sia prevista dal piano urbanistico generale, il
vincolo preordinato all'esproprio può essere disposto, ove espressamente se
ne dia atto, su richiesta dell'interessato ai sensi dell' articolo 14, comma
4, della legge 07.08.1990, n. 241, ovvero su iniziativa dell'amministrazione
competente all'approvazione del progetto, mediante una conferenza di
servizi, un accordo di programma, una intesa ovvero un altro atto, anche di
natura territoriale, che in base alla legislazione vigente comporti la
variante al piano urbanistico. Ritiene il Collegio che l’approvazione del
piano triennale delle opere pubbliche di cui alla delibera del C.C. cit.
integri la previsione dell’ultima parte della normativa richiamata,
comportando la concretizzazione ad opera della P.A. della previsione
meramente conformativa prevista dal P.R.G. cui il privato, pur avendone il
potere, non ha dato seguito”;
k) sulla distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi, preso
atto che nei casi “limite” la giurisprudenza non è univoca, si veda,
di recente:
k1) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 04.04.2018, n. 205, secondo cui il
vincolo posto dal piano regolatore per la realizzazione di attrezzature
pubbliche o ad uso pubblico deve essere qualificato come espropriativo e non
conformativo: “La decisione di primo grado, nella parte in cui ritiene
che la destinazione di tale terreno alla realizzazione di attrezzature
pubbliche e di uso pubblico possa «essere realizzata anche da un privato»,
pecca, in particolare, per astrattezza, dovendosi realizzare detta
destinazione in regime di libero mercato nel contesto economico sociale
tipico dei piccoli comuni della Sicilia”;
k2) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 24.09.2015 n. 610, secondo cui “Un
vincolo non può ritenersi conformativo ogni qualvolta le iniziative edilizie
consentite dallo strumento urbanistico non siano suscettibili di operare in
regime di libero mercato”, sicché va “condiviso- nel caso di specie- il
giudizio formulato dal primo Giudice circa la natura sostanzialmente
‘espropriativa’ dei vincoli urbanistici apposti sull’area di proprietà degli
odierni appellati. A nulla rilevando, nel senso ‘conformativo’ ex adverso
invocato dalla difesa dell’Amministrazione Comunale, il fatto che la
disposizione delle norme di attuazione consentiva la possibilità che la
scuola dell’obbligo, alla quale era destinata l’edificazione sull’area,
potesse essere realizzata anche da privati, considerato che la tipologia di
uso e/o di iniziativa economica che così viene individuata riguarda un’opera
per l’esercizio di un’ attività: quella relativa all’insegnamento
obbligatorio, che anche a voler comprendere forme di esercizio da parte di ‘privati’,
non manifesta -né allo stato, né entro un arco di tempo ragionevolmente
determinato- una elasticità e dinamicità della domanda tali da consentire al
privato, che non voglia esso stesso intraprendere l’iniziativa, di poter
disporre sul ‘mercato’ dell’area così destinata”;
k3) Cons. Stato, sez. IV, 23.04.2013, n. 2254, secondo cui “La
destinazione a verde pubblico attrezzato ha di regola natura conformativa
dovendo però verificarsi, caso per caso, alla stregua della concreta
disciplina urbanistica posta dallo strumento generale, se questa comporti la
preclusione pressoché totale di ogni attività edilizia, con conseguente
svuotamento sostanziale del diritto di proprietà: solo in tale ultima
ipotesi può affermarsi il suo carattere espropriativo”;
k4) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 19.12.2008, n. 1113, secondo cui
sono fuori dello schema ablatorio i vincoli che importano una destinazione
di contenuto specifico realizzabile ad iniziativa privata o promiscua (pubblico-privato)
che non comportino, quindi, necessariamente espropriazioni o interventi ad
esclusiva iniziativa pubblica.
“Nel sistema delineato dalla Costituzione e dalla C.E.D.U. la norma
conformatrice dello jus aedificandi non costituisce annullamento del diritto
di proprietà e dunque non è riguardata con sfavore (nei limiti della
ragionevolezza e del rispetto della natura stessa dei luoghi), mentre la
norma ablatoria è considerata eccezione di stretto diritto al principio
fondamentale della inviolabilità della proprietà. Tale eccezione è legata
alla sussistenza di motivi di interesse pubblico tali da necessitare una
deviazione dalla funzione propria della proprietà e quindi una
finalizzazione di essa a scopi non economica-mente conformi con tale
diritto.
Sotto questo profilo la distinzione tra norme conformative e norme ablatorie
non può più seguire i criteri tradizionali elaborati dalla giurisprudenza
amministrativa sino ad oggi. Si deve, infatti, avere riguardo al tasso di
deviazione dalla finalità ordinaria della area in questione rispetto alla
sua vocazione naturale, che è sicuramente quella di dare luogo ad un opus
economicamente e commercialmente idoneo a procurare il massimo profitto al
proprietario. La norma conformativa, che impone standard di distanze,
cubatura, altezza, tipologia etc., si inserisce in un mercato immobiliare
omogeneo, stabilendo restrizioni uguali per gli appartenenti alla classe
(proprietari della zona omogenea) e determinando, quindi, i parametri di
mercato (valore dell’immobile realizzabile e quindi dell’area edificabile)
in relazione alle restrizioni omogenee.
Si tratta, nel mercato che si crea, di vincoli economici esterni,
accettabili e compatibili con l’economia di mercato e con i principi di
uguaglianza, nella misura in cui operino, sostanzialmente, come limiti
esterni allo jus aedificandi. Non costituisce, giuridicamente, una
restrizione del diritto di proprietà la diminuzione di valore di un’area
sita, ad esempio, in zona umida e malsana, rispetto alla analoga area sita
in collina, o di un’area allocata distante dal mare rispetto ad una posta
nelle vicinanze della riva, atteso, appunto, che tali limitazioni sono
insite ed ontologicamente connaturate alle aree stesse.
Allo stesso modo, non costituisce restrizione al diritto di proprietà ed
allo jus aedificandi l’obbligo conformativo che opera quale limite generale,
quasi natura-le, alle facoltà della classe di aree insistenti in zona
omogenea. L’interesse pubblico, quindi, opera ab extrinseco non incidendo
sul diritto di proprietà, ma sulla sua valorizzazione di mercato, a fronte
di un potere conformativo, eccezionale ma accettabile, riconosciuto per il
bene della collettività.
Viceversa, ove ci si trovi innanzi ad una potestà conformativa che imponga
realizzazioni difformi dalla naturale destinazione dell’area, ne consegue,
di fatto, l’ablazione di una precisa facoltà inerente al diritto di
proprietà. In tal caso non giova la considerazione che l’opus necessario (ad
esempio un parcheggio) possa anche essere realizzato dal medesimo privato,
poiché è fin troppo evidente che la diminuzione di valore dell’opera
realizzabile non risponde ad una conformazione omogenea del mercato della
zona, ma ad un intervento autoritario del pubblico che si propone quale
terzo indefettibile del successivo rapporto.
In altri termini, se l’opera realizzabile, sia pure con le limitazioni
dovute alla conformazione, può comunque essere posta sul mercato scontando
il meccanismo usuale della do-manda ed offerta per la determinazione del
prezzo, la destinazione indefettibile ad opera o servizio pubblico
individua, necessariamente e senza possibilità di eccezione, il soggetto
(pubblico) cui l’opera stessa non potrà che essere destinata. In tal guisa
che l’opera non è finalizzata ad essere posta sul mercato, ma
necessariamente ad esser posta a disposizione di un solo soggetto. Ciò anche
nella ipotesi in cui l’opera sia realizzata dallo stesso privato, magari in
convenzione con il soggetto pubblico, poiché ciò che rileva non è chi
materialmente la realizzi (il privato o il pubblico dopo l’espropriazione),
ma chi concretamente può essere il solo destinatario della sua
utilizzazione.
Non vi è mercato, come è noto, quando uno dei contraenti si pone in
posizione di monopolio (nel caso monopolista per l’acquisto). Corollario di
questa impostazione è che l’area in questione, se effettivamente serve allo
scopo di realizzare gli standard urbanistici, non potrà, alla fine, che
essere espropriata, proprio in virtù del fatto che su di essa non può che
essere realizzata altro che l’opera in questione asservita ad un interesse
pubblico e riferita all’ente pubblico”;
k5) seguono un approccio parzialmente difforme: Cons. Stato, sez. IV,
07.01.2019, n. 112 secondo cui “La destinazione ad attrezzature
ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal piano regolatore ad aree
di proprietà privata, non comporta l'imposizione di un vincolo espropriativo,
ma solo conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo
strumento urbanistico per definire i caratteri generali dell'edificabilità
in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale, ponendo
limitazioni in funzione dell'interesse pubblico generale che non danno
diritto ad indennizzo, trattandosi di limiti non ablatori, ma derivanti da
destinazioni realizzabili anche dall'iniziativa privata, in regime di
economia di mercato”;
l) in dottrina, si veda:
l1) sulla disciplina vincolistica: W. PELINO, A. BARTONE, I vincoli
sostanzialmente espropriativi: la prolungata compressione dello jus
aedificandi tra indennizzi, perequazione e compensazione, in Riv. amm.,
2000, 8, 2, 811-824; V. CARBONE, I. NASTI, Vincoli urbanistici speciali,
conformazione della proprietà ed espropriazioni anomale: un segnale dalle
Sezioni Unite, in Corriere giur., 2001, 869-874; R. CONTI, Occupazione
acquisitiva, usurpativa e reiterazione di vincoli espropriativi, in
Urbanistica e appalti, 2002, 12, 1437-1444; G. LAVITOLA, Urbanistica e
tutela della proprietà tra Corte Costituzionale, Consiglio di Stato e testo
unico sull'espropriazione, in Riv. giur. edilizia, 2002, 1, 3, 59-78; R.
IANNOTTA, (In tema di) vincoli espropriativi scaduti in mancanza di
previsione di durata e di indennizzo, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 5,
1506; S. ANTONIAZZI, Le conseguenze della reiterazione di vincoli
espropriativi e di inedificabilità, secondo la più recente giurisprudenza
amministrativa: gli obblighi di motivazione e di indennizzo nonché di nuova
pianificazione dell'area priva di destinazione urbanistica, in Riv. giur.
edilizia, 2004, 6, 1, 1975-1984; P. LORO, Il risarcimento da reiterazione
dei vincoli secondo la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in Riv. amm.,
2004, 7, 780-786; M. GHILONI, Nuovi strumenti di gestione del territorio:
riflessi sui vincoli espropriativi e sulla realizzazione dei servizi
pubblici, in Arch. giur. oo.pp., 2005, 68, 6, 679-689; M. M. CARBONELLI, La
reiterazione dei vincoli di pianificazione urbanistica: il paso doble di
Plenaria e Corte Costituzionale, in Urbanistica e appalti, 2007, 9,
1118-1125; F. G. SCOCA, Amministrazione pubblica e diritto amministrativo
nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Dir. amm., 2012, 1-2, 21
ss; G. PAGLIARI, M. SOLINI, G. FARRI, Regime della proprietà privata tra
vincoli e pianificazione dall'unità d'Italia ad oggi, in Riv. giur.
edilizia, 2015, 6, 282;
l2) sui termini per l‘adozione della dichiarazione di pubblica utilità: M.
BORGO, M. MORELLI, L’acquisizione e l’utilizzo di immobili da parte della
p.a., Milano, 2012, 55 ss.;
l3) sulle questioni di giurisdizione in materia espropriativa, ancorché
inerente alla disciplina anteriore al Codice del processo amministrativo: R.
VILLATA, Problemi attuali della giurisdizione amministrativa, Milano, 2009,
23 ss.;
l4) sul procedimento ablatorio nelle diverse disposizioni regionali: N.
CENTOFANTI, Diritto di costruire, pianificazione urbanistica,
espropriazione, Milano, 2010, I, 1635 ss.;
l5) sulla reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio: G. CERISANO –
R. DAMONTE, in L’espropriazione per pubblica utilità nel nuovo testo unico
(a cura di F. CARINGELLA – G. DE MARZO, MILANO), 2005, 95 ss.; L. MARUOTTI,
Vincoli derivanti da piani urbanistici, in CARINGELLA – DE MARZO – DE
NICTOLIS – MARUOTTI, L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2006,
155 ss.;
l6) sulla ratio, ruolo e finalità del programma triennale dei lavori
pubblici: L. PETRANGELI PAPINI, La programmazione e la progettazione dei
lavori pubblici, in Appalti urbanistica edilizia, 2000, 12, 643-662; G.
FORMICHELLA, Lavori pubblici. La programmazione dei lavori pubblici negli
Enti locali. I principi, le procedure, gli aspetti positivi e gli spunti
problematici, in Nuova rass., 2001, 17-18, 1857-1870; A. MATARAZZO, Lavori
pubblici. Brevi annotazioni operative in tema di programmazione dei lavori
pubblici, in Nuova rass., 2001, 17-18, 1871-1874; E. BARUSSO, Le competenze
degli organi dell’Ente Locale, Santarcangelo di Romagna, 2001, 127 ss.; G.
PESCE, Effetti del programma triennale delle opere pubbliche e valutazione
di fattibilità dell'intervento, in Urbanistica e appalti, 2003, 4, 442-447;
A. PAGANO, Programma triennale dei lavori pubblici, Commento a d.m.
Infrastrutture e trasporti 09.06.2005, in Urbanistica e appalti, 2005, 8,
914; D.GHIANDONI, E. MASINI, Le principali novità del programma oo.pp.
2019/2021, in Azienditalia, 2018, 10, 1247; P. LEONCINO, La
contabilizzazione delle opere pubbliche, in Azienditalia, 2019, 6, 885;
m) sui poteri regionali in materia espropriativa:
m1) in dottrina v.: G.
BERGONZINI, La potestà legislativa della Regione in tema di esproprio
finalizzato alla realizzazione di opere pubbliche di interesse regionale, in
Dir. regione, 2002, 2-3, 493-505; M. MUTI, Il testo unico
sull'espropriazione per pubblica utilità: prime riflessioni sul riparto di
competenze legislative alla luce della riforma del titolo V della
Costituzione, in Riv. amm., 2002, 3, 1, 169-204; N. MACCABIANI, La Corte “compone”
e “riparte” la competenza relativa al “governo del territorio”,
in Riv. giur. edilizia, 2005, 5, 209; G. CERISANO, in L’espropriazione, cit.,
14 ss.; R. DE NICTOLIS, in CARINGELLA – DE MARZO – DE NICTOLIS – MARUOTTI,
L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2006, 22 ss.; V. LOPILATO,
Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2019, 1091 ss., ove è evidenziato
che “le regole di riparto delle funzioni legislative tra Stato e Regione
sono modulate in ragione della particolare nozione […] di espropriazione
dettata dall’art. 42 Cost. […]. Quest’ultima, infatti, non costituisce una
materia inclusa negli elenchi dell’art. 117 Cost. Se, infatti, la materia si
identifica alla luce dell’oggetto e delle finalità perseguite dal
legislatore, risulta evidente come l’espropriazione non abbia un oggetto
definito, ma esso è individuato in relazione alla specifica finalità
perseguita. Si tratta, pertanto, di una «materia strumentale» che rientra
nelle altre materie di cui all’art. 117 Cost. a seconda dell’ambito in cui
il potere espropriativo è esercitato”.
Tale assetto è stato confermato dall’art. 5 del d.P.R. n. 327 del 2001 il
quale prevede che “Le Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà
legislativa concorrente, in ordine alle espropriazioni strumentali alle
materie di propria competenza, nel rispetto dei principi fondamentali della
legislazione statale nonché dei principi generali dell'ordinamento giuridico
desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico”;
m2) in relazione ai poteri delle Regioni a statuto speciale in materia
espropriativa, v. M.T. SEMPREVIVA, Criteri indennitari e Regioni a statuto
speciale, in Urbanistica e appalti, 1999, 6, 610-612;
m3) secondo la giurisprudenza, le regioni a statuto speciale e le province
autonome di Trento e di Bolzano, esercitano “la propria potestà
legislativa in materia di espropriazione per pubblica utilità nel rispetto
dei rispettivi statuti e delle relative norme di attuazione, anche con
riferimento alle disposizioni del titolo V, parte seconda, della
Costituzione per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie
rispetto a quelle già attribuite” (Corte cost., 02.07.2014, n. 187, in
Foro it., 2015, I, 1175, con nota di MENTO), fermo restando l’obbligo delle
stesse di conformarsi ai principi che traggono supporto dal testo
fondamentale e caratterizzano l’ordinamento giuridico dello Stato (in tal
senso, Corte cost., 30.07.1984, n. 231, in Foro it., 1985, I, 46, con nota
di PIETROSANTI e in Regioni, 1984, 1413, con nota di SORACE)
(TAR Lombardia–Brescia, Sez. II,
ordinanza 14.08.2019 n. 740 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Revoca
del bando di gara.
In ragione della natura
giuridica di atto provvisorio ad effetti
instabili, tipica dell'aggiudicazione
provvisoria, e della non tutelabilità
processuale di quest'ultima ai sensi degli
artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge
n. 241 del 1990, rientra nel potere
discrezionale dell'amministrazione disporre
la revoca del bando di gara e degli atti
successivi, laddove sussistano concreti
motivi di interesse pubblico tali da rendere
inopportuna, o anche solo da sconsigliare,
la prosecuzione della gara;
Nelle gare pubbliche la decisione della
Pubblica amministrazione di procedere alla
revoca dell'aggiudicazione provvisoria non è
da classificare come attività di secondo
grado (diversamente dal ritiro
dell'aggiudicazione definitiva), atteso che,
nei confronti di tale determinazione,
l'aggiudicatario provvisorio vanta solo
un'aspettativa non qualificata o di mero
fatto alla conclusione del procedimento:
pertanto, l'assenza di una posizione di
affidamento in capo all'aggiudicatario
provvisorio, meritevole di tutela
qualificata, attenua l'onere motivazionale
facente carico alla Pubblica
amministrazione, in occasione del ritiro
dell'aggiudicazione provvisoria, anche con
riferimento alla indicazione dell'interesse
pubblico giustificativo dell'atto di ritiro;
è poi evidente che, rimanendo immutata la
consistenza della posizione soggettiva con
la quale interferisce l’esercizio del potere
di ritiro della P.A., alle medesime
conclusioni deve giungersi nel caso in cui
il potere di revoca abbia ad oggetto
l’intera procedura di gara
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 06.08.2019 n. 5597 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
4. l’appello è fondato e, pertanto, va
accolto.
4.1. Vale, anzitutto, qui ribadire che la
res controversa si innesta su un
precedente giudizio, definito con sentenza
n. 1046 del 10.04.2012, con la quale il TAR
per la Lombardia, sede di Milano, su ricorso
dell’odierna appellata, annullava:
- la deliberazione di aggiudicazione, atteso che “l’offerta
tecnica del raggruppamento aggiudicatario
(…) si poneva in difformità rispetto al
progetto definitivo, in violazione della
legge di gara e dell’articolo 93, comma 5,
del codice dei contratti pubblici”;
- il provvedimento di revoca degli atti di gara, assunto in
dichiarata ottemperanza della ordinanza
cautelare del medesimo giudice del
15.07.2011, atteso che la proroga
dell’inizio dei lavori, necessaria per
ottenere il finanziamento regionale, “era
già stata concessa sin dal 04.11.2011;
sebbene tale circostanza sia stata
comunicata soltanto il 10.11.2011, era
dovere istruttorio dell’amministrazione
acquisire compiutamente informazioni circa
la sussistenza dei presupposti di fatto del
provvedimento di ritiro”.
4.2. Tanto premesso, il Collegio non
condivide la premessa da cui prende abbrivio
la traiettoria argomentativa del giudice di
prime cure secondo cui il richiamato
decisum ha, altresì, “….inequivocabilmente
sancito il diritto della attuale ricorrente
(seconda in graduatoria) all’aggiudicazione
dell’appalto” e allo stesso tempo “…consumato,
dunque, la potestà discrezionale della
stazione appaltante di procedere al ritiro
degli atti di gara, quanto meno fino al
momento in cui non fosse stata ripristinata
la situazione controversa nei termini
dettati della sentenza”, al punto da
concretare “l’obbligo di aggiudicare
l’appalto alla società ricorrente”.
Vale, di contro, osservare che,
contrariamente a quanto ritenuto dal giudice
di prime cure, la sentenza n. 1046 del
10.04.2012 non aveva affatto veicolato in
favore della ricorrente né in sede
risarcitoria, e neppure come effetto
conformativo, il bene della vita agognato (id
est, aggiudicazione dell’appalto)
limitandosi a dichiarare l’illegittimità
dell’aggiudicazione pronunciata in favore
della controinteressata (oltre che ad
annullare gli atti di ritiro della gara)
senza riconoscere, al contempo, in capo alla
Co., un intangibile diritto
all’aggiudicazione.
4.3. A tal riguardo, è appena il caso di
soggiungere che il riferimento alla “massima
utilità sostanziale” cui pure accenna la
pronuncia, esaurisce i suoi effetti,
nell’economia della suddetta sentenza, nel
graduare l’interesse della parte ricorrente
rispetto al ventaglio delle censure
formulate, arrestando la decisione dinanzi
alla positiva delibazione di quella, in
potenza, idonea ad assicurare il massimo
delle utilità conseguibili (nella specie
l’esclusione dell’aggiudicataria).
4.4. Tanto implicava, dunque, una
regressione del procedimento ad una fase in
cui la Co., già classificatasi seconda, per
effetto della esclusione della precedente
aggiudicataria, poteva ritenersi (in via di
fatto) aggiudicataria provvisoria,
rimanendo, comunque, immutato, salvo che i
profili coperti dal giudicato, lo ius
poenitendi istituzionalmente spettante
all’Autorità procedente (Consiglio di Stato,
Sez. V n. 1559 del 20.04.2016), chiamata, in
via ordinaria, in mancanza di
sopravvenienze, a concludere il
procedimento.
4.5. Vale, poi, soggiungere che, in ragione
di quanto appena evidenziato, gli atti che
componevano il suddetto procedimento, come
emendato dal TAR, risultavano
contraddistinti da effetti provvisori ed
instabili, poiché soggetti all’approvazione
della stazione appaltante ai sensi dell’art.
12, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 (allora
vigente), solo dopo la quale poteva essere
disposta l’aggiudicazione definitiva (tale
approvazione può essere peraltro implicita
in quest’ultimo provvedimento).
La procedura di gara si conclude, infatti,
solo con l’aggiudicazione definitiva e, pur
restando ancora salva la facoltà per la
stazione appaltante di manifestare il
proprio ripensamento -in questo caso ai
sensi dell’art. 11, comma 9, d.lgs. n. 163
del 2006 secondo le forme proprie dell’autotutela
decisoria- per contro, prima di questo
momento l’amministrazione resta libera di
intervenire sugli atti di gara con
manifestazioni di volontà di segno opposto a
quello precedentemente manifestato senza
dovere sottostare a dette forme (cfr. ex
multis CdS, Sez. V, n. 107 del
04.01.2019).
In altri termini –in ragione della natura
giuridica di atto provvisorio ad effetti
instabili, tipica dell'aggiudicazione
provvisoria, e della non tutelabilità
processuale di quest'ultima ai sensi degli
artt. 21-quinquies e 21-nonies della l. n.
241 del 1990 (ex multis, Consiglio di
Stato sez. V, 09/11/2018, n. 6323; Cons.
Stato, V, 20.08.2013, n. 4183)- rientra nel
potere discrezionale dell'amministrazione
disporre la revoca del bando di gara e degli
atti successivi, laddove sussistano concreti
motivi di interesse pubblico tali da rendere
inopportuna, o anche solo da sconsigliare,
la prosecuzione della gara (cfr. Consiglio
di Stato sez. V, 09/11/2018, n. 6323;
Consiglio di Stato sez. V, 04/12/2017, n.
5689; Consiglio di Stato sez. III,
07/07/2017, n. 3359; Cons. Stato, VI,
06.05.2013, n. 2418; in termini, Cons.
Stato, IV, 12.01.2016, n. 67).
In siffatte evenienze questa Sezione ha tra
l’altro evidenziato che, nelle gare
pubbliche, la decisione della Pubblica
amministrazione di procedere alla revoca
dell'aggiudicazione provvisoria non è da
classificare come attività di secondo grado
(diversamente dal ritiro dell'aggiudicazione
definitiva), atteso che, nei confronti di
tale determinazione, l'aggiudicatario
provvisorio vanta solo un'aspettativa non
qualificata o di mero fatto alla conclusione
del procedimento: pertanto, l'assenza di una
posizione di affidamento in capo
all'aggiudicatario provvisorio, meritevole
di tutela qualificata, attenua l'onere
motivazionale facente carico alla Pubblica
amministrazione, in occasione del ritiro
dell'aggiudicazione provvisoria, anche con
riferimento alla indicazione dell'interesse
pubblico giustificativo dell'atto di ritiro
(cfr. Consiglio di Stato , sez. III ,
06/03/2018 , n. 1441).
E’ poi evidente che, rimanendo immutata la
consistenza della posizione soggettiva con
la quale interferisce l’esercizio del potere
di ritiro della P.A., alle medesime
conclusioni deve giungersi nel caso in cui
il potere di revoca abbia ad oggetto
l’intera procedura di gara. |
APPALTI: Come
è noto, motivazioni di carattere
finanziario, ed in particolare sopravvenute
difficoltà economiche, possono indubbiamente
costituire valide ragioni di revoca degli
atti di una gara e ciò viepiù a
dirsi rispetto a manifestazioni di ius
poenitendi che non impattano su una
situazione di affidamento qualificato, quale
quello espresso dall’aggiudicazione
definitiva, qui non in rilievo.
6. E, poi, di tutta evidenza come non possa
fare argine al legittimo esercizio del
potere di revoca, che involge esclusivamente
l’apprezzamento dei profili di permanenza
delle condizioni di fatto e di diritto che
reggevano l’atto pubblico e le esigenze di
interesse pubblico che lo stesso era
chiamato a soddisfare, l’antidoverosità del
contegno serbato dalla stazione appaltante
nel corso della vicenda amministrativa,
rilevante semmai a fini risarcitori sotto il
diverso paradigma della responsabilità cd.
precontrattuale. E’ infatti evidente che sia
ben possibile far derivare conseguenze
risarcitorie in danno dell’amministrazione
dalla (legittima) adozione di un
provvedimento di revoca, così come è
possibile che la revoca di un atto
amministrativo possa risultare legittima e
giustificata anche se sia stata la stessa
amministrazione a dare luogo ai presupposti
legali della revoca.
---------------
La concorde giurisprudenza amministrativa nega, in mancanza di
un’aggiudicazione definitiva, la configurabilità dell’indennizzo ex art.
21-quinquies, l. n. 241 del 1990.
La natura giuridica di atto provvisorio ad
effetti instabili, tipica
dell'aggiudicazione provvisoria, spiega la
non tutelabilità processuale di quest'ultima
ai sensi degli artt. 21-quinquies e
21-nonies della l. n. 241 del 1990: la sua revoca (ovvero, la sua mancata
conferma) non è infatti qualificabile alla
stregua di un esercizio del potere di autotutela,
tale cioè da richiedere un raffronto tra
l'interesse pubblico e quello privato
sacrificato, non essendo prospettabile alcun
affidamento del destinatario, dal momento
che l'aggiudicazione provvisoria non è
l'atto conclusivo del procedimento.
---------------
5.2. Orbene,
ritiene il Collegio che la determinazione
assunta dall’Azienda appellante si dispieghi
nell’ottica di una rinnovata valutazione
dell’interesse pubblico che, anche sulla
scorta di elementi sopravvenuti, ha fatto
emergere un mutato quadro esigenziale in cui
assumono prevalenza ragioni di contenimento
della spesa.
5.3. Tale correzione dell’agere
pubblico, anche in ragione degli elementi in
cui impinge, non può dirsi né manifestamente
illogico né irragionevole siccome,
viceversa, giustificato dal necessario e
dinamico adeguamento dell'azione
amministrativa alla salvaguardia del
pubblico interesse.
5.4. Come è noto, motivazioni di carattere
finanziario, ed in particolare sopravvenute
difficoltà economiche, possono indubbiamente
costituire valide ragioni di revoca degli
atti di una gara (cfr. ex multis Sez.
III, 29.07.2015, n. 3748; Cons. Stato, sez.
III, 26.09.2013, n. 4809) e ciò viepiù a
dirsi rispetto a manifestazioni di ius
poenitendi che non impattano su una
situazione di affidamento qualificato, quale
quello espresso dall’aggiudicazione
definitiva, qui non in rilievo.
6. E, poi, di tutta evidenza come non possa
fare argine al legittimo esercizio del
potere di revoca, che involge esclusivamente
l’apprezzamento dei profili di permanenza
delle condizioni di fatto e di diritto che
reggevano l’atto pubblico e le esigenze di
interesse pubblico che lo stesso era
chiamato a soddisfare, l’antidoverosità del
contegno serbato dalla stazione appaltante
nel corso della vicenda amministrativa,
rilevante semmai a fini risarcitori sotto il
diverso paradigma della responsabilità cd.
precontrattuale. E’ infatti evidente che sia
ben possibile far derivare conseguenze
risarcitorie in danno dell’amministrazione
dalla (legittima) adozione di un
provvedimento di revoca, così come è
possibile che la revoca di un atto
amministrativo possa risultare legittima e
giustificata anche se sia stata la stessa
amministrazione a dare luogo ai presupposti
legali della revoca (cfr. CdS n. 697 del
28.01.2019).
6.1. Pur tuttavia, la parte appellata non ha
qui proposto la distinta domanda di
risarcimento del danno per responsabilità
precontrattuale con la conseguenza che, ai
sensi dell’articolo 101 del c.p.a., ne resta
interdetta la cognizione.
6.2. Né in considerazione di quanto fin qui
detto è configurabile un indennizzo ex art.
21-quinquies della legge n. 241/1990.
La concorde giurisprudenza amministrativa (ex
aliis Consiglio di Stato sez. III,
07/07/2017, n. 3359; Consiglio di Stato, Sez.
V n. 1559 del 20.4.2016; Sez. III,
04/09/2013, n. 4433) nega, in mancanza di
un’aggiudicazione definitiva, la configurabilità dell’indennizzo ex art.
21-quinquies, l. n. 241 del 1990.
La natura giuridica di atto provvisorio ad
effetti instabili, tipica
dell'aggiudicazione provvisoria, spiega la
non tutelabilità processuale di quest'ultima
ai sensi degli artt. 21-quinquies e
21-nonies della l. n. 241 del 1990 (ex
multis, Cons. Stato, V, 20.08.2013, n.
4183): la sua revoca (ovvero, la sua mancata
conferma) non è infatti qualificabile alla
stregua di un esercizio del potere di
autotutela, tale cioè da richiedere un
raffronto tra l'interesse pubblico e quello
privato sacrificato, non essendo
prospettabile alcun affidamento del
destinatario, dal momento che
l'aggiudicazione provvisoria non è l'atto
conclusivo del procedimento (cfr. Consiglio
di Stato sez. V, 09/11/2018, n. 6323)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 06.08.2019 n. 5597 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Vietato
l'accesso civico generalizzato agli atti di gara.
Il Consiglio di Stato cambia parere.
La legge propende per l'esclusione assoluta della disciplina dell'accesso
civico generalizzato in riferimento agli atti delle procedure di affidamento
e di esecuzione dei contratti pubblici.
Dopo numerose pronunce di opposto
tenore, la V Sez. del Consiglio di Stato prende posizione con la
sentenza
02.08.2019 n. 5503, le cui conclusioni sono però diametralmente opposte
rispetto a quelle formulate a giugno dalla III Sez. con la
sentenza 05.06.2019 n. 3780.
Il caso
Il Tar Toscana ha accolto il ricorso avverso il diniego opposto da un Comune
all'ostensione della documentazione inerente l'esecuzione di un servizio in
quanto, pur applicandosi ai contratti d'appalto l'articolo 53 del Dlgs
50/2016, la materia degli appalti pubblici non sarebbe esclusa dall'ambito
di applicazione dell'articolo 5 del Dlgs 33/2013 in quanto il successivo
articolo 5-bis elenca in modo tassativo gli ambiti sottratti alla regola
generale della trasparenza senza contemplare fra le materie escluse quella
degli appalti pubblici.
La quinta sezione del Consiglio di Stato ha espresso un diverso avviso e ha
ritenuto fondato il motivo di appello. I giudici hanno premesso che
l'accesso ai documenti amministrativi è regolato da tre diversi sistemi,
ciascuno caratterizzato da propri presupposti, limiti ed eccezioni:
l'accesso documentale, l'accesso civico e l'accesso civico generalizzato.
Ciascun istituto è pari ordinato rispetto all'altro e opera nel proprio
ambito, sicché non vi è assorbimento dell'una fattispecie in un'altra; e
nemmeno opera il principio dell'abrogazione tacita o implicita a opera della
disposizione successiva nel tempo, tale che l'uno sostituisca l'altro. La
diretta conseguenza è che nel caso in cui l'opzione dell'istante sia
espressa per un determinato modello, resta precluso qualificare diversamente
l'istanza stessa al fine di individuare la disciplina applicabile.
La questione
La questione è se l'articolo 53 del codice degli appalti, che tratta
dell'accesso agli atti, escluda l'applicabilità dell'accesso civico, posto
che la giurisprudenza dei Tar si è sul punto divisa. Per dare risposta, la
quinta sezione legge l'articolo 5-bis del Dlgs 33/2013 nella sua interezza e
non solo per quanto previsto dal comma 3: i primi due commi si occupano dei
limiti legali all'accesso civico generalizzato, che operano nel presupposto
della legittimazione soggettiva generalizzata, quindi data a «chiunque»,
senza dover dimostrare la titolarità di una determinata situazione
soggettiva.
Il comma 3 si distingue dai commi 1 e 2 perché fissa, non i limiti relativi
all'accesso generalizzato consentito a chiunque, bensì le eccezioni
assolute, a fronte delle quali la trasparenza recede, tra le quali i casi in
cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di
specifiche condizioni, modalità o limiti. Eccezione che i giudici di Palazzo
Spada ritengono riferita a tutte le ipotesi in cui vi sia una disciplina
vigente che regoli specificamente il diritto di accesso, in riferimento a
determinati ambiti o materie o situazioni.
L'indirizzo della terza sezione
Le conclusioni cui perviene la quinta sezione sono diametralmente opposte a
quelle cui è giunta la terza con la sentenza n. 3780/2019, che ha escluso la
possibilità di riferire il comma 3 ad intere «materie» sostenendo che,
diversamente interpretando, significherebbe escludere l'intera materia
relativa ai contratti pubblici da una disciplina, qual è quella dell'accesso
civico generalizzato, che mira a garantire il rispetto di un principio
fondamentale, il principio di trasparenza ricavabile direttamente dalla
Costituzione.
Il Dlgs 97/2016, che ha introdotto l'accesso civico
ispirandosi al «Freedom of information act» (Foia) riconoscendolo a ogni
cittadino, ha proprio l'obiettivo di favorire forme diffuse di controllo nel
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche, promuovendo così la partecipazione al dibattito pubblico.
La terza sezione evidenzia che una interpretazione conforme ai canoni
dell'articolo 97 della Costituzione deve valorizzare l'impatto «orizzontale»
dell'accesso civico, non limitabile da norme preesistenti (e non coordinate
con il nuovo istituto), ma soltanto dalle prescrizioni «speciali» e
interpretabili restrittivamente, che la stessa nuova normativa ha introdotto
al suo interno.
Il no all'accesso civico generalizzato della quinta sezione
L'impostazione della terza sezione è dunque di tutt'altra natura rispetto
alla quinta, che insiste sul fatto che le eccezioni assolute della
disciplina dell'accesso civico generalizzato prescindono dalla riferibilità
a determinati settori o materie altrimenti disciplinati dall'ordinamento e
che questa modalità di accesso non possa ritenersi prevalente rispetto alle
altre.
Insiste poi nel ritenere che il legislatore ben avrebbe potuto inserire
l'accesso civico nel codice dei contratti col «correttivo» del 2017; che si
tratta di atti formati e depositati nell'ambito di procedimenti interamente
assoggettati a una disciplina speciale e a sé stante che peraltro attua
specifiche direttive europee di settore, le quali si preoccupano già di
assicurare la trasparenza e la pubblicità negli affidamenti pubblici; che il
perseguimento di buona parte delle finalità di rilevanza pubblicistica poste
a fondamento della disciplina in tema di accesso civico generalizzato è
assicurato, nel settore dei contratti pubblici, da altri mezzi, quali i
compiti di vigilanza e controllo attribuiti all'Anac o l'accesso civico
«semplice» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.09.2019). |
APPALTI: Equivalenza con limiti.
NON APRE A OFFERTE INAPPROPRIATE.
Il
principio di equivalenza contenuto nelle specifiche tecniche non può essere
impiegato per ammettere offerte inappropriate.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 25.07.2019 n. 5258 in relazione allo spettro applicativo del principio di
equivalenza.
I giudici di Palazzo Spada riprendono i contenuti della
giurisprudenza che in passato si era occupata della disciplina delle
specifiche tecniche contenute nei capitolati d'appalto riaffermando che
nell'ambito dei paesi appartenenti all'Unione Europea, come è evidente dai
commi 4, 5 e 6, dell'articolo 68 del dlgs n. 163 del 2006 che recepì le
direttive Ue di allora, oggi corrispondente all'art. 68 del dlgs n. 50 del
2016, «il presidio dell'equivalenza è diretto ad evitare che le norme
obbligatorie, le omologazioni nazionali e le specifiche tecniche potessero
essere artatamente utilizzate per operare indebite espulsioni di
concorrenti, con il pretesto di una non perfetta corrispondenza delle
soluzioni tecniche richieste».
Però, precisano i giudici, il principio non può assolutamente essere
invocato per ammettere offerte tecnicamente inappropriate. Il principio di
equivalenza delle specifiche tecniche è infatti diretto ad assicurare che la
valutazione della congruità tecnica non si risolva in una mera verifica
formalistica, ma consista nella conformità effettiva e sostanziale
dell'offerta alle specifiche tecniche inserite nella lex specialis.
Con riguardo al caso sottoposto all'esame dei giudici, si precisa quindi che
il principio «non può essere postumamente invocato nel differente caso che
l'offerta comprenda una soluzione la quale, sul piano oggettivo funzionale e
strutturale, non rispetta affatto le caratteristiche tecniche obbligatorie,
previste nel capitolato di appalto per i beni oggetto di fornitura».
Nel caso di specie la previsione del peso del prodotto, lungi dal
configurare uno standard tecnico-normativo dettagliato passibile
d'equivalenza, valeva a definire in termini generali l'oggetto della
fornitura. Il richiamo al principio di equivalenza in un siffatto caso
avrebbe avuto l'effetto di distorcere l'oggetto del contratto rendendo
sostanzialmente indeterminato l'oggetto dell'appalto
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2019).
---------------
SENTENZA
2.2.2. Il principio di equivalenza ha, per consolidata giurisprudenza,
lo scopo di evitare che, attraverso la previsione di specifiche tecniche
eccessivamente dettagliate -in alcuni casi addirittura “nominative”,
con indicazione ad esempio di un singolo brevetto, marchio o provenienza-
risulti irragionevolmente limitato il confronto competitivo fra gli
operatori economici, e in particolare vengano precluse offerte aventi
oggetto sostanzialmente corrispondente a quello richiesto e tuttavia
formalmente privo della specifica prescritta.
Si afferma in proposito, secondo condivisibile orientamento, che il
principio “trova applicazione nel senso che qualora siano inserite nella
lex di gara specifiche tecniche a tal punto dettagliate da poter individuare
un dato prodotto in maniera assolutamente precisa (con una fabbricazione o
provenienza determinata o un procedimento particolare, con riferimento a un
marchio, a un brevetto) (…), per favorire la massima partecipazione, deve
essere data la possibilità della proposta che ottemperi in maniera
equivalente agli stessi requisiti” (Cons. Stato, III, 11.07.2016, n.
3029).
In tale contesto “il riferimento negli atti di gara a specifiche
certificazioni tecniche non consente alla stazione appaltante di escludere
un concorrente respingendo un’offerta se questa possiede una certificazione
equivalente e se il concorrente dimostra che il prodotto offerto ha
caratteristiche tecniche perfettamente corrispondenti allo specifico
standard richiesto” (Cons. Stato, III, 02.03.2018, n. 1316; 11.09.2017,
n. 4282).
In ragione di ciò, proprio alla luce della ratio sottesa al principio
di equivalenza, presupposto essenziale perché detto principio possa essere
richiamato e trovare applicazione è che, sul piano qualitativo, si sia in
presenza di una specifica in senso propriamente tecnico, e cioè di uno
standard -espresso in termini di certificazione, omologazione, attestazione,
o in altro modo- capace di individuare e sintetizzare alcune caratteristiche
proprie del bene o del servizio, caratteristiche che possono tuttavia essere
possedute anche da altro bene o servizio pur formalmente privo della
specifica indicata.
D’altra parte il principio trova ragione di applicazione in presenza di
specifiche tecniche aventi un grado di dettaglio potenzialmente escludente,
a fronte cioè di uno standard tecnico-normativo capace d’impedire la
partecipazione alla gara proprio perché - atteso il livello della sua
specificità - presenta un portato selettivo: al fine d’impedire che tale
selezione si risolva in termini irragionevolmente formalistici, finendo con
il produrre un effetto anticompetitivo, la previsione di un siffatto
standard deve essere affiancata dalla necessaria clausola d’equivalenza.
2.2.3. Quanto sopra vale a escludere che nel caso di specie detto principio
sia invocabile in relazione all’elemento controverso.
Quest’ultimo consiste infatti nella mera “grammatura”, e cioè nel
peso richiesto per il prodotto: ciò conduce a respingere l’assunto che, sul
piano qualitativo, si sia in presenza di una specifica riconducibile a
standard tecnici -del tipo delle certificazioni, attestazioni, omologazioni
e similari- soggetto all’applicazione del principio d’equivalenza.
D’altra parte la specifica, consistente esclusivamente nell’indicazione
della grammatura prescritta, non presenta una grado di dettaglio di per sé
potenzialmente escludente, risolvendosi nella semplice indicazione del peso
richiesto dall’amministrazione per il prodotto oggetto della fornitura.
Per tali ragioni l’indicazione di tale requisito, più che configurare uno
standard tecnico-normativo di dettaglio, vale a definire in termini
generali, per il tramite di una grandezza comune (i.e., il peso) la
tipologia categoriale del bene, descrivendo cioè l’oggetto della fornitura.
In tale contesto, perciò, non assume pertinente rilevanza il principio di
equivalenza delle specifiche tecniche, essendosi in presenza della mera
definizione dell’oggetto della convenzione, in termini generali, attraverso
l’indicazione del peso del prodotto.
In relazione allo spettro applicativo del principio di equivalenza la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, che il Collegio condivide, ha
posto in risalto che “nell’ambito dei paesi appartenenti all’Unione
Europea, come è evidente dai commi 4, 5 e 6, del cit. articolo [i.e., art.
68 d.lgs. n. 163 del 2006, oggi corrispondente all’art. 68 d.lgs. n. 50 del
2016], il predetto presidio [i.e., dell’equivalenza] è diretto ad evitare
che le norme obbligatorie, le omologazioni nazionali e le specifiche
tecniche potessero essere artatamente utilizzate per operare indebite
espulsioni di concorrenti, con il pretesto di una non perfetta
corrispondenza delle soluzioni tecniche richieste. Ma il principio non può
assolutamente essere invocato per ammettere offerte tecnicamente
inappropriate. Il principio di equivalenza delle specifiche tecniche è
infatti diretto ad assicurare che la valutazione della congruità tecnica non
si risolva in una verifica formalistica, ma nella conformità sostanziale
dell’offerta delle specifiche tecniche inserite nella lex specialis (cfr.
Consiglio di Stato sez. III 02.03.2018 n. 1316) (…). Ma il principio non può
essere postumamente invocato nel differente caso che l’offerta comprenda una
soluzione la quale, sul piano oggettivo funzionale e strutturale, non
rispetta affatto le caratteristiche tecniche obbligatorie, previste nel
capitolato di appalto per i beni oggetto di fornitura” (Cons. Stato, III,
28.09.2018, n. 5568). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001 definisce gli interventi di
ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”, cioè quelli che “portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei
prospetti”.
Laddove quindi viene realizzato un quid novi, conseguente alla modifica
della volumetria o dei prospetti, le opere possono essere assentite solo con
il permesso di costruire, a differenza degli interventi di ristrutturazione
edilizia c.d. “leggera” o degli interventi c.d. minori, la cui esecuzione è
subordinata a SCIA.
---------------
Le opere che comportano una variazione dei prospetti integrano un essenziale
presupposto per l’ascrivibilità dell’intervento alla fattispecie di cui
all’art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001.
---------------
2.1 I primi due motivi vertono sul fuoco della questione, cioè la
qualificazione dell’intervento realizzato sul “rustico”.
Sostiene il ricorrente che si tratterebbe di ristrutturazione c.d.
“leggera”, in quanto è stata modificata solo la sagoma, ma non i prospetti,
ovvero il profilo estetico-architettonico dell’edificio.
Secondo la tesi dell’Ufficio tecnico comunale le opere hanno comportato una
modifica dei prospetti e la variazione della sagoma edificata in senso
orizzontale e verticale.
La tesi del ricorrente non può essere condivisa.
L’art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001 definisce gli interventi di
ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”, cioè quelli che “portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei
prospetti”.
Laddove quindi viene realizzato un quid novi, conseguente alla modifica
della volumetria o dei prospetti, le opere possono essere assentite solo con
il permesso di costruire, a differenza degli interventi di ristrutturazione
edilizia c.d. “leggera” o degli interventi c.d. minori, la cui esecuzione è
subordinata a SCIA.
Nel caso in esame dal raffronto grafico tra l’edificio preesistente e quello
realizzato si evince che il risultato finale è un organismo diverso rispetto
al precedente, con diversa sagoma e prospetti. In effetti il piano terra e
il primo piano sono differenti per impianto e forma, e soprattutto –aspetto
decisivo– il profilo estetico-architettonico dell’edificio risulta
modificato, come si evince dalla tavole del prospetto Est (cfr. doc 2 del
Comune). Contrariamente da quanto affermato dal ricorrente, le opere hanno
comportato una variazione dei prospetti, così integrando un essenziale
presupposto per l’ascrivibilità dell’intervento alla fattispecie di cui
all’art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001.
Non viene contestato il dato della variazione della volumetria, seppur in
diminuzione, in quanto gli spazi sono stati collocati in modo diverso e sono
ridotti. Tuttavia la sola variazione della volumetria già di per sé
riconduce l’intervento alla categoria della ristrutturazione c.d. “pesante”,
stante il testo della norma che parla letteralmente di modifica della
volumetria complessiva, senza dare rilievo alla distinzione tra aumento o
diminuzione della stessa, in quanto in entrambi i casi l’organismo edilizio
viene modificato nella sua consistenza materiale, snaturandone le
caratteristiche dell'edificio originario.
I due motivi vanno quindi respinti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.07.2019 n. 1694 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - COMPETENZE GESTIONALI: Sulle
esclusioni dalla gara decide il dirigente e non la giunta.
L'adozione del provvedimento di esclusione dal procedimento di gara compete
al dirigente. Per gli enti locali, questa prerogativa trova una puntuale
disciplina nell'articolo 107 del decreto legislativo 267/2000; agli organi
politici compete, invece, una mera competenza residuale, di indirizzo e
controllo, ma non su atti gestionali.
Ciò è quanto precisa il Consiglio di
Stato, Sez. V, con la
sentenza
16.07.2019 n. 4997.
La vicenda
Nelle procedure d'appalto (come di concorso) gli atti gestionali sono di
esclusiva competenza della dirigenza e non dell'organo politico. La giunta
comunale (articolo 48 Dl 267/2000) ha una competenza di indirizzo e
controllo e quindi su atti che si situano in un ambito differente rispetto a
quello della gestione.
Il Consiglio di Stato ha respinto l'appello avverso il provvedimento di
esclusione da una gara (il Collegio non ha ritenuto persuasivi neppure gli
altri motivi d'appello). Il ricorrente riteneva che la competenza sulle
esclusioni rientrasse tra le prerogative giuntali.
La sentenza, al di là della precisazione ovvia, sotto il profilo
pratico/operativo ha riproposto la questione non definitivamente chiarita in
tema di poteri decisori, e quindi di competenza sull'adozione dei
provvedimenti «interni», del procedimento d'appalto, a valenza esterna. Si
pensi, per tutti, ai provvedimenti di esclusione post verifica formale dei
requisiti o post verifica dell'anomalia dell'offerta nel caso in cui la
procedura sia caratterizzata dalla presenza di un responsabile unico del
procedimento non dirigente.
Dal disegno del codice dei contratti e secondo le indicazioni delle linee
guida dell'Anac (n. 3 espressamente dedicate al Rup e ai bandi tipo) emerge
la centralità del Rup (a prescindere dalla categoria di appartenenza,
infatti, questo può essere anche un funzionario non necessariamente un
dirigente) con attribuzione di poteri decisori e quindi anche di una
competenza ad adottare atti «intermedi» (come le esclusioni adottate in
corso di procedimento) ma direttamente lesivi e quindi «a valenza esterna».
Il codice dei contratti, in sostanza, avrebbe creato un modello operativo
diverso da quello declinato, in generale, per il responsabile del
procedimento previsto dalla legge 241/1990. In quest'ultimo caso, qualora il
responsabile del procedimento non coincida con il dirigente/responsabile del
servizio, deve limitarsi a predisporre la proposta di provvedimento per il
soggetto competente (articolo 6, comma 1, lett. e), della legge 241/1990).
Nel caso del Rup funzionario, e quindi tecnicamente di un soggetto che non è
legittimato ad adottare atti a valenza esterna, questi poteri decisori
sembrerebbero confermati, almeno quale competenza residuale ovvero qualora
gli atti di gara non dispongano diversamente. L'aspetto pratico/operativo,
evidentemente, non è di poco conto e nelle gestioni dei procedimenti di gara
si assiste, oggettivamente, a comportamenti diversi.
Considerazioni
Se l'affermazione del giudice di Palazzo Spada dovesse assumersi come
assoluta, evidentemente, negli enti locali non vi sarà spazio per poteri
decisori del Rup nella fase endoprocedimentale (del procedimento
contrattuale). Questo aspetto dovrebbe trovare un esplicito chiarimento. E
in questo senso, il prossimo regolamento attuativo, a cui è stata assegnata
la prossima disciplina delle competenze del Rup, dovrebbe chiarire
necessariamente quale sia l'ambito concreto delle azioni/provvedimento che
il responsabile unico può compiere/adottare.
Sono questioni, come si può facilmente intuire, estremamente delicate che
non possono che essere risolte per norma. In questo senso va registrata
positivamente la scelta della legge regionale della Sardegna sugli appalti
8/2018 con la quale è stato chiarito che il responsabile unico del
procedimento (nella legge denominato «responsabile di progetto») non può
adottare atti a valenza esterna se non è dirigente. Riabilitando, in
sostanza, l'applicazione delle norme della legge 241/1990 e dell'articolo
107 del decreto legislativo 267/2000
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.07.2019). |
APPALTI: Inapplicabile
il soccorso istruttorio se manca la firma su un elemento dell'offerta
tecnica.
La sottoscrizione personale dell'offerta tecnica e degli elementi che la
compongono assume «valenza di assunzione di paternità e manifestazione di
volontà di prendere parte alla specifica procedura» (oltre che a
formalizzare i diversi impegni assunti in caso di aggiudicazione) e non può
essere suscettibile di soccorso istruttorio ai sensi dell'articolo 83, comma
9, del Dlgs n. 50/2016, che espressamente estromette, dal suo campo di
applicazione, le offerte tecniche.
È quanto ribadisce il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la
sentenza
04.07.2019 n. 8849.
Il fatto Per quanto qui di interesse, la ricorrente lamentava
l'illegittimità, sotto diversi profili, dell'aggiudicazione di una procedura
ristretta per l'affidamento di un servizio. In particolare, secondo parte
ricorrente, tale illegittimità derivava, ex multis, dal fatto che la
stazione appaltante aveva considerato con riferimento all'offerta tecnica
dell'aggiudicataria il curriculum del tecnico responsabile della
manutenzione, nonostante lo stesso non fosse stato firmato.
La decisione Il Tar, nell'accogliere il ricorso, ha preliminarmente specificato come
«l'omissione della firma dei partecipanti alla gara in una riunione
temporanea costituenda su un elemento dell'offerta tecnica» proprio in
quanto incidente sulla certezza della provenienza e della piena assunzione
di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo
complesso non può essere considerata «mera irregolarità formale sanabile con
il soccorso istruttorio ai sensi dell'articolo 83, comma 9, del Dlgs n.
50/2016, essendo ciò anche coerente con il principio di par condicio tra i
concorrenti, e senza che sia necessaria ai fini dell'esclusione una espressa
previsione della legge di gara».
Il Giudice di prime cure -rigettando le
difese dell'aggiudicataria, la quale sosteneva che «la Commissione di gara
avrebbe dovuto qualificare la mancata sottoscrizione del c.v. del
Responsabile della manutenzione come una irregolarità certamente sanabile
[], con conseguente invito all'odierna controinteressata a provvedere alla
regolarizzazione»- ha poi evidenziato come l'esclusione del partecipante
alla gara, in tali ipotesi, non si pone neanche in contrasto col principio
di tassatività delle clausole di esclusione dalle procedure previsto
dall'articolo 83, comma 8, del Dlgs n. 50/2016, «il quale si riferisce ai
criteri di selezione dei concorrenti e non riguarda le modalità di
formulazione delle offerte, ivi comprese quelle tecniche», che sono
espressamente sottratte alla sfera di applicazione del soccorso istruttorio.
In buona sostanza, il Tar, richiamando costante giurisprudenza del Consiglio
di Stato in materia, ha specificato come la certezza della provenienza
dell'offerta è assicurata proprio dalla sottoscrizione del documento
contenente la manifestazione di volontà, con cui l'impresa partecipante «fa
propria la dichiarazione contenuta nel documento, vincolandosi ad essa ed
assumendone le responsabilità; il difetto di sottoscrizione invalida la
manifestazione contenuta nell'offerta, e legittima l'esclusione dalla gara
pur in assenza di espressa previsione della lex specialis» (Consiglio di
Stato, Sezione III, 25.07.2018 n. 4546; Sezione V, 27.11.2017 n.
5552).
I Giudici amministrativi, infine, hanno sottolineato come con
riferimento alle procedure comparative e di massa, caratterizzate dalla
presenza di un numero ragguardevole di partecipanti il soccorso istruttorio
non possa essere invocato, quale parametro di legittimità dell'azione
amministrativa, «tutte le volte in cui si configurino in capo al singolo
partecipante obblighi di correttezza -specificati attraverso il richiamo
alla clausola generale della buona fede, della solidarietà e dell'autoresponsabilità- rivenienti il fondamento sostanziale negli articoli 2 e 97 Cost., che
impongono che quest'ultimo sia chiamato ad assolvere oneri minimi di
cooperazione», tra cui proprio il dovere di fornire informazioni non
reticenti e complete, di compilare moduli e di presentare documenti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.07.2019).
---------------
SENTENZA
Questa Sezione ha già avuto modo di precisare che
l’omissione della firma dei partecipanti alla gara in una riunione
temporanea costituenda su un elemento dell’offerta tecnica, proprio in
quanto incidente sulla certezza della provenienza e della piena assunzione
di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo
complesso, non può essere considerata mera irregolarità formale sanabile con
il soccorso istruttorio ai sensi dell’art. 83 comma 9 del d.lgs. n. 50/2016,
essendo ciò anche coerente con il principio di par condicio tra i
concorrenti, e senza che sia necessaria ai fini dell’esclusione una espressa
previsione della legge di gara (cfr.
sentenza 07.06.2019 n. 7470, e la giurisprudenza ivi citata).
Tale ultima precisazione è legata alla constatazione che
l’esclusione del partecipante alla gara, in tali ipotesi, non si pone
neanche in contrasto col principio di tassatività delle clausole di
esclusione dalle procedure previsto dall’articolo 83, comma 8, del d.lgs. n.
50/2016, il quale si riferisce ai criteri di selezione dei concorrenti e non
riguarda le modalità di formulazione delle offerte, ivi comprese quelle
tecniche, che sono espressamente sottratte alla sfera di applicazione del
soccorso istruttorio (Cons. St.,
sez. III, 25.07.2018 n. 4546; vedi anche Id., sez. V, 27/11/2017 n. 5552: “la
certezza della provenienza dell'offerta è assicurata dalla sottoscrizione
del documento contenente la manifestazione di volontà, con cui l'impresa
partecipante «fa propria la dichiarazione contenuta nel documento»,
vincolandosi ad essa ed assumendone le responsabilità; il difetto di
sottoscrizione invalida la manifestazione contenuta nell'offerta, e
legittima l'esclusione dalla gara pur in assenza di espressa previsione
della lex specialis”).
D’altra parte, non può non condividersi la giurisprudenza che precisa che “con
riferimento alle procedure comparative e di massa, caratterizzate dalla
presenza di un numero ragguardevole di partecipanti, il soccorso istruttorio
non può essere invocato, quale parametro di legittimità dell'azione
amministrativa, tutte le volte in cui si configurino in capo al singolo
partecipante obblighi di correttezza -specificati attraverso il richiamo
alla clausola generale della buona fede, della solidarietà e dell'autoresponsabilità-
rivenienti il fondamento sostanziale negli artt. 2 e 97 Cost., che impongono
che quest'ultimo sia chiamato ad assolvere oneri minimi di cooperazione,
quali il dovere di fornire informazioni non reticenti e complete, di
compilare moduli, di presentare documenti”
(cfr. Cons. St., sez. III, 04/01/2019 n. 96). |
APPALTI: Le
fasi del procedimento possono essere affidate a più figure ma la
responsabilità unitaria resta al Rup.
Le stazioni appaltanti possono "scindere" il procedimento contrattuale
assegnando fasi della procedura a specifici sub-responsabili di procedimento
a condizione che la responsabilità del procedimento rimanga, in modo
unitario, in capo al Rup. Senza duplicare, pertanto, la figura del
responsabile unico del procedimento.
In questo senso si esprime la
sentenza 09.07.2019
n. 166
della Corte Costituzionale sulle norme della legge della Regione Sardegna 8/2018 (Nuove norme
in materia di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture).
L'unicità del Rup
La sentenza della Consulta che ha affrontato la censura di
incostituzionalità di alcune norme della legge della regione Sardegna
contiene spunti di rilevante interesse pratico.
In primo luogo, netta l'affermazione (in relazione al comma 2 dell'articolo
34) secondo cui nella legge regionale non si assiste allo sdoppiamento della
figura del Rup (nella legge individuato come «responsabile di progetto») ma,
piuttosto a una «scissione/scomposizione» delle funzioni. Il riferimento è
alla prevista facoltà delle stazioni appaltanti di individuare dei
responsabili per (o di) fasi del procedimento e, precisamente, un «un
responsabile per le fasi di programmazione, progettazione ed esecuzione e un
altro responsabile per la fase di affidamento» (articolo 34, comma 2, della Lr 8/2018).
Nella sentenza viene richiamato il precedente della Corte -sentenza n. 43
del 201- espresso in relazione a una simile disposizione di una legge della
Regione Umbria, censurata dallo Stato per gli stessi profili. Nel caso di
specie la Corte osservava che nell'ambito del procedimento contrattuale le
stazioni appaltanti «possono individuare sub-procedimenti senza che ciò
incida sulla unicità del centro di responsabilità».
In sostanza, anche in
relazione al procedimento amministrativo che conduce (in via potenziale)
all'assegnazione dell'appalto, è possibile attuare una distinzione tra le
diverse incombenze tutte riconducibili al Rup assegnando le stesse a
sub-responsabili di procedimento.
La condizione essenziale è, e rimane, la riconducibilità a un unico centro
della responsabiltà complessiva. Momento di sintesi che si deve realizzare
nel Rup. Con riferimento alla legge regionale della Sardegna, «l'unicità del
centro di responsabilità procedimentale è garantita dal "responsabile di
progetto", il quale coordina l'azione dei responsabili per fasi, se nominati
(…), anche con funzione di supervisione e controllo».
Quindi, conclude la sentenza, «la disposizione impugnata non è, dunque, in
contrasto con il principio di responsabilità unica, posto dall'invocato art.
31, comma 1, del nuovo codice dei contratti a tutela di unitarie esigenze di
trasparenza e funzionalità della procedura di gara, preordinata alla
corretta formazione della volontà contrattuale dell'amministrazione, e di
accentramento del regime della responsabilità dei funzionari».
Le norme abrogate
Diverso epilogo deve essere registrato, invece, in relazione alle altre 3
disposizioni impugnate che la Corte ritiene incostituzionali.
È incostituzionale il comma 1 dell'articolo 37 della legge regionale (e in
via consequenziale i commi 2, 3, 4 e 8) diretto a introdurre nella regione
un sistema "parallelo" a quello dell'Anac sulla nomina dei componenti delle
commissioni giudicatrici (da uno specifico albo regionale).
Nella sentenza
si puntualizza –con una affermazione che risulta quasi sconfessata dalla
recente sospensione apportata con la legge 55/2019 al sistema di nomina
dall'albo)- che «la sottrazione della scelta dei commissari di gara alle
stazioni appaltanti rappresenta una radicale innovazione del nuovo codice
dei contratti chiaramente ispirata a finalità di trasparenza, imparzialità,
tutela della concorrenza e prevenzione di reati» e che pur incidendo
sull'organizzazione amministrativa, deve però «essere ricondotta alle
competenze esclusive statali della tutela della concorrenza e dell'ordine
pubblico». Quindi si tratta di un ambito sottratto a prerogative di
legislazione regionale.
Analoga conclusione per i commi 1 e 3 dell'articolo 39 della legge in cui è
prevista la possibilità della giunta isolana di introdurre linee guida e
codice regionale di buone pratiche. Queste disposizioni, risultando estranee
all'ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione e
riconducibili alla materia statutaria dei lavori pubblici regionali, vanno
censurate in quanto contrastano con la disposizione del codice dei contratti
pubblici «che, nell'attribuire all'Anac la regolazione dei medesimi aspetti
della procedura pubblica e della fase negoziale ed esecutiva» costituisce
«esplicazione della tutela della concorrenza e dell'ordinamento civile».
Effettivamente, anche in questo caso si tratta di affermazione in
controtendenza rispetto all'impoverimento delle prerogative dell'Anac
intervenuto a opera della legge 55/2019.
Norma che viene abrogata è anche quella diretta a introdurre un "autonomo"
sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti (articolo 45 della legge
regionale). Secondo i giudici, la disposizione «introducendo un non
meglio precisato sistema di qualificazione affidato alla Giunta regionale,
parallelo e distinto rispetto a quello nazionale, pur incidendo
sull'organizzazione amministrativa, deve essere ricondotta alle competenze
esclusive statali della tutela della concorrenza e dell'ordine pubblico»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.07.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Illegittimo
il provvedimento negativo implicito adottato senza preavviso.
La risposta negativa all'istanza di un privato non può essere implicitamente
contenuta in un altro provvedimento del Comune che non preavvisi
dell’intendimento maturato sulla reiezione.
È quanto afferma il TAR Liguria,
Sez. I, con la
sentenza 03.07.2019 n. 585.
Il caso
Un Comune, con provvedimento, ordinava l’immediata demolizione di strutture
destinate ai bagnanti estivi in proprietà di una società in nome collettivo
(Snc) poiché questa aveva sempre disatteso innumerevoli provvedimenti che ne
richiedevano la rimozione e ricollocazione durante alcune stagioni annuali.
Tuttavia, la società, con apposita istanza, aveva chiesto l’apertura dello
stabilimento in questione per tutto l’anno solare, volendo creare un centro
elioterapico.
L’amministrazione, lasciando priva di riscontro l’istanza della società,
rispondeva implicitamente con esito negativo, imponendo la demolizione delle
strutture, al fine di porre rimedio ai ripetuti abusi edilizi, come motivato
in provvedimento poiché, nel bilanciamento degli interessi contrapposti,
considerava prevalente l’ovviare alla protratta situazione d’illegittimità
in cui versava la Snc, piuttosto che dar corso al procedimento aperto
tramite istanza della stessa.
La società adiva quindi il Tribunale amministrativo per la Liguria
lamentando, con vari motivi di ricorso, l’illegittimità del provvedimento
demolitorio, adottato in assenza di un riscontro dell’istanza presentata.
La decisione
Il Giudice di prime cure, nell’accogliere il ricorso, ha evidenziato che «la Pa avrebbe dovuto quanto meno preavvisare la parte dell’intendimento
maturato sulla reiezione dell’istanza» e ancora, continua il Tar, «a diversa
conclusione non può indurre la possibilità di scriminare la violazione
procedimentale ai sensi dell’articolo 21-octies della legge 241/1990, posto
che non si tratta di un’attività vincolata, essendo infatti discrezionale la
potestà comunale di valutare la possibilità di assentire l’utilizzo
elioterapico dell’azienda, così come negarla».
Con il ricorso presentato, il Tribunale adito è stato anche chiamato a
pronunciarsi circa il vizio di incompetenza del quale, secondo parte
ricorrente, sarebbe affetto il provvedimento impugnato. A dire della
società, infatti, il provvedimento, essendo stato firmato dal vice-prefetto
in sostituzione degli organi politici (Sindaco, Giunta comunale e Consiglio
comunale), violerebbe l’articolo 107 del Dlgs 267 del 2000 che, per quel che
concerne l’attività di gestione degli affari del Comune, attribuirebbe la
competenza di tali provvedimenti alla Dirigenza comunale.
Il Collegio,
nell’accogliere anche tale motivo di ricorso, ha ricordato che «la
giurisprudenza non dubita che un’ingiunzione a demolire derivi
dall’esercizio di un potere gestorio nel quale non sono individuabili tratti
politici» di tal che il Sindaco (e per esso il vice-Prefetto) non aveva
alcun titolo a sottoscrivere il provvedimento.
Il provvedimento amministrativo implicito
Con l’espressione ‘atto implicito’ s’intende l’atto che risulta da un altro
atto che lo presuppone o da un comportamento dell’autorità. Diversamente
dall’atto tacito, nel quale vi è una totale assenza di esternazione della
manifestazione volitiva dell’Amministrazione (silenzio-assenso), l’atto
implicito è sorretto da una manifestazione di volontà, sia pur desumibile da
altri atti o comportamenti.
La figura del provvedimento amministrativo implicito nasce dall’esigenza di
individuare un provvedimento impugnabile anche ove sia assente un
provvedimento esplicito.
Il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza 5758/2002 e, ancor più
recentemente con sentenza 589 del 24.01.2019, ha chiarito, in via
definitiva, quando è ammissibile un provvedimento amministrativo implicito e
quali sono i requisiti necessari.
Nello specifico:
«a) che debba pregiudizialmente esistere, a monte, una manifestazione
espressa di volontà (affidata ad un atto amministrativo formale o anche ad
un comportamento a sua volta concludente), da cui possa desumersi l’atto
implicito: e ciò in quanto la rilevanza relazionale dei comportamenti
amministrativi deve essere apprezzata, in termini necessariamente contestualizzati, nel complessivo quadro dell’azione amministrativa;
b) che, per un verso, la manifestazione di volontà a monte provenga da un
organo amministrativo competente e nell’esercizio delle sue attribuzioni e,
per altro verso, nella stessa sfera di competenza rientri l’atto implicito a
valle (non palesandosi, in difetto, lecita la valorizzazione del nesso di
presupposizione);
c) che non sia normativamente imposto il rispetto di una forma solenne,
dovendo operare il generale principio di libertà delle forme (arg. ex art.
21-septies cit.);
d) che dal comportamento deve desumersi in modo non equivoco la volontà
provvedimentale, dovendo esistere un collegamento esclusivo e bilaterale tra
atto implicito e atto presupponente, nel senso che l’atto implicito deve
essere l’unica conseguenza possibile di quello espresso (non potendo
attivarsi, in difetto, il meccanismo inferenziale di necessaria
implicazione);
e) che, in ogni caso, emergano ex factis (avuto riguardo al concreto
andamento dell’iter procedimentale e alle effettiva acquisizioni
istruttorie: si veda Cons. Stato, sez. V, n. 1034/2018 cit.) gli elementi
necessari alla ricostruzione del potere esercitato»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.07.2019). |
APPALTI:
Mancata firma digitale dell'offerta nelle procedure on-line, scontro tra i
TAR sulla regolarizzazione.
La carenza della firma digitale dell'offerta economica nelle procedure
telematiche può essere regolarizzata?
È questa la problematica affrontata in
due sentenze che giungono a soluzioni diametralmente opposte. Il TAR Lazio-Roma,
Sez. III-quater,
sentenza
02.07.2019 n. 8605 ritiene che l'offerta debba
essere esclusa, il TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza
17.06.2019 n. 539
propende per la possibilità di ammettere il soccorso istruttorio integrativo
data la sicura riconducibilità dell'offerta all'appaltatore.
La querelle sulla sottoscrizione delle offerte
Le due sentenze hanno affrontato, pressoché, la stessa identica problematica
giungendo a soluzioni opposte. Secondo la sentenza del giudice capitolino la
presenza della marcatura temporale e non anche della sottoscrizione con
firma digitale rende l'offerta economica "anonima" rendendo impossibile –salvo ammettere la violazione del
par condicio tra i competitori- ogni
forma di soccorso istruttorio integrativo (articolo 83, comma 9, del codice
dei contratti).
Per il Tar Lazio, mentre la marcatura temporale «è un servizio
specificamente volto ad associare data e ora certe e legalmente valide ad un
documento informatico, consentendo, quindi, di attribuirgli una validazione
temporale opponibile a terzi» (Dlgs 82/2005), e può «essere utilizzato anche
su files non firmati digitalmente, parimenti garantendone una collocazione
temporale certa e legalmente valida», la firma digitale rappresenterebbe
l'unico "strumento" idoneo a esprimere e «rendere manifesta (…) la
provenienza e l’integrità di un documento informatico» (articolo 1, comma 1,
lettera s) del Dlgs 82/2005).
Per effetto di quanto, la mancata apposizione
della firma digitale sul documento informatico relativo all'offerta
economica «bensì della sola marcatura temporale, consente di attribuire
certezza legale solo quanto a data e ora della relativa formazione, ma non
anche a proposito della relativa provenienza ed integrità».
La decisione opposta
Di diverso avviso il Tar Cagliari con una lettura maggiormente
condivisibile. Secondo le ragioni della ricorrente -che sono state ritenute
persuasive dal giudice isolano- il «difetto di firma digitale, nelle gare
gestite con procedure telematiche, non può integrare una legittima causa di
esclusione dalla gara».
In un procedimento telematico, infatti, la carenza non determina (come
potrebbe accadere nel procedimento cartaceo tradizionale) nessun dubbio
sulla provenienza dell'offerta e sul conseguente impegno/manifestazione di
volontà che la sottoscrizione esprime.
Nel caso di specie, la gestione telematica richiedeva una pre-fase di
accreditamento degli operatori a un sistema informatico con rilascio di
credenziali personali.
Il giudice, in questo caso, ha condiviso le riflessioni espresse ribadendo
che, pur vero che le domande di partecipazione o le offerte, prive di
sottoscrizione, devono normalmente essere considerate inammissibili e devono
normalmente essere escluse dalla procedura di gara, nel caso di procedure
telematiche l'intensità della carenza deve essere valutata, però, dal Rup
con minor rigore.
Nella sentenza, infatti, si rileva che la giurisprudenza del Consiglio di
Stato e dei tribunali amministrativi, cui ha aderito anche l'Anac «non
sempre è arrivata alle rigorose conclusioni (…), ritenendo di dover
escludere l'irrilevanza giuridica, e quindi l'inammissibilità, di offerte
prive di sottoscrizione (o con la sottoscrizione solo di alcuni dei soggetti
dell'atto) quando, in base alle circostanze concrete, l'offerta risultava
con assoluta certezza riconducibile e imputabile a un determinato soggetto o
operatore economico» (in tal senso il Consiglio di Stato, sezione V, 21.11.2016 n. 4881).
In questi casi, venendo meno il pericolo
dell'anonimato (che priverebbe di ogni garanzia la stazione appaltante in
ordine anche alla successive fasi dell'appalto), l'interesse
dell'amministrazione «a non escludere un concorrente che è identificabile
con assoluta certezza sulla base di altri elementi comunque acquisiti alla
procedura» diventa prevalente. Da qui, l'esigenza che il Rup avvii il
soccorso istruttorio integrativo (articolo 83, comma 9, del codice dei
contratti)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.07.2019). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Concessione
di beni e servizi, il Consiglio di Stato individua i parametri che fanno la
differenza.
L'assenza di obblighi tariffari e di gestione vincolanti per il privato
nonché di effettivi poteri di indirizzo e controllo dell'ente locale sulla
gestione sono elementi che consentono di qualificare la concessione di un
teatro come rapporto che ha a oggetto un bene e non un servizio.
Il
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
28.06.2019 n. 4463 ha individuato
in modo analitico gli elementi che distinguono le concessioni di beni da
quelle di servizi, analizzando il caso di una struttura teatrale affidata da
un Comune a un operatore privato, a seguito di una gara.
Il caso
L'amministrazione aveva definito specifiche linee di indirizzo il cui
obiettivo era quello di selezionare un concessionario qualificato per
garantire un uso del bene rispettoso della sua funzione. Nelle linee di
indirizzo e negli atti attuativi, il Comune non aveva definito né obblighi
tariffari né di gestione vincolanti per il privato, non stabilendo nemmeno
poteri di indirizzo, vigilanza e intervento sul servizio dell'ente
concedente: in questo quadro, quindi, non erano stati configurati quegli
specifici elementi che concorrono a caratterizzare la concessione di un
pubblico servizio.
La decisione
A favore della qualificazione del percorso come concessione di un bene i
magistrati amministrativi hanno rilevato anche la scelta
dell'amministrazione di garantire al futuro concessionario l'esercizio in
totale autonomia delle attività teatrali nella struttura, connotando in
questo modo una previsione del tutto incompatibile con la determinazione di
concedere un servizio pubblico (dovendo invece in questo caso regolare la
prestazione in un servizio qualitativamente adeguato rispetto a ben
individuate esigenze degli utenti).
L'utilizzo, nella gara per la concessione, del criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, è stato valutato dai giudici amministrativi
come coerente con l'obiettivo di una corretta utilizzazione di un bene
avente una specifica funzione e con l'evidente scopo di non vanificare
l'intervento di restauro sostenuto dall'amministrazione e la conseguente
decisione di concederlo in uso, non adeguatamente rappresentati da un
criterio fondato sul solo corrispettivo economico.
La caratterizzazione dell'attività
Anche la richiesta di una proposta artistica e gestionale formulata in
termini largamente programmatici, mediante l'identificazione di obiettivi
ottimali di carattere tendenziale e «di vetrina», non si configura come
obbligo di servizio, non essendo correlabile a parametri di valutazione
suscettibili di essere oggettivamente misurati.
Il Consiglio di Stato ha chiarito, infatti, che affinché siano definiti dei
veri e propri obblighi di servizio, gli atti di gara (il capitolato in
particolare) devono descrivere gli impegni connotandoli con un contenuto
concreto e puntuale, di cui può essere valutato l'assolvimento da parte
dell'obbligato, anche in vista di una loro eventuale coercibilità e della
sanzionabilità dell'inadempimento.
Anche la precisazione di obblighi di un numero minimo di alzate di sipario e
di spettacoli riservato all'amministrazione non permette di rilevare che la
corrispondente attività del gestore costituisca il tramite per raggiungere
un fine sociale a favore della collettività, trattandosi, piuttosto, di
impegni correlati all'effettiva messa a frutto del bene e alla volontà
dell'ente concedente di potersene, ogni tanto, avvalere senza sopportare la
corrispondente spesa.
La sentenza ha evidenziato, quindi, come questi
obblighi correlati a macro-finalizzazioni relative all'utilizzo del bene,
sia singolarmente che complessivamente considerati, sono del tutto inidonei
a rivelare l'esistenza di una concessione di servizio, e di un «obbligo di
esercizio», anche perché carenti di qualsiasi elemento di corredo che
consenta di rinvenire la proiezione esterna della sottostante utilitas
pubblica, che va collegata non a impegni di carattere singolare, bensì a un
programma dettagliato di gestione nel tempo, rispetto al quale rileva non
solo il vincolo del privato, ma anche la previsione in capo all'ente
concedente di poteri di indirizzo, vigilanza e intervento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.07.2019). |
APPALTI: Regole
più semplici per l'avvalimento infragruppo.
Adempimenti formali meno stringenti in caso di ricorso all'avvalimento
infragruppo, non sussistendo, in questa ipotesi, l'obbligo di stipulare un
contratto con l'impresa ausiliaria, con le risorse necessarie, perché
appartiene alla stessa compagine societaria. Sarà sufficiente una
dichiarazione unilaterale del concorrente che attesti il legame giuridico e
economico.
È questo il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza
27.06.2019 n. 4418, che accorda, così,
all'istituto giuridico dell'avvalimento infragruppo un regime probatorio e
documentale semplificato.
La vicenda
Il ricorrente aveva impugnato l'aggiudicazione del servizio di
gestione, distribuzione e fornitura di medicinali a un raggruppamento
temporaneo di impresa per via dell'assenza dei requisiti di qualificazione
richiesti dalla lex specialis di gara. L'operatore economico affidatario ha
utilizzato, impropriamente, l'avvalimento per la dimostrazione del possesso
della certificazione di qualità, ricorrendo al requisito di una impresa
collegata. In particolare, ha eccepito la genericità della dichiarazione di
avvalimento, senza specificazione delle dotazioni e delle risorse umane che
vengono messe a disposizione, configurandosi quale prestito solo cartolare,
non in linea con le disposizioni del codice degli appalti.
La decisione
Il
ricorso è stato respinto: per i giudici di Palazzo Spada fondamentale è il
rapporto di collegamento societario intercorrente tra le imprese ai fini
della prova semplificata del possesso del requisito di qualificazione
richiesto. L'avvalimento è uno strumento di derivazione comunitaria che
abilita le imprese carenti di determinati requisiti tecnici, economici e
finanziari a partecipare alle procedure di gara mediante utilizzo delle
capacità e mezzi di altri soggetti economici. Rappresenta una deroga al
principio di personalità dei requisiti di partecipazione e rilevante è il
rapporto tra l'ausiliato e l'ausiliario, legati da un vincolo di
responsabilità solidale. L'interpretazione del collegio è elaborata proprio
sulla situazione di collegamento tra imprese caratterizzate da una unitaria
compagine societaria.
Nel caso esaminato, l'aggiudicatario ha così
dimostrato in modo valido -con l'appartenenza al gruppo poiché ha attinto
il requisito da una società collegata- che l'avvalimento è effettivo
semplicemente con la messa a disposizione della struttura produttiva e
organizzativa in capo alla quale è stato attribuito il sistema di qualità.
Nelle «gare pubbliche l'appartenenza al gruppo societario e dunque il
collegamento in senso ampio rappresenta un possibile fattore genetico e
giustificativo, dell'avvalimento da parte di un concorrente dei requisiti
posseduti da un altro soggetto». In virtù del legame che intercorre tra gli
operatori economici, l'avvalimento è perimetrato dai minimi margini di
concretezza e serietà. Non è richiesto un contratto, analitico e
strutturato, ma è sufficiente la dichiarazione a comprova del solo vincolo
esistente.
È bene sottolineare che questa affermazione ha trovato copertura
normativa nell'articolo 49, comma 2, lettera g), del Dlgs 163/2006 ma oggi
non è riprodotta nel nuovo codice contenuto nel Dlgs 50/2016, e, per questo,
l'orientamento di Palazzo Spada, che tuttavia è riferito a un fattispecie
contrattuale bandita sotto il vecchio codice, discorda con la giurisprudenza
più recente che ha ritenuto non più ammissibile la deroga all'obbligo di
produrre il contratto di avvalimento tra soggetti appartenenti al medesimo
gruppo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.07.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la giurisprudenza, ai sensi dell’art. 31 t.u. edilizia, il titolo per
l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri
immobiliari è costituito dall’accertamento dell’inottemperanza
all’ingiunzione a demolire, ma per tale atto deve intendersi non il mero
verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere
endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento, che faccia proprio
l’esito del verbale.
Il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine demolitorio non
costituisce, infatti, un provvedimento amministrativo; esso, in particolare,
non comporta di per sé effetti ulteriori rispetto a quelli consistenti nella
mera descrizione della realtà; non si tratta, cioè, di un provvedimento
amministrativo che possa immutare la posizione giuridica dell'interessato,
avendo il verbale solo il fine di rappresentare -con fede privilegiata
allorquando, come nel caso di specie, sia compilato da pubblico funzionario-
lo stato dei luoghi.
Il verbale di accertamento in questione costituisce solo il presupposto
fattuale e giuridico sulla cui base dovranno essere adottati i successivi
provvedimenti amministrativi che il competente Ufficio Comunale, quale
autorità dotata di poteri di amministrazione attiva, dovrà adottare, primo
tra tutti l’accertamento formale dell’inottemperanza, ai sensi dell’art. 31
del d.p.r. n. 380/2001, comma 4, che costituisce titolo per l’immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ne consegue che il verbale costituisce atto propedeutico all'adozione del
successivo provvedimento formale di accertamento dell’inottemperanza e
dichiarativo dell'acquisizione e, previa individuazione dell'area da
acquisire, dispositivo della trascrizione.
Pertanto tale verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di
attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva invece
ravvisabile soltanto eventualmente nell’atto formale di accertamento ex art.
31, co. 4, del d.p.r. n. 380/2001, con cui l’autorità amministrativa
recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla polizia municipale e
forma il titolo ricognitivo idoneo all’acquisizione gratuita dell’immobile
al patrimonio comunale.
---------------
8- Il ricorso è inammissibile
laddove impugna il verbale di accertamento dei VV.UU., in quanto atto non
autonomamente impugnabile.
Secondo la giurisprudenza, ai sensi dell’art. 31 t.u. edilizia, il titolo
per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri
immobiliari è costituito dall’accertamento dell’inottemperanza
all’ingiunzione a demolire, ma per tale atto deve intendersi non il mero
verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere
endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento, che faccia proprio
l’esito del verbale (TAR Sicilia, Catania, sez. II, 24.04.2018, n. 837; TAR
Catania, sez. I, 23.04.2015, n. 1118; TAR Napoli, (Campania), sez. VII,
11.05.2017, n. 2550; TAR Roma, (Lazio), sez. I, 04.05.2016, n. 5123).
Il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine demolitorio non
costituisce, infatti, un provvedimento amministrativo; esso, in particolare,
non comporta di per sé effetti ulteriori rispetto a quelli consistenti nella
mera descrizione della realtà; non si tratta, cioè, di un provvedimento
amministrativo che possa immutare la posizione giuridica dell'interessato,
avendo il verbale solo il fine di rappresentare -con fede privilegiata
allorquando, come nel caso di specie, sia compilato da pubblico funzionario-
lo stato dei luoghi.
Il verbale di accertamento in questione costituisce solo il presupposto
fattuale e giuridico sulla cui base dovranno essere adottati i successivi
provvedimenti amministrativi che il competente Ufficio Comunale, quale
autorità dotata di poteri di amministrazione attiva, dovrà adottare, primo
tra tutti l’accertamento formale dell’inottemperanza, ai sensi dell’art. 31
del d.p.r. n. 380/2001, comma 4, che costituisce titolo per l’immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ne consegue che il verbale costituisce atto propedeutico all'adozione del
successivo provvedimento formale di accertamento dell’inottemperanza e
dichiarativo dell'acquisizione e, previa individuazione dell'area da
acquisire, dispositivo della trascrizione (in termini TAR Campania, Napoli,
sez. VII, 11.05.2017; TAR Napoli, sez. III, 01.12.2016, n. 5556).
Pertanto tale verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di
attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva invece
ravvisabile soltanto eventualmente nell’atto formale di accertamento ex art.
31, co. 4, del d.p.r. n. 380/2001, con cui l’autorità amministrativa
recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla polizia municipale e
forma il titolo ricognitivo idoneo all’acquisizione gratuita dell’immobile
al patrimonio comunale (cfr. TAR Sicilia Catania sez. II 02.04.2018 n. 837 e
giurisprudenza ivi richiamata; cfr. anche TAR Campania Salerno sez. II
18.03.2016, n. 692)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 25.06.2019 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’atipico
ordine del Comando dei vigili urbani –contenuto nel verbale–
"di non toccare assolutamente i manufatti oggetto dell'accertamento di
inottemperanza" viola il principio per il quale gli atti amministrativi sono
"tipici e nominati" e devono essere adottati nell'esercizio di uno specifico
potere attribuito all'autorità procedente da una precisa norma di legge.
Il principio di tipicità e nominatività degli atti amministrativi trova
fondamento in esigenze legate alla tutela del principio di legalità a
garanzia che ad ogni interesse pubblico vada correlato uno specifico potere
in capo all’amministrazione in modo da determinare, in esito al
procedimento, un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato
concretamente perseguito; e ciò vale soprattutto per "gli atti incidenti
negativamente sui terzi".
Ebbene l'impugnato "ordine di non demolire", in attesa della futura
acquisizione e in assenza di una delibera comunale che dichiari la
sussistenza di interesse pubblico al mantenimento dell’opera, è un
provvedimento non previsto da alcuna norma di legge, dal che la sua
illegittimità o meglio la sua nullità, per l’assenza nell’ordinamento di una
norma attributiva di simili poteri all’amministrazione nella specifica fase
di cui si discute.
Infatti, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 prevede un'articolata disciplina
per la demolizione delle opere realizzate in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità ovvero con variazioni essenziali.
Dapprima l'autorità comunale ingiunge al proprietario e al responsabile
dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di
un termine di novanta giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale "il
bene e l'area di sedime vengono acquisiti, di diritto e gratuitamente, al
patrimonio del Comune".
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (da tenere
distinto, per come su detto, dal verbale della polizia municipale di
accertamento ricognitivo) costituisce titolo per l'immissione nel possesso e
per la trascrizione nei registri immobiliari; infine, l'opera acquisita è
demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare non
si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che
l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Recentemente la Corte di Cassazione ha chiarito che financo l’acquisizione
gratuita al patrimonio, in assenza di una delibera comunale di dichiarazione
dell’interesse pubblico al mantenimento dell’opera, non costituisce
impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di
demolizione, in quanto il trasferimento dell'immobile nella disponibilità
dell'ente locale è esclusivamente preordinato ad una sua più agevole
demolizione -il cui onere economico va posto in ogni caso a carico dei
responsabili dell'abuso edilizio- e non invece ad incrementare il patrimonio
dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del
territorio; a maggior ragione, la privazione del potere di rimuovere gli
abusi non può discendere da un verbale di accertamento della polizia
municipale, il quale deve limitarsi ad effettuare una ricognizione dello
stato dei luoghi e trasmetterne i risultati agli organi competenti ex art.
31 d.p.r. n. 380/2001, per l’adozione degli opportuni provvedimenti.
---------------
9- Il ricorso è invece ammissibile
ed altresì fondato laddove impugna l’ordine del Comando dei vigili urbani
–contenuto nel verbale– di non demolire, basato sul presupposto che siano
decorsi i prescritti 90 giorni per la demolizione.
In effetti l’atipico ordine "di non toccare assolutamente i manufatti
oggetto dell'accertamento di inottemperanza" (di cui al Verbale P.M.
13/09/2018 n. 1877), viola il principio per il quale gli atti amministrativi
sono "tipici e nominati" e devono essere adottati nell'esercizio di
uno specifico potere attribuito all'autorità procedente da una precisa norma
di legge (cfr. TAR Trieste, sez. I, 03/12/2014 n. 609; TAR Veneto, sez. III,
31/12/2007 n. 4129 e C.d.S., sez. V, 7/10/2002 n. 5275).
Il principio di tipicità e nominatività degli atti amministrativi trova
fondamento in esigenze legate alla tutela del principio di legalità a
garanzia che ad ogni interesse pubblico vada correlato uno specifico potere
in capo all’amministrazione in modo da determinare, in esito al
procedimento, un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato
concretamente perseguito (cft. C.d.S., sez. VI, 13/09/2010 n. 6554); e ciò
vale soprattutto per "gli atti incidenti negativamente sui terzi" (cfr.
TAR Genova, sez. I, 12/03/2009 n. 305).
Ebbene l'impugnato "ordine di non demolire", in attesa della futura
acquisizione e in assenza di una delibera comunale che dichiari la
sussistenza di interesse pubblico al mantenimento dell’opera, è un
provvedimento non previsto da alcuna norma di legge, dal che la sua
illegittimità o meglio la sua nullità, per l’assenza nell’ordinamento di una
norma attributiva di simili poteri all’amministrazione nella specifica fase
di cui si discute.
Infatti, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 prevede un'articolata disciplina
per la demolizione delle opere realizzate in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità ovvero con variazioni essenziali.
Dapprima l'autorità comunale ingiunge al proprietario e al responsabile
dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di
un termine di novanta giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale "il
bene e l'area di sedime vengono acquisiti, di diritto e gratuitamente, al
patrimonio del Comune".
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (da tenere
distinto, per come su detto, dal verbale della polizia municipale di
accertamento ricognitivo) costituisce titolo per l'immissione nel possesso e
per la trascrizione nei registri immobiliari; infine, l'opera acquisita è
demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare non
si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che
l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Recentemente la Corte di Cassazione (Cass. pen. Sez. III, Sent., 16.01.2018,
n. 1564) ha chiarito che financo l’acquisizione gratuita al patrimonio, in
assenza di una delibera comunale di dichiarazione dell’interesse pubblico al
mantenimento dell’opera, non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla
possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, in quanto il trasferimento
dell'immobile nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente
preordinato ad una sua più agevole demolizione -il cui onere economico va
posto in ogni caso a carico dei responsabili dell'abuso edilizio- e non
invece ad incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che
contrastano con l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 42698 del
07/07/2015,; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007; Sez. 3, n. 49397 del
16/11/2004); a maggior ragione, la privazione del potere di rimuovere gli
abusi non può discendere da un verbale di accertamento della polizia
municipale, il quale deve limitarsi ad effettuare una ricognizione dello
stato dei luoghi e trasmetterne i risultati agli organi competenti ex art.
31 d.p.r. n. 380/2001, per l’adozione degli opportuni provvedimenti.
Ne consegue l’illegittimità (rectius nullità) del detto verbale nella
specifica parte in cui contiene il detto ordine di non demolire
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 25.06.2019 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre le
varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o
quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato,
tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo
elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al
rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto
il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario
permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate
da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio
originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380 del
2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed
autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni
vigenti al momento di realizzazione della variante.
---------------
Il caso della difformità parziale dal permesso di costruire per le
nuove costruzioni è previsto e regolato dall’art. 34 del TUE
(applicabile anche ai casi di DIA sostitutiva del permesso di costruire ai
sensi dell’art. 22, comma 3, del TUE). Si tratta una categoria residuale, la
cui nozione è stata ulteriormente chiarita dalla giurisprudenza
amministrativa.
Il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento
costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato
dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da
quelle previste e autorizzate a livello progettuale, come si desume in
negativo dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla norma infatti, mentre si è in presenza di difformità totale del
manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione,
quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di
concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si
configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su
elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino
in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture
essenziali dell’opera.
Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro
disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in
parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la
demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione
pecuniaria.
---------------
Il campo di applicazione dell’art. 34 del TUE è stato modificato
dall’articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13.05.2011, n.
70, convertito con modificazioni dalla legge 12.07.2011, n. 106.
In particolare, proprio l’assenza di una compiuta definizione della
categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha
indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle
variazioni non costituenti illecito edilizio.
Si tratta di quegli
scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non
potere essere considerati un illecito edilizio. In particolare, la
difformità parziale è esclusa «in presenza di violazioni di altezza,
distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità
immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali» (comma 2-ter).
L’ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente
circoscritto alla materia edilizia. Non opera, dunque, nel caso di
interventi su immobili “vincolati” eseguiti in difformità dalle
autorizzazioni rilasciate ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Ovviamente, inoltre, la disposizione opera unicamente nei rapporti con
l’amministrazione, senza interferire con i rapporti privatistici di
vicinato.
---------------
1.1.- La disciplina sanzionatoria degli abusi nelle costruzioni contempla
tre fattispecie ordinate secondo la gravità dell’abuso: l’ipotesi di
interventi in assenza di permesso o di totale difformità; l’ipotesi
intermedia di variazioni essenziali dal titolo edilizio; l’ipotesi residuale
della parziale difformità da esso.
1.2.- L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 (di seguito: “TUE”) disciplina
gli abusi più gravemente sanzionati.
L’assenza di permesso consiste nella sua insussistenza oggettiva per l’opera
autorizzata.
Accanto al caso del permesso mai rilasciato, vi sono i casi nei quali il
titolo è stato rilasciato, ma è privo (o è divenuto privo) di effetti
giuridici.
L’art. 31, comma 1, del TUE prevede anche una figura di mancanza sostanziale
del permesso, che si verifica quando vi è difformità totale dell’opera
rispetto a quanto previsto nel titolo, pur sussistente. Si ha difformità
totale, quando sia realizzato un organismo edilizio:
- integralmente diverso per caratteristiche tipologiche architettoniche ed
edilizie;
- integralmente diverso per caratteristiche planovolumetriche, e
cioè nella forma, nella collocazione e distribuzione dei volumi;
- integralmente diverso per caratteristiche di utilizzazione (la
destinazione d’uso derivante dai caratteri fisici dell’organismo edilizio
stesso);
- integralmente diverso perché comportante la costituzione di volumi nuovi
ed autonomi.
1.3.- Accanto alle forme di abuso appena ricordate, l’art. 32 del TUE, -così come prima l’art. 7, comma 2, della legge n. 47 del 1985- regola la
fattispecie dell’esecuzione di opere in «variazione essenziale» rispetto al
progetto approvato. Tale tipo di abuso è parificato, quanto alle
conseguenze, al caso di mancanza di permesso di costruire e di difformità
totale, salvo che per gli effetti penali (le variazioni essenziali sono
infatti soggette alla più lieve pena prevista per l’ipotesi della lettera a,
dell’articolo 44 del TUE).
La determinazione dei casi di variazione essenziale è affidata alle regioni
nel rispetto di alcuni criteri di massima.
In particolare, ai sensi
dell’art. 32, comma 1, del TUE, sussiste variazione essenziale
esclusivamente in presenza di una o più delle seguenti condizioni:
a)
mutamento di destinazione d’uso che implichi variazione degli standards
previsti dal D.M. 02.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o
della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto
approvato, ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di
pertinenza;
d) il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio
assentite;
e) la violazione della normativa edilizia antisismica.
Il comma 2 dell’art. 32 del TUE precisa che «non possono ritenersi comunque
variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature
accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole
unità abitative».
Il concetto di variazione essenziale, che attiene alla modalità di
esecuzione delle opere, va distinto dalle “varianti” che invece riguardano
la richiesta di una variazione del titolo autorizzativo (art. 22, comma 2,
del TUE).
Mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o
quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato,
tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo
elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al
rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto
il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario
permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate
da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio
originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380
del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo
ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le
disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (cfr.
Cassazione penale, sez. III, 27.02.2014, n. 34099).
Nel caso di
variante essenziale il problema si concentra nella necessità o meno di nuovo
titolo, che deve quindi considerare l'eventuale diversa normativa
sopravvenuta; la variante invece si riferisce al titolo originario senza
nuova valutazione della normativa vigente.
...
1.4.- Il caso della difformità parziale dal permesso di costruire per le
nuove costruzioni è invece previsto e regolato dall’art. 34 del TUE
(applicabile anche ai casi di DIA sostitutiva del permesso di costruire ai
sensi dell’art. 22, comma 3, del TUE). Si tratta una categoria residuale, la
cui nozione è stata ulteriormente chiarita dalla giurisprudenza
amministrativa.
Il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento
costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato
dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da
quelle previste e autorizzate a livello progettuale, come si desume in
negativo dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla norma infatti, mentre si è in presenza di difformità totale del
manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione,
quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di
concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si
configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su
elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino
in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture
essenziali dell’opera.
Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro
disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in
parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la
demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione
pecuniaria.
Il campo di applicazione dell’art. 34 del TUE è stato modificato
dall’articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13.05.2011, n.
70, convertito con modificazioni dalla legge 12.07.2011, n. 106.
In particolare, proprio l’assenza di una compiuta definizione della
categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha
indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle
variazioni non costituenti illecito edilizio.
Si tratta di quegli
scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non
potere essere considerati un illecito edilizio. In particolare, la
difformità parziale è esclusa «in presenza di violazioni di altezza,
distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità
immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali» (comma 2-ter).
L’ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente
circoscritto alla materia edilizia. Non opera, dunque, nel caso di
interventi su immobili “vincolati” eseguiti in difformità dalle
autorizzazioni rilasciate ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Ovviamente, inoltre, la disposizione opera unicamente nei rapporti con
l’amministrazione, senza interferire con i rapporti privatistici di vicinato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.06.2019 n. 4331 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
bloccare l'edificabilità del terreno confinante occorre dimostrare il danno.
È il principio sancito dal Consiglio di Stato, Sez. II, con la
sentenza
20.06.2019 n. 4233.
L'interesse a ricorrere contro un provvedimento dell'Amministrazione sorge
in conseguenza della lesione attuale di un interesse sostanziale e tende ad
ottenere un provvedimento del giudice idoneo, se favorevole, a rimuovere
quella lesione (Consiglio di Stato, sentenza n. 4233/2019).
Tale principio è
stato applicato al caso di una confinante che, con ricorso proposto innanzi
al Tribunale Amministrativo Regionale, chiedeva l'annullamento degli atti
amministrativi (e il risarcimento del danno consequenziale) con i quali il
Comune aveva inserito un terreno, ad essa adiacente, nell'area avente
possibilità edificatorie e ne segnalava genericamente "gravissimi
pregiudizi".
Il tribunale accoglieva il secondo motivo del ricorso sostenendo
che «i contenuti del diritto del proprietario hanno anche una dimensione
soggettiva viste soprattutto le caratteristiche della proprietà immobiliare:
il possesso di un'area può avere per il proprietario scopi diversi, tra i
quali possono risiedere pacificamente e maggiormente in una realtà cittadina
o comunque urbanizzata anche i fini di godere di una zona verde per finalità
salutari o ricreative e quindi l'interesse allo sfruttamento meramente
economico della proprietà fondiaria non può ritenersi assoluto».
Avverso a
tal pronuncia ha interposto appello innanzi al Consiglio di Stato, il Comune
il quale lamentava l'inammissibilità del ricorso di primo grado per la
carenza di interesse della ricorrente. Quest'ultima si limitava a dichiarare
un "gravissimo pregiudizio" senza specificare in cosa esso fosse consistito
a fronte di una variazione della disciplina urbanistica che incrementava le
possibilità edificatorie e anche il valore economico dell'area.
Per cui se è
vero che la appellata avrebbe potuto avere un interesse contrario alla
edificazione è vero anche che non aveva prospettato un interesse specifico.
Come ha avuto modo di evidenziare il Consiglio di Stato «il diritto al
ricorso nel processo amministrativo sorge in conseguenza della lesione
attuale di un interesse sostanziale e tende a un provvedimento del giudice
idoneo, se favorevole, a rimuovere quella lesione. Le condizioni soggettive
per agire in giudizio sono la legittimazione processuale, cosiddetta
legittimazione ad agire, e l'interesse a ricorrere».
Quest'ultimo sussiste
quando vi è una lesione della posizione giuridica del soggetto e quando sia
individuabile un'utilità della quale esso fruirebbe per effetto della
rimozione del provvedimento e non sussistano elementi per affermare che
l'azione si consistita in un abuso della tutela giurisdizionale. Condizioni
che l'appellata non aveva dimostrato. La stessa legittimazione al ricorso
veniva in dubbio perché l'appellata non la poteva far derivare dal fatto che
risiedeva nelle immediate vicinanze dell'area "urbanizzata" perché in ogni
caso doveva pur sempre fornire la prova concreta della violazione specifica
inferta dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali il
deprezzamento del valore del bene o la concreta compromissione del diritto
alla salute e all'ambiente.
Se è pur vero che la vicinanza al fondo gli
attribuisce una posizione giuridica qualificata per essere legittimato ad
agire è necessario tuttavia che chi agisce provi in concreto il pregiudizio
concreto patito e patendo (sia esso di carattere patrimoniale o di
deterioramento delle condizioni di vita o di peggioramento dei caratteri
urbanistici che connotano l'area) a cagione dell'intervento edificatorio.
Chiarimenti e prove non fornite: il Consiglio di Stato accoglieva quindi il
ricorso
(articolo del Sole 24 Ore Edilizia & Territorio del 22.07.2019).
---------------
SENTENZA
9.1. Il motivo è fondato.
Difatti, alla luce di quanto risulta dal ricorso di primo grado, non emerge
che la ricorrente abbia prospettato alcun preciso danno scaturente dalla
disciplina urbanistica impugnata, sebbene attributiva di vocazione
edificatoria.
La ricorrente si limita infatti a discorrere di “gravissimo pregiudizio”,
senza specificare in che cosa esso consista a fronte di una variazione della
disciplina urbanistica che ha carattere incrementativo delle possibilità
edificatorie dell’area e quindi del valore economico della stessa. Se è vero
che vi potrebbe essere un interesse contrario all’edificazione è vero anche
che la ricorrente non prospetta alcun interesse specifico, connesso alla
fruibilità dell’ambiente circostante nella sua verginità costruttiva.
Questo Consiglio ha avuto modo di evidenziare che “Il
diritto al ricorso nel processo amministrativo sorge in conseguenza della
lesione attuale di un interesse sostanziale e tende a un provvedimento del
giudice idoneo, se favorevole, a rimuovere quella lesione. Le condizioni
soggettive per agire in giudizio sono la legittimazione processuale,
cosiddetta legittimazione ad agire, e l’interesse a ricorrere”
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.01.2019, n. 508).
L’interesse a ricorrere sussiste, quindi, laddove vi sia una lesione della
posizione giuridica del soggetto, ovvero se sia individuabile un’utilità
della quale esso fruirebbe per effetto della rimozione del provvedimento e
se non sussistano elementi tali per affermare che l’azione si traduca in un
abuso della tutela giurisdizionale. Il ricorrente, proponendo ricorso in
primo grado, aspira al vantaggio pratico e concreto che può ottenere
dall’accoglimento dell’impugnativa, dovendosi postulare che l’atto censurato
abbia prodotto in via diretta una lesione attuale della posizione giuridica
sostanziale dedotta in giudizio.
Come di recente ribadito da questo Consiglio, la lesione da cui deriva, ex
art. 100 c.p.c., l’interesse a ricorrere deve costituire “una conseguenza
immediata e diretta del provvedimento dell’Amministrazione e dell’assetto di
interessi con esso introdotto, deve essere concreta e non meramente
potenziale, e deve persistere al momento della decisione del ricorso” (cfr.
Cons. Stato , sez. V, 29.04.2019, n. 2732).
Non può quindi reputarsi sufficiente quanto evidenziato in sede di ricorso
originario in ordine al fatto che la ricorrente “risiede nelle immediate
vicinanze”.
In ambito urbanistico, il mero criterio della vicinitas
di un fondo o di una abitazione all’area oggetto dell'intervento
urbanistico-edilizio non può ex se radicare la legittimazione al
ricorso, dovendo sempre il ricorrente fornire la prova concreta del vulnus
specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali
il deprezzamento del valore del bene o la concreta compromissione del
diritto alla salute e all'ambiente.
In effetti il criterio della vicinitas, se è idoneo a definire la
sussistenza di una posizione giuridica qualificata e differenziata in
astratto configurabile come interesse legittimo, tuttavia non esaurisce le
condizioni necessarie cui è subordinata la legittimazione al ricorso,
dovendosi da parte di chi ricorre fornire invece la prova del concreto
pregiudizio patito e patiendo (sia esso di carattere patrimoniale o di
deterioramento delle condizioni di vita o di peggioramento dei caratteri
urbanistici che connotano l’area) a cagione dell’intervento edificatorio
(Cons Stato, sez. IV, 15.12.2017, n. 5908). |
APPALTI: Alla
procedura negoziata senza bando può partecipare anche l'appaltatore non
invitato.
Alle procedure negoziate avviate senza l'utilizzo dell'avviso pubblico a
manifestare interesse può partecipare anche l'appaltatore non invitato. È
sufficiente che l'operatore economico sia in possesso dei requisiti
richiesti senza che rilevi la circostanza sul come abbia acquisito
conoscenza del procedimento.
In questo senso, il TAR Sicilia-Catania,
Sez. I,
sentenza
04.06.2019 n. 1380 che esprime alcune considerazioni valide
anche in relazione all'applicazione pratica di alcune norme (in tema di
acquisti sotto la soglia comunitaria) contenute nella legge 55/2019.
La vicenda
Il caso riguarda l'impugnazione di una illegittima esclusione dalla
procedura negoziata per l'affidamento del servizio di gestione e
manutenzione dell'impianto comunale di depurazione delle acque reflue.
L'aspetto principale della questione –di particolare attualità alla luce
delle recenti modifiche introdotte dalla legge 55/2019 di conversione del Dl
32/2019 (pur se non citata nel caso di specie)– ha riguardato la
legittimità o meno della richiesta di partecipazione alla competizione
"semplificata" di un soggetto non invitato che sia comunque venuto a
conoscenza della procedura.
Il ricorrente ha rammentato al giudice la posizione della giurisprudenza
dominante (che non ammette l'estromissione in casi simili) evidenziando come
nessuna norma fa «divieto ad un'impresa non invitata di partecipare ad una
gara di appalto, allorché essa soddisfi tutti i requisiti di partecipazione
richiesti dalla stazione appaltante». Di rilievo, tra l'altro, il fatto che
la stazione appaltante avesse invitato al procedimento di gara imprese
«scelte arbitrariamente, non avendo pubblicato alcun avviso esplorativo, né
attinto da un elenco determinato di imprese, in violazione della legge e
delle linee guida n. 4 dell'ANAC».
Le modifiche della legge 55/2019
La vicenda è interessante in quanto pone l'accento –pur con riferimento a
norme ante modifica apportata dalla recente legge 55/2019– sulle modalità
di procedimento d'appalto condotte sulla falsariga della procedura negoziata
senza pubblicazione di bando in base, quindi, all'articolo 63 del codice dei
contratti (oggi richiamato nell'articolo 36, comma 2, lettere c) e c-bis).
Nel caso della procedura senza previa pubblicazione di bando, l'indagine di
mercato può essere esperita in modo più informale rispetto a quanto previsto
nelle linee guida Anac n. 4 che dettano la disciplina esplicativa del
procedimento di acquisizione in ambito sottosoglia.
Laddove le linee guida
n. 4 impongono la pubblicazione di un avviso per ottenere le manifestazioni
di interesse da cui poi attingere con gli inviti per la partecipazione alla
competizione, il comma 6 dell'articolo 63, nell'indicare l'indagine di
mercato come attività propedeutica per reperire gli operatori da invitare,
non indica particolari formalismi.
In effetti, il comma 6 dell'articolo 63
si limita a evidenziare che il responsabile unico deve desumere dal mercato,
quale attività propedeutica prima di procedere con l'invito degli operatori
economici da far competere, le caratteristiche di qualificazione economica,
finanziarie e tecniche, di professionalità, nel rispetto dei principi di
trasparenza, concorrenza, rotazione, selezionando il numero degli operatori
economici richiesto (sempre se sussistano in quel numero soggetti idonei).
Queste modalità risultano sicuramente meno rigorose e maggiormente
presidiabili dal Rup rispetto alla pubblicazione di uno specifico avviso
pubblico a manifestare interesse che deve contenere più dettagliati
riferimenti al contratto che si intende stipulare (compreso anche lo
stanziamento utilizzabile). Avviso che appare, pertanto, del tutto simile –pur con meno rigore– a un bando di gara.
Conclusioni
Nel caso del procedimento preso in considerazione dal giudice siciliano, non
sussistendo avviso pubblico a manifestare interesse, ogni operatore
economico interessato che ne fosse venuto a conoscenza avrebbe potuto
presentare la propria proposta tecnico/economica e la stazione appaltante
non può deciderne l'esclusione per il semplice fatto di non averlo invitato.
È questo uno degli aspetti che, molto probabilmente, potrà verificarsi
nell'applicazione delle nuove disposizione introdotte dalla legge 55/2019
che, nell'ambito dell'articolo 36 del codice dei contratti –oltre a ridurre
il numero dei preventivi (e conseguentemente degli operatori) da valutare– ha
inteso innestare alcune semplificazioni proprio in relazione alla fase della
scelta degli appaltatori da far competere (soprattutto in tema di lavori)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.07.2019).
----------------
SENTENZA
III. Il ricorso, ad avviso del Collegio, è fondato, sotto l’assorbente
profilo fatto valere dalla ricorrente con il primo motivo di ricorso.
In proposito, il Collegio ritiene di aderire al filone giurisprudenziale
secondo il quale <Qualora l'amministrazione abbia
individuato gli operatori economici idonei a partecipare ad una procedura
negoziata e, pertanto, invitati a partecipare alla stessa, non può negarsi
ad un operatore economico non invitato, che sia comunque venuto a conoscenza
di una simile procedura e che si ritenga in possesso dei requisiti di
partecipazione previsti dalla legge di gara, di presentare la propria
offerta, salvo il potere dell'amministrazione di escluderlo dalla gara per
carenze dell'offerta o degli stessi requisiti di partecipazione ovvero
perché l'offerta non è pervenuta tempestivamente (rispetto alla scadenza del
termine indicata nella lettera di invito agli operatori invitati) e sempre
che la sua partecipazione non comporti un aggravio insostenibile del
procedimento di gara e cioè determini un concreto pregiudizio alle esigenze
di snellezza e celerità che sono a fondamento del procedimento semplificato
delineato dall'art. 122, comma 7, e 57, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006:
conseguentemente anche gli altri partecipanti, in quanto invitati, non
possono dolersi della partecipazione alla gara di un operatore economico e
tanto meno dell'aggiudicazione in favore di quest'ultimo della gara, salva
evidentemente la ricorrenza di vizi di legittimità diversi dal fatto della
partecipazione in quanto non invitato. Una simile interpretazione è conforme
non solo e non tanto al principio del favor partecipationis, costituendo
piuttosto puntuale applicazione dell'altro fondamentale principio di
concorrenza cui devono essere ispirate le procedure ad evidenza pubblica e
rappresentando contemporaneamente anche un ragionevole argine, sia pur
indiretto e meramente eventuale, al potere discrezionale
dell'amministrazione appaltante di scelta dei contraenti
(in termini, TAR Abruzzo, sez. I de L'Aquila, 25/10/2018, n. 397)>.
Tale orientamento convince perché in linea con il principio del favor
per la massima partecipazione, a vantaggio dell’interesse pubblico
all’ampliamento della platea delle imprese in gara ed a quello delle imprese
ad una maggiore concorrenzialità.
Né sussiste alcuna lesione del principio di segretezza delle offerte,
principio che tutela, appunto, la segretezza delle offerte, non
dell’indizione di una gara, soggetto, al contrario, ai principi di
trasparenza e pubblicità degli atti.
Conseguentemente, previo assorbimento degli ulteriori profili di censura, al
cui esame parte ricorrente non mantiene alcun apprezzabile interesse, deve
essere annullata l’esclusione dell’impresa ricorrente e, derivatamente,
l’aggiudicazione in favore della controinteressata, disponendosi, altresì,
l’inefficacia dell’eventuale contratto medio tempore stipulato. |
EDILIZIA PRIVATA: Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di
provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle
medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in
assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti
partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere
necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Invero, <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an
che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del
relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di
demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante
la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>>.
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quanto meno indicare quali sono gli
elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse
ricevuto la comunicazione;
nella specie può farsi applicazione delle disciplina prevista dall’art.
21-octies della l. n. 241/1990 che, al comma 2, prevede che i provvedimenti
a carattere vincolato non sono annullabili per vizi attinenti alla
violazione di norme sulla forma o sul procedimento, quando appaia evidente
che il contenuto dispositivo degli stessi non sarebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato, con conseguente irrilevanza di eventuali
vizi di procedura rilevati da parte ricorrente.
La ratio della richiamata norma si ispira al principio di
conservazione degli atti e di economia processuale, nonché ai principi di
economicità ed efficienza amministrativa, posto che sarebbe inutile e
dispendioso annullare un provvedimento il cui contenuto dovrebbe,
necessariamente, essere riprodotto nella nuova determinazione da assumere.
---------------
In
materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati. Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il
decorso del tempo, l'amministrazione deve senza indugio emanare l'ordine di
demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il
provvedimento deve ritenersi sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo "in re ipsa" l'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Né tanto meno necessita una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di
illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha rilevato che il
decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere
di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma
4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis)
dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal
momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di
adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e
diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al
funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un
atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>>.
Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è
soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine
un atto dovuto e si presenta sufficientemente motivato con l'accertamento
dell'abuso, senza la necessità di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e senza la
possibilità di adottare provvedimenti alternativi, ivi comprese
l’applicazione di sanzioni pecuniarie, che è evenienza configurabile
unicamente in fase esecutiva dell’ordine di demolizione ed unicamente per
ragioni tecniche.
Il richiamo operato alla valutazione del Consiglio Comunale in
ordine alla individuazione di eventuali interessi pubblici è inconferente
nel caso di specie in quanto tale norma si riferisce alla demolizione delle
opere abusive a seguito della mancata spontanea ottemperanza da parte del
privato ingiunto, afferente ad una fase successiva a quella in esame,
allorquando, cioè, debba farsi luogo all’esecuzione d’ufficio, a cura del
Comune ed in danno ed a spese del trasgressore (<<opere per le quali il
responsabile dell’abuso non ha provveduto nel termine previsto alla
demolizione ed al ripristino dei luoghi>>.
Nel presente ricorso, invece, si fa questione della legittimità
dell’ordinanza di demolizione adottata ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001, che, seguendo lo schema della diffida ad adempiere impone la
demolizione al proprietario dell’immobile contestato, per il quale (in
mancanza di formale accertamento della mancata spontanea ottemperanza) non
si è ancora proceduto all’acquisizione ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001.
Infine, in presenza di un’attività doverosa di immediata applicazione della
legge, alcun spazio può esservi per il principio di proporzionalità che
presuppone la possibilità di scelta discrezionale in ogni caso estranea alla
materia de qua; analogamente è estranea al nostro ordinamento ogni
considerazione in ordine ad un eventuale “abuso di necessità” che
possa scriminare il comportamento del trasgressore, come pure dedotto dalla
ricorrente.
---------------
Riguardo alla lamentata omessa comunicazione dell’avviso del procedimento,
superato il datato orientamento giurisprudenziale riferito in gravame,
l’orientamento giurisprudenziale in argomento è ormai costante nel ritenere
che: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di
provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle
medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in
assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti
partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere
necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>>
(cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233; TAR Lazio Roma,
Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); secondo la giurisprudenza: <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an
che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del
relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di
demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante
la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania,
Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR
Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383).
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quanto meno indicare quali sono gli
elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse
ricevuto la comunicazione (cfr. C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737);
nella specie può farsi applicazione delle disciplina prevista dall’art.
21-octies della l. n. 241/1990 che, al comma 2, prevede che i provvedimenti
a carattere vincolato non sono annullabili per vizi attinenti alla
violazione di norme sulla forma o sul procedimento, quando appaia evidente
che il contenuto dispositivo degli stessi non sarebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato, con conseguente irrilevanza di eventuali
vizi di procedura rilevati da parte ricorrente.
La ratio della richiamata norma si ispira al principio di
conservazione degli atti e di economia processuale, nonché ai principi di
economicità ed efficienza amministrativa, posto che sarebbe inutile e
dispendioso annullare un provvedimento il cui contenuto dovrebbe,
necessariamente, essere riprodotto nella nuova determinazione da assumere.
...
In
materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati. Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il
decorso del tempo, l'amministrazione deve senza indugio emanare l'ordine di
demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il
provvedimento deve ritenersi sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo "in re ipsa" l'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (Consiglio di Stato, sez. V,
11.07.2014, n. 3568; Consiglio Stato, sez. I, 31.08.2010, n. 3955).
Né tanto meno necessita una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di
illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (Cfr.
ex multis, TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016; TAR Campania,
Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013,
n. 770).
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha rilevato che il
decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere
di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma
4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis)
dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal
momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di
adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e
diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al
funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un
atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>> (Consiglio
di Stato ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è
soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine
un atto dovuto e si presenta sufficientemente motivato con l'accertamento
dell'abuso, senza la necessità di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e senza la
possibilità di adottare provvedimenti alternativi, ivi comprese
l’applicazione di sanzioni pecuniarie, che è evenienza configurabile
unicamente in fase esecutiva dell’ordine di demolizione ed unicamente per
ragioni tecniche.
Inoltre, il richiamo operato alla valutazione del Consiglio Comunale in
ordine alla individuazione di eventuali interessi pubblici è inconferente
nel caso di specie in quanto tale norma si riferisce alla demolizione delle
opere abusive a seguito della mancata spontanea ottemperanza da parte del
privato ingiunto, afferente ad una fase successiva a quella in esame,
allorquando, cioè, debba farsi luogo all’esecuzione d’ufficio, a cura del
Comune ed in danno ed a spese del trasgressore (<<opere per le quali il
responsabile dell’abuso non ha provveduto nel termine previsto alla
demolizione ed al ripristino dei luoghi>>.
Nel presente ricorso, invece, si fa questione della legittimità
dell’ordinanza di demolizione adottata ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001, che, seguendo lo schema della diffida ad adempiere impone la
demolizione al proprietario dell’immobile contestato, per il quale (in
mancanza di formale accertamento della mancata spontanea ottemperanza) non
si è ancora proceduto all’acquisizione ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001.
Infine, in presenza di un’attività doverosa di immediata applicazione della
legge, alcun spazio può esservi per il principio di proporzionalità che
presuppone la possibilità di scelta discrezionale in ogni caso estranea alla
materia de qua; analogamente è estranea al nostro ordinamento ogni
considerazione in ordine ad un eventuale “abuso di necessità” che
possa scriminare il comportamento del trasgressore, come pure dedotto dalla
ricorrente (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2019 n. 2879 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
sanzione della demolizione si applica per il solo fatto della realizzazione
di un’opera senza che sia stata preceduta dal rilascio del titolo abilitativo edilizio, indipendentemente dalla esistenza
o meno della conformità urbanistica dell’intervento e, d’altronde, in
mancanza del previo titolo abilitativo e prima di ingiungere la demolizione,
il Comune non ha alcun obbligo di verificare d’ufficio l’astratta sanabilità
delle opere.
A ciò aggiungasi che in caso di richiesta di sanatoria, l’onere di provare
la c.d. doppia conformità urbanistica delle opere, sia al momento della loro
realizzazione che all’attualità, è a carico di colui che chiede la sanatoria
(con l’ovvio corollario di provare anche l’epoca di realizzazione dell’abuso
in modo da individuare la normativa cui riferire la doppia conformità in
parola).
All'uopo, per costante giurisprudenza, l'abusività di un'opera edilizia
costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta
sanzione demolitoria, che è un atto vincolato, e non è necessaria alcuna una
puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né alcuna verifica
sull'astratta non sanabilità.
---------------
I provvedimenti repressivi
di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione,
bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un
adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e
di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa
l'insussistenza di un permesso di costruire.
---------------
Trattandosi di attività
doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l'adozione
dell'ordine di demolizione, una motivazione ulteriore rispetto
all'indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti
di fatto contenuti nei verbali accertativi.
---------------
Giova
subito evidenziare che la sanzione della demolizione si applica per il solo
fatto della realizzazione di un’opera senza che sia stata preceduta dal
rilascio del titolo abilitativo edilizio, indipendentemente dalla esistenza
o meno della conformità urbanistica dell’intervento e, d’altronde, in
mancanza del previo titolo abilitativo e prima di ingiungere la demolizione,
il Comune non ha alcun obbligo di verificare d’ufficio l’astratta sanabilità
delle opere; a ciò aggiungasi che in caso di richiesta di sanatoria, l’onere
di provare la c.d. doppia conformità urbanistica delle opere, sia al momento
della loro realizzazione che all’attualità, è a carico di colui che chiede
la sanatoria (con l’ovvio corollario di provare anche l’epoca di
realizzazione dell’abuso in modo da individuare la normativa cui riferire la
doppia conformità in parola); nel caso di specie, parte ricorrente è
limitata apoditticamente ad asserire.
All'uopo, per costante giurisprudenza, l'abusività di un'opera edilizia
costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta
sanzione demolitoria, che è un atto vincolato, e non è necessaria alcuna una
puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né alcuna verifica
sull'astratta non sanabilità (TAR Campania Napoli Sez. VII, 27.05.2013, n.
2755; TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n. 8331).
Ancora parte ricorrente si interroga su come possa avere impatto negativo
sull'assetto paesaggistico circostante senza minimamente valutare in via
preventiva la portata specifica della consistenza e della natura delle opere
realizzate in rapporto all'intero assetto paesaggistico del territorio in
cui le stesse sono inserite ritenendosi, in tal modo, esentato dal
dimostrare espressamente la concreta violazione del vincolo paesaggistico
attraverso l'attività edilizia abusiva realizzata.
Tuttavia le argomentazioni di parte ricorrente non tengono conto che, in
ragione della funzione di tutela preventiva dei valori anche di rilievo
costituzionale, apprestata dal vincolo paesaggistico-ambientale, bastando
l’esistenza di un pregiudizio meramente potenziale, è la sua mera
apposizione che attua la predetta tutela, mentre arbitraria sarebbe ogni
indagine sull’idoneità dell’opera contestata ad incidere in concreto
sull’assetto paesaggistico circostante in argomento anche la giurisprudenza
di questa Sezione avendo già rilevato che: <<I provvedimenti repressivi
di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione,
bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un
adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali
e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa
l'insussistenza di un permesso di costruire>> (TAR Campania, Napoli,
sez. III, 22/10/2015, n. 4968).
Il territorio del Comune di Torre del Greco è assoggettato (tra gli altri)
al “vincolo idrogeologico di cui all’art. 1 del R.D. 30.12.1923, n. 3267
per le parti di bacino idrogeologico dei lagni vesuviani” e, pertanto, è
obbligatorio ottenere lo svincolo idrogeologico dell’area per poter
acquisire il permesso di costruire, mentre, nel caso di specie, il
ricorrente ha totalmente omesso di acquisire qualsiasi titolo edilizio e
nulla osta presupposto la qual cosa rende abusive le opere realizzate.
Pertanto la demolizione di nuove opere realizzate senza autorizzazione
paesaggistica in zone vincolate si presenta come doverosa sia che
venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e
non vede le sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità
assoluta.
...
Invero,
nel provvedimento impugnato l'Amministrazione comunale, conformemente a
quanto ampiamente affermato in giurisprudenza, attraverso il provvedimento
gravato, ha fornito un'ampia e puntuale descrizione degli abusi perpetrati
sul suolo de quo, indicando nel contempo anche i parametri normativi di
riferimento; trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non
occorre, per giustificare l'adozione dell'ordine di demolizione, una
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al
riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei
verbali accertativi (TAR Campania Napoli, sez. IV, 23.04.2015, n. 2309; sez.
VII, 03.03.2009, n. 1209) (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2019 n. 2879 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
ordine alla questione relativa alla prova della data di ultimazione
dell’opera per la quale viene chiesto il condono, occorre rammentare
l’insegnamento secondo il quale <<incombe su chi richiede di
beneficiare di un condono edilizio l'onere di provare che l'opera è stata
realizzata in epoca utile per fruire del beneficio, in quanto, mentre
l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la
situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla
normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la
documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente
realizzato entro la data prevista. Anche in presenza di dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali
risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta
dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può
assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non
si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei
lavori>>.
---------------
Con riguardo alla specifica questione della rilevanza della “dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà”, quanto appena ricordato trova conferma
nelle ulteriori pronunce che hanno sottolineato come <<…né una mera
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà può rappresentare una prova
esaustiva della data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire
l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità amministrativa il
compito di fornire la dimostrazione dell'ultimazione dei lavori in una data
successiva a quella dichiarata dall'interessato. Ne consegue che, di fronte
a circostanze che, pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il
ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma rispetto
a quella prevista dalla legge e dichiarata nella domanda di condono, il
richiedente non è liberato dall'onere di fornire congrui elementi probatori
che siano in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di
realizzazione del manufatto, in difetto dei quali resta integro il potere
dell'Amministrazione di negare la sanatoria>>.
Ancora, <<nel processo amministrativo non è utilizzabile la dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà in quanto, sostanziandosi in un mezzo
surrettizio per introdurre la prova testimoniale (che ora può essere
ammessa, su istanza di parte, ai sensi dell' art. 63, comma 3, c.p.a., in
forma scritta, ai sensi del codice di procedura civile), non possiede alcun
valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire
l'attività istruttoria dell'amministrazione>>.
---------------
Al
riguardo, in ordine alla questione relativa alla prova della data di
ultimazione dell’opera per la quale viene chiesto il condono, occorre
rammentare l’insegnamento secondo il quale <<incombe su chi richiede di
beneficiare di un condono edilizio l'onere di provare che l'opera è stata
realizzata in epoca utile per fruire del beneficio, in quanto, mentre
l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la
situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla
normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la
documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente
realizzato entro la data prevista. Anche in presenza di dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali
risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta
dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può
assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non
si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei
lavori>> (C. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4168).
Con riguardo alla specifica questione della rilevanza della “dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà”, quanto appena ricordato trova conferma
nelle ulteriori pronunce che hanno sottolineato come <<…né una mera
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà può rappresentare una prova
esaustiva della data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire
l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità amministrativa il
compito di fornire la dimostrazione dell'ultimazione dei lavori in una data
successiva a quella dichiarata dall'interessato. Ne consegue che, di fronte
a circostanze che, pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il
ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma rispetto
a quella prevista dalla legge e dichiarata nella domanda di condono, il
richiedente non è liberato dall'onere di fornire congrui elementi probatori
che siano in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di
realizzazione del manufatto, in difetto dei quali resta integro il potere
dell'Amministrazione di negare la sanatoria>> (TAR Campania, sez. III,
10/07/2018, n. 4579; nello stesso senso, TAR Sardegna, sez. II,
06/06/2018, n. 550).
Ancora, <<nel processo amministrativo non è utilizzabile la dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà in quanto, sostanziandosi in un mezzo
surrettizio per introdurre la prova testimoniale (che ora può essere
ammessa, su istanza di parte, ai sensi dell' art. 63, comma 3, c.p.a., in
forma scritta, ai sensi del codice di procedura civile), non possiede alcun
valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire
l'attività istruttoria dell'amministrazione>> (C. Stato, sez. IV,
22/08/2018, n. 5030) (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 06.05.2019 n. 409 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Indebito
arricchimento verso la Pubblica Amministrazione per attività svolta dal
professionista senza contratto scritto.
L'indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al
professionista che abbia svolto la propria attività a favore della pubblica
amministrazione, ma in difetto di un contratto scritto, non può essere
determinato, neppure indirettamente quale parametro, in base alla tariffa
professionale che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse svolto
la sua opera a favore d'un privato, né in base all'onorario che la p.a.
avrebbe dovuto pagare, se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto
d'un contratto valido.
---------------
5. Con il secondo motivo, l'Agenzia ricorrente censura la sentenza
impugnata per violazione dell'art. 2041 c.c., nonché per insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (in
relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), per avere la corte territoriale
erroneamente ritenuto corretta la determinazione dell'indennità a titolo di
arricchimento senza causa sulla base delle tariffe professionali prodotte in
giudizio dagli attori (rectius, della parcella professionale redatta
e vistata dal competente ordine professionale), e non già sulla base
dell'effettivo impoverimento dagli stessi subiti a seguito della prestazione
svolta nell'interesse della pubblica amministrazione.
6. Con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata
per violazione dell'art. 18 della legge n. 109/1994; dell'art. 4, co. 12-bis,
del d.l. n. 65/1989 conv. nella legge n. 155/1989; dell'art. 6 della legge n.
404/1977 e della Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici del 12/11/1987,
nonché per omessa motivazione circa un fatto decisivo controverso (in
relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), per avere la corte territoriale
trascurato di tener conto, ai fini della determinazione dell'indennità ex
art. 2041 c.c., delle norme richiamate in epigrafe, nonché per aver
riconosciuto, in favore delle controparti, somme a titolo di rimborso-spese
non adeguatamente documentate in conformità alle previsioni di legge.
7. Il secondo motivo è fondato e suscettibile di assorbire la
rilevanza del terzo.
8. Osserva il Collegio come, secondo l'orientamento fatto
proprio dalle Sezioni Unite di questa Corte, in tema di azione d'indebito
arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione, conseguente
all'assenza di un valido contratto di appalto d'opera tra la pubblica
amministrazione e un professionista, l'indennità prevista dall'art. 2041
c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita
dall'esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con
esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante
se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace
(Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, Rv. 606124 - 01).
9. Pertanto, ai fini della determinazione dell'indennizzo
dovuto al professionista non possono essere assunte come parametro le
tariffe professionali (ancorché richiamate da parcelle vistate dall'ordine
competente), alle quali può ricorrersi solo quando le prestazioni siano
effettuate dal professionista in base un valido contratto d'opera con il
cliente (Sez. U, Sentenza n. 1875
del 27/01/2009, Rv. 606124 - 01, cit.).
10. Il richiamato insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (che
questo Collegio integralmente condivide e fa proprio, al fine di assicurarne
continuità, in consonanza con il successivo orientamento confermativo
assunto da Sez. 3, Sentenza n. 19886 del 06/10/2015, Rv. 637195 - 01) ha con
ampia motivazione dimostrato per quali ragioni la opposta tesi sia
insostenibile.
11. Dall'affermazione secondo cui l'indennizzo dovuto all'impoverito, ai
sensi dell'art. 2041 c.c., non possa comprendere il lucro che questi avrebbe
realizzato se il contratto stipulato con la p.a. fosse stato valido ed
efficace, la giurisprudenza successiva ha tratto il necessario corollario
secondo cui l'impoverimento non può essere determinato (neppure
indirettamente quale parametro: cfr. Sez. U, Sentenza n. 1875 del
27/01/2009, cit., in motivazione, là dove richiama Sez. 2, Sentenza n. 9243
del 12/07/2000, Rv. 538406 - 01) sulla base della tariffa professionale
applicabile alle prestazioni eseguite dall'impoverito. Applicare quella
tariffa, infatti, significherebbe accordargli un indennizzo esattamente pari
a quanto avrebbe avuto diritto di pretendere dalla pubblica amministrazione
nell'ipotesi di stipula con essa d'un contratto valido (così si sono
pronunciate Sez. U, Sentenza n. 1875 del 27/01/2009, Rv. 606124; nello
stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 3905 del 18/02/2010, Rv. 611568; Sez. 3,
Sentenza n. 23780 del 07/11/2014, Rv. 633449; Sez. 3, Sentenza n. 19886 del
06/10/2015, Rv. 637195 - 01).
12. Questo Collegio non ignora che, dopo l'intervento delle Sezioni Unite,
alcune decisioni delle singole sezioni di questa Corte sono tornate ad
affermare che la tariffa professionale possa essere utilizzata per la stima
dell'indennizzo dovuto, ex art. 2041 c.c., a chi abbia lavorato per la
pubblica amministrazione senza la previa stipula d'un contratto scritto.
13. Tali decisioni, tuttavia non possono essere affatto condivise.
14. Non può essere condivisa, in primo luogo, la decisione pronunciata da
Sez. 1, Sentenza n. 19942 del 29/09/2011, Rv. 619548: sia perché si pone in
contrasto inconsapevole con la pronuncia delle Sezioni Unite sopra ricordata
(nonché con Sez. U, Sentenza n. 23385 del 11/09/2008, Rv. 604467 - 01),
senza spendere una parola per motivare la propria opinione dissenziente; sia
soprattutto perché l'affermazione del principio (secondo cui l'indennizzo
può essere liquidato in base alle tariffe professionali) è compiuta in modo
apodittico e non corredato da ragioni giustificatrici.
15. Per le stesse ragioni non può essere condiviso il decisum di Sez.
3, Sentenza n. 26193 del 06/12/2011 (non massimata) e di Sez. 6 - 1,
Ordinanza n. 351 del 10/01/2017 (Rv. 642780 - 01): anch'esse infatti
ignorano di fatto le indicazioni delle Sezioni Unite e non sono sorrette da
alcuna approfondita motivazione.
16. Non costituisce, invece, una dissenting opinion rispetto alle
decisioni delle Sezioni Unite sopra ricordate la sentenza pronunciata da
Sez. 1, Sentenza n. 21227 del 14/10/2011, Rv. 619902.
Nel caso ivi deciso, infatti, il giudice di merito aveva negato la
possibilità di liquidare l'indennizzo ex art. 2041 c.c. in base alla tariffa
professionale, e la Corte di cassazione ritenne che "tale ratio decidendi
[fosse] da condividersi".
17. È appena il caso di rilevare come le opinioni dissenzienti appena
ricordate, oltre che isolate, neppure avrebbero potuto essere ritualmente
pronunciate, ostandovi il divieto di cui all'art. 374, co. 3, c.p.c.
(secondo cui "se la sezione semplice ritiene di non condividere il
principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime,
con ordinanza motivata, la decisione del ricorso").
18. Essendosi il giudice a quo espressamente uniformato
all'orientamento fatto proprio da Sez. 1, Sentenza n. 19942 del 29/09/2011,
Rv. 619548 (qui motivatamente confutato), in accoglimento del secondo motivo
del ricorso (rigettato il primo ed assorbito il terzo), dev'essere disposta
la cassazione della sentenza impugnata, con il conseguente rinvio alla Corte
d'appello di Roma, in diversa composizione, cui è rimesso di provvedere,
sulla base degli elementi di fatto acquisiti al processo, alla decisione
dell'odierna controversia in applicazione del seguente principio di diritto:
"L'indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al
professionista che abbia svolto la propria attività a favore della pubblica
amministrazione, ma in difetto di un contratto scritto, non può essere
determinato, neppure indirettamente quale parametro, in base alla tariffa
professionale che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse svolto
la sua opera a favore d'un privato, né in base all'onorario che la p.a.
avrebbe dovuto pagare, se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto
d'un contratto valido"
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza
04.04.2019 n. 9317). |
INCARICHI PROGETTUALI: Alla
CGUE l’individuazione degli operatori economici che possono partecipare alle
gare per l’affidamento dei servizi di architettura e ingegneria.
Il Tar per il Lazio rimette alla Corte di giustizia UE il quesito
interpretativo diretto a verificare se il diritto europeo osti a una
normativa nazionale che non consente di partecipare alle gare per
l’affidamento dei servizi di architettura e ingegneria agli operatori
economici che eroghino tali prestazioni facendo ricorso a forme diverse da
quelle indicate dal legislatore nazionale
----------------
Contratti pubblici – Affidamento servizi di architettura e ingegneria –
Operatori economici – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE
Deve essere rimesso alla Corte di giustizia UE il
seguente quesito interpretativo: se il combinato disposto del “considerando”
n. 14 e degli articoli 19, comma 1, e 80, comma 2, della Direttiva
2014/24/UE ostino ad una norma come l’art. 46 del Decreto Legislativo n. 50
del 18 aprile 2016, a mezzo del quale l’Italia ha recepito nel proprio
ordinamento le Direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE, che consente
ai soli operatori economici costituiti nelle forme giuridiche ivi indicate
la partecipazione alle gare per l’affidamento dei “servizi di architettura
ed ingegneria”, con l’effetto di escludere dalla partecipazione a tali gare
gli operatori economici che eroghino tali prestazioni facendo ricorso ad una
diversa forma giuridica (1).
----------------
(1) I. – Il Tar per
il Lazio, con l’ordinanza in rassegna, ha rinviato alla Corte di giustizia
UE la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità con il diritto
europeo della normativa interna nella parte in cui consente ai soli
operatori economici costituiti nelle forme giuridiche indicate dall’art. 46
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, c.d. codice dei contratti pubblici, di partecipare
alle gare per l’affidamento dei servizi di architettura ed ingegneria.
II. – Una fondazione di diritto privato, costituita ai sensi
dell’art. 14 c.c., desiderando partecipare a gare d’appalto indette da
amministrazioni locali per l’affidamento del servizio di classificazione del
territorio in base al rischio sismico, trasmetteva all’Anac il modulo
necessario per essere iscritta nell’elenco dei soggetti ammessi a
partecipare alle gare per l’affidamento di servizi di architettura e
ingegneria, previsto dall’art. 46 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Tuttavia, l’Anac, nel respingere la relativa richiesta, osservava che le
fondazioni non rientrano tra i soggetti previsti dall’art. 46, primo comma,
d.lgs. n. 50 del 2016, precisando che i soggetti tenuti agli obblighi di
comunicazione dei propri dati all’Autorità sono solo quelli previsti
dall’art. 6 del decreto 02.12.2016, n. 263 del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti. La ricorrente proponeva quindi ricorso
avverso tale nota.
III. – Con l’ordinanza in rassegna, il collegio, dopo aver
analizzato la normativa interna ed europea, ha osservato che:
a) con riferimento al diritto nazionale:
a1) l’art. 46 d.lgs. n. 50 del 2016 individua gli operatori economici che
possono partecipare alle gare per l’affidamento dei contratti;
a2) il citato d.m. n. 263 del 2016 disciplina in maniera differenziata i
soggetti che intendono partecipare a gare per l’affidamento di servizi di
architettura e ingegneria, distinguendo i vari operatori economici in “professionisti
singoli o associati”, “società di professionisti”, “società di
ingegneria”, “raggruppamenti temporanei” e “consorzi stabili di
società di professionisti e di società di ingegneria e dei GEIE”, ponendo
per ciascuno di essi l’obbligo di inserire ed indicare, nell’organigramma, i
soggetti impiegati per funzioni professionali e tecniche;
a3) i servizi attinenti alla sismologia e alla classificazione del
territorio in base al rischio sismico rientrano, a tutti gli effetti, nel
concetto di servizi di architettura e ingegneria e altri servizi tecnici di
cui all’art. 3, comma 1, lett. vvvv), d.lgs. n. 50 del 2016;
a4) l’art. 45 d.lgs. n. 50 del 2016 accoglie una concezione molto vasta di
operatore economico tale da potervi astrattamente includere anche gli enti
senza scopo di lucro;
a5) tuttavia, il citato art. 46 stabilisce che alle gare per l’affidamento
dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria sono ammesse solo
persone fisiche che rendono tali servizi a titolo professionale ovvero
società di ingegneria o comunque società costituite tra simili
professionisti; deve trattarsi di società con finalità di lucro costituite
ai sensi del Libro V del Codice civile. Possono poi concorrere i gruppi
europei di interesse economico, ovvero raggruppamenti temporanei o consorzi
stabili, costituiti comunque tra società di ingegneria o società regolate
dal Libro V del Codice civile italiano;
a6) il citato art. 46 –norma speciale rispetto all’art. 45– quindi, non
include le fondazioni e, in generale, gli enti senza scopo di lucro tra i
soggetti ammessi a partecipare alle gare per l’affidamento dei servizi in
questione. Tale interpretazione è confermata dal d.m. n. 263 del 2016 che,
nell’indicare i requisiti che devono possedere i soggetti che intendono
partecipare a gare per l’affidamento dei detti servizi, prende in
considerazione solo i soggetti indicati dall’art. 46;
a7) la limitazione posta dal legislatore interno si può spiegare con la
delicatezza dei servizi in questione, l’elevata professionalità richiesta
per garantirne la qualità e la presunzione che i soggetti che erogano tali
servizi in via continuativa a titolo professionale e remunerato siano
maggiormente affidabili per la continuità della pratica e dell’aggiornamento
professionale;
b) con riferimento al diritto europeo, la direttiva 2014/24/UE prevede tra
l’altro che:
b1) al “considerando” n. 14, “la nozione di «operatori economici»
dovrebbe essere interpretata in senso ampio, in modo da comprendere
qualunque persona e/o ente che offre sul mercato la realizzazione di lavori,
la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi, a prescindere dalla
forma giuridica nel quadro della quale ha scelto di operare. Pertanto
imprese, succursali, filiali, partenariati, società cooperative, società a
responsabilità limitata, università pubbliche o private e altre forme di
enti diverse dalle persone fisiche dovrebbero rientrare nella nozione di
operatore economico, indipendentemente dal fatto che siano «persone
giuridiche» o meno in ogni circostanza”;
b2) all’art. 19, primo comma, “Gli operatori economici che, in base alla
normativa dello Stato membro nel quale sono stabiliti, sono autorizzati a
fornire la prestazione di cui trattasi, non possono essere respinti soltanto
per il fatto che, secondo la normativa dello Stato membro nel quale è
aggiudicato l’appalto, essi avrebbero dovuto essere persone fisiche o
persone giuridiche. Tuttavia, per gli appalti pubblici di servizi e di
lavori nonché per gli appalti pubblici di forniture che comportano anche
servizi o lavori di posa in opera e di installazione, alle persone
giuridiche può essere imposto d’indicare, nell’offerta o nella domanda di
partecipazione, il nome e le qualifiche professionali delle persone
incaricate di fornire la prestazione per l’appalto di cui trattasi”;
b3) all’art. 80, secondo comma, “L’ammissione alla partecipazione ai
concorsi di progettazione non può essere limitata: al territorio di un solo
Stato membro o a una parte di esso; dal fatto che i partecipanti, secondo il
diritto dello Stato membro in cui si svolge il concorso, debbano essere
persone fisiche o persone giuridiche…”;
c) durante la vigenza della direttiva 2004/18/CE, con riferimento all’art.
34 del d.lgs. n. 163 del 2006, la Corte di giustizia CE, sezione IV,
23.12.2009, C-305/08, Cons. naz. interuniversitario scienze mare c. Reg.
Marche (Urbanistica e appalti, 2010, 551, con nota di DE PAULI; Appalti &
Contratti, 2010, fasc. 1, 96, con nota di DE NARDI; Foro amm.-Cons. Stato,
2009, 2776; Giurisdiz. amm., 2009, III, 970; Dir. pubbl. comparato ed
europeo, 2010, 861, con nota di DORACI; Dir. e pratica amm., 2010, fasc. 5,
48, con nota di PETULLÀ; Rass. avv. Stato, 2010, fasc. 1, 54; Arch. giur. oo.
pp., 2010, 207; Riv. amm. appalti, 2010, 51; Raccolta, 2009, I, 12129) ha
ritenuto che le norme europee dovevano essere interpretate nel senso che:
c1) consentono a soggetti che non perseguono un preminente scopo di lucro,
non dispongono della struttura organizzativa di un’impresa e non assicurano
una presenza regolare sul mercato, quali le università e gli istituti di
ricerca nonché i raggruppamenti costituiti da università e amministrazioni
pubbliche, di partecipare a un appalto di servizi;
c2) ostano a una normativa nazionale che vieti a soggetti che non perseguono
un preminente scopo di lucro di partecipare a una procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico, benché siffatti soggetti siano
autorizzati dal diritto nazionale ad offrire sul mercato i servizi oggetto
dell’appalto considerato;
d) l’ampio concetto di operatore economico disegnato dalla Corte di
giustizia risulta accolto dal legislatore italiano nell’art. 45 d.lgs. n. 50
del 2016, che ha tuttavia adottato un concetto più ristretto per
l’affidamento dei servizi di architettura ed ingegneria;
e) la giurisprudenza europea riguarda una norma di portata generale, ma può
dubitarsi del fatto che tale principio debba trovare sempre automatica
applicazione o se, invece, possa essere derogato in taluni specifici casi;
f) il tenore letterale degli artt. 19, comma 1, e 80, comma 2, della
direttiva 2014/24/UE sembra implicitamente lasciare spazio alla possibilità
che uno Stato membro possa circoscrivere la partecipazione solo a persone
fisiche o a determinate persone giuridiche, peraltro precisando che
l’operatore economico straniero, autorizzato nel proprio paese ad erogare la
prestazione oggetto di gara sotto una diversa forma giuridica, debba
comunque essere ammesso alla gara;
g) pertanto, sembra possibile ritenere che la direttiva 2014/24/UE abbia
lasciato agli Stati membri la possibilità di adottare, con riferimento a
determinate prestazioni, un concetto di operatore economico circoscritto,
includente solo determinate forme giuridiche;
h) con riferimento all’interesse transfrontaliero della questione,
h1) operatori economici stranieri potrebbero sentirsi obbligati, al fine di
concorrere a questo tipo di gare indette da un’amministrazione
aggiudicatrice italiana, a stabilirsi preventivamente in Italia, assumendo
una delle forme giuridiche indicate dall’art. 46 d.lgs. n. 50 del 2016;
h2) l’esclusione di alcuni operatori economici nazionali dalla possibilità
di partecipare alle gare per l’affidamento dei servizi di architettura ed
ingegneria è comunque idonea a creare un effetto distorsivo della
concorrenza rispetto ad una tipologia di servizi che rappresenta un settore
di indubbio interesse anche per gli operatori economici stranieri.
IV. – Per completezza si segnala che:
i) con riferimento alla nozione di operatore economico nella giurisprudenza
europea, si veda Corte di giustizia CE, sezione IV, 23.12.2009, C-305/08
Cons. naz. interuniversitario scienze mare c. Reg. Marche, cit., secondo
cui, tra l’altro:
i1) “la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che essa
osta all'interpretazione di una normativa nazionale che vieti a soggetti
che, come le università e gli istituti di ricerca, non perseguono un
preminente scopo di lucro, di partecipare a una procedura di aggiudicazione
di un appalto pubblico, benché siffatti soggetti siano autorizzati dal
diritto nazionale ad offrire sul mercato i servizi oggetto dell'appalto
considerato”;
i2) “le disposizioni della direttiva del parlamento europeo e del
consiglio 31.03.2004, 2004/18/Ce, relativa al coordinamento delle procedure
di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di
servizi, ed in particolare quelle di cui al suo art. 1, n. 2, lett. a), e 8,
1º e 2º comma, che si riferiscono alla nozione di «operatore economico»,
devono essere interpretate nel senso che consentono a soggetti che non
perseguono un preminente scopo di lucro, non dispongono della struttura
organizzativa di un'impresa e non assicurano una presenza regolare sul
mercato, quali le università e gli istituti di ricerca nonché i
raggruppamenti costituiti da università e p.a., di partecipare ad un appalto
pubblico di servizi”;
j) con riferimento alla fornitura dei servizi di trasporto sanitario di
urgenza ed emergenza si vedano:
j1)
Cons. Stato, sezione III, ordinanza 05.11.2018, n. 6264 (oggetto
della
News US, in data 15.11.2018, alla quale si rinvia per ulteriori
approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali), secondo cui vanno rimesse
alla Corte di giustizia UE “le seguenti questioni pregiudiziali: se, nel
caso in cui le parti sono entrambi enti pubblici, il 28° considerando,
l’art. 10 e l’art. 12, par. 4, della direttiva 2014/24/UE ostino alla
applicabilità di una norma nazionale (quale l’art. 5, in combinato disposto
con gli artt. 1, 2, 3 e 4, della legge della Regione Veneto n. 26 del 2012)
che, per l’affidamento del servizio di trasporto ordinario dei pazienti in
ambulanza, impone –anziché meramente facoltizzare– il convenzionamento tra
diversi enti pubblici, secondo lo schema del partenariato c.d.
pubblico-pubblico (di cui al predetto art. 12, par. 4, ed agli artt. 5,
comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016 e 15 della legge n. 241 del 1990), in
luogo dello svolgimento di una gara ad evidenza pubblica; se, nel caso in
cui le parti sono entrambi enti pubblici, il 28° considerando, l’art. 10 e
l’art. 12, par. 4, della direttiva 2014/24/UE ostino alla applicabilità
delle richiamate disposizioni della legge della Regione Veneto n. 26 del
2012, sulla base del partenariato pubblico-pubblico di cui al predetto art.
12, par. 4, ed agli artt. 5, comma 6, del d.lgs. 50/2016 e 15 della legge
241/1990, nel limitato senso di obbligare la stazione appaltante ad
esternare la motivazioni della scelta di affidare il servizio di trasporto
sanitario ordinario mediante gara, anziché mediante convenzionamento diretto”;
j2) Corte di giustizia UE, sezione V, 28.01.2016, C-50/14, Casta (in Foro
it., 2016, IV, 142, nonché in Guida al dir., 2016, 9, 104, con nota di
CASTELLANETA), secondo cui “qualora uno Stato membro consenta alle
autorità pubbliche di ricorrere direttamente ad associazioni di volontariato
per lo svolgimento di determinati compiti, un’autorità pubblica che intenda
stipulare convenzioni con associazioni siffatte non è tenuta, ai sensi del
diritto dell’Unione, a una previa comparazione delle proposte di varie
associazioni” e che, qualora dette associazioni siano altresì
autorizzate, dalla normativa interna, ad esercitare anche determinate
attività commerciali, spetta allo Stato membro di “fissare i limiti entro
i quali le suddette attività possono essere svolte; detti limiti devono
tuttavia garantire che le menzionate attività commerciali siano marginali
rispetto all’insieme delle attività di tali associazioni, e siano di
sostegno al perseguimento dell’attività di volontariato di queste ultime”;
j3) Corte di giustizia UE, 11.12.2014, C-113/13, Asl 5, Spezzino c. Soc.
coop. sociale S. Lorenzo (Giurisdiz. amm., 2014, ant., 489; Foro it., 2015,
IV, 145, con nota di ALBANESE, La Corte di giustizia rimedita sul proprio
orientamento in materia di affidamento diretto dei servizi sociali al
volontariato (ma sembra avere paura del proprio coraggio); Quaderni dir. e
politica ecclesiastica, 2015, 554; Urbanistica e appalti, 2015, 508, con
nota di CARANTA; Ragiusan, 2015, fasc. 369, 74; Rass. dir. farmaceutico,
2015, 198; Dir. comm. internaz., 2015, 809, con nota di GRECO), secondo cui,
tra l’altro, “gli art. 49 Tfue e 56 Tfue devono essere interpretati nel
senso che non ostano ad una normativa nazionale che, come quella in
discussione nel procedimento principale, prevede che la fornitura dei
servizi di trasporto sanitario di urgenza ed emergenza debba essere
attribuita in via prioritaria e con affidamento diretto, in mancanza di
qualsiasi pubblicità, alle associazioni di volontariato convenzionate,
purché l'ambito normativo e convenzionale in cui si svolge l'attività delle
associazioni in parola contribuisca effettivamente alla finalità sociale e
al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza di bilancio su
cui detta disciplina è basata”;
k) osserva ALBANESE, La Corte di giustizia rimedita sul proprio orientamento
in materia di affidamento diretto dei servizi sociali al volontariato (ma
sembra avere paura del proprio coraggio), cit., che:
k1) le pronunce della Corte di giustizia, in passato, erano caratterizzate:
dalla costante affermazione della rilevanza economica dei servizi di
trasporto sanitario di malati, in quanto riferibili a prestazioni offerte
sul mercato, rientrando quindi nell’ambito di applicazione delle direttive
europee sugli appalti; dal fatto che la natura non lucrativa dei soggetti
che erogano i servizi di trasporto sanitario non impedisce che essi vadano
qualificati come imprese quando svolgono attività economiche e che, quindi,
anche ad esse possano essere applicate procedure di selezione per
l’affidamento dei servizi economici di interesse generale previste dalle
direttive europee;
k2) i servizi di trasporto sanitario, di urgenza e non, vengono svolti in
molti paesi europei prevalentemente da organizzazioni di volontariato, in
collaborazione con le amministrazioni pubbliche preposte al settore, con
affidamento in modo diretto e senza procedure selettive aperte agli
operatori economici.
Tale scelta era giustificata dal convincimento che l’attività svolta senza
scopo di lucro e per motivazioni solidaristiche si attagli alle finalità
sociali delle prestazioni erogate meglio di quella di operatori commerciali
e dal presupposto per cui l’azione delle associazioni di volontariato si
pone al di fuori delle dinamiche del mercato, poiché esse non percepiscono
compensi remunerativi, ma solo il rimborso delle spese sostenute;
k3) la giurisprudenza amministrativa, muovendo da tali considerazioni, era
propensa a sostenere l’inammissibilità della partecipazione delle
associazioni di volontariato alle gare di appalto, poiché la gratuità delle
prestazioni che ne caratterizza l’azione le rende strutturalmente
incompatibili con le dinamiche concorrenziali, poiché estranea al mercato;
k4) il presupposto della gratuità dell’attività delle organizzazioni è stato
messo in dubbio dalla giurisprudenza europea che ha spinto i giudici
amministrativi italiani a mutare orientamento;
k5) la sentenza annotata afferma la legittimità della normativa ligure
sottoposta al suo esame che prevedeva che i servizi di trasporto sanitario
venissero affidati prioritariamente alle organizzazioni no profit a
fronte di rimborsi non forfetari, giustificati in base alle spese
effettivamente sopportate.
La sentenza muove dal carattere oneroso dei contratti di riferimento e
asserisce che la natura no profit dei soggetti affidatari dei servizi
non può portare ad escludere l’applicazione delle regole di pubblicità e
selezione dei concorrenti, disposte dalle direttive appalti. Tuttavia, la
Corte, argomentando dalla Costituzione italiana e dalla normativa italiana
che promuove e sostiene il volontariato e le sue finalità, ritiene
sussistenti ragioni che consentono di escludere l’applicazione delle norme
dell’UE poste a tutela della concorrenza;
k6) “il principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., nonché
quello di solidarietà, sottesi alla legislazione che disciplina la
partecipazione delle organizzazioni di volontariato all’erogazione di
servizi sanitari, mirano a realizzare finalità sociali e a garantire
l’accessibilità e l’universalità delle prestazioni destinate a tutelare la
salute pubblica. Esse inoltre concorrono ad assicurare le prestazioni
sociali in condizioni di equilibrio economico di bilancio. «Obiettivi di tal
genere», sostiene con decisione il giudice europeo, «sono presi in
considerazione dal diritto dell’Unione» e l’affermazione non allude
evidentemente soltanto all’efficienza economica e al controllo dei costi,
assicurati dalla presenza delle organizzazioni non profit (pur ripetutamente
ricordati e sottolineati nella motivazione), bensì anche alla necessaria
attuazione delle finalità sociali, cui tende la legislazione richiamata”;
k7) “la corte, in definitiva, nella pronuncia in epigrafe, affermando che
la considerazione di valori quali la solidarietà, la sussidiarietà, le
finalità sociali, possono condurre a ridimensionare la portata delle
garanzie accordate dal diritto Ue alla libertà di prestazione dei servizi,
pone in dubbio anche l’idea che «l’efficienza» prodotta dall’applicazione
rigida delle regole della concorrenza comporti sempre anche il
raggiungimento di risultati di benessere. Anzi, le argomentazioni della
corte sembrano per contro sorrette dalla convinzione che la competizione sul
mercato difficilmente consenta di assicurare tutela adeguata a «beni di
importanza primaria», quali la salute. Altrettanto significativa appare
un’ulteriore conseguenza dell’affermazione secondo cui la partecipazione
delle organizzazioni di volontariato ai servizi in questione contribuisce al
controllo dei costi e all’efficienza economica nell’erogazione di «cure
sanitarie di qualità»: essa sembra a contrariis supporre che le regole
concorrenziali, generalmente invocate a contrasto degli sprechi e dello
sperpero di risorse, non garantiscono sempre e necessariamente tale
risultato”;
k8) anche il diritto europeo lascia quindi uno spazio per gli obiettivi
sociali e per la solidarietà, ma lo fa richiamando esclusivamente il diritto
interno del nostro Stato;
k9) al giudice europeo, tuttavia, è mancato il coraggio di andare fino in
fondo in quanto “con uno scarto notevole rispetto all’affermazione
secondo cui il diritto dell’Unione prende in considerazione «tali
obiettivi», la corte suffraga la legittimità della deroga alla direttiva
appalti, nel caso della legge ligure, ricordando che il diritto Ue riconosce
l’esistenza di uno spazio intangibile di competenza statale
nell’organizzazione dei sistemi di sanità pubblica e previdenziali, nel
quale è consentito ad uno Stato membro di fondare il proprio sistema
sanitario e previdenziale sui valori della solidarietà, anche introducendo
restrizioni (purché giustificate) al godimento da parte degli operatori
economici dell’esercizio delle libertà fondamentali previste dal trattato
per garantire un livello di tutela adeguato ed economicamente sostenibile a
diritti sociali, quali la salute”.
In definitiva “sembra che la Corte di giustizia non riesca a trovare
altro modo per affermare la rilevanza della solidarietà e delle finalità
sociali per il diritto europeo, se non quello di demandarne l’attuazione in
esclusiva agli Stati membri, dichiarando anzi che gli ambiti in cui essi
possono trovare applicazione appartengono alla sfera «riservata» agli Stati,
e così, in definitiva, espellendoli nuovamente dalla sfera di pertinenza del
diritto Ue”;
l) in dottrina, sulle singole categorie di operatori economici qualificati
per l’affidamento di servizi di ingegneria ex art. 46 del d.lgs. n. 50 del
2016 e sugli enti privati senza scopo di lucro quali operatori economici
idonei in generale, si veda R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici,
Bologna, 2017, 393 ss., e 724 ss., la quale precisa tra l’altro che:
l1) l’art. 46, primo comma, lett. a), individua la categoria generale dei
prestatori di servizi di ingegneria e architettura e le tipologie di
prestazioni che rientrano nella loro sfera di attività, mentre nelle
successive lettere viene data una più puntuale definizione di alcune delle
categorie menzionate, ivi compresa quella generale dei prestatori di
servizi;
l2) nel dettaglio, per i soggetti stabiliti in Italia, sono operatori
economici ammessi quelli rientranti nella citata lett. a), mentre per i
soggetti stabiliti in altri Stati membri, gli operatori economici ammessi
devono avere la qualità di prestatore di servizi inerenti l’ingegneria e
l’architettura secondo l’ordinamento di provenienza;
l3) a un decreto ministeriale attuativo è demandata la fissazione dei
requisiti che devono possedere i soggetti di cui all’art. 46, primo comma, e
dei criteri per garantire la presenza di giovani professionisti, in forma
singola o associata, nei gruppi concorrenti ai bandi relativi a incarichi di
progettazione, concorsi di progettazione e di idee;
l4) nella giurisprudenza più
recente si ritiene che gli enti privati senza fine di lucro possano
partecipare alle gare per l’affidamento di appalti pubblici diversi dai
servizi di architettura e ingegneria. L’assenza di fine di lucro non è di
per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici, come costantemente
ritenuto anche dalla giurisprudenza europea.
Nel caso in cui il bando richieda come requisito soggettivo il possesso
dell’iscrizione alla Camera di commercio, di cui tali associazione
normalmente difettano, tale prescrizione si pone, in difetto di impugnazione
e annullamento del bando, come causa ostativa alla partecipazione; nel caso
in cui il bando non dica nulla, si ritiene che il certificato di iscrizione
non sia requisito indefettibile e le amministrazioni possano essere ammesse
alla gara.
Ulteriore questione è quella della disparità di trattamento tra operatori
economici che potenzialmente deriva dalla partecipazione alle gare degli
enti no profit, atteso che normalmente gli enti senza fini di lucro
fruiscono di finanziamenti pubblici di cui non fruiscono gli imprenditori e
che li pongono in condizione di formulare offerte più basse, ma la questione
impone una soluzione caso per caso. In particolare, il diritto comunitario:
non impedisce la partecipazione agli appalti di enti senza scopo di lucro;
consente che possa partecipare a una gara di appalto un soggetto che fruisce
di aiuti di stato, purché tali aiuti siano lecitamente conseguiti; richiede
che sia fornita la prova concreta che l’ente sia in una posizione di
vantaggio;
m) sulla genesi e l’evoluzione dell’art. 46, anche alla luce delle novità
introdotte dal d.l. 18.04.2019, n. 32, “Disposizioni urgenti per il
rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli
interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a
seguito di eventi sismici” (cd. “Sblocca cantieri”), convertito
con modificazioni in
l.
14.06.2019, n. 55 (oggetto della
News normativa, n. 74 del 10.07.2019, alla quale si rinvia per
approfondimenti), e sul carattere derogatorio, rispetto all’art. 45,
dell’elenco dei soggetti abilitati a partecipare alle selezioni per gli
affidamenti dei servizi di architettura e ingegneria, S. TOSCHEI, in
Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. SANDULLLI – R. DE NICTOLIS,
Milano, 2019, I, Fonti e principi, ambito, programmazione e progettazione,
1393
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
ordinanza 28.02.2019 n. 2644 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Il Consiglio di Stato ha già avuto
modo di richiamare l’attenzione sull’importanza del procedimento di
valutazione d’incidenza di piani o progetti che possano avere incidenze
significative su un sito naturale, singolarmente o congiuntamente ad altri
piani e progetti, e tenuto conto degli obiettivi di conservazione del sito
stesso.
La valutazione d’incidenza, per come costantemente interpretata dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia e delle Corti nazionali, si applica
pertanto sia agli interventi che ricadono all’interno delle aree Natura 2000
(e delle Zone di protezione speciale), sia a quelli che, pur collocandosi
all’esterno, possono comportare ripercussioni sullo stato di conservazione
dei valori naturali tutelati nel sito.
L’art. 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43, infatti, subordina il
requisito dell’opportuna valutazione dell’incidenza di un piano o di un
progetto alla condizione che vi sia una probabilità o un rischio che quest’ultimo
pregiudichi significativamente il sito interessato. Tenuto conto, in
particolare, del principio di precauzione, un tale rischio esiste qualora
non possa escludersi, sulla base di elementi obiettivi, che detto piano o
progetto pregiudichi significativamente il sito interessato.
La valutazione del rischio dev’essere effettuata segnatamente alla luce
delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche del sito
interessato da tale piano o progetto.
Nel contesto normativo italiano la valutazione di incidenza (VINCA) viene
disciplinata dall’art. 6 del d.p.r. n. 120/2003, che ha sostituito l’art. 5
del d.p.r. n. 357/1997, di attuazione dei paragrafi 3 e 4 della citata
direttiva “Habitat”.
È specificamente previsto che nella pianificazione e programmazione
territoriale si debba tenere conto della valenza naturalistico-ambientale
dei proposti siti di importanza comunitaria, dei siti di importanza
comunitaria e delle zone speciali di conservazione.
Sono, altresì, da sottoporre a valutazione di incidenza (comma 3), tutti gli
interventi non direttamente connessi e necessari al mantenimento in uno
stato di conservazione soddisfacente delle specie e degli habitat presenti
in un sito Natura 2000, ma che possono avere incidenze significative sul
sito stesso, singolarmente o congiuntamente ad altri interventi.
L’obiettivo di tutela che, pertanto, si prefigge il Legislatore, europeo e
nazionale, è quello massimo di conservazione dei siti, sia in via diretta
(per piani e progetti da ubicarsi all’interno dei siti protetti) sia in via
indiretta (per piani e progetti da ubicarsi al di fuori del perimetro delle
dette aree, ma idonei comunque ad incidere, per le caratteristiche tecniche
del progetto o la collocazione degli impianti o la conformazione del
territorio, sulle caratteristiche oggetto di protezione), con attenzione sia
all’impatto singolo del progetto specificamente sottoposto a valutazione,
sia all’impatto cumulativo che potrebbe prodursi in connessione con altro e
diverso piano o progetto.
---------------
12.5. Pure da accogliere è il quarto motivo di appello, concernente
l’impatto dell’inceneritore sulla conservazione dei siti naturali (aree
naturali protette, zone di protezione speciale e siti di importanza
comunitaria) e l’incidenza dei venti.
In un proprio precedente giurisprudenziale, il Consiglio di Stato (Sezione
IV, sentenza n. 4327 del 2017) ha già avuto modo di richiamare l’attenzione
sull’importanza del procedimento di valutazione d’incidenza di piani o
progetti che possano avere incidenze significative su un sito naturale,
singolarmente o congiuntamente ad altri piani e progetti, e tenuto conto
degli obiettivi di conservazione del sito stesso.
La valutazione d’incidenza, per come costantemente interpretata dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia e delle Corti nazionali, si applica
pertanto sia agli interventi che ricadono all’interno delle aree Natura 2000
(e delle Zone di protezione speciale), sia a quelli che, pur collocandosi
all’esterno, possono comportare ripercussioni sullo stato di conservazione
dei valori naturali tutelati nel sito.
L’art. 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43, infatti, subordina il
requisito dell’opportuna valutazione dell’incidenza di un piano o di un
progetto alla condizione che vi sia una probabilità o un rischio che quest’ultimo
pregiudichi significativamente il sito interessato. Tenuto conto, in
particolare, del principio di precauzione, un tale rischio esiste qualora
non possa escludersi, sulla base di elementi obiettivi, che detto piano o
progetto pregiudichi significativamente il sito interessato.
La valutazione del rischio dev’essere effettuata segnatamente alla luce
delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche del sito
interessato da tale piano o progetto.
Nel contesto normativo italiano la valutazione di incidenza (VINCA) viene
disciplinata dall’art. 6 del d.p.r. n. 120/2003 (in G.U. n. 124 del
30.05.2003), che ha sostituito l’art. 5 del d.p.r. n. 357/1997, di
attuazione dei paragrafi 3 e 4 della citata direttiva “Habitat”.
È specificamente previsto che nella pianificazione e programmazione
territoriale si debba tenere conto della valenza naturalistico-ambientale
dei proposti siti di importanza comunitaria, dei siti di importanza
comunitaria e delle zone speciali di conservazione.
Sono, altresì, da sottoporre a valutazione di incidenza (comma 3), tutti gli
interventi non direttamente connessi e necessari al mantenimento in uno
stato di conservazione soddisfacente delle specie e degli habitat presenti
in un sito Natura 2000, ma che possono avere incidenze significative sul
sito stesso, singolarmente o congiuntamente ad altri interventi.
L’obiettivo di tutela che, pertanto, si prefigge il Legislatore, europeo e
nazionale, è quello massimo di conservazione dei siti, sia in via diretta
(per piani e progetti da ubicarsi all’interno dei siti protetti) sia in via
indiretta (per piani e progetti da ubicarsi al di fuori del perimetro delle
dette aree, ma idonei comunque ad incidere, per le caratteristiche tecniche
del progetto o la collocazione degli impianti o la conformazione del
territorio, sulle caratteristiche oggetto di protezione), con attenzione sia
all’impatto singolo del progetto specificamente sottoposto a valutazione,
sia all’impatto cumulativo che potrebbe prodursi in connessione con altro e
diverso piano o progetto (Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza
14.10.2014, n. 5092).
Alla luce di tale quadro normativo, pertanto, si sarebbero dovuti sentire
gli enti di gestione preposti, valutando l’impatto dell’impianto
singolarmente considerato e cumulativamente rispetto ad altri piani o
progetti, tenuto conto delle concrete caratteristiche dei luoghi (direzione
dei venti)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.01.2019 n. 505 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
consolidato orientamento giurisprudenziale
in ordine all'impugnativa dei titoli edilizi
è nel senso che il termine per impugnare
decorre dal momento in cui divenga
percepibile la piena portata dell'intervento
medesimo, onde poterne apprezzare
l’eventuale lesività dei propri interessi.
Come sostenuto in modo esaustivo da questo
TAR <<… per quanto attiene titoli
edificatori, lo stesso Giudice d’appello ha rilevato che
“il principio secondo cui, ai fini della
decorrenza del termine per l’impugnazione di
una concessione edilizia da parte di un
proprietario di immobile limitrofo occorre
la piena conoscenza della stessa, che si
verifica con la consapevolezza del contenuto
specifico della concessione o del progetto
edilizio ovvero quando la costruzione
realizzata rivela in modo certo e univoco le
essenziali caratteristiche dell’opera, va applicato tenendo conto della
singola fattispecie e alla luce dei motivi
di impugnazione fatti valere dal ricorrente.
Laddove … un soggetto, diverso da quelli cui
l’atto è stato rilasciato, impugni un titolo
edilizio sulla base dell’asserita divergenza
dell’intervento realizzato (o in corso di
realizzazione) con quello astrattamente
autorizzabile in base alla disciplina
urbanistica vigente, deve essere ribadita la
regola di giudizio, secondo cui la
decorrenza del termine per ricorrere in sede
giurisdizionale avverso atti abilitativi
dell’edificazione deve essere collegata alla
data in cui risulti certa la percepibilità
–da parte di chi propone il ricorso– della
concreta entità dell’intervento o della sua
incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica.
Di conseguenza, nel caso d’impugnazione del
titolo edilizio ordinario, il termine di
decadenza −salvo che non venga fornita la
prova certa di una conoscenza anticipata o
successiva del provvedimento abilitativo−
decorre, secondo una consolidata
giurisprudenza, da quando vi sia il
completamento dei lavori e questi siano
visibili, cioè dal momento in cui sia
materialmente apprezzabile la reale portata
dell’intervento in precedenza assentito e
sia dunque giuridicamente configurabile
l’inerzia rispetto alla possibilità di
ricorrere>>.
Altresì, vanno richiamati i principi
elaborati dalla giurisprudenza circa la
decorrenza del termine di impugnazione di
titoli edilizi
in forza dei quali:
“a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia
decorre dalla piena conoscenza del
provvedimento, che ordinariamente s'intende
avvenuta al completamento dei lavori, a meno
che (come nel caso di specie) è data prova
di una conoscenza anticipata da parte di chi
eccepisce la tardività del ricorso;
b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva
proposizione del ricorso laddove si contesti
l’an dell’edificazione;
c) al momento della constatazione della presenza dello scavo è
possibile ricorrere enucleando le censure
(ivi comprese quelle in ordine all'asserito
divieto di nuova edificazione) senza
differire il termine di proposizione del
ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della
pratica di accesso agli atti avviata né, a
monte, che si possa differire quest'ultima;
d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far
differire i termini di proposizione del
ricorso, perché se da un lato, infatti, deve
essere assicurata al vicino la tutela in
sede giurisdizionale dei propri interessi
nei confronti di un intervento edilizio
ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve
parimenti essere salvaguardato l'interesse
del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato
senza indugio e non irragionevolmente
differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni
giuridiche contraria ai principi
ordinamentali".
Se il termine per ricorrere in sede
giurisdizionale contro il rilascio del
titolo abilitativo decorre dalla data in cui
è palese ed oggettivamente apprezzabile la
lesione del bene della vita protetto, ciò si
verifica quando è percepibile dal
controinteressato la concreta entità del
manufatto, la sua effettiva incidenza sulla
propria posizione giuridica e l’eventuale
non conformità alla disciplina urbanistico
edilizia.
---------------
0.1 I controinteressati eccepiscono la
tardività dell’impugnazione degli 8 titoli
abilitativi (concessioni edilizie, permesso
di costruire, certificato di agibilità, DIA,
puntualmente enunciati al paragrafo D
dell’esposizione in fatto), in quanto gli
interventi edilizi assentiti sono stati
ultimati negli anni 2003/2004, e il
confinante non poteva non esserne a
conoscenza; allo stesso modo, le due
autorizzazioni per l’esercizio dell’attività
sono state emesse nel 2000 e nel 2006, e già
a quell’epoca l’esponente ha preso
cognizione dell’avvio (e dello svolgimento)
dell’attività ricettiva.
L’eccezione è fondata.
0.1a Il TAR Campania-Napoli (con sentenza
della sez. III – 21/09/2018 n. 5571, che
risulta appellata) ha sostenuto che il
consolidato orientamento giurisprudenziale
in ordine all'impugnativa dei titoli
edilizi, è nel senso che il termine per
impugnare decorre dal momento in cui divenga
percepibile la piena portata dell'intervento
medesimo, onde poterne apprezzare
l’eventuale lesività dei propri interessi.
Come sostenuto in modo esaustivo da questo
TAR (cfr. sez. I – 18/12/2017 n. 1453) <<…
per quanto attiene titoli edificatori, lo
stesso Giudice d’appello (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 25.10.2017 n. 4931) ha rilevato che
“il principio secondo cui, ai fini della
decorrenza del termine per l’impugnazione di
una concessione edilizia da parte di un
proprietario di immobile limitrofo occorre
la piena conoscenza della stessa, che si
verifica con la consapevolezza del contenuto
specifico della concessione o del progetto
edilizio ovvero quando la costruzione
realizzata rivela in modo certo e univoco le
essenziali caratteristiche dell’opera (ex
plurimis: C.G.A.R.S. Sez. I, 28.05.2007
n. 421; Consiglio Stato Sez. V, 23.09.2005
n. 5033), va applicato tenendo conto della
singola fattispecie e alla luce dei motivi
di impugnazione fatti valere dal ricorrente.
Laddove … un soggetto, diverso da quelli cui
l’atto è stato rilasciato, impugni un titolo
edilizio sulla base dell’asserita divergenza
dell’intervento realizzato (o in corso di
realizzazione) con quello astrattamente
autorizzabile in base alla disciplina
urbanistica vigente, deve essere ribadita la
regola di giudizio, secondo cui la
decorrenza del termine per ricorrere in sede
giurisdizionale avverso atti abilitativi
dell’edificazione deve essere collegata alla
data in cui risulti certa la percepibilità
–da parte di chi propone il ricorso– della
concreta entità dell’intervento o della sua
incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica.
Di conseguenza, nel caso d’impugnazione del
titolo edilizio ordinario, il termine di
decadenza −salvo che non venga fornita la
prova certa di una conoscenza anticipata o
successiva del provvedimento abilitativo−
decorre, secondo una consolidata
giurisprudenza, da quando vi sia il
completamento dei lavori e questi siano
visibili, cioè dal momento in cui sia
materialmente apprezzabile la reale portata
dell’intervento in precedenza assentito e
sia dunque giuridicamente configurabile
l’inerzia rispetto alla possibilità di
ricorrere (cfr. Consiglio di Stato, IV,
23.07.2009, n. 4616; Consiglio di Stato, IV,
10.12.2007, n. 6342)>>.
Nello stesso senso, Cons. Stato, sez. IV,
23.06.2017 n. 3067, che ha richiamato i
principi elaborati dalla giurisprudenza
circa la decorrenza del termine di
impugnazione di titoli edilizi (Cons. Stato,
sez. IV, n. 1135 del 2016 e 4701 del 2016),
in forza dei quali:
“a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia
decorre dalla piena conoscenza del
provvedimento, che ordinariamente s'intende
avvenuta al completamento dei lavori, a meno
che (come nel caso di specie) è data prova
di una conoscenza anticipata da parte di chi
eccepisce la tardività del ricorso;
b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva
proposizione del ricorso laddove si contesti
l’an dell’edificazione;
c) al momento della constatazione della presenza dello scavo è
possibile ricorrere enucleando le censure
(ivi comprese quelle in ordine all'asserito
divieto di nuova edificazione) senza
differire il termine di proposizione del
ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della
pratica di accesso agli atti avviata né, a
monte, che si possa differire quest'ultima;
d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far
differire i termini di proposizione del
ricorso, perché se da un lato, infatti, deve
essere assicurata al vicino la tutela in
sede giurisdizionale dei propri interessi
nei confronti di un intervento edilizio
ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve
parimenti essere salvaguardato l'interesse
del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato
senza indugio e non irragionevolmente
differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni
giuridiche contraria ai principi
ordinamentali".
0.1b Se il termine per ricorrere in sede
giurisdizionale contro il rilascio del
titolo abilitativo decorre dalla data in cui
è palese ed oggettivamente apprezzabile la
lesione del bene della vita protetto, ciò si
verifica quando è percepibile dal
controinteressato la concreta entità del
manufatto, la sua effettiva incidenza sulla
propria posizione giuridica e l’eventuale
non conformità alla disciplina urbanistico
edilizia (TAR Campania-Napoli, sez. VIII –
15/05/2018 n. 3185; Consiglio di Stato, sez.
IV – 17/01/2018 n. 245).
0.1c Nella propria memoria di replica del
27/11/2018, parte ricorrente obietta che la
percezione della lesione patita non può
essere dimostrata in via ipotetica (per cui
il Sig. Ma. “non poteva non sapere”)
occorrendo la prova rigorosa della “piena
conoscenza” da parte di colui che
eccepisce la tardività, che nella
fattispecie non sarebbe stata fornita dai
controinteressati.
Detto ordine di idee non è persuasivo.
0.1d Come sopra sottolineato, la “piena
conoscenza” si realizza in coincidenza
con il completamento dei lavori, mentre la
necessità della “prova” si pone
qualora venga dedotta una conoscenza
anticipata rispetto alla conclusione delle
opere.
Nel caso all’esame, i controinteressati
sostengono che i lavori di ristrutturazione
contestati sono stati ultimati tra il 2003 e
il 2004. La circostanza è comprovata dalle
date delle autorizzazioni all’esercizio
dell’attività (n. 3 del 23/10/2000 e n. 1
del 03/04/2005) e dei certificati di agibilità
(n. 7/2004 e n. 29 del 25/11/2003, pur se il
Comune non dispone di copia di quest’ultimo),
che giuridicamente e logicamente
presuppongono l’intervenuta conclusione
degli interventi.
Rispetto alla scansione temporale indicata
il ricorrente (il quale è pacificamente
proprietario della porzione immobiliare
limitrofa, comprendente il mappale 93) non
poteva non avvedersi con immediatezza
dell’avvenuta realizzazione di un manufatto
con caratteristiche diverse da quelle
originarie, e con una destinazione d’uso
peculiare (ricettiva).
Ciononostante, egli
ha atteso diversi anni per proporre
impugnazione, mentre era suo onere gravare
gli atti abilitativi nel termine decadenziale dall’acquisita conoscenza.
Pertanto, il ricorso proposto contro i
titoli edilizi (n. 8) e le autorizzazioni
all’esercizio dell’attività (n. 2), a circa
7 anni dal rilascio dell’ultimo certificato
di agibilità, è irricevibile per tardività
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.01.2019 n. 70 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Poteri
di controllo sulla legittimazione alla
richiesta del titolo abilitativo.
Il TAR Brescia, con
riferimento ai poteri di controllo sulla
legittimazione alla richiesta del titolo
abilitativo chiarisce che:
- in base all’art. 11, comma 1, del DPR 380/2001, il permesso di
costruire è rilasciato al proprietario
dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo, e tale ultima espressione va
intesa nel senso più ampio di una legittima
disponibilità dell’area, in base ad una
relazione qualificata con il bene, sia essa
di natura reale, o anche solo obbligatoria,
purché, in questo caso, con il consenso del
proprietario;
- il controllo sulla legittimazione all’istanza del titolo
abilitativo va esercitato con serietà e
rigore, dovendo pertanto l’autorità pubblica
accertare che l’istante sia il proprietario
dell'immobile oggetto dell'intervento
costruttivo o che, comunque, abbia un titolo
di disponibilità sufficiente per eseguire
l'attività edificatoria;
- l’onere del Comune è dunque quello ricercare la sussistenza di un
titolo (di proprietà, di altri diritti
reali, etc.) che fonda una relazione
giuridicamente qualificata tra soggetto e
bene oggetto dell’intervento, e che possa
renderlo destinatario di un provvedimento
amministrativo autorizzatorio, senza che
l’Ente locale debba comprovare –prima del
rilascio– la “pienezza” (nel senso di
assenza di limitazioni) del titolo medesimo,
dato che ciò comporterebbe l’attribuzione
all’amministrazione di un potere di
accertamento della sussistenza (o meno) di
diritti reali e del loro “contenuto”, ad
essa non assegnato dall’ordinamento;
- in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste
l’obbligo per il Comune di verificare il
rispetto da parte dell’istante dei limiti
privatistici, a condizione che tali limiti
siano effettivamente conosciuti o
immediatamente conoscibili e/o non
contestati, di modo che il controllo da
parte dell’Ente locale si traduca in una
semplice presa d’atto dei limiti medesimi
senza necessità di procedere ad un’accurata
e approfondita disanima dei rapporti
civilistici, sicché l’amministrazione
normalmente non è tenuta a svolgere indagini
particolari in presenza di una richiesta
edificatoria, salvo che sia manifestamente
riconoscibile l’effettiva insussistenza
della piena disponibilità del bene oggetto
dell’intervento edificatorio in relazione al
tipo di intervento richiesto;
- l’accertamento demandato all’Ente locale va compiuto con serietà
e rigore, e la più recente giurisprudenza,
superando l'indirizzo più risalente, è oggi
allineata nel senso che l'Amministrazione,
quando venga a conoscenza dell'esistenza di
contestazioni sul diritto del richiedente il
titolo abilitativo, debba compiere le
necessarie indagini istruttorie per
verificare la fondatezza delle
contestazioni, senza però sostituirsi a
valutazioni squisitamente civilistiche (che
appartengono alla competenza dell’A.G.O.),
arrestandosi dal procedere solo se il
richiedente non sia in grado di fornire
elementi prima facie attendibili
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.01.2019 n. 70 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
0.2 I controinteressati sostengono altresì
che il ricorso è improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse in quanto,
successivamente all’impugnata nota del
06/06/2011, il Comune ha avviato un secondo
procedimento di verifica dei titoli
abilitativi rilasciati ai controinteressati,
concluso con nota 27/04/2012 che sospende
ogni determinazione sino alla definizione
del giudizio incardinato presso il giudice
ordinario per l’accertamento della proprietà
del mappale n. 92.
Detta nota –trasmessa anche all’indirizzo
del ricorrente come si evince dalla
corrispondenza intercorsa (si vedano i doc.
8 e 11 dei controinteressati)– non è stata
ritualmente gravata, per cui il Sig. Ma. non
può vantare alcun interesse alla decisione
del ricorso.
Anche detta eccezione è fondata.
0.2a Come sostenuto dalla difesa dei
controinteressati, in caso di annullamento
del provvedimento 06/06/2011, il
procedimento avviato per verificare la
legittimità dei titoli abilitativi
rilasciati rimarrebbe sospeso in forza della
nota 27/04/2012, non contestata sede
giurisdizionale. Si è peraltro già rilevato
che il Sig. Ma. –nell’ambito del giudizio
promosso dai controinteressati (e radicato
presso questo TAR al n. 688/2013 r.g.)– ha
accettato di attendere la risoluzione della
controversia petitoria prima di dare
esecuzione alle opere assentite sull’unità
immobiliare (cfr. verbale d’udienza e
ordinanza collegiale di questa Sezione
03/09/2013 n. 753).
0.2b Nella memoria di replica, parte
ricorrente qualifica l’atto 27/04/2012 come
“soprassessorio”, a mezzo del quale il
Comune “ha deciso di non decidere”
sospendendo il procedimento sino alla
definizione del giudizio presso il Tribunale
di Mantova per l’accertamento della
proprietà del mappale 92.
0.2c Al riguardo, va obiettato anzitutto che
è pienamente ammissibile la denuncia
dell’illegittimità di un provvedimento
soprassessorio, avvalendosi dei rimedi
previsti per il silenzio amministrativo.
Come ha statuito questo TAR (cfr. sez. II –
23/03/2016 n. 442) <<Se, infatti, il
processo amministrativo non è più soltanto
rivolto all’annullamento di un
provvedimento, e alla necessità stabilita
dalle norme sostanziali (art. 2 della L.
241/1990) di ottenere la conclusione del
procedimento con un atto espresso ha fatto
seguito la possibilità di equiparare in
giudizio l’atto soprassessorio al silenzio (cfr.
TAR Liguria – 28/09/2015 n. 753 e la
giurisprudenza ivi richiamata) … l’atto
soprassessorio, il quale determini una
definitiva interruzione del procedimento, ha
un contenuto sostanzialmente reiettivo
dell'istanza del privato … nel rinviare il
soddisfacimento dell'interesse pretensivo a
un accadimento futuro e incerto nel quando,
lo stesso determina un arresto a tempo
indeterminato del procedimento
amministrativo, ledendo in via immediata la
posizione giuridica dell'interessato per
cui, come tale, costituisce un'eccezione
alla regola per la quale l’atto
endo-procedimentale non è autonomamente
impugnabile (cfr. TAR Sicilia Palermo, sez.
II – 26/05/2015 n. 1243)>>. Più
recentemente, e nello stesso senso, si
segnala TAR Campania Salerno, sez. II –
10/07/2018 n. 1055.
0.2d Quanto all’ulteriore profilo, la
declaratoria di improcedibilità di un
gravame giurisdizionale è ancorata al rigido
e inequivocabile accertamento dei suoi
presupposti legittimanti nel processo
amministrativo, e dunque può essere
pronunciata al verificarsi di una situazione
di fatto o di diritto nuova, che muta
radicalmente la situazione esistente al
momento della proposizione del ricorso: tale
sopravvenienza, inoltre, deve essere tale da
rendere certa e definitiva l'inutilità della
sentenza, per aver fatto venir meno per il
ricorrente qualsiasi residua utilità della
pronuncia, anche soltanto strumentale o
morale (cfr. Consiglio di Stato, sez. II –
parere 13/11/2018 n. 2612; sentenza Sezione
01/03/2018 n. 247).
Va sul punto ribadito che la caducazione del
provvedimento 06/06/2011 non si
ripercuoterebbe automaticamente sull’atto
27/04/2012, non ritualmente contestato in
giudizio, e dunque si perpetuerebbe comunque
la sospensione del procedimento avviato per
la rimozione in autotutela dei titoli
edilizi pregressi.
1. In ogni caso, è opinione del Collegio che
il ricorso sia anche infondato nel merito,
per le ragioni sinteticamente illustrate di
seguito:
- in base all’art. 11, comma 1, del DPR 380/2001 il permesso di
costruire è rilasciato al proprietario
dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo, e tale ultima espressione va
intesa nel senso più ampio di una legittima
disponibilità dell’area, in base ad una
relazione qualificata con il bene, sia essa
di natura reale, o anche solo obbligatoria,
purché, in questo caso, con il consenso del
proprietario (Consiglio di Stato, sez. IV –
28/03/2018 n. 1949, il quale ha precisato
che “il Comune, prima di rilasciare il
titolo, ha sempre l'onere di verificare la
legittimazione del richiedente, accertando
che questi sia il proprietario dell'immobile
oggetto dell'intervento costruttivo o che,
comunque, ne abbia un titolo di
disponibilità sufficiente per eseguire
l'attività edificatoria (Cons. Stato, sez.
IV, n. 4818/2014 cit.; in senso conforme,
sez. V, 04.04.2012 n. 1990)”;
- il controllo sulla legittimazione all’istanza del titolo
abilitativo va esercitato con serietà e
rigore, dovendo pertanto l’autorità pubblica
accertare che l’istante sia il proprietario
dell'immobile oggetto dell'intervento
costruttivo o che, comunque, abbia un titolo
di disponibilità sufficiente per eseguire
l'attività edificatoria (Consiglio di Stato,
sez. IV – 25/05/2018 n. 3143);
- l’onere del Comune è dunque quello ricercare la sussistenza di un
titolo (di proprietà, di altri diritti
reali, etc.) che fonda una relazione
giuridicamente qualificata tra soggetto e
bene oggetto dell’intervento, e che possa
renderlo destinatario di un provvedimento
amministrativo autorizzatorio, senza che
l’Ente locale debba comprovare –prima del
rilascio– la “pienezza” (nel senso di
assenza di limitazioni) del titolo medesimo,
dato che ciò comporterebbe l’attribuzione
all’amministrazione di un potere di
accertamento della sussistenza (o meno) di
diritti reali e del loro “contenuto”,
ad essa non assegnato dall’ordinamento;
- in linea di diritto, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa, in sede di
rilascio del titolo abilitativo edilizio
sussiste l’obbligo per il Comune di
verificare il rispetto da parte dell’istante
dei limiti privatistici, a condizione che
tali limiti siano effettivamente conosciuti
o immediatamente conoscibili e/o non
contestati, di modo che il controllo da
parte dell’Ente locale si traduca in una
semplice presa d’atto dei limiti medesimi
senza necessità di procedere ad un’accurata
e approfondita disanima dei rapporti
civilistici, sicché l’amministrazione
normalmente non è tenuta a svolgere indagini
particolari in presenza di una richiesta
edificatoria, salvo che sia manifestamente
riconoscibile l’effettiva insussistenza
della piena disponibilità del bene oggetto
dell’intervento edificatorio in relazione al
tipo di intervento richiesto (Consiglio di
Stato, sez. VI – 05/04/2018 n. 2121);
- l’accertamento demandato all’Ente locale va compiuto con “serietà
e rigore”, e “la più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato,
superando l'indirizzo più risalente, è oggi
allineata nel senso che l'Amministrazione,
quando venga a conoscenza dell'esistenza di
contestazioni sul diritto del richiedente il
titolo abilitativo, debba compiere le
necessarie indagini istruttorie per
verificare la fondatezza delle
contestazioni, senza però sostituirsi a
valutazioni squisitamente civilistiche (che
appartengono alla competenza dell’A.G.O.),
arrestandosi dal procedere solo se il
richiedente non sia in grado di fornire
elementi prima facie attendibili”
(Consiglio di Stato, sez. IV – 20/04/2018 n.
2397);
- nella fattispecie, l’amministrazione ha rilasciato i titoli
abilitativi ai controinteressati alla luce
delle dichiarazioni e dei documenti allegati
alle pratiche edilizie dell’epoca;
- nel momento in cui parte ricorrente ha segnalato (cfr. suo doc.
6) anomalie e vizi nell’emissione delle
concessioni edilizie e in generale degli
atti autorizzatori, il Comune si è attivato
e ha approfondito la questione, nel
contraddittorio delle parti;
- l’instaurazione di un giudizio petitorio (che tra l’altro, nel
processo di primo grado, ha visto il
riconoscimento della pretesa dei
controinteressati, a favore dei quali è
stato accertato l’acquisto del mappale n. 92
per usucapione) ha correttamente indotto
l’amministrazione ad arrestare il
procedimento di verifica, in attesa
dell’esito definitivo;
- la controversia sulla proprietà dell’immobile coltivata in sede
giudiziaria, che vede le parti su posizioni
contrapposte, giustifica e legittima la
scelta del Comune di attendere
l’accertamento del giudice ordinario prima
di assumere qualsiasi determinazione
irreversibile sui titoli abilitativi
rilasciati;
- i vizi del certificato di agibilità non si ripercuotono
automaticamente sugli atti autorizzatori
presupposti, salvo l’esito dell’accertamento
del diritto di proprietà sulla porzione di
immobile.
2. In conclusione, il gravame proposto è in
parte irricevibile e in parte improcedibile
(e comunque è infondato nel merito). |
inizio
home-page |
|