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AGGIORNAMENTO AL 30.09.2019 |
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Ennesima censura della Consulta, si profila
all'orizzonte, per la Legge urbanistica Lombarda!! |
ESPROPRIAZIONE: Alla
Corte costituzionale la legge lombarda che prevede il potere ablatorio sia
esercitabile a tempo indeterminato in ragione dell’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche.
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Espropriazione per pubblica utilità – Lombardia – Potere ablatorio è
esercitabile a tempo indeterminato – In ragione dell’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche – Art. 9, comma 12, l. reg. n. 12 del 2005 –
Violazione artt. 42 e 117 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005, per violazione degli artt.
42 e 117 Cost., nella parte in cui prevede che il potere ablatorio è
esercitabile a tempo indeterminato, in ragione dell’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella
oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la
partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato
all’infinito senza bisogno né di motivazione né di indennizzo (1).
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(1) Ha chiarito il Tar che il legislatore lombardo ha derogato al
principio fondamentale affermato nella sentenza della Corte costituzionale
n. 179 del 1999, secondo cui, alla scadenza del termine di efficacia
quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio esso decade a meno che
non ricorra una delle seguenti condizioni: a) il vincolo sia reiterato
seguendo l’apposito procedimento a tal fine previsto dalla legge, con le
conseguenti garanzie in termini di partecipazione al procedimento e di
indennizzo del danno conseguente; b) la sua decadenza sia preclusa
dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio
inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”.
Tale condizione è stata ravvisata dalla stessa sentenza in parola
nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal legislatore del testo
unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che dichiara la pubblica
utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che comunque garantisce la
partecipazione in chiave collaborativa al proprietario/espropriando e che
rappresenta il primo atto di un procedimento (quello espropriativo)
puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo l’esercizio del potere
espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più breve termine
espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba intervenire entro
cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto efficace il
provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato emerge chiaramente come, nel corso del
tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere ablatorio può essere
ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e oggi anche all’art. 1
del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento che si è chiarito come
il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta europea dei diritti
dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà legislativa dello Stato e a
maggior ragione delle Regioni, la cui violazione genera questioni di
legittimità costituzionale attratte nella competenza della Corte
Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e in quanto
risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un equo
indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta, a parere del Collegio,
aver disatteso i limiti imposti alla propria competenza legislativa,
violando l’art. 117 Cost., per aver, nell’esercizio di una competenza
legislativa concorrente, eluso i principi fondamentali della materia,
desumibili anche dall’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal
legislatore statale nel T.U. delle espropriazioni, sulla scorta della
giurisprudenza costituzionale che li ha estrapolati dall’art. 42 Cost..
Più precisamente, la Regione Lombardia ha violato i limiti posti dall’art.
117 Cost., perché, esorbitando dalla propria competenza concorrente in
materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il vincolo preordinato
all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si andranno a meglio
evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio della procedura
espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla Corte
Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore
nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa
intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di
pubblica utilità.
Il Tar ritiene, dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti
della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione”
del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 Cost. che, riserva al
legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui adozione equivale
al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte Costituzionale ha
indicato come condizione necessaria per ritenere rispettato il principio
della temporaneità del potere espropriativo esercitabile su determinati
beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi, nella fattispecie in
esame, in contrasto con l’art. 42 Cost., da una corretta interpretazione del
quale discende, come già anticipato, che il potere espropriativo può essere
esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e, come
evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale n. 575 del 1989, a
condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel
tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il
proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della
proprietà.
Ne discende che il vincolo preordinato all’esproprio, imposto mediante un
apposito procedimento che garantisca la partecipazione dell’interessato,
deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del periodo di efficacia
deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità, la quale, a sua
volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che garantisce la
partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del decreto di
esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione e comunque
non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al
comma 12 dell’art. 9, l.reg. Lombarda n. 12 del 2005, invece, il
potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo indeterminato, in
ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano triennale delle opere
pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo
in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale
degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né
di motivazione, né di indennizzo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 14.08.2019 n. 740 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it - si legga
anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 20.09.2019 n. 827).
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SENTENZA
1. Le società ricorrenti hanno impugnato l’atto recante la dichiarazione
di pubblica utilità e i successivi provvedimenti adottati nell’ambito del
procedimento espropriativo preordinato alla realizzazione della nuova strada
di collegamento tra la via Cattaneo e la via per Torbiato nel Comune di Adro,
la cui localizzazione è stata in parte prevista sulla proprietà della
società Te.Mo., destinata dalla società Be. alla coltivazione dell’uva per
la produzione di vino con denominazione “Franciacorta DOCG”.
Più precisamente, con il ricorso introduttivo, le società ricorrenti hanno
censurato la legittimità della dichiarazione di pubblica utilità, mentre con
il primo ricorso per motivi aggiunti hanno impugnato la successiva
deliberazione di approvazione di alcune modifiche progettuali e con il
secondo il decreto di esproprio.
Al fine di ottenere l’annullamento di detti provvedimenti, le ricorrenti
hanno formulato una pluralità di censure, con le quali sono stati dedotti
vizi procedurali (censure 1, 4 e 5 del ricorso introduttivo, 1, 2 e 3 del
primo ricorso per motivi aggiunti e 2 del secondo ricorso per motivi
aggiunti), oltre che la violazione dei principi posti a tutela del suolo
agricolo e l’eccesso di potere connesso alla scelta di realizzare un’opera
che, separata dalla più ampia opera di cui era originariamente parte (la
circonvallazione dell’abitato), avrebbe una pubblica utilità limitata,
recessiva rispetto alla conservazione della pregiata coltura in atto, nonché
l’illegittimità costituzionale della norma in ragione della quale è stata
ravvisata, nel 2018, la conformità urbanistica dell’opera prevista nel PGT
del 2012.
2. Con sentenza non definitiva n. 736/2019, questo Tribunale ha ritenuto che
le doglianze suddette fossero in parte inammissibili e in parte infondate,
con la sola esclusione della censura n. 2 del ricorso introduttivo,
riproposta anche nel primo ricorso per motivi aggiunti (e, in termini di
invalidità derivata, anche nel secondo ricorso per motivi aggiunti), avente
ad oggetto l’efficacia del presupposto essenziale del procedimento
espropriativo, rappresentato dal vincolo preordinato all’esproprio:
efficacia disciplinata dall’art.
9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005,
sospettato di illegittimità costituzionale per contrasto con gli art. 3, 42,
comma 2, e 117, comma 3, della Costituzione.
3. Ad avviso del Collegio sussistono i presupposti per
sollevare la questione avanti alla Corte Costituzionale.
3.1. Sulla rilevanza della questione di costituzionalità.
Come noto, l’art. 23 della legge n. 87 del 1953 prevede che il giudice debba
sospendere il giudizio in corso e trasmettere gli atti alla Corte
Costituzionale quando il giudizio non possa essere risolto indipendentemente
dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale.
Tale condizione risulta ricorrere nella fattispecie, posto che, respinte
tutte le altre censure, il ricorso revoca in dubbio la legittimità
costituzionale della disposizione applicata nella fattispecie al fine di
sostenere la efficacia del vincolo preordinato all’esproprio sulla scorta
del quale è stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera in questione,
così adottando il provvedimento che ha degradato il diritto di proprietà
rendendolo aggredibile con la procedura espropriativa.
Se il dubbio sollevato da parte ricorrente fosse fondato, dunque, il vincolo
espropriativo dovrebbe essere ritenuto decaduto, al momento dell’adozione
della dichiarazione di pubblica utilità, che, per ciò stesso, dovrebbe
essere dichiarata illegittima, perché priva del presupposto fondante
l’esercizio del potere ablatorio (cfr. la
lettera a) dell’art. 8 del DPR 327/2001, la quale afferma che il decreto
di esproprio può essere emanato qualora “l’opera da realizzare sia
prevista nello strumento urbanistico generale o in un atto di natura ed
efficacia equivalente e sul bene da espropriare sia stato apposto in vincolo
preordinato all’esproprio”).
Infatti, nel caso in esame, il vincolo preordinato all’esproprio è divenuto
efficace nel momento in cui ha acquistato efficacia il PGT del Comune di
Adro approvato nel 2012 e cioè il giorno 21.11.2012. Il primo comma dell’art.
9 del DPR 327/2001 prevede espressamente che “Un bene è
sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diventa efficace
l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua
variante, che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica
utilità”.
I successivi commi stabiliscono che “2. Il vincolo preordinato
all’esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere
emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera. 3. Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità
dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e trova applicazione
la disciplina dettata dall’articolo 9 del testo unico in materia edilizia
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380. 4.
Il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere
motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti al
comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard.”.
In base alla disposizione ora citata il vincolo sarebbe, dunque, venuto meno
il 21.11.2017, mentre la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera è
intervenuta solo il 15.02.2018.
Secondo la tesi del Comune, però, la sussistenza della necessaria conformità
urbanistica dell’opera rispetto allo strumento urbanistico sarebbe
garantita, nella fattispecie, come espressamente attestato nella
deliberazione del Consiglio comunale che ha approvato il progetto e
dichiarato la pubblica utilità, dalla vigenza dell’art.
9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005, il quale recita: “I
vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente
ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti
dal piano dei servizi hanno la durata di cinque anni, decorrenti
dall’entrata in vigore del piano stesso. Detti vincoli decadono qualora,
entro tale termine, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a
cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato
approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione.”.
Poiché, nella fattispecie, il piano triennale delle opere pubbliche
2017-2019 è stato approvato, prevedendo la realizzazione anche del
collegamento tra le via Cattaneo e per Torbiato, in data 06.04.2017 (con
deliberazione del consiglio comunale n. 12 del 2017) e, dunque, prima della
scadenza del quinquennio di efficacia del vincolo espropriativo, quest’ultimo
è stato dichiaratamente assunto quale presupposto della procedura
espropriativa avversata: circostanza, questa, rilevante ai fini
dell’ammissibilità sia della doglianza stessa, che della questione di
legittimità costituzionale.
Infatti, è pur vero che, lo stesso giorno in cui è stata dichiarata la
pubblica utilità, è stata anche adottata (con la deliberazione precedente,
recante il numero 10 del 2018) una variante urbanistica, poi approvata solo
con deliberazione del consiglio comunale n. 23 del 12.05.2018, con cui il
Comune di Adro ha preso atto della “conferma” dell’efficacia del
vincolo preordinato all’esproprio in ragione dell’inclusione dell’opera nel
Programma triennale delle opere pubbliche. Tale deliberazione ha un duplice
contenuto: da un lato reitera i vincoli preordinati all’esproprio
relativi ad alcune opere pubbliche per cui erano decaduti, dall’altro,
per una pluralità di opere pubbliche, tra cui il collegamento tra le vie
Cattaneo e per Torbiato in parola, dà atto dell’inserimento delle stesse nel
Programma triennale delle opere pubbliche e del conseguente effetto “confermativo”
dell’efficacia del vincolo, derivante dall’art.
9, comma 12, della LR 12/2005.
In tale seconda parte, il provvedimento risulta essere del tutto atipico
(dal momento che l’effetto della norma richiamata è automatico) e, dunque,
al più, sostanzialmente ricognitivo. L’assenza di contenuto dispositivo,
innovativo dell’ordinamento, congiuntamente con la considerazione del fatto
che la statuizione contenuta in tale atipica variante urbanistica è divenuta
efficace ben dopo la dichiarazione di pubblica utilità, rende,
contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, irrilevante la sua mancata
impugnazione. Non appare, infatti, revocabile in dubbio il fatto che, nella
fattispecie, la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta sulla base
di un vincolo preordinato all’esproprio divenuto efficace più di cinque anni
prima dell’approvazione del progetto, la cui efficacia risulta prorogata
automaticamente per effetto dell’inclusione dell’opera nel Programma delle
opere pubbliche triennale, a prescindere da ogni motivazione circa
l’interesse pubblico alla reiterazione, da ogni garanzia partecipativa per
il proprietario e dalla corresponsione di un adeguato indennizzo (così come,
invece, previsto dall’art.
39 del T.U. DPR 327/2001), così come puntualmente rappresentato
nella stessa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
A nulla rileva che di tale effetto si sia preso atto in un provvedimento
successivo alla dichiarazione di pubblica utilità stessa, privo di capacità
innovativa circa l’efficacia del vincolo, il quale, per ciò stesso,
risulterebbe inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale
declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta
il presupposto.
Considerato, dunque, che, data la sua formulazione, la disposizione non
risulta suscettibile di un’interpretazione costituzionalmente orientata,
rispettosa dei precetti costituzionali, così come enunciati nel ricordato
articolo 9 del DPR 327/2001, il Collegio ravvisa la necessità, ai
fini della risoluzione della controversia, di accertare se nell’approvare l’art.
9 della L.R della Lombardia n. 12/2005, la Regione abbia violato i
principi fondamentali della materia espropriativa e, dunque, non solo l’art.
42 della Costituzione, ma anche l’art. 1 del Primo protocollo della CEDU,
nonché i limiti della potestà legislativa regionale di cui all’art. 117
della Costituzione.
Solo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale
consentirebbe, infatti, al Collegio di annullare i provvedimenti impugnati.
3.2. Sulla non manifesta infondatezza della questione.
Ritiene il Collegio che l’art.
9, comma 12, della legge regionale lombarda n. 12/2005 violi gli
art. 117 e 42 della Costituzione, per le ragioni che si andranno ad
esplicitare.
Con
sentenza n. 575 del 1989, la Corte Costituzionale, pur rigettando
la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla
violazione dell’articolo 42 della Costituzione, affermò che
l’indeterminatezza temporale del vincolo espropriativo (da non confondersi
con il ben diverso vincolo conformativo) desse luogo a una situazione di
incompatibilità con la garanzia della proprietà privata e, di fatto, a
un’espropriazione di valore, con conseguente necessità della previsione di
un indennizzo.
Più precisamente, il giudice delle leggi, ha affermato che “è
propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare
illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come
ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata
in relazione alle effettive esigenze urbanistiche. Tale possibilità,
tuttavia, darebbe luogo ad un sistema non conforme ai principi affermati
nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo venga protratto
a tempo indeterminato senza la previsione di indennizzo. Come si evince
dalla stessa sentenza e come e stato ribadito più di recente (sent. n. 82
del 1982), i due requisiti della temporaneità e della indennizzabilità sono
difatti tra loro alternativi, per cui l'indeterminatezza temporale dei
vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli indefinitamente nel
tempo anche se con diversa destinazione o con altri mezzi, é
costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà
non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà
secondo i principi affermati nelle sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968.”
Sulla scorta di tale pronuncia, il legislatore, nel modificare l’articolo 2
della legge 19.11.1968, n. 1187, stabilì la durata quinquennale del vincolo
preordinato all’esproprio, subordinandone la reiterazione alla
rappresentazione di una debita motivazione fondata sulla presenza di un
elemento di novità che la giustificasse.
A seguito del dubbio di costituzionalità anche in relazione a tale
disposizione (sollevato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con
ordinanza n. 20/1996), con
sentenza n. 179 del 20.05.1999, il giudice delle leggi dichiarò
l’incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4,
e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, primo comma,
della legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17.08.1942, n. 1150) “nella parte in cui
consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti,
preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità senza la
previsione di indennizzo”.
In altri termini, si legge ancora nella sentenza “una
volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da
ogni indennizzo), il vincolo urbanistico (avente le anzidette
caratteristiche), se permane a seguito di reiterazione, non può essere
dissociato, in via alternativa all’espropriazione (o al serio inizio
dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione
dei piani attuativi) dalla previsione di un indennizzo”.
Tempestivamente il legislatore del 2001 fece propri tali principi e
introdusse, nel testo unico delle espropriazioni approvato con DPR 327/2001:
a) la previsione della durata quinquennale del vincolo preordinato
all’esproprio;
b) la possibilità della reiterazione del vincolo seguendo un
procedimento che prevede la garanzia partecipativa per i proprietari
interessati e si conclude con un provvedimento motivato che deve tenere
conto, in particolar modo, delle esigenze di soddisfacimento degli standard;
c) l’obbligo della corresponsione, nel caso di reiterazione, di un
indennizzo, ancorché, come chiarito con sentenza dell’Adunanza plenaria n.
7/2007, per la legittimità della reiterazione non sia necessaria la puntuale
definizione dell’indennizzo da parte dell’Amministrazione, subordinata alla
prova, da parte del proprietario inciso, dell’effettivo danno subìto e alla
sua esatta quantificazione.
Venendo alla previsione regionale sospetta di incostituzionalità, il
legislatore lombardo ha, a parere del Collegio, derogato al principio
fondamentale affermato nella
sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1999, secondo cui,
alla scadenza del termine di efficacia quinquennale del vincolo preordinato
all’esproprio esso decade a meno che non ricorra una delle seguenti
condizioni:
A. il vincolo sia reiterato seguendo l’apposito procedimento a tal
fine previsto dalla legge, con le conseguenti garanzie in termini di
partecipazione al procedimento e di indennizzo del danno conseguente;
B. la sua decadenza sia preclusa dall’intervenire, prima della
scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività
preordinata all’espropriazione”. Tale condizione è stata ravvisata dalla
stessa sentenza in parola nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal
legislatore del testo unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che
dichiara la pubblica utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che
comunque garantisce la partecipazione in chiave collaborativa al
proprietario/espropriando e che rappresenta il primo atto di un procedimento
(quello espropriativo) puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo
l’esercizio del potere espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più
breve termine espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba
intervenire entro cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto
efficace il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato emerge chiaramente
come, nel corso del tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere
ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e
oggi anche all’art. 1 del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento
che si è chiarito come il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta
europea dei diritti dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà
legislativa dello Stato e a maggior ragione delle Regioni, la cui violazione
genera questioni di legittimità costituzionale attratte nella competenza
della Corte Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e
in quanto risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un
equo indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta,
a parere del Collegio, aver disatteso i limiti imposti alla
propria competenza legislativa, violando l’art. 117 della Costituzione, per
aver, nell’esercizio di una competenza legislativa concorrente, eluso i
principi fondamentali della materia, desumibili anche dall’art. 1 del
Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal legislatore statale nel T.U.
delle espropriazioni, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che
li ha estrapolati dall’art. 42 della Costituzione.
Più precisamente, la Regione Lombardia ha violato i limiti
posti dall’art. 117 della Costituzione, perché, esorbitando dalla propria
competenza concorrente in materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il
vincolo preordinato all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si
andranno a meglio evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio
della procedura espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla
Corte Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore
nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa
intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di
pubblica utilità.
Il Collegio ritiene,
dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti
della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione”
del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 della Costituzione
che, riserva al legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui
adozione equivale al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte
Costituzionale ha indicato come condizione necessaria per ritenere
rispettato il principio della temporaneità del potere espropriativo
esercitabile su determinati beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi,
nella fattispecie in esame, in contrasto con l’art. 42
della Costituzione, da una corretta interpretazione del quale discende,
come già anticipato, che il potere espropriativo può essere
esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e,
come evidenziato nella
sentenza della Corte Costituzionale n. 575/1989 già ricordata, a
condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel
tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il
proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della
proprietà.
Ne discende che il vincolo preordinato all’esproprio,
imposto mediante un apposito procedimento che garantisca la partecipazione
dell’interessato, deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del
periodo di efficacia deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità,
la quale, a sua volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che
garantisce la partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del
decreto di esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione
e comunque non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al
comma 12 dell’art. 9 della Legge regionale lombarda n. 12/2005,
invece, il potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo
indeterminato, in ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella
oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la
partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato
all’infinito senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo.
L’art. 21 del codice degli appalti, infatti, disciplina l’approvazione del
piano triennale delle opere pubbliche senza particolari formalità che
garantiscano la partecipazione al procedimento dei soggetti interessati
dalla realizzazione delle opere in esso inserite, anche in considerazione
della sua funzione prettamente programmatica, strettamente connessa alla
programmazione finanziaria e di bilancio e alla sua natura organizzativa
dell’attività dell’ente, individuando le opere da eseguirsi con priorità.
Tant’è che anche a seguito dell’entrata in vigore del D.M. 16.01.2018, n.
14, recante il regolamento relativo alle procedure e schemi tipo per la
redazione e la pubblicazione del piano triennale dei lavori pubblici, pur
essendo ribadita la necessità della pubblicazione del piano, la garanzia
partecipativa risulta essere minima, dal momento che l’art. 5 prevede che
l’amministrazione “possa” consentire la presentazione delle
osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione, facendo ricorso a un
subprocedimento che la norma definisce come “consultazioni”, che,
quindi, è eventuale, rimesso alla scelta dell’ente e può concludersi senza
che sul Comune gravi un preciso onere motivazionale, nel caso in cui le
prospettazioni del privato vengano disattese.
Inoltre, nessuna disposizione normativa limita la possibilità di riproporre,
negli aggiornamenti annuali, il mantenimento delle previsioni di
realizzazione della stessa opera, che, dunque, potrebbe essere procrastinata
all’infinito, di fatto svuotando completamente di contenuto il diritto di
proprietà e, così, espropriando il suo titolare, cui è preclusa ogni
utilizzazione che non sia quella per la coltivazione agricola, pur in
assenza di alcun indennizzo.
In questo modo si finisce per eludere sia il principio
della temporaneità del potere espropriativo, sia quello dell’indennizzabilità
in caso di un potere che si consolidi nel tempo pur non essendo intervenuta
l’espropriazione, espressamente indicati come alternativi dal giudice delle
leggi nelle sentenze già più volte ricordate.
L’inserimento nel piano triennale delle opere pubbliche, infatti:
- se da un lato non può essere qualificato come un serio
inizio della procedura espropriativa, in quanto non offre alcuna garanzia
circa il fatto che l’opera sia effettivamente realizzata, non comportando
alcun impegno di spesa e non essendo previsto alcun termine di efficacia
entro cui i lavori debbono essere conclusi;
- dall’altro, viola anche il fondamentale presupposto,
introdotto dal legislatore in recepimento del principio individuato dalla
Corte Costituzionale nella citata
sentenza n. 179/1999 e
trasfuso nel primo comma dell’art.
39 del T.U. DPR 327/2001, secondo cui “nel caso di
reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo
sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità,
commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto.”.
4. In conclusione questo Tribunale ritiene che l’art.
9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005 sia
costituzionalmente illegittimo laddove ricollega all’inserimento dell’opera
pubblica nella programmazione triennale prevista dalla normativa in materia
di lavori pubblici, l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo
preordinato all’esproprio.
5. Ciò premesso, questo Tribunale solleva la questione di
legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005,
nella parte in cui, in violazione dei limiti alla propria competenza
legislativa concorrente definiti dall’art. 117 Cost. e comunque dei principi
fondamentali relativi ai limiti del potere espropriativo discendenti
dall’art. 42 Cost., attribuisce all’inserimento della previsione della
realizzazione di un’opera pubblica nella programmazione triennale di cui
all’art. 21 del d.lgs. 50/2016 l’effetto preclusivo della decadenza del
vincolo quinquennale preordinato all’esproprio per la sua esecuzione,
secondo i profili e per le ragioni sopra indicate,
con sospensione del giudizio fino alla pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana della decisione della Corte
Costituzionale sulle questioni indicate, ai sensi e per gli effetti di cui
agli artt. 79 ed 80 del c.p.a. e art. 295 c.p.c..
Riserva al definitivo la decisione nel merito e sulle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di
Brescia (Sezione Seconda), ritenuta la rilevanza e la non
manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005,
per violazione degli artt. 42 e 117 della Costituzione, dispone la
sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 14.08.2019 n. 740 - link a www.giustizia-amministrartiva.it
- si legga anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 20.09.2019 n. 827). |
|
E' talmente ovvio ... ma, purtroppo, necessita
ricordarlo a tanti "smemorati" (o "furbetti"
che dir si voglia) e, soprattutto, ai segretari
comunali che devono (sic!) controllare. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incaricati senza libertà d’orario.
Non possono regolarlo in base alle esigenze degli uffici.
Un contratto che riconosca prerogative dirigenziali alle posizioni
organizzative sarebbe nullo.
Gli
incaricati di posizione organizzativa non possono regolare la propria
attività con orario di lavoro organizzato sulla base delle esigenze degli
uffici, come le qualifiche dirigenziali.
Sono ancora molto frequenti i casi nei quali negli enti locali, e
specialmente nelle forme associative, si verifichino violazioni palesi alle
disposizioni contrattuali, laddove si consenta ai «quadri» un orario di
lavoro non predeterminato.
Il tutto, nasce da un'interpretazione totalmente erronea dell'articolo 109,
comma 2, del dlgs 267/2000, ai sensi del quale «nei comuni privi di
personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107,
commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera
d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del
sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla
loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione».
Tale norma è posta a rimediare alla circostanza che nella gran parte degli
enti locali mancano le qualifiche dirigenziali e, tuttavia, è comunque
necessario applicare il principio di separazione delle funzioni politiche da
quelle gestionali. L'articolo 109, comma 2, rimedia, consentendo di
attribuire le funzioni dirigenziali ai funzionari apicali, abilitati, quindi
ad esercitare dette funzioni dirigenziali. Ma, tale abilitazione non
trasforma i funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative in
qualifiche dirigenziali.
Si continua ad applicare sempre soltanto e solo, dunque, il Ccnl del
comparto. Sull'orario di lavoro, il Ccnl 21.05.2018 non ha cambiato nulla
rispetto alla contrattazione collettiva previgente.
Resta attuale, allora, l'indicazione fornita nel 2011 dall'Aran con
il
parere 05.06.2011 n. RAL-613, ove si spiega che «il personale
incaricato delle posizioni organizzative è tenuto ad effettuare prestazioni
lavorative settimanali non inferiori a 36 ore (mentre, ai sensi dell'art.
10, comma 1, del Ccnl del 31.03.1999 e salvo quanto previsto dall'art. 39,
comma 2, del Ccnl del 14.09.2000 e dall'art. 16 del Ccnl del 05.10.2001, non
sono retribuite le eventuali prestazioni ulteriori che gli interessati
potrebbero aver effettuato, senza diritto ad eventuali recuperi, in
relazione all'incarico affidato e agli obiettivi da conseguire)».
Conseguentemente l'orario di lavoro va assoggettato «alla vigente disciplina
relativa a tutto il personale dell'ente e agli ordinari controlli sulla
relativa quantificazione». In particolare, spiega l'Aran, «il vigente Ccnl
non attribuisce, in particolare, né al datore di lavoro né al dipendente il
potere o il diritto all'autogestione dell'orario settimanale, consentita,
invece, al solo personale con qualifica dirigenziale».
È da aggiungere che laddove i funzionari incaricati di posizione
organizzativa non rispettassero le previsioni del Ccnl del comparto,
incorrono nella responsabilità disciplinare connessa alla violazione
dell'articolo 57, comma 3, lettera a), che impone di «collaborare con
diligenza, osservando le norme del contratto collettivo nazionale, le
disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro»; l'articolo 59,
comma 3, lettera a), del Ccnl, ancora, considera esplicitamente violazione
disciplinare l'inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di
assenze per malattia, nonché dell'orario di lavoro.
È opportuno ricordare che qualsiasi contratto collettivo decentrato o
direttiva interna finalizzata a consentire alle posizioni organizzative di
fruire dell'orario previsto solo per la dirigenza, sarebbe del tutto nulla e
inapplicabile, per violazione di una disciplina riservata esclusivamente
alla contrattazione nazionale collettiva.
Non solo: la tolleranza nei
confronti di orari difformi, che, come visto sopra, implicano responsabilità
disciplinare, determinerebbe nei confronti dei dirigenti a loro volta
responsabilità disciplinare ai sensi dell'articolo 55-sexies, comma 3, del dlgs 165/2001, il quale dispone: «Il mancato esercizio o la decadenza
dall'azione disciplinare, dovuti all'omissione o al ritardo, senza
giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, inclusa la
segnalazione di cui all'articolo 55-bis, comma 4, ovvero a valutazioni
manifestamente irragionevoli di insussistenza dell'illecito in relazione a
condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta, per i
soggetti responsabili, l'applicazione della sospensione dal servizio fino a
un massimo di tre mesi, salva la maggiore sanzione del licenziamento
prevista nei casi di cui all'articolo 55-quater, comma 1, lettera f-ter) e
comma 3-quinquies» (articolo ItaliaOggi del 20.09.2019). |
|
Regolamento per la disciplina dell'«incentivo
funzioni tecniche»
(ma il principio vale per qualsiasi tipo di
regolamento):
In ordine alla
formulazione di un articolo regolamentare sostanzialmente ripetitivo di quanto dispone
la legge, sono note le ragioni che militano da un lato avverso la
riproduzione, in una fonte subordinata, delle disposizioni della fonte
primaria e, dall’altro e in senso contrario, a favore della
complessiva organicità e completezza dei regolamenti, ai fini della loro
chiarezza e comprensibilità da parte dei destinatari della normativa.
Sicché, andrebbero comunque espunte dal
regolamento tutte quelle disposizioni che
appaiono meramente ripetitive delle disposizioni di legge e che potrebbero
essere sostituite da richiami alle medesime, senza comunque compromettere la
sistematicità e leggibilità del regolamento stesso. |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Tripla incognita sugli incentivi tecnici. Il nuovo regolamento
inciampa su corruzione, rotazione e fondo.
È «uno dei primi casi applicativi dell’articolo 113 del
Codice dei contratti pubblici del 2016».
Così si è espresso il Consiglio di Stato (Sez. Consultiva per gli Atti
Normativi,
parere 09.09.2019 n. 2368) sulla bozza di regolamento degli
incentivi per le funzioni tecniche predisposto dal Mit. Sono trascorsi tre
anni dal Dlgs 50/2016 e un anno dall’accordo con i sindacati. Ma l’iter è
tutt’altro che terminato.
I giudici rinviano il parere in quanto la bozza non è corredata di documenti
indispensabili per la valutazione come la relazione tecnica, e il testo non
è bollinato dalla Rgs. Eppure il Mef dovrebbe percepire come prioritaria una
nuova disciplina di questi compensi: la precedente regolamentazione si
riferiva al Dlgs 163/2006 col
d.m. 17.03.2008 n. 84, con buona pace delle modifiche intervenute
nel frattempo.
Tre sono i punti qualificanti del regolamento.
Il primo affronta il nodo della corruzione. Nella bozza si legge che
va garantita l’equa ripartizione degli incarichi. Sulla carta sembra
semplice, ma concretamente non ci sono previsioni sulle modalità attuative.
Ancora, si deve assicurare il principio di rotazione, anche qui di difficile
realizzazione considerato che gli incarichi possono interessare anche
dipendenti di altre Pa. Più facile la verifica dell’assenza di condanne
penali per reati di natura corruttiva.
Viene previsto però che non possono essere conferiti incarichi ai dipendenti
condannati in base all’articolo 35-bis della legge 190/2012. Richiamo
normativo fuori luogo considerato che quella legge ha due articoli. Infine,
sembra rimessa ai sindacati la vigilanza. Si prevede che il dirigente
responsabile della stazione appaltante comunichi semestralmente a loro gli
incarichi per il monitoraggio sul «rispetto dei principi di trasparenza e
rotazione».
Il secondo punto rilevante si preoccupa di garantire il conferimenti
degli incarichi a soggetti qualificati. Nei requisiti vengono elencate le
esperienze professionali e l’espletamento di attività simili con risultati
positivi. In assenza di questi, l’incarico può essere affidato solo se sia
stato frequentato un corso di qualificazione professionale o un
affiancamento.
Un terzo aspetto riguarda la costituzione del fondo. Viene
specificato che non può superare il 2% dell’importo a base di gara. La
percentuale effettiva viene individuata con la costituzione del fondo nel
momento in cui è determinata la previsione di spesa all’interno di ogni
quadro economico. Si stabilisce che non formano base su cui quantificare
l’incentivo le somme per accantonamenti, imprevisti, acquisizione ed
espropri di immobili e l’Iva. L’80% del fondo che va ai dipendenti comprende
gli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, ma
nulla si dice sull’Irap, lasciando aperta la partita a ricorsi. Non sono a
carico del fondo le spese per trasferte o missioni.
Poca attenzione sembra rilevarsi, sul rispetto dei tempi di realizzazione.
Il regolamento impone, nell’atto di conferimento dell’incarico,
l’individuazione dei termini entro i quali deve essere espletato, ma molto
contenute sono le sanzioni per chi sfora: il compenso viene ridotto dell’1%
per ogni settimana di ritardo, ma la riduzione non può andare oltre il 10%.
---------------
I tre nodi irrisolti
1. ANTICORRUZIONE
Nella bozza di regolamento preparata dal Mit si prevede una serie di divieti
al conferimento di incarichi, per esempio ai soggetti condannati in base
all’articolo 35-bis della legge 190/2012. Ma l’articolo 35-bis non esiste
2. ROTAZIONE
Si chiede di garantire l’equa ripartizione degli incarichi, ma non si dice
nulla su come attuare questo principio. La vigilanza viene affidata ai
sindacati
3. IL FONDO
Nulla si dice sulla contabilizzazione dell’Irap (articolo Il Sole 24 Ore del
30.09.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici, arriva il regolamento del Mit.
È proprio il caso di dire:
cantieri aperti in tema di regolamento dei compensi per le funzioni
tecniche. Il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che, per sua
natura, è molto interessato all'argomento, aggiorna la disciplina di questi
incentivi, a tre anni di distanza dall'approvazione del codice degli
appalti.
La bozza
La bozza di nuovo regolamento risulta dall'applicazione dell'articolo 113
del Dlgs 50/2016 e, ovviamente, è attanagliato alle specificità di un
ministero: detta norme sulla possibilità di ricorrere a dipendenti di altri
ministeri o di altre amministrazioni in generale, disciplina i movimenti che
devono attuarsi nella contabilità dello Stato per il pagamento ai dipendenti
interessati e richiama i pareri del ministero dell'Economia e delle finanze
e del Consiglio di Stato.
Alcune indicazioni, però, hanno valenza generale. I soggetti che svolgono le
funzioni incentivate, ben specificate, devono essere individuati con formale
provvedimento, che, nel caso, assume la veste di decreto direttoriale. Nello
stesso atto sono indicati non solo i tecnici ma anche i dipendenti con
funzioni amministrative ai quali deve essere riconosciuto il compenso.
Per l'individuazione di tali soggetti, il regolamento elenca una serie di
criteri: l'integrazione tra diverse competenze professionali, le esperienze
passate, l'autonomia e la responsabilità dimostrate, la capacità di
collaborare con i colleghi. Ma prima di tutto deve essere garantita la
rotazione e l'equa ripartizione degli incarichi. Sono, in ogni caso, esclusi
i dipendenti con carichi pendenti di natura corruttiva.
Nelle modalità di ripartizione del fondo distingue i lavori, dove risultano
maggiormente premiati il Rup e il direttore lavori, dai servizi e forniture,
dove la parte del leone la fanno il Rup e il direttore dell'esecuzione,
unitamente ai rispettivi collaboratori. Per la maggior parte degli stessi
viene individuata una fascia, rimettendo alla contrattazione integrativa
territoriale la fissazione della percentuale puntuale.
Il parere
Molto interessante il relativo
parere 09.09.2019 n. 2368 del Consiglio di Stato. Tra l'altro si
legge come la normativa, nelle finalità e nelle linee portanti, non risulti
radicalmente mutata e, pertanto, sia opportuno un paragone fra il vecchio e
il nuovo.
Da questo emerge un'interessante indicazione, vale a dire l'inversione
nell'ordine dei lavori. In altre parole, mentre nel regime precedente, il
regolamento era posteriore alla contrattazione decentrata, dovendone
recepire i contenuti, nella nuova disciplina, il regolamento rappresenta il
presupposto da cui devono prendere il via le relazioni sindacali.
Il Consiglio di Stato suggerisce di non riportare nei regolamenti quelle
norme che non fanno altro che ripetere pedissequamente il dettato
legislativo, sostituendolo con un richiamo allo stesso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
24.09.2019). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Incentivi, non in ordine sparso.
Serve un coordinamento per evitare difformità applicative.
Parere
del Cds sullo schema di regolamento per la ripartizione ai tecnici della
p.a..
È
necessario un incisivo coordinamento sull'attuazione delle norme sugli
incentivi ai tecnici delle amministrazioni previsti dal codice appalti per
evitare difformità applicative, oltre ad un attento confronto con la
disciplina previgente; necessaria anche l'integrazione con l'analisi di
impatto sulla regolazione e con la bollinatura.
È quanto ha precisato il
Consiglio di stato nel
parere 09.09.2019 n. 2368 della sezione
consultiva per gli atti normativi emesso sullo
schema di regolamento recante «Norme per la ripartizione dell'incentivo per
le funzioni tecniche di cui all'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50», trasmesso dal ministero delle infrastrutture al Consiglio di
stato il 05.07.2019.
Si tratta di uno dei primi casi applicativi dell'art. 113 del nuovo codice
dei contratti pubblici del 2016, come modificato nel 2017 e poi integrato
nel dalla legge di bilancio 2018. Lo schema è stato predisposto sulla base
delle indicazioni fornite dalla Corte dei conti e dal Mef, oltre che dalla
contrattazione con i sindacati.
I giudici della sezione consultiva hanno premesso che si tratta di una bozza
di provvedimento che «riveste indubbiamente un considerevole rilievo, in
primo luogo per la specialissima importanza e il predominante peso che il Mit riveste nel campo dei lavori pubblici e inoltre perché esso dovrebbe
costituire un essenziale parametro in vista della prossima adozione di
analoghi atti da parte degli altri ministeri e delle altre amministrazioni
aggiudicatrici».
In relazione al fatto che l'art. 113 del Codice determinerà l'emanazione di
un numero prevedibilmente elevato di regolamenti da parte delle numerose
amministrazioni pubbliche aggiudicatrici di lavori, servizi e forniture, il
parere evidenzia in primo luogo «la necessità dell'esercizio di un incisivo
ruolo di coordinamento di tali regolamenti da parte della presidenza del
consiglio e in particolare del suo Dagl, onde evitare che le singole
amministrazioni affrontino la tematica in esame, per così dire, in ordine
sparso».
Nel merito dei contenuti i giudici hanno rilevato «la mancanza di relazione
tecnica, ovvero di bollinatura da parte della Ragioneria generale dello
Stato, ovvero della attestazione della mancanza di oneri derivanti dalla sua
applicazione». E sì vero che vi è un parere espresso dall'Ufficio
legislativo del ministero dell'economia e delle finanze, cui peraltro nella
sostanza lo schema in esame si attiene, ma le mancanze «devono essere
sanate». Questo, si legge nel parere, assume rilievo soprattutto per quanto
riguarda la mancanza della relazione di Air: «l'analisi di impatto della
regolazione avrebbe potuto fornire utili elementi ai fini della valutazione
della congruità della disciplina sottoposta, tanto più ove fosse stato
operato un opportuno confronto con gli effetti prodotti finora dalla
disciplina che il testo in esame mira ad abrogare (d.m. 17.03.2008, n. 84)». Visto che la materia è poco mutata, per i giudici «resta utile un
attento raffronto tra il regime anteriore e quello che viene introdotto con
il nuovo regolamento».
Non risulta poi conforme alla norma la procedura adottata per la redazione
dello schema visto che, si legge, «dall'esame degli atti, pare doversi
desumere che nel caso in esame la contrattazione abbia preceduto la
predisposizione dello schema di regolamento, e che quest'ultimo si sia
limitato a recepirne i contenuti». Di fatto si ricomincia da capo
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Oggetto:
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Schema di decreto recante "Regolamento
recante norme per la ripartizione dell'incentivo per le funzioni tecniche di
cui all'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50" (Consiglio
di Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi,
parere 09.09.2019 n. 2368 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
...
LA SEZIONE
Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n. 27096 in data
05/07/2019, con la quale il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti
ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in
oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Daniele Ravenna;
Premesso:
Con nota n. prot. n. 27096 del 05/07/2019 il Ministero delle infrastrutture
e dei trasporti ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sullo schema di
regolamento, indicato in oggetto, da adottarsi in attuazione dell’art. 113,
comma 3, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, “Codice dei contratti
pubblici” (di seguito, semplicemente “Codice”).
Nella relazione illustrativa il Ministero richiedente, richiamata la
disciplina di cui al citato art. 113 del Codice, così come modificato dal
decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, recante la previsione di un fondo da
destinare ai dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici di lavori,
servizi e forniture, espone di aver proceduto, in ottemperanza a quanto
disposto dal legislatore, alla redazione dello schema di regolamento in cui
sono disciplinate le modalità e i criteri di attribuzione dell’incentivo in
questione, come concordato in sede di contrattazione decentrata integrativa
in data 19/09/2018.
Il Ministero rappresenta altresì che lo schema è stato redatto sulla base
delle indicazioni fornite dalla Corte dei conti nella
deliberazione 26.04.2018 n. 6, nonché tenendo conto delle
osservazioni attinenti ai profili contabili formulate dal Ministero
dell’economia e delle finanze con nota del 07/02/2019.
Il testo sottoposto si compone di 16 articoli.
L’art. 1 individua l’oggetto del regolamento, ossia la definizione
delle modalità e dei criteri di riparto delle risorse del fondo per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti del Ministero, secondo quanto
previsto dal ricordato art. 113 del Codice.
L’art. 2 ne definisce l’ambito di applicazione.
L’art. 3 individua i soggetti destinatari del fondo nei dipendenti
del Ministero che svolgono direttamente le funzioni tecniche inerenti alle
attività elencate all’art. 2, comma 1, nonché nei dipendenti, sia
amministrativi che tecnici, che collaborano direttamente alle suddette
attività, con esclusione del personale con qualifica dirigenziale.
L’art. 4 riporta quanto previsto dall’art. 113 del codice degli
appalti in merito alla costituzione e al finanziamento del fondo per le
funzioni tecniche. Per quanto attiene ai profili contabili, su suggerimento
del Ministero dell’economia e delle finanze è stata introdotta la previsione
in base alla quale la stazione appaltante provvede al versamento in entrata
al bilancio dello Stato, su capitolo di nuova istituzione, delle risorse
destinate alla costituzione del fondo e si è provveduto specificare la
tempistica del suddetto versamento.
L’art. 5 disciplina i criteri di attribuzione degli incarichi.
L’art. 6 indica i termini entro i quali devono essere eseguite le
prestazioni per ciascuna figura professionale.
L’art. 7 disciplina le modalità e i criteri di ripartizione del
fondo: al riguardo il Ministero precisa che tali modalità e criteri sono
stati oggetto di accordo sindacale. In particolare stati individuati dei
range percentuali per ciascuna delle attività, distinte per “lavori”
e “servizi e forniture”, ed è stata rimandata alla contrattazione
integrativa di sede territoriale individuazione delle percentuali definitive
da attribuire per la ripartizione dell’incentivo in funzione dei carichi di
lavoro e della complessità dei singoli appalti.
L’art. 8 disciplina i criteri di liquidazione dei crediti del
dipendente per incentivi, mentre l’art. 9 detta le modalità di pagamento
degli stessi. Tale ultimo articolo è stato riformulato, su suggerimento del
Ministero dell’economia e delle finanze, prevedendo la riassegnazione alla
spesa delle risorse versate sul capitolo di nuova istituzione. Una volta
riassegnate tali risorse, la Direzione generale del personale e degli affari
generali provvede ad attribuirle alla stazione appaltante mediante apposito
piano di riparto.
La procedura contabile ivi indicata deve essere seguita anche qualora gli
incarichi siano attribuiti da altre pubbliche amministrazioni per effetto di
accordi o convenzioni, ovvero l’incentivo per funzioni tecniche sia a carico
di soggetti terzi, diversi dalle pubbliche amministrazioni.
Il Ministero ricorda che la Corte dei conti, dopo un’attenta disamina della
novella legislativa introdotta dalla legge di bilancio per il 2018 (in
effetti la legge di bilancio 2018, n. 205/2017, ha introdotto un comma 5-bis
all’art. 113), ha ritenuto che l’impegno di spesa, ove si tratti di opere,
vada assunto al titolo II della spesa, mentre nel caso di servizi e
forniture debba essere iscritto al titolo I.
La Corte ha ritenuto altresì -riferisce il Ministero- che la finalità ultima
della novella del 2018 sia esattamente quella di escludere che tali spese
siano soggette al vincolo posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti pubblici previsto dall’art. 23, comma 2, del
decreto legislativo n. 75 del 2017.
Gli incentivi complessivamente corrisposti in un anno non possono superare
l’importo del 50% del rispettivo trattamento economico complessivo annuo
lordo previsto per la qualifica e fascia economica rivestita. Il comma 8
dell’art. 9 destina eventuali eccedenze al finanziamento della cassa di
previdenza e assistenza del Ministero. Sul punto il Ministero ha ritenuto di
condividere parzialmente l’osservazione formulata al riguardo dal Ministero
dell’economia e delle finanze.
L’art. 10 prevede la riduzione dei compensi per incrementi immotivati
dei tempi previsti per l’espletamento degli incarichi, mentre l’art. 11
disciplina le ipotesi di esclusione del compenso.
L’art. 12 disciplina le ipotesi di ricorso a perizia di variante in
corso d’opera.
Gli artt. 13 e 14 contemplano norme di salvaguardia e di rinvio.
L’art. 15 prevede la pubblicazione l’aggiornamento dei dati relativi
agli incarichi sul sito istituzionale dell’amministrazione, nonché l’obbligo
di informativa alle organizzazioni sindacali e alle RSU.
L’art. 16, infine disciplina il periodo transitorio, disponendo
l’abrogazione dall’entrata in vigore del regolamento, del d.m. 17.03.2008,
n. 84.
Lo schema sottoposto è corredato di:
- relazione illustrativa;
- copia della dichiarazione del Ministro di esenzione dall’AIR;
- copia della
deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Corte dei conti - Sezione
delle autonomie, resa in esito all’adunanza del 10/04/2018;
- nota del Ministero dell’economia e delle finanze - Ufficio
legislativo economia prot. n. 5489 del 07/02/2019;
- copia dell’accordo integrativo relativo ai criteri di
ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche ex art. 113 d.lgs. n. 50
del 2016, sottoscritto in data 19/09/2018 dalle rappresentanze sindacali.
Non sono presenti la relazione tecnica, la relazione di AIR e la relazione
di ATN e lo schema sottoposto non risulta “bollinato” dalla
ragioneria generale dello Stato.
Considerato:
Il MIT sottopone al parere di questo Consiglio lo schema di regolamento
diretto a disciplinare la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche
ai sensi dell'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
Si tratta di uno dei primi casi applicativi dell’art. 113
del nuovo codice dei contratti pubblici del 2016, come modificato nel 2017 e
poi –come sopra ricordato- integrato nel dalla legge di bilancio 2018.
Constano, allo stato, quali precedenti:
- il regolamento adottato dalla Regione siciliana recante “Norme
per la ripartizione degli incentivi da corrispondere al personale
dell'Amministrazione regionale ai sensi dell'art. 113 del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, recepito nella Regione Siciliana con legge
regionale 12.07.2011, n. 12, come modificata dall'art. 24 della legge
regionale 17.05.2016, n. 8”, su cui il CGARS si è espresso con
parere n. 121/2018 reso nell’adunanza del 13.03.2018, spedito in data
16.03.2018;
- l’ordinanza
n. 57 del 04.07.2018 del Commissario straordinario per la
ricostruzione delle zone colpite dal sisma del 2016, pubblicato nella G.U.
n. 172 del 26.07.2018, che poggia però su una diversa e autonoma base
giuridica, costituita dall’art. 2-bis del decreto-legge n. 148 del 2017,
convertito, con modificazioni, nella legge n. 172 del 2017;
- lo schema di regolamento del Ministero della giustizia,
sottoposto a questo Consiglio di Stato con nota prot. n. 7598 in data
06.09.2018, che non risulta a ancora emanato. Su tale schema questa Sezione
si è espressa con un ampio e approfondito
parere interlocutorio n. 2324/2018, in esito all’adunanza del 20/09/2018.
Tale parere fornisce le essenziali coordinate valutative in materia e verrà
quindi qui ampiamente richiamato.
Lo schema di regolamento in esame,
dunque, riveste indubbiamente un considerevole rilievo, in
primo luogo per la specialissima importanza e il predominante peso che il
MIT riveste nel campo dei lavori pubblici e inoltre perché esso dovrebbe
costituire un essenziale parametro in vista della prossima adozione di
analoghi atti da parte degli altri Ministeri e delle altre amministrazioni
aggiudicatrici.
Al riguardo, atteso che l’art. 113 del Codice postula la emanazione di un
numero prevedibilmente elevato di regolamenti da parte delle numerose
amministrazioni pubbliche aggiudicatrici di lavori, servizi e forniture, la
Sezione non può non segnalare con forza la necessità dell’esercizio di un
incisivo ruolo di coordinamento di tali regolamenti da parte della
Presidenza del Consiglio e in particolare del suo DAGL, onde evitare che le
singole Amministrazioni affrontino la tematica in esame, per così dire, in
ordine sparso.
Quanto allo schema in esame, va rilevata la mancanza di relazione tecnica,
ovvero di “bollinatura” da parte della Ragioneria generale dello
Stato, ovvero della attestazione della mancanza di oneri derivanti dalla sua
applicazione. Tale mancanza non sembra poter essere surrogata dal parere
espresso dall’Ufficio legislativo del Ministero dell’economia e delle
finanze, cui peraltro nella sostanza lo schema in esame si attiene, e
pertanto andrebbe sanata.
Per quanto riguarda la mancanza della relazione di AIR, la dichiarazione del
Ministro di esenzione da tale adempimento, allegata allo schema in esame,
appare conforme a quanto previsto all’art. 7, comma 2, del d.P.C.M.
15.09.2017, n. 169 “Regolamento recante disciplina sull'analisi
dell'impatto della regolamentazione, la verifica dell'impatto della
regolamentazione e la consultazione”, in virtù del quale “I
regolamenti da adottare ai sensi dell'art. 17, comma 3, della legge
23.08.1988, n. 400, possono essere esentati dall'AIR, in ragione del ridotto
impatto dell'intervento, con dichiarazione a firma del Ministro, da allegare
alla richiesta di parere al Consiglio di Stato ed alla comunicazione al
Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'art. 17, comma 3, della
legge n. 400 del 1988.”
Non può celarsi tuttavia che, nel caso in esame, la analisi di impatto della
regolazione avrebbe potuto fornire utili elementi ai fini della valutazione
della congruità della disciplina sottoposta, tanto più ove fosse stato
operato un opportuno confronto con gli effetti prodotti finora dalla
disciplina che il testo in esame mira ad abrogare (d.m. 17.03.2008, n. 84, “Regolamento recante norme per la
ripartizione dell'incentivo di cui all'art. 92, comma 5, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163”).
Richiamando dunque quanto già osservato dalla Sezione nel citato
parere n. 2324/2018, deve osservarsi che, pur nelle novità del
nuovo quadro normativo, rispetto a quello del previgente codice di settore
del 2006 (artt. 92, comma 5, e 93, commi 7 ss., del d.lgs. n. 163 del 2006),
l’istituto della remunerazione incentivante del personale dipendente della
stazione appaltante per le attività tecniche afferenti alla programmazione,
alla progettazione, alla gestione delle procedure selettive e alla
realizzazione e collaudo dell’opera, dei lavori e, nei casi previsti, anche
degli appalti di servizi e di forniture, non risulta radicalmente mutato
nelle sue linee portanti e nelle sue precipue finalità, sicché resta utile
un attento raffronto con la normativa regolamentare previgente (nel caso del
Ministero, il suddetto
d.m. 17.03.2008, n. 84),
rispetto alla quale sarebbe stato opportuno poter disporre di
un’approfondita V.I.R. (valutazione dell’impatto della regolazione), così da
poter trarre spunto dalle criticità pregresse incontrate nell’applicazione
della normativa previgente per affinamenti, miglioramenti, indicazioni anche
innovative da inserire nel nuovo testo regolamentare.
Poiché non si rinviene nella documentazione trasmessa (ove, come detto,
mancano sia la relazione tecnica, sia quella di AIR, sia quella di ATN) un
tale raffronto tra il regime anteriore e quello che viene introdotto con il
nuovo regolamento, si ritiene opportuno che l’Amministrazione provveda a
fornire, con relazione integrativa, almeno una essenziale informazione circa
i suddetti profili.
La sezione rileva altresì la novità procedurale che sembra caratterizzare la
norma del 2016 rispetto a quella del 2006 e consistente nell’apparente
inversione del rapporto fra il regolamento e la fonte di contrattazione
collettiva: quest’ultima, nel quadro normativo vigente, segue il regolamento
come suo sviluppo specificativo di dettaglio anziché precederlo (il comma 3
dell’art. 113 prevede infatti che: “L'ottanta per cento delle risorse
finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, [ …]con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”).
Viceversa, l’art. 9, comma 5, del previgente Codice prevedeva che: “Una
somma non superiore al 2 per cento dell'importo posto a base di gara di
un'opera o di un lavoro, […] è ripartita, per ogni singola opera o lavoro,
con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e
assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, […]”. Con tutta
evidenza, cioè, mentre nel sistema precedente al regolamento spettava solo
di recepire quanto determinato in sede di contrattazione, nel regime del
nuovo codice il regolamento sembra dover rappresentare il presupposto –la “base”–
da cui potrà muovere la contrattazione decentrata integrativa per
determinare le modalità e i criteri per la ripartizione del fondo.
Non spetta a questa sede valutare la maggiore o minore congruità, praticità
ed efficacia della soluzione procedimentale adottata dal legislatore del
nuovo Codice. Comunque, dall’esame degli atti, pare doversi desumere che nel
caso in esame la contrattazione abbia preceduto la predisposizione dello
schema di regolamento, e che quest’ultimo si sia limitato a recepirne i
contenuti -in sostanza conformandosi al modello procedurale previgente-
dettando una disciplina puntuale e dettagliata, non richiedente ulteriori
specificazioni.
E infatti fra i “visti” viene riportato: “visto l’Accordo con le
OO. SS. Del 19.09.2018 sulle modalità e criteri di ripartizione del fondo di
cui all’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”; inoltre
l’art. 7 dello schema in esame, dedicato a “modalità e i criteri di
ripartizione del fondo”, riproduce testualmente l’art. 4 dell’accordo
integrativo sottoscritto dalle organizzazioni sindacali, recante, fra
l’altro, due dettagliate tabelle con le indicazioni percentuali degli
importi assegnabili alle singole figure professionali. La stessa relazione
illustrativa, del resto, asserisce che lo schema in esame disciplina le
modalità e i criteri di attribuzione dell’incentivo, come concordato in sede
di contrattazione decentrata integrativa.
Sotto l’anzidetto profilo, la relazione di analisi tecnico-normativa (ATN),
la cui predisposizione ai sensi della direttiva del Presidente del Consiglio
dei ministri 10 settembre 2008 è comunque obbligatoria, non che risolversi
in un mero adempimento formale, avrebbe potuto fornire utili indicazioni
circa il percorso logico e procedimentale seguito dall’amministrazione per
pervenire alla redazione dello schema sottoposto al parere. Occorrerà
pertanto che il Ministero fornisca chiarimenti al riguardo.
Tanto premesso, con riferimento all’articolato, e senza pretesa alcuna di
esaustività, si formulano in via preliminare le seguenti osservazioni.
In generale, si raccomanda, quanto ai profili redazionali, il puntuale
rispetto della
Circolare della Presidenza del Consiglio del 20.04.2001, recante
“Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi
legislativi” (ad esempio, all’art. 4, comma 6, si faccia riferimento ai
commi e non ai “punti”).
All’art. 1, sembra preferibile sostituire “dell’ente” con “del
Ministero”.
L’art. 2 appare sostanzialmente ripetitivo (sia pure
in forma certamente più intelligibile) di quanto disposto dall’art. 113,
comma 2, più volte citato.
Sono note le ragioni –ampiamente richiamate nel citato
parere n. 2324/2018- che militano da un lato avverso la
riproduzione, in una fonte subordinata, delle disposizioni della fonte
primaria e, dall’altro e in senso contrario, a favore della
complessiva organicità e completezza dei regolamenti, ai fini della loro
chiarezza e comprensibilità da parte dei destinatari della normativa.
Andrebbero comunque espunte dallo schema tutte quelle disposizioni che
appaiono meramente ripetitive delle disposizioni di legge e che potrebbero
essere sostituite da richiami alle medesime, senza comunque compromettere la
sistematicità e leggibilità dello schema stesso.
L’art. 14, recante “rinvio dinamico e revisione” appare nella
sostanza superfluo, dal momento che i commi 1 e 2 affermano nella sostanza
la (ovvia) prevalenza delle fonti primarie sul regolamento e il comma 3
introduce una clausola relativa al monitoraggio ed eventuale revisione del
regolamento certamente opportuna ma da specificare. Analoga considerazione
riguarda l’art. 15, comma 3.
Valuti quindi il Ministero se sottoporre, insieme agli elementi informativi
sopra richiesti, una eventuale nuova redazione dello schema.
Alla luce delle predette osservazioni e in attesa degli
adempimenti sopra indicati, occorre dunque rinviare l’espressione del
parere.
P.Q.M.
Pronunciando in via interlocutoria, rinvia l’espressione
del parere in attesa degli elementi sopra specificati
(Consiglio di Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi,
parere 09.09.2019 n. 2368 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Nel
nuovo ordinamento delle autonomie locali (d.lgs. 18.08.2000, n. 267, art.
50, fonte primaria), competente a conferire al difensore del comune la
procura alle liti è solo il sindaco, sicché la delibera della giunta
comunale, quand'anche prevista dalla normativa secondaria rappresentata
dallo statuto, resta un atto meramente gestionale e tecnico, privo di
valenza esterna.
---------------
Rilevato che
- il primo motivo è in parte inammissibile, in parte infondato;
- per un verso si tratterebbe, in tesi, di omessa pronuncia
sull'eccezione, in senso lato, indicata come formulata, e non del dedotto
omesso esame, il cui regime normativo fa diversamente riferimento a un fatto
storico discusso in istruttoria;
- per altro verso i ricorrenti indicano di aver proposto
l'eccezione in una non meglio specificata memoria di replica, senza chiarire
quindi se sia stato un atto meramente illustrativo facente parte della
discussione scritta finale, ovvero di altro atto assertivo, con una
violazione degli artt. 366, nn. 3 e 6, cod. proc. civ., che non permette di
constatare se si tratti di questione nuova, e come tale in questa sede
preclusa, essendo sotteso, al rilievo, possibile anche d'ufficio, un
accertamento in fatto (la presenza o meno della delibera, in funzione della
decisione sulla sussistenza di valida procura);
- nel merito, infine, la questione sarebbe stata comunque
infondata, poiché questa Corte ha chiarito che, nel nuovo ordinamento delle
autonomie locali (d.lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 50, fonte primaria),
competente a conferire al difensore del comune la procura alle liti è solo
il sindaco, sicché la delibera della giunta comunale, quand'anche prevista
dalla normativa secondaria rappresentata dallo statuto, resta un atto
meramente gestionale e tecnico, privo di valenza esterna (Cass., 23/03/2016,
n. 5802, pag. 3, Cass., 21/06/2018, n. 16459, pagg. 4-5) (Corte di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 10.09.2019 n.
22526). |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Per
il Comune, soggetto legittimato a stare in giudizio, ai sensi dell'art. 75
c.p.c., è soltanto il Sindaco (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non
la giunta comunale, cosicché tale ultimo organo, anche laddove abbia, per
statuto, il potere di autorizzare il Sindaco alla proposizione di azioni in
giudizio, è privo del potere di nomina del difensore, il quale, seppure
designato mediante delibera di giunta, deve nuovamente essere nominato, con
conferimento di apposita procura alle liti, dal Sindaco.
La delibera della Giunta, siccome priva di valenza esterna, ha natura
meramente gestionale e tecnica.
---------------
Costituisce orientamento consolidato di questo giudice di legittimità quello
secondo il quale, alla luce dei principi generali in tema di procura alle
liti (artt. 83 e 365 c.p.c.) e di mandato (art. 1716 c.c., disciplinante
l'ipotesi di pluralità di mandatari), ove il mandato alle liti venga
conferito a più difensori, si presume che esso sia conferito disgiuntamente
a ciascuno di essi, salvo inequivoca manifestazione di volontà della parte
in favore del carattere congiuntivo del mandato, con la conseguenza che
ciascuno dei difensori, in difetto di un'espressa ed inequivoca volontà
della parte circa il carattere congiuntivo, e non disgiuntivo, del mandato
medesimo, ha pieni poteri di rappresentanza processuale (Cass. 1168/2004;
Cass. 13252/2006).
Ne deriva che non integra gli estremi della fattispecie normativa di cui
all'art. 301 cod. proc. civ. (interruzione del processo per morte del
procuratore) il decesso di uno solo dei due difensori muniti di mandato dal
quale non risulti, espressamente, l'obbligo di agire congiuntamente, tanto
che è stata ritenuta (Cass. 8189/1997; Cass. 8931/2000; Cass. 15293/2002)
irrilevante la mancanza, nell'atto predetto, della espressione "anche
disgiuntamente", la cui assenza non consente di ritenere escluso il
potere di rappresentanza disgiunta in capo a ciascuno dei procuratori della
parte.
Nella specie, nella procura alle liti allegata a margine dell'atto di
appello era pacificamente apposta la clausola "con poteri anche disgiunti".
Ora, a fronte di ciò, il ricorrente invoca una deliberazione della Giunta
comunale, con la quale, sulla base di specifica disposizione statutaria,
sarebbe stato autorizzato il Sindaco a resistere in giudizio ed a proporre
appello, conferendo mandato congiunto ai difensori.
Tuttavia, questa Corte ha chiarito che, per il Comune, soggetto legittimato
a stare in giudizio, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., è soltanto il Sindaco
(art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non la giunta comunale, cosicché
tale ultimo organo, anche laddove abbia, per statuto, il potere di
autorizzare il Sindaco alla proposizione di azioni in giudizio, è privo del
potere di nomina del difensore, il quale, seppure designato mediante
delibera di giunta, deve nuovamente essere nominato, con conferimento di
apposita procura alle liti, dal Sindaco (Cass. 18062/2010).
La delibera della Giunta, siccome priva di valenza esterna, ha natura
meramente gestionale e tecnica (Cass. 11516/2007; Cass. 5802/2016).
Ne consegue che assume rilievo la sola procura alle liti conferita dal
Sindaco, a margine dell'atto di appello, con poteri disgiunti ai due
difensori, Avv.ti Ma. ed As., non anche la delibera della Giunta del 2001,
con la quale, secondo quanto ritrascritto in ricorso, venivano incaricati "in
maniera congiunta" i due avvocati ad "opporsi alla sentenza" di
primo grado
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 21.06.2018 n. 16459). |
IN EVIDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulle
misure che incombono sul proprietario che non sia responsabile
dell’inquinamento.
Il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento,
“…. ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure
di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative
per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia
imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia"”.
Nell’esaminare la portata dell’art. 245, comma 2, del T.U. il G.A. ha statuito
che “…. letta alla stregua del principio giurisprudenziale comunitario
sopra richiamato, il Collegio condivide quanto sostenuto da parte ricorrente
in ordine al fatto che in capo ai soggetti non responsabili del fatto
causativo del potenziale inquinamento non possa essere addebitato alcun
obbligo di intervento al di fuori dell’invio della comunicazione ex art. 245
e della implementazione di eventuali misure di prevenzione; agli stessi,
nondimeno, è riconosciuta una mera facoltà di intervenire spontaneamente nel
procedimento per evitare di perdere la proprietà/disponibilità dell’area a
seguito dell’esercizio dell’onere reale da parte della P.a.: facoltà che,
anche ove manifestata (per l’area in proprietà), tuttavia non può costituire
il presupposto per l’emanazione di un obbligo per interventi urgenti e di
ripristino anche nelle aree limitrofe”.
Il legislatore contempla dunque, a carico del proprietario incolpevole,
l’obbligo di eseguire misure di prevenzione “secondo la procedura di cui
all'articolo 242” (art. 245, comma 2). La disposizione evocata così
recita al comma 1: “Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in
grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in
opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà
immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304,
comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di
contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento
della situazione di contaminazione”.
Dunque, le misure di prevenzione si connotano per la loro immediatezza
rispetto alla scoperta dell’evento inquinante. Come ha messo in luce questa
Sezione nella già evocata pronuncia n. 897/2018 <<E’ pur vero che le
medesime sono dovute anche per evitare i “rischi di aggravamento” della
situazione di contaminazione, i quali devono essere tuttavia dimostrati o
quanto meno ipotizzati come verosimili o probabili>>.
---------------
2. Quanto alla parte finale del III e al IV motivo (imposizione di obblighi
incoerenti con la posizione di proprietario incolpevole), nella memoria di
replica Sy. ha chiarito (pagina 1) che la correttezza
dell’individuazione del soggetto responsabile della contaminazione –tenuto
ad eseguire la bonifica– non costituisce l’oggetto delle impugnative (la
questione è stata tra l’altro sottoposta a questo TAR in un separato
contenzioso con la Provincia di Mantova e la Società Ed.).
Posta questa precisazione, sul punto di diritto questa Sezione si riporta
alle riflessioni sviluppate nella propria precedente pronuncia 24/09/2018 n.
897, per cui il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento,
“…. ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure
di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative
per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia
imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” (TAR Piemonte, sez. I –
12/09/2016 n. 1142, che risulta appellata; Consiglio di Stato, sez. VI –
5/10/2016 n. 4119)”.
E’ stato richiamato anche il TAR Palermo, sez. I – 11/05/2018 n. 1061, il
quale nell’esaminare la portata dell’art. 245, comma 2, del T.U. ha statuito
che “…. letta alla stregua del principio giurisprudenziale comunitario
sopra richiamato, il Collegio condivide quanto sostenuto da parte ricorrente
in ordine al fatto che in capo ai soggetti non responsabili del fatto
causativo del potenziale inquinamento non possa essere addebitato alcun
obbligo di intervento al di fuori dell’invio della comunicazione ex art. 245
e della implementazione di eventuali misure di prevenzione; agli stessi,
nondimeno, è riconosciuta una mera facoltà di intervenire spontaneamente nel
procedimento per evitare di perdere la proprietà/disponibilità dell’area a
seguito dell’esercizio dell’onere reale da parte della P.a.: facoltà che,
anche ove manifestata (per l’area in proprietà), tuttavia non può costituire
il presupposto per l’emanazione di un obbligo per interventi urgenti e di
ripristino anche nelle aree limitrofe”.
2.1 Il legislatore contempla dunque, a carico del proprietario incolpevole,
l’obbligo di eseguire misure di prevenzione “secondo la procedura di cui
all'articolo 242” (art. 245, comma 2). La disposizione evocata così
recita al comma 1: “Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in
grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in
opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà
immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304,
comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di
contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento
della situazione di contaminazione”.
2.2 Dunque, le misure di prevenzione si connotano per la loro immediatezza
rispetto alla scoperta dell’evento inquinante. Come ha messo in luce questa
Sezione nella già evocata pronuncia n. 897/2018 <<E’ pur vero che le
medesime sono dovute anche per evitare i “rischi di aggravamento” della
situazione di contaminazione, i quali devono essere tuttavia dimostrati o
quanto meno ipotizzati come verosimili o probabili>>.
Sulla base degli accertamenti ARPA, la nota impugnata individua ulteriori “misure
di prevenzione”, con una qualificazione resa si rivela appropriata sulla
base dell’oggettivo riscontro della presenza del prodotto inquinante. Se
l’astratta classificazione della prescrizione si rivela corretta, permane
l’obbligo giuridico di valutare l’efficacia delle misure, messa in
discussione dalla ricorrente con deduzioni non adeguatamente approfondite
dall’amministrazione (che non le ha contestate, neppure in giudizio)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.09.2019 n. 797 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’assunzione
volontaria –da parte della
ricorrente– degli obblighi di risanamento ambientale determinerebbe la
conseguente impossibilità, per la stessa, di sottrarsi a tutti i connessi
adempimenti, a prescindere dagli obblighi imposti ex lege, va evidenziato
come la volontà di partecipare fattivamente alla prevenzione dei rischi
provenienti dall’area non possa che trovare applicazione nei ragionevoli
limiti delle attività naturalmente conseguenziali alla manifestazione di
volontà di farsene carico.
Infatti “L'atto volontario di impegno
all'intervento di messa in sicurezza implica l'assunzione di un sacrificio
patrimoniale, da contenere però nei limiti della normalità, e cioè della
prevedibilità. Il contenuto del giudizio (di prevedibilità) attiene in
questo caso alla misura del proprio intervento come conseguenza probabile
dell'iniziativa assunta. In altri termini non si può ritenere che mediante
la comunicazione ex art. 17, comma 13-bis, del Dlgs. n. 22/1997 e 9 del Dm.
471/1999, il proprietario incolpevole si renda disponibile all'esecuzione
di qualsiasi intervento, ma solo di quelli in quel momento prevedibili,
secondo criteri di normalità.”
---------------
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 240, comma 1, lettera i) e
245, comma 2, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) il
proprietario o gestore dei terreni, ancorché non responsabile
dell’inquinamento, è tenuto a porre in essere adeguate misure di
prevenzione, ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o
un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per
l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi
un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al
fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
Secondo i principi affermatisi in materia fin dall’adunanza plenaria del
Consiglio di Stato 25.09.2013, n. 21 “dalle disposizioni contenute nel
d.lgs. n. 152/2006 (in particolare, nel Titolo V della Parte IV) possono
ricavarsi le seguenti regole:
1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245,
comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui
all’art. 240, comma 1, lett. 1), ovvero “le iniziative per contrastare un
evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la
salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che
si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro
prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale
minaccia”;
2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino
gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul
soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo,
l’inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda
spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli
interventi che risultassero necessari sono adottati dalla p.a. competente
(art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi potranno essere
recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra
l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile
ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo
soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo piuttosto in rivalsa verso il
proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a
seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere
reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)”.
Il proprietario del terreno al quale non sia imputabile la situazione di
contaminazione ha quindi l’obbligo di intervenire direttamente solo nel caso
di minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, ovvero per le
operazioni che devono essere eseguite nell’immediatezza e senza ritardo,
anche a prescindere da ogni accertamento sui ruoli rivestiti e sulle
responsabilità. Diversamente, per le attività successive non sono più
configurabili obblighi di facere in capo al proprietario incolpevole,
pur restando salva la sua responsabilità patrimoniale nei limiti del valore
venale del bene all'esito degli interventi da compiere, conformemente a
quanto dispone l’articolo 253 del Codice dell’ambiente.
Detto orientamento è stato ritenuto conforme all’ordinamento europeo
dalla Corte di Giustizia secondo cui “la direttiva 2004/35/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità
ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale,
deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale
(…) la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il
responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le
misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre
l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di
tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto
al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità
competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi”.
Gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino
gravano quindi unicamente sul responsabile dell’inquinamento, secondo il
principio eurounitario “chi inquina paga” di cui all’articolo 191
TFUE, sul quale è fondata la responsabilità ambientale, salva l’ipotesi di
un intervento volontario del proprietario incolpevole ai sensi dell’articolo
9 del D.M. n. 471 del 1999 e dell’articolo 245, comma 2, ultimo periodo, del
T.U. n. 152/2006.
Il Consiglio di Stato ha osservato, conformemente, che “Ai
sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152,
una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito,
gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili
dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la
contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo
legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo
configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito
inquinato)”.
Rientrano pertanto negli oneri a carico del responsabile incolpevole le
misure di precauzione e non anche le indagini di caratterizzazione,
identificabili ai sensi dell’Allegato 2 del Titolo V della Parte IV del TUA,
con l’insieme delle attività che permettono di ricostruire i fenomeni di
contaminazione a carico delle matrici ambientali, in modo da ottenere
informazioni di base su cui prendere decisioni realizzabili e sostenibili
per la messa in sicurezza e/o bonifica del sito.
Infatti se “vale nel nostro ordinamento il principio “chi inquina
paga”, da intendersi, secondo l’orientamento costante della Corte di
Giustizia, nel senso che colui che deve sostenere le spese (comprese quelle
delle indagini) connesse alla messa in sicurezza e alla rimozione
dell’inquinamento è colui che, con il proprio comportamento, abbia
concretamente partecipato all’inquinamento o omesso di impedire il suo
verificarsi, allora nemmeno il piano di caratterizzazione, che si presuppone
debba essere redatto dal responsabile dell’inquinamento può essere imposto
al curatore fallimentare, al quale non siano imputabili condotte causative
dell’inquinamento”.
---------------
2. Deve essere preliminarmente chiarito, in relazione alle difese
spiegate da Ed. s.p.a., come la tematica della responsabilità di detta
società per la contaminazione dei terreni dell’area di cui è questione esuli
dall’oggetto del presente giudizio, diretto diversamente a censurare alcune
prescrizioni imposte a Ve. dalle resistenti amministrazioni nell’ambito
delle attività di prevenzione e messa in sicurezza del sito, sulla scorta
del solo titolo proprietario e a prescindere all’individuazione
dell’imputabilità dell’inquinamento e delle quali la Società ricorrente
denuncia, conseguentemente, l’illegittimità sotto il profilo del
travisamento dei fatti e dell’irragionevolezza, oltre che della carenza di
istruttoria.
3. Ulteriormente, per quanto riguarda l’argomento illustrato dalla
controinteressata, secondo cui l’assunzione volontaria –da parte della
ricorrente– degli obblighi di risanamento ambientale determinerebbe la
conseguente impossibilità, per la stessa, di sottrarsi a tutti i connessi
adempimenti, a prescindere dagli obblighi imposti ex lege, va evidenziato
come la volontà di partecipare fattivamente alla prevenzione dei rischi
provenienti dall’area non possa che trovare applicazione nei ragionevoli
limiti delle attività naturalmente conseguenziali alla manifestazione di
volontà di farsene carico.
Infatti “L'atto volontario di impegno
all'intervento di messa in sicurezza implica l'assunzione di un sacrificio
patrimoniale, da contenere però nei limiti della normalità, e cioè della
prevedibilità. Il contenuto del giudizio (di prevedibilità) attiene in
questo caso alla misura del proprio intervento come conseguenza probabile
dell'iniziativa assunta. In altri termini non si può ritenere che mediante
la comunicazione ex art. 17, comma 13-bis, del Dlgs. n. 22/1997 e 9 del Dm.
471/1999, il proprietario incolpevole si renda disponibile all'esecuzione
di qualsiasi intervento, ma solo di quelli in quel momento prevedibili,
secondo criteri di normalità.” (TAR Marche, Ancona, Sez. I, 05.08.2009, n. 857; id. TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 16.03.2006, n. 291).
4. L’attivazione del procedimento di risanamento da parte del proprietario
del sito non esonera quindi l’amministrazione dall’individuazione del
responsabile della contaminazione.
5. Per quanto riguarda invece gli obblighi di risanamento ambientale imposti
non su base volontaria ma per legge, con il primo motivo la società
ricorrente denuncia l’illegittimità degli atti gravati in quanto
l’integrazione della caratterizzazione ivi richiesta rientra nelle attività
di bonifica e non fa parte delle misure di prevenzione la cui adozione può
essere pretesa dal proprietario incolpevole.
6. Ai sensi del combinato disposto degli articoli 240, comma 1, lettera i) e
245, comma 2, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) il
proprietario o gestore dei terreni, ancorché non responsabile
dell’inquinamento, è tenuto a porre in essere adeguate misure di
prevenzione, ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o
un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per
l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi
un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al
fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
7. Secondo i principi affermatisi in materia fin dall’adunanza plenaria del
Consiglio di Stato 25.09.2013, n. 21 “dalle disposizioni contenute nel
d.lgs. n. 152/2006 (in particolare, nel Titolo V della Parte IV) possono
ricavarsi le seguenti regole:
1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245,
comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui
all’art. 240, comma 1, lett. 1), ovvero “le iniziative per contrastare un
evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la
salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che
si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro
prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale
minaccia”;
2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino
gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul
soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo,
l’inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda
spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli
interventi che risultassero necessari sono adottati dalla p.a. competente
(art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi potranno essere
recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra
l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile
ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo
soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo piuttosto in rivalsa verso il
proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a
seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere
reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)” (Cons.
Stato, sez. VI, 16.07.2015, n. 3544; id. ex multis TAR Lombardia,
Brescia Sez. I, 31.07.2018, n. 766).
8. Il proprietario del terreno al quale non sia imputabile la situazione di
contaminazione ha quindi l’obbligo di intervenire direttamente solo nel caso
di minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, ovvero per le
operazioni che devono essere eseguite nell’immediatezza e senza ritardo,
anche a prescindere da ogni accertamento sui ruoli rivestiti e sulle
responsabilità. Diversamente, per le attività successive non sono più
configurabili obblighi di facere in capo al proprietario incolpevole, pur
restando salva la sua responsabilità patrimoniale nei limiti del valore
venale del bene all'esito degli interventi da compiere, conformemente a
quanto dispone l’articolo 253 del Codice dell’ambiente (TAR Lombardia,
Brescia, Sez. I, 13.03.2017, n. 364).
9. Detto orientamento è stato ritenuto conforme all’ordinamento europeo
dalla Corte di Giustizia secondo cui “la direttiva 2004/35/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità
ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale,
deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale
(…) la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il
responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le
misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre
l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di
tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto
al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità
competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi” (sentenza 04.03.2015 resa nella causa
C-534/13).
10. Gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino
gravano quindi unicamente sul responsabile dell’inquinamento, secondo il
principio eurounitario “chi inquina paga” di cui all’articolo 191
TFUE, sul quale è fondata la responsabilità ambientale, salva l’ipotesi di
un intervento volontario del proprietario incolpevole ai sensi dell’articolo
9 del D.M. n. 471 del 1999 e dell’articolo 245, comma 2, ultimo periodo, del
T.U. n. 152/2006.
11. La V sezione del Consiglio di Stato ha osservato, conformemente, che “Ai
sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152,
una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito,
gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili
dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la
contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo
legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo
configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito
inquinato)” (Cons. Stato, Sez. V, 14.04.2016, n. 1509).
12. Rientrano pertanto negli oneri a carico del responsabile incolpevole le
misure di precauzione e non anche le indagini di caratterizzazione,
identificabili ai sensi dell’Allegato 2 del Titolo V della Parte IV del TUA,
con l’insieme delle attività che permettono di ricostruire i fenomeni di
contaminazione a carico delle matrici ambientali, in modo da ottenere
informazioni di base su cui prendere decisioni realizzabili e sostenibili
per la messa in sicurezza e/o bonifica del sito.
13. Infatti se “vale nel nostro ordinamento il principio “chi inquina
paga”, da intendersi, secondo l’orientamento costante della Corte di
Giustizia, nel senso che colui che deve sostenere le spese (comprese quelle
delle indagini) connesse alla messa in sicurezza e alla rimozione
dell’inquinamento è colui che, con il proprio comportamento, abbia
concretamente partecipato all’inquinamento o omesso di impedire il suo
verificarsi, allora nemmeno il piano di caratterizzazione, che si presuppone
debba essere redatto dal responsabile dell’inquinamento può essere imposto
al curatore fallimentare, al quale non siano imputabili condotte causative
dell’inquinamento” (Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 09.01.2017, n. 38)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 03.09.2019 n. 794 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Abbandono e responsabilità.
Mentre il comando di cui all'art. 14, comma 3
(ora art. 192, comma 3 d.lgs. 152/2006) è rivolto ai
responsabili dell'abbandono di rifiuti e ai proprietari del
terreno inquinato, il precetto dell'art. 50, comma 2 (ora
art. 255, comma 3, d.lgs. 152/2006) è rivolto ai destinatari
formali dell'ordinanza sindacale; di modo che spetta a
costoro, per evitare di rendersi responsabili
dell'inottemperanza, di ottenere l'annullamento
dell'ordinanza sindacale per via amministrativa o per via
giurisdizionale, o -al limite- di provare in sede penale di
non essere proprietari del terreno né responsabili
dell'abbandono, al fine di ottenere dal giudice penale la
disapplicazione dell'ordinanza per illegittimità (cioè per
mancanza dei presupposti soggettivi).
---------------
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, nel considerare i rapporti tra la
disciplina generale dei rifiuti e quella contenuta in norme
specifiche, la legge n. 257 del 1992
riguarda, in via principale, la cessazione dell'impiego
dell'amianto e si occupa dei rifiuti di amianto per la
realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica
delle aree interessate dall'inquinamento di amianto, e
contempla fra i "rifiuti di amianto" qualsiasi
sostanza o qualsiasi oggetto che abbia perso la sua
destinazione d'uso e che possa disperdere fibre di amianto
nell'ambiente in determinate concentrazioni applicabili, e
che in tali casi si deve avere riguardo alla legge n. 257
medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Con l'impugnata sentenza, la Corte d'appello di
Milano ha confermato la sentenza del Tribunale della
medesima città con la quale Ge.Ez.Gi. era stato condannato,
previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche
in misura equivalente alla recidiva, alla pena di mesi
quattro di arresto, in ordine al reato di cui all'art. 255,
comma 3, del d.lvo n. 152 del 2006 (diversamente qualificata
l'originaria imputazione di cui all'art. 452-terdecies cod.
pen.), per avere, quale legale rappresentante della
Im.No.Br. srl, non ottemperato all'ordinanza sindacale e
relativa diffida, emanata dal Sindaco di Milano, ai sensi
dell'art. 192, comma 3, del medesimo decreto, con la quale
si intimava di rimuovere la copertura di amianto su un
immobile di proprietà della medesima società. In Milano dal
20/05/2015 e tutt'ora permanente.
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l'imputato, a
mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto
l'annullamento deducendo due motivi di ricorso.
- Violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in
relazione all'erronea applicazione degli artt. 192 e 255,
comma 3, del d.lvo n. 152 del 2006.
La corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto
integrata la fattispecie penale sul mero dato
dell'inottemperanza dell'ordinanza emessa ex art. 192 cit.,
senza verificare la legittimità di questa e senza verificare
che l'omissione riguardasse un rifiuto ai sensi dell'art.
183 del medesimo decreto, e senza verificare la ricorrenza
di una condotta di abbandono o deposito.
Non avrebbe poi considerato che il pignoramento immobiliare
e la crisi economica in cui versava l'imputato gli avrebbero
impedito qualunque intervento e dunque l'osservanza
dell'ordinanza sindacale. Nel caso de quo non si
potrebbe ravvisare il reato in assenza di abbandono del
rifiuto, poiché si trattava di un tetto contenente amianto
diventato potenzialmente pericoloso che non è stato dismesso
per le ragioni evidenziate, sicché mancherebbe la volontà
dismissiva di abbandono.
- Vizio di motivazione in relazione alla manifesta illogicità e
contraddittorietà e travisamento dell'esame dell'imputato
con riguardo all'impossibilità di adempiere in ragione del
pignoramento immobiliare e della crisi economica,
circostanze che, ciascuna di esse, escludevano la volontà di
non adempiere per oggettiva impossibilità.
3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto
l'annullamento con rinvio della sentenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è fondato nei limiti e per le ragioni di cui
in motivazione.
5. Secondo quanto risulta dalle conformi sentenze di merito,
insindacabile in questa sede in presenza di congrua
motivazione, era stata accertata l'omessa rimozione della
copertura in amianto di un tetto di un immobile di proprietà
della società di cui il Ge. è il legale rappresentante, a
seguito di diffida del Sindaco del comune di Milano in data
16/10/2013, e successiva ordinanza, emessa il 02/07/2014
(notificata al Ge. il 07/07/2014), ex art. 50 TU Enti
Locali, rimasta ineseguita alla data dell'accertamento il
29/05/2015.
Sulla scorta di tali elementi di fatto, i giudici del
merito, diversamente qualificata l'originaria imputazione di
violazione dell'art. 452- terdecies cod. pen., hanno
condannato il Ge. per la contravvenzione di cui all'art.
255, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, per l'inottemperanza
all'ordinanza di rimozione dei rifiuti emessa ai sensi
dell'art. 192, comma 3, del medesimo decreto.
6. Occorre muovere dall'esegesi dalle norme giuridiche che
regolano la materia e segnatamente dall'art. 255, comma 3,
del d.lgs. n. 152 del 2006, art. 192, comma 1 e 3, del
medesimo decreto.
Gli elementi essenziali della fattispecie penale di cui
all'art. 255, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, che
punisce "chiunque non ottempera all'ordinanza del
Sindaco, di cui all' articolo 192, comma 3, o non adempie
all'obbligo di cui all'articolo 187, comma 3, è punito con
la pena dell'arresto fino ad un anno", sono l'esistenza
di un'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti, emessa
ex art. 192 cit., e la condotta di inottemperanza da parte
dei destinatari dell'ordinanza stessa.
Come chiarito dalle sentenze di Questa Terza Sezione della
Corte di cassazione Grispo e Viti,
trattasi -nonostante
l'apparenza contraria indotta dal riferimento lessicale a "chiunque"-
di un reato proprio, che può essere commesso solo dai
destinatari formali dell'ordinanza (Sez. 3, n. 24724 del
15/05/2007, Grispo, Rv. 236954 - 01; Sez. 3, n. 31003 del
10/07/2002, P.M. in proc. Viti M ed altro, Rv. 222421).
In particolare, la pronuncia Grispo mette in luce i diversi
destinatari dei diversi obblighi, inizialmente dettati dagli
artt. 14 e 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 (cd. Decreto
Ronchi), la cui disciplina è stata poi trasfusa nell'attuale
d.lgs. n. 152 del 2006 che regola il settore.
L'art. 14 del Decreto Ronchi individuava il soggetto
obbligato alla rimozione ed al ripristino nella persona che
ha violato il divieto di abbandono, al quale è affiancato in
solido il proprietario del sito (o il titolare di diritti di
godimento sulla area) solo se la violazione gli sia
imputabile "a titolo di dolo o di colpa".
Accanto al generale divieto di abbandono dei rifiuti e al
correlato obbligo di rimozione in capo a colui che ha
proceduto all'abbandono (ed alla posizione del proprietario
"incolpevole"), si colloca l'ordinanza sindacale di
rimozione, smaltimento e ripristino dei luoghi, prevista
dall'art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 22 del 1997, ora D.Lgs.
n. 152 del 2006, art. 192, comma 3. In tale ambito si era,
in particolare chiarito, che l'ordinanza emessa ex art. 14,
comma 3, ora art. 192, comma 3 cit., può essere emanata solo
nei confronti dei soggetti che hanno abbandonato i rifiuti.
Sempre la pronuncia Grispo si riallaccia e ripete i principi
fissati dalla precedente sentenza (Sez. 3, n. 31003 del
10/07/2002, P.M. in proc. Viti ed altro, Rv. 222421), che
evidenziava come,
mentre il comando di cui all'art. 14,
comma 3, è rivolto ai responsabili dell'abbandono di rifiuti
e ai proprietari del terreno inquinato, il precetto
dell'art. 50, comma 2, è rivolto ai destinatari formali
dell'ordinanza sindacale; di modo che spetta a costoro, per
evitare di rendersi responsabili dell'inottemperanza, di
ottenere l'annullamento dell'ordinanza sindacale per via
amministrativa o per via giurisdizionale, o -al limite- di
provare in sede penale di non essere proprietari del terreno
né responsabili dell'abbandono, al fine di ottenere dal
giudice penale la disapplicazione dell'ordinanza per
illegittimità (cioè per mancanza dei presupposti
soggettivi).
Mentre onere dell'organo dell'accusa è solo
quello di provare gli elementi essenziali del reato previsto
dall'art. 50, comma 2, D.Lgs. 22/1997, oggi dall'art. 255,
comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, ossia, da una parte,
l'esistenza dell'ordinanza sindacale, emessa ai sensi
dell'art. 192 cit., assistita da presunzione di legittimità
e, dall'altra, l'inottemperanza da parte dei suoi
destinatari.
7. Ora, quanto al caso in scrutinio, la corte territoriale
non ha adeguatamente chiarito se si trattava di un'ipotesi
di abbandono costituente presupposto per l'adozione
dell'ordinanza ex art. 193, comma 3, del d.lgs. n. 152 del
2006, ovvero di inottemperanza al dictum di un
provvedimento amministrativo, legalmente dato ai sensi
dell'art. 50, comma 5, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, da cui
la rilevanza della questione di diritto posta dal
ricorrente, di configurazione della violazione dell'art. 650
cod. pen. E ciò in quanto solo l'inottemperanza
all'ordinanza sindacale emessa ai sensi dell'art. 193, comma
3, cit., è assistita dalla sanzione penale ex art. 255,
comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006.
In tale ambito, incidentalmente rileva, il Collegio, che
la giurisprudenza di legittimità ha, ancora di
recente, chiarito che, nel considerare i rapporti tra la
disciplina generale dei rifiuti e quella contenuta in norme
specifiche, ha affermato che la legge n. 257 del 1992
riguarda, in via principale, la cessazione dell'impiego
dell'amianto e si occupa dei rifiuti di amianto per la
realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica
delle aree interessate dall'inquinamento di amianto, e
contempla fra i "rifiuti di amianto" qualsiasi
sostanza o qualsiasi oggetto che abbia perso la sua
destinazione d'uso e che possa disperdere fibre di amianto
nell'ambiente in determinate concentrazioni applicabili, e
che in tali casi si deve avere riguardo alla legge n. 257
medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti
(Sez. 3, n. 31398 del 10/07/2018; Sez. 3, n. 31011 del
18/06/2002, Zatti, Rv. 222390, non massimata sul punto).
8. In accoglimento del primo motivo di ricorso, la
sentenza va annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra
Sezione della Corte d'appello di Milano. Resta assorbito il
secondo motivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2019 n. 31310). |
IN EVIDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI – Rimozione della copertura di amianto –
Inottemperanza all’ordinanza sindacale – Art. 50 TU Enti
Locali – Abbandono – Responsabilità – Artt. 183, 192 e 255,
c. 3, d.L.vo n. 152/2006 – art. 452-terdecies cod. pen.
Gli elementi essenziali della fattispecie penale di cui
all’art. 255, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, che punisce
“chiunque non ottempera all’ordinanza del Sindaco, di cui
all’ articolo 192, comma 3, o non adempie all’obbligo di cui
all’articolo 187, comma 3, è punito con la pena dell’arresto
fino ad un anno”, sono l’esistenza di un’ordinanza sindacale
di rimozione dei rifiuti, emessa ex art. 192 (codice
dell’ambiente), e la condotta di inottemperanza da parte dei
destinatari dell’ordinanza stessa.
Accanto al generale
divieto di abbandono dei rifiuti e al correlato obbligo di
rimozione in capo a colui che ha proceduto all’abbandono (ed
alla posizione del proprietario “incolpevole”), si colloca
l’ordinanza sindacale di rimozione, smaltimento e ripristino
dei luoghi.
Tale ordinanza, emessa ex art. 192, comma 3, T.U.A., può essere emanata solo nei confronti dei soggetti
che hanno abbandonato i rifiuti.
Rimanendo, comunque, ferma
la possibilità di provare in sede penale di non essere
proprietari del terreno né responsabili dell’abbandono, al
fine di ottenere dal giudice penale la disapplicazione
dell’ordinanza per illegittimità (cioè per mancanza dei
presupposti soggettivi).
...
RIFIUTI – AMIANTO – Rapporti tra la disciplina generale dei
rifiuti e quella contenuta in norme specifiche sull’amianto
– L. n. 257/1992 – Applicazione – Giurisprudenza.
In tema di rapporti tra la disciplina generale dei rifiuti e
quella contenuta in norme specifiche, la legge n. 257 del
1992 riguarda, in via principale, la cessazione dell’impiego
dell’amianto e si occupa dei rifiuti di amianto per la
realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica
delle aree interessate dall’inquinamento di amianto, e
contempla fra i “rifiuti di amianto” qualsiasi sostanza o
qualsiasi oggetto che abbia perso la sua destinazione d’uso
e che possa disperdere fibre di amianto nell’ambiente in
determinate concentrazioni applicabili; in tali casi si deve
avere riguardo alla legge n. 257 medesima e non alla
disciplina generale dei rifiuti (Sez. 3, n. 31398 del
10/07/2018; Sez. 3, n. 31011 del 18/06/2002, Zatti) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2019 n. 31310 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti
contenenti amianto.
Con
riferimento ai rifiuti contenenti amianto la disciplina generale dei rifiuti
è applicabile in tutti i casi non disciplinati in modo specifico dalla
legge.
La eterogeneità dei rifiuti e l'assenza di cautele volte ad impedire
pericoli
o lesioni dell'integrità dell'ambiente sono dati fattuali certamente
indicativi della
presenza di un deposito incontrollato.
L'applicazione di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto
alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti fa sì che l'onere della prova
circa la sussistenza delle condizioni di legge debba essere assolto da colui
che ne richiede l'applicazione.
---------------
La giurisprudenza di questa Corte nel considerare i rapporti tra la disciplina
generale dei rifiuti
e quella contenuta in norme specifiche ha affermato, tra l'altro, che la
legge n. 257
del 1992 riguarda, in via principale, la cessazione dell'impiego
dell'amianto e si
occupa dei rifiuti di amianto per la realizzazione di misure di
decontaminazione e di
bonifica delle aree interessate dall'inquinamento di amianto, cosicché
contempla fra
i "rifiuti di amianto" qualsiasi sostanza o qualsiasi oggetto che abbia
perso la sua
destinazione d'uso e che possa disperdere fibre di amianto nell'ambiente in
determinate concentrazioni applicabili, però, alle attività disciplinate
dalla legge n.
257 medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti.
Dunque nei casi in precedenza esaminati si tratta, come si è detto, di
disposizioni speciali rispetto a quelle generali in materia di rifiuti, con
la
conseguenza che la disciplina generale sarà applicabile in tutti i casi non
disciplinati
in modo specifico.
----------------
Nel nostro ordinamento, i presidi di sicurezza in materia di rifiuti
pericolosi
contenenti amianto sono specificamente previsti non solo dalla norma
generale
dell'art. 183 del D.Lgs. cit. ma anche dal D.M. 29.07.2004, n. 248 e da
quelli del
D.M. Sanità 06.09.1994, D.M. Sanità 26.10.1995 e D.M. Sanità 20.08.1999, sicché anche la mancanza di presidi di sicurezza, come adeguatamente
accertato nel caso in esame dai Giudici del merito, determina l'abbandono
dei rifiuti,
escludendo la configurabilità del deposito temporaneo.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di L'Aquila, con sentenza dell'08/07/2016 ha
parzialmente
riformato la sentenza in data 18/05/2015 il Tribunale di Chieti, dichiarando
l'imputato
non punibile in riferimento ai fatti di cui ai punti B) e C)
dell'imputazione ai sensi
dell'art. 649 cod. proc. pen. e rideterminando la pena relativamente alla
residua
condotta, contestata al punto A) della medesima imputazione a Ro.CA.
e
concernente la violazione dell'art. 256, comma 1, lett. b), d.lgs. 152/2006,
per avere
effettuato in un sito di sua proprietà, quale titolare di un ditta
artigianale, un deposito
incontrollato di rifiuti pericolosi costituiti da materiale cementizio tipo
"eternit":
vasche, onduline e raccordi di tubo contenenti fibre di amianto (fatto
accertato in
Guardiagrele, il 25/09/2012).
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il
proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei
limiti
strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att.
cod. proc.
pen.
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge, affermando
che
la sentenza impugnata sarebbe fondata sull'erroneo presupposto che tutti i
materiali
contenenti amianto siano pericolosi, prescindendo da ogni accertamento
tecnico,
così configurandosi in ogni caso, con la mera detenzione o il deposito in
un'area
privata, un "deposito temporaneo di rifiuti pericolosi", soggetto alla
relativa
disciplina.
Aggiunge che la sentenza impugnata sarebbe stata assunta in violazione di
plurime disposizioni di legge, poiché nessuna norma consentirebbe di
qualificare, a
priori, come pericoloso il materiale contenente amianto ed, inoltre, i dd.mm.
29/07/2004 n. 248, 26/10/1995 e 20/08/1999, sarebbero destinati agli operatori
di
settore e non anche ai privati, mentre la Corte di appello avrebbe dovuto
considerare
quanto disposto dal d.m. 06/09/1994.
Rileva che nella relazione dell'ARTA (allegata al ricorso) non vi sarebbe
alcun riferimento alla esecuzione di prove destinate ad accertare il grado
di conservazione
dei materiali rinvenuti ed il coefficiente di dispersione delle fibra.
3. Con un secondo motivo di ricorso denuncia la violazione di legge,
osservando che la Corte di appello avrebbe erroneamente qualificato il
materiale
rinvenuto come rifiuto, pur avendo egli contestato tale natura, ritenendone
necessario lo smaltimento che, invece, in base a quanto disposto dall'art. 2
l.
257/1992 e dagli artt. 1 e 7 dell'Allegato 1 al d.m. 06/09/1994, sarebbe
obbligatorio
solo in caso di pericolo di dispersione delle relative fibre dovuto ad un
cattivo stato
di conservazione della sostanza o ad interventi di manutenzione.
Aggiunge che il materiale probatorio acquisito nel giudizio di merito non
consentirebbe di supportare le conclusioni adottate dalla Corte di appello,
non
risultando eseguite le necessarie prove tecniche per attribuire al materiale
rinvenuto
la natura di rifiuto pericoloso.
4. Con un terzo motivo di ricorso lamenta il vizio di motivazione, rilevando
che
la sentenza avrebbe erroneamente qualificato l'area oggetto di accertamento
come
aperta al pubblico ed il deposito del materiale quale deposito
incontrollato.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Nella sentenza impugnata viene data atto che, nell'appello, la difesa aveva
dedotto, con riferimento ai beni contenenti amianto rinvenuti nell'area
oggetto di
controllo, che gli stessi, acquistati in precedenza dalla società
dell'imputato "come
beni in libera vendita", erano stati poi rinvenuti in locali originariamente
destinati a
magazzino e collocati all'esterno, su bancali di legno, in attesa che una
società
destinata al loro smaltimento ne curasse il ritiro.
Sulla base di tale premessa l'appellante osservava anche che, all'atto del
controllo, non era ancora spirato il termine annuale di cui all'art. 183 d.lgs. 152/2006.
2. Alla luce di tali premesse risulta, dunque, evidente che i materiali
rinvenuti
erano certamente rifiuti, emergendo, dalle affermazioni contenute nell'atto
di
appello, che il detentore aveva l'intenzione di disfarsene, tanto che li
aveva destinati
allo smaltimento rivolgendosi ad una società che avrebbe dovuto curarne il
ritiro.
E' appena il caso di ricordare, infatti, che secondo quanto disposto
dall'art. 183,
comma 1, lettera a), d.lgs. 152/2006, nella sua attuale formulazione, deve
ritenersi
rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disti o abbia
l'intenzione o
abbia l'obbligo di disfarsi».
3. E' altrettanto evidente che l'appellante, richiamando l'art. 183 e
riferendosi ad
un termine annuale, aveva inteso riferirsi all'istituto del deposito
temporaneo,
all'epoca dei fatti definito, nel medesimo art. 183, alla lettera bb), come
il
raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in
cui gli stessi
sono prodotti o, per gli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del
codice civile,
presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa
agricola, ivi
compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci.
Il deposito temporaneo, sempre secondo la richiamata disposizione nella
formulazione vigente all'epoca dei fatti, era soggetto alle seguenti
condizioni:
- i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di cui al
regolamento (CE)
850/2004, e successive modificazioni, devono essere depositati nel rispetto
delle
norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l'imballaggio dei rifiuti
contenenti
sostanze pericolose e gestiti conformemente al suddetto regolamento;
- i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o
di
smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del
produttore dei rifiuti:con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente
dalle
quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito
raggiunga
complessivamente i 30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti
pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il
predetto limite
all'anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno;
- il "deposito temporaneo" deve essere effettuato per categorie omogenee di
rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti
pericolosi, nel
rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose
in essi
contenute;
- devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e
l'etichettatura delle sostanze pericolose;
- per alcune categorie di rifiuto, individuate con decreto del Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il
Ministero per
lo sviluppo economico, sono fissate le modalità di gestione del deposito
temporaneo.
4. A tali specifiche censure si è dunque riferita la Corte territoriale, la
quale,
seppure talvolta con termini non del tutto pertinenti alla materia trattata,
ha
chiaramente e motivatamente escluso la sussistenza dei presupposti per la
sussistenza di un deposito temporaneo.
In particolare, i giudici del gravame hanno preso in considerazione il luogo
ove i
rifiuti erano depositati e le modalità di collocazione degli stessi e,
affermando che i
rifiuti erano in un'area aperta accessibile a tutti, in un posto che non era
un "cantiere
di lavoro", si riferiscono chiaramente al fatto che il raggruppamento era
avvenuto in
luogo diverso da quello di produzione del rifiuto e che le modalità di
deposito non
erano compatibili con quelle indicate dalla norma di riferimento, come
meglio si
intende successivamente, laddove si esclude espressamente la sussistenza dei
presupposti per il deposito temporaneo, ritenendosi in definitiva
configurabile, nella
fattispecie, il deposito incontrollato di cui all'imputazione.
Invero, la eterogeneità dei rifiuti e l'assenza di cautele volte ad impedire
pericoli
o lesioni dell'integrità dell'ambiente sono dati fattuali certamente
indicativi della
presenza di un deposito incontrollato.
Va peraltro osservato che, invocando l'applicazione, nel caso in esame,
della
disciplina del deposito temporaneo, l'imputato avrebbe dovuto dimostrare la
sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge, poiché, come più volte
affermato da
questa Corte, l'applicazione di norme aventi natura eccezionale e
derogatoria
rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti fa sì che l'onere
della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge debba essere
assolto da colui che ne richiede
l'applicazione (v., con riferimento al deposito temporaneo Sez. 3, n. 15680
del 03/03/2010, Abbatino, non massimata; Sez. 3, n. 21587 del 17/03/2004, Marucci,
non
massimata; Sez. 3, n. 30647 del 15/06/2004, Dell'Angelo, non nnassimata).
5. Il ricorso, tuttavia, non prende in considerazione, se non in parte, gli
argomenti sviluppati dalla Corte di appello e, continuando a negare la
natura di
rifiuto del materiale rinvenuto, natura che, però, come si è detto,
nell'atto di appello
aveva chiaramente riconosciuto, sposta l'attenzione sulla disciplina
applicabile ai
rifiuti contenenti amianto con le considerazioni sintetizzate in premessa e
riferite al
primo motivo di ricorso.
6. Va preliminarmente osservato, a tale proposito, che il Titolo Terzo della
Parte
Quarta del d.lgs. 152/2006 si occupa, come è noto, della gestione di categorie
particolari di rifiuti. Ciò, come si legge nella relazione illustrativa, ha
lo scopo di
costituire un raccordo con la legislazione comunitaria e nazionale
intervenuta dopo
l'entrata in vigore del d.lgs. 22/1997, di introdurre nuove fattispecie sulla
scorta
dell'esperienza maturata nella prassi operativa sotto la vigenza del
"decreto Ronchi"
e di adeguare ai criteri direttivi dei sistemi di gestione anche i
preesistenti consorzi
obbligatori.
Si è così ricavato un sistema di norme che riguarda il raccordo con le
discipline
speciali, attinenti, tra l'altro, anche al recupero di rifiuti e beni
contenenti amianto.
In particolare, l'articolo 227 del d.lgs. 152/2006, nello stabilire che
restano ferme
le disposizioni speciali, nazionali e comunitarie relative alle altre
tipologie di rifiuti,
menziona in particolare, per quel che qui rileva, al comma 1, lett. d), il
d.m. 29.07.2004, n. 248 con riferimento al recupero dei rifiuti dei beni e prodotti
contenenti
amianto.
Tale decreto contiene il regolamento relativo alla determinazione e
disciplina
delle attività di recupero dei prodotti e beni di amianto e contenenti
amianto e
adotta, ai sensi dell'articolo 6, comma 4, della legge 257/1992, i
disciplinari tecnici
sulle modalità per il trasporto ed il deposito dei rifiuti di amianto,
nonché sul trattamento, sull'imballaggio e sulla ricopertura dei rifiuti
medesimi nelle discariche
(tra l'altro, nell'allegato A, al punto 3, relativo alla gestione dei
rifiuti contenenti
amianto, ai nn. 2 e 3 vi sono indicazioni specifiche per il loro deposito
temporaneo).
La legge 27.03.1992, n. 257, recante "Norme relative alla cessazione
dell'impiego dell'amianto" riguarda, tra l'altro, l'utilizzazione in genere
e lo
smaltimento, nel territorio nazionale, dell'amianto e dei prodotti che lo
contengono,
la cessazione della sua utilizzazione e la realizzazione di misure di
decontaminazione e di bonifica delle aree interessate dall'inquinamento da
amianto.
L'articolo 12, comma 6, precisa, inoltre, che i rifiuti di amianto sono
classificati tra i
rifiuti speciali, tossici e nocivi in base alle caratteristiche fisiche che
ne determinano
la pericolosità, come la friabilità e la densità. Quanto alla natura del
rifiuto, va
ricordato che la legge si riferisce all'allora vigente d.P.R. 915/1982 e che
il richiamo ai
rifiuti tossico-nocivi deve intendersi ora riferito a quelli pericolosi, ai
sensi
dell'articolo 265, comma 1, del d.lgs. 152/2006.
È nota, poi, l'estrema pericolosità di tale sostanza, che ha capacità di
indurre
gravissime patologie la cui insorgenza è stata strettamente correlata dalla
comunità
scientifica all'esposizione alle fibre di amianto. Ciò ha determinato
l'emanazione di
numerose disposizioni normative finalizzate a ridurre l'uso dell'amianto ed
i rischi
conseguenti all'esposizione tanto nell'ambiente di lavoro che nell'ambiente
esterno.
7. La giurisprudenza di questa Corte, in una risalente pronuncia, cui può
tuttavia
farsi ancora riferimento, nel considerare i rapporti tra la disciplina
generale dei rifiuti
e quella contenuta in norme specifiche ha affermato, tra l'altro, che la
legge n. 257
del 1992 riguarda, in via principale, la cessazione dell'impiego
dell'amianto e si
occupa dei rifiuti di amianto per la realizzazione di misure di
decontaminazione e di
bonifica delle aree interessate dall'inquinamento di amianto, cosicché
contempla fra
i "rifiuti di amianto" qualsiasi sostanza o qualsiasi oggetto che abbia
perso la sua
destinazione d'uso e che possa disperdere fibre di amianto nell'ambiente in
determinate concentrazioni applicabili, però, alle attività disciplinate
dalla legge n.
257 medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti (Sez. 3, n. 31011
del
18/06/2002, Zatti, Rv. 222390, non massimata sul punto).
8. Dunque nei casi in precedenza esaminati si tratta, come si è detto, di
disposizioni speciali rispetto a quelle generali in materia di rifiuti, con
la
conseguenza che la disciplina generale sarà applicabile in tutti i casi non
disciplinati
in modo specifico.
9. Ciò posto, va rilevato che, nella sentenza impugnata, la Corte del merito
non
è incorsa in una errata lettura delle disposizioni richiamate in ricorso,
che ha
chiaramente citato, evidentemente a titolo esemplificativo, laddove si
riferisce, in
generale, ai "presidi di sicurezza in materia di rifiuti pericolosi
contenenti amianto",
specificando che degli stessi si occupano disposizioni diverse da quella
generale
contenuta nel d.lgs. 152/2006. Del resto, come osservato in ricorso, alcune
disposizioni tra quelle richiamate riguardano materie del tutto estranee ai
fatti per
cui è processo.
Inoltre appare evidente che i giudici dell'appello, con il riferimento
censurato,
hanno testualmente richiamato quanto indicato in motivazione in un
provvedimento
in precedenza citato (Sez. 7, n. 17333 del 18/03/2016, Passarelli, Rv.
266911) ove, nel
trattare un caso di abbandono di rifiuti contenenti amianto, si è appunto
affermato
che "nel nostro ordinamento, i presidi di sicurezza in materia di rifiuti
pericolosi
contenenti amianto sono specificamente previsti non solo dalla norma
generale
dell'art. 183 del D.Lgs. cit. ma anche dal D.M. 29.07.2004, n. 248 e da
quelli del
D.M. Sanità 06.09.1994, D.M. Sanità 26.10.1995 e D.M. Sanità 20.08.1999, sicché anche la mancanza di presidi di sicurezza, come adeguatamente
accertato nel caso in esame dai Giudici del merito, determina l'abbandono
dei rifiuti,
escludendo la configurabilità del deposito temporaneo."
Dunque quanto affermato in ricorso è privo di fondamento, poiché la Corte
territoriale ha applicato, ai rifiuti di cui all'imputazione, la disciplina
generale in base
alla loro classificazione, limitandosi alla citazione di cui si è appena
detto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
10.07.2018 n. 31398). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 13.09.2019, "Sesto
aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 10.09.2019 n. 12753). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 13.09.2019, "Aggiornamento
dell’allegato 1 ai criteri ed indirizzi per la definizione della componente
geologica, idrogeologica e sismica del piano di governo del territorio, in
attuazione dell’art. 57 della l.r. 11.03.2005, n. 12 approvati con d.g.r.
30.11.2011, n. 2616"
(deliberazione
G.R. 09.09.2019 n. 2120). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 11.09.2019 n. 213 "Chiarimenti e linee guida in materia di
collocamento obbligatorio delle categorie protette. Articoli 35 e 39 e
seguenti del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 - Legge 12.03.1999, n.
68 - Legge 23.11.1998, n. 407 - Legge 11.03.2011, n. 25. (Direttiva n.
1/2019)"
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione
Pubblica,
direttiva 24.06.2019 n. 1/2019). |
APPALTI: G.U.U.E.
13.08.2019 n. C 271 "Linee guida sulla partecipazione di offerenti e beni
di paesi terzi al mercato degli appalti dell'UE" (Commissione
UE,
comunicazione
2019/C 271/02). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
S. Usai,
LE MODIFICHE APPORTATE ALL'ARTICOLO 80 DALLA LEGGE 55/2019 (SECONDA PARTE)
(PublikaDaily n. 17 - 25.09.2019). |
APPALTI:
L. Marinoni,
I COMPENSI PER GLI INCARICHI DI P.O. AD INTERIM - Partendo da un recente
parere dell'ARAN, approfondiamo il meccanismo di quantificazione dei
compensi da riconoscere in caso di incarichi di posizione organizzativa ad
interim (PublikaDaily n. 17 - 25.09.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
L'irrefrenabile voglia dei sindaci di dirigenti apicali e di parafulmini da
responsabilità (20.09.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI:
G. Giannì,
Profili critici sull’applicabilità all’aggiudicazione definitiva di un
appalto pubblico del termine di diciotto mesi per l’annullamento in
autotutela
(18.09.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Introduzione al tema. 2. Analisi della natura
giuridica dei provvedimenti annullabili in autotutela. 3. L’annullamento
d’ufficio: analisi del dato normativo e problemi di diritto intertemporale.
4. Conclusioni. |
INCARICHI PROFESSIONALI: S.
Colombari,
Diritto di difesa della Pubblica Amministrazione e patrocinio legale (anche
alla luce di una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione
Europea)
(18.09.2019 - link a www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Il diritto di difesa della Pubblica Amministrazione e
il rispetto dei principi fondamentali dei Trattati europei: un rapporto
ancora da definire. 2. L’affidamento degli incarichi difensivi prima delle
direttive europee del 2014 e del nuovo Codice dei contratti pubblici. 3.
L’affidamento degli incarichi difensivi dopo le direttive europee del 2014 e
il nuovo Codice dei contratti pubblici secondo il Consiglio di Stato e l’ANAC.
4. La qualificazione dell’affidamento dell’incarico legale come contratto
escluso sottoposto all’art. 4 del Codice dei contratti pubblici. 5. La
sentenza della Corte di Giustizia dell’UE del 06.06.2019, n. C-264/18. 6. La
difesa della Pubblica Amministrazione è connessa all’esercizio di pubblici
poteri? 7. La sentenza della Corte di Giustizia e l’art. 4 del Codice dei
contratti pubblici. 8. Considerazioni conclusive. |
ATTI AMMINISTRATIVI: M.
Lipari,
Il diritto di accesso e la sua frammentazione dalla legge n. 241/1990
all’accesso civico: il problema delle esclusioni e delle limitazioni
oggettive
(18.09.2019 - link a www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Il percorso apparentemente inarrestabile della
disciplina della trasparenza amministrativa: dalla vuota retorica dei
principi astratti all’effettività della tutela sostanziale? Troppi nodi
ancora irrisolti. - 2. La proliferazione degli accessi speciali, vecchi e
nuovi, e le sue possibili spiegazioni. Settori e interessi realmente
differenziati o mera disattenzione tecnica del legislatore? - 3. Il disegno
originario della legge n. 241/1990. Il progetto governativo di un accesso
generalizzato, sganciato dal requisito dell’interesse differenziato per la
tutela di una situazione giuridica preesistente; il rapporto con l’accesso
civico partecipativo nelle autonomie locali; la prudente individuazione dei
casi di esclusione. - 4. La dimensione dei “segreti” amministrativi speciali
e delle altre limitazioni oggettive alla trasparenza prevalenti sul diritto
di accesso per ragioni di interesse pubblico: una clausola normativa aperta
o un elenco tipizzato? - 5. Il diritto di accesso del cittadino nella
normativa dedicata agli enti locali (l. n. 142/1990 e TUEL 267/2000). Un
chiaro accesso civico ante litteram inspiegabilmente ridimensionato. La
scelta parlamentare di limitare la legittimazione attiva all’accesso nel
testo definitivo della legge n. 241/1990: il “tradimento” della Commissione
Nigro. - 6. Il diritto di accesso e di informazione del cittadino nella
riforma delle autonomie locali (legge n. 142/1990 e testo unico n.
267/2000). Una diversa filosofia: le istanze partecipative degli anni
Ottanta e Novanta e la democrazia diretta amministrativa. - 7. Verso la
tipizzazione dell’ambito oggettivo dell’accesso: Il regolamento governativo
di cui al DPR n. 352/1992 e il suo singolare percorso di formazione. Il
contenuto intrinsecamente incompleto: l’originaria idea della tipizzazione
delle esclusioni indicate dall’art. 24 della legge n. 241/1990 e la scelta
finale. Il sistema a più livelli delle esclusioni e la sua dubbia
razionalità. - 8. L’attuazione giurisprudenziale della legge n. 241/1990 e
del regolamento n. 352/1992. La riforma dell’accesso portata dalla legge n.
15/2005. Una discutibile riscrittura totale della normativa che risolve
qualche dubbio e ne apre di nuovi. - 9. La portata della legge n. 15/2005:
era davvero necessaria la riformulazione integrale del Capo V della legge n.
241/1990? Vecchi problemi ancora aperti e nuove questioni - 10. Dopo la
riforma del Titolo V della Costituzione, la disciplina speciale dell’accesso
negli enti locali è ancora operante? Autonomia normativa e ruolo
dell’accesso del cittadino. - 11. La legge n. 15/2005: l’espansione della
trasparenza e l’illusione della eccezionalità delle limitazioni al diritto
di accesso. La tipizzazione espressa delle esclusioni oggettive: un
obiettivo irrealizzato. - 12. L’astratta enunciazione del principio di
trasparenza totale e la sua concreta inattuazione. Le evidenti difficoltà di
specificare analiticamente tutte le cause di esclusione dall’accesso in un
regolamento governativo generale. - 13. Il diritto vivente delle esclusioni
generali, secondo i prevalenti indirizzi della giurisprudenza: non occorre
affatto un’elencazione tipizzata delle esclusioni, ma è sufficiente la
riconduzione alle categorie generali di cui all’art. 24. - 14. Le esclusioni
di cui all’art. 24 comma 6 della legge n. 241/1990 e il criterio del
bilanciamento pubblico–privato stabilito dal comma 7. - 15. Le nuove norme
speciali sull’accesso e la loro giustificazione. Disposizioni effettivamente
settoriali e interventi trasversali incidenti sui principi generali della
legge n. 241/1990. - 16. L’accesso ambientale e la sua regolamentazione
speciale. La legittimazione civica attiva e la disciplina peculiare delle
esclusioni. - 17. L’accesso civico generalizzato. Le ragioni della sua
affermazione nell’ordinamento. Il ritorno alla idea di fondo della
Commissione Nigro. La trasparenza come oggetto di un interesse giuridico
autonomo. - 18. La collocazione sistematica dell’accesso civico
generalizzato nel decreto n. 33/2013 e lo svuotamento della legge n.
241/1990. - 19. Il disallineamento delle regole riguardanti le limitazioni
oggettive dell’accesso ai documenti. - 20. Il rapporto tra accesso e
riservatezza: le irragionevoli differenze di disciplina tra la legge n.
241/1990 e il decreto n. 33/2013. L’incoerenza delle regole riguardanti la
qualificazione del silenzio dell’amministrazione sulla richiesta di accesso.
- 21. Conclusioni. La trasparenza ancora inattuata e le sue nuove frontiere.
Dalla conoscenza formale dei documenti alla comprensione sostanziale delle
funzioni e dei servizi pubblici. |
APPALTI:
S. Usai,
LE MODIFICHE APPORTATE ALL’ARTICOLO 80 DALLA LEGGE 55/2019 (PRIMA PARTE)
(PublikaDaily n. 16 - 11.09.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Sacchi,
LA CIRCOLARE BONGIORNO SUL FOIA (PublikaDaily n. 16 -
11.09.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
C. Bartoletto,
IL CONFERIMENTO DI INCARICO DI POSIZIONE ORGANIZZATIVA AL TERMINE DELLA
CARRIERA LAVORATIVA: CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE PER L'UMBRIA,
SENTENZA N. 21 DEL 03.04.2019 (PublikaDaily n. 16 - 11.09.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni Organizzative: la contrattazione è limitata. Erroneo il parere
Aran 4781/2019 (10.09.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Lucca,
Illegittimo l’ordine
di demolizione dopo decenni: nuove aperture giurisprudenziali (05.09.2019
- link a www.giustamm.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Lucca,
Limiti all’accesso
emulativo nel diritto di accesso documentale, civico e generalizzato
(29.08.2019 - link a www.giustamm.it). |
A.N.AC. |
APPALTI: Fuori
dalle gare d'appalto le imprese non in regola con i tributi locali.
Anche il mancato pagamento di tributi locali rileva per l'esclusione dalla
gara secondo quanto stabilito dal comma 4 dell'articolo 80 del codice dei
contratti pubblici.
L'Ufficio precontenzioso e pareri dell'Anac, con il
parere 11.01.2019 n. 2211 di prot. ha chiarito la portata della
norma.
L'articolo 80, comma 4, del Dlgs 50/2016 recita: «Un operatore economico
è escluso dalla partecipazione a una procedura d'appalto se ha commesso
violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi
al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo
la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti.
Costituiscono gravi violazioni quelle che comportano un omesso pagamento di
imposte e tasse superiore all'importo di cui all'articolo 48-bis, commi 1 e
2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602.
Costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle contenute in
sentenze o atti amministrativi non più soggetti ad impugnazione».
Per violazioni gravi si intendono i mancati pagamenti, definitivamente
accertati, di importo superiore a 5.000 euro in quanto la legge 205/2017 ha
ridotto, con decorrenza dal 01.03.2018, da 10.000 a 5.000 euro il limite
minimo dell'importo per la verifica dei pagamenti delle pubbliche
amministrazioni prevista dall'articolo 48-bis del Dpr 602/1973 e per la
verifica della regolarità fiscale prevista dall'articolo 80, comma 4, del
Dlgs 50/2016.
Un periodo del comma 4 però, lasciava alcuni dubbi: «…pagamento delle
imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo la legislazione
italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti».
L'interpretazione dell'Ufficio precontenzioso e pareri dell'Anac ha chiarito
che anche l'irregolarità fiscale accertata rispetto al mancato pagamento di
tributi locali, rileva ai sensi e alle condizioni indicate dall'articolo 80,
comma 4, del codice dei contratti pubblici.
Pertanto le imprese del luogo, che dovessero partecipare a gare di appalto
per servizi, forniture e lavori (o per concessioni) indette dai Comuni,
dovranno essere necessariamente in regola con il pagamento dei tributi
locali, pena l'esclusione dalla partecipazione alla procedura, nel caso
abbiano un debito definitivamente accertato per un valore superiore a 5.000
euro
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.09.2019). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA: Il
permesso di costruire in sanatoria.
DOMANDA:
E' stata presentata una richiesta di permesso di costruire in sanatoria per
opere realizzate in difformità rispetto una concessione edilizia del 1985.
La difformità consiste nell’allargamento planimetrico dell’abitazione pari a
50 cm. per tutta la lunghezza dell’edificio.
Su tale sanatoria però non sussiste il requisito della c.d. doppia
conformità di cui all’art. 36 del DPR 380/2001 (sia al momento della
realizzazione dello stesso che al momento della presentazione della
domanda), in quanto non sono rispettati gli attuali indici parametrici del
PRG (non sono rispettati né la superficie coperta massima e né il volume
massimo) e pertanto la richiesta dovrebbe essere negata.
Essendo già presente nell'istanza una perizia giurata di un tecnico
abilitato con la quale viene asseverato che la demolizione della parte “difforme”
pregiudicherebbe la stabilità statica della parte conforme, le cui
considerazioni sono più che veritiere, si dovrebbe applicare l’art. 34 del
DPR 380/2001 con l’emissione della sanzione pari al doppio del costo di
produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte
dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire.
Al fine di seguire un corretto iter procedimentale si chiede quanto segue:
- alla luce della mancata “doppia conformità” la richiesta
di permesso di costruire di sanatoria dovrebbe essere formalmente negata.
Dopo aver negato il pdc, deve seguire l’emissione della sanzione pecuniaria
sostitutiva alla sanzione demolitoria? Il procedimento si conclude con il
versamento della sanzione pecuniaria da parte del richiedente? Necessitano
ulteriori adempimenti da parte del comune? L’iter così come sopra
prospettato risulta corretto?
RISPOSTA:
In ordine all'iter procedimentale da seguire qualora la richiesta di
permesso di costruire in sanatoria debba essere negata per mancanza del
requisito della “doppia conformità” e si possano valutare i
presupposti di applicabilità, in luogo della demolizione conseguente al
rigetto dell’istanza di sanatoria, della sanzione di cui all'art. 34, comma
2, del D.P.R. n. 380/2001 per impossibilità di eseguire la demolizione senza
pregiudicare la parte eseguita in conformità, la giurisprudenza, richiamata
anche nella recente sentenza del Tar Liguria-Genova, Sez. I, n. 470 del
22.05.2019, ha affermato che “con riguardo agli interventi e alle opere
realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, la possibilità
di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata
dall'art. 34, del D.P.R. n. 380 del 2001, deve essere valutata
dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento,
successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione. In quella sede, le
parti ben possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità
del fabbricato asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione del
muro di contenimento del terrapieno” (C. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n.
4169) ed ha altresì precisato che “l'eventuale impossibilità tecnica di
demolire il manufatto, senza arrecare un grave pregiudizio per le parti
legittime dell'edificio, non produce alcun effetto sulla legittimità del
provvedimento sanzionatorio, dunque la possibilità di non procedere alla
rimozione delle parti abusive costituisce solo un'eventualità della fase
esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino
dello stato dei luoghi” (TAR Campania, sez. VIII, 31/07/2018, n. 5122;
TAR Puglia, sez. dist. Lecce, sez. III, 27/02/2015, n. 717).
Pertanto, stando al suddetto indirizzo giurisprudenziale, il Comune
generalmente, qualora in sede di esame di una richiesta di permesso di
costruire in sanatoria ritenga che la stessa debba essere negata per
mancanza del requisito della “doppia conformità”, dovrebbe emettere
un provvedimento di diniego dell’istanza di sanatoria con contestuale ordine
di demolizione, rimandando alla successiva fase esecutiva del predetto
provvedimento la valutazione circa l'eventuale impossibilità tecnica di
demolire il manufatto, senza arrecare un grave pregiudizio per le parti
legittime dell'edificio e dunque circa l’applicabilità della sanzione di cui
all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
Ciò in quanto, generalmente i presupposti di applicabilità della sanzione di
cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 vengono invocati dalla
parte interessata, normalmente mediante la presentazione di apposita e
specifica istanza, proprio in fase esecutiva, successivamente alla notifica
alla stessa dell’ordine di demolizione, la cui legittimità, stando alla
giurisprudenza sopra citata, permane anche qualora emergano in fase
esecutiva i presupposti di applicabilità della sanzione di cui all’art. 34,
comma 2, del D.P.R. n. 380/2001. Questo è l’iter che dovrebbe dunque essere
normalmente seguito.
Tuttavia, nulla vieta alla parte istante di formulare, eventualmente in via
subordinata, già nell’ambito dell’istanza di rilascio di un permesso di
costruire in sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001, la richiesta di
applicazione della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n.
380/2001 nell’ipotesi in cui la richiesta principale venisse rigettata
dall’Amministrazione comunale per mancanza del requisito della doppia
conformità urbanistica, adducendo e/o fornendo all’Amministrazione comunale,
già in tale sede, elementi istruttori volti a far accertare la sussistenza
dei presupposti di applicabilità della sanzione di cui all’art. 34, comma 2,
del D.P.R. n. 380/2001.
In tal caso, si ritiene che il Comune, esaminando entrambe le domande
(quella principale e, in caso di suo rigetto, quella subordinata), potrebbe
-anche in ossequio ai principi del divieto di aggravio del procedimento,
dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità sanciti dalla L. n.
241/1990 e qualora reputi di avere già sufficienti e/o idonei elementi
istruttori per compiere la valutazione richiesta dall’art. 34, comma 2 del
D.P.R. n. 380/2001 ai fini dell’applicabilità della sanzione ivi prevista–
valutare se pronunciarsi con un unico provvedimento su entrambe le istanze,
rigettando la domanda principale di sanatoria per verificata mancanza del
requisito della “doppia conformità” ed eventualmente, se sussistono
-come pare evincersi dal quesito stesso- i presupposti (di cui occorrerebbe
ovviamente dare atto nel provvedimento stesso), accogliendo la domanda
subordinata di applicazione della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del
D.P.R. n. 380/2001.
Nel quesito posto non viene specificato se l’istante abbia o meno già
formulato (anche eventualmente in via subordinata) l’istanza di applicazione
della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001
nell’ipotesi di rigetto della domanda principale di sanatoria, ma la
circostanza -emergente dal quesito- che sia stata già prodotta dall’istante
una perizia giurata di un tecnico abilitato con la quale viene asseverato
che la demolizione della parte “difforme” pregiudicherebbe la
stabilità statica della parte conforme, porta a ritenere che tale richiesta
subordinata sia stata effettivamente già presentata o comunque potrebbe
sottintenderla ed implicarla implicitamente.
Qualora il Comune avesse dubbi al riguardo, potrebbe acquisire chiarimenti
in merito dalla parte interessata anche eventualmente a seguito di un
preavviso di rigetto dell’istanza principale di sanatoria ai sensi dell’art.
10-bis della L. n. 241/1990 o a seguito di una richiesta specifica di
chiarimenti. Ai fini del perfezionamento dell’iter, si ritiene necessario il
versamento della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n.
380/2001 da parte del richiedente
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
PATRIMONIO: Collocazione
di dossi rallentatori.
Domanda
L’amministrazione comunale, al fine di moderare la velocità
nell’attraversamento del centro abitato, è intenzionata ad installare dei
rallentatori di velocità, tipo i classici dossi gialli.
Qual è la normativa e quali sono i limiti a riguardo?
Risposta
Il regolamento di esecuzione del Codice della strada (D.P.R. 495/1992)
all’art. 179 dal titolo “rallentatori di velocità”, disciplina
tipologia e modalità di tali strumenti atti a far rispettare appunto i
limiti di velocità.
Ai sensi dell’art. 179 si possono distinguere due tipologie di rallentatori:
le bande trasversali e i dossi artificiali.
Le bande trasversali possono essere ad effetto ottico, acustico o vibratorio
e si possono adottare su tutte le strade. I commi 2 e 3 della norma indicano
come devono essere realizzati i tre diversi sistemi.
I dossi artificiali, invece, possono essere posti esclusivamente su “strade
residenziali”. Il codice della strada, all’art. 2, non contiene la
classificazione di “strada residenziale”: è dunque necessario
riferirsi alla definizione di “zona residenziale” di cui il punto 58
dell’art. 3 del Codice che definisce la zona residenziale come la “zona
urbana in cui vigono particolari regole di circolazione a protezione dei
pedoni e dell’ambiente, delimitata lungo le vie d’accesso dagli apposi
segnali di inizio e fine”.
In tal senso la circolare del Ministero dell’Interno n. 300/A/45182/103 del
07.09.1999 chiarisce che, al fine di poter collocare i dossi rallentatori, è
necessario delimitare l’area interessata e qualificarla come “residenziale”
(1).
La seconda parte del comma 5, dell’art. 179 del Regolamento di attuazione,
precisa inoltre che, per i dossi, “ne è vietato l’impiego sulle strade
che costituiscono itinerari preferenziali dei veicoli normalmente impiegati
per servizi di soccorso o di pronto intervento”.
In conclusione va sottolineato, alla luce di quanto sopra descritto, che i
dossi subiscono molte limitazioni circa la loro collocazione. Inoltre, è
stato verificato che spesso, chi ha ottenuto la collocazione dei dossi al
fine di limitare la velocità dei veicoli che transitano vicino alla
proprietà privata, successivamente chieda che vengano rimossi per i rumori e
le vibrazioni prodotti dal passaggio di veicoli pesanti.
È consigliabile pertanto valutare attentamente l’eventuale collocazione di
tali rallentatori.
---------------
(1)“Attesa l’assenza nel Codice di una specifica definizione della
normativa di strada residenziale, mentre per converso, com’è noto, la
disposizione dell’art. 3, comma 1, n. 58, del Codice fornisce la definizione
di zona residenziale, appare possibile identificare dette aree, solo sulla
scorta della zonizzazione prevista dai singoli strumenti urbanistici
generali (PP.RR.GG.) ed in particolare facendo riferimento alle zone
territoriali omogenee (opportunamente identificate nelle apposite
cartografie) nelle quali la definizione e le modalità di intervento fanno
capo alle normative tecniche di attuazione dei medesimi strumenti
urbanistici generali, in relazione alle disposizioni del Codice della
Strada”
(27.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ufficio
di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL) attribuendo un
incarico gratuito ad un collaboratore del sindaco? Cambia qualcosa se il
collaboratore fosse in pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del sindaco (o della
giunta o dei singoli assessori) è necessario che la materia venga
preventivamente disciplinata nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli
Uffici e dei Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per l’esercizio
delle funzioni di indirizzo e controllo attribuite –in questo caso– al
sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria in un ente
locale– può essere costituito da dipendenti dell’ente, che lasciano i propri
incarichi e mansioni per dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o
strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con contratto a tempo
determinato. Se questi collaboratori, sono dipendenti di altra
amministrazione, vengono posti in aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a tempo
determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella collaborazione
dell’organo politico, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e
controllo, per cui sono escluse tutte le attività gestionali che restano in
capo ai dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del comune,
identificati nei dirigenti o posizioni organizzative negli enti senza la
dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo 90, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese le ultime modifiche apportate, nel
2014 con il d.l. 90, possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di
staff:
• non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di prove
selettive;
• non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
• non richiede specifica esperienza professionale;
• non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o
professionale;
• non richiede che vi sia una verifica preventiva dell’assenza di
professionalità nell’ambito dell’ente;
• prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
• non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i
destinatari degli incarichi, i cui contratti possono, pertanto,
classificarli dalla categoria A fino alla dirigenza, nell’ambito del CCNL
del comparto Funzioni locali;
• non pone alcun limite alla retribuzione;
• non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta del
destinatario;
• è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media della
spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci si muove, dando
risposta al doppio quesito presentato è possibile scrivere quanto segue:
a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90, del
TUEL, non è possibile nominare un componente dell’ufficio di staff a titolo
gratuito. Il collaboratore esterno deve essere titolare di un contratto di
lavoro subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei dipendenti
del comparto Funzioni locali, con le eventuali deroghe –previste nel comma
3– per ciò che concerne il trattamento economico accessorio;
b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un
collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo attualmente in vigore:
Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione politica
1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può
prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del
sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per
l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla
legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti
dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con
contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica
amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni.
2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo
determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del
personale degli enti locali.
3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al
comma 2 il trattamento economico accessorio previsto dai contratti
collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei
compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per
la qualità della prestazione individuale.
3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività
gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il
trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è
parametrato a quello dirigenziale
(26.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: Avvalimento
e soccorso istruttorio integrativo.
Domanda
Nell’espletamento di un procedimento d’appalto di servizi ci siamo imbattuti
in una questione particolare: uno dei concorrenti ha dichiarato di voler
utilizzare l’avvalimento (per alcuni requisiti) senza allegare nessuna
documentazione.
Il RUP ha attivato il soccorso istruttorio integrativo richiedendo, tra gli
altri, la produzione del contratto e le correlate dichiarazioni. In
risposta, il concorrente ha presentato una dichiarazione da cui emerge il
possesso dei requisiti richiesti in sede di bando.
Come dobbiamo considerare questa risposta? Dobbiamo procedere con
l’esclusione oppure l’appaltatore deve essere ammesso alle fasi successive
della procedura?
Risposta
In relazione al quesito, le prime considerazioni riguardano la fattispecie
del soccorso istruttorio integrativo come disciplinato dall’articolo 83,
comma 9, del codice dei contratti. Disposizione, sostanzialmente, ripresa
dal pregresso codice.
La sostanza dell’istituto, che ammette l’integrazione –per limitati aspetti–
della documentazione già prodotta successivamente alla scadenza del termine
per presentare le offerte è quella di ovviare, senza l’adozione di
provvedimenti di esclusione fondati su meri aspetti formali, ad errori
commessi dall’appaltatore in fase di predisposizione della gara d’appalto.
Errori, tra i casi ammissibili, che vanno dalla mancata dichiarazione sul
possesso dei requisiti alla mancata allegazione di certi documenti non anche
per sanare eventuali false dichiarazioni penali e/o per integrare le offerte
tecnico/economiche.
Nel caso di specie, il difetto ha riguardato l’istituto dell’avvalimento: in
un primo momento l’appaltatore ha dichiarato di non avere i requisiti “speciali”
richiesti dalla stazione appaltante precisando che avrebbe compensato tale “carenza”
attraverso il “prestito” degli stessi da altro soggetto (ausiliario)
senza però allegare i documenti a corredo (art. 89).
Nel riscontro all’avviato soccorso istruttorio (a sommesso avviso esperito
correttamente) l’appaltatore produce una “nuova” dichiarazione
affermando di possedere i requisiti tecnico/economici richiesti dalla
stazione appaltante.
La circostanza deve essere valutata proprio alla luce del significato/ratio
del soccorso istruttorio integrativo: se questa fattispecie consente
l’integrazione delle dichiarazioni sul possesso dei requisiti, l’appaltatore
deve essere considerato come un concorrente che ha commesso un errore in
tale dichiarazione.
Per intenderci, ha dichiarato prima un possesso “mediato” (e per
questo ha manifestato l’intendimento di ricorrere all’avvalimento) poi
successivamente, alla richiesta dell’integrazione, ha dichiarato (con la
produzione dell’autocertificazione) di possedere direttamente i requisiti
(rinunciando all’avvalimento).
La conclusione, a sommesso parere, è quella secondo cui il concorrente deve
essere ammesso al procedimento salva la verifica –doverosa da parte del RUP–
che il possesso dei requisiti richiesti sia antecedente alla data di
scadenza del termine di presentazione dell’offerta. In difetto si procederà
con l’esclusione
(25.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Pervengono
spesso a questa Regione richieste di controinteressati (singoli o associati)
per l'attivazione della VIA (valutazione d'impatto ambientale) anche fuori
dai casi espressamente previsti dalla normativa. Può questo Ente richiederne
l'attivazione?
Il D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 definisce la "valutazione d'impatto
ambientale" (VIA): "il processo che comprende, secondo le
disposizioni di cui al Titolo III della parte seconda del presente decreto,
l'elaborazione e la presentazione dello studio d'impatto ambientale da parte
del proponente, lo svolgimento delle consultazioni, la valutazione dello
studio d'impatto ambientale, delle eventuali informazioni supplementari
fornite dal proponente e degli esiti delle consultazioni, l'adozione del
provvedimento di VIA in merito agli impatti ambientali del progetto,
l'integrazione del provvedimento di VIA nel provvedimento di approvazione o
autorizzazione del progetto".
L'art. 6, comma 5, del Decreto prevede che la valutazione d'impatto
ambientale si applichi ai progetti che possono avere impatti ambientali
significativi e negativi, come definiti all'art. 5, comma 1, lett. c).
Ciò premesso la giurisprudenza si è posta il tema della applicabilità della
VIA anche a casistiche particolari. Infatti l'Amministrazione, ove ritenga
che un intervento possa determinare, in concreto, "impatti ambientali
significativi e negativi", può sempre disporre l'attivazione della
verifica di assoggettabilità a VIA anche al di fuori degli specifici casi
prescritti dalla legge (art. 6, comma 6), adottando puntuale motivazione al
fine di non costituire aggravio del procedimento.
Anche in relazione alla eventuale attivazione della "valutazione di
incidenza sanitaria" si è precisato che è necessario procedervi quando
le concrete evidenze istruttorie dimostrino la sussistenza di un serio
pericolo per la salute pubblica, al di là dei casi specificamente indicati
dal legislatore, pena conseguenze procedimentali quali il vizio di eccesso
di potere sotto il profilo del mancato approfondimento istruttorio,
sintomatico della disfunzione amministrativa.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 6
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. IV, 29.08.2019, n. 5972
Cons. Stato Sez. IV, 01.03.2019, n. 1423
Cons. Stato Sez. IV, 11.02.2019, n. 983
Cons. Stato Sez. V, 07.01.2019, n. 127 (25.09.2019 -
tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Pubblicazione
dati organi politici cessati dalla carica.
Domanda
A seguito delle elezioni comunali, svoltesi il 26.05.2019, quali dati
dobbiamo tenere ancora pubblicati, riferiti ai componenti degli organi
politici scaduti?
Risposta
Per i titolari di incarichi politici (nei comuni: Sindaco, Consiglieri e
Assessori) gli obblighi di pubblicità e trasparenza sono contenuti
nell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e
riguardano:
a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della
durata dell’incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi
pubblici;
d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza
pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni di cui all’art. 2, legge 441/1982, nonché le
attestazioni e dichiarazioni di cui agli artt. 3 e 4 della medesima legge,
come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge
non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi
consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. Alle
informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal
titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni
di cui all’art. 7.
È bene specificare che gli obblighi della precedente lettera f) –relativi
alla situazione reddituale e patrimoniale– vanno adempiuti per gli
amministratori e loro parenti (se ne danno il consenso) nei comuni con più
di 15.000 abitanti, come previsto dalla delibera ANAC del 07.10.2014, n.
144, come integralmente sostituita dalla determinazione dell’Autorità datata
08.03.2017, n. 241, Paragrafo 2.1.
Una volta che i titolari di incarichi politici, invece, cessano dalla loro
carica, occorre prestare attenzione al comma 2, del già citato articolo 14
che, testualmente, prevede:
2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati cui ai commi 1 e 1-bis
entro tre mesi dalla elezione, dalla nomina o dal conferimento dell’incarico
e per i tre anni successivi dalla cessazione del mandato o dell’incarico dei
soggetti, salve le informazioni concernenti la situazione patrimoniale e,
ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti
entro il secondo grado, che vengono pubblicate fino alla cessazione
dell’incarico o del mandato. Decorsi detti termini, i relativi dati e
documenti sono accessibili ai sensi dell’articolo 5.
A seguito, dunque, della cessazione del mandato o dell’incarico, i dati di
cui sopra, devono restare pubblicati per i tre anni successivi (sino al
25.05.2022, nel vostro caso), con la sola eccezione per le informazioni
concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la dichiarazione
del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado (padre, madre,
nonno/a, fratelli, sorelle figli), che devono essere pubblicate solamente
fino alla cessazione dell’incarico o del mandato.
Trascorsi i previsti tre anni, i dati non più pubblicati nella sezione
Amministrazione trasparente del sito web, restano conservati in archivio e
su di loro è possibile prevedere l’accesso civico generalizzato (cd: FOIA),
come disciplinato dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013.
Nella citata determinazione n. 241/2017, recante «Linee guida recanti
indicazioni sull’attuazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di
pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di
amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi
dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016», nel
Paragrafo 4, vengono fornite dettagliate indicazioni in merito agli Obblighi
di trasparenza dei soggetti cessati dall’incarico.
Nella delibera è anche disponibile l’Allegato 2, contenente il Modello per
la comunicazione e pubblicazione dei dati della variazione patrimoniale dei
titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di
governo e dei titolari di incarichi dirigenziali cessati dalla carica o
dall’incarico, sempre riferito ai comuni con più di 15.000 abitanti, che si
riporta integralmente nel modello allegato.
---------------
Publika – modello soggetti cessati dalla carica
(24.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Ricorsi, accesso illimitato. Niente paletti all’istanza del
consigliere. La giurisprudenza esclude lesioni alla riservatezza del
ricorrente.
Può l'amministrazione rifiutare l'accesso del
consigliere comunale alla documentazione relativa a un ricorso, di cui sia
venuto a conoscenza dalla consultazione del protocollo informatico,
adducendo la necessità di acquisire l'autorizzazione da parte
dell'interessato ricorrente?
L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai
sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito
dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo
sull'ente, nell'interesse della collettività (cfr. Cds V, 05/09/2014, n.
4525, cit. da Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 29.11.2018); si tratta, all'evidenza, di un diritto dai confini più ampi
del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del comune di
residenza (art. 10 Tuel) o, più in generale, nei confronti della p.a.,
disciplinato dalla legge n. 241 del 1990 (cfr. parere della commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014 e il richiamato
del 29.11.2018).
Il diritto a ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento
del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale
natura riservata, in quanto il consigliere, a cui è ostensibile anche
documentazione che per ragioni di riservatezza non sarebbe ordinariamente
ostensibile ad altri richiedenti, è vincolato al segreto d'ufficio (Tar
Lombardia, Milano, sent. n. 2363 del 23.09.2014 e citato Cds, sez. V, 05.09.2014, n. 4525).
Peraltro, in fattispecie simili alla presente, il Consiglio di stato, sez.
V, con decisione 04/05/2004, n. 2716, riguardo alla normativa prevista dal
dpcm n. 200 del 26.01.1996, recante il regolamento per la categoria di
documenti dell'avvocatura dello stato sottratti al diritto di accesso, ha
rilevato che le limitazioni ivi previste «non possono applicarsi, in via
analogica, ai consiglieri comunali, i quali, nella loro veste di componenti
del massimo organo di governo del comune, hanno titolo ad accedere anche
agli atti concernenti le vertenze nelle quali il comune è coinvolto nonché
ai pareri legali richiesti dall'amministrazione comunale, onde prenderne
conoscenza e poter intervenire al riguardo».
Il predetto dpcm pone un limite solo agli atti defensionali, (art. 2, comma
2, lett. b) a cui comunque i consiglieri comunali potrebbero accedere
essendo tenuti al segreto; nel caso in oggetto, trattandosi, invece, del
testo di un ricorso già presentato all'organo competente, non pare peraltro
sussistere alcuna lesione dell'interessato (che in relazione alla richiesta
del consigliere comunale assume la veste di «controinteressato»).
Infatti, anche in virtù della definizione di cui all'art. 22, comma 1, lett.
c), della legge n. 241/1990, dall'esercizio dell'accesso il ricorrente non
vedrebbe compromesso il proprio diritto alla riservatezza dato che l'atto è
già noto alla controparte (il comune) che può diffonderlo all'interno dei
propri uffici anche al fine della preparazione delle memorie di parte.
In merito ai tempi di rilascio degli atti, ferma restando la necessità di
una regolamentazione della materia dell'accesso, si ritiene che la stessa
deve tendere a garantire l'esercizio del diritto, con la previsione di
termini ragionevoli compatibili con le esigenze tecniche degli uffici
addetti alla loro consegna
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2019). |
PATRIMONIO - TRIBUTI:
Pubblicità
su rotatorie.
Domanda
È possibile utilizzare le rotatorie per collocare dei cartelli pubblicitari
della ditta che si occupa della manutenzione della stessa; inoltre è
possibile posizionare dei manifesti o striscioni al fine di pubblicizzare
manifestazioni, eventi di varia natura o sagre paesane?
Risposta
Spesso le amministrazioni comunali optano per la collocazione nelle aiuole
all’interno delle rotatorie stradali di supporti di vario genere che
pubblicizzano aziende, generalmente florovivaistiche, le quali, in cambio di
tale pubblicità, si fanno carico della manutenzione delle aiuole stesse.
Durante il periodo primaverile ed estivo è aperta anche la stagione delle
manifestazioni locali.
La rotatoria diventa spazio per pubblicizzare gli eventi, spesso con
striscioni o cartelli che, per forma, dimensioni e posizionamento, non
garantiscono la sicurezza stradale.
Tecnicamente la rotonda è assimilabile ad un incrocio (intersezioni a raso):
ai sensi dell’art. 23, comma 1 e dell’art. 51, commi 3 e 4, del Regolamento
di esecuzione e attuazione del Codice della strada, l’installazione di
cartelli, insegne d’esercizio e di altri mezzi pubblicitari è vietata, con
sanzioni pecuniarie elevate, oltre alla rimozione, in caso di inosservanza.
L’ente proprietario potrà quindi essere chiamato a rispondere nel caso di
eventuali sinistri: tali cartelli pubblicitari sono di per sé motivo di
distrazione e reale pericolo per la sicurezza stradale.
Si rimanda, per completezza, alla circolare del Ministero delle
infrastrutture e dei Trasporti del 18.04.2012, n. 1699.
C’è da segnalare però, in conclusione, che, tra le modifiche al Codice della
strada in discussione in queste settimane alla Camera dei Deputati, c’è una
norma che consentirebbe la possibilità di derogare a tale divieto assoluto.
Il comma 7-bis dell’art. 23 del Codice della strada, che con ogni
probabilità verrà inserito, avrà infatti il seguente tenore: “In deroga
al comma 1, ultimo periodo, al centro delle rotatorie nelle quali vi sia
un’area verde, la cui manutenzione è affidata a titolo gratuito a società
private o ad altri enti, è consentita l’installazione di un’insegna di
esercizio dell’impresa o ente affidatario, fissata al suolo. Per
l’istallazione dell’insegna di cui al presente comma si applicano in ogni
caso le disposizioni di cui al comma 4.” (20.09.2019 - tratto da
e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Graduatoria tempo determinato.
Domanda
Quali sono le regole oggi vigenti per le graduatorie a tempo determinato?
Risposta
Le attuali regole che disciplinano il ricorso a contratti a tempo
determinato, per tutte le pubbliche amministrazioni, sono contenute
nell’art. 36, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, in particolare, l’ultimo
alinea, prevede che: “Per prevenire fenomeni di precariato, le
amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente
articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli
idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo
indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3, comma 61, terzo
periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia
della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per
le assunzioni a tempo indeterminato.”
Con
circolare n. 5/2013 il Dipartimento della Funzione Pubblica aveva
ampiamente analizzato la fattispecie, che allora costituiva una novità
legislativa [1],
specificando che: “Le amministrazioni che devono fare assunzioni a tempo
determinato, ferme restando le esigenze di carattere esclusivamente
temporaneo o eccezionale, piuttosto che indire procedure concorsuali a tempo
determinato, devono attingere, nel rispetto, ovviamente, dell’ordine di
posizione, alle loro graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo
indeterminato.”
Aggiungeva, poi, una clausola di salvaguardia destinata alle selezioni già
completate, puntualizzando che: “… pur mancando una disposizione di
natura transitoria nel decreto-legge, per ovvie ragioni di tutela delle
posizioni dei vincitori di concorso a tempo determinato, le relative
graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore di tali
vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli idonei.”
Fatta questa doverosa premessa, risulta evidente che le selezioni a tempo
determinato non sono più neppure contemplate dalla normativa vigente, di
conseguenza, non si ritiene che le graduatorie a tempo determinato possano
formare oggetto di cessione ad altra pubblica amministrazione.
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[1] L’art. 36 è stato modificato dal D.L. n. 101/2013 per la parte che
interessa il quesito (19.09.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: In
sede di convalida degli eletti devo contestare una causa di incompatibilità
per debito tributario verso l'ente. Ciò parrebbe comportare la diffusione di
dati personali.
La seduta deve essere pubblica? Ricordo che l'opposizione di cause di
incompatibilità può essere rilevata d'ufficio o da qualsiasi cittadino.
Il regolamento del parlamento europeo relativo alla protezione delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera
circolazione di tali dati e che abroga la Dir. n. 95/46/CE, vale a dire il
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, all'art. 4, sotto la rubrica
"Definizioni", stabilisce che “s'intende per «dato personale» qualsiasi
informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile
(«interessato»); si considera identificabile la persona fisica che può
essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare
riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione,
dati relativi all'ubicazione, un identificativo on-line o a uno o più
elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica,
psichica, economica, culturale o sociale".
Pertanto, sicuramente la causa di incompatibilità per debito tributario
verso l'ente dell'eletto è un dato personale. Tuttavia, l'art. 6, comma 1,
del Reg. cit. sotto la rubrica "Liceità del trattamento" stabilisce che:
"Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una
delle seguenti condizioni:
a) l'interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati
personali per una o più specifiche finalità;
b) il trattamento è necessario all'esecuzione di un contratto di cui
l'interessato è parte o all'esecuzione di misure precontrattuali adottate su
richiesta dello stesso;
c ) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è
soggetto il titolare del trattamento;
d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali
dell'interessato o di un'altra persona fisica;
e) il trattamento è necessario per l'esecuzione di un compito di interesse
pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il
titolare del trattamento;
f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse
del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli
interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell'interessato che
richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l'interessato
è un minore.”
Si rileva, ancora, che il D.Lgs. 30.06.2003, n. 196, novellato dal D.Lgs.
10.08.2018, n. 101, che ha recepito il Regolamento suddetto, all'art.
2-ter, (Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per
l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di
pubblici poteri) ha stabilito che:
— "La diffusione e la comunicazione di dati personali, trattati per
l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di
pubblici poteri, a soggetti che intendono trattarli per altre finalità sono
ammesse unicamente se previste ai sensi del comma 1.” (comma 3);
— "si intende per: a) "comunicazione", il dare conoscenza dei dati personali
a uno o più soggetti determinati diversi dall'interessato, dal
rappresentante del titolare nel territorio dell'Unione europea, dal
responsabile o dal suo rappresentante nel territorio dell'Unione europea,
dalle persone autorizzate, ai sensi dell'articolo 2-quaterdecies, al
trattamento dei dati personali sotto l'autorità diretta del titolare o del
responsabile, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a
disposizione, consultazione o mediante interconnessione; b) "diffusione", il
dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque
forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione". (comma
4)
Il comma 1 del citato art. 2-ter, stabilisce inoltre che "La base giuridica
prevista dall'art. 6, par. 3, lett. b) del regolamento, è costituita
esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di
regolamento".
Pertanto, essendo la causa di incompatibilità per debiti tributari
espressamente prevista dalla legge -ossia dall'art. 63, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 che sotto la rubrica "Incompatibilità" stabilisce al comma 1
"Non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia,
consigliere comunale, consigliere metropolitano, provinciale o
circoscrizionale ... 6) Colui che, avendo un debito liquido ed esigibile,
rispettivamente, verso il comune o la provincia ovvero verso istituto od
azienda da essi dipendenti è stato legalmente messo in mora ovvero, avendo
un debito liquido ed esigibile per imposte, tasse e tributi nei riguardi di
detti enti, abbia ricevuto invano notificazione dell'avviso di cui
all'articolo 46 del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602"-, il trattamento del dato personale nelle sue forme della
comunicazione e della diffusione è lecito.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 63
D.Lgs. 30.06.2003, n. 196
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 4
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 6
(18.09.2019 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI:
Acquisizione del CIG e gare telematiche – nuovi campi da compilare.
Domanda
L’ANAC nell’ambito del servizio on line per la richiesta di CIG attraverso
il sistema SIMOG ha introdotto nuovi campi che attengono in particolare alle
modalità di svolgimento delle procedure telematiche.
Nel caso di utilizzo della piattaforma Sintel, ovvero quel sistema di
approvvigionamento messo a disposizione da Aria spa Regione Lombardia, quale
procedura deve essere selezionata? In particolare il dubbio riguarda
l’ipotesi di Affidamento diretto e Affidamento diretto previa richiesta di
preventivi.
Risposta
Con riferimento ai servizi on line di ANAC, ed in particolare a quelli
relativi alla richiesta del codice identificativo gara, l’Autorità è
intervenuta modificando il sito sia in ordine all’acquisizione dello smart
CIG, che alla richiesta del CIG tramite il sistema SIMOG, adeguandoli al
nuovo dettato normativo.
Nello specifico per quanto attiene al campo “Strumenti per lo svolgimento
delle procedure” ha previsto nel menù a tendina le seguenti ipotesi:
• Procedura svolta in modalità tradizionale o “cartacea”
• Asta elettronica – Art. 56
• Catalogo elettronico Art. 57: ordine diretto
• Catalogo elettronico – Art. 57: richiesta di offerta
• Procedure svolte attraverso piattaforme telematiche di
negoziazione – Art. 58
Classificazione sicuramente di non facile comprensione soprattutto con
riferimento al catalogo elettronico che nel codice viene richiamato
nell’art. 57, quale particolare modalità di presentazione delle offerte (le
offerte sono presentate sotto forma di catalogo elettronico o che le stesse
includano un catalogo elettronico), che possono tradursi in una sorta di
offerta pre-caricata dall’operatore, a cui è possibile aderire utilizzando
uno “strumento di acquisto”, (ad esempio ODA su Mepa, o adesione a
Convenzioni-quadro Consip o regionali), oppure il risultato di un confronto
competitivo su cataloghi.
Per quanto attiene al quesito in premessa, in assenza al momento, di
indicazioni specifiche o interpretative da parte di ANAC, è possibile
ritenere che la tipologia di “affidamento diretto” e “affidamento
diretto previa richiesta di preventivi” prevista sulla piattaforma
Sintel di Regione Lombardia sia riconducibile alle “Procedure svolte
attraverso piattaforme telematiche di negoziazione – art. 58 del codice".
Tali modalità di affidamento infatti possono definirsi come strumenti di
negoziazione di cui all’art. 3, lett. dddd), del codice, ovvero quegli
strumenti di acquisizione che richiedono apertura del confronto competitivo
nei quali si determina una vera e propria negoziazione tra la Stazione
appaltante e l’operatore economico.
È possibile far rientrare in quest’ultima ipotesi anche la RDO su Mepa o
della Trattativa diretta su Mepa che sono, analogamente all’affidamento
diretto su Sintel, strumenti di negoziazione, almeno nell’ipotesi in cui ai
fini della presentazione dell’offerta non sia richiesto un catalogo
elettronico strutturato a sistema (18.09.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Compatibilità tra RPCT e Ufficio Procedimenti Disciplinari.
Domanda
Nel nostro comune stiamo riscrivendo il Regolamento di Organizzazione Uffici
e Servizi e dobbiamo individuare i componenti dell’UPD.
E’ possibile designare, in composizione monocratica, l’ufficio del
Segretario comunale che è anche Responsabile Anticorruzione e Trasparenza?
Risposta
La questione se il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (RPCT) possa anche essere componente dell’Ufficio per i
Procedimenti Disciplinari –ex art. 55-bis, commi 2 e 3, d.lgs. 165/2001– è
sempre stata motivo di riflessione e di vari orientamenti, non sempre
univoci, dall’emanazione della Legge Severino (legge 190/2012) in poi.
Per poter rispondere compiutamente al quesito, in via preventiva, va
ricostruito il perimetro normativo in cui si muove l’articolazione e
organizzazione dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD).
Riassuntivamente è possibile affermare che:
a) la presenza di un UPD è obbligatoria in ogni pubblica
amministrazione e gli enti vi provvedono secondo le loro peculiarità;
b) nei comuni, la disciplina in materia di UPD deve trovare
collocazione all’interno del ROUS (ex art. 89 TUEL). In tale disciplina deve
trovare allocazione anche l’UPD dell’UPD: cioè vanno disciplinate le
fattispecie in cui sia oggetto di procedimento disciplinare, il/un
componente dell’UPD;
c) è possibile la gestione in forma associata tra più enti, previa
stipula di apposita convenzione;
d) la composizione dell’UPD può essere monocratica o collegiale;
e) è possibile prevedere –specie negli enti di maggiori dimensioni–
una struttura di supporto per la definizione degli atti istruttori
propedeutici;
f) se la composizione è collegiale vanno definite le modalità di
funzionamento, prevedendo quando è necessario che il collegio sia perfetto o
quando può agire in assenza di alcuni componenti;
g) l‘UPD deve anche curare l’aggiornamento del codice di
comportamento di ente; esaminare le segnalazioni di violazione dei codici di
comportamento; curare la raccolta delle condotte illecite accertate e
sanzionate.
Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra queste due, imprescindibili,
figure presenti nell’ordinamento comunale (UPD e RPCT), occorre rifarsi a:
• articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190, nel testo
sostituito dall’art. 41, del d.lgs. 97/2016;
• articolo 43, commi 1 e 5, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33;
• circolare n. 1/2013, a cura del Dipartimento della funzione
pubblica;
• intesa della Conferenza Unificata del 24 luglio 2013, per
l’attuazione dell’art. 1, commi 60 e 61, della legge 190/2012;
• FAQ n. 3.8 in materia di prevenzione della corruzione,
consultabile nel sito web dell’ANAC;
• orientamento ANAC n. 111 del 04.11.2014;
• PNA 2016, approvato con delibera ANAC n. 831 del 03.08.2016,
Paragrafo 5.2;
• Delibera ANAC n. 700 del 23.07.2019.
Dall’esame dell’ultimo pronunciamento dell’Autorità Anticorruzione (delibera
n. 700/2019) –che ha parzialmente rivisto e meglio precisato le sue
precedenti indicazioni– è possibile concludere che:
– in via generale, l’ANAC ritiene non sussistente, specie nel caso
in cui l’Ufficio Procedimenti Disciplinari sia costituito come Organo
Collegiale, una situazione di incompatibilità tra la funzione di RPCT e
l’incarico di componente UPD, salvo i casi in cui oggetto dell’azione
disciplinare sia un’infrazione commessa dallo stesso RPCT;
– si raccomanda, come altamente auspicabile, laddove possibile, di
distinguere le due figure, soprattutto nelle amministrazioni e negli enti di
maggiori dimensioni e nel caso in cui l’UPD sia organo monocratico.
Dal momento che il comune interpellante ha una popolazione inferiore a
15.000 abitanti –quindi non può definirsi “ente di maggiori dimensioni”–
si ritiene possibile prevedere che il Segretario comunale ricopra,
contemporaneamente, il ruolo di RPCT e UPD. Resta comunque valida, inoltre,
la possibilità di nominare l’UPD, in forma associata e, in tal senso, si
consiglia di prevedere anche tale opzione all’interno del regolamento di
organizzazione (17.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI:
Le semplificazioni per i comuni che approvano il bilancio ed il rendiconto
entro i termini ordinari previsti dal TUEL. Tipologie e decorrenza.
Domanda
Qualche mese fa ho letto che la legge di bilancio 2019 ha introdotto una
serie di semplificazioni su alcuni adempimenti a carico dei comuni.
Di quali si tratta? Qual è la loro decorrenza?
Risposta
L’interessante quesito posto dal lettore fa riferimento a quanto previsto
dal comma 905 dell’articolo unico della L. 145/2018, (Legge di bilancio
2019). Esso prevede che a decorrere dall’esercizio 2019, per i comuni e le
loro forme associative che approvano il bilancio consuntivo entro il 30
aprile e il bilancio preventivo dell’esercizio di riferimento entro il 31
dicembre dell’anno precedente (ovvero entro i termini ordinari stabiliti dal
TUEL, rispettivamente all’art. 227 e all’art. 151) non trova applicazione
una serie di adempimenti. Trattasi in particolare dei seguenti:
• obbligo di comunicazione al Garante delle telecomunicazioni delle
spese pubblicitarie effettuate nel corso dell’anno precedente ai sensi
dell’art. 5, commi 4 e 5 della legge n. 67/1987;
• obbligo di adozione, ai fini del contenimento delle spese di
funzionamento, di piani triennali per l’individuazione di misure finalizzate
alla razionalizzazione dell’utilizzo delle dotazioni strumentali che
corredano le stazioni di lavoro nell’automazione d’ufficio, delle
autovetture di servizio, dei beni immobili ad uso abitativo o di servizio ai
sensi dell’articolo 2, comma 594, della legge n. 244/2007;
• obbligo di contenere le spese per missioni e le spese per
acquisto, manutenzione e noleggio di autovetture ai sensi dell’articolo 6,
commi 12 e 14, del decreto legge n. 78/2010 e dell’articolo 5, comma 2, del
decreto legge n. 95/2012;
• obbligo di attestare con idonea documentazione, da parte del
responsabile del procedimento, che gli acquisti di immobili, ove effettuati,
siano indispensabili e non dilazionabili ai sensi dell’articolo 12, comma
1-ter, del decreto legge n. 98/2011;
• specifici obblighi finalizzati a ridurre, anche attraverso
l’istituto del recesso contrattuale, le spese per locazione e manutenzione
di immobili ai sensi dell’articolo 24 del decreto legge n. 66/2014.
Sulla decorrenza dell’esenzione dagli obblighi sopra elencati, la norma è
piuttosto sibillina. Essa trova infatti applicazione "A decorrere
dall’esercizio 2019 (…)”. Nulla questio sul bilancio di
previsione 2019-2021: il termine ordinario per la sua approvazione (art. 151
del TUEL) era fissato al 31/12/2018. Diversamente per il rendiconto non è
chiaro a quale esercizio si debba fare riferimento: all’esercizio 2018, il
cui termine ordinario di approvazione (art. 227 del TUEL) era fissato allo
scorso 30 aprile o, viceversa, all’esercizio 2019, il cui rendiconto deve
essere approvato entro il termine ordinario del 30/04/2020?
A tale fine non soccorre neppure la nota di lettura della legge di bilancio
2019 redatta a cura del Senato che si limita a riportare il testo della
norma.
Secondo un’interpretazione letterale della norma, si dovrebbe fare
riferimento al rendiconto dell’esercizio 2019, con la conseguenza che le
semplificazioni entrerebbero in vigore dall’anno prossimo, ad avvenuta
approvazione del medesimo da parte del consiglio. Ciò tuttavia rinvierebbe
di fatto al 2020 la sua efficacia. Viceversa, un’interpretazione più
estensiva ed accomodante è quella per cui si debba fare riferimento all’anno
solare 2019 e che quindi il rendiconto da considerare sia quello relativo
all’esercizio 2018, già approvato nel corso di quest’anno. La questione non
è di poco conto.
Il tema è di particolare attualità visto che il primo adempimento in elenco
(comunicazione delle spese pubblicitarie sostenute nel corso del 2018) ha
scadenza il 30 settembre prossimo. Pur ritenendo condivisibile
l’interpretazione più accomodante, non è da escludere l’opportunità di
valutare se accogliere l’interpretazione più letterale e dare prudentemente
seguito all’obbligo di legge, anche in considerazione delle pesanti sanzioni
previste nei confronti degli enti inadempienti (16.09.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Comma 557 e anagrafe prestazioni.
Domanda
Un incarico conferito ai sensi dell’art. 1, comma 557, della l. 311/2004
deve essere comunicato in PERLAPA oppure configurandosi come tempo
determinato non rientra negli incarichi ai dipendenti?
Risposta
A parere di chi scrive, non avendo in merito indicazioni specifiche da parte
del DFP (Dipartimento della Funzione Pubblica), poiché la natura
dell’istituto previsto dal comma 557, dell’art. 1, della legge n. 311/2004,
è quella di rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato, in deroga al
principio dell’esclusività del rapporto di pubblico impiego, come
ripetutamente ricostruito dalla Corte dei Conti e dal Consiglio di Stato
nelle loro pronunce in materia, esso non rientra tra quelli di cui all’art.
53 del d.lgs. n. 165/2001.
A ulteriore supporto di tale lettura, la Corte dei Conti affianca ormai
univocamente l’istituto in esame, definito “scavalco di eccedenza” e
già assimilato anche, in altre pronunce giurisprudenziali, al comando o
distacco, allo “scavalco condiviso” ex art 14 del CCNL 22/01/2004,
ora assurto al rango di fonte legale con l’introduzione del comma 124 della
legge di bilancio n. 145/2018, e certamente non rilevante per l’Anagrafe
delle prestazioni.
L’istituto di cui al comma 557 citato, in sostanza, non ha la natura di
incarico, sulla quale è incentrata la disposizione del TUPI, e giova
rilevare che, in effetti, tale definizione non è contenuta neppure nella
norma che lo ha istituito (12.09.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI: L'ufficio
lavori pubblici e contratti di questo Ministero chiede, dopo le recenti
riforme, quale sia la procedura corretta per l'affidamento di un appalto di
250.000 euro (IVA esclusa).
Vi è obbligo di procedere con la procedura aperta?
In materia di "soglie del
sottosoglia" si sono succeduti negli ultimi mesi provvedimenti normativi
che hanno modificato limiti e procedure di affidamento. Dall'entrata in
vigore del D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 l'affidamento di lavori di questa entità
avveniva secondo la disposizione "per i lavori di importo pari o
superiore a 150.000 euro e inferiore a 1.000.000 di euro, mediante la
procedura negoziata di cui all'articolo 63 con consultazione di almeno dieci
operatori economici, ove esistenti".
Il Decreto Sblocca cantieri (D.L. 18.04.2019, n. 32) ha abrogato tale
disposizione, prevedendo il rinvio alle procedure ordinarie "per i lavori
di importo pari o superiore a 200.000 euro e fino alle soglie di cui
all'articolo 35 mediante ricorso alle procedure di cui all'articolo 60,
fatto salvo quanto previsto dall'articolo 97, comma 8"; la conversione
in legge del decreto è nuovamente intervenuta sulla materia disponendo:
- per affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e
inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all'art. 35 per
le forniture e i servizi, mediante affidamento diretto previa valutazione di
tre preventivi, ove esistenti, per i lavori, e, per i servizi e le
forniture, di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di
indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto
di un criterio di rotazione degli inviti.
- per affidamenti di lavori di importo pari o superiore a 150.000
euro e inferiore a 350.000 euro, mediante la procedura negoziata di cui
all'art. 63 previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori
economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti,
individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori
economici. L'avviso sui risultati della procedura di affidamento contiene
l'indicazione anche dei soggetti invitati.
Pertanto alla luce delle citate disposizioni, ferma la facoltà della
stazione appaltante di applicare comunque le procedure aperte anche per
questa fascia, vi è tuttavia la possibilità (che costituisce la regola) di
procedere mediante negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara
con invito di almeno 10 operatori.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L.gs. 18.04.2016, n. 50
art. 36
D.L.gs. 18.04.2016, n. 50 art. 60
D.Lgs. 19.04.2017, n. 56, art. 25
D.L. 18.04.2019, n. 32
(11.09.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Interrogazione di alcuni consiglieri comunali. Diritto di accesso agli atti
degli amministratori locali. Limiti.
I consiglieri comunali hanno l’incondizionato diritto di
accesso a tutti gli atti in possesso dell’Amministrazione che possano essere
d’utilità all’espletamento del mandato al fine di permettere loro di
valutare –con piena cognizione– la correttezza e l’efficacia dell’operato
del Comune, nonché per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio comunale,
le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale.
Diverso discorso è invece da farsi relativamente agli atti di indagine
penale che rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329 c.p.p. e
rispetto ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme
consentite dalla partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito all’ambito di esercizio
dei diritti spettanti ai consiglieri comunali ai sensi dell’articolo 43 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 e in particolare, all’istituto
dell’interrogazione e del diritto di accesso agli atti.
A tal fine riferisce dell’avvenuta presentazione di un’interrogazione da
parte di alcuni consiglieri comunali con la quale veniva chiesto al sindaco
di riferire sui contenuti di un’indagine giudiziaria in corso che interessa
l’amministrazione comunale. Trattandosi di operazioni di indagine sottoposte
al segreto d’ufficio l’Ente desidera sapere quali limitazioni sussistano al
riguardo anche sotto il profilo dell’eventuale sussistenza del diritto di
accesso agli atti spettante agli amministratori locali.
L’articolo 43 del D.Lgs. 267/2000, al comma 1, prevede che i consiglieri
comunali abbiano diritto di presentare interrogazioni e mozioni mentre il
successivo comma 3 stabilisce che il sindaco o l’assessore da esso delegato
risponde, “entro 30 giorni, alle interrogazioni e ad ogni istanza di
sindacato ispettivo presentata dai consiglieri. Le modalità della
presentazione di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo
statuto e dal regolamento consiliare”.
Il regolamento dell’Ente disciplina l’istituto delle interrogazioni e delle
istanze di sindacato ispettivo all’articolo 34 precisando, al comma 1, che
l’interrogazione “è definita come la domanda, singola o collettiva, che i
Consiglieri possono rivolgere al Sindaco o alla Giunta, nel rispetto delle
singole competenze, per avere notizia sulla veridicità di qualche fatto ed
informazione, su eventuali provvedimenti adottati o che si presumono siano
da adottare. Non può eccedere i cinque minuti”.
Si tratta di un istituto il cui utilizzo è garantito ai consiglieri comunali
al fine di poter esercitare il proprio munus publicum. La facoltà di
presentare interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno rientra tra le
funzioni di sindacato ispettivo attribuite dalla legge agli amministratori
locali. Si tratta di istituti finalizzati a garantire la funzione propria
del consigliere comunale che è quella di verificare che il sindaco e la
giunta esercitino correttamente la loro attività di governo.
Analoga ratio sorregge l’istituto del diritto di accesso spettante agli
amministratori locali il quale trova la sua fonte normativa di riferimento
nell’articolo 43, comma 2, TUEL il quale recita: “I consiglieri comunali
e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti,
tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento
del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente
determinati dalla legge”.
La giurisprudenza ha, infatti, costantemente sottolineato che le
informazioni acquisibili devono considerare l’esercizio, in tutte le sue
potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere
comunale è individualmente investito, in quanto membro del consiglio. Ne
deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni consigliere
di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e
l’acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e
dell’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale, utile non solo
per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di
competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell’ambito del consiglio
stesso, le varie iniziative consentite dall’ordinamento ai membri di quel
collegio [1].
Premesso quanto sopra necessita ora soffermarsi sui limiti cui soggiacciono
i diritti di cui sopra e, in particolare, per ciò che rileva in questa sede,
sull’obbligo al segreto istruttorio che impedisce l’ostensione dei documenti
coperti dal segreto e, in parallelo, altresì, la diffusione di ogni
informazione concernente le indagini giudiziarie in corso e per le quali
sussiste l’obbligo alla segretezza.
Come affermato dalla dottrina [2]
«la giurisprudenza ha chiarito che l’innovazione legislativa introdotta
con il T.U.E.L. non poteva travolgere le diverse ipotesi di segreto previste
dall’ordinamento, anche in presenza di documenti formati o detenuti
dall’amministrazione.
L’esistenza di ipotesi speciali di segreto è stata esplicitata dall’art. 24,
comma 1, lett. a), della legge 241/1990 che esclude il diritto di accesso
“(…) nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti
dalla legge (…)”, riferendosi a casi in cui l’esigenza di segretezza è volta
alla protezione di “interessi di natura e consistenza diversa da quelli
genericamente amministrativi” [3].
Si è così affermato che il diritto non è esercitabile nei confronti di
alcuni tipi di atti […] da ritenersi segreti e non sufficientemente protetti
dal semplice obbligo di non divulgazione delle notizie ivi riportate.
[4]
Se così non fosse, l’accesso del consigliere ai documenti coperti da segreto
“assumerebbe una portata oggettiva più ampia di quella riconosciuta ai
cittadini ed ai titolari di posizioni giuridiche differenziate (pure
comprensive di situazioni protette a livello costituzionale)”
[5].
Le esigenze connesse all’espletamento del mandato non potrebbero, pertanto,
autorizzare un privilegio incondizionato a scapito di altri soggetti
interessati e a sacrificio degli interessi tutelati dalla normativa sul
segreto».
Tra i casi di segreto previsti dall’ordinamento a preclusione del diritto di
accesso rientra quello istruttorio in sede penale, delineato dall’art. 329
c.p.p. a tenore del quale “Gli atti d'indagine compiuti dal pubblico
ministero e dalla polizia giudiziaria, le richieste del pubblico ministero
di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice
che provvedono su tali richieste sono coperti dal segreto fino a quando
l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura
delle indagini preliminari” [6].
In questo senso si è espressa la giurisprudenza la quale ha affermato che: “I
consiglieri hanno l’incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti che
possano essere d’utilità all’espletamento del loro mandato, al fine di
permettere loro di valutare – con piena cognizione – la correttezza e
l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per promuovere, anche
nell’ambito del Consiglio comunale, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale. […] diverso discorso è invece da
farsi relativamente agli ulteriori atti di indagine penale, eventualmente
delegata, che rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329
c.p.p. e rispetto ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme
consentite dalla partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono”
[7].
Nello stesso senso si è espresso anche il Ministero dell’Interno[8] il
quale, nel fare proprie due pronunce del Consiglio di Stato
[9] ha osservato che: «L'Alto
Consesso ha ritenuto che la posizione dei consiglieri comunali non possa
essere talmente privilegiata da consentire loro l'accesso a tutti i
documenti, anche segreti, dell'amministrazione, assumendo solo l'obbligo di
non divulgare le relative notizie. […] Se ne deduce, così, che il diritto di
accesso del consigliere comunale, da esercitarsi riguardo ai dati
effettivamente utili all'esercizio del mandato ed ai soli fini di questo,
deve essere coordinato con altre norme vigenti, come quelle che tutelano il
segreto delle indagini penali o la segretezza della corrispondenza e delle
comunicazioni […]».
---------------
[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del
29.08.2011, n. 4829.
[2] R. Cicatelli, “Il diritto di accesso del consigliere comunale agli atti
della magistratura della Corte dei Conti. Nota alla sentenza del Consiglio
di Stato, sez. V, 02.01.2019, n. 12”, in “Il Piemonte delle Autonomie”,
2019.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.04.2001, n. 1893.
[4] Si riportano le parole del Consiglio di Stato espresse nella sentenza
1893/2001: “Con riguardo alla posizione specifica dei consiglieri comunali,
occorre chiarire la portata della espressione normativa "essi sono tenuti al
segreto nei casi specificamente determinati dalla legge" (articolo 43, comma
2, del T.U. 18.08.2000 n. 267). La norma, per la sua collocazione
sistematica e per il suo significato letterale, intende ribadire la regola
secondo cui, lecitamente acquisite e le informazioni e le notizie utili
all'espletamento del mandato, il consigliere, di regola, è autorizzato a
divulgarle. Un divieto di comunicazione a terzi deve derivare da apposita
disposizione normativa.
In tale prospettiva si spiega, coerentemente, il rapporto tra la disciplina
sulla protezione dei dati personali e la pretesa all'accesso del consigliere
comunale. Questi è legittimato ad acquisire le notizie ed i documenti
concernenti dati personali, anche sensibili, poiché, di norma, tale attività
costituisce "trattamento" autorizzato da specifica disposizione legislativa
(legge n. 675/1996; decreto legislativo n. 135/1999), secondo le regole
integrative fissate dalle determinazioni ed autorizzazioni generali del
Garante e dagli atti organizzativi delle singole amministrazioni.
Ma il consigliere comunale non può comunicare a terzi i dati personali (in
particolare quelli sensibili) se non ricorrono le condizioni indicate dalla
normativa in materia di tutela della riservatezza.
Questi principi sono alla base della decisione n. 940/2000 della Sezione, la
quale ammette l'accesso del consigliere comunale anche nei casi in cui esso
incide sulla riservatezza dei terzi, senza affrontare la diversa questione
dell'accesso ai documenti coperti dal segreto, per la tutela di diversi
interessi.
Non è plausibile, invece, la tesi secondo cui il consigliere comunale, in
tale veste, potrebbe accedere a tutti i documenti, anche segreti,
dell'amministrazione, assumendo solo l'obbligo di non divulgare le relative
notizie.
In tal modo, l'accesso ai documenti del consigliere comunale, ritenuto
prevalente anche sul segreto professionale, assumerebbe una portata
oggettiva più ampia di quella riconosciuta ai cittadini ed ai titolari di
posizioni giuridiche differenziate (pure comprensive di situazioni protette
a livello costituzionale). Il mandato politico-amministrativo affidato al
consigliere esprime certamente il principio democratico dell'autonomia
locale e della rappresentanza esponenziale della collettività, ma,
nell'attuale contesto normativo, non può autorizzare un privilegio così
marcato, a scapito degli altri soggetti interessati alla conoscenza dei
documenti amministrativi e con sacrificio degli interessi tutelati dalla
normativa sul segreto.”
[5] Consiglio di Stato, sentenza n. 1893/2001, citata in nota 3.
[6] Per completezza espositiva si segnala che il testo dell’articolo come
sopra riportato è stato così modificato dal decreto legislativo 29.12.2017,
n. 216, il quale all’articolo 2, comma 1, lett. f), ha inserito all'articolo
329, comma 1, dopo le parole: «e dalla polizia giudiziaria» le seguenti: «,
le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti
di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste».
Il successivo articolo 9, al comma 1 (così modificato dall’art. 2, comma 1,
del D.L. 25.07.2018, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge
21.09.2018, n. 108, dall’art. 1, comma 1139, lett. a), n. 1), della legge
30.12.2018, n. 145, a decorrere dal 01.01.2019, e, successivamente,
dall’art. 9, comma 2, lett. a), D.L. 14.06.2019, n. 53) ha, peraltro,
stabilito che la disposizione di cui all’articolo 2 si applica alle
operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi
dopo il 31.12.2019.
[7] TAR Trento, sez. I, sentenza del 07.05.2009, n. 143. Nello stesso senso
si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.10.2016, n. 4537; TAR
Sicilia, Catania, sentenza del 25.07.2017, n. 1943; TAR Potenza, sentenza
del 14.12.2005, n. 1028.
[8] Ministero dell’Interno, parere del 13.02.2004.
[9] Rispettivamente Consiglio di Stato, sentenza 1893/2001, già citata in
nota 3, e Consiglio di Stato, sentenza del 26.09.2000, n. 5105 (02.08.2019
- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva – Attività che comporti il pericolo di
un’urbanizzazione non prevista o diversa da quella
programmata – Integrazione del reato – Differenza tra
lottizzazione abusiva e mero abuso edilizio – Illegittima
trasformazione urbanistica od edilizia del territorio – Artt.
30 e 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
Il reato di lottizzazione abusiva è
integrato non soltanto dalla trasformazione effettiva del
territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente
comporti anche solo il pericolo di un’urbanizzazione non
prevista, o diversa da quella programmata, in generale va
ricordato che, per integrare il reato di lottizzazione
abusiva, diversamente dal mero abuso edilizio, è necessaria
una illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del
territorio, di consistenza tale da incidere in modo
rilevante sull’assetto urbanistico della zona; ne consegue
che il giudice deve verificare, nei singoli casi, se le
opere ritenute abusive abbiano una valenza autonomamente
punibile ai sensi dell’art. 44, lett. a) e b), d.P.R. n. 380
del 2001, ovvero se esse siano idonee a conferire all’area
un diverso assetto territoriale, con conseguente necessità
di predisporre nuove opere di urbanizzazione o di potenziare
quelle già esistenti, in tal modo sottraendo le relative
scelte di pianificazione urbanistica agli organi competenti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.09.2019 n. 39332 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Per
consolidata giurisprudenza:
- il procedimento di verifica dell'anomalia non ha per oggetto la
ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando
piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia
attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto,
e che pertanto la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica,
senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci
di prezzo;
- il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta è
finalizzato all’accertamento dell’attendibilità e della serietà della stessa
e dell’effettiva possibilità dell’impresa di eseguire correttamente
l’appalto alle condizioni proposte; la relativa valutazione della stazione
appaltante ha natura globale e sintetica e costituisce espressione di un
tipico potere tecnico-discrezionale insindacabile in sede giurisdizionale,
salvo che la manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza
dell’operato renda palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta.
Il relativo procedimento non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto
la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica,
mirando invece ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia
attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto.
La verifica mira, quindi, in generale, “a garantire e tutelare l’interesse
pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la
procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile
ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara
dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della
valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva
inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere”;
- il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della
pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza e
adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna
autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò
rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica
amministrazione.
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2.5. Chiarito, come sopra, che il primo giudice ha reso il giudizio di
carenza di istruttoria e di motivazione della verifica di congruità senza
tener conto di tutte le giustificazioni esaminate dall’Amministrazione
comunale, va rammentato che, per consolidata giurisprudenza:
- il procedimento di verifica dell'anomalia non ha per oggetto la
ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando
piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia
attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto,
e che pertanto la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica,
senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci
di prezzo (tra tante, III, 29.01.2019, n. 726; V, 23.01.2018, n. 430;
30.10.2017, n. 4978);
- il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta è
finalizzato all’accertamento dell’attendibilità e della serietà della stessa
e dell’effettiva possibilità dell’impresa di eseguire correttamente
l’appalto alle condizioni proposte; la relativa valutazione della stazione
appaltante ha natura globale e sintetica e costituisce espressione di un
tipico potere tecnico-discrezionale insindacabile in sede giurisdizionale,
salvo che la manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza
dell’operato renda palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta (ex
multis, Cons. Stato, V, 17.05.2018 n. 2953; 24.08.2018 n. 5047; III,
18.09.2018 n. 5444; V, 23.01.2018, n. 230).
Il relativo procedimento non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto
la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica,
mirando invece ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia
attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto.
La verifica mira, quindi, in generale, “a garantire e tutelare
l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione
attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior
contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che
l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è
l’effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di
complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere”
(C. Stato, V, n. 230 del 2018, cit.);
- il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della
pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza e
adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna
autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò
rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica
amministrazione (ex multis, Cons. Stato, V, 22.12.2014, n. 6231;
18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 11.05.2012, n.
2732)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.09.2019 n. 6419 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Decorrenza
del termine per impugnare gli atti di gara.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Impugnazione – Termine ex art.
120 c.p.a. – Dies a quo – Individuazione
Ai sensi dell’art. 120 c.p.a., ai fini della
decorrenza del termine per impugnare gli atti di gara la stazione appaltante
non è più obbligata, nella comunicazione d’ufficio dell’avvenuta
aggiudicazione, ad esporre le ragioni di preferenza dell’offerta
aggiudicata, ovvero, in alternativa, ad allegare i verbali della procedura;
la comunicazione è invece necessaria e non può essere surrogata da altre
forme di pubblicità legali, quali la pubblicazione all’albo pretorio del
Comune ovvero sul profilo della committente e neppure la pubblicazione sulla
Gazzetta ufficiale dell’Unione europee (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che non è possibile desumere la c.d.
piena conoscenza dell’avvenuta aggiudicazione da un elemento indiziario,
quale l’interruzione del rapporto di lavoro con gli autisti e la dismissione
degli automezzi, cui la ricorrente, nella sua veste di gestore uscente, era
stata costretta.
Precisato che il termine di impugnazione decorre dall’intervenuta c.d. piena
conoscenza di cui all’art. 41, comma 2, c.p.a. solo se l’interessato sia in
grado di percepire i profili di lesività per la propria sfera giuridica
dell’atto amministrativo (Cons.
Stato, sez. IV, 22.06.2018, n. 3843; id.
04.12.2017, n. 5675) e che, con riguardo al provvedimento di
aggiudicazione di una procedura di gara, ciò vuol dire che il concorrente
deve aver acquisito piena contezza del nominativo dell’aggiudicatario e del
carattere definitivo dell’aggiudicazione (Cons.
Stato, sez. III, 29.03.2019, n. 2079; id.,
sez. V, 08.02.2019, n. 947), può ritenersi che tale conoscenza
non consentiva né l’intervenuta interruzione del rapporto di lavoro con gli
autisti e la dismissione degli automezzi – circostanza in sé idonea a
dimostrare solo la chiusura del precedente contratto di appalto, ma non
certo l’acquisita conoscenza dell’esistenza di una nuova aggiudicazione
Ha chiarito la Sezione che nel caso sottoposto al proprio esame si potrebbe
constatare come la richiesta di accedere agli atti di gara della ricorrente
giunge mesi dopo il periodo in cui la procedura di gara si avviava a
presumibile conclusione e per questo dubitare della diligenza della
ricorrente, ma il legislatore, imponendo la comunicazione
dell’aggiudicazione anche d’ufficio ipotizzano sempre l’accesso ai documenti
successivo alla conoscenza dell’aggiudicazione secondo una sequenza
(comunicazione dell’aggiudicazione-accesso ai documenti) che va preservata
per il carattere defatigante che potrebbero assumere istanze di accesso “al
buio” formulate dai concorrenti al solo fine di conoscere lo stato della
procedura ove si affermasse il diverso principio per cui è onere del
concorrente attivarsi per sapere se l’amministrazione ha adottato
l’aggiudicazione definitiva e con quale contenuto.
La Sezione, in termini più generali, ha ricordato che l’art. 120, comma 5,
c.p.a. prevede che “Salvo quanto previsto dal comma 6bis, per
l’impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale
o incidentale, e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già
impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente,
per il ricorso principale e per i motivi aggiunti dalla comunicazione di cui
all’art. 79 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”.
La giurisprudenza ritiene che il rinvio all’art. 79, d.lgs. 12.04.2006, n.
163, in virtù dell’intervenuta abrogazione ad opera del nuovo codice dei
contratti pubblici, è da intendersi ora riferito all’art. 76, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 (Cons.
Stato, sez. V, 27.11.2018, n. 6725).
L’art. 76 cit. prevede due diverse modalità di comunicazione ai concorrenti
delle informazioni relative alle procedure di gara e, per quanto
d’interesse, quelle attinenti all’aggiudicazione:
a) al comma 2, su istanza di parte formulata per iscritto,
l’amministrazione aggiudicatrice comunica “immediatamente e comunque
entro quindici giorni dalla ricezione della richiesta” all’offerente che
abbia presentato un’offerta ammessa in gare e valutata, “le
caratteristiche e i vantaggi dell’offerta selezionata e il nome
dell’offerente cui è stato aggiudicato l’appalto o delle parti dell’accordo
quadro”;
b) al comma 5, d’ufficio, “immediatamente e comunque entro un
termine non superiore a cinque giorni” l’amministrazione aggiudicatrice
comunica all’aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a
tutti i candidati che hanno presentato un’offerta ammessa in gara, a coloro
la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto
impugnazione avverso l’esclusione o sono in termini per presentare
l’impugnazione, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di
invito, se tali impugnazioni non siano state respinte con pronuncia
giurisdizionale definitiva.
La disposizione attualmente vigente non precisa più –se non, dunque, nel suo
secondo comma in relazione alla comunicazione che avvenga su richiesta
scritta dell’interessato– come, invece, il comma 5-bis del previgente art.
79, d.lgs. n. 163 del 2016, che “La comunicazione è accompagnata dal
provvedimento e dalla relativa motivazione contenente almeno gli elementi di
cui al comma 2, lettera c) e fatta salva l’applicazione del comma 4; l’onere
può essere assolto nei casi di cui al comma 5, lettere a), b) e b-bis),
mediante l’invio dei verbali di gara, e, nel caso di cui al comma 5, lettera
b-ter), mediante richiamo alla motivazione relativa al provvedimento di
aggiudicazione definitiva, se già inviato”.
Si può, quindi, ritenere che ora la stazione appaltante non sia più
obbligata, nella comunicazione d’ufficio dell’avvenuta aggiudicazione, ad
esporre le ragioni di preferenza dell’offerta aggiudicata, ovvero, in
alternativa, ad allegare i verbali della procedura.
A maggior ragione, però, restano validi i seguenti principi elaborati dalla
giurisprudenza amministrativa nella vigenza del vecchio codice dei contratti
pubblici (Cons.
Stato, sez. V, 13.08.2019, n. 5717):
a) in caso di comunicazione dell’aggiudicazione che non specifichi
le ragioni di preferenza dell’offerta dell’aggiudicataria (o non sia
accompagnata dall’allegazione dei verbali di gara), e comunque, in ogni caso
in cui si renda indispensabile conoscere gli elementi tecnici dell’offerta
dell’aggiudicatario per aver chiare le ragioni di preferenza, l’impresa
concorrente può richiedere di accedere agli atti della procedura;
b) alla luce dell’insegnamento della Corte di Giustizia dell’Unione
europea (specialmente con la sentenza 08.05.2014 nella causa C-161/13
Idrodinamica Spurgo secondo cui "ricorsi efficaci contro le violazioni
delle disposizioni applicabili in materia di aggiudicazione di appalti
pubblici possono essere garantiti soltanto se i termini imposti per proporre
tali ricorsi comincino a decorrere solo dalla data in cui il ricorrente è
venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa
violazione di dette disposizioni" (punto 37) e "una possibilità, come
quella prevista dall' articolo 43 del decreto legislativo n. 104/2010 , di
sollevare "motivi aggiunti" nell'ambito di un ricorso iniziale proposto nei
termini contro la decisione di aggiudicazione dell'appalto non costituisce
sempre un'alternativa valida di tutela giurisdizionale effettiva. Infatti,
in una situazione come quella di cui al procedimento principale, gli
offerenti sarebbero costretti a impugnare in abstracto la decisione di
aggiudicazione dell'appalto, senza conoscere, in quel momento, i motivi che
giustificano tale ricorso" (punto 40) il termine di trenta giorni per
l'impugnativa del provvedimento di aggiudicazione non decorre sempre dal
momento della comunicazione ma può essere incrementato di un numero di
giorni pari a quello necessario affinché il soggetto (che si ritenga) leso
dall'aggiudicazione possa avere piena conoscenza del contenuto dell'atto e
dei relativi profili di illegittimità ove questi non siano oggettivamente
evincibili dalla richiamata comunicazione (Cons.
Stato, sez. V, 02.09.2019, n. 6064; id.,
sez. V, 13.02.2017, n. 592);
c) la dilazione temporale, che prima era fissata nei dieci giorni
previsti per l’accesso informale ai documenti di gara dall’art. 79, comma 5–quater,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, decorrenti dalla comunicazione del provvedimento,
può ora ragionevolmente essere fissata nei quindici giorni previsti dal
richiamato comma 2 dell’art. 76, d.lgs. n. 50 per la comunicazione delle
ragioni dell’aggiudicazione su istanza dell’interessato;
d) qualora la stazione appaltante rifiuti illegittimamente
l’accesso, o tenga comportamenti dilatori che non consentano l’immediata
conoscenza degli atti di gara, il termine non inizia a decorrere e il potere
di impugnare dall’interessato pregiudicato da tale condotta amministrativa
non si “consuma”; in questo caso il termine di impugnazione comincia
a decorrere solo a partire dal momento in cui l’interessato abbia avuto
cognizione degli atti della procedura (Cons.
Stato, sez. III, 06.03.2019, n. 1540);
e) la comunicazione dell’avvenuta aggiudicazione imposta dall’art.
76, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, non è surrogabile da altre forme di
pubblicità legali, quali, in particolare, la pubblicazione del provvedimento
all’albo pretorio della stazione appaltante per l’espresso riferimento
dell’art. 120, comma 5, c.p.a., alla “ricezione della comunicazione”,
ovvero ad una precisa modalità informativa del concorrente (Cons. Stato,
sez. V, 25.07.2019, n. 5257; id., sez. V, 23.07.2018, n. 4442);
f) anche indipendentemente dal formale inoltro della comunicazione
dell’art. 76, comma 5, d.lgs. n. 50 cit., per la regola generale di cui
all’art. 41, comma 2, Cod. proc. amm., il termine decorre dal momento in cui
il concorrente abbia acquisito “piena conoscenza”
dell’aggiudicazione, del suo concreto contenuto dispositivo e della sua
effettiva lesività, pur se non si accompagnata dall’acquisizione di tutti
gli atti del procedimento (Cons. Stato, sez. V, 23.08.2019, n. 5813)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.09.2019 n. 6251-
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Contratti
della Pubblica amministrazione – Commissione di gara – riconvocazione per
nuovo esame delle offerte - Su ordine del giudice - Diversa composizione –
Possibilità.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Commissione di gara –
riconvocazione per nuovo esame delle offerte - Su ordine del giudice -
Diversa composizione – Possibilità.
Il giudice, qualora disponga il rinnovo della
valutazione delle offerte di gara può ordinare che tale attività sia
compiuta da una Commissione in diversa composizione, non trovando
applicazione il comma 11 dell’art. 77, d.lgs., n. 50 del 2016 che si
riferisce ai casi in cui la Commissione deve essere riconvocata a seguito
dell’annullamento dell’aggiudicazione (1).
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(1) Ha chiarito il
C.g.a. che la sussistenza di una precisa istanza della parte volta ad
ottenere che il giudizio fosse devoluto ad una diversa commissione di
valutazione appare sostanzialmente irrilevante.
E ciò perché nel processo amministrativo, il “principio dispositivo”
vale senz’altro per quanto attiene alla domanda giudiziale (nel senso che al
Giudice è inibito giudicare ultra petita), nonché, parzialmente,
anche per il meccanismo probatorio (che, com’è noto, è solamente in parte
nella disponibilità delle parti, ben potendo essere disposte d’ufficio sia
l’acquisizione di documenti, informazioni e/o chiarimenti, sia la consulenza
tecnica e la verificazione), mentre non opera in relazione alle ‘specifiche
modalità’ di assunzione e/o di acquisizione delle prove (o dei
documentati chiarimenti volti ad assumere la consistenza di prove), né in
relazione alle ‘modalità di attuazione’ delle ‘operazioni’
strumentali alla formazione della prova.
Tali “modalità operative” sono -di regola e per lo più- disciplinate
dalla legge (come nel caso della “c.t.u.”, per la quale la legge
stabilisce le regole volte ad assicurare il contraddittorio e
l’imparzialità; o nel caso della “prova testimoniale”, per la quale
la legge stabilisce le regole di assunzione, etc.,). Ma è evidente che la
concreta organizzazione di tutte le attività processuali ed operazioni che
non sono espressamente (e meticolosamente) disciplinate dalla legge
processuale, non può che essere devoluta e riservata alla competenza del
Giudice, concretandosi in un’attività intimamente connessa alla sua
funzione, e nella quale si manifesta la sua abilità ed il suo intuito nel
perseguimento della ricerca della verità (e della giustizia).
Ha aggiunto il C.g.a. di non ignorare che l’art. 77, comma 11, del nuovo
codice dei contratti pubblici che sancisce il principio secondo cui “In
caso di rinnovo del procedimento di gara, a seguito di annullamento
dell’aggiudicazione o di annullamento dell’esclusione di taluno dei
concorrenti, è riconvocata la medesima commissione, fatto salvo il caso in
cui l’annullamento sia derivato da un vizio nella composizione della
commissione”.
Ma non può non rilevarsi che la norma richiamata mal si attaglia al caso in
cui l’aggiudicazione non è stata “annullata”, essendo ancora in
itinere il procedimento di valutazione volto a verificare quale debba essere
la ditta alla quale aggiudicare l’appalto; né è stata annullata l’esclusione
di un concorrente.
Tale norma in esame si applica, dunque, allorquando venga in rilievo un
vizio che abbia inficiato l’aggiudicazione, e non anche nel caso in cui la
necessità di modificare la composizione della commissione di gara è sorta
nell’ambito del processo amministrativo, in conseguenza di una decisione
giudiziaria rimasta ineseguita, ed al fine di consentirne la corretta
attuazione
(CGARS,
sentenza 18.09.2019 n. 823 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di via pubblica – Strada aperta al pubblico
passaggio – Vie di comunicazione tra fondi liberamente
percorribili – Inclusione.
Per via pubblica deve intendersi ogni
strada che sia aperta al pubblico passaggio, comprese le vie
di comunicazione tra fondi (dette vie vicinali), se possano
essere liberamente percorse.
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4.1.2. In proposito, infatti, quanto all’ipotesi
contravvenzionale di cui all’art. 703 cit., da un lato per
via pubblica deve intendersi ogni strada che sia aperta al
pubblico passaggio, comprese le vie di comunicazione tra
fondi (dette vie vicinali), se possano essere liberamente
percorse.
Al riguardo, risulta accertato in fatto che la strada dove è
avvenuto il fatto era aperta al pubblico transito, era
censita nello stradario comunale, ed ancorché non asfaltata
ed in zona agreste fungeva da collegamento tra altre strade
parallele di maggior traffico.
Né sono state evidenziate restrizioni di accesso al
riguardo. Una strada rientra infatti nella categoria delle
vie vicinali pubbliche se sussistono i requisiti del
passaggio esercitato jure servitubs publicae da una
collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad una
comunità territoriale, della concreta idoneità della strada
a soddisfare esigenze di generale interesse, anche per il
collegamento con la pubblica via, e dell’esistenza di un
titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso
pubblico (che può identificarsi anche nella protrazione
dell’uso stesso da tempo immemorabile) (Cass. Civ. Sez. 2,
n. 16864 del 05/07/2013; Cass. Civ. Sez. 1, n. 10932 del
02/11/1998) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2019 n. 38470 - link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
1.- Beni pubblici e privati – espropriazione per p.u. – retrocessione –
esproprio realizzato nell’ambito della riforma agraria – retrocessione – è
esclusa.
L’istituto della retrocessione –sia totale sia parziale–
non è applicabile nei casi in cui l’utilizzazione dell’immobile ablato
consegua alla semplice espropriazione dell’area, considerata in sé e per sé
ed indipendentemente dalla sua specifica destinazione.
Vi rientra (come nella specie) un’ipotesi di attuazione della riforma
fondiaria di cui alle leggi nn. 230 del 1950 e 841 del 1950: infatti,
l’espropriazione prevista dalla riforma agraria del secondo dopoguerra
realizza sempre e automaticamente almeno il ridimensionamento dei latifondi,
che rappresenta una delle finalità del legislatore (oltre alla
trasformazione e colonizzazione agraria), sicché la mancata utilizzazione
dei beni non può fondare alcuna retrocessione
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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8. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle
seguenti considerazioni in fatto e diritto.
9. Con riferimento al primo motivo di gravame, si rileva che del tutto
correttamente il Tar ha affermato che l’istituto della retrocessione –sia totale sia parziale– non è applicabile nelle ipotesi in cui
l’utilizzazione dell’immobile ablato consegua alla semplice espropriazione
dell’area, considerata in sé e per sé ed indipendentemente dalla sua
specifica destinazione. Tra queste ipotesi rientra certamente il caso di
specie, dove vi è stata un’attuazione della riforma fondiaria di cui alle
leggi nn. 230 del 1950 e 841 del 1950.
In sostanza, il collegio di primo grado ha ben chiarito che l’espropriazione
prevista dalla riforma agraria del secondo dopoguerra realizza sempre e
automaticamente almeno il ridimensionamento dei latifondi, che rappresenta
una delle finalità del legislatore (oltre alla trasformazione e
colonizzazione agraria), sicché la mancata utilizzazione dei beni non può
fondare alcuna retrocessione.
In tal senso si è espressa la Corte suprema di cassazione, con la sentenza
delle Sezioni unite, del 02.02.1963, n. 183, e in proposito non si è
mai successivamente prospettata in giurisprudenza una diversa lettura
ermeneutica.
Non rilevano nel caso de quo i richiami formulati dagli appellanti alla
successiva giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea
dei diritti dell’uomo in materia espropriativa nonché ai principi codificati
dal D.P.R. n. 327 del 2001, atteso che l’ablazione è avvenuta in un quadro
di legalità formale e sostanziale e che non è oggetto del presente giudizio
la quantificazione delle pretese indennitarie.
10. Circa il secondo motivo d’impugnazione, il Collegio considera legittima
la precisazione svolta dal Tar per cui la circostanza che sull’area
oggetto di causa sia stata attivata una nuova procedura ablatoria da parte
del Comune di Eboli (non preclusa dalle precedenti determinazioni e,
pertanto, non automaticamente illegittima) rende improcedibile il ricorso,
posto che l’ipotetico diritto di retrocessione si convertirebbe in un
diritto all’indennità.
Ad ogni modo, la valutazione svolta dal collegio di primo grado, nel secondo
paragrafo della parte motiva in diritto della pronuncia impugnata, sull’improcedibilità
del ricorso ha il valore di una motivazione addizionale non determinante
l’esito della lite, in quanto il ricorso non è stato dichiarato
improcedibile, bensì stato respinto nel merito, sulla base delle
considerazioni presenti nel paragrafo primo della medesima parte motiva,
cosicché una sua riforma non potrebbe incidere da sola sulla decisione di
rigetto.
11. In relazione ai motivi contenuti nel ricorso di primo grado e ai
successivi motivi aggiunti, si osserva che loro mera trascrizione,
effettuata con espresso riferimento sia ad una maggiore esplicitazione dei
motivi d’appello sia all’art. 346 c.p.c., allora regolante le decadenze in
appello nel processo amministrativo, non è di per sé sufficiente ad
integrare una rituale riproposizione delle contestazioni formulate in primo
grado, come più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa (cfr.
Cons. Stato, sezione IV, sentenze 05.03.2015, 1115, 20.04.2006, n.
2233, 16.04.2010, n. 2178; Cons. Stato, sez. VI, sentenze 10.04.2012, n. 2060 e
07.02.2014, n. 590), trattandosi di una generica
modalità di reiterazione dei motivi, la quale fuoriesce dalla critica alla
sentenza impugnata, che costituisce il proprium dell’appello.
In ogni caso, le cennate censure non sono accoglibili, recando, in sostanza,
doglianze analoghe a quelle proposte con i due motivi d’impugnazione, che
sono stati valutati infondati. È, invece, meritevole di vaglio autonomo –seppur non necessario– soltanto il terzo motivo del ricorso di primo grado,
non esaminato dal Tar, con cui si è lamentata la violazione dell’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990, per non aver l’amministrazione
comunicato agli interessati il preavviso di rigetto dell’istanza di
retrocessione parziale del fondo.
Al riguardo giova evidenziare che la giurisprudenza amministrativa
interpreta il citato art. 10-bis, così come le altre norme in materia di
partecipazione procedimentale, non in senso formalistico, bensì avendo
riguardo all’effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza abbia
causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con la
pubblica amministrazione. Ne deriva che l’omissione del preavviso di rigetto
non cagiona l’automatica illegittimità del provvedimento finale qualora
possa trova applicazione l’art. 21-octies della stessa legge, secondo cui
non è annullabile il provvedimento per vizi formali non incidenti sulla sua
legittimità sostanziale e il cui contenuto non avrebbe potuto essere
differente da quello in concreto adottato, poiché detto art. 21-octies,
attraverso la dequotazione dei vizi formali dell’atto, mira a garantire una
maggiore efficienza all’azione amministrativa, risparmiando antieconomiche
ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non
potrebbe comunque portare all’attribuzione del bene della vita richiesto
dall’interessato (cfr. Cons. Stato, sezione III, sentenza 19.02.2019,
n. 1156; Cons. Stato, sezione IV, sentenze 11.01.2019, n. 256 e 27.09.2018, n. 5562).
Tanto chiarito, il Collegio ritiene che nel caso di specie un
contraddittorio sull’istanza dei privati non avrebbe potuto condurre ad un
diverso esito dell’azione amministrativa, poiché non sono emersi elementi
tali da far ritenere che il provvedimento regionale contestato avrebbe
potuto avere un contenuto differente qualora le odierne appellanti avessero
presentato ulteriori considerazioni, atteso, che –come già sopra analizzato– le decisione dell’amministrazione è legittima ed è stata adottata su una
completa conoscenza della situazione di fatto, che era già stata
precedentemente scandagliata in altri procedimenti, anche giudiziari.
12. In conclusione l’appello deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 17.09.2019 n. 6209 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Sussistenza
di un unico centro decisionale nelle gare
d’appalto.
Il TAR Milano, in sede
di interpretazione dell’art. 80, comma 5,
lett. m), del D.Lgs. 50/2016, ove si prevede
che le stazioni appaltanti escludono dalla
partecipazione alla procedura d’appalto un
operatore economico in una delle seguenti
situazioni, anche riferita a un suo
subappaltatore nei casi di cui all'articolo
105, comma 6, qualora: “m) l'operatore
economico si trovi rispetto ad un altro
partecipante alla medesima procedura di
affidamento, in una situazione di controllo
di cui all'articolo 2359 del codice civile o
in una qualsiasi relazione, anche di fatto,
se la situazione di controllo o la relazione
comporti che le offerte sono imputabili ad
un unico centro decisionale”, ricorda che la
giurisprudenza, condivisa dal Tribunale, ha
precisato che:
- l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale
costituisce motivo in sé sufficiente a
giustificare l’esclusione delle imprese
dalla procedura selettiva, non essendo
necessario verificare che la comunanza a
livello strutturale delle imprese
partecipanti alla gara abbia concretamente
influito sul rispettivo comportamento
nell’ambito della gara, determinando la
presentazione di offerte riconducibili ad un
unico centro decisionale;
- ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e
svincolato da valutazioni a posteriori di
tipo qualitativo, rappresentato
dall’esistenza di un collegamento
sostanziale tra le imprese, con la
necessaria precisazione che lo stesso debba
essere dedotto da indizi gravi, precisi e
concordanti;
- tale interpretazione garantisce la giusta tutela ai principi di
segretezza delle offerte e di trasparenza
delle gare pubbliche nonché della parità di
trattamento delle imprese concorrenti,
principi che verrebbero irrimediabilmente
violati qualora si ritenesse di correlare
l’esclusione dalla gara di imprese in
collegamento sostanziale ad una posteriore
valutazione sul contenuto delle offerte;
- è ravvisabile un centro decisionale unitario laddove tra imprese
concorrenti vi sia intreccio parentale tra
organi rappresentativi o tra soci o
direttori tecnici, vi sia contiguità di
sede, vi siano utenze in comune (indici
soggettivi), oppure, anche in aggiunta, vi
siano identiche modalità formali di
redazione delle offerte, vi siano strette
relazioni temporali e locali nelle modalità
di spedizione dei plichi, vi siano
significative vicinanze cronologiche tra gli
attestati SOA o tra le polizze assicurative
a garanzia delle offerte; la ricorrenza di
questi indici, in numero sufficiente e
legati da nesso oggettivo di gravità,
precisione e concordanza tale da
giustificare la correttezza dello strumento
presuntivo, è sufficiente a giustificare
l’esclusione dalla gara dei concorrenti che
si trovino in questa situazione;
- il semplice collegamento può quindi dar luogo all’esclusione da
una gara d’appalto solo all’esito di
puntuali verifiche compiute con riferimento
al caso concreto da parte
dell’Amministrazione che deve accertare se
la situazione rappresenta anche solo un
pericolo che le condizioni di gara vengano
alterate
(TAR Lombardia-Milano, Sez I,
sentenza 16.09.2019 n. 1981 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.1) Preliminarmente, va precisato il quadro
normativo e interpretativo di riferimento.
L’esclusione si basa sull’applicazione
dell’art. 80, comma 5, lett. m), del D.Lgs.
50/2016, ove si prevede che le stazioni
appaltanti escludono dalla partecipazione
alla procedura d’appalto un operatore
economico in una delle seguenti situazioni,
anche riferita a un suo subappaltatore nei
casi di cui all'articolo 105, comma 6,
qualora: “m) l'operatore economico si
trovi rispetto ad un altro partecipante alla
medesima procedura di affidamento, in una
situazione di controllo di cui all'articolo
2359 del codice civile o in una qualsiasi
relazione, anche di fatto, se la situazione
di controllo o la relazione comporti che le
offerte sono imputabili ad un unico centro
decisionale”.
In sede di interpretazione della norma, la
giurisprudenza, condivisa dal Tribunale (cfr.
Tar Lombardia Milano, sez. I, n. 1918/2018;
Tar Lombardia Milano, sez. I, n. 2248/2016;
Consiglio di Stato, sez. V, n. 1265/2010),
ha precisato che:
- l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale
costituisce motivo in sé sufficiente a
giustificare l’esclusione delle imprese
dalla procedura selettiva, non essendo
necessario verificare che la comunanza a
livello strutturale delle imprese
partecipanti alla gara abbia concretamente
influito sul rispettivo comportamento
nell’ambito della gara, determinando la
presentazione di offerte riconducibili ad un
unico centro decisionale;
- ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e
svincolato da valutazioni a posteriori di
tipo qualitativo, rappresentato
dall’esistenza di un collegamento
sostanziale tra le imprese, con la
necessaria precisazione che lo stesso debba
essere dedotto da indizi gravi, precisi e
concordanti (C.d.S., Sez. V, n. 1265/2010);
- tale interpretazione garantisce la giusta tutela ai principi di
segretezza delle offerte e di trasparenza
delle gare pubbliche nonché della parità di
trattamento delle imprese concorrenti,
principi che verrebbero irrimediabilmente
violati qualora si ritenesse di correlare
l’esclusione dalla gara di imprese in
collegamento sostanziale ad una posteriore
valutazione sul contenuto delle offerte (TAR
Lombardia, I sezione, n. 2248/2016);
- è ravvisabile un centro decisionale unitario laddove tra imprese
concorrenti vi sia intreccio parentale tra
organi rappresentativi o tra soci o
direttori tecnici, vi sia contiguità di
sede, vi siano utenze in comune (indici
soggettivi), oppure, anche in aggiunta, vi
siano identiche modalità formali di
redazione delle offerte, vi siano strette
relazioni temporali e locali nelle modalità
di spedizione dei plichi, vi siano
significative vicinanze cronologiche tra gli
attestati SOA o tra le polizze assicurative
a garanzia delle offerte. La ricorrenza di
questi indici, in numero sufficiente e
legati da nesso oggettivo di gravità,
precisione e concordanza tale da
giustificare la correttezza dello strumento
presuntivo, è sufficiente a giustificare
l’esclusione dalla gara dei concorrenti che
si trovino in questa situazione;
- il semplice collegamento può quindi dar luogo all’esclusione da
una gara d’appalto solo all’esito di
puntuali verifiche compiute con riferimento
al caso concreto da parte
dell’Amministrazione che deve accertare se
la situazione rappresenta anche solo un
pericolo che le condizioni di gara vengano
alterate (TAR Sardegna, n. 163/2018). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Rotazione,
il Tar annulla il contratto riaggiudicato al gestore uscente: l'invito non
motivato viola la concorrenza.
Nelle procedure negoziate sottosoglia bisogna evitare di creare «posizioni
di rendita anticoncorrenziali in capo al contraente uscente».
Viola il principio di rotazione, che tutela
l'assegnazione dei piccoli appalti, il Comune che torna ad aggiudicare lo
stesso contratto al gestore uscente. La conseguenza è la cancellazione
dell'aggiudicazione e l'assegnazione del contratto al secondo classificato,
che aveva presentato ricorso al Tar contestando proprio la violazione della
norma del codice degli appalti (articolo 36, del Dlgs 50/2016) posta a
garanzia della concorrenza nel mercato presidiato dalle piccole e
piccolissime imprese.
Il caso nasce a Pordenone dove il Comune ha rimesso in gara il servizio di
manutenzione degli ascensori in funzione negli edifici dell'ente per due
anni al massimo ribasso. Ad aggiudicarsi l'appalto, sottosoglia, era stato
il vecchio gestore (grazie a un maxisconto del 65% sulla base d'asta).
Scatta così il ricorso del secondo classificato (ribasso del 42,8%) che
contesta l'invito alla procedura negoziata del gestore uscente.
Il TAR Friuli Venezia Giulia (sentenza
16.09.2019 n. 376) accoglie il ricorso ribadendo i paletti
previsti dall'obbligo di rotazione degli inviti nei piccoli appalti,
ricordati anche dal Consiglio di Stato (sentenza n. 3831/2019). «Il
principio di rotazione -si legge nella sentenza- si riferisce propriamente
non solo agli affidamenti ma anche agli inviti». Perché rappresenta una
sorta di «contropartita al carattere "fiduciario" della scelta del
contraente allo scopo di evitare che il carattere discrezionale della scelta
si traduca in uno strumento di favoritismo».
In caso contrario la decisione di invitare anche l'appaltatore uscente deve
essere motivata puntualmente «facendo in particolare riferimento al
numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado
di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale
ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento».
Cosa non avvenuta in questo caso.
Di più il Tar, revocando l'aggiudicazione e disponendo il subentro del
secondo classificato, ha accolto anche il secondo motivo di ricorso secondo
cui l'offerta dell'appaltatore uscente era carente di una delle prestazione
richieste. Carenza motivata dall'impresa con il fatto che la prestazione era
già stata resa nel corso del precedente appalto.
Motivo in più, osserva il Tar, per evidenziare le «vischiosità» e le
«incrostazioni» che si creano con la ripetizione degli appalti senza
cambiare gestori e che «convince sull'opportunità del principio
legislativo di rotazione volto ad evitare posizioni consuetudinarie e
dominanti nei rapporti degli operatori economici con le amministrazioni»
(articolo Edilizia e Territorio del 23.09.2019).
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Quanto al primo motivo, il caso all’esame appare sovrapponibile a
quello, deciso con la condivisibile pronuncia del Consiglio di Stato, sez.
V, n. 3831 del 2019.
Giova anzitutto richiamare la norma di cui all'art. 36 del D.Lgs. n. 50 del
2016, secondo la quale "l'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e
forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35 avvengono
nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché
del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e
in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle
microimprese, piccole e medie imprese".
Ebbene, nella citata pronuncia del Consiglio di Stato si osserva che “il
principio ivi affermato mira ad evitare il crearsi di posizioni di rendita
anticoncorrenziali in capo al contraente uscente (la cui posizione di
vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il
precedente affidamento) e di rapporti esclusivi con determinati operatori
economici, favorendo, per converso, l'apertura al mercato più ampia
possibile sì da riequilibrarne (e implementarne) le dinamiche competitive”.
Conseguentemente “il principio di rotazione si riferisce propriamente non
solo agli affidamenti ma anche agli inviti, orientando le stazioni
appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da
interpellare e da invitare per presentare le offerte ed assumendo quindi
nelle procedure negoziate il valore di una sorta di contropartita al
carattere "fiduciario" della scelta del contraente allo scopo di evitare che
il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di
favoritismo.”
Inoltre, “risultano condivisibili i rilievi mossi all'operato
dell'Amministrazione comunale, nella misura in cui non ha palesato le
ragioni che l'hanno indotta a derogare a tale principio: ciò in linea con i
principi giurisprudenziali per cui, ove la stazione appaltante intenda
comunque procedere all'invito di quest'ultimo (il gestore uscente), dovrà
puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al
numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado
di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale
ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (ex
multis: Cons. Stato, Sez. V, 13.12.2017, n. 5854; id., Sez. V, 03.04.2018,
n. 2079; id., Sez. VI, 31.08.2017, n. 4125)”. |
EDILIZIA PRIVATA: La qualità di proprietario è idonea
di per sé per affermare la responsabilità per le opere abusive.
Il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di demolizione non è, infatti,
l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì
l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista
nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia
la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del
diritto dominicale il proprietario, che il responsabile dell'abuso sono
destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi.
Il soggetto passivo dell'ordine di demolizione viene, quindi, individuato
nel soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l'abuso, potere che
compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via
diretta. Pertanto, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa
essere destinatario dell'ordine di demolizione, non occorre stabilire se
egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione si limita a
prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile
all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo
accertamento di una qualche sua responsabilità.
Il perseguimento dell'interesse pubblico urbanistico è, invero, interesse
pubblico di carattere preminente e, dunque, l'ordinamento vuole che la
legalità violata sia ripristinata anche dal proprietario. Tanto discende
anche dalla natura "reale" dell'illecito e della sanzione urbanistica, i
quali sono riferibili alla res abusiva e, dunque, il ripristino
dell'equilibrio urbanistico violato viene a fare carico anche sul
proprietario (Cons. Stato Sez. VI, 10.07.2017, n. 3391, che peraltro si
riferisce espressamente anche all’usufruttuario).
---------------
L’appello è infondato.
Con il primo motivo si sostiene la illegittimità del provvedimento
comunale, in quanto l’abuso sarebbe stato realizzato dal precedente
proprietario, come risulterebbe dalla descrizione dell’immobile contenuta
nel contratto di locazione stipulato nel 1970.
A sostegno di tale affermazione sono state depositate nel giudizio di primo
grado, oltre al contratto di locazione due perizie tecniche che avrebbero
confermato tale ricostruzione. Ne deriverebbe, inoltre, secondo la
ricostruzione difensiva che il certificato di agibilità rilasciato il
06.02.1974 avrebbe verificato la legittimità edilizia di tali opere già
realizzate.
Ritiene il Collegio di non condividere la ricostruzione in fatto sostenuta
dalla parte appellante.
Il provvedimento comunale è basato, infatti, su elementi di fatto e
documentali da cui risulta l’epoca di realizzazione dell’abuso in epoca
anteriore al 1981 (rilievi aerofotogrammetrici del 1981) e successiva al
1974, in relazione al deposito della planimetria all’ufficio tecnico
erariale e al rilascio del certificato di agibilità, che fa riferimento
all’ispezione del 05.02.1974 e, in tale sede, alla verifica di conformità al
progetto approvato il 09.03.1966.
Rispetto alle circostanze oggetto dell’accertamento del certificato di
agibilità circa la conformità al progetto approvato nel 1966, appare del
tutto irrilevante la descrizione delle opere contenuta nel contratto di
locazione, che non si riferisce ad alcuna planimetria o progetto, ma
contiene una mera descrizione dello stato dei luoghi e del numero dei vani
oggetto del contratto, mentre le perizie depositate in giudizio esprimono
una valutazione ex post della possibile corrispondenza tra le
descrizioni contenute nel contratto di locazione e lo stato dei manufatti
esistente al momento delle perizie del 1997 (perizia del 18.02.1997
dell’ing. Pe., depositata nel giudizio di primo grado, fa riferimento in
alcune parti alla “possibile" in altre alla “probabile”
corrispondenza tra i vani e la planimetria; perizia del 20.03.1997 dell’Ing.
Ca. afferma maggiore certezza).
In ogni caso, l’accertamento circa la epoca di realizzazione dell’abuso è
anche irrilevante rispetto alla responsabilità del signor Ar. e delle sue
eredi, attuali proprietarie dell’immobile, in relazione al costante
orientamento giurisprudenziale per cui la qualità di proprietario è idonea
di per sé per affermare la responsabilità per le opere abusive (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 12.10.2018, n. 5891; id. 30.01.2019, n. 734).
Il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di demolizione non è, infatti,
l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì
l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista
nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia
la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del
diritto dominicale il proprietario, che il responsabile dell'abuso sono
destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi (Cons. Stato Sez.
VI, 11.12.2018, n. 6983).
Il soggetto passivo dell'ordine di demolizione viene, quindi, individuato
nel soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l'abuso, potere che
compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via
diretta. Pertanto, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa
essere destinatario dell'ordine di demolizione, non occorre stabilire se
egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione si limita a
prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile
all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo
accertamento di una qualche sua responsabilità (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
28.07.2017, n. 3789; sez. IV, 19.10.2017 n. 4837; id 19.04.2018, n. 2364).
Il perseguimento dell'interesse pubblico urbanistico è, invero, interesse
pubblico di carattere preminente e, dunque, l'ordinamento vuole che la
legalità violata sia ripristinata anche dal proprietario. Tanto discende
anche dalla natura "reale" dell'illecito e della sanzione
urbanistica, i quali sono riferibili alla res abusiva e, dunque, il
ripristino dell'equilibrio urbanistico violato viene a fare carico anche sul
proprietario (Cons. Stato Sez. VI, 10.07.2017, n. 3391, che peraltro si
riferisce espressamente anche all’usufruttuario, quale era, con riferimento
al caso di specie, il sig. Ar. al momento di adozione del provvedimento
impugnato)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 12.09.2019 n. 6147
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EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza è costante nel ritenere la natura permanente
dell’illecito edilizio con la conseguente applicazione del regime
sanzionatorio sopravvenuto.
Per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, infatti, la natura
permanente dell’illecito edilizio comporta che quando il Comune eserciti il
potere repressivo a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, la
disciplina sanzionatoria applicabile sia quella vigente al momento
dell'esercizio del potere sanzionatorio.
In forza della natura permanente dell'illecito edilizio, infatti, colui che
ha realizzato l'abuso mantiene inalterato nel tempo l'obbligo di eliminare
l'opera illecita, per cui il potere di repressione può essere esercitato
retroattivamente, anche per fatti verificatisi prima dell'entrata in vigore
della norma che disciplina tale potere.
Il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, dunque, in
conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento
della sanzione, non già quello in vigore all'epoca di realizzazione
dell'abuso e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare
in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in
contrasto con l'ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la
stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il
divieto di retroattività.
---------------
Con il secondo motivo di appello si contesta la legittimità del
provvedimento impugnato e la erroneità della sentenza di primo grado sul
punto, in quanto il provvedimento comunale avrebbe fatto applicazione della
disciplina della legge n. 47 del 1985 sopravvenuta alla realizzazione
dell’abuso.
Anche tale motivo è infondato.
In primo luogo il potere di irrogare la demolizione per le opere realizzate
senza licenza edilizia derivava già dall’art. 13 della legge 06.08.1967, n.
765, mentre l’art. 10 della medesima legge prevedeva l’obbligo della licenza
per le nuove costruzioni, gli ampliamenti e le modifiche delle costruzioni
esistenti.
In ogni caso, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, la
giurisprudenza è costante nel ritenere la natura permanente dell’illecito
edilizio con la conseguente applicazione del regime sanzionatorio
sopravvenuto.
Per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, infatti, la natura
permanente dell’illecito edilizio comporta che quando il Comune eserciti il
potere repressivo a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, la
disciplina sanzionatoria applicabile sia quella vigente al momento
dell'esercizio del potere sanzionatorio.
In forza della natura permanente dell'illecito edilizio, infatti, colui che
ha realizzato l'abuso mantiene inalterato nel tempo l'obbligo di eliminare
l'opera illecita, per cui il potere di repressione può essere esercitato
retroattivamente, anche per fatti verificatisi prima dell'entrata in vigore
della norma che disciplina tale potere; il regime sanzionatorio applicabile
agli abusi edilizi è, dunque, in conformità al principio del tempus regit
actum, quello vigente al momento della sanzione, non già quello in
vigore all'epoca di realizzazione dell'abuso e la natura della sanzione
demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e
ad eliminare opere abusive in contrasto con l'ordinato assetto del
territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene
afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività (Cons.
Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892; sez. IV, 24.11.2016, n. 4943)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 12.09.2019 n. 6147
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EDILIZIA PRIVATA:
Il potere di ordinare la demolizione delle
opere edilizie abusive non deve essere oggetto di ponderazione con altri
interessi in relazione al decorso del tempo, trattandosi di potere vincolato
in funzione dell’ordinato assetto del territorio.
Pertanto, il provvedimento con cui viene ingiunta, anche tardivamente, la
demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino della legalità violata,
che impongono la rimozione dell'abuso, nonostante sia decorso un
considerevole lasso di tempo dalla commissione dell'abuso.
Deve, dunque, escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in
capo al responsabile dell'abuso o al suo avente causa nonostante il decorso
del tempo dal commesso abuso o la comparazione dell’interesse pubblico con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione,
non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
legittimare.
---------------
Con ulteriore motivo di appello, si lamenta il difetto di motivazione
del provvedimento impugnato circa l’interesse pubblico attuale alla
demolizione in relazione al tempo comunque trascorso dalla realizzazione
dell’abuso, in ogni caso precedente al 1981.
Al riguardo il Collegio ritiene di dovere richiamare l’orientamento espresso
dall’Adunanza Plenaria, per cui il potere di ordinare la demolizione delle
opere edilizie abusive non deve essere oggetto di ponderazione con altri
interessi in relazione al decorso del tempo, trattandosi di potere vincolato
in funzione dell’ordinato assetto del territorio.
Pertanto, il provvedimento con cui viene ingiunta, anche tardivamente, la
demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino della legalità violata,
che impongono la rimozione dell'abuso, nonostante sia decorso un
considerevole lasso di tempo dalla commissione dell'abuso.
Deve, dunque, escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in
capo al responsabile dell'abuso o al suo avente causa nonostante il decorso
del tempo dal commesso abuso o la comparazione dell’interesse pubblico con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione,
non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
legittimare (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9 del 2017; Sez. VI, 06.07.2018,
n. 4135; id. 04.06.2018, n. 3351; di recente Sez. IV, 30.01.2019, n. 734)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 12.09.2019 n. 6147
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 12 della legge 47 del 28.01.1985, disposizione
poi confluita nell’art. 34 del d.P.R., 06.06.2001, n. 380 “le opere eseguite
in parziale difformità dalla concessione sono demolite a cura e spese dei
responsabili dell'abuso entro il termine congruo, e comunque non oltre
centoventi giorni, fissato dalla relativa ordinanza del sindaco. Dopo tale
termine sono demolite a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili
dell'abuso. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità, il sindaco applica una sanzione pari al doppio
del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392,
della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura
dell'ufficio tecnico erariale, per le opere adibite ad usi diversi da quello
residenziale”.
Da tale disciplina, come dalla analoga norma dell’art. 34 del D.P.R. 380 del
2001, deriva in primo luogo in linea generale che anche gli interventi
edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire
soggiacciano alla sanzione demolitoria, a meno che, non potendo essa
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, si debba
applicare la sanzione pecuniaria).
Inoltre, la consolidata giurisprudenza interpreta tali disposizioni nel
senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella
pecuniaria posta da tale normativa debba essere valutata
dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento,
successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione, fase esecutiva
nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo
di stabilità del fabbricato, presupposto per l’applicazione della sanzione
pecuniaria in luogo di quella demolitoria.
Peraltro, la costante giurisprudenza ritiene altresì che la norma abbia
valore eccezionale e derogatorio, e di conseguenza non sia l’amministrazione
a dover valutare, prima di emettere l'ordine di demolizione dell'abuso, se
essa possa essere applicata, ma è il privato interessato a dover dimostrare,
in modo rigoroso, nella fase esecutiva, l’obiettiva impossibilità di
ottemperare all'ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme.
---------------
Con ulteriore motivo di appello si sostiene la erronea applicazione
dell’art. 7 della legge 47 del 1985, in quanto, secondo la ricostruzione
difensiva, si tratterebbe di una ipotesi di difformità dal titolo edilizio,
a cui sarebbe stato applicabile l’art. 12 della legge 47 del 1985.
Anche tale motivo di appello è infondato.
Ai sensi dell’art. 12 della legge 47 del 28.01.1985, disposizione poi
confluita nell’art. 34 del d.P.R., 06.06.2001, n. 380 “le opere eseguite
in parziale difformità dalla concessione sono demolite a cura e spese dei
responsabili dell'abuso entro il termine congruo, e comunque non oltre
centoventi giorni, fissato dalla relativa ordinanza del sindaco. Dopo tale
termine sono demolite a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili
dell'abuso. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità, il sindaco applica una sanzione pari al doppio
del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392,
della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura
dell'ufficio tecnico erariale, per le opere adibite ad usi diversi da quello
residenziale”.
Da tale disciplina, come dalla analoga norma dell’art. 34 del D.P.R. 380 del
2001, deriva in primo luogo in linea generale che anche gli interventi
edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire
soggiacciano alla sanzione demolitoria, a meno che, non potendo essa
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, si debba
applicare la sanzione pecuniaria (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
04.06.2018, n. 3371; id. 21.05.2019, n. 3280).
Inoltre, la consolidata giurisprudenza interpreta tali disposizioni nel
senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella
pecuniaria posta da tale normativa debba essere valutata
dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento,
successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione, fase esecutiva
nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo
di stabilità del fabbricato, presupposto per l’applicazione della sanzione
pecuniaria in luogo di quella demolitoria (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
09.07.2018, n. 4169; id. 29.11.2017, n. 5585; id. 12.04.2013, n. 2001).
Peraltro, la costante giurisprudenza ritiene altresì che la norma abbia
valore eccezionale e derogatorio, e di conseguenza non sia l’amministrazione
a dover valutare, prima di emettere l'ordine di demolizione dell'abuso, se
essa possa essere applicata, ma è il privato interessato a dover dimostrare,
in modo rigoroso, nella fase esecutiva, l’obiettiva impossibilità di
ottemperare all'ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme (Cons.
Stato sez. V 05.09.2011 n. 4982, in fattispecie regolata dall'art. 12 L. n.
47 del 1985, e con riferimento al T.U. 380 del 2001 Cons. Stato Sez. VI,
19.11.2018, n. 6497) .
Ritiene dunque il Collegio in conformità a tali consolidati orientamenti
che, nel caso di specie, il Comune non potesse che ordinare la demolizione
delle opere abusivamente realizzate, salva la facoltà per le appellanti di
dedurre, al momento della concreta esecuzione del provvedimento di
demolizione, in ordine all’eventuale situazione di pericolo di stabilità del
fabbricato derivante dall'esecuzione della demolizione delle opere abusive
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 12.09.2019 n. 6147
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APPALTI:
Art. 77, c. 4, d.lgs. n. 50/2016 – Commissione –
Incompatibilità tra chi ha predisposto l’avviso pubblico e
chi ha verificato la documentazione di gara – Non sussiste.
L’incompatibilità di cui all’art. 77, c.
4, d.lgs. n. 50/2016 deve essere comprovata, sul piano
concreto e di volta in volta, sotto il profilo
dell’interferenza sulle rispettive funzioni assegnate al
dirigente ed alla Commissione.
Del resto, il fondamento ultimo di razionalità della citata
disposizione è quello per cui chi ha redatto la lex
specialis non può essere componente della Commissione,
costituendo il principio della separazione tra chi
predisponga il regolamento di gara e chi è chiamato a
concretamente applicarlo una regola generale posta a tutela
della trasparenza della procedura, e dunque a garanzia del
diritto delle parti ad una decisione adottata da un organo
terzo ed imparziale mediante valutazioni il più possibile
oggettive, e cioè non influenzate dalle scelte che l’hanno
preceduta. Una siffatta incompatibilità per motivi di
interferenza e di condizionamento non può sussistere tra chi
ha predisposto l’avviso pubblico e chi ha verificato la
documentazione di gara.
...
Art. 77, c. 4 d.lgs. n. 50/2016 – Commissione –
Incompatibilità ad un incarico anteriore derivante
dall’assunzione di un incarico posteriore – Non sussiste.
Non e’ possibile riferire le ragioni di
incompatibilità ad un incarico anteriore nel tempo alle
preclusioni che deriveranno solamente dall’assunzione di un
incarico posteriore; si intende dire che, anche a seguire
un’interpretazione rigorosa dell’art. 77, comma 4, del
d.lgs. n. 50 del 2016, potrebbe al più determinarsi
l’incompatibilità all’approvazione degli atti di gara, ma
non certo la preclusione ad assumere le funzioni di
commissario da parte di chi svolgerà solamente in una fase
successiva ulteriori funzioni
(in termini Cons. Stato, V, 04.02.2019, n. 819).
...
Commissione – Requisito delle competenze nello specifico
settore cui si riferisce l’oggetto del contratto –
Riferimento a tematiche omogenee.
Il requisito delle competenze nello
specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto
che i componenti della Commissione di gara debbono possedere
va interpretato nel senso che la competenza ed esperienza
richieste ai commissari debbono essere riferite ad aree
tematiche omogenee, e non anche alle singole e specifiche
attività oggetto del contratto
(Cons. Stato, V, 18.07.2019, n. 5058) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 11.09.2019 n. 6135 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
fondata la censura di violazione, da parte del permesso di costruire che ha
assistito la realizzazione del chiosco per cui è causa, dell’art. 9
del d.m. 02.04.1968, n. 1444 recante limiti di distanza tra i fabbricati.
La giurisprudenza afferma al riguardo che:
- l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come
nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo
assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della
riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto
il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente
dall’altezza degli edifici antistanti e dall’andamento parallelo delle loro
pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di
una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel
limitato segmento.
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere
cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione
della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti
interessi.
La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile;
- l’art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore
l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in
forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile
di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che
tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare
tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente
inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima.
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria,
costituisce un principio assoluto e inderogabile, che prevale sia sulla
potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica
delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni,
in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata, sia infine
sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici
che non sono nella disponibilità delle parti.
- la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano. Tale calcolo si riferisce a tutte le
pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì
dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima
o a diversa altezza rispetto all’altra;
- è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della
parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si
trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza
minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di
finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si
trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra;
- ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti
finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute” ma,
più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere
verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di
luce).
---------------
La giurisprudenza ha evidenziato che un chiosco o gazebo,
ancorché realizzato non con strutture murarie, ma con materiali amovibili,
riveste il carattere di costruzione non precaria quando sia destinato a
soddisfare esigenze permanenti, che, nel caso di specie, sono certamente
ravvisabili, dato che il chiosco per cui è causa ha rappresentato per
un consistente periodo temporale (che il ricorrente ragguaglia a sei anni)
la sede dell’attività commerciale della controinteressata.
---------------
5. Alla luce di quanto obiettivamente emergente dalla verificazione,
anche la domanda rescissoria del ricorso per revocazione in esame si rivela
fondata.
In particolare, è fondata la censura, di valore assorbente, di violazione,
da parte del permesso di costruire che ha assistito la realizzazione del
chiosco per cui è causa, dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, recante
limiti di distanza tra i fabbricati.
6. La giurisprudenza afferma al riguardo che:
- l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come
nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo
assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della
riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto
il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (Cass. civ., II,
26.01.2001, n. 1108; Cons. Stato, V, 19.10.1999, n. 1565; Cass. civ., II,
ordinanza 03.10.2018, n. 24076).
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente
dall’altezza degli edifici antistanti e dall’andamento parallelo delle loro
pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di
una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel
limitato segmento (Cass., n. 24076/2017, cit.).
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere
cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione
della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi
(Cass. civ., II, 16.08.1993, n. 8725).
La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile (Cass.
civ., II, 07.06.1993, n. 6360; 09.05.1987, n. 4285;
- l’art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore
l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in
forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile
di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che
tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare
tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente
inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima (Cass. civ., II,
29.05.2006, n. 12741).
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria,
costituisce un principio assoluto e inderogabile (Cass. civ., II,
26.07.2002, n. 11013), che prevale sia sulla potestà legislativa regionale,
in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Cost.,
sentenza n. 232 del 2005), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria
dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata
(Cass. civ., II, 31.10.2006, n. 23495), sia infine sull’autonomia negoziale
dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella
disponibilità delle parti (Cons. Stato, IV, 12.06.2007, n. 3094).
- la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano (Cons. Stato, V, 16.02.1979, n. 89).
Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a
quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela (Cass., II, 30.03.2001, n. 4715), indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima
o a diversa altezza rispetto all’altra (Cass., II, 03.08.1999, n. 8383;
Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; 02.11.2010, n. 7731);
- è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della
parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si
trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza
minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di
finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si
trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (Cons. Stato, IV,
05.12.2005, n. 6909; Cass. Civ., II, 20.06.2011, n. 13547; 28.09.2007, n.
20574);
- ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti
finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute”
ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere
verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di
luce).
7. In applicazione delle predette coordinate ermeneutiche, non può
condividersi la conclusione del verificatore che, dato atto che “la
distanza minima tra il chiosco e la facciata anteriore dell’abitazione (in
parte cieca ed in parte porticata) è di 72 cm”, ha riferito che “la
proiezione della parete effettivamente finestrata verso la facciata del
chiosco non genera intersezione tra le due facciate; la proiezione del
chiosco verso la parete finestrata dell’abitazione incontra il muro cieco:
la distanza ‘virtuale’ rispetto alla facciata finestrata sarebbe di 637 cm”.
Infatti, nel calcolo delle distanze rilevanti nella fattispecie, come
correttamente rappresentato dalla parte ricorrente nelle memorie prodotte
successivamente al deposito della relazione di verificazione, va contemplato
anche il fronte del piano superiore dell’abitazione, munito di pareti
finestrate e balconata, nonché il porticato posto al piano terra, costituito
da pilastri allineati alla facciata della casa e da grandi aperture ad arco
che si affacciano sui giardinetti, la cui proiezione, considerata nella
lunghezza comprensiva anche del “muro cieco”, incontra, come sopra,
il chiosco.
Quanto al “muro cieco”, non rileva la sua presenza: non può infatti
dirsi che per il suo tramite non si siano realizzate quelle intercapedini
dannose, insalubri o pericolose che la inderogabile norma pubblicistica di
cui trattasi ha lo scopo di evitare, in quanto esso non costituisce altro,
come emerge dagli esiti della verificazione (pag. 19), che il prolungamento
del porticato, in accompagnamento della prima rampa della scala esterna che
lo collega con la terrazza posta al livello superiore, con conseguente
presenza di tutte le esigenze di tutela di cui all’art. 9 del d.m. n.
1444/1968.
Infine, non possono essere valorizzate le difese svolte dal Comune di
Castro, tendenti a sottolineare che la struttura in parola è stata assentita
solo precariamente, far fronte a una fase emergenziale, la cui chiusura ne
ha determinato lo smontaggio, con conseguente restituzione dell’area alla
originaria destinazione di giardinetto pubblico.
Al riguardo, va tenuto conto della rilevanza dei beni protetti dalle
relative previsioni normative siccome individuati dalla giurisprudenza
dianzi rassegnata, e della conseguente insuscettibilità di queste di
tollerare eccezioni, cosa che, del resto, nella fattispecie, è attestata
dalla clausola di salvezza dei diritti di terzi contenuta nel titolo
edilizio che ha assentito il chiosco.
Inoltre, la giurisprudenza ha evidenziato che un chiosco o gazebo, ancorché
realizzato non con strutture murarie, ma con materiali amovibili, riveste il
carattere di costruzione non precaria quando sia destinato a soddisfare
esigenze permanenti (Cons. Stato, VI, 10.05.2017, n. 2152; 03.06.2014, n.
2842), che, nel caso di specie, sono certamente ravvisabili, dato che il
chiosco per cui è causa ha rappresentato per un consistente periodo
temporale (che il ricorrente ragguaglia a sei anni) la sede dell’attività
commerciale della controinteressata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.09.2019 n. 6136
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EDILIZIA PRIVATA: L'onere
di provare tanto l'epoca di realizzazione di un’opera edilizia quanto la sua
ubicazione al di fuori del perimetro urbano incombe sull'interessato, e non
sull'amministrazione: in simili ipotesi, spetta, cioè, al soggetto
ricorrente, in omaggio ai principi dell’onere e della vicinanza della prova,
fornire dimostrazione piena e inconfutabile in relazione a circostanze
rientranti nella sua disponibilità.
---------------
Deve privilegiarsi l’opinione maggioritaria che, negando la possibilità di
riconoscere all'art. 31, comma 1, della l. n. 1150/1942 una portata
abrogante o disapplicativa della previgente normativa edilizia, ha predicato
l'assoggettamento alla sanzione demolitoria per le costruzioni realizzate in
assenza del titolo edilizio, anche se eseguite al di fuori del centro
abitato o delle zone di espansione, ove l'obbligo fosse previsto dai
regolamenti edilizi comunali previgenti all’emanazione della disposizione
legislativa citata.
---------------
2. Venendo ora a scrutinare il merito delle due cause, infondati si rivelano
gli ordini di doglianze riportati retro, in narrativa, sub n. 3.a e n.
6.a-b, incentrati sull’assunto di insussistenza dell’obbligo di licenza
edilizia, costituente presupposto delle abusività riscontrate, nonché
scrutinabili congiuntamente, stante la loro interrelazione e
sovrapponibilità reciproche.
2.1. A ripudio dell’assunto attoreo, giova, in primis, rammentare che
l'onere di provare tanto l'epoca di realizzazione di un’opera edilizia
quanto la sua ubicazione al di fuori del perimetro urbano incombe
sull'interessato, e non sull'amministrazione: in simili ipotesi, spetta,
cioè, al soggetto ricorrente, in omaggio ai principi dell’onere e della
vicinanza della prova, fornire dimostrazione piena e inconfutabile in
relazione a circostanze rientranti nella sua disponibilità (cfr., ex
multis, TAR Campania, sez. III, n. 290/2013; sez. VI, n. 1908/2014; n.
3043/2014; n. 6321/2014).
Ebbene, nel caso in esame, una simile prova piena e inconfutabile circa
l’ubicazione dell’edificio controverso al di fuori del centro abitato di
Scafati, non risulta fornita da parte ricorrente.
I germani Si. si sono, infatti, limitati a contestare la rilevanza dell’art.
65 del REC di Scafati del 1931 ai fini dell’individuazione del perimetro
urbano, senza, però, contrapporvi alcuna altra fonte documentale idonea ad
attestare una differente delimitazione valevole ratione temporis,
rispetto alla quale l’immobile in loro proprietà risultasse collocato
esternamente.
La foto satellitare allegata all’esibita relazione tecnica di parte
dell’08.05.2019 ritrae, anzi, il completo inglobamento dell’immobile de quo
nell’agglomerato edificatorio urbano.
D’altronde, la circostanza stessa che il fabbricato ubicato in Scafati, via
..., n. 20, e censito in catasto al foglio 25, particella 873, sia stato
assentito con apposita licenza edilizia n. 83 del 09.06.1964 finisce per
corroborare ulteriormente la tesi dell’amministrazione resistente: se,
infatti, il titolo abilitativo in parola non fosse stato necessario, non si
intende perché i soggetti interessati se ne fossero procurati il rilascio
preventivamente all’edificazione.
2.2. In rapporto, poi, al rilievo dell’inclusione del fabbricato medesimo
all’interno del centro abitato ad opera dell’art. 65 del REC di Scafati del
1931, risultano essere del tutto inconferenti le proposizioni attoree in
punto di inefficacia dell’imposizione regolamentare dell’obbligo di licenza
edilizia al di fuori del perimetro urbano, siccome implicitamente abrogata
dall’art. 31, comma 1, della l. n. 1150/1942.
Nel gravato provvedimento declinatorio del 06.10.2017, prot. n. 46802, non
si rinviene, infatti, traccia alcuna del richiamo ad una simile
prescrizione.
2.3. Ciò, non senza soggiungere, in via meramente incidentale, che la tesi
propugnata da parte ricorrente corrisponde ad un’opinione nettamente
minoritaria (cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. III, n. 899/2014) e che deve
privilegiarsi l’opinione maggioritaria che, negando la possibilità di
riconoscere all'art. 31, comma 1, della l. n. 1150/1942 una portata abrogante
o disapplicativa della previgente normativa edilizia, ha predicato
l'assoggettamento alla sanzione demolitoria per le costruzioni realizzate in
assenza del titolo edilizio, anche se eseguite al di fuori del centro
abitato o delle zone di espansione, ove l'obbligo fosse previsto dai
regolamenti edilizi comunali previgenti all’emanazione della disposizione
legislativa citata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5141/2008; sez. VI, n.
3899/2015; TAR Campania, Napoli, sez. IV, n. 6879/2009; n. 2051/2010; n.
11362/2010; n. 5912;/2011 n. 5419/2013; n. 5853/2013; n. 1216/2014; n.
3245/2014; n. 1823/2016; n. 3588/2016; n. 3669/2017; TAR Emilia Romagna,
Parma, n. 5/2010; TAR Marche, Ancona, n. 634/2011; TAR Lazio, Roma, sez. I,
n. 11196/2014; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 37/2017).
2.4. A fronte dei superiori approdi prova, infine, troppo la deduzione in
base alla quale l’ammontare delle imposte versate per i materiali di
costruzione dimostrerebbe che l’edificio controverso sarebbe stato ab
origine realizzato nella sua attuale conformazione e consistenza.
Ed invero, una simile dimostrazione, ove pure raggiunta, non eliderebbe il
rilievo della difformità della costruzione rispetto al progetto assentito
con la licenza edilizia n. 83 del 09.06.1964, e, quindi, la sua abusività,
stante l’acclarata natura (non già facoltativa, bensì) obbligatoria di tale
titolo abilitativo (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.09.2019 n. 1548 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordinanza di demolizione, per la sua
natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante
valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici,
fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di
controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di
quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei
procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione
dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto
dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione
d'ufficio delle opere abusive.
Tanto più che, in relazione ad una simile
tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della
l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura
vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello concretamente enucleato.
---------------
La misura repressivo-ripristinatoria è da ritenersi
sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando sia
rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive, nonché
l’individuazione della violazione accertata (costruzione eseguita in
difformità dal rilasciato titolo edilizio).
Inoltre, l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, in quanto atto dovuto
e rigorosamente vincolato, è da reputarsi affrancata dalla ponderazione
discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res,
dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite
ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il
carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del
tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore.
---------------
6. Ancora, non è accreditabile la censura di omessa comunicazione del
procedimento definito con l’emissione dell’ordinanza di demolizione n. 2221
del 27.11.2017 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 6.c).
In argomento, rammenta il Collegio che l’ordinanza di demolizione, per la
sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante
valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici,
fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di
controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di
quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei
procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione
dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto
dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione
d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile
tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della
l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura
vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis,
Cons. Stato, sez. V, n. 6071/2012; sez. VI, n. 2873/2013; n. 4075/2013; sez.
V, n. 3438/2014; sez. III, n. 2411/2015; sez. VI, n. 3620/2016; TAR
Campania, Napoli, sez. III, n. 107/2015; Salerno, sez. II, n. 69/2015;
Napoli, sez. IV, n. 685/2015; sez. II, n. 1534/2015; Salerno, sez. II, n.
664/2015; n. 1036/2015; Napoli, sez. III, n. 4392/2015; n. 4968/2015; sez.
VIII, n. 1767/2016; sez. IV, n. 4495/2016; n. 4574/2016; sez. III, n.
121/2017; n. 677/2017; sez. VI, n. 995/2017; sez. IV, n. 2320/2017; sez.
VIII, n. 4122/2017; sez. III, n. 5967/2017; Salerno, sez. II, n. 24/2018;
Napoli, sez. III, n. 898/2018; n. 1093/2018; sez. IV, n. 1434/2018; n.
1719/2018; n. 2241/2018; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 2098/2015; n.
10829/2015; n. 10957/2015; n. 2588/2016; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n.
1708/2016; n. 1552/2017).
7. Neppure accreditabile è la censura di deficit motivazionale della
medesima ordinanza di demolizione n. 2221 del 27.11.2017 (cfr. retro, in
narrativa, sub n. 6.d).
Al riguardo, occorre, in primis, rimarcare che la misura repressivo-ripristinatoria è da ritenersi sorretta da adeguata e
autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto, nella specie– sia
rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive (cfr. retro, in
narrativa, sub n. 5), nonché l’individuazione della violazione accertata
(costruzione eseguita in difformità dal rilasciato titolo edilizio) (cfr.,
ex multis, Cons. Stato sez. IV, n. 2441/2007; n. 2705/2008; sez. V,
n. 4926/2014; TAR Campania, Napoli, sez. IV, n. 367/2008; sez. VI, n.
49/2008; sez. IV, n. 57/2008; sez. VIII, n. 4556/2008; sez. III, n.
5255/2008; sez. IV, n. 7798/2008; sez. VI, n. 8761/2008; sez. IV, n.
9720/2008; sez. II, n. 13456/2008; sez. IV, n. 11820/2008; sez. VI, n.
18243/2008; sez. III, n. 19257/2008; sez. IV, n. 20564/2008; n. 20794/2008;
sez. VI, n. 21346/2008; n. 1032/2009; n. 1100/2009; sez. IV, n. 1304/2009;
n. 1597/2009; n. 3368/2009; sez. VI, n. 5672/2014; sez. III, n. 1770/2015;
n. 677/2017; Salerno, sez. II, n. 397/2017; Napoli, sez. III, n. 1303/2017;
sez. IV, n. 1434/2017; sez. VIII, n. 2870/2017; sez. VII, n. 3447/2017; TAR
Lombardia, Milano, sez. II, n. 57/2008; n. 1318/2009; n. 1768/2009; TAR
Sicilia, Catania, sez. I, n. 475/2008; Palermo, sez. II, n. 866/2015; TAR
Lazio, Roma, sez. II, n. 8117/2008; n. 2358/2009; TAR Liguria, Genova, sez.
I, n. 781/2009; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1601/2016; TAR Basilicata,
Potenza, n. 951/2016; TAR Piemonte, Torino, sez. I, n. 1435/2016).
Inoltre, l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, in quanto atto dovuto
e rigorosamente vincolato, è da reputarsi affrancata dalla ponderazione
discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res,
dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite
ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il
carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del
tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore (cfr.,
ex multis, Cons. Stato, ad. plen., n. 9/2017; sez. IV, n. 3955/2010;
sez. V, n. 79/2011; sez. IV, n. 2592/2012; sez. V, n. 2696/2014; sez. VI, n.
3210/2017; TAR Campania, sez. VI, n. 17306/2010; sez. VII, n. 22291/2010;
sez. VIII, n. 4/2011; n. 1945/2011; sez. III, n. 4624/2016; n. 5973/2016;
sez. VI, n. 2368/2017; sez. VIII, n. 2870/2017; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
n. 1962/2010; n. 2631/2010; TAR Piemonte, Torino, sez. I, n. 4164/2010; TAR
Lazio, Roma, sez. II, n. 35404/2010; TAR Liguria, Genova, sez. I, n.
432/2011) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.09.2019 n. 1548 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’ipotesi di interventi edilizi eseguiti in parziale
difformità, la valutazione circa la possibilità o meno di dar corso alla
misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra la demolizione d'ufficio
e l'irrogazione della sanzione pecuniaria costituisce solo un'eventualità
della fase esecutiva successiva alla disposta ingiunzione.
In tale ipotesi, l'ingiunzione di demolizione costituisce, cioè, la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di
diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo
dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura
discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria, disciplinato dall’art. 34, comma
2, del d.p.r. n. 380/2001, viene effettuato soltanto in un secondo momento
(successivo ed autonomo rispetto all'atto di diffida), ossia quando il
soggetto privato non abbia ottemperato spontaneamente alla demolizione e
l'organo competente emana l'ordine (stavolta non indirizzato all'autore
dell'abuso edilizio, ma agli uffici e relativi dipendenti
dell’amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni
edilizie) di demolizione in danno delle opere edili costruite in parziale
difformità dal permesso di costruire.
Conseguentemente, soltanto nella
predetta seconda fase può, in linea teorica, non ritenersi legittimo
l’ordine di demolire, sprovvisto di qualsiasi valutazione intorno all'entità
degli abusi commessi ed alla possibile sostituzione della demolizione con la
sanzione pecuniaria, così come previsto dall’art. 34, comma 2, del d.p.r. n.
380/2001; valutazione che deve essere effettuata mediante apposito
accertamento da parte dell’amministrazione, d'ufficio o su richiesta del
soggetto interessato.
---------------
8. I germani Si. non possono, poi, fondatamente dolersi della carenza
istruttoria e motivazionale circa l’applicabilità della sanzione alternativa
pecuniaria in luogo di quella demolitoria (cfr. retro, in narrativa, sub n.
6.f).
Tale censura si infrange conto una serie di obiezioni insuperabili.
8.1. Innanzitutto, dalla puntuale descrizione degli abusi accertati, così
come compiuta nell’ordinanza di demolizione n. 2221 del 27.11.2017 (cfr.
retro, in narrativa, sub n. 5) emerge in termini perspicui come essi, per la
relativa incidenza planovolumetrica, morfologica e funzionale, integrino non
già gli estremi della difformità parziale, sanzionabile ai sensi dell’art.
34 del d.p.r. n. 380/2001, bensì gli estremi dell’organismo edilizio
totalmente difforme o, comunque, della variazione essenziale rispetto al
fabbricato assentito con la licenza edilizia n. 83 del 09.06.1964,
sanzionabile ai sensi del precedente art. 31.
8.2. In ogni caso, poi, nell’ipotesi –qui non ravvisabile– di interventi
edilizi eseguiti in parziale difformità, la valutazione circa la possibilità
o meno di dar corso alla misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra
la demolizione d'ufficio e l'irrogazione della sanzione pecuniaria
costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva successiva alla
disposta ingiunzione (cfr. TAR Basilicata, Potenza, n. 921/2008; TAR
Campania, Napoli, sez. VII, n. 5244/2008; sez. VI, n. 3044/2014).
In tale ipotesi, l'ingiunzione di demolizione costituisce, cioè, la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di
diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo
dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura
discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria, disciplinato dall’art. 34, comma
2, del d.p.r. n. 380/2001, viene effettuato soltanto in un secondo momento
(successivo ed autonomo rispetto all'atto di diffida), ossia quando il
soggetto privato non abbia ottemperato spontaneamente alla demolizione e
l'organo competente emana l'ordine (stavolta non indirizzato all'autore
dell'abuso edilizio, ma agli uffici e relativi dipendenti
dell’amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni
edilizie) di demolizione in danno delle opere edili costruite in parziale
difformità dal permesso di costruire.
Conseguentemente, soltanto nella
predetta seconda fase può, in linea teorica, non ritenersi legittimo
l’ordine di demolire, sprovvisto di qualsiasi valutazione intorno all'entità
degli abusi commessi ed alla possibile sostituzione della demolizione con la
sanzione pecuniaria, così come previsto dall’art. 34, comma 2, del d.p.r. n.
380/2001; valutazione che deve essere effettuata mediante apposito
accertamento da parte dell’amministrazione, d'ufficio o su richiesta del
soggetto interessato.
8.3. Infine, è appena il caso di soggiungere che l’adombrata fiscalizzazione
dell’abuso ai sensi dell’art. 34 del d.p.r. n. 380/2001 non trova
giustificazione nell’ipotetica impossibilità di eseguire la demolizione
senza pregiudizio dell’edificio assentito con la licenza edilizia n. 83 del
09.06.1964: nessuna prova adeguata è, infatti, fornita dai ricorrenti, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 64, comma 1, cod. proc. amm., circa il
pregiudizio derivante a detto edificio dalla eliminazione delle opere
contestate con l’ordinanza di demolizione n. 2221 del 27.11.2017 (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.09.2019 n. 1548 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistici –
Permesso di costruire – Legittimità/illegittimità dell’atto
amministrativo – Poteri del giudice penale – Tutela
sostanziale del territorio – Parametro di legalità – Artt.
12 e 13, d.P.R. 380/2001.
In materia urbanistica, il giudice penale può conoscere
della legittimità dell’atto amministrativo che costituisca
oggetto della fattispecie incriminatrice se tale potere
trova fondamento e giustificazione nell’ambito della
interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora la
legittimità/illegittimità dell’atto si presenti come
elemento essenziale della fattispecie criminosa (cfr. Sez.
U., n. 3 del 31/01/1987, Giordano), ciò che certamente
avviene nel caso del reato urbanistico in esame, che ha di
mira la tutela sostanziale del territorio, il cui parametro
di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti
urbanistici e dalla normativa vigente (Cass. Sez. U., n.
11635 del 12/11/1993, Borgia).
Posto, dunque, che il
permesso di costruire deve essere rilasciato «in conformità
alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente»
(art. 12, comma 1, d.P.R. 380/2001, ribadito dal successivo
art. 13, comma 1, d.P.R. 380/2001), laddove il provvedimento
amministrativo, pur formalmente rilasciato, sia
irrimediabilmente viziato per contrasto con il modello
legale, tale da risolversi in una mera apparenza, ai fini
dell’applicazione della disposizione penale lo stesso dev’essere
considerato mancante e questa valutazione non viola il
principio di legalità vigente in materia penale, né, fatta
salva la necessità di accertare l’elemento soggettivo,
quello di colpevolezza.
...
Abusi edilizi – Permesso di
costruire illegittimo per contrasto con diverse disposizioni
del Piano Territoriale Paesistico – Presupposti per la configurabilità del reato urbanistico – Esecuzione di
lavori “sine titulo” – Sanzioni penali – Giurisprudenza.
La macroscopica illegittimità del permesso di costruire non
costituisce una condizione essenziale per l’oggettiva
configurabilità del reato, ma rileva soltanto con riguardo
alla sussistenza dell’elemento soggettivo di fattispecie,
rappresentando un significativo indice sintomatico della
sussistenza della colpa richiesta per l’integrazione del
reato.
Pertanto, ai fini della configurabilità delle ipotesi
di reato previste nelle lettere b) e c) dell’art. 44 del
d.P.R. n. 380 del 2001, non possono ritenersi realizzate in
“assenza” di permesso di costruire le opere eseguite sulla
base di un provvedimento abilitativo meramente illegittimo,
ma non illecito o viziato da illegittimità macrocospica tale
da potersi ritenere sostanzialmente mancante.
Tale soluzione
esclude sia una irragionevole equiparazione interpretativa
“in malam partem” tra mancanza “ab origine” dell’atto
concessorio e illegittimità dello stesso accertata “ex
post”, sia la violazione del principio della responsabilità
penale per fatto proprio colpevole (Cass. Sez. 3, n. 7423
del 18/12/2014, dep. 2015, Cervino e aa.).
Sicché, la
contravvenzione di esecuzione di lavori “sine titulo”
sussiste anche nel caso in cui il permesso di costruire, pur
apparentemente formato, sia illegittimo per contrasto con la
disciplina urbanistico-edilizia di fonte normativa o
risultante dalla pianificazione (Sez. 3, n. 56678 del
21/09/2018, Iodice; Sez. 3, n. 49687 del 07/06/2018, Bruno e
a.; v. anche Sez. 3, n. 12389 del 21/02/2017, Minosi) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.09.2019 n. 37475 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Gestione illecita di rifiuti – Presa in consegna
di veicoli fuori uso – Natura di rifiuto pericoloso delle
autovetture e delle parti di autovetture.
In tema di gestione di rifiuti, la
natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori uso non
necessita di particolari accertamenti, quando risulti, anche
soltanto per le modalità di raccolta e deposito, che lo
stesso non è stato sottoposto ad alcuna operazione
finalizzata alla rimozione dei liquidi o delle altre
componenti pericolose.
...
RIFIUTI – Gestione di rifiuti – Attività di mera «presa in
consegna» – Attività di autorottamazione – Soggetto non
autorizzato – Configurabilità del reato – Art. 256 d.lgs. n.
152/2006 – Deposito temporaneo – Esclusione.
In materia di gestione di rifiuti, anche
un’attività di mera «presa in consegna» a carattere
temporaneo di autoveicoli, da avviare in un secondo momento,
a rottamazione e ciò esclusivamente ai fini dello smontaggio
dei pezzi di autovettura da vendere come pezzi di ricambio
usati, con successivo conferimento a ditte abilitate alla
rottamazione, nonché a ditte abilitate alla raccolta,
recupero e smaltimento dei materiali non utilizzabili come
pezzi di ricambio, posta in essere da un soggetto non
autorizzato integra il reato di cui all’art. 256, co.1, D.L.vo
152/2006.
In alcun modo, inoltre, può ipotizzarsi un deposito
temporaneo, posto che il ricorrente non è il produttore dei
rifiuti.
Fattispecie: attività di raccolta di rifiuti speciali
pericolosi e non pericolosi, senza alcuna autorizzazione,
stoccati in maniera promiscua e senza alcun accorgimento
tecnico, direttamente sul suolo, nel terreno agricolo di
proprietà (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.09.2019 n. 37358
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Tutela delle acque
dall’inquinamento – Svolgimento dell’attività economica in
assenza dell’autorizzazione – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE –
P.A. inadempiente o abbia mantenuto un silenzio
ingiustificato – Effetti.
In tema di tutela delle acque
dall’inquinamento, in assenza dell’autorizzazione l’attività
che richiede l’autorizzazione non può proseguire, pur se la
P.A. risulti inadempiente o abbia mantenuto un silenzio
ingiustificato.
Infatti, per lo svolgimento dell’attività economica del
ricorrente occorrono una serie di passaggi amministrativi
che sono previsti dalla legge nell’interesse della
collettività alla tutela dell’ambiente; si tratta di
interessi del tutto prevalenti rispetto al diritto del
singolo di svolgere l’attività economica (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.09.2019 n. 37358
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’, secondo l’ormai consolidato
orientamento del Consiglio Stato, tale istituto deve considerarsi
normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto
normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva
trasformazione del territorio, essendo il permesso in sanatoria ottenibile
soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36
d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della
realizzazione del manufatto sia della presentazione della domanda, mentre
con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto
atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si
collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa, e non trovando
pertanto l’istituto all’esame fondamento alcuno nell’ordinamento positivo,
contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa,
tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica
amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa
previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale,
pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di
sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione.
---------------
5.3. Premesso che da quanto sopra discende, altresì, l’infondatezza dei vizi
di illegittimità derivata dedotti avverso l’ordinanza di demolizione, in
reiezione dell’appello proposto avverso la statuizione reiettiva dei motivi
per vizi propri proposti avverso tale atto occorre rilevare che:
- correttamente è stata disattesa la censura di violazione della
garanzia partecipativa ex art. 7 l. n. 241/1990, trattandosi di atto di
natura vincolata ed essendo palese che il relativo contenuto non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato, con la conseguente
operatività della sanatoria ex art. 21-octies l. n. 241/1990 ed esclusione
dell’annullabilità dell’atto;
- altrettanto correttamente, nell’impugnata sentenza, è stato
richiamato l’arresto n. 9/2017 dell’Adunanza Plenaria, per cui il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione
di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua
natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso, con la
conseguente manifesta infondatezza della censura di carenza di motivazione;
- destituita di fondamento è, infine, la riproposta censura con cui
sostanzialmente si invoca l’applicazione dell’istituto della c.d. ‘sanatoria
giurisprudenziale’, in quanto, secondo l’ormai consolidato orientamento
del Consiglio Stato (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI,
24.04.2018, n. 2496, e 20.02.2018, n. 1087, con ulteriori richiami,
comprensivi di arresti della Corte costituzionale), pienamente condiviso da
questo Collegio, tale istituto deve considerarsi normativamente superato,
nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi
connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio,
essendo il permesso in sanatoria ottenibile soltanto in presenza dei
presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a
condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto sia della
presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria
giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti
provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori
d’ogni previsione normativa, e non trovando pertanto l’istituto all’esame
fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai
principi di legalità dell’azione amministrativa, tipicità e nominatività dei
poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che
detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono
essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di
separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni
riservate alla pubblica amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.09.2019 n. 6107 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Ai
fini della verifica delle conseguenze della scadenza del termine decennale
di efficacia dei piani di lottizzazione, non rileva se la mancata attuazione
del piano dipenda dal privato ovvero dalla pubblica amministrazione,
rilevando esclusivamente, alla luce dell'art. 17 l. n. 1150/1942, il dato
oggettivo della mancata attuazione del piano.
---------------
In linea generale, va evidenziato che il Consiglio di Stato, in materia di
efficacia del piano di attuazione, ha indicato i seguenti principi come
discendenti da una corretta interpretazione dell’art. 17 delle legge n. 1150
del 1942:
“a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta
e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione
delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai
sensi dell’art. 869 c.c.);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci
a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative
del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione,
cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla
realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione
primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del
piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per
questa parte ha efficacia ultrattiva”.
In particolare, quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28
della legge urbanistica -secondo cui l’efficacia dei piani
particolareggiati, come sopra visto, ha un termine entro il quale le opere
debbono essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-, la
giurisprudenza ha chiarito che ”l’imposizione del termine suddetto va inteso
nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento
urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate
ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità
competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico
alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di
lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene
esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini
disposti con la convenzione di lottizzazione".
Peraltro, per quanto qui in particolare rileva, è stato, altresì, precisato
che “Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo
(ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito
della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla
validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori
degli interventi”.
Dunque, gli effetti della intervenuta inefficacia del Piano riguardano la (e
sono limitati alla sola) disciplina urbanistica, ma non possono incidere
sulla validità e sull’efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti
attuatori degli interventi previsti nel Piano medesimo.
Se, invero, gli impegni previsti da una convenzione urbanistica gravano
sulla proprietà privata come oneri reali, in quanto sono il naturale
contrappeso dei diritti edificatori, non si vede il motivo per cui ove tali
impegni siano stati posti a carico dell’Amministrazione, nell’ambito delle
previsioni del Piano, essa se ne possa sottrarre, pur a fronte
dell’adempimento dei corrispettivi obblighi (cessioni di aree e
anticipazione quota parte del costo delle opere di urbanizzazione) gravanti
sui singoli compartisti.
Del resto, non appare dubbio che l’edificazione dei privati può essere
eseguita e mantenuta solo in quanto si inserisca in un’area che sia resa
conforme alle prescrizioni urbanistiche e, dunque, dotata delle
infrastrutture e degli standard urbanistici stabiliti dall’Amministrazione
medesima.
---------------
Nelle premesse di tale deliberazione, il Comune prende atto che il Piano
Particolareggiato è decaduto in data 20.08.2016, risultando decorsi dieci
anni dalla sua approvazione, ai sensi degli artt. 16 e 17 della legge n.
11590/1942, così come gli ulteriori tre anni di proroga, secondo quanto
disposto dal D.L. n. 69/2013.
Il Comma 5 dell’art. 16 della legge n. 1150/1992 prevede che l’atto di
approvazione dei piani particolareggiati fissa il tempo, non maggiore di
anni 10, entro cui il piano deve essere attuato ed i termini entro cui
dovranno essere compiute le relative espropriazioni; il successivo art. 17
–rubricato “validità dei piani particolareggiati”- dispone che “Decorso
il termine stabilito per la esecuzione del piano particolareggiato questo
diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo
soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella
costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli
allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
Ebbene, non è in discussione tra le parti che il termine di efficacia
massimo fissato dalle succitate previsioni normative sia stato superato, per
cui il Piano (decaduto) è divenuto inefficace e le attività dirette alla
realizzazione dello strumento urbanistico non possono essere attuate, giusta
la scadenza del suddetto termine, a seguito della quale l’autorità
competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico
alle parti non realizzate.
Ad un tanto, consegue che la presa d’atto di cui alla deliberazione
impugnata relativa alla intervenuta decadenza del Piano Particolareggiato
appare immune dai vizi dedotti.
Invero, non è fondata la censura (di cui al primo motivo) relativa
alla asserita violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, atteso che
–a prescindere da ogni altra considerazione– la presa d’atto
dell’Amministrazione è scevra da ogni forma di valutazione discrezionale,
costituendo, a ben vedere, accertamento vincolato, connesso unicamente alla
verifica della scadenza del termine massimo di validità del Piano fissato
per legge.
Parimenti infondata è la denunciata violazione (di cui al secondo motivo)
dei principi di trasparenza, buona fede, correttezza e affidamento, atteso
che, da un lato, nessun affidamento legittimo può sussistere in
ordine alla ultra attività di un Piano Particolareggiato la cui inefficacia
consegue alla scadenza della sua validità fissata per legge; dall’altro,
le (valorizzate) dichiarazioni del Sindaco esprimono l’intendimento
dell’Amministrazione di individuare una soluzione alle complesse
problematiche che indubbiamente investono la Zona D, ma non sono certamente
idonee a concretizzare la violazione dei principi invocati in ricorso,
riverberandosi sulla legittimità di una deliberazione consiliare che, nel
recepire l’atto di impegno presentato da un compartista unitamente alla
domanda di rilascio di titolo edilizio, prende atto della intervenuta
decadenza del P.P. per decorrenza del termine di dieci anni dalla sua
approvazione; nemmeno può aver determinato un legittimo affidamento il
rilascio di un titolo edilizio, pur a Piano decaduto, atteso che tale
possibilità appare ammessa dallo stesso art. 17 L.U., il quale dispone che,
decorso il termine per la esecuzione del piano, rimane “soltanto fermo a
tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi
edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso“; quanto al rilievo
secondo il quale la decadenza sarebbe da addebitare interamente
all’Amministrazione, si osserva che tale aspetto, ove risultante
effettivamente fondato, potrebbe tutt'al più rilevare quale elemento
concorrente a radicare una responsabilità in capo all’ente comunale, ma non
potrebbe incidere sul dato fattuale della decorrenza del termine massimo di
validità del Piano: è stato, invero, rilevato che "ai fini della verifica
delle conseguenze della scadenza del termine decennale di efficacia dei
piani di lottizzazione, non rileva se la mancata attuazione del piano
dipenda dal privato ovvero dalla pubblica amministrazione, rilevando
esclusivamente, alla luce dell'art. 17 l. n. 1150/1942, il dato oggettivo
della mancata attuazione del piano" (TAR Sardegna, sez. II, 17.07.2013,
n. 553).
Infondato risulta, altresì, il denunciato difetto istruttorio e di
motivazione (terzo motivo), atteso che, contrariamente a quanto
sostenuto in ricorso, è proprio il mero decorso del termine massimo di
validità a determinare l’inefficacia del Piano, per la parte in cui non
abbia avuto attuazione, come stabilito dalla normativa sopra richiamata.
Infine, infondata è anche la denunciata violazione (quarto motivo)
degli artt. 16, 17 e 28 L.U, in relazione al rilievo secondo il quale il
P.P. sarebbe stato attuato nelle previsioni relative agli espropri (tramite
gli atti d’obbligo unilaterali), atteso che il Piano può considerarsi
attuano non solo quando sono stati effettuati gli espropri previsti, ma
quando sono state realizzate le necessarie opere di urbanizzazione e
infrastrutturali ivi contemplate e necessarie ai fini dell’edificazione,
circostanza che –stante lo stesso oggetto sostanziale del ricorso –non si è
(del tutto) verificata nel caso in discussione.
Dunque, in definitiva, è indiscutibile che il Piano Particolareggiato in
questione è decaduto per decorrenza del termine di cui all’art. 17 della
L.U. Altra cosa, però, sono gli effetti dell’intervenuta decadenza del
medesimo Piano.
Sotto tale, distinto, profilo, risultano fondate, nei termini di seguito
precisati, le doglianze articolate dalla ricorrente nel secondo ordine di
motivi.
In linea generale, va evidenziato che il Consiglio di Stato (sez. IV,
26.08.2014, n. 4278; id., sez. V, 30.04.2009, n. 2768; Id., sez. IV,
27.10.2009, n. 6572), in materia di efficacia del piano di attuazione, ha
indicato i seguenti principi come discendenti da una corretta
interpretazione dell’art. 17 delle legge n. 1150 del 1942:
“a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la
concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con
specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore
generale, ai sensi dell’art. 869 c.c.);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci
a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative
del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione,
cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla
realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione
primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del
piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per
questa parte ha efficacia ultrattiva”.
In particolare, quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28
della legge urbanistica -secondo cui l’efficacia dei piani
particolareggiati, come sopra visto, ha un termine entro il quale le opere
debbono essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-, la
giurisprudenza ha chiarito che ”l’imposizione del termine suddetto va
inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento
urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate
ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità
competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico
alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di
lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene
esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini
disposti con la convenzione di lottizzazione" (Consiglio di Stato, sez.
IV, 19.02.2007, n. 851, richiamato da Consiglio di Stato n. 4278/2014 cit.).
Peraltro, per quanto qui in particolare rileva, è stato, altresì, precisato
(Consiglio di Stato n. 4278/2014 cit.) che “Le conseguenze della scadenza
dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si
esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non
potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni
assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, ad. plen.,
20.07.2012, n. 28)”.
Dunque, gli effetti della intervenuta inefficacia del Piano riguardano la (e
sono limitati alla sola) disciplina urbanistica, ma non possono incidere
sulla validità e sull’efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti
attuatori degli interventi previsti nel Piano medesimo.
Se, invero, gli impegni previsti da una convenzione urbanistica gravano
sulla proprietà privata come oneri reali, in quanto sono il naturale
contrappeso dei diritti edificatori (TAR Lombardia, Milano, sez. II,
11.08.2017, id. Brescia, sez. I, 18.07.2017, n. 933), non si vede il motivo
per cui ove tali impegni siano stati posti a carico dell’Amministrazione,
nell’ambito delle previsioni del Piano, essa se ne possa sottrarre, pur a
fronte dell’adempimento dei corrispettivi obblighi (cessioni di aree e
anticipazione quota parte del costo delle opere di urbanizzazione) gravanti
sui singoli compartisti.
Del resto, non appare dubbio che l’edificazione dei privati può essere
eseguita e mantenuta solo in quanto si inserisca in un’area che sia resa
conforme alle prescrizioni urbanistiche e, dunque, dotata delle
infrastrutture e degli standard urbanistici stabiliti dall’Amministrazione
medesima.
Nel caso in esame, è incontestato tra le parti che la ricorrente (così come
gli atri compartisti) ha adempiuto alle proprie obbligazioni mettendo a
disposizione dell’Amministrazione le aree e versando, tramite compensazione
con il credito vantato per i maggiori standard ceduti –come sostenuto dalla
ricorrente e non contestato dall’Amministrazione Comunale-, la propria quota
degli oneri di urbanizzazione.
Sotto tale profilo, dunque, è fondata e va accolta la domanda con cui la
ricorrente chiede la condanna dell’Amministrazione comunale all’adempimento
della prestazione posta a suo carico relativamente alla ripresa e
conclusione dei lavori di urbanizzazione.
L’Amministrazione, a tal fine, dovrà porre in essere tutte le attività
amministrative ed esecutive necessarie alla ripresa e conclusione dei lavori
di urbanizzazione, sulla base delle previsioni progettuali originarie o di
quelle di variante se, medio tempore, approvata, ovvero, se
necessario, sulla base di quelle di cui al nuovo Piano Particolareggiato
(TAR Lombardiua-Brescia, Sez. II,
sentenza 05.09.2019 n. 795 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
"piena conoscenza" del provvedimento impugnabile non deve essere intesa
quale "conoscenza piena ed integrale" del provvedimento stesso, ovvero di
eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via
derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia
sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell'esistenza di un
provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la
lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso.
Va, infatti, chiarito che, mentre la consapevolezza dell'esistenza del
provvedimento e della sua lesività concreta ed attuale integra la
sussistenza di una condizione dell'azione, rimuovendo in tal modo ogni
ostacolo all'impugnazione dell'atto (così determinando quella "piena
conoscenza" indicata dalla norma), la conoscenza "integrale" del
provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del
ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi
sulla causa petendi.
---------------
Ai fini della verifica della tempestività del ricorso, occorre richiamare i
principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa in ordine alla
questione della verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine
di ponderare il rispetto del termine decadenziale per proporre l'azione di
annullamento:
a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia
decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente
s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di
una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso
anche a mezzo di presunzioni;
b) l'inizio dei lavori segna il dies a quo ai fini della tempestiva
proposizione del ricorso laddove si contesti l'an dell'edificazione;
c) il completamento dei lavori (o, comunque, il momento in cui la
costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla
portata dell'intervento) segna il dies a quo per l’impugnazione del permesso
di costruire laddove si contesti il quomodo dell’edificazione (distanze,
consistenza, volumetria, ecc.);
d) la richiesta di accesso agli atti, invero, non è idonea ex se a
far differire i termini di proposizione del ricorso, perché, se da un lato
deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei
propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto
illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse
del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela
venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo,
determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche
contraria ai principi ordinamentali;
e) l'apposizione del prescritto cartello di cantiere ha la funzione
di esporre al pubblico i titoli edilizi rilasciati e i nominativi dei
responsabili dell'attività edilizia in corso, onde consentire a eventuali
controinteressati di far valere in sede amministrativa e/o giurisdizionale
le proprie posizioni giuridiche soggettive eventualmente lese dall'attività
edilizia (e rendere agevolmente individuabili i soggetti responsabili
qualora durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni nel
confronti di terzi), sicché è onere del ricorrente di attivarsi
immediatamente e senza indugio presso i competenti uffici comunali per
prendere visione del progetto.
---------------
2.- In via preliminare, il Collegio deve esaminare l'eccezione di tardività
del ricorso.
2.1.- Occorre premettere che la "piena conoscenza" del provvedimento
impugnabile non deve essere intesa quale "conoscenza piena ed integrale"
del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la
cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale,
dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la
percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti
che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale
ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad
agire contro di esso.
Va, infatti, chiarito che, mentre la consapevolezza dell'esistenza del
provvedimento e della sua lesività concreta ed attuale integra la
sussistenza di una condizione dell'azione, rimuovendo in tal modo ogni
ostacolo all'impugnazione dell'atto (così determinando quella "piena
conoscenza" indicata dalla norma), la conoscenza "integrale" del
provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del
ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi
sulla causa petendi.
2.2.- Tanto chiarito, ai fini della verifica della tempestività del ricorso,
occorre richiamare i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa
(ex multis, Cons. Stato, n. 5675 del 2017; Cons. Stato, n. 1135 e n.
4701 del 2016) in ordine alla questione della verifica della piena
conoscenza dei titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del termine
decadenziale per proporre l'azione di annullamento:
a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia
decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente
s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di
una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso
anche a mezzo di presunzioni (Consiglio di Stato , sez. IV, 28/10/2015 , n.
4909);
b) l'inizio dei lavori segna il dies a quo ai fini della
tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l'an
dell'edificazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 04/12/2017, n. 5675);
c) il completamento dei lavori (o, comunque, il momento in cui la
costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla
portata dell'intervento) segna il dies a quo per l’impugnazione del
permesso di costruire laddove si contesti il quomodo
dell’edificazione (distanze, consistenza, volumetria, ecc.);
d) la richiesta di accesso agli atti, invero, non è idonea ex se
a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché, se da un lato
deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei
propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto
illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse
del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela
venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo,
determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche
contraria ai principi ordinamentali;
e) l'apposizione del prescritto cartello di cantiere ha la funzione
di esporre al pubblico i titoli edilizi rilasciati e i nominativi dei
responsabili dell'attività edilizia in corso, onde consentire a eventuali
controinteressati di far valere in sede amministrativa e/o giurisdizionale
le proprie posizioni giuridiche soggettive eventualmente lese dall'attività
edilizia (e rendere agevolmente individuabili i soggetti responsabili
qualora durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni nel
confronti di terzi), sicché è onere del ricorrente di attivarsi
immediatamente e senza indugio presso i competenti uffici comunali per
prendere visione del progetto
(TAR
Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 05.09.2019 n. 450 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 15 DPR 380/2001 al
comma 2 dispone che: “il termine per l'inizio dei lavori non può essere
superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro
il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni
dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto
per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga
richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento
motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da
realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive,
ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto
in più esercizi finanziari".
La ratio complessiva della disciplina dell'art. 15 D.P.R. n. 380 del 2001
(T.U. Edilizia) sta nell'obiettivo di mantenere il controllo sull'attività
di edificazione, ovviamente per sua natura non istantanea, non solo al
momento del rilascio del titolo abilitativo ma, anche, successivamente al
momento della realizzazione, garantendo solo entro limiti temporali
ragionevoli il compimento dell'opera iniziata.
L'effetto decadenziale ha carattere automatico ed è ricollegato al
verificarsi dei presupposti previsti dalla legge, tanto è vero che la
giurisprudenza qualifica il provvedimento recante la declaratoria di
decadenza del permesso di costruire come un provvedimento di natura
ricognitiva di effetti già verificatisi ex lege, con l'infruttuoso decorso
del termine fissato.
La decadenza automatica del titolo comporta che, per la realizzazione dei
lavori non eseguiti o non iniziati tempestivamente è richiesto il rilascio
di nuovo permesso di costruire.
E’ stato quindi condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza che il mero
rilascio di un permesso in variante all'originario permesso per costruire
non fa decorrere un nuovo termine di avvio e di conclusione dei lavori, il
quale va sempre determinato con riferimento al titolo edilizio originario.
---------------
3.- Nel merito il ricorso è fondato
in relazione al primo assorbente motivo di ricorso, con il quale il
ricorrente deduce la violazione dell’art. 15 D.P.R. n. 380 del 2001.
3.1.- L’art. 15 cit., al comma 2, dispone che: “il termine per l'inizio
dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo;
quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata non può
superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono
essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti
estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il
permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che,
anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può
essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in
considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere
pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari".
La ratio complessiva della disciplina dell'art. 15 D.P.R. n. 380 del
2001 (T.U. Edilizia) sta nell'obiettivo di mantenere il controllo
sull'attività di edificazione, ovviamente per sua natura non istantanea, non
solo al momento del rilascio del titolo abilitativo ma, anche,
successivamente al momento della realizzazione, garantendo solo entro limiti
temporali ragionevoli il compimento dell'opera iniziata.
L'effetto decadenziale ha carattere automatico ed è ricollegato al
verificarsi dei presupposti previsti dalla legge, tanto è vero che la
giurisprudenza qualifica il provvedimento recante la declaratoria di
decadenza del permesso di costruire come un provvedimento di natura
ricognitiva di effetti già verificatisi ex lege, con l'infruttuoso
decorso del termine fissato (ex multis: Consiglio di Stato, sez. III,
04/04/2013 , n. 1870).
La decadenza automatica del titolo comporta che, per la realizzazione dei
lavori non eseguiti o non iniziati tempestivamente è richiesto il rilascio
di nuovo permesso di costruire (Cons. Stato Sez. VI, 06/02/2019, n. 891).
E’ stato quindi condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza che il mero
rilascio di un permesso in variante all'originario permesso per costruire
non fa decorrere un nuovo termine di avvio e di conclusione dei lavori, il
quale va sempre determinato con riferimento al titolo edilizio originario (Cons.
Stato Sez. IV Sent., 11/10/2017, n. 4704).
Nella specie, emerge che l’originario permesso di costruire è stato
rilasciato in data 11.10.2013 e risulta comprovato, come risulta dalla foto
della tabella di cantiere (doc. 24 del fascicolo di parte ricorrente), che i
lavori sono iniziati nel Dicembre 2014, allorquando il titolo edilizio era
già decaduto per l’effetto del decorso del termine di un anno dal rilascio
del titolo ed in assenza di un provvedimento di proroga da parte del Comune.
Né si condivide la tesi del Comune resistente secondo il quale la decadenza
dell’originario permesso di costruire, per poter esplicare i propri effetti,
avrebbe dovuto essere formalizzata con un provvedimento amministrativo ad
hoc, posto che lo stesso provvedimento n. 25/2013 subordinava il
rilascio del titolo all’inizio dei lavori “entro dodici mesi dalla data
del rilascio del presente permesso di costruire, pena la decadenza”.
Non risulta, pertanto, pertinente, nella specie, il richiamo a quell’orientamento
giurisprudenziale (Consiglio di Stato, sez. IV, 22/10/2015, n. 4823), che
richiede l’adozione di un provvedimento espresso di decadenza, sulla base
dell'esigenza di assicurare il contraddittorio con il privato in ordine
all'esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che giustificano la
pronuncia stessa. Esigenza che, nel caso di specie, non sussisteva, posto
che il Comune, all’atto del rilascio del titolo edilizio aveva preannunciato
la decadenza in caso di mancato inizio dei lavori nel termine di un anno.
Applicando in suesposti principi al caso di specie, emerge l’illegittimità
dell’operato del Comune resistente che, in violazione dell’art. 15, comma 2,
del D.P.R. n. 380 del 2001, in assenza di un’istanza di proroga proposta
anteriormente alla scadenza del titolo, anziché adottare un provvedimento
vincolato recante la ricognizione dell’intervenuta decadenza del permesso di
costruire originario n. 25/2013, rilasciava un permesso di costruire in
variante (n. 16/2017) ad un titolo ormai decaduto.
Né il permesso di costruire n. 16/2017 è qualificabile, così come affermato
nella memoria del Comune, quale nuovo e autonomo titolo edilizio sostitutivo
del precedente. Al contrario, dall’analisi del provvedimento stesso e della
relazione tecnica acquisita in giudizio, il Comune si limita a rilasciare
una vera e propria “variante di completamento dei lavori di
ristrutturazione edilizia con ampliamento parziale ai sensi della L.R.
16/2009” assentiti con l’originario permesso di costruire
(TAR
Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 05.09.2019 n. 450 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Domanda di sanatoria –
Doppia conformità – Verifica di conformità delle opere
abusive agli strumenti urbanistici – Rilascio del permesso
in sanatoria – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Attività vincolata
della P.A. – Necessità di motivazione del pubblico
funzionario – Art. 36 D.P.R. 380/2001 – Giurisprudenza.
L’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 si riferisce
esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come
la doppia conformità debba sussistere sia al momento della
realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione
della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del
provvedimento consegue ad un’attività vincolata della P.A.,
consistente nell’applicazione alla fattispecie concreta di
previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione
compiuta e non elastica, che non lasciano
all’Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine
discrezionale.
Pertanto, costituendo la verifica della
“doppia conformità” il fulcro di tale potere in ordine
all’atto adottato ex art. 36 DPR 380/01, consegue che del
relativo accertamento deve darsi conto in motivazione come
dimostrazione della avvenuta effettuazione della funzione
affidata al pubblico funzionario e quale strumento di
controllo del corretto esercizio della medesima.
...
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Sussistenza o meno del
requisito della “doppia conformità” – Verifica affidata al
giudice penale – Responsabile del procedimento
amministrativo – Motivazione dell’atto scrutinato – Effetti.
In materia urbanistica, la verifica
affidata al giudice penale, diretta a stabilire la
sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità”,
passa per il previo accertamento di una motivazione che dia
conto dell’avvenuto, positivo esercizio della funzione di
sanatoria dell’atto adottato ex art. 36 DPR 380/2001,
incentrata sulla verifica di conformità delle opere abusive
agli strumenti urbanistici vigenti al momento della loro
realizzazione e della presentazione della richiesta di
sanatoria.
Cosicché, l’eventuale esito negativo della verifica, sul
piano motivazionale dell’atto scrutinato, dell’avvenuto
espletamento di tale attività, portando all’esclusione del
controllo “tipico” dell’atto di sanatoria ex art. 36 DPR
380/01, consente al giudice penale già di escludere
qualsivoglia estinzione sopravvenuta del reato edilizio.
Di converso invece, in caso di verifica positiva del profilo
motivazionale dell’atto di sanatoria nei termini anzidetti,
non può escludersi che il giudice penale approfondisca
ulteriormente, ove ritenuto opportuno, il tema della
sussistenza del requisito della “doppia conformità”
attraverso una verifica “in concreto” dell’avvenuto rispetto
degli strumenti urbanistici nel predetto intervallo
temporale, in grado in tal modo di confermare o meno la
correttezza del giudizio di doppia conformità sostenuto in
motivazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.09.2019 n. 37050 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della realizzazione sia di opere di sbancamento sia di muri
di contenimento di dimensioni significative è necessario munirsi del
permesso di costruire:
- in particolare, per ius receptum, le attività di movimento di
terra, di sbancamento e di livellamento del terreno per usi diversi da
quelli agricoli, laddove modifichino stabilmente la precedente conformazione
naturale di un’area, in vista di un impiego non già meramente contingente,
bensì prolungato nel tempo, concretano una trasformazione del territorio
rilevante dal punto di vista urbanistico-edilizio, subordinata, come tale,
al previo rilascio di apposito permesso di costruire sulla base della
definizione generale di cui all'art. 3, comma 1, lett. e), del d.p.r. n.
380/2001;
- nel contempo, per giurisprudenza altrettanto consolidata, i
muri di contenimento costituiscono opere suscettibili di incidere
sull’assetto urbanistico-edilizio del territorio, siccome dotate di
consistenza e stabilità, e riconducibili, quindi, al novero degli interventi
di nuova costruzione di cui al citato art. 3, comma 1, lett. e), del d.p.r.
n. 380/2001, le quali necessitano, per la loro realizzazione, del previo
rilascio del permesso di costruire.
---------------
Da un lato, la necessità di preventiva autorizzazione paesaggistica
riguarda ogni attività comportante una modificazione dell'assetto
territoriale, ivi compresa la conformazione dei luoghi, e secondo cui,
d’altro lato, non sono ravvisabili gli estremi dell’abuso ‘minore’ nelle
opere di sbancamento del terreno finalizzate ad usi diversi da quelli
agricoli, atteso che esse incidono sullo stesso tessuto urbanistico del
territorio e ne alterano la morfologia.
---------------
Considerato, poi, che:
- ai fini della realizzazione sia di opere di sbancamento sia di
muri di contenimento di dimensioni significative è necessario munirsi del
permesso di costruire (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 2044/2012);
- in particolare, per ius receptum, le attività di movimento
di terra, di sbancamento e di livellamento del terreno per usi diversi da
quelli agricoli, laddove modifichino stabilmente la precedente conformazione
naturale di un’area, in vista di un impiego non già meramente contingente,
bensì prolungato nel tempo, concretano una trasformazione del territorio
rilevante dal punto di vista urbanistico-edilizio, subordinata, come tale,
al previo rilascio di apposito permesso di costruire sulla base della
definizione generale di cui all'art. 3, comma 1, lett. e), del d.p.r. n.
380/2001 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2915/2016; TAR Liguria, Genova, sez.
I, n. 876/2014; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n. 2520/2018; TAR Umbria,
Perugia, n. 469/2018; Cass. pen., sez. III, n. 4916/2014; n. 48990/2014; n.
1308/2016)
- nel contempo, per giurisprudenza altrettanto consolidata, i muri
di contenimento costituiscono opere suscettibili di incidere sull’assetto
urbanistico-edilizio del territorio, siccome dotate di consistenza e
stabilità, e riconducibili, quindi, al novero degli interventi di nuova
costruzione di cui al citato art. 3, comma 1, lett. e), del d.p.r. n.
380/2001, le quali necessitano, per la loro realizzazione, del previo
rilascio del permesso di costruire (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 4169/2018;
TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 10729/2014; TAR Lombardia, Brescia, sez. II, n.
1728/2015; TAR Campania, Napoli, sez. II, n. 3996/2016; TAR Molise,
Campobasso, n. 317/2017; TAR Piemonte, Torino, sez. II, n. 160/2018; TAR
Veneto, Venezia, sez. II, n. 663/2018);
- alla stregua della descrizione contenuta nella gravata ordinanza
di demolizione n. 13 del 13.02.2019, e in mancanza di sufficienti prove
contrarie da parte dei ricorrenti (non potendosi considerare dirimente la
documentazione a corredo della relazione tecnica asseverata da essi
esibita), l’intervento controverso presenta, all’evidenza, i caratteri
propri delle su indicate tipologie di attività di trasformazione del
territorio;
- pertanto, esso necessitava del previo rilascio del permesso di
costruire, in mancanza del quale legittimamente è stata applicata la misura
ripristinatoria;
- così come necessitava pure del previo rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, non essendo riconducibile al perimetro di
esenzione definito dall’art. 149, lett. b), del d.lgs. n. 42/2004 (a norma
del quale non sono subordinati ad autorizzazione paesaggistica «gli
interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non
comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni
edilizie ed altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere
che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio»), ed era,
quindi, anche sotto questo profilo, esposto alla sanzione demolitoria di cui
al comma 1 dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non essendo annoverabile tra
i c.d. abusi minori di cui al successivo comma 4;
- a tale ultimo riguardo, giova richiamare il condivisibile arresto
sancito da TAR Campania, Salerno, sez. I, n. 59/2015, secondo cui, da un
lato, la necessità di preventiva autorizzazione paesaggistica riguarda
ogni attività comportante una modificazione dell'assetto territoriale, ivi
compresa la conformazione dei luoghi, e secondo cui, d’altro lato,
non sono ravvisabili gli estremi dell’abuso ‘minore’ nelle opere di
sbancamento del terreno finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli,
atteso che esse incidono sullo stesso tessuto urbanistico del territorio e
ne alterano la morfologia (cfr. anche TAR Liguria, Genova, sez. I, n.
876/2014; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 10729/2014)
(TAR Calabria-Salerno, Sez. II,
sentenza 04.09.2019 n. 1491 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI:
1.- Appalti Pubblici – gara – RUP – Commissione Giudicatrice – attività –
differenze.
2.- Appalti Pubblici – gara – varianti e mere migliorie – identificazione e
distinzioni – discrezionalità valutativa – sussiste.
1. Nell’ambito della ordinaria attività di vigilanza
sulla regolarità della procedura di gara il RUP è tenuto a rappresentare
alla Commissione Giudicatrice le proprie perplessità su eventuali aspetti
controversi della procedura e delle offerte dei concorrenti laddove
presentino aspetti di criticità con le previsioni della lex specialis.
Gli ambiti e i ruoli della Commissione e del RUP però sono diversi: la
Commissione è deputata a giudicare le offerte tecniche ed economiche e il
RUP ha essenzialmente la funzione di gestione del procedimento di gara e il
ruolo di fornire alla stazione appaltante gli elementi idonei per una
corretta e consapevole formazione della volontà contrattuale
dell’Amministrazione.
2. Nell’attività di valutazione e qualificazione delle proposte progettuali
ai fini della loro riconduzione nell’ambito delle varianti o delle mere
migliorie, vi è un ampio margine di discrezionalità tecnica della
Commissione giudicatrice, censurabile dal giudice amministrativo ove sia
trasmodata in una irragionevolezza o illogicità della valutazione, vizi
riguardo ai quali è ammissibile il sindacato processuale di legittimità, sul
presupposto, peraltro, che nessuna disposizione normativa definisce il
concetto di miglioria e/o di variante progettuale in fase di gara, sicché le
distinzioni della specie sono appunto offerte dall’orientamento
giurisprudenziale (massima
free tratta da www.giustamm.it).
---------------
La ricorrente richiama a supporto della censurata violazione della lex
specialis la nota inviata dal RUP alla Commissione giudicatrice (prot. n.
33933) in avvio della attività di verifica della congruità delle offerte, ma
le valutazioni espresse dal RUP non possono sostituire quelle della
Commissione giudicatrice la quale, nelle gare pubbliche di appalto, per la
cui aggiudicazione è prescelto il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, come nella specie, ha competenza esclusiva riguardo
all’attività valutativa delle offerte tecniche dei concorrenti.
Ed infatti nell’ambito della ordinaria attività di vigilanza sulla
regolarità della procedura di gara il RUP è tenuto a rappresentare alla
Commissione Giudicatrice le proprie perplessità su eventuali aspetti
controversi della procedura e delle offerte dei concorrenti laddove
presentino aspetti di criticità con le previsioni della lex specialis.
Gli
ambiti e i ruoli della Commissione e del RUP però sono diversi: la
Commissione è deputata a giudicare le offerte tecniche ed economiche e il
RUP ha essenzialmente la funzione di gestione del procedimento di gara e il
ruolo di fornire alla stazione appaltante gli elementi idonei per una
corretta e consapevole formazione della volontà contrattuale
dell’Amministrazione (cfr. in tal senso, Cons. Stato, sez.V, 18.12.2017, n. 5934; Tar Lazio, sez. II,
09.07.2018, n. 7630).
Nella specie la Commissione Giudicatrice competente alla valutazione delle
offerte tecniche, nel riscontrare la nota di osservazioni del RUP, riferisce
di aver “riscontrato in tutte le singole proposte progettuali gli estremi
della loro non riconducibilità al genus della variante ma a quello delle
proposte migliorative”, affermazione che conferma l’ammissibilità delle
offerte valutate.
Ed invero nell’attività di valutazione e qualificazione delle proposte
progettuali ai fini della loro riconduzione nell’ambito delle varianti o
delle mere migliorie, vi è un ampio margine di discrezionalità tecnica della
Commissione giudicatrice riguardo la quale il Collegio non rinviene elementi
sintomatici di manifesta inattendibilità del giudizio in relazione alla
contestata qualificazione degli elementi migliorativi della proposta
progettuale in questione; tale valutazione non è trasmodata in una
irragionevolezza o illogicità della valutazione, vizi riguardo ai quali è
ammissibile il sindacato di legittimità (cfr., ex multis, Cons.Stato sez. V,
17.01.2018, n. 269; id. 10.01.2017, n. 42; Tar Sicilia, Palermo,
sez. III, 05.09.2018, n. 1898)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 29.08.2019 n. 10671 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Commistione
fra i criteri soggettivi di qualificazione e
quelli oggettivi afferenti alla valutazione
dell’offerta.
Principio generale regolatore delle gare
pubbliche è quello che vieta la commistione
fra i criteri soggettivi di qualificazione e
quelli oggettivi afferenti alla valutazione
dell’offerta ai fini dell’aggiudicazione;
detto principio si correla all’esigenza di
aprire il mercato, premiando le offerte più
competitive ove presentate da imprese
comunque affidabili, unitamente al canone di
par condicio, che osta ad asimmetrie
pregiudiziali di tipo meramente soggettivo.
La composizione dei due principi trova
supporto logico e giuridico proprio nella
necessaria distinzione tra i requisiti
richiesti per la partecipazione alla gara,
che attengono all’operatore, e i criteri di
valutazione, che invece attengono
all’offerta e all’aggiudicazione; non solo,
il principio si pone anche a tutela delle
capacità competitive delle piccole e medie
imprese che presentano un profilo esperienziale meno marcato ed è la stessa
esigenza cui tende il legislatore laddove
prevede –nell’art. 95, comma 6, del d.lgs.
n. 50/2016- tra i criteri di selezione
utilizzabili, “l’organizzazione, le
qualifiche e l’esperienza del personale
effettivamente utilizzato nell’appalto,
qualora la qualità del personale incaricato
possa avere un’influenza significativa sul
livello di esecuzione dell’appalto.
Il problema della commistione tra i due
parametri sorge perché la distinzione tra
canone oggettivo di valutazione dell’offerta
e requisito soggettivo del competitore,
seppure chiara sul piano teorico, può
diventare ardua sul piano concreto, stante
la potenziale idoneità dei profili di
organizzazione soggettiva a riverberarsi
sull’affidabilità e sull’efficienza
dell’offerta, ossia sulle modalità di
esecuzione della prestazione
contrattualmente dovuta.
Al riguardo, la giurisprudenza precisa che
il divieto di commistione fra criteri
soggettivi e oggettivi, afferenti alla
valutazione dell’offerta, non è eluso solo
quando gli aspetti organizzativi o le
professionalità risultanti dal curriculum
dell’operatore sono destinati ad essere
apprezzati quale garanzia della migliore
esecuzione della specifica prestazione
richiesta, sicché integrano dei parametri
afferenti alle caratteristiche oggettive
dell'offerta.
Il
parametro cui ancorare la valutazione della
sussistenza di tale diretto riflesso di un
requisito soggettivo sul contenuto della
prestazione è l’oggetto del contratto da
aggiudicare, proprio perché la norma di
riferimento individua quali validi criteri
di valutazione dell’offerta solo quelli
pertinenti alla natura, all’oggetto e alle
caratteristiche del contratto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 28.08.2019 n. 1928 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
La censura è fondata.
Come è noto, l’art. 95, comma 6, del d.l.vo
2016 n. 50 precisa che i documenti di gara
stabiliscono i criteri di aggiudicazione
dell’offerta, pertinenti alla natura,
all’oggetto e alle caratteristiche del
contratto. In particolare, l’offerta
economicamente più vantaggiosa individuata
sulla base del miglior rapporto
qualità/prezzo, è valutata sulla base di
criteri oggettivi, quali gli aspetti
qualitativi, ambientali o sociali, connessi
all’oggetto dell'appalto; segue
un’elencazione non tassativa dei profili che
possono assurgere a contenuto dei criteri
valutazione.
La norma –come già accadeva durante la
vigenza del d.l.vo 2006 n. 163– ribadisce,
a più riprese, la necessaria correlazione
tra i criteri di aggiudicazione e la natura,
l’oggetto e le caratteristiche del
contratto: i criteri devono riguardare il
particolare oggetto del contratto da
affidare.
Alla stregua di una consolidata
giurisprudenza, comunitaria e nazionale,
condivisa dal Tribunale, costituisce
principio generale regolatore delle gare
pubbliche quello che vieta la commistione
fra i criteri soggettivi di qualificazione e
quelli oggettivi afferenti alla valutazione
dell’offerta ai fini dell’aggiudicazione.
Detto principio si correla all’esigenza di
aprire il mercato, premiando le offerte più
competitive ove presentate da imprese
comunque affidabili, unitamente al canone di
par condicio, che osta ad asimmetrie
pregiudiziali di tipo meramente soggettivo;
la composizione dei due principi trova
supporto logico e giuridico proprio nella
necessaria distinzione tra i requisiti
richiesti per la partecipazione alla gara,
che attengono all’operatore e i criteri di
valutazione, che invece attengono
all’offerta e all’aggiudicazione (cfr., ex plurimis, Consiglio Stato, sez. V, 14.10.2008, n. 4971; Consiglio di Stato,
sez. V, 20.08.2013, n. 4191; Consiglio
di Stato, sez. V, 12.11.2015, n. 5181;
TAR Lazio 20.01.2016, n. 19; TAR
Campania Napoli, sez. VIII, 06.03.2017, n. 1293).
Non solo, il principio si pone anche a
tutela delle capacità competitive delle
piccole e medie imprese, che presentano un
profilo esperienziale meno marcato ed è la
stessa esigenza cui tende il legislatore
laddove prevede –sempre nel citato art. 95,
comma 6, del d.l.vo 2016 n. 50- tra i
criteri di selezione utilizzabili,
“l’organizzazione, le qualifiche e
l’esperienza del personale effettivamente
utilizzato nell’appalto, qualora la qualità
del personale incaricato possa avere
un’influenza significativa sul livello di
esecuzione dell’appalto”.
Il problema della commistione tra i due
parametri sorge perché la distinzione tra
canone oggettivo di valutazione dell’offerta
e requisito soggettivo del competitore,
seppure chiara sul piano teorico, può
diventare ardua sul piano concreto, stante
la potenziale idoneità dei profili di
organizzazione soggettiva a riverberarsi
sull’affidabilità e sull’efficienza
dell’offerta, ossia sulle modalità di
esecuzione della prestazione
contrattualmente dovuta.
La giurisprudenza precisa che il divieto di
commistione fra criteri soggettivi e
oggettivi, afferenti alla valutazione
dell’offerta, non è eluso solo quando gli
aspetti organizzativi o le professionalità
risultanti dal curriculum dell’operatore
sono destinati ad essere apprezzati quale
garanzia della migliore esecuzione della
specifica prestazione richiesta, sicché
integrano dei parametri afferenti alle
caratteristiche oggettive dell'offerta (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 15.12.2010, n. 8933; Consiglio di Stato, sez. V,
25.06.2010, n. 4086; ).
Il parametro cui ancorare la valutazione
della sussistenza di tale diretto riflesso
di un requisito soggettivo sul contenuto
della prestazione è l’oggetto del contratto
da aggiudicare, proprio perché la norma di
riferimento individua quali validi criteri
di valutazione dell’offerta solo quelli
pertinenti “alla natura, all’oggetto e alle
caratteristiche del contratto” (cfr. anche
di recente, Consiglio di Stato, sez. V, 17.01.2018, n. 279). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Discarica abusiva – Nozione di gestione abusiva
dei rifiuti – Condotte iniziale di trasformazione di un sito
– Condotte conseguenziali idonee ad integrare il reato –
Contributo sia attivo che passivo – configura – Art. 256
d.lgs. n. 152/2006 – Giurisprudenza.
In tema di gestione dei rifiuti, integra
il reato di realizzazione di discarica abusiva la condotta
di accumulo di rifiuti che, per le loro caratteristiche, non
risultino raccolti per ricevere nei tempi previsti una o più
destinazioni conformi alla legge e comportino il degrado
dell’area su cui insistono.
Quanto alle condotte idonee ad integrare in via generale la
nozione di gestione di una discarica abusiva, il reato, già
previsto dall’art. 25 d.P.R. 10.09.1982, n. 915 e
successivamente recepito dall’art. 256, comma terzo, del
d.lgs. n. 152 del 2006 e, da ultimo, dall’art. 6, comma
primo, lett. e), del D.L. 06.11.2008, n. 172, convertito in
l. 30.11.2008, n. 210, deve essere inteso in senso ampio,
comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo,
diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e
mantenere il grave stato del fatto-reato, strutturalmente
permanente.
Di conseguenza, devono ritenersi sanzionate non solo le
condotte di iniziale trasformazione di un sito a luogo
adibito a discarica, ma anche tutte quelle che
contribuiscano a mantenere tali, nel corso del tempo, le
condizioni del sito stesso
(Cass. Sez. 3, n. 12159 del 15/12/2016 – dep. 14/03/2017) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.08.2019 n. 36456 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati paesaggistici –
Accertamento delle condizioni e dei presupposti di
operatività della causa di non punibilità – Onere di
allegazione – Poteri del giudice – Inerzia dell’interessato
– Artt. 167, 181 d.lgs. n. 42/2004.
In materia di tutela paesaggistica, grava sull’imputato
l’onere di allegare gli elementi necessari all’accertamento
delle condizioni e dei presupposti di operatività della
causa di non punibilità di cui all’art. 181-ter del d.lgs.
n. 42 del 2004, non essendo tenuto il giudice del merito a
esercitare d’ufficio i propri poteri istruttori per
surrogarsi all’inerzia dell’interessato.
In altri termini,
il principio dispositivo –per cui la ricerca del materiale
probatorio necessario per la decisione è riservata alle
parti tra le quali si distribuisce in base all’onere della
prova– è temperato dai poteri istruttori del giudice del
merito, il quale, ove la documentazione prodotta si rilevi
insufficiente, ben può procedere ad integrarla anche di
ufficio, senza tuttavia surrogarsi all’inerzia ed agli oneri
di prospettazione, di impulso probatorio o –come nel caso
di specie– di allegazione della parte che ha interesse a
fornire al giudice le indicazioni e gli elementi necessari
all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano
idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo
favore.
Ne discende, dunque, che il mancato esercizio dei
poteri istruttori officiosi del giudice di merito non è
sindacabile in sede di legittimità (fattispecie nella quale
la carente allegazione difensiva non consentiva di stabilire
con certezza quali opere fossero comprese
nell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla
sovrintendenza competente).
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Limitato impatto ambientale –
Accertamento della compatibilità paesaggistica –
Applicazione della causa di particolare tenuità del fatto –
Causa di non punibilità di cui all’art. 181, comma 1-ter, d.lgs. n. 42/2004 – Presupposti di fatto e di diritto
legittimanti la sanatoria paesaggistica – Verifica.
In tema di reati paesaggistici, ai fini della concessione
della causa di particolare tenuità del fatto, è necessario
non solo un accertamento della compatibilità paesaggistica
che deve essere rilasciato dalla sovrintendenza, ma anche un
accertamento da parte del giudice dell’esistenza dei
presupposti di fatto e di diritto per la concessione della
sanatoria.
Infatti, il rilascio della valutazione di
compatibilità paesaggistica, all’esito della procedura
prescritta dall’art. 181 del Digs. 22.01.2004, n. 42,
non determina automaticamente la non punibilità del reato
paesaggistico, in quanto è obbligo del giudice accertare la
sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto
legittimanti la sanatoria paesaggistica (Sez. 3, sentenza n.
889 del 29/11/2011).
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati paesaggistici –
Autorizzazione paesaggistica può essere rilasciata in
sanatoria – Causa di estinzione che estingue la punibilità
in astratto – Rimessione in pristino da parte dell’autore
dell’abuso- GIURISPRUDENZA.
La causa di estinzione del reato che estingue la punibilità
in astratto, rappresentata dall’art. 181, comma 1-quinquies,
d.lgs. n. 42 del 2004, non può operare nel caso di condanna
anche non irrevocabile ed invero la sua applicazione è
subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte
dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita
coattivamente su impulso dell’autorità amministrativa (Cass. Sez. 3, n. 35412 del 14/04/2016; Sez. 3, n. 37140 del
10/04/2013; Sez. 3, n. 3064 del 05/12/2007).
Nel caso di specie, i giudici di merito, hanno ritenuto non
operante la causa di estinzione del reato, perché la
demolizione non è intervenuta prima della ordinanza
amministrativa che aveva disposto la demolizione né prima
della condanna.
Per inciso, a seguito della legge n.
308/2004 l’autorizzazione paesaggistica può essere
rilasciata in sanatoria dopo la realizzazione anche parziale
degli interventi in caso di interventi minori che non
determinano la creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento degli stessi o di interventi di mera manutenzione:
infatti, è stata prevista la possibilità di una valutazione
postuma all’esito della quale non si applica il reato contravvenzionale, dal momento che gli interventi non
incidono o non sono idonei ad incidere sull’integrità del
bene ambiente (Cass., Sez. III,
n. 7216/2011) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.08.2019 n. 36454 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Pianificazione urbanistica – Convenzione di lottizzazione –
Rilascio permessi di costruire – Lottizzazione abusiva c.d.
“cartolare” o negoziale – Configurabilità – Artt. 30, 44
D.P.R. n. 380/2001.
In materia di pianificazione
urbanistica, oltre, laddove manchi la necessaria
autorizzazione, il reato di lottizzazione abusiva non è
escluso dal rilascio dei permessi di costruire, posto che la
convenzione di lottizzazione prevede anche l’accollo di una
quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria –
nemmeno l’impegno del privato ad eseguire le opere di
urbanizzazione primaria nel contesto del rilascio di un
titolo edilizio può surrogare la mancanza di un piano di
lottizzazione, poiché l’urbanizzazione dei terreni deve
essere programmata per zona e non avvenire in occasione
dell’edificazione dei singoli lotti, sicché costituisce
lottizzazione abusiva anche la nuova utilizzazione del
terreno a scopo di insediamento residenziale pur se sia
richiesto il permesso di costruire ovvero siano rilasciati
una pluralità di permessi nella zona interessata dal nuovo
insediamento, tanto più che il permesso di costruire non ha
la funzione di pianificare l’uso del territorio.
...
Lottizzazione abusiva “mista” – Natura della contravvenzione
– Reato a forma libera e progressivo nell’evento – Atti di
frazionamento o esecuzione delle opere – Riserva autorità
amministrativa dell’assetto urbanistico – T.U.E.-
Integrazione del reato anche a titolo di sola colpa.
La contravvenzione di lottizzazione
abusiva è reato a forma libera e progressivo nell’evento,
che sussiste anche quando l’attività posta in essere sia
successiva agli atti di frazionamento o all’esecuzione delle
opere, posto che tali iniziali attività non esauriscono
l”iter” criminoso, che si protrae attraverso gli ulteriori
interventi che incidono sull’assetto urbanistico, con
ulteriore compromissione delle scelte di destinazione ed uso
del territorio riservate all’autorità amministrativa
competente (Sez.
3, n. 14053 del 20/02/2018, Ammaturo e a.).
Per significare che, in siffatti casi, alla
lottizzazione negoziale segue quella materiale si parla
comunemente di lottizzazione “mista”. Inoltre, il reato di
lottizzazione abusiva può essere integrato anche a titolo di
sola colpa (Sez.
3, n. 38799 del 16/09/2015; De Paola; Sez. 3, n. 17865 del
17/03/2009, Quarta e aa. Sez. 3, n. 36940 del 11/05/2005,
Stiffi e a.).
...
Lottizzazione abusiva c.d. “mista” – Momento consumativo del
reato – Calcolo dei termine di prescrizione inizio e
decorrenza – Disciplina del reato permanente – Applicazione.
In presenza di lottizzazione abusiva
c.d. “mista”, il momento consumativo del reato si individua,
per tutti coloro che concorrono o cooperano nel reato, nel
compimento dell’ultimo atto integrante la condotta illecita,
che può consistere nella stipulazione di atti di
trasferimento, nell’esecuzione di opere di urbanizzazione o
nell’ultimazione dei manufatti che compongono
l’insediamento; ne consegue che, ai fini del calcolo del
tempo necessario per la prescrizione, per il concorrente non
è rilevante il momento in cui è stata tenuta la condotta di
partecipazione, ma quello di consumazione del reato, che può
intervenire anche a notevole distanza di tempo
(Sez. 3, n. 48346 del 20/09/2017, Bortone e aa.).
Dovendosi, applicare la disciplina del
reato permanente, il termine di prescrizione inizia a
decorrere solo dopo l’ultimazione sia dell’attività
negoziale, sia dell’attività di edificazione, e cioè, in
quest’ultima ipotesi, dopo il completamento dei manufatti
realizzati sui singoli lotti oggetto del frazionamento
(Sez. 3, ord. n. 24985 del 20/05/2015, Diturco e a.; Sez. 3,
n. 35968 del 14/07/2010, Rusani e a.).
...
Lottizzazione abusiva c.d. cartolare o negoziale – Natura di
contravvenzione a consumazione anticipata – Condotta – Reato
a consumazione alternativa.
Il reato di lottizzazione abusiva c.d.
cartolare o negoziale, ha natura di contravvenzione a
consumazione anticipata, nel senso che il reato è integrato
non solo dalla trasformazione effettiva del territorio, ma
da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo
il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da
quella programmata
(Sez. 3, n. 37383 del 16/07/2013, Desimine e aa.)
rispetto ad opere che, per caratteristiche o
dimensioni, siano idonee a pregiudicare la riserva pubblica
di programmazione territoriale
(Sez. 3, n. 15404 del 21/01/2016, Bagliani e a.).
Il reato di lottizzazione abusiva è dunque
configurabile con riferimento a zone di nuova espansione o
scarsamente urbanizzate relativamente alle quali sussiste
un’esigenza di raccordo con il preesistente aggregato
abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione
(Sez. 3, n. 6629 del 07/01/2014, Giannattasio e aa.),
sicché, se da un lato deve escludersi con
riferimento a zone completamente urbanizzate, d’altro lato è
invece configurabile sia con riferimento a zone
assolutamente inedificate, sia con riferimento a zone
parzialmente urbanizzate in cui sussista un’esigenza di
raccordo con il preesistente aggregato abitativo
(Sez. 3, n. 37472 del 26/06/2008, Belloi e a.).
Quanto alla condotta, la contravvenzione di
lottizzazione abusiva si configura come reato a consumazione
alternativa, potendo realizzarsi sia quando manchi un
provvedimento di autorizzazione, sia quando quest’ultimo
sussista ma contrasti con le prescrizioni degli strumenti
urbanistici, in quanto grava sui soggetti che predispongono
un piano di lottizzazione, sui titolari di concessione, sui
committenti e costruttori l’obbligo di controllare la
conformità dell’intera lottizzazione e delle singole opere
alla normativa urbanistica e alle previsioni di
pianificazione
(Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Salvini; Sez. 3,
n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi e aa.).
...
Lottizzazione abusiva – Configurabilità – Elementi indiziari
– Trasformazione urbanistica od edilizia del territorio.
Ai fini della configurabilità del reato
di lottizzazione abusiva negoziale o cartolare,
l’elencazione degli elementi indiziari di cui all’art. 30,
comma primo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non è tassativa né
tali elementi devono sussistere contemporaneamente, in
quanto è sufficiente per l’integrazione del reato anche la
presenza di uno solo di essi, purché risulti inequivocamente
la destinazione a scopo edificatorio del terreno.
Peraltro, ai fini della integrazione del reato, il
frazionamento di un terreno non deve necessariamente
avvenire mediante apposita operazione catastale che preceda
le vendite o gli atti di disposizione, ma può realizzarsi
con ogni altra forma di suddivisione fattuale dello stesso;
l’espressione in questione, infatti, da intendersi in modo
atecnico, si riferisce a qualsiasi attività giuridica che
abbia per effetto la suddivisione in lotti di un’area di più
ampia estensione, comunque predisposta od attuata,
attribuendone la disponibilità a terzi al fine di realizzare
una non consentita trasformazione urbanistica od edilizia
del territorio.
Ciò che conta, è che il contesto indiziario sia idoneo a
rivelare in modo non equivoco la finalità edificatoria, che
costituisce l’elemento comune alle varie forme (materiale,
negoziale, mista) in cui l’illecito può essere realizzato.
...
Assenza di piano particolareggiato di esecuzione – Stipula
di convenzioni – Effetti – L. n. 1150/1942.
In assenza di piano particolareggiato di
esecuzione, l’autorizzazione prevista dall’art. 28 della
legge urbanistica fondamentale (l. 17.08.1942, n. 1150),
vale a dire il provvedimento del Comune che approva il
progetto di lottizzazione presentato dai privati oppure
disposto d’ufficio e che dev’essere indefettibilmente
subordinato alla stipula di una convenzione volta a
prevedere, tra l’altro, la cessione gratuita delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e
secondaria e l’assunzione, a carico del proprietario, degli
oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di
una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria
relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano
necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi (art.
28, quinto comma, I. 1150 del 1942) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.08.2019 n. 36397 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistici – Misure cautelari – Rilevanza del
sequestro – Calcolo della prescrizione.
In materia di misure cautelari, la
rilevanza del sequestro ai fini del decorso del termine di
prescrizione nei reati urbanistici nulla ha a che vedere con
il giudizio sulla legittimità o meno della misura, venendo
invece in rilievo per il solo, oggettivo, fatto che lo
spossessamento che la stessa comporta determina la forzosa
interruzione dell’attività illecita.
Per questa ragione, in un caso analogo, si è ad es.
affermato che la permanenza del reato di edificazione
abusiva cessa a seguito dell’interruzione dei lavori
conseguente all’ordine di sospensione emanato dall’autorità
comunale, anche ove tale ordine sia divenuto successivamente
inefficace perché non seguito, nel termine previsto dalla
normativa, dal sequestro amministrativo dell’opera abusiva
(Sez. 3, n. 49990 del 04/11/2015, Quartieri e aa.),
dovendosi, anzi, osservare che l’eventuale
dissequestro potrebbe eventualmente consentire lo
spostamento del dies a quo per il calcolo della prescrizione
qualora ne conseguisse la prosecuzione dei lavori illeciti
(cfr. Sez. 3, n. 11646 del 16/10/2014, dep. 2015, Barbuzzi e
aa.; Sez. 3, n. 5480 del 12/12/2013, dep. 2014, Manzo)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.08.2019 n. 36397 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Legittimazione
a impugnare un permesso di costruire
residenziale da parte di operatore
commerciale.
E' inammissibile un
ricorso di un operatore commerciale contro
un permesso di costruire in sanatoria
rilasciato a terzi con oggetto un intervento
residenziale, in quanto nel caso di specie
il confronto è tra interessi disomogenei e
la lesione dell’interesse commerciale della
ricorrente è puramente teorico, proprio in
considerazione dell’astratta possibilità di
scontro tra l’interesse economico e quello
residenziale dipendente dal paventato
rischio di contenziosi promossi dal vicino
in conseguenza delle immissioni acustiche o
di altra natura provenienti dal fondo in cui
viene svolta l’attività economica, conflitto
che ha carattere del tutto eventuale e
ipotetico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.08.2019 n. 1914 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. I ricorso sono inammissibili per carenza
di interesse a ricorrere.
Appartiene ad una giurisprudenza pressoché
consolidata il principio secondo cui
l’impugnazione dei titoli edilizi è
consentita in capo a chiunque si trovi in
una situazione di stabile collegamento con
la zona interessata dalla costruzione
assentita, a prescindere da ogni indagine
sulla sussistenza di uno specifico
interesse, essendo sufficiente la
“vicinitas” quale elemento che distingue la
posizione giuridica di un soggetto da quella
della generalità dei consociati (Cons. St.
IV sez. 18/04/2014 n. 1995; Cons. St. V sez.
21/05/2013 n. 2757; TAR Molise 26/05/2014 n.
346; TAR Campania–Salerno I sez. 01/10/2012
n. 1750).
In tema di interesse e legittimazione
all’impugnativa di titoli edilizi la
giurisprudenza si è da tempo attestata sul
concetto di vicinitas idonea a circoscrivere
la generalizzata legittimazione prevista
dalla legge. Tale vicinitas presuppone in
estrema sintesi un nesso tra l’intervento
edilizio o urbanistico e la sfera giuridica
del soggetto che tale iniziativa censura in
via giurisdizionale di talché l’intervento
sia in grado di incidere in maniera
oggettivamente apprezzabile sulla sfera del
ricorrente.
Secondo un diffuso orientamento
giurisprudenziale, “se in linea generale,
l’interesse a ricorrere nel processo
amministrativo è caratterizzato dagli stessi
requisiti che qualificano l’interesse ad
agire di cui all’art. 100 c.p.c., in materia
edilizia la giurisprudenza più recente
[specifica] che la cd. vicinitas, cioè una
situazione di stabile collegamento giuridico
con il terreno oggetto dell’intervento
costruttivo autorizzato, è sufficiente a
radicare la legittimazione del confinante e
che non è necessario accertare, in concreto,
se i lavori assentiti dall’atto impugnato
comportino o no un effettivo pregiudizio per
il soggetto che propone l’impugnazione, in
quanto la realizzazione di interventi che
comportano un’alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio che è
pregiudizievole in re ipsa in quanto
consegue necessariamente dalla maggiore
antropizzazione, dalla minore qualità
panoramica, ambientale, paesaggistica e
dalla possibile diminuzione del valore
dell’immobile; ciò esime, di norma, il
giudice da qualsiasi necessità di accertare,
in concreto, se i lavori assentiti dall’atto
impugnato comportino o non un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone
l’impugnazione” (Consiglio di Stato, sez.
VI, 07.06.2018, n. 3460).
Secondo la tesi
esposta da parte della giurisprudenza,
risulta, quindi, sufficiente la sussistenza
della condizione di vicinitas che “non deve
essere verificata in base al solo dato
“fisico” della distanza, poiché tale
elemento deve essere in concreto valutato
dal Giudice in relazione alla entità ed alla
destinazione dell’immobile […] (dovendosi,
al contrario, considerare anche le
modificazioni di carico urbanistico e le
conseguenze sul diritto alla salute e sulle
ordinarie esigenze di vita che la nuova
costruzione potrà apportare sui soggetti che
hanno uno stabile collegamento con la zona
interessata)” (Consiglio di Stato, sezione IV, 26.04.2018, n. 2529; cfr., nella
giurisprudenza del Giudice d’appello,
Consiglio di Stato, sez. IV, 03.05.2019,
n. 2891; Id., sez. VI, 29.03.2019, n.
2100).
Un diverso orientamento si è invece formato
nel caso in cui la vicinitas sia
accompagnata non da un interesse
urbanistico/edilizio ma da un interesse
prettamente commerciale, cioè quando il
titolo edilizio influisce sulle posizioni di
mercato di un operatore economico.
Si tratta all’evidenza di interessi diversi,
facendo il primo riferimento all’interesse
edilizio/urbanistico e all’idoneità
dell’intervento ad incidere in maniera
oggettivamente apprezzabile sulla sfera di
altro soggetto, il secondo all’interesse
commerciale al regolare svolgimento della
concorrenza e alla posizione di un operatore
del settore potenzialmente in grado di
subire un influsso negativo sulla propria
posizione di mercato (in questo senso TAR
Liguria I sez. 26/11/2012 n. 1507).
In linea generale un operatore commerciale o
produttivo non ha, di norma, alcun interesse
a censurare un titolo edilizio rilasciato a
terzi per ragioni strettamente edilizie o
urbanistiche. Salvo casi eccezionali e privi
di rilevanza statistica (si pensi al caso di
un intervento che peggiori notevolmente la
viabilità di accesso ad un esercizio
commerciale e simili), l’operatore
commerciale o produttivo è del tutto
indifferente all’esercizio dell’attività
edilizia.
Anche l’interesse urbanistico è flebile. Il
principio di separazione funzionale delle
destinazioni urbanistiche, in base al quale
il territorio comunale è diviso in zone
omogenee (c.d. zonizzazione), ha assunto
forme flessibili (in tal senso ad es. TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 23.04.2015
n. 651), perché ormai si riconosce che la
vivibilità della città è connessa ad un
sapiente mix delle varie funzioni, per cui
difficilmente gli ambiti produttivi sono del
tutto privi di settori destinati alla
residenza. Né la ricorrente ha dato alcuna
prova dei caratteri propri dell’area in
questione, ma solo della destinazione dei
propri immobili e di quello vicino di via
Salomone 67, dimostrando che non ha alcun
interesse specifico al mantenimento dei
caratteri della zona in cui è inserita.
Proprio per tali ragioni un diverso
orientamento, muovendosi sul solco dei
concetti elaborati dalla giurisprudenza (cfr.,
Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 23.02.2014 n. 9), nell’allargare l’ambito
di applicazione del criterio della vicinitas,
afferma che “la vicinitas non può ex se
radicare la legittimazione al ricorso, in
assenza di prove in ordine ai pregiudizi
derivanti dal rilascio del titolo edilizio a
terzi” (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV,
27.01.2002, n. 420).
Infatti, la
nozione di vicinitas consente “in astratto,
di censurare i titoli abilitativi rilasciati
per la realizzazione di una nuova attività
economica al titolare di analoghe attività
nella zona che si trovi in situazione di
stabile collegamento con la stessa”, purché,
tuttavia, “vi sia un reale pregiudizio che
venga a derivare dalla realizzazione
dell'intervento assentito, specificando con
riferimento alla situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale misura il
provvedimento impugnato incida la posizione
sostanziale dedotta in causa, determinandone
una lesione concreta, immediata e di
carattere attuale” (cfr.,
ex multis,
Consiglio di Stato, sez. V, 22.12.2017, n. 5442) (in tal senso TAR Lombardia,
Milano, sez. II 22/05/2019 n. 1147).
Il concetto di vicinitas si allarga quindi
alla tutela di interessi commerciali a
condizione che si tratti di contrasto tra
interessi commerciali o produttivi omogenei,
finalizzata alla tutela della concorrenza, e
che sia dimostrata la lesione immediata e
diretta di tale interesse. Anche le
dimensioni spaziali della vicinitas si
modificano rispetto a quella edilizia, in
quanto viene valutata l’esistenza di una
concorrenza tra gli operatori economici.
Nel caso di specie, invece, il confronto è
tra interessi disomogenei e la lesione
dell’interesse commerciale della ricorrente
è puramente teorico, proprio in
considerazione dell’astratta possibilità di
scontro tra l’interesse economico e quello
residenziale dipendente dal paventato
rischio di contenziosi promossi dal vicino
in conseguenza delle immissioni acustiche o
di altra natura provenienti dal fondo in cui
viene svolta l’attività economica, conflitto
che ha carattere del tutto eventuale e
ipotetico (in tal senso TAR Lombardia,
Milano, sez. II 22/05/2019 n. 1147).
Del resto, per principio generale,
la
lesione che radica l’interesse –e, dunque,
l’onere ad una tempestiva impugnazione–
deve essere attuale e non può discendere da
un pregiudizio solo futuro ed eventuale.
L’interesse a ricorrere, invero, deve
essere, oltre che personale e diretto, anche
attuale e concreto, ossia deve essere tale
che in caso di accoglimento del gravame il
ricorrente consegua il vantaggio di vedere
rimosso il pregiudizio diretto e immediato
che gli deriva dal provvedimento
amministrativo, non ravvisandosi tale
situazione in coloro i quali possono
astrattamente subire tale lesione da
comportamenti successivi ed incerti,
ricollegabili solo in via ipotetica alla
condotta altrui.
In definitiva quindi i ricorsi vanno
dichiarati inammissibili. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
1.- Edilizia ed Urbanistica – lavori edili – fabbricato condominiale –
previo consenso del condominio – è necessario.
Per i lavori edili che riguardino un fabbricato
condominiale occorre il consenso dei condomini, (ex art. 1102 cod.) espresso
in sede assembleare, non rilevando l’asserita mancata incidenza sulla
facciata del fabbricato ed essendo invece dirimente che tali lavori incidano
sulla cosa comune (massima
free tratta da www.giustamm.it).
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4.- L’appello non è fondato, per le ragioni di seguito indicate
secondo un ordine differente da quello di prospettazione delle singole
censure sopra riportate.
In relazione alla censure relativa alla non necessità del consenso, l’art.
1102 cod. civ. dispone che «ciascun partecipante può servirsi della cosa
comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto». Nella
specie costituisce dato certo che i lavori in esame incidono sulla
destinazione della cosa comune, senza che rilevi l’asserita mancata
incidenza sulla facciata del fabbricato. Era, pertanto, necessario il
consenso di tutti i condomini per l’effettuazione dei lavori.
In relazione alla censura relativa alla mancata ricezione della richiesta
del verbale, la questione è superata dall’ordine istruttorio di deposito del
verbale stesso, disposto da questo Collegio. Dall’analisi del suo contenuto
emerge la mancanza della sottoscrizione del presidente e del segretario e,
soprattutto, la mancanza di una attuale autorizzazione allo svolgimento dei
lavori.
Risulta, infatti, che l’assemblea dei condomini ha chiesto alla
sig.ra To. di redigere un progetto, contenente un accertamento in ordine
alla tenuta del manufatto e del palazzo, subordinando espressamente al
rispetto di tale condizione il voto favorevole. Ne deriva che manca il
necessario consenso dei condomini per l’effettuazione dei lavori.
In relazione alla mancanza dei requisiti che devono sussistere ai fini
dell’esercizio di poteri di annullamento d’ufficio (art. 21-nonies della
legge n. 241 del 1990), gli stessi, invero, sono presenti. In particolare,
l’intervento edilizio non avrebbe potuto essere realizzato per le ragioni
indicate e l’interesse pubblico concreto ed attuale deriva dalla stessa
segnalazione di pericolo proveniente dai vigili del fuoco, a prescindere
dalla relazione causale tra il pericolo e la condotta dell’appellante.
5.- Per le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere rigettato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.08.2019 n. 5767 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanzione
pecuniaria per mancata ottemperanza
all’ordine di demolizione.
La sanzione pecuniaria contenuta nel comma
4-bis dell’art. 31 del DPR 380/2001
(introdotta con la legge n. 164 del 2014) è
finalizzata a sanzionare la mancata
rimozione dell’abuso –il presupposto è
rappresentato dalla constatata
inottemperanza all’ordine di demolizione– e
non la sua realizzazione, trattandosi di una
misura avente natura anche indirettamente ripristinatoria, oltre che sanzionatoria,
e perciò diretta a indurre i soggetti, che
pure potrebbero non avere responsabilità
nella realizzazione dell’abuso, a rimuovere
lo stesso, laddove ne abbiano la possibilità
materiale e giuridica.
Ne deriva che la
mancata esecuzione dell’ordinanza di
demolizione, proseguita dopo l’entrata in
vigore della menzionato comma 4-bis, impone
l’applicazione della sanzione da quest’ultimo
prevista, senza che ciò implichi violazione
del principio di irretroattività delle norme
che introducono misure sanzionatorie (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.08.2019 n. 1909 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Il ricorso non è meritevole di
accoglimento.
2. Con il primo e il terzo motivo
di ricorso, da trattare congiuntamente in
quanto strettamente connessi, si assume
l’inapplicabilità della sanzione pecuniaria
alla ricorrente, giacché al momento della
scadenza del termine di 90 giorni assegnato
per la demolizione dall’ordinanza n. 39a/08
–quale atto presupposto all’impugnata
ingiunzione pecuniaria– non era ancora
entrata in vigore la norma sanzionatoria di
cui al citato comma 4-bis dell’art. 31 del
D.P.R. n. 380 del 2001, sopravvenuta solo
nel 2014 (con la legge n. 164 del 2014);
inoltre la ricorrente non sarebbe l’autrice
dell’abuso, ma sarebbe totalmente estranea
alla realizzazione dello stesso.
2.1. Le doglianze sono infondate.
Secondo una pacifica giurisprudenza, gli
abusi edilizi hanno natura di illeciti
permanenti, in quanto la lesione
dell’interesse pubblico all’ordinato e
programmato assetto urbanistico del
territorio si protrae nel tempo sino al
ripristino della legittimità violata
(Consiglio di Stato, VI, 03.01.2019, n.
85; 04.06.2018, n. 3351).
La norma contenuta nel comma 4-bis dell’art.
31 è finalizzata a sanzionare la mancata
rimozione dell’abuso –il presupposto è
rappresentato dalla constatata
inottemperanza all’ordine di demolizione– e
non la sua realizzazione, trattandosi di una
misura avente natura anche indirettamente ripristinatoria, oltre che sanzionatoria, e
perciò diretta a indurre i soggetti, che
pure potrebbero non avere responsabilità
nella realizzazione dell’abuso, a rimuovere
lo stesso, laddove ne abbiano la possibilità
materiale e giuridica (Consiglio di Stato,
VI, 24.07.2019, n. 5242).
Ne deriva che la mancata esecuzione
dell’ordinanza n. 39a/08, proseguita dopo
l’entrata in vigore della menzionato comma
4-bis, “imponeva l’applicazione della
sanzione da quest’ultimo prevista, senza che
ciò implicasse violazione dell’invocato
principio di irretroattività delle norme che
introducono misure sanzionatorie” (Consiglio
di Stato, VI, 16.04.2019, n. 2484;
altresì 24.07.2019, n. 5242).
Va poi precisato che la Corte
Costituzionale, con la sentenza n. 345 del
15.07.1991, ha affermato il principio
secondo cui l’acquisizione dell’area di sedime al patrimonio indisponibile del
Comune ha natura di vera e propria sanzione
autonoma, che non può colpire il
proprietario che incolpevolmente non abbia
potuto dare esecuzione all’ordine di
demolizione dell’immobile abusivamente
realizzato sulla sua area, con l’implicito
corollario che ben può rispondere di tale
omissione il proprietario non autore
dell’abuso che sia tuttavia in condizione di
dare corso alla demolizione (sulla natura di
sanzione autonoma dell’atto di acquisizione
rispetto al presupposto ordine di
ripristino, cfr. da ultimo TAR Lombardia,
Milano, II, 04.04.2019, n. 746; più
diffusamente, TAR Campania, Napoli, IV,
26.02.2019, n. 1084), anche
incorrendo quindi nell’irrogazione della
sanzione pecuniaria di cui all’art. 31,
comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001.
La
giurisprudenza ha chiarito che la sanzione
pecuniaria non può trovare applicazione nei
confronti del proprietario non responsabile
dell’abuso e che non abbia il possesso del
bene per poter procedere alla demolizione,
mentre la responsabilità del proprietario
sorge nel caso in cui egli sia responsabile
dell’abuso ovvero quando, avendo la
disponibilità ed il possesso del bene o
avendoli successivamente acquisiti, non
abbia provveduto alla demolizione (cfr.
Consiglio di Stato, VI, 10.07.2017, n.
3391). Dal che la manifesta infondatezza
della questione di legittimità
costituzionale sollevata dalla ricorrente.
2.2. Ciò determina il rigetto delle predette
doglianze. |
EDILIZIA PRIVATA: Termine
per l’annullamento in via di autotutela.
Il TAR Milano, con
riguardo al lasso di tempo trascorso tra la
presentazione dei titoli edilizi e
l’intervento comunale in autotutela, ritiene
di aderire all’orientamento secondo cui le
nuove disposizioni introdotte dalla legge n.
124 del 2015 all’art. 21-nonies della legge
n. 241 del 1990 trovano applicazione solo ai
provvedimenti di annullamento in autotutela
che abbiano ad oggetto provvedimenti che
siano, anch’essi, successivi all’entrata in
vigore della nuova disposizione.
Al riguardo, il TAR considera che la nuova
disposizione ancora l’esercizio del potere
al momento di emanazione del primo atto
ponendo, quindi, una limitazione temporale
calibrata proprio sul provvedimento che
l’atto di secondo grado rimuove; la
generalizzata applicazione del termine dalla
data di entrata in vigore della legge 124
del 2015 muta il presupposto fondante su cui
poggia la previsione imponendo, in ogni
caso, l’adozione dell’atto di autotutela
–per i provvedimenti già emessi prima del
28.08.2015– necessariamente entro i 18 mesi
decorrenti da tale data; in tal modo, però,
si altera la ratio della norma nella sua
applicazione nella dinamica intertemporale,
trasformando la stessa in un termine
generale di definizione di tutti i
provvedimenti di secondo grado, relativi ad
atti già adottati prima della novella.
Sempre secondo il TAR, aderendo al diverso
orientamento la P.A. risulterebbe, in
sostanza, onerata di una verifica di tutti i
provvedimenti già adottati da consumarsi
entro un generale termine di 18 mesi onde
non vedersi precludere la possibilità di
successiva rimozione; in tal modo, però, per
gli atti adottati prima della novella il
termine di decorrenza dei 18 mesi non
risulta più fondarsi sulla data di
emanazione del singolo atto ma, al
contrario, sulla data di entrata in vigore
della legge; si perviene, così, al risultato
di negare la ratio della previsione che
intende calibrare temporalmente l’atto di
esercizio del potere sul provvedimento da
rimuovere
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.08.2019 n. 1907 -
commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. Con ricorso introduttivo, notificato in
data 30.03.2018 e depositato il 13 aprile
successivo, il ricorrente ha impugnato il
provvedimento conclusivo prot. generale n.
1551 del 01.02.2018, con il quale il Comune
di Inverigo, «ritenuto prevalente
l’interesse pubblico al rispristino della
legalità violata ...», ha disposto «l’annullamento
della SCIA depositata in data 02.11.2011
(SCIA 152/2011), in variante alla SCIA del
24.05.2011 (SCIA 71/2011), in uno con
l’integrazione depositata in data 19.12.2011
attraverso DIA “in variante alla SCIA
presentata in data 24.05.2011 – modifiche
della sagoma del box rispetto al progetto
iniziale realizzato sul terreno di
proprietà”».
Il ricorrente, in data 24.05.2011, ha
depositato presso il Comune di Inverigo una
s.c.i.a. finalizzata alla “apertura di
nuovo cancellino pedonale su Via Lambro –
realizzazione di box auto su terreno di
proprietà” da realizzarsi in Via ... n.
26, al mappale 2109 del Foglio 2 del
Censuario di Romanò Brianza (s.c.i.a. n.
71/2011); dopo alcune richieste di
integrazione documentale, in data 08.09.2011
è stato eseguito un sopralluogo da parte dei
tecnici comunali, attraverso il quale sono
state accertate alcune difformità in ordine
alla realizzazione del box (distanza di m
4,20 anziché 5,00 dal fabbricato principale
e altezza fuori terra lorda, misurata verso
la proprietà di terzi, di m 2,69/2,92,
anziché m 2,50).
In data 18.10.2011, l’Ufficio tecnico
comunale ha avviato il procedimento per
l’applicazione di misure sanzionatorie di
cui all’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001
e, il successivo 2 novembre, il ricorrente
ha presentato una s.c.i.a. in variante,
prevedendo la modifica del posizionamento
del box. A conclusione del procedimento è
stata emanata l’ordinanza n. 11 del
13.02.2012, con cui è stata ordinata la
demolizione del box/autorimessa, in quanto
realizzato in difformità dalla s.c.i.a del
24.05.2011; il sig. La Te. ha impugnato
davanti a questo Tribunale l’ordinanza di
demolizione, che è stata annullata con la
sentenza del 01.06.2012 n. 1515, per mancato
annullamento in autotutela ex art. 21-nonies
della legge n. 241 del 1990 della s.c.i.a.
n. 71/2011.
Riavviato il procedimento in data
02.07.2012, lo stesso è stato concluso con
la nota del 22.10.2012, che ha dato atto
dell’insussistenza delle ragioni di
interesse pubblico all’annullamento
d’ufficio. L’atto tuttavia è stato impugnato
in sede giurisdizionale dai signori Antonio
e Roberto Riva, proprietari del fondo
confinante con quello su cui sorge il box, e
con la sentenza n. 1277 del 07.06.2017 di
questa Sezione lo stesso è stato annullato,
disponendosi la rinnovazione del
procedimento di autotutela “alla luce
delle statuizioni contenute nella decisione”.
In ragione di quanto contenuto nella
sentenza, il Comune ha riavviato il
procedimento di autotutela e in data
01.02.2018 ha disposto l’annullamento sia
della s.c.i.a. depositata in data 02.11.2011
(n. 152/2011), che dell’integrazione
depositata in data 19.12.2011 attraverso
d.i.a., annunciando altresì l’emanazione
della sanzione ripristinatoria.
Assumendo l’illegittimità del predetto atto
di annullamento, il ricorrente lo ha
impugnato, eccependo, in primo luogo, la
violazione e falsa applicazione dell’art.
21-nonies della legge n. 241 del 1990, la
violazione del principio di proporzionalità,
l’eccesso di poter per difetto assoluto di
motivazione e la carenza dei presupposti di
fatto e di diritto.
...
2. Con le prime due censure, aventi
identico tenore sia nel ricorso introduttivo
che in quello per motivi aggiunti e da
trattare congiuntamente in quanto
strettamente connesse, si assume
l’illegittimità del provvedimento di
autotutela, in quanto lo stesso sarebbe
fondato esclusivamente sulla necessità di
ripristinare la legalità, senza alcuna
ulteriore specificazione in ordine
all’interesse pubblico sotteso alla sua
rimozione e in assenza di comparazione dei
contrapposti interessi pubblico e della
parte privata; inoltre non sarebbe stato
rispettato il termine ragionevole per
l’esercizio dell’autotutela, essendo
trascorsi circa sette anni tra la
presentazione del titolo e l’intervento
inibitorio.
2.1. Le doglianze sono infondate.
Il Comune ha utilizzato i propri poteri di
autotutela ex art. 21-nonies della legge n.
241 del 1990 per privare di effetti –sebbene
impropriamente definito atto di
annullamento– la s.c.i.a. n. 152/2011 del
02.11.2011 e la d.i.a. del 19.12.2011,
presentate dal ricorrente in variante alla
originaria s.c.i.a. n. 71/2011 del
24.05.2011. L’intervento in autotutela è
stato motivato, riassuntivamente, con il
prevalente interesse pubblico al ripristino
della legalità violata, sebbene da un
complessivo esame dell’atto impugnato si
possono ricavare le ulteriori (e
sostanziali) ragioni che hanno determinato
il predetto intervento sanzionatorio.
Difatti, è stato evidenziato che nella
fattispecie –secondo gli Uffici comunali non
soggetta, ratione temporis,
all’applicazione della novella recata con la
legge n. 124 del 2015 (c.d. legge Madia)–
risulta conclamata la violazione della
normativa locale in tema di distanze e di
altezze ai sensi dell’art. 13 delle N.T.A.
del P.R.G. all’epoca vigente (riprodotte
nell’art. 23 delle N.T.A. del P.G.T.
attualmente in vigore), manifestandosi,
quindi, prevalente l’interesse pubblico
rispetto a quello del privato al
mantenimento di un’opera abusiva.
Del resto, gli Uffici comunali, dopo aver
dettagliatamente esposto la cronologia degli
avvenimenti e degli atti succedutisi nel
tempo –evidenziando, tra l’altro, che la
s.c.i.a. in variante (n. 152/2011 del
02.11.2011) è stata presentata dopo il
sopralluogo comunale dell’08.09.2011, che
aveva accertato l’avvenuta effettuazione di
lavori in difformità rispetto alla s.c.i.a.
iniziale e in contrasto con la normativa
edilizia vigente–, hanno da ultimo
richiamato la sentenza di questa Sezione n.
1277/2017, con cui è stato imposto loro di
rinnovare il procedimento relativo alla
regolarità del titolo edilizio, verificando
espressamente il rispetto, sia in fase di
presentazione del titolo che di esecuzione
dei lavori, della disciplina contenuta
nell’art. 13 delle N.T.A. del P.R.G. in tema
di distanze e di altezze dei manufatti
edilizi.
Ne deriva che, correttamente, si è
provveduto all’esercizio dei poteri di
autotutela, attesa la portata conformativa
del giudicato e l’inderogabilità delle
distanze tra costruzioni, trattandosi di
difformità non trascurabili (comprese tra 20
e 80 cm). Nessun affidamento tutelato quindi
può essere riconosciuto in capo al
ricorrente, tenuto conto dei vari
contenziosi insorti tra le parti, anche
controinteressate, le quali hanno assunto
iniziative sia in sede amministrativa che
giurisdizionale.
Del resto,
la commissione di un abuso –sussistente in
caso di realizzazione di un manufatto
difforme rispetto a quanto dichiarato in
sede di segnalazione certificata– impone,
quale attività vincolata, l’adozione di un
ordine di demolizione, che non richiede una
particolare motivazione circa l’interesse
pubblico sotteso a tale determinazione e
nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse
del privato alla permanenza in loco
dell’opera edilizia o alla necessità di
tutelare il suo legittimo affidamento
(Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017,
n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2018,
n. 267).
2.2. Quanto al lasso di tempo trascorso tra
la presentazione dei titoli edilizi e
l’intervento comunale in autotutela, va
sottolineato come la fattispecie de qua
è sorta sotto il vigore della disciplina
antecedente all’introduzione della legge n.
124 del 2015 e quindi alla stessa non
risulta applicabile il novellato testo
dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del
1990, a mente del quale “Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai
sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i
casi di cui al medesimo articolo 21-octies,
comma 2, può essere annullato d’ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole,
comunque non superiore a diciotto mesi dal
momento dell’adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi
economici, inclusi i casi in cui il
provvedimento si sia formato ai sensi
dell’articolo 20, e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei
controinteressati, dall’organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto
dalla legge”.
Difatti,
il Collegio ritiene di aderire
all’orientamento secondo cui le nuove
disposizioni trovano applicazione “solo
ai provvedimenti di annullamento in
autotutela che abbiano ad oggetto
provvedimenti che siano, anch’essi,
successivi all’entrata in vigore della nuova
disposizione”
(TAR Lazio, Roma, I-bis, 02.07.2018, n.
7272).
Va, d’altronde, considerato che
la nuova disposizione ancora l’esercizio del
potere al momento di emanazione del primo
atto ponendo, quindi, una limitazione
temporale calibrata proprio sul
provvedimento che l’atto di secondo grado
rimuove. La generalizzata applicazione del
termine dalla data di entrata in vigore
della legge 124 del 2015 muta il presupposto
fondante su cui poggia la previsione
imponendo, in ogni caso, l’adozione
dell’atto di autotutela –per i provvedimenti
già emessi prima del 28.08.2015–
necessariamente entro i 18 mesi decorrenti
da tale data. In tal modo, però, si altera
la ratio della norma nella sua
applicazione nella dinamica intertemporale,
trasformando la stessa in un termine
generale di definizione di tutti i
provvedimenti di secondo grado, relativi ad
atti già adottati prima della novella.
Aderendo alla tesi pur autorevolmente
patrocinata da parte della giurisprudenza,
l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza,
onerata di una verifica di tutti i
provvedimenti già adottati da consumarsi
entro un generale termine di 18 mesi onde
non vedersi precludere la possibilità di
successiva rimozione. In tal modo, però, per
gli atti adottati prima della novella il
termine di decorrenza dei 18 mesi non
risulta più fondarsi sulla data di
emanazione del singolo atto –come
espressamente disposto dalla norma– ma, al
contrario, sulla data di entrata in vigore
della legge. Si perviene, così, al risultato
di negare la ratio della previsione che,
come detto, intende calibrare temporalmente
l’atto di esercizio del potere sul
provvedimento da rimuovere.
L’interpretazione che appare, pertanto,
maggiormente acconcia al dato letterale e
alla specifica ratio legis è quella
che ancora le nuove disposizioni
all’esercizio del potere su atti emanati
dopo l’entrata in vigore della nuova legge.
Conclusione che, del resto, appare
confermata dalla circostanza che il
legislatore non ha voluto approntare una
disciplina di diritto transitorio, l’unica
che, in tale quadro, avrebbe potuto medio
tempore derogare al rigido parametro
temporale di riferimento ora previsto
dall’ordinamento (ubi lex voluit dixit,
ubi noluit tacuit)
[TAR Lombardia, Milano, II, 15.07.2919, n.
1628; 21.01.2019, n. 118; 03.10.2018, n.
2200; si veda anche Consiglio di Stato, Ad.
plen., 17.10.2017, n. 8]. |
EDILIZIA PRIVATA:
In ambito
edilizio, manca la natura pertinenziale
quando sia realizzato un nuovo volume su
un’area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dall’edificio
precedente/principale, ovvero quando sia
realizzata una qualsiasi opera che ne alteri
la sagoma.
---------------
Ai sensi
dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001,
“mentre si è in presenza di difformità
totale del manufatto o di variazioni
essenziali, sanzionabili con la demolizione,
quando i lavori riguardino un’opera diversa
da quella prevista dall’atto di concessione
per conformazione, strutturazione,
destinazione, ubicazione, si configura la
difformità parziale quando le modificazioni
incidano su elementi particolari e non
essenziali della costruzione e si
concretizzino in divergenze qualitative e
quantitative non incidenti sulle strutture
essenziali dell’opera. Ai fini sanzionatori,
per gli interventi eseguiti in assenza di
permesso di costruire, in totale difformità
o con variazioni essenziali, va senz’altro
disposta la demolizione delle opere abusive;
per gli interventi eseguiti in parziale
difformità dal permesso di costruire, la
legge prevede la demolizione, a meno che,
non potendo essa avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, debba
essere applicata una sanzione pecuniaria”.
---------------
L’onere con cui si eccepisce l’impossibilità
della riduzione in pristino, oppure il grave
pregiudizio che potrebbe derivare alle parti
legittime dell’immobile, grava sulla parte
privata, visto che, laddove sia accertato un
abuso edilizio, deve essere motivato il
ricorso alla sanzione alternativa pecuniaria
e non anche l’adozione dell’ordine
ripristinatorio di cui all’art. 34 del
D.P.R. n. 380 del 2001.
D’altra parte, l’eventualità di sostituire
la sanzione demolitoria con quella
pecuniaria può essere apprezzata dalla sola
P.A. nella fase esecutiva del procedimento
sanzionatorio, che è successiva e autonoma
sia rispetto al diniego di sanatoria che
all’ordine di demolizione.
---------------
4. Con il
quarto motivo, contenuto soltanto nel
ricorso per motivi aggiunti, si assume
l’illegittimità della sanzione demolitoria,
giacché a fronte della realizzazione di
opere di modesta consistenza e costituenti
una difformità soltanto parziale dovrebbe
farsi applicazione esclusivamente di una
sanzione di natura pecuniaria.
4.1. La doglianza è infondata.
Le difformità riscontrate in sede di
esecuzione del manufatto edilizio, affatto
irrilevanti, oltre ad essere in contrasto
con il titolo originariamente presentato –s.c.i.a.
n. 71/2011 del 24.05.2011–, hanno dato vita
ad un organismo edilizio non rispettoso
nemmeno delle prescrizioni edilizie vigenti
(anche attualmente) a livello locale, tanto
da rendere inapplicabile una sanatoria (cfr.
Consiglio di Stato, VI, 27.02.2018, n.
1200).
Quanto alla possibile pertinenzialità del
manufatto va sottolineato come, in ambito
edilizio, manca la natura pertinenziale
quando sia realizzato un nuovo volume su
un’area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dall’edificio
precedente/principale, ovvero quando sia
realizzata una qualsiasi opera che ne alteri
la sagoma (Consiglio di Stato, II,
04.07.2019, n. 4586; TAR Lombardia, Milano,
II, 17.10.2017, n. 1987).
Da quanto riportato in precedenza, si
presenta come dovuta l’adozione della misura
ripristinatoria, poiché, ai sensi dell’art.
31 del D.P.R. n. 380 del 2001, “mentre si
è in presenza di difformità totale del
manufatto o di variazioni essenziali,
sanzionabili con la demolizione, quando i
lavori riguardino un’opera diversa da quella
prevista dall’atto di concessione per
conformazione, strutturazione, destinazione,
ubicazione, si configura la difformità
parziale quando le modificazioni incidano su
elementi particolari e non essenziali della
costruzione e si concretizzino in divergenze
qualitative e quantitative non incidenti
sulle strutture essenziali dell’opera. Ai
fini sanzionatori, per gli interventi
eseguiti in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali, va senz’altro
disposta la demolizione delle opere abusive;
per gli interventi eseguiti in parziale
difformità dal permesso di costruire, la
legge prevede la demolizione, a meno che,
non potendo essa avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, debba
essere applicata una sanzione pecuniaria”
(Consiglio di Stato, VI, 30.03.2017, n.
1484; TAR Lombardia, Milano, II, 08.07.2019,
n. 1572; 11.06.2019, n. 1320).
Oltretutto, va ribadito che l’onere con cui
si eccepisce l’impossibilità della riduzione
in pristino, oppure il grave pregiudizio che
potrebbe derivare alle parti legittime
dell’immobile, grava sulla parte privata,
visto che, laddove sia accertato un abuso
edilizio, deve essere motivato il ricorso
alla sanzione alternativa pecuniaria e non
anche l’adozione dell’ordine ripristinatorio
di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 380 del
2001 (cfr., ex multis, TAR Lombardia,
Milano, II, 25.05.2017, n. 1170); d’altra
parte, l’eventualità di sostituire la
sanzione demolitoria con quella pecuniaria
può essere apprezzata dalla sola P.A. nella
fase esecutiva del procedimento
sanzionatorio, che è successiva e autonoma
sia rispetto al diniego di sanatoria che
all’ordine di demolizione (Consiglio di
Stato, VI, 04.06.2018, n. 3371; TAR
Lombardia, Milano, II, 18.01.2019, n. 106;
06.08.2018, n. 1946).
4.2. Anche la scrutinata censura deve perciò
essere respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.08.2019 n. 1907 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Osservazioni
al PGT accorpate per gruppi omogenei.
L'assenza di un dovere
di confutazione analitica e puntuale delle
singole osservazioni consente
all’Amministrazione di procedere,
discrezionalmente, al loro accorpamento per
gruppi omogenei (non tuttavia in un unico
blocco), in modo da agevolare il lavoro
degli Uffici e di razionalizzare l’iter di
approvazione dello strumento pianificatorio,
soprattutto laddove ci si trovi al cospetto
di un rilevante numero di osservazioni e le
stesse siano estremamente parcellizzate
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.08.2019 n. 1897 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2. Con la prima, la seconda e
la sesta censura del ricorso
introduttivo e le prime due del ricorso per
motivi aggiunti, da trattare congiuntamente
in quanto perfettamente sovrapponibili, si
assume, oltre al difetto di motivazione
della scelta pianificatoria, l’illegittimo
accorpamento delle osservazioni per “gruppi
omogenei” in sede di votazione delle stesse,
stante l’assenza di qualsivoglia indicazione
in ordine ai criteri giustificativi della
loro attinenza e del grado di connessione,
in tal modo impedendosi un esame specifico e
individuale delle singole deduzioni, aventi
ciascuna un contenuto molto diversificato.
2.1. Le doglianze sono infondate.
Secondo un pacifico orientamento
giurisprudenziale, condiviso dalla Sezione,
«le osservazioni presentate in occasione
dell’adozione di un nuovo strumento di
pianificazione del territorio costituiscono
un mero apporto dei privati nel procedimento
di formazione dello strumento medesimo, con
conseguente assenza in capo
all’Amministrazione a ciò competente di un
obbligo puntuale di motivazione oltre a
quella evincibile dai criteri desunti dalla
relazione illustrativa del piano stesso in
ordine alle proprie scelte discrezionali
assunte per la destinazione delle singole
aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è
tenuta ad esaminare le osservazioni
pervenute, non può però essere obbligata ad
una analitica confutazione di ciascuna di
esse …» (TAR Lombardia, Milano, II,
06.05.2019, n. 1022; 08.01.2019, n. 38; 06.08.2018, n. 1945).
L’assenza di un dovere di confutazione
analitica e puntuale delle singole
osservazioni consente all’Amministrazione di
procedere, discrezionalmente, al loro
accorpamento per gruppi omogenei (non
tuttavia in un unico blocco: cfr. sul punto
la sentenza, citata dalla parte ricorrente,
TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2007, n. 5813),
in modo da agevolare il
lavoro degli Uffici e di razionalizzare
l’iter di approvazione dello strumento pianificatorio, soprattutto laddove ci si
trovi al cospetto di un rilevante numero di
osservazioni e le stesse siano estremamente
parcellizzate (cfr. TAR Lazio, Latina, 12.02.2016, n. 90, che segnala anche la
finalità di evitare disparità di trattamento
tra situazioni omogenee).
In ogni caso,
nella fattispecie de qua, i criteri posti
alla base del raggruppamento delle
osservazioni in gruppi omogenei risultano
sia dal codice identificativo del gruppo (es:
ER= errori/imprecisioni), sia dalla
descrizione del contenuto del gruppo che,
nel caso della variante, si riferiscono alle
“modifiche strutturali e/o significative che
comporterebbero l’aggiornamento dei
contenuti strategici del documento di piano
–e conseguentemente degli esiti del
processo di valutazione ambientale
strategica– o di accordi di programma
precedentemente sottoscritti, oppure
richiederebbe un’impropria classificazione
in considerazione dello stato dei luoghi. E’
inoltre presente la casistica di
osservazione non pertinente” (cfr. all. 7 al
ricorso).
Del resto, ciò appare coerente con la
circostanza che «le scelte riguardanti la
classificazione dei suoli sono sorrette da
ampia discrezionalità e in tale ambito la
posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato dei privati ad
una specifica destinazione del suolo, nel
caso non sussistenti» (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR
Lombardia, Milano, II, 08.01.2019, n.
38; 10.12.2018, n. 2761).
2.2. Ciò determina il rigetto delle
suesposte doglianze.
5. Con la
quinta censura del ricorso
introduttivo e la quarta del ricorso per
motivi aggiunti, da trattare congiuntamente
in quanto strettamente connesse, si assume
l’illegittima classificazione dell’immobile
inserito nel Piano dei servizi come avente
un interesse pubblico.
5.1. Le doglianze sono infondate.
Va premesso che la classificazione
dell’immobile oggetto del presente
contenzioso ha tenuto conto della
circostanza che lo stesso fosse stato in
passato una chiesa e un convento, e comunque
avesse una vocazione culturale, come
dimostrato anche dalle attività promosse
nello stesso dal dante causa della
ricorrente (inizio pag. 3 del ricorso
introduttivo). Quindi nessun travisamento
dello stato di fatto risulta essersi
verificato in sede di individuazione della
destinazione dell’immobile de quo.
In ogni caso,
va sottolineato come in ambito
urbanistico non operi il divieto di reformatio in peius –nelle specie nemmeno
rinvenibile, considerato che già il P.R.G.
del 2001 classificava l’immobile come
struttura di interesse pubblico–, in quanto
in tale materia l’Amministrazione gode di
un’ampia discrezionalità nell’effettuazione
delle proprie scelte, che relega l’interesse
dei privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto, non
tutelabile in sede giurisdizionale
(Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n.
1326; TAR Lombardia, Milano, II, 06.05.2019, n. 1022; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
5.2. Quindi, anche le predette doglianze
vanno respinte. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
civico, vietato intralciare la PA.
L’accesso civico generalizzato non può intralciare l’azione amministrativa
dell’ente ostensore, perciò è giusto negarlo nei casi di richieste massive
e/o se questo diritto è adoperato in modo distorto. Il c.d. dialogo
collaborativo col richiedente accesso non è un onere, ma una facoltà della
P.A..
La disciplina dell’accesso civico è ontologicamente
differente da quella procedimentale, rispondente all’interesse pubblico alla
trasparenza della attività amministrativa e non all’interesse del singolo
per meri scopi difensionali. Pertanto occorre farne un corretto uso e non
deve essere sovrapposta in aggiunta alla stessa disciplina procedimentale,
al fine di evitare un “bis in idem”.
Sicché, deve essere applicata secondo buona fede e senza aggravare l’operato
della P.A. ed entro il rispetto del limite della tutela dell’ interesse alla
riservatezza dei dati personali. Quest’ultimo, come hanno anche affermato la
giurisprudenza costituzionale e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea
(sentenze 20.05.2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01,
Österreichischer Rundfunk e altri, e 09.11.2010, nelle cause riunite C-92/09
e 93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert), rappresenta un valore non
suscettibile di essere degradato e che deve essere contemperato, in un
proporzionato bilanciamento di interessi, con il valore della trasparenza
amministrativa (massima tratta
da www.altalex.com).
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Considerato in diritto, preliminarmente, che:
– all’udienza camerale del 30.07.2019, nessuno costituito per le parti ritualmente intimate, il ricorso in epigrafe, sussistendone i presupposti ex
art. 60 c.p.a., è assunto in decisione dal Collegio per esser deciso nelle
forme di cui al successivo art. 74, essendo l’appello manifestamente
fondato;
– l’occasio, da cui il presente contenzioso in materia di accesso civico ex
art. 5 del D.lgs. 33/2013 prende le mosse, è la sentenza n. 3100 del 28.05.2018, con cui il TAR Napoli ha respinto due ricorsi del sig. Or.Ar. (appellato) contro altrettanti provvedimenti del Comune di Serrara
Fontana, aventi ad oggetto, l’uno, l’improcedibilità della richiesta per
l’agibilità provvisoria d’un edificio soggetto a condono edilizio non
esitato (e dove il sig. Ar. aveva posto un esercizio commerciale di
somministrazione al pubblico di alimenti e bevande) e, l’altro, la
consequenziale sospensionedi tal attività (in assenza di agibilità);
– la vicenda sottostante all’accesso è incentrata sull’interpretazione
dell’art. 35, XX co. della l. 47/1995 («a seguito della concessione o
autorizzazione in sanatoria viene… rilasciato il certificato di abitabilità
o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari,
qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in
materia di sicurezza statica»);
– su tal norma da tempo, s’è formato l’indirizzo (già da Cons. St., V, 28.05.2009 n. 3262) per cui, alla luce dell'art. 3, co. 7, della l. 25.08.1991 n. 287 —poiché le attività di somministrazione di alimenti e
bevande devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme in materia
edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla
destinazione d'uso dei locali e degli edifici—, ai fini del rilascio delle
prescritte autorizzazioni che la P.A. deve verificare non solo la presenza
dei presupposti e requisiti in materia di attività commerciale, ma anche la
conformità dei locali, da utilizzare per l'autorizzanda attività, alle norme
predette sotto il profilo sia edilizio-urbanistico che igienico-sanitario;
– pertanto, non può esser mantenuto il titolo inerente a tal attività di
somministrazione, ove svolta in un locale non conforme alla disciplina
edilizia e urbanistica né ricondotto a conformità per effetto
dell'accoglimento dell'istanza di condono presentata ma non ancora definita
e che non può esser neppure oggetto di una certificazione provvisoria di
agibilità, non prevista dall'ordinamento e che, al più, può riguardare solo
manufatti conformi alla disciplina edilizia ed urbanistica;
– essendosi il TAR Napoli espresso in questi stessi termini con la sentenza
n. 3100/2018, è di tutta evidenza che tal controversia, per la quale il sig.
Ar. assume d’aver interposto appello, pone solo una questione di diritto,
tutta incentrata sul significato della norma di sanatoria in rapporto con le
tuttora vigenti regole per la somministrazione di alimenti e bevande;
– sulla scorta di tali brevi dati, può allora il Collegio pervenire già ad
una prima conclusione nei riguardi dell’istanza d’accesso proposta dal sig.
Ar., al contempo difensionale ex art. 24, co. 7, della l. 241/1990 e
civico ex art. 5 del D.lgs. 33/2013 per spenderne i dati nel promovendo
giudizio d’appello, nel senso di poter affermare l’inutilità, anzi il
carattere soltanto emulativo della richiesta massiva di dati su atti,
provvedimenti e rapporti del Comune con un numero indefinibile di soggetti
terzi, tutti coinvolti e potenziali controinteressati e, soprattutto,
titolari di interessi di difesa i più disparati e non omogenei (quindi, con
diversi livelli di opponibilità all’accesso);
– invero, non sfugge al Collegio il dato testuale dell’art. 24, co. 7, I
per. della l. 241/1990, secondo cui «deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici», ma da
questo ben s’inferisce, segnatamente quando l’accesso difensivo sia
esercitato in modo espresso per ragioni di difesa giudiziale, l’evidente
differenza tra cura e difesa dei propri interessi —onde quest’ultima non è
ricompresa, né è specificazione di quella—, nonché in particolare, come già
da tempo afferma la Sezione (cfr. Cons. St., sez. VI, 07.02.2014 n.
600), il principio in virtù del quale tal accesso non sia in grado di
prevalere su ogni ipotesi di esclusione ai sensi dei precedenti commi dello
stesso art. 24 (e non solo per i casi strettamente contemplati nel solo co.
7, II per.);
– ancora da ultimo (cfr. Cons. St., V, 21.08.2017 n. 4043) la
giurisprudenza non solo esclude che le esigenze di cura e difesa di
interessi giuridici ex art. art. 24, co. 7, siano tutelabili fino al punto
d’ammettere istanze d’accesso di contenuto del tutto indeterminato o
riferite a rapporti estranei alla sfera giuridica del richiedente —poiché
ciò rende impossibile l’adempimento dell’obbligo, indicato dalla norma
citata, per cui tal accesso va sempre garantito), come d’altronde (p. es.,
cfr. id., VI, 29.04.2019 n. 2737) il diritto all'accesso difensionale
postula sempre un accertamento concreto dell'esistenza di un interesse
differenziato della parte che richiede i documenti e tal accesso è solo
strumentale per verificare i presupposti di fatto all'esercizio di un'azione
in giudizio (o alla diversa cura della stessa), mai per la ricerca generale
di lacune o di manchevolezze nell'operato della P.A., che darebbe luogo ad
una richiesta ostensiva meramente esplorativa;
Considerato altresì che:
– tali elementi sono utilizzabili dall’interprete, stante il gioco di
similitudini e differenze che lega la disciplina dell’accesso civico a
quella ex l. 241/1990, quantunque i due tipi di accesso siano tra loro
paralleli e diversi, non sovrapponibili, ossia come se da entrambi si
potesse ritrarre la medesima utilità giuridica, indifferentemente agendo uti
cives o con l’accesso ordinario perché si prospetta la titolarità di una
data situazione soggettiva;
– se non sfugge l’uso pratico dell’accesso civico perlopiù per aggirare i
limiti posti dall’art. 24 della l. 241/1990, a ben vedere il rapporto tra
tali due tipi di accesso è non già di continenza, ma di scopo e, quindi, di
diversa utilità ritraibile, visto che l’accesso procedimentale, fin dalla
stesura originale dell’art. 22, co. 1, della l. 241/1990, è preordinato a
soddisfare un interesse specifico ma strumentale di chi lo fa valere per
ottenere un qualcos’altro che sta dietro alla (e si serve della) conoscenza
incorporata nei dati o nei documenti accessibili, donde il forte accento che
le norme pongono sulla legittimazione e sui limiti connessi;
– per contro, l’accesso civico generalizzato soddisfa un’esigenza di
cittadinanza attiva, incentrata sui doveri inderogabili di solidarietà
democratica, di controllo sul funzionamento dei pubblici poteri e di fedeltà
alla Repubblica e non su libertà singolari, onde tal accesso non può mai
essere egoistico, poiché qui l’accento cade sul “diritto” non agli open
data, che ne sono il mero strumento, bensì al controllo e la verifica
democratica della gestione del potere pubblico (o dei concessionari
pubblici), e ciò anche oltre la mera finalità anticorruttiva, che pur
essendo stata la matrice dell’accesso civico, non ne esaurisce le ragioni;
– pertanto, l’accesso civico, che concerne anche e soprattutto gli atti e
documenti non pubblicati o che la PA non ha inteso pubblicare, non è
tuttavia utilizzabile come surrogato dell’altro, qualora si perdano o non vi
siano i presupposti di quest’ultimo, perché serve ad un fine distinto,
talvolta cumulabile, ma sempre inconfondibile;
– in base all’art. 1 del D.lgs. 33/2013, l’accesso civico ha pur sempre la
sua ratio esclusiva nella dichiarata finalità di favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni d’istituto e sull'utilizzo delle
risorse pubbliche, nonché nella promozione della partecipazione al libero
dibattito pubblico, onde esso non è utilizzabile in modo disfunzionale
rispetto alla predetta finalità ed essere trasformato in una causa di
intralcio al buon funzionamento della P.A. e va usato secondo buona fede,
sicché la valutazione del suo uso va svolta caso per caso e con prudente
apprezzamento, al fine di garantire, secondo un delicato ma giusto
bilanciamento che non obliteri l'applicazione di tal istituto, che non se ne
faccia un uso malizioso e, per quel che concerne nella specie, non si crei
una sorta di effetto "boomerang" sulla P.A. destinataria;
– non ha errato, dunque, il Comune appellante nel delibare il contenuto
proprio dell’accesso civico spiegato dal sig. Ar., perché la sentenza del
TAR Napoli n. 3100/2018 non s’è pronunciata in via diretta sulle agibilità
provvisorie o sulla “continuità d’uso” delle attività commerciali in
immobili sanandi ma ancora non condonati, dichiarando inammissibile l’uso
dell’accesso civico per creare, mediante una richiesta “massiva” di dati per
fini esclusivamente privati, un intralcio all’attività della P.A., al più
per soddisfare un interesse di natura solo privata, individuale ed
egoistica, incongruente con lo scopo pubblicistico dell’istituto;
– pertanto rettamente il Comune contesta d’aver ben distinto (2° motivo
d’appello), nel respingere l’istanza del sig. Ar., le ragioni del rigetto
di quella parte relativa all’accesso civico —stante sia il difetto di
congrua rappresentazione del relativo interesse, sia l’uso disfunzionale e
contra legem di tal accesso—, rispetto a quello procedimentale;
– giova rammentare al riguardo come, pur secondo la più liberale
interpretazione dell’art. 5-bis del D.lgs. 33/2013 —in virtù della quale si
predica che, dopo l’entrata in funzione dell’accesso civico, l’accesso
difensionale di regola prevale se serve a soddisfare un bisogno di tutela
d’una situazione giuridica soggettiva e recede solo se sia impedito da un
contrapposto interesse di “pari rango” espressamente contemplato da una
fonte primaria (si pensi ai casi di contrapposti interessi sensibili o
giudiziari), in base ad un trattamento direttamente regolato dall’art. 24, co. 7, e senza più alcun apprezzamento discrezionale della P.A.—, la
differenza di regime dell’accesso civico imponga e non suggerisca alla P.A.
stessa, in mancanza d’una norma che replichi tal quale il regime dell’art.
24, co. 7, e stante invece il rigoroso sistema di tutele delle riservatezze,
di delibare con altrettanto rigore l’istanza d’accesso civico ai sensi sia
dell’art. 5-bis, co. 2, del decreto n. 33 (se siano implicati interessi
riservati di terzi), sia del successivo co. 3, prima parte (ove siano
implicati, in forza del combinato disposto dell’art. 21, co. 3, e dell’art.
24, co. 3, della l. 241/1990, atti per altri motivi inaccessibili);
– proprio sulla tutela delle riservatezze è da ultimo intervenuto il Giudice
delle leggi (cfr. C. cost., 21.02.2019 n. 20), il quale afferma sì la
diretta riferibilità dei principi di pubblicità e trasparenza a tutti gli
aspetti rilevanti della vita pubblica e istituzionale (art. 1 Cost.) ed allo
stesso buon funzionamento della P.A. (art. 97 Cost.: quindi, anche ai dati
che essa possiede e controlla) ed afferma pure come tali principi tendano
ormai a manifestarsi, nella loro declinazione soggettiva, nella forma di un
diritto dei cittadini ad accedere ai dati in possesso della P.A. in base
all’art. 1 del D.lgs. 33/2013 (tant’è che il diritto di accesso a tali dati
e documenti è principio generale del diritto UE), ma rammenta pure, alla
luce della giurisprudenza della CGUE, come le esigenze di controllo
democratico non possano travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza
delle persone fisiche e vada sempre rispettato il principio di
proporzionalità, qual metodo equilibratore tra le esigenze di conoscibilità
del contenuto dell’azione amministrativa e la protezione dei dati personali,
onde limiti e deroghe devono operare nei limiti dello stretto necessario;
– nella stessa decisione, la Corte precisa l’estraneità, alla ratio
dell’accesso civico, della conoscenza di dati ulteriori e personali di per
sé non congruenti con gli scopi indicati dall’art. 1 del decreto n. 33, onde
l’accesso civico è condizionato dalla valutazione dell’effettiva utilità
della conoscenza per il perseguimento di scopi anticorruttivi o, comunque,
dalla delibazione degli specifici scopi sottesi a tal accesso (donde la
necessaria indicazione specifica degli atti cui accedere e del relativo
scopo)
– siffatta delibazione, peraltro realmente compiuta dal Comune (donde la
fondatezza pure del primo motivo d’appello), concerne sia l’appartenenza, o
meno, degli atti richiesti alla categoria di quelli non soggetti a
pubblicazione obbligatoria ai sensi dell’art. 23 del D.lgs. 33/2013 —sicché
essi vanno intesi come quei dati o documenti ulteriormente rifiutabili ai
sensi e per gli effetti del citato art. 5, co. 2, a far tempo (23.06.2016) dall’intervenuta abrogazione
in parte qua del medesimo art. 23 ad
opera della novella recata dall’art. 22, co. 1, lett. a), del D.lgs. n.
97/2016—, sia il rispetto, o meno, di quel minimo onere di diligenza ex art.
5, co. 3, II per. circa l’esatta identificazione di atti e documenti cui il
sig. Ar. aveva desiderato di accedere, onere, questo, imprescindibile per
ben chiare ragione di leale collaborazione con la P.A. a fronte d’un diritto
d’accesso che non sconta più limiti di legittimazione soggettiva;
Considerato infine che:
– parimenti da accogliere è il terzo motivo d’appello, poiché l’istanza
d’accesso civico in questione è ictu oculi “massiva” (all’uopo bastando
scorrerne l’articolazione) quand’anche non la si volesse ritenere emulativa,
giacché il rigetto dell’istanza stessa va letta in una con il contenuto di
questa, il quale assomma all’ampiezza degli atti cui accedere la totale
assenza, al di là della loro partizione in macro-categoria, d’ogni
specificità;
– invero, il sig. Ar. ha chiesto d’accedere e d’ottenere copia di: «…
tutte le licenze commerciali di qualunque natura rilasciate nel comune di Serrara Fontana; - dei certificati di agibilità di dette attività
commerciali (alberghi, ristoranti, negozi, ecc.); - delle domande di condono
non ancora evase ovvero a cui non è stata ancora concessa la sanatoria in
relazione ad immobili in cui vengono esercitate attività commerciali per le
quali è stata rilasciata licenza di commercio; - di tutte le continuità
d’uso rilasciate per immobili sottoposti a pratica di condono non ancora
esaminata e concessa…»;
– l’indeterminatezza della richiesta, dopo il testé citato richiamo al
contenuto dell’istanza, è di così palmare evidenza, sol che si pensi alla
copia di tutte le licenze commerciali (dunque, di tutti i titoli in varia
guisa emanati o formatisi in ogni tempo, o almeno dall’entrata in vigore del
condono edilizio ex l. 47/1985 in poi, per l’esercizio dell’attività
commerciale), di tutti i certificati di agibilità per tali attività (quindi,
per tutto il predetto tempo e per tutt’e tre le procedure di condono), delle
domande di condono edilizio relative a tali immobili e non ancora esitate e
di tutte le continuità d’uso rilasciate per gli immobili soggetti a
procedura di sanatoria;
– quantunque siano notorie le contenute dimensioni del territorio e della
popolazione di Se.Fo., tali circostanze, unite al fatto che si
tratta d’un Comune sparso, non elidono, ma invece enfatizzano il peso che
grava sull’Amministrazione municipale, le cui forze, proporzionate a dette
dimensioni, sono messe con ogni evidenza a prova dall’istanza del sig.
Ar., affaticando così la organizzazione e l’attività degli uffici,
soprattutto ove si volesse seguire il suggerimento di oscurare i dati
personali di tutti i soggetti terzi coinvolti, foss’anche al fine d’evitare
o limitare al massimo le posizioni di controinteresse;
– è solo da soggiungere come tal affaticamento si verificherebbe lo stesso,
pur se il Comune volesse pervenire ad una preliminare scrematura dei dati e
dei documenti richiesti per aggregarli o pure per oscurarli, in quanto
occorrerebbe comunque il tempo per reperire i dati, organizzarli e, se del
caso, oscurarne il contenuto eventualmente sensibile, senza con ciò evitare
a priori l’opposizione dei terzi (che vanno sempre avvertiti, ai sensi
dell’art. 5, co. 5, del D.lgs. 33/2013 affinché esercitino tal loro facoltà,
peraltro in un breve termine di decadenza) e, con essa, il frazionamento
delle varie posizioni e l’obbligo del Comune di valutarle ciascuna alla
volta;
– del pari fondato è il quarto mezzo d’appello con riguardo al vizio
d’ultrapetizione che affligge la sentenza impugnata, giacché il dialogo
cooperativo tra il Comune ed il sig. Ar., di cui essa parla qual formula
per giungere ad una soluzione concordata stragiudiziale sul perimetro
concreto di tale accesso civico, è una mera facoltà del Comune e non si
rinviene a guisa d’obbligo nell’art. 5 e ss. del D.lgs. 33/2013;
– a tutto concedere, quindi, avrebbe dovuto il ricorrente denunciare
l’eventuale omissione e non il Giudice accertarla d’ufficio e, certo, non
per realizzare una sorta d’ortopedia dell’istanza d’accesso, che, peraltro,
di per sé non incappa in decadenze ed è correggibile e riproponibile a cura
del sig. Ar. finché in capo a lui ne permanga l’interesse;
– deve il Collegio osservare comunque che la soluzione prospettata dalla
sentenza s’appalesa, come rettamente osserva l’appellante, una sorta di
contraddizione, giacché, se si predica la specificità e la natura non
“massiva” dell’istanza, il dialogo cooperativo sarebbe superfluo e
viceversa, l’eventuale dialogo, oltre a non elidere la delibazione
sull’ammissibilità dell’istanza, implicherebbe l’esistenza delle
manchevolezze che l’inficiano;
– in definitiva, l’appello va accolto nei sensi fin qui esaminati, ma la
novità e la complessità della questione suggerisce l’irripetibilità delle
spese del presente grado di giudizio
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.08.2019 n. 5702 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Sui
distinguo fra le due fattispecie di lottizzazione e cioè la
lottizzazione "materiale" o "sostanziale" e la
lottizzazione "negoziale" o "cartolare".
Risulta integrata la lottizzazione materiale in ragione della
trasformazione urbanistica ed edilizia dell’area e la lottizzazione cartolare
mediante il frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita
dei lotti da essa risultanti.
---------------
L’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001 preve che si
abbia “lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono
iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici,
vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o
senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga
predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti,
del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in
relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli
strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di
opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti,
denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
In base ai consolidati orientamenti giurisprudenziali, da tale norma
derivano due fattispecie di lottizzazione cioè una lottizzazione
“materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase
iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o
edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici; e una
lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione
avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno
in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo
edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di
c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso
l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica
di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della
disciplina a quest'ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti
pianificatori.
In particolare, siffatti interventi
devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico
insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria
attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della
ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico
tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà
programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia
dell’ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e
della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard
apprestabili.
L’illecito lottizzatorio può assumere anche le sembianze della cd.
lottizzazione cartolare, “quando tale trasformazione venga predisposta
attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in
lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla
natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti,
denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Con riferimento specifico
alla predetta lottizzazione c.d. “cartolare” la fattispecie è ravvisabile
allorquando la trasformazione del suolo è predisposta mediante il
frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti-
del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive
caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla
natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla
base degli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o l'eventuale
previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la
destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti.
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione
abusiva “cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del
frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche
l'acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia
oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione
a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle
parti. Detto altrimenti, l'attività negoziale avente ad oggetto il
frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale
indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre
circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura
edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali
certe e univoche, che confermino che l'attività posta in essere è
propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo
a fini edificatori.
In ogni caso, l’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma
nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere
l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento
abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura
attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al
fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico.
---------------
Quanto alla “colpevolezza” del proprietario del terreno, il Collegio ritiene
di aderire all’orientamento giurisprudenziale già espresso di recente dalla
Sezione, per cui per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo
stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l'illecito si
fonda sul dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione
urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei
confronti dei propri danti causa.
Sotto tale profilo, con riferimento al caso di specie, ritiene il Collegio
che non possa rilevare a sostegno della buona fede dell’appellante la
circostanza dell’essere stata acquirente dei suoli successivamente al
frazionamento dell'area e quindi non autrice dell’originario disegno
lottizzatorio. In primo luogo, infatti, il Collegio ritiene di richiamare
quanto già affermato da questo Consiglio, che, sulla base dalla natura
oggettiva della lottizzazione abusiva e indipendente dall'animus
dei proprietari interessati, ha già escluso la rilevanza di tale circostanza
con riferimento al medesimo provvedimento comunale impugnato.
Inoltre, anche la giurisprudenza penale, argomentando dal carattere
contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli
acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possano
invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo
essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei
all'illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria
diligenza nell'adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza,
tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di
illecita utilizzazione del territorio.
In tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede
e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo
scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale
consistente nell'omessa individuazione dell'elemento psicologico
dell'illecito contestato possono al più utilizzare l'argomento al mero fine
dell'applicazione della sanzione penale accessoria della confisca
urbanistica contemplata dall'art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001 (reputata
comunque compatibile con l'art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828), nel mentre l'argomento
medesimo non è utilmente invocabile al fine dell'irrogazione della sanzione ammnistrativa
dell'acquisizione coattiva dell'immobile al patrimonio disponibile del
Comune, contemplata dall'art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380 del 2001, in
quanto atto vincolato.
La giurisprudenza è, altresì, consolidata nel ritenere la natura permanente
dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito
urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e
sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni
abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine
titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della
fattispecie.
---------------
L’appello è infondato.
Con riferimento al primo motivo di appello con cui si contesta l’avvenuta
lottizzazione ad opere dell’appellante, ritiene il Collegio di evidenziare,
come rilevato dal giudice di primo grado, che l’area in questione è stata
interessata da una lottizzazione c.d. mista, in quanto, alla originaria
suddivisione del suolo mediante il frazionamento catastale e gli atti di
vendita si è aggiunta, nel tempo, la successiva attività di trasformazione
edilizia dei singoli fondi attraverso la esecuzione di opere, peraltro in
una area con destinazione agricola ed edificabilità limitata ad opere
necessarie alla conduzione del fondo.
Risultano, quindi, integrate sia la lottizzazione materiale in ragione della
trasformazione urbanistica ed edilizia dell’area in contrasto con le norme
vigenti sia la lottizzazione cartolare, posta in essere mediante il
frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita dei lotti da
essa risultanti. La lottizzazione contestata, infatti, è stata attuata nel
tempo, prima attraverso vari atti di frazionamento e conseguenti vendite di
singoli lotti e poi attraverso la esecuzione di opere di urbanizzazione e la
trasformazione edilizia degli stessi.
L’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del quale è stata adottata
l’ordinanza impugnata, riproduce integralmente le disposizioni già contenute
nell’art. 18 della legge 28.02.1985 n. 47; tali norme prevedono che si
abbia “lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono
iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici,
vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o
senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga
predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti,
del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in
relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli
strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di
opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti,
denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
In base ai consolidati orientamenti giurisprudenziali, da tale norma
derivano due fattispecie di lottizzazione cioè una lottizzazione
“materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase
iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o
edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici; e una
lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione
avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno
in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo
edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di
c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso
l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica
di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della
disciplina a quest'ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti
pianificatori.
In particolare, come evidenziato da questo Consiglio, siffatti interventi
devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione
urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico
insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria
attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della
ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico
tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà
programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia
dell’ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e
della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard
apprestabili (Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416; id. 09.01.2018, n. 5805, inerente peraltro il medesimo provvedimento oggetto
dell’odierno contenzioso).
L’illecito lottizzatorio può assumere anche le sembianze della cd.
lottizzazione cartolare, “quando tale trasformazione venga predisposta
attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in
lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla
natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti,
denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio” (Cons.
Stato Sez. II, Sent., 20.05.2019, n. 3215).
Con riferimento specifico
alla predetta lottizzazione c.d. “cartolare” la fattispecie è ravvisabile
allorquando la trasformazione del suolo è predisposta mediante il
frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti-
del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive
caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla
natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla
base degli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o l'eventuale
previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la
destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 03.08.2012, n. 4429; Sez. IV, 13.05.2011, n.
2937).
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione
abusiva “cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del
frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche
l'acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia
oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione
a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle
parti. Detto altrimenti, l'attività negoziale avente ad oggetto il
frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale
indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre
circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura
edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali
certe e univoche, che confermino che l'attività posta in essere è
propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo
a fini edificatori (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108; Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
In ogni caso, l’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma
nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere
l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento
abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura
attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al
fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico (Cons. Stato
Sez. II, Sent., 20.05.2019, n. 3215).
Quanto alla “colpevolezza” del proprietario del terreno, il Collegio ritiene
di aderire all’orientamento giurisprudenziale già espresso di recente dalla
Sezione, per cui per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo
stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l'illecito si
fonda sul dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione
urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei
confronti dei propri danti causa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2016
n. 26 del 2016; Cons. Stato Sez. II, 20.05.2019, n. 3215; id Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
Sotto tale profilo, con riferimento al caso di specie, ritiene il Collegio
che non possa rilevare a sostegno della buona fede dell’appellante la
circostanza dell’essere stata acquirente dei suoli successivamente al
frazionamento dell'area e quindi non autrice dell’originario disegno
lottizzatorio. In primo luogo, infatti, il Collegio ritiene di richiamare
quanto già affermato da questo Consiglio, che, sulla base dalla natura
oggettiva della lottizzazione abusiva e indipendente dall'animus dei
proprietari interessati, ha già escluso la rilevanza di tale circostanza con
riferimento al medesimo provvedimento comunale impugnato (cfr. Sez VI 09.10.2018 n. 5805).
Inoltre, anche la giurisprudenza penale, argomentando dal carattere
contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli
acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possano
invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo
essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei
all'illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria
diligenza nell'adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza,
tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di
illecita utilizzazione del territorio (cfr. Cass. pen., Sez. III, 13.02.2014, n. 2646; id.,
03.12.2013, n. 51710; id., 27.04.2011,
n. 21853).
In tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede
e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo
scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale
consistente nell'omessa individuazione dell'elemento psicologico
dell'illecito contestato possono al più utilizzare l'argomento al mero fine
dell'applicazione della sanzione penale accessoria della confisca
urbanistica contemplata dall'art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001 (reputata
comunque compatibile con l'art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828) , nel mentre l'argomento
medesimo non è utilmente invocabile al fine dell'irrogazione della sanzione ammnistrativa dell'acquisizione coattiva dell'immobile al patrimonio
disponibile del Comune, contemplata dall'art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380
del 2001, in quanto atto vincolato (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez.
VI, 23.03.2018, n. 1878; Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
La giurisprudenza è, altresì, consolidata nel ritenere la natura permanente
dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito
urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e
sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni
abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine
titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della
fattispecie (Cons. Stato Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie, deve
ritenersi integrata la fattispecie della lottizzazione abusiva in relazione
alle circostanze di fatto, peraltro incontestate, desumibili da tutti gli
accertamenti effettuati: i lotti appartenenti all’appellante risultano dal
frazionamento di un’unica area molto più vasta, a destinazione agricola; la
contestualità temporale di tutte le vendite originarie, attraverso le quali
si realizzò il frazionamento; la realizzazione sui suoli risultanti dal
frazionamento di molteplici interventi edilizi abusivi, incompatibili con la
detta destinazione agricola delle aree; la carenza in capo all’appellante o
comunque la mancata deduzione in proposito della qualifica di imprenditore
agricolo; la necessaria realizzazione di opere di urbanizzazione, in assenza
delle quali un insediamento residenziale non avrebbe avuto le necessarie
condizioni di abitabilità.
Agli effetti della configurazione della fattispecie, inoltre, ciò che rileva
non è l’epoca di realizzazione delle opere edilizie abusive, quanto il loro
discendere dall’iniziale frazionamento dell’area, ciò che deve ritenersi
sufficiente a dimostrarne la coerenza con l’originario intento
lottizzatorio.
Peraltro, nel caso di specie, la destinazione agricola dei terreni
risultante anche espressamente dagli atti di acquisto dei terreni rendeva
conoscibile alla parte odierna appellante la radicale trasformazione
dell’area in assenza di qualsiasi attività pianificatoria comunale
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
L’obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non viene
inteso in senso formalistico, ma risponde all'esigenza di acquisire
l’apporto collaborativo da parte dell'interessato, con la conseguenza che
tale obbligo viene meno qualora nessuna effettiva influenza potrebbe avere
la partecipazione del privato rispetto alla portata del provvedimento
finale.
In particolare, l’esclusione dell’obbligo di comunicazione
di avvio del procedimento è stata già affermata da questo Consiglio anche
nel caso della lottizzazione abusiva quando, come nel caso di specie,
risultino la “finalità certamente edificatoria della lottizzazione ed il suo
carattere non autorizzato ed abusivo”.
---------------
Con il secondo motivo di appello si lamenta la violazione del principio di
partecipazione al procedimento.
Il motivo è infondato.
L’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge 07.08.1990 n. 241,
per cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata
del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, conduce infatti ad un
giudizio di infondatezza della censura, in quanto il provvedimento impugnato
non avrebbe potuto avere contenuto diverso né l’eventuale partecipazione procedimentale avrebbe potuto incidere sui presupposti del provvedimento
impugnato, in relazione alla sussistenza della lottizzazione abusiva, basata
sull’indubbio accertamento del frazionamento di una più vasta proprietà in
diversi lotti ai fini edilizi e sulla materiale trasformazione degli stessi
suoli.
L’art. 21-octies si riferisce, infatti, anche al provvedimento che
abbia natura in concreto vincolata con la conseguenza che l’avviso di inizio
del procedimento non sia comunque dovuto quando in concreto si rilevi la
sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento impugnato.
Deve essere in proposito richiamata la consolidata giurisprudenza, per cui
l’obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non viene inteso in
senso formalistico, ma risponde all'esigenza di acquisire l’apporto
collaborativo da parte dell'interessato, con la conseguenza che tale obbligo
viene meno qualora nessuna effettiva influenza potrebbe avere la
partecipazione del privato rispetto alla portata del provvedimento finale
(Consiglio di Stato, sez. IV, 28.03.2017, n. 1407; Sez. VI, 18.05.2015, n. 2509).
In particolare, l’esclusione dell’obbligo di comunicazione
di avvio del procedimento è stata già affermata da questo Consiglio anche
nel caso della lottizzazione abusiva quando, come nel caso di specie,
risultino la “finalità certamente edificatoria della lottizzazione ed il suo
carattere non autorizzato ed abusivo” (Consiglio di Stato, sezione IV 09.10.2017
n. 4668)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
Anche le varianti per il recupero dei nuclei edilizi abusivi
rientrano nell’ampia discrezionalità del potere pianificatorio urbanistico comunale.
Nessun obbligo di redazione di varianti
per il recupero degli insediamenti abusivi discende, infatti, dall’art. 29
della legge n. 47 del 1985, mentre la
perimetrazione dei nuclei abusivi, così come la successiva approvazione
della variante sono attività rientranti in pieno nel potere pianificatorio
discrezionale del Consiglio comunale, che esercita in tal caso la
discrezionalità in funzione del recupero di una situazione creatasi in via
di fatto, ma che
tenga conto, oltre alla esigenza di recupero dei nuclei abusivi, delle
generali esigenze di pianificazione del territorio comunale.
La ratio di tali norme non è, infatti, quella di imporre alle
amministrazioni comunali l’obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a
fini del recupero, bensì quella di affiancare una speciale tipologia di
variante a quelle già contemplate dall'ordinamento urbanistico; pertanto, le
amministrazioni interessate hanno una mera facoltà e non l'obbligo di
contemplare all'interno delle varianti generali gli insediamenti abusivi.
---------------
L’appellante sostiene poi la violazione dell’art. 29 della legge n. 47 del
1985 e dell’art. 23 della legge regionale della Campania n. 16 del 2004, in
quanto l’Amministrazione comunale non avrebbe valutato il recupero
urbanistico degli insediamenti abusivi, tramite l’approvazione di una
variante urbanistica.
Anche tale motivo di appello è infondato.
Ai sensi dell’art. 29 della legge n. 47 del 1985, “entro novanta giorni
dall'entrata in vigore della presente legge le regioni disciplinano con
proprie leggi la formazione, adozione e approvazione delle varianti agli
strumenti urbanistici generali finalizzati al recupero urbanistico degli
insediamenti abusivi, esistenti al 01.10.1983, entro un quadro di
convenienza economica e sociale”.
In base all’art. 23, commi 3 e seguenti, della legge regionale 22.12.2004, n. 16, il Piano urbanistico comunale “individua la perimetrazione
degli insediamenti abusivi esistenti al 31.12.1993 e oggetto di
sanatoria ai sensi della legge 28.02.1985, n. 47, capi IV e V, e ai
sensi della legge 23.12.1994, n. 724, articolo 39, al fine di: a)
realizzare un'adeguata urbanizzazione primaria e secondaria; b) rispettare
gli interessi di carattere storico, artistico, archeologico, paesaggistico-ambientale ed idrogeologico; c) realizzare un razionale
inserimento territoriale ed urbano degli insediamenti.
4. Le risorse
finanziarie derivanti dalle oblazioni e dagli oneri concessori e sanzionatori dovuti per il rilascio dei titoli abilitativi in sanatoria sono
utilizzate prioritariamente per l'attuazione degli interventi di recupero
degli insediamenti di cui al comma 3.
5. Il Puc può subordinare l'attuazione
degli interventi di recupero urbanistico ed edilizio degli insediamenti
abusivi, perimetrati ai sensi del comma 3, alla redazione di appositi Pua,
denominati piani di recupero degli insediamenti abusivi, il cui procedimento
di formazione segue la disciplina prevista dal regolamento di attuazione
previsto dall'articolo 43-bis.
6. Restano esclusi dalla perimetrazione di
cui al comma 3 gli immobili non suscettibili di sanatoria ai sensi dello
stesso comma 3”.
Ritiene il Collegio sul punto di richiamare il consolidato orientamento
giurisprudenziale per cui anche le varianti per il recupero dei nuclei
edilizi abusivi rientrano nell’ampia discrezionalità del potere
pianificatorio urbanistico comunale. Nessun obbligo di redazione di varianti
per il recupero degli insediamenti abusivi discende, infatti, dall’art. 29
della legge n. 47 del 1985, mentre la
perimetrazione dei nuclei abusivi, così come la successiva approvazione
della variante sono attività rientranti in pieno nel potere pianificatorio
discrezionale del Consiglio comunale, che esercita in tal caso la
discrezionalità in funzione del recupero di una situazione creatasi in via
di fatto, ma che
tenga conto, oltre alla esigenza di recupero dei nuclei abusivi, delle
generali esigenze di pianificazione del territorio comunale.
La ratio di
tali norme non è, infatti, quella di imporre alle amministrazioni comunali
l’obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a fini del recupero, bensì
quella di affiancare una speciale tipologia di variante a quelle già
contemplate dall'ordinamento urbanistico; pertanto, le amministrazioni
interessate hanno una mera facoltà e non l'obbligo di contemplare
all'interno delle varianti generali gli insediamenti abusivi (cfr. Consiglio
di Stato, IV, 25.07.2001, n. 4078; 03.10.2001, n. 5207; Sez. VI, 05.04.2012, n. 2038; Sez. IV,
07.06.2012, n. 3381; TAR Lazio Roma Sez. II-quater, 28.03.2018, n. 3423).
Nel caso di specie, il Comune di Giugliano non ha approvato alcuna variante
per il recupero del nucleo abusivo né aveva alcun un obbligo in tal senso
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia
costituiscono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione,
non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
giammai legittimare.
Infatti la sanzione repressiva in materia edilizia costituisce atto dovuto
della pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere
vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste
dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non
richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera
rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione
dell'abuso -che è in re ipsa- con l'interesse del privato proprietario del
manufatto e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell'abuso.
---------------
La fattispecie della lottizzazione abusiva, riguardando la sottrazione al
Comune del potere pianificatorio,
prescinde dalle singole opere abusive realizzate senza titolo e dalla
presentazione per questa di una eventuale domanda di sanatoria o dal
rilascio per le stesse di un titolo edilizio.
L’accertamento della lottizzazione abusiva, fattispecie posta a tutela del
potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del
territorio, è un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio
anche postumo del titolo edilizio; pertanto alcun rilievo sanante sull'abuso
può rivestire il rilascio di un eventuale titolo edilizio, sia ex ante, in
presenza di titoli anche già rilasciati, sia di titoli rilasciati in
sanatoria.
L’autonomia dei due procedimenti comporta che anche la pendenza della
domanda di sanatoria non possa avere comunque avere alcun rilievo sugli atti
adottati ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. 380 del 2001, non potendo essere
comunque rilasciato il titolo in sanatoria.
Infatti, per la costante giurisprudenza, nell’ambito di una lottizzazione
abusiva, non è possibile comunque sanare alcun illecito, non potendo le
singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata
essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo
stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso.
---------------
Con ulteriore motivo di appello si lamenta l’erroneità delle affermazioni
del giudice di primo grado circa il difetto di motivazione del provvedimento
comunale sull’interesse pubblico alla repressione dell’attività abusiva,
nonché una sua mancata comparazione con l’interesse privato sacrificato,
considerato anche il tempo trascorso dall’epoca della lottizzazione abusiva.
Anche tale motivo è infondato in relazione al costante orientamento
giurisprudenziale per cui i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia
costituiscono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione,
non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
giammai legittimare.
Infatti la sanzione repressiva in materia edilizia costituisce atto dovuto
della pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere
vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste
dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non
richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera
rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione
dell'abuso -che è in re ipsa- con l'interesse del privato proprietario del
manufatto e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell'abuso ( Consiglio di Stato, sez. VI 09.04.2019, n.
2329; sez. IV, 31.08.2016 n. 3750 con espresso riferimento ad una
ipotesi di lottizzazione abusiva).
Sotto tale profilo, non può avere alcun
rilievo l’invio al Comune degli atti di vendita, che peraltro avevano ad
oggetto un terreno a destinazione agricola.
Infine, l’appellante ha dedotto di avere presentato domande di sanatoria per
i manufatti abusivi, che avrebbero dovuto essere considerate dal Comune così
come il Comune avrebbe dovuto valutare l’approvazione di un piano di
lottizzazione attraverso il meccanismo previsto agli artt. 25 e 35 della
legge 47 del 1985.
Anche tale motivo di appello è infondato, in relazione al costante
orientamento giurisprudenziale per cui la fattispecie della lottizzazione
abusiva, riguardando la sottrazione al Comune del potere pianificatorio,
prescinde dalle singole opere abusive realizzate senza titolo e dalla
presentazione per questa di una eventuale domanda di sanatoria o dal
rilascio per le stesse di un titolo edilizio.
L’accertamento della lottizzazione abusiva, fattispecie posta a tutela del
potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del
territorio, è un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio
anche postumo del titolo edilizio; pertanto alcun rilievo sanante sull'abuso
può rivestire il rilascio di un eventuale titolo edilizio, sia ex ante, in
presenza di titoli anche già rilasciati, sia di titoli rilasciati in
sanatoria. L’autonomia dei due procedimenti comporta che anche la pendenza
della domanda di sanatoria non possa avere comunque avere alcun rilievo
sugli atti adottati ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. 380 del 2001, non
potendo essere comunque rilasciato il titolo in sanatoria (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115).
Infatti, per la costante giurisprudenza, nell’ambito di una lottizzazione
abusiva, non è possibile comunque sanare alcun illecito, non potendo le
singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata
essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo
stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3381).
Quanto all’approvazione del piano di lottizzazione, ritiene il Collegio di
richiamare quanto già sopra evidenziato circa l’ampia discrezionalità del
potere pianificatorio del Comune rispetto al recupero urbanistico dei nuclei
abusivi.
Conclusivamente, pertanto, l’appello è da ritenersi infondato e deve essere
respinto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ESPROPRIAZIONE: Torna
alla Adunanza plenaria l’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U.
espropriazione in relazione all’istituto della c.d. rinuncia abdicativa.
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Espropriazione per pubblico interesse – Acquisizione sanante – Rinuncia
abdicativa – Configurabilità – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Vanno deferite all'Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato, le seguenti questioni:
a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice
amministrativo e disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli
espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da
esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la
conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni
concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere
ravvisata quando sia applicabile l’art. 42-bis;
c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o
risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42 bis,
il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il
silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art.
42-bis;
d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può
conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente
applicando la disciplina di cui all’art. 42-bis e, eventualmente, nominando
un Commissario ad acta già in sede di cognizione;
e) se, nella specie, l’atto di acquisizione emesso da Roma Capitale
in data 23.11.2018 vada considerato giuridicamente rilevante (ciò che
dovrebbe ammettersi, qualora si dovesse ritenere che l’Amministrazione solo
con l’emanazione dell’atto di data 23.11.2018 ha fatto venire meno
l’illecito permanente conseguente alla occupazione sine titulo). (1)
---------------
(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna (che segue due analoghe
ordinanze di rimessione, la n. 5399 e la n. 5391 in pari data) la Quarta
sezione del Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria la
questione della ammissibilità della rinuncia abdicativa nei giudizi dinanzi
al giudice amministrativo, sollecitando una rimeditazione dei principi
affermati in tema dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con
sentenza n. 2 del 2016 (in Foro it., 2016, III, 185 con note di TRAVI,
BARILA’ e PARDOLESI ).
In primo grado il Tar escludeva la configurabilità di una “rinunzia
abdicativa” e riteneva applicabile l’art. 42-bis del testo unico sugli
espropri, con conseguente legittimità del provvedimento poi effettivamente
adottato da Roma capitale resistente in primo grado.
Tale capo della sentenza veniva appellato dagli interessati i quali
prospettavano di non essere più proprietari da tempo, in conseguenza di una
loro “rinunzia abdicativa”.
La Quarta sezione, evidenziava la possibile inefficacia dell’atto di
acquisizione sanante in conseguenza dell’intervenuto acquisto della
proprietà da parte di Roma Capitale in forza della allegata rinuncia
abdicativa da parte degli originari proprietari che avrebbe determinato il
venir meno dell’oggetto del provvedimento di acquisizione; pertanto riteneva
di deferire alla Adunanza plenaria la questione se l’atto di acquisizione,
emesso da Roma Capitale, dovesse essere considerato autoritativo ed efficace
(con la conseguente improcedibilità dei ricorsi di primo grado, quanto meno
parziale) oppure inefficace, o perché non seguito dal pagamento di quanto
dovuto entro i successivi trenta giorni, o perché emesso quando
l’Amministrazione era da considerarsi già proprietaria, potendosi ipotizzare
in tal caso l’applicazione dell’art. 21-septies, comma 1, della legge n. 241
del 1990, avendo l’atto di acquisizione per oggetto un bene di cui
l’Autorità risultava già proprietaria in forza della intervenuta rinuncia
abdicativa.
La rimessione veniva prospettata sulla scorta delle seguenti considerazioni
tese ad escludere la configurabilità di una rinunzia abdicativa, sia nel
caso di specie che in via generale:
a) negli anni susseguenti all’entrata in vigore del testo unico, il
Consiglio di Stato non ha affrontato funditus la questione se la
volontà del proprietario possa comportare la perdita del suo diritto e una
sua pretesa di ottenere il controvalore del bene;
b) tale possibilità è stata ammessa dalla giurisprudenza della Corte di
cassazione (Cass. civ., sez. un., 19.01.2015, n. 735 in Foro it., 2015, I,
436, n. PARDOLESI R., in Corriere giur., 2015, 314, con nota di CONTI; in
Nuova giur. civ., 2015, I, 632, con nota di IMBRENDA; in Urbanistica e
appalti, 2015, 413, con nota di BARILÀ; in Riv. neldiritto, 2015, 220 (m),
con nota di IANNONE; in Nuove autonomie, 2015, 187 (m), con nota di RUSSO),
per i casi devoluti alla giurisdizione del giudice civile, nei giudizi
instaurati prima della entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, che ha
previsto la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia espropriativa.
A tale giurisprudenza ha poi fatto richiamo il § 5.3. della sentenza della
Adunanza plenaria n. 2 del 2016;
c) il principio affermato dalle sezioni unite –che hanno annoverato la “rinuncia
abdicativa” tra i modi con i quali viene meno l’occupazione sine
titulo- è applicabile per le controversie devolute al giudice civile
(quelle sorte prima della entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, che
ha previsto la giurisdizione esclusiva in materia espropriativa, nonché
quelle sorte successivamente in tema di “sconfinamento”, qualora si
ritenga irrilevante la giurisdizione esclusiva);
d) la stessa sentenza delle sezioni unite ha dato atto dei dubbi
interpretativi sulla applicabilità dapprima dell’art. 43 e poi dell’art.
42-bis per le occupazioni senza titolo poste in essere prima della loro
entrata in vigore, poste all’esame del giudice civile;
e) la sentenza n. 735 del 2015 non si è quindi occupata dei casi in cui
sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva, né delle implicazioni
sistematiche che discendono dalla applicazione dell’art. 42-bis del testo
unico espropriazione, ritenuto non applicabile al caso al suo esame;
f) di conseguenza, tenuto conto dei principi affermati dalle sezioni unite
(per le controversie devolute al giudice civile) e delle disposizioni del
testo unico espropriazione (applicabili per le controversie proposte in sede
di giurisdizione esclusiva), si potrebbe escludere che la “rinuncia
abdicativa” possa avere giuridica rilevanza innanzi al giudice
amministrativo;
g) infatti, per i casi di occupazione sine titulo di un fondo da
parte della Autorità (devoluti alla cognizione del giudice amministrativo),
è in vigore la specifica disciplina prevista dall’art. 42-bis del testo
unico sugli espropri, che ha in dettaglio individuato i poteri e i doveri
della medesima Autorità, nonché i poteri del giudice amministrativo;
h) in particolare l’art. 42-bis:
h1) prevede che l’Autorità che utilizza sine titulo un bene immobile
per scopi di interesse pubblico debba valutare, con un procedimento
d’ufficio (che può essere sollecitato dalla parte in caso di inerzia), “gli
interessi in conflitto”, adottando un provvedimento conclusivo con cui
sceglie se acquisire il bene o restituirlo, per adeguare la situazione di
diritto a quella di fatto; in altri termini, vincola l’Amministrazione
occupante all’esercizio del potere ed attribuisce alla stessa un potere
discrezionale in ordine alla scelta finale, all’esito della comparazione e
della valutazione degli interessi;
h2) comporta che nel caso di occupazione sine titulo l’Autorità
commette un illecito di carattere permanente;
h3) esclude che il giudice decida la “sorte” del bene nel giudizio di
cognizione instaurato dal proprietario;
h4) a maggior ragione, non può che escludere che la “sorte” del bene
sia decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene,
sol perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o
di volere il controvalore del bene;
h5) l’art. 42-bis ha esaurito la disciplina della fattispecie, con una
normativa “autosufficiente”, rispetto alla quale non dovrebbero
rilevare “prassi” ulteriori, limitative dell’applicazione della
legge;
i) per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis vi dovrebbe essere una
rigorosa applicazione del principio di legalità, in materia affermato
dall’art. 42 della Costituzione e rimarcato dalla Corte Europea dei diritti
dell’uomo in tema di assenza della base legale delle prassi sulla “espropriazione
indiretta”: nessuna norma ha indicato i requisiti formali necessari per
la validità della “rinuncia abdicativa”, né ha precisato quali
effetti si producano;
j) nel diritto privato, è discusso se l’art. 827 del codice civile sia la
base legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto
reale immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge;
k) è molto dubbio che le sue disposizioni prevalgano su quelle dell’art.
42-bis, che attribuisce all’Autorità e non al proprietario la possibilità di
decidere quale sia il regime del bene: nel vigore dell’art. 42-bis, non vi è
alcuna lacuna normativa da colmare;
l) per l’art. 42-bis l’Autorità può acquisire il bene con un atto
discrezionale, in assenza del quale vi sono gli ordinari rimedi di tutela,
anche quello della restituzione;
m) la scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va
effettuata esclusivamente dall’Autorità (o dal commissario ad acta
nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o
del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 del
c.p.a.): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice
amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni
a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’Autorità
individuata dall’art. 42-bis;
n) l’art. 827 c.c. si riferisce alla titolarità del bene da parte dello
Stato, sicché esso non è neanche in astratto rilevante quando l’illecito sia
stato commesso da una Autorità non statale;
o) il comma 1 dell’art. 42-bis ha attribuito al proprietario un peculiare
interesse legittimo a che l’Amministrazione adegui la situazione di diritto
a quella di fatto -acquisendo essa stessa la titolarità del bene
illecitamente occupato e corrispondendo le relative somme nelle misure
previste dalla legge, ovvero restituendo il bene al legittimo proprietario-
che può essere azionato per costringere anche in tempi rapidi l’Autorità a
provvedere attraverso il ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117
c.p.a.;
p) nel tutelare tale interesse legittimo, il comma 1 “paralizza
temporaneamente” l’accoglibilità della domanda del proprietario di
ottenere senz’altro il risarcimento o la restituzione del suo bene, poiché:
p1) se l’Autorità –d’ufficio o
su sollecitazione di parte– dispone l’acquisizione, all’ex proprietario
spetta l’indennizzo per la cui quantificazione, in caso di contestazione,
sussiste la giurisdizione del giudice civile;
p2) se l’Autorità invece decide di non acquisire il bene, solo allora il
giudice amministrativo può applicare le disposizioni del codice civile;
p3) il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’amministrazione e di
ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., può nominare già in sede di
cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i
poteri di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 o nel senso della
acquisizione o nel senso della restituzione;
q) qualora sia invocata solo la tutela (restitutoria e risarcitoria)
prevista dal codice civile e non si richiami l’art. 42-bis il giudice,
qualificata l’azione come proposta avverso il silenzio, si potrebbe
pronunciare ai sensi dell’art. 117 c.p.a.;
r) in definitiva:
r1) per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e
disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, l’illecito
permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti
(l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un
contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
r2) la “rinuncia abdicativa”, salve le questioni concernenti le
controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando
sia applicabile l’art. 42-bis.
II. – Per completezza sull’argomento si segnala:
s) la rassegna monotematica di giurisprudenza,
sia civile che amministrativa, a cura dell’Ufficio Studi, massimario e
formazione dal titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della
pubblica amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per
ogni approfondimento anche di dottrina; ivi si mette in luce la maggiore
efficienza economica sottesa alla scelta del privato di rinunciare alla
proprietà del bene occupato nonché l’abbattimento del contenzioso invece
incrementato dalla attivazione del procedimento di cui all’art. 42-bis
specie se promosso a seguito di un giudicato che accerti il silenzio
inadempimento dell’Amministrazione; cfr. in particolare i paragrafi § 11 e
da 14 a 21) e la
News US n. 100 del 10.09.2019 relativa a
Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950
sull’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropriazione in presenza di
un giudicato restitutorio del g.o.;
t) tra le più recenti pronunce in tema si segnalano:
t1) Cass. civ., sez. un., n. 3517 del 2019 (in Foro it., 2019, I, 1644, con
nota di BARILÀ dal titolo “La partecipazione del privato al procedimento
di acquisizione sanante”), resa in materia di impugnazione di un atto di
asservimento coattivo in sanatoria ex art. 42-bis T.U. espropriazione, la
quale, ribadendo principi consolidati ed in dichiarata adesione a quanto
espresso dalla Adunanza plenaria n. 2 del 2016, afferma che “L'atto di
acquisizione sanante è, dunque, volto a ripristinare la legalità
amministrativa con effetto non retroattivo, attraverso «una sorta di
procedimento espropriativo semplificato», di carattere eccezionale,
innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente
viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub iudice”;
t2) sul tema della ammissibilità della rinuncia abdicativa cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 24.05.2018, n. 3105 (favorevole); Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2018,
n. 2396 (favorevole); Tar per il Piemonte; sez., I, 28.03.2018, n. 368
(contraria, con ampia motivazione) tutte in Foro it., 2018, III, 403 con
nota redazionale di C. BONA contenente una puntuale rassegna delle posizioni
dottrinali sul tema. Favorevoli alla rinuncia abdicativa sono anche Cass.
civ., sez. I, 24.05.2018, n. 12961 in Foro it., 2018, I, 2363, nonché Cass.
civ., sez. I, 07.03.2017, n. 5686 in Foro it., 2017, I, 1992 con
approfondita nota redazionale di E Barilà; nello stesso senso si veda Corte
appello Genova 27.11.2018 (che ammette la trascrivibilità dell'atto di
rinuncia abdicativo) e Tribunale civile Genova 01.03.2018, in Foro it.,
2019, I, 308, con nota di richiami;
u) sui limiti alla conversione d’ufficio della domanda risarcitoria in
azione contro il silenzio per l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis,
si vedano i principi in materia di conversione dell’azione di annullamento
in azione risarcitoria affermati da Cons. Stato, Ad. plen., 13.04.2015, n. 4
(in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; in Urbanistica e appalti,
2015, 917, con nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA; in Giur. it., 2015, 1693
(m), con nota di COMPORTI; in Guida al dir., 2015, fasc. 20, 92, con nota di
MASARACCHIA; in Foro amm., 2015, 2206 (m), con nota di SILVESTRI; in
Corriere giur., 2015, 1596, con nota di SCOCA; in Dir. proc. amm., 2016,
173, con nota di TURRONI) secondo cui posto che il processo amministrativo è
soggetto al principio della domanda, il giudice amministrativo non può
emettere d'ufficio una pronuncia di risarcimento del danno, in presenza di
una domanda di annullamento della parte ricorrente; si veda altresì Cons.
Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 in Foro it., 2015, III, 265, con nota di
TRAVI; in Urbanistica e appalti, 2015, 1177, con nota di VAIANO; in Riv.
neldiritto, 2015, 2084, con nota di COLASCILLA NARDUCCI; in Riv. dir. proc.,
2015, 1256, con nota di FANELLI; in Giur. it., 2015, 2192 (m), con nota di
FOLLIERI; in Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di PERFETTI, TROPEA; in
Dir. proc. amm., 2016, 830 (m), con nota di BERTONAZZI;
v) nel senso della improcedibilità della domanda di risarcimento del danno
(per equivalente) o di restituzione se sopravviene nel corso del giudizio il
provvedimento ex art. 42-bis, è unanime la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, n. 3148 del 2018; sez. IV, n. 2765 del 2018; Cass. civ., sez. I, n.
5686 del 2017; sez. I, n. 11258 del 2016; sul punto si rinvia al § 9 della
citata rassegna monotematica);
w) per quanto concerne la ipotetica nullità del
provvedimento emanato ex art. 42-bis, perché privo di oggetto secondo una
certa lettura della norma sancita dall’art. 21-septies l. n. 241 del 1990
(secondo questa ricostruzione, infatti, l’immobile, a seguito di rinuncia
abdicativa, sarebbe già transitato nel patrimonio dell’ente occupante, da
qui l’impossibilità giuridica di farne il presupposto per l’esercizio del
potere di acquisizione ex post) si segnala l’opinione contraria
espressa, in linea generale, dalla giurisprudenza:
w1) per
Cass. civ., sez. un., 05.03.2018, n. 5097 (in Riv. giur.
edilizia, 2018, I, 636, nonché oggetto della
News US 14.03.2018 cui si rinvia per ogni approfondimento di
dottrina e giurisprudenza ivi compresa quella amministrativa), solo il
difetto assoluto di attribuzione (ovvero l’assenza in astratto di
qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il
provvedimento amministrativo) radica la nullità ex art. 21-septies, l comma
1, l. n. 241 del 1990);
w2) nella stessa direzione appare muoversi
Corte cost. 02.05.2019, n. 106 (in Foro it., 2019, I, 1829 nonché
oggetto della
News US n. 57 del 14.05.2019 cui si rinvia per ogni
approfondimento), secondo cui sarebbe impossibile configurare la nullità del
provvedimento ex art. 21-septies cit., sempre e comunque a seguito della
declaratoria di incostituzionalità della norma sottoposta al sindacato del
giudice delle leggi, dovendosi ravvisare il più radicale dei vizi dell’atto
solo quando la norma illegittima attenga al fondamento del potere e non alle
sue modalità di esercizio
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 30.07.2019 n. 5400 -
tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Recinzione di un fondo
rustico con opere edilizie permanenti – Materiale
tipicamente edilizio – Interventi di nuova costruzione –
Permesso di costruire – Necessità – Verifica caso per caso – Art. 44, lett. b), d.P.R. D.P.R. n. 380/2001- L.R. Sicilia art.
3 n. 16/2016.
In tema di recinzione di fondi rustici, occorre andare, di
volta in volta a verificare l’estensione dell’area e se tale
recinzione risulti realizzata con opere edilizie permanenti.
Pertanto, per la realizzazione di un muro di recinzione
necessita del previo rilascio del permesso a costruire in
casi, in cui, avuto riguardo alla sua struttura e
all’estensione dell’area relativa, lo stesso sia tale da
modificare l’assetto urbanistico del territorio, così
rientrando nel novero degli “interventi di nuova
costruzione” di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett.
e).
In estrema sintesi, la recinzione di un fondo rustico
non necessita di concessione solo nel caso in cui la stessa
venga attuata con opere non permanenti; il provvedimento autorizzativo è, invece, richiesto quando venga realizzata
con materiale tipicamente edilizio tra cui rientra la
zoccolatura di calcestruzzo.
Nella specie, la qualificazione
dell’intervento come nuova costruzione dal primo giudice e
confermata dalla Corte territoriale, trattandosi di opere di
recinzione con materiale tipicamente edilizio, durevole nel
tempo, e di dimensioni certamente significative, da cui
anche l’esclusione della natura pertinenziale delle opere.
...
Regione Sicilia –
Recinzione di fondi rustici – Potestà legislativa regionale
esclusiva in materia urbanistica – Interpretazione
legislativa.
Pur tenendo a conto della potestà legislativa regionale
esclusiva in tale materia urbanistica, la legge regionale
siciliana n. 16 del 2015 (“Recepimento del Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia
approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”), esclude dal novero degli interventi
soggetti a permesso a costruire, “la recinzione di fondi
rustici”, senza ulteriore specificazione, dovendosi
interpretare tale previsione in coerenza con il principio
della necessità di titolo autorizzativo per opere che
comportano trasformazione del territorio e che, dunque, sono
realizzate con materiali tipicamente edilizi, non avendo il
legislatore regionale diversamente stabilito (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.07.2019 n. 31617 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela dell’interesse storico
ed artistico del bene – Interventi su cose mobili pertinenza
di un immobile vincolato – Esecuzione senza autorizzazione –
Natura di reato formale di pericolo – Configurabilità senza
il preventivo controllo amministrativo – Art. 169 d.lgs.
422004 – Non punibilità attesa la particolare tenuità dei
fatti.
In tema di beni culturali, integra il reato di cui all’art.
169, comma 1, lett. a), d.lgs. 22.01.2004, n. 42. anche
la condotta di chi esegue senza autorizzazione interventi su
cose mobili che, costituendo pertinenza di un immobile
vincolato, contribuiscono a salvaguardare l’interesse
storico ed artistico del bene (Sez. 3, n. 45149 del
08/10/2015, Pisu e altro).
Inoltre, il reato d’abusivo
intervento su beni culturali, previsto dall’art. 169 d.lgs
n. 42/2004, è un reato formale di pericolo, integrato dal
compimento dei lavori e delle opere senza il preventivo
controllo amministrativo, diretto ad evitare possibili
pericoli e danni, che si consuma anche se non si produce una
concreta lesione del valore storico-artistico della res,
sempre che, secondo una valutazione ex ante, non si tratti
di interventi talmente trascurabili, marginali e minimi da
escludere anche il solo pericolo astratto di lesione
dell’interesse protetto (Sez. 3, n. 47258 del 21/07/2016,
Tripi e altro).
Fattispecie: il parroco di una Chiesa
parrocchiale veniva dichiarato non punibile attesa la
particolare tenuità dei fatti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2019 n. 31337 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere di scavo, di
sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad
usi diversi da quelli agricoli – Intervento di nuova
costruzione – Permesso di costruire – Necessità –
Trasformazione edilizia o urbanistica del territorio – Artt.
3, 10, 44, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 380/2001.
La trasformazione edilizia o urbanistica del territorio,
costituisce “intervento di nuova costruzione” soggetto a
permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto degli
artt. 10, comma 1, lett. a), e 3, comma 1, lett. e), d.P.R.
380 del 2001, è quella che determina la permanente modifica
del suolo, come ad esempio le opere di scavo, di sbancamento
e di livellamento del terreno finalizzate ad usi diversi da
quelli agricoli, in quanto, creano una modifica permanente
dello stato materiale e della conformazione del suolo per
adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio
e incidendo pesantemente sul tessuto urbanistico del
territorio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2019 n. 31287 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esecuzione delle opere
edilizie – Abusi – Direttore dei lavori – Assenza dal
cantiere – Responsabilità – Onere di vigilanza.
L’assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità
per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale
ricade l’onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle
opere edilizie ed il dovere di contestare le irregolarità
riscontrate, se del caso rinunziando all’incarico (Sez. 3,
n. 7406 del 15/01/2015, Crescenzi; Sez. 3, n. 34602 del
17/06/2010, Ponzio).
Nella specie è stata ritenuta sufficiente
la missiva sottoscritta dal committente e dal direttore dei
lavori trasmessa al Corpo Forestale dello Stato, in cui
comunicavano l’inizio delle opere di movimentazione di terra
di cui al progetto assentito per la realizzazione di un
garage; con tale atto il tecnico aveva dunque formalmente
assunto il ruolo di direttore dei lavori ed era pertanto
onerato di vigilare affinché gli stessi si svolgessero in
conformità al progetto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2019 n. 31287 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Scavi in area
paesaggisticamente vincolata – Eseguiti in assenza della
prescritta autorizzazione o in difformità – Artt. 146, 181,
d.lgs. n. 42/2004 – Configurabilità – Giurisprudenza.
In tema di reati urbanistici, le opere di scavo, di
sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad
usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul
tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a
titolo abilitativo edilizio. Ove tali lavori ricadano in
area paesaggisticamente vincolata occorra altresì
l’autorizzazione di cui all’art. 146 d.lgs. 42 del 2004.
Sicché, il reato di cui all’art. 181 del d.lgs. n. 42 del
2004, giusta la chiara formulazione del precetto contenuta
nel primo comma della disposizione, si configura rispetto a
lavori di qualsiasi genere eseguiti sui beni muniti di
tutela paesaggistica, in assenza della prescritta
autorizzazione o in difformità da essa, senza che assuma
rilievo la distinzione tra le ipotesi di difformità parziale
e totale rilevante invece nella disciplina urbanistica.
Laddove poi –come nel caso di specie– l’autorizzazione
rilasciata abbia ad oggetto lavori completamente diversi da
quelli eseguiti, sì che quanto realizzato sia addirittura
configurabile quale aliud pro alio, non v’è alcun dubbio
sulla sussistenza del reato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2019 n. 31287 - link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE Torna
alla Adunanza plenaria l’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropri
in presenza di un giudicato restitutorio del g.o..
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Espropriazione per pubblico
interesse – Acquisizione sanante – Applicabilità alla costituzione di una
servitù pubblica in presenza di giudicato civile restitutorio – Deferimento
all’Adunanza plenaria
Vanno deferite all'Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato, le seguenti questioni:
a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al
proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o
meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col
mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare;
b) se la formazione del giudicato interno -sulla statuizione del
TAR per cui il giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario
procedimento espropriativo– imponga nella specie di affermare che sussiste
anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex
art. 42-bis, comma 6;
c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche
quando la sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia
espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per
adeguare lo stato di fatto a quello di diritto;
d) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione
ai giudicati formatisi dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza
Plenaria n. 2 del 2016, ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in
precedenza (1).
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(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la quarta sezione del
Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria alcune questioni
relative alla interpretazione dell’art. 42-bis del t.u. espropri, con
particolare riferimento alla possibilità di adottare un decreto di
acquisizione sanante per la costituzione, in favore di un Comune, di una
servitù pubblica di passaggio per l’accesso ad un parco pubblico, in
presenza di un giudicato civile di restituzione del terreno, conseguente non
ad una procedura espropriativa illegittima ma alla declaratoria di nullità
di un contratto di compravendita con immissione immediata nel possesso in
favore del Comune resistente dinanzi al Tar.
In primo grado il Tar per le Marche ha accolto il ricorso proposto dai
proprietari del terreno, gravato dalla servitù pubblica, in dichiarata
applicazione dei principi espressi dalla Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato con sentenza n. 2 del 2016 (in Foro it., 2016, III, 185) che ha
escluso la possibilità, in presenza di un giudicato civile restitutorio
conseguente a procedura espropriativa illegittima, di adottare il decreto di
acquisizione sanante.
La quarta sezione, adita dalla contro interessata che beneficiava della
servitù pubblica di passaggio, ha ritenuto di deferire nuovamente alla
Adunanza plenaria la questione del rapporto tra giudicato civile
restitutorio e decreto di acquisizione sanante, sulla scorta delle seguenti
considerazioni:
a) è opinabile, rispetto a quanto osservato dal
Tar, che nella specie si ravvisi una vicenda di mero rilievo privatistico,
su cui non potrebbe ‘interferire’ il potere pubblicistico;
b) l’art. 42-bis t.u. espropri si applica infatti testualmente ad ogni caso
in cui –per qualsiasi ragione– un bene immobile altrui sia utilizzato
dall’Amministrazione per scopi di interesse pubblico, senza che abbiano
rilievo le circostanze che hanno condotto alla occupazione sine titulo e
alla riconducibilità di tali circostanze a vicende di natura privatistica o
pubblicistica;
c) in particolare la parola ‘anche’ evidenzia la natura meramente
esemplificativa dei casi indicati dal comma 2 dell’art. 42-bis (annullamento
dell’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, dell’atto
che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o del decreto di
esproprio);
d) peraltro, nel caso di specie, per escludere un mero rilievo
‘privatistico’ della vicenda, la sezione sottolinea come l’Amministrazione –con la stipula del contratto poi dichiarato nullo– ha invero attuato le
previsioni dell’allora vigente programma di fabbricazione, sicché il
medesimo contratto avrebbe sostanzialmente la natura di accordo di cessione
del bene espropriando, attuativo dello strumento urbanistico;
e) quanto al limite del giudicato restitutorio, enunciato da Corte cost., 30.04.2015, n. 71 (in Foro it., 2015, I, 2629 con nota di R. PARDOLESI
“Acquisizione sanante: ansia di riscatto e violenza latente”) e ribadito da Cons. Stato, Ad. plen.,
09.02.2016, n. 2 cit., si tratta di principio
affermato con specifico riferimento alla emanazione dell’atto di
acquisizione “in proprietà” mentre nel caso di specie il Comune si è
limitato a costituire una servitù di passaggio, ai sensi dell’art. 42-bis,
comma 6, sicché il suddetto principio non dovrebbe ritenersi ostativo;
f) la costituzione di una servitù, in luogo della acquisizione della
proprietà, sarebbe decisiva per differenziare la presente fattispecie dal
principio affermato dalla Corte costituzionale e dalla Adunanza plenaria in
quanto il Comune ha mantenuto ferma (ed ha riconosciuto) la titolarità del
diritto di proprietà in capo agli appellati e –nel contemperare gli
interessi in conflitto– ha imposto la servitù per una parte delimitata
dell’area, in ragione dello specifico interesse pubblico, riferito alla
migliore utilizzabilità del ‘fondo dominante’ (costituito dal vicino parco
pubblico), oltre che alla razionalità dell’assetto viario;
g) inoltre la formazione del giudicato interno sulla statuizione del Tar
per cui il giudicato restitutorio consente comunque l’attivazione di un
ordinario procedimento espropriativo volto all’acquisto della proprietà,
dovrebbe indurre a concludere nel senso che sussiste anche il potere
dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42-bis,
comma 6;
h) la sezione pone altresì la questione se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la sentenza del giudice civile non abbia
espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per
adeguare lo stato di fatto a quello di diritto; la sussistenza del
‘giudicato restitutorio’ potrebbe essere affermata solo quando la relativa
sentenza abbia ritenuto di escludere l’applicabilità della normativa
pubblicistica, introdotta dal legislatore proprio per consentire
l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto; non v’è dubbio
infatti che proprio a seguito dell’annullamento degli atti del procedimento
ablatorio da parte del g.a. si possano esercitare i poteri previsti
dall’art. 42-bis: allo stesso modo, il giudice civile –nell’emettere
unicamente le statuizioni prettamente civilistiche conseguenti alla
declaratoria della nullità del contratto- non va ad incidere sull’ambito di
applicabilità del medesimo articolo;
i) occorre dunque chiarire se il principio enunciato dalla Adunanza plenaria
n. 2 del 2016 sia applicabile ai soli casi in cui il ‘giudicato restitutorio’ sia caratterizzato dalla espressa statuizione sulla
inapplicabilità dell’art. 42-bis, ovvero anche ai casi in cui l’ordine di
restituzione sia stato emesso –come nella specie, dal giudice civile-
senza alcun richiamo alla normativa pubblicistica applicabile in materia;
j) per l’ipotesi in cui si ritenga che la sentenza del giudice civile sia
tale da comportare un ‘giudicato restitutorio preclusivo’ con conseguente
inapplicabilità dell’art. 42-bis, la sezione chiede alla plenaria di
modulare la portata temporale della regola affermata dalla precedente
sentenza n. 2 del 2016 ritenendola applicabile solo ai giudicati formatisi
successivamente, evidenziando che il ‘giudicato restitutorio’ –disposto
dalla sentenza della Corte d’appello di Ancona nel 2014– si è formato prima
della enunciazione del principio di diritto da parte dell’Adunanza plenaria,
e dunque quando il Comune –anche per l’assenza di una statuizione del
giudice civile sulla impossibilità di esercitare i poteri pubblicistici–
non poteva percepire la gravità delle conseguenze che sarebbero derivate dal
suo passaggio in giudicato;
k) diversamente, come osservato dalla
Adunanza plenaria con sentenza 22.12.2017, n. 13 (in Foro
it., 2018, III, 145 con nota critica di M. CONDORELLI “Il nuovo prospective
overruling, «dimenticando» l'adunanza plenaria n. 4 del 2015” oggetto della
News US del 08.01.2018, con ampi richiami di dottrina e di
giurisprudenza), vi sarebbe una ‘notevole compromissione’ degli interessi
pubblici coinvolti –oltre
che una lesione del legittimo affidamento dell’Amministrazione- se si
dovesse ritenere che ai giudicati restitutori ‘antecedenti’ alle statuizioni
della Adunanza plenaria vada attribuito un rilievo assolutamente preclusivo
dell’esercizio del potere previsto dall’art. 42-bis, col conseguente obbligo
dell’Amministrazione di restituire ineluttabilmente le aree, previa la loro
restitutio in integrum;
l) rileva al riguardo anche il principio di certezza del diritto, per il
quale, sempre secondo la richiamata pronuncia n. 13 del 2017, si può
limitare “la possibilità per gli interessati di far valere la norma
giuridica come interpretata, se vi è il rischio di ripercussioni economiche
o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti
giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione
normativa, sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati
indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una
obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni”;
m) in materia di occupazione sine titulo solo la citata sentenza della Corte
costituzionale ha fugato i dubbi interpretativi sulla legittimità
costituzionale dell’art. 42-bis ed ha sottolineato il rilievo ostativo del
‘giudicato restitutorio’, al quale ha operato il suo richiamo l’Adunanza
plenaria;
n) è pertanto comprensibile che prima di tali pronunce le Amministrazioni –per lo più indotte a non emettere il provvedimento di acquisizione dal
timore di non incorrere in responsabilità e dalla scarsità delle risorse
economiche- non abbiano avuto nemmeno adeguata contezza dell’impatto
innovativo delle ‘nuove’ disposizioni e delle preclusioni che sarebbero
state desunte in sede interpretativa.
II. – Per completezza sull’argomento si segnala:
o) la rassegna monotematica di giurisprudenza, sia civile che
amministrativa, a cura dell’Ufficio studi, massimario e formazione dal
titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della pubblica
amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per ogni
approfondimento anche di dottrina in relazione all’istituto della rinuncia abdicativa);
p) tra le più recenti pronunce in tema si vedano:
p1) Cass. civ., sez. un., n.
3517 del 2019 (in Foro it., 2019, I, 1644, con nota di BARILÀ dal titolo “La
partecipazione del privato al procedimento di acquisizione sanante”), resa
in materia di impugnazione di un atto di asservimento coattivo in sanatoria
ex art. 42-bis t.u. espropri, la quale, ribadendo principi consolidati ed in
dichiarata adesione a quanto espresso dalla Adunanza plenaria n. 2 del 2016,
afferma che “L'atto di acquisizione sanante è, dunque, volto a ripristinare
la legalità amministrativa con effetto non retroattivo, attraverso «una
sorta di procedimento espropriativo semplificato», di carattere eccezionale,
innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente
viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub iudice”;
p2) sul tema connesso della ammissibilità della rinuncia abdicativa cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 24.05.2018, n. 3105 (favorevole); Cons. Stato,
sez. IV, 20.04.2018, n. 2396 (favorevole); Tar per il Piemonte; sez,
I; 28.03.2018, n. 368 (contraria, con ampia motivazione) tutte in Foro it., 2018, III, 403 con nota redazionale di C. BONA contente una puntuale
rassegna delle posizioni dottrinali sul tema. Favorevoli alla rinuncia
abdicativa sono anche Cass. civ., sez. I, 24.05.2018, n. 12961 in Foro it., 2018, I, 2363 nonché Cass. civ., sez. I,
07.03.2017, n. 5686 in Foro it., 2017, I, 1992 con approfondita nota redazionale di BARILÀ; nello stesso
senso si veda Corte appello Genova 27.11.2018 (che ammette la trascrivibilità dell'atto di rinuncia abdicativo) e Tribunale civile Genova
01.03.2018, in Foro it., 2019, I, 308 con nota di richiami;
q) sul tema dell’overruling processuale e sostanziale si veda:
q1) Cass. civ., sez. un., n. 4135 del 2019, in Foro it., 2019, I, 1623 con
nota di CAPASSO la quale ha ribadito che il prospective overruling è
limitato alle norme di carattere processuale e serve a tutelare “la parte
che vedrebbe frustrato il proprio legittimo affidamento nell'interpretazione
resa dalla Suprema corte nel momento in cui ha tenuto la condotta
processuale, qualora fosse esposta agli effetti processuali pregiudizievoli
(nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità) derivanti dal successivo revirement giurisprudenziale, ma pur sempre riconducibili alle disposizioni
processuali vincolanti per tutti i giudici, soggetti solo alla legge (art.
101, 2° comma, Cost.)”.
Ha inoltre ribadito che un orientamento del giudice
della nomofilachia cessa di essere retroattivo, come, invece, dovrebbe
essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati
giurisprudenziali, e può quindi parlarsi di prospective overruling, a
condizione che ricorrano cumulativamente i seguenti presupposti:
che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza di legittimità
su norme regolatrici del processo, non anche su disposizioni di natura
sostanziale;
che tale mutamento sia stato imprevedibile o quantomeno inatteso e privo
di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, in ragione del
carattere consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da
indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso, ipotesi non
ravvisabile in presenza di preesistenti contrasti interpretativi o di
incertezza interpretativa delle norme processuali ad opera della Corte di
cassazione in assenza di un orientamento consolidato della stessa Corte
o nel caso in cui la parte abbia confidato nell'orientamento che non è
prevalso;
che l'overruling sia causa diretta ed esclusiva di un effetto preclusivo
del diritto di azione o di difesa della parte, ponendosi esso quale causa di
sopravvenuta inammissibilità, improcedibilità, decadenze o preclusioni, in
ragione della diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base
dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso, che abbia reso
impossibile una decisione sul merito della pretesa azionata in giudizio;
q2)
Corte cost., 25.06.2019, n. 160 (oggetto della
News US n. 79 del 08.07.2019) secondo cui solo la legge può
modulare gli effetti della tutela costitutiva d’annullamento.
Se è infatti
indiscutibile che i principi fondamentali del nostro sistema costituzionale
espressi dagli artt. 24 e 113 Cost. devono trovare applicazione rigorosa a
garanzia delle posizioni giuridiche dei soggetti che ne sono titolari, “ciò
non significa che l’art. 113 Cost., correttamente interpretato sia diretto
ad assicurare in ogni caso e incondizionatamente una tutela giurisdizionale
illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo, spettando invece al
legislatore ordinario un certo spazio di valutazione nel regolarne modi ed
efficacia”; il “secondo comma dell’art. 113 non può essere interpretato
senza collegarlo col comma che lo segue immediatamente e che contiene la
norma, secondo la quale la legge può determinare quali organi di
giurisdizione possano annullare gli atti della pubblica Amministrazione nei
casi e con gli effetti previsti dalla legge medesima. Il che sta a
significare che codesta potestà di annullamento non è riconosciuta a tutti
indistintamente gli organi di giurisdizione, né è ammessa in tutti i casi, e
non produce in tutti i casi i medesimi effetti”; nella stessa direzione si
muovono anche le considerazioni sviluppate da
Corte di giustizia dell’UE, 29.07.2019, C-411/17, ASBL (Newsletter
n. 32 del 02.09.2019), secondo cui, in buona sostanza, in
presenza della violazione del diritto europeo da parte di misure
amministrative:
gli Stati membri (inclusi gli apparati giudiziari) sono tenuti, in linea
generale e tendenzialmente inderogabile, a rimuovere le conseguenze
dell’illecito europeo ex tunc, sospendendo ovvero annullando il relativo
provvedimento;
solo la Corte di giustizia può acconsentire, a determinate condizioni, che
i giudici nazionali (incluse le Corti costituzionali), per esigenze
imperative ed in via del tutto eccezionale, modulino gli effetti nel tempo
della declaratoria di illegittimità della disposizione sottoposta a
controllo, in presenza di una previsione nazionale espressa;
per tale via sarebbe possibile applicare la disposizione nazionale che
consente espressamente di mantenere determinati effetti di un atto nazionale
annullato;
q3)
Cons. Stato, Ad. plen., 23.02.2018, n. 1 (oggetto
della News US del 27.02.2018 nonché
in Foro it., 2018, III, 193), la quale ha escluso che il principio di
diritto affermato (concernente il divieto di cumulo tra risarcimento del
danno ed emolumenti di carattere indennitario erogati da enti pubblici)
possa ritenersi applicabile soltanto a rapporti futuri e non anche a quelli
in corso, avendo gli enunciati giurisprudenziali natura formalmente
dichiarativa.
Rammenta al riguardo che la diversa opinione «finisce per
attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con la
logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale
della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di
produzione» (Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9 in Foro it.,
2016, III, 65; Riv. neldiritto, 2016, 93; Riv. neldiritto, 2016, 285, con
nota di BRICI; Foro amm., 2015, 2747; Contratti Stato e enti pubbl., 2015,
fasc. 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti, 2016, 167, con
nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm., 2016, 365 (m), con
nota di GALLI, CAVINA; Riv. giur. edilizia, 2015, I, 1138; Nuovo dir. amm.,
2016, fasc. 3, 53, con nota di NARDOCCI);
q4) di segno opposto è invece Cons. Stato, Ad. plen., 22.12.2017, n.
13 cit., richiamata dalla ordinanza in rassegna, in materia di ultrattività
delle proposte di vincolo paesaggistico, che ha ritenuto ammissibile
l’istituto dell’overruling anche su questione di diritto sostanziale, su cui
si veda: ANTONIO VACCA, Adunanza Plenaria, ius dicere e creazione del
diritto (commento a Cons. Stato, Ad. Plenaria, sent. 22.12.2017 n. 13)
in Lexitalia, 05.01.2018, secondo il quale la limitazione pro futuro
degli effetti della sentenza interpretativa dell’Adunanza plenaria
equivarrebbe alla creazione di una norma transitoria, in funzione para
normativa, e può integrare un’ipotesi di diniego di giurisdizione in danno
della parte ricorrente, suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.; D. PAGANO, L'Adunanza Plenaria n. 13/20017:
summum jus, summa iniura?,
ibidem, 22.02.2018. Ampi approfondimenti sul tema sono contenuti anche nella
News US in data 08.01.2018 cit. cui si rinvia
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 15.07.2019 n. 4950 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
trasformazione della copertura inclinata (o lastrico solare)
in terrazzo praticabile e calpestabile.
L'esame della giurisprudenza amministrativa, formatasi
relativamente ad opere abusive, consistite nella trasformazione di lastrici
solari in terrazzi, consegna un quadro caratterizzato dall'affermazione
della necessità del permesso a costruire, per opere siffatte.
In particolare, si è affermato: "La sola posa
di una pavimentazione su un lastrico solare già precedentemente accessibile
(senza peraltro che possa rilevarsi l'apposizione di ringhiere, parapetti o
altre strutture), non può essere considerato un intervento di trasformazione
da lastrico solare a terrazzo, non mutando la sua destinazione di utilizzo,
stante l'inesistenza di altri manufatti che ne evidenzino la destinazione
all'utilizzo per la presenza stabile di persone e considerato che il
lastrico solare in questione era già pienamente accessibile tramite le scale
condominiali. La semplice posa in opera di pavimentazione è da qualificarsi
come intervento di manutenzione straordinaria assentibile all'epoca con d.i.a., di tal che il provvedimento impositivo di una sanzione pecuniaria
appare pienamente giustificato".
---------------
Il Collegio riconosce l'esistenza di una differenza, in termini di
disciplina urbanistica, tra un lastrico solare e un terrazzo.
Il primo è una parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un
tetto, o quanto meno una copertura di ambienti sottostanti, mentre la
terrazza è intesa come ripiano anch'esso di copertura, ma che nasce già
delimitato all'intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben
precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti.
Il Collegio ritiene, altresì, che, nel caso si realizzi un cambio di
destinazione d'uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è
prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi
edilizi, sia necessario il cambio il permesso di costruire.
L'indirizzo in questione, d'altro canto, è corroborato da ulteriori
pronunce, tutte nel senso dell'imprescindibilità, in casi siffatti, del
permesso a costruire:
- "La sostituzione della preesistente copertura
inclinata con un terrazzo calpestabile che, in quanto destinato ad offrire
un affaccio e ulteriori utilità ai locali abitativi cui è stato collegato
mediante l'apertura di una porta - finestra, forma parte funzionalmente
integrante dei locali medesimi, comporta un evidente incremento della
superficie dello stabile: tale modifica configura un intervento di
ristrutturazione edilizia";
- "La
trasformazione di un tetto di copertura in terrazzo calpestabile modifica
gli elementi tipologici formali e strutturali dell'organismo preesistente
-risolvendosi in ultima analisi in una alterazione di prospetto e sagoma
dell'immobile- e, quindi, non rientra nella categoria del restauro e
risanamento conservativo, bensì in quella della ristrutturazione edilizia";
- "Il mutamento di
destinazione d'uso della terrazza e il complesso delle opere connesse
(rivestimento dell'area di calpestio, apposizione di fioriere prefabbricate
e di incannucciamento ancorato alla ringhiera, scala di accesso interna in
muratura a ridosso del piano finestra) necessita del permesso di costruire,
tenuto conto che esse realizzano un aumento del carico urbanistico nonché,
almeno in parte, una modifica del prospetto dell'edificio".
Insomma, ne risulta confermato che "Nel caso si realizzi un
cambio di destinazione d'uso trasformando un solaio di copertura, per cui
non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi
edilizi, è necessario il permesso di costruire, non essendo realizzabile
detta trasformazione tramite semplice s.c.i.a. né tramite comunicazione di
inizio lavori ex art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001".
E anche quando s'afferma, in giurisprudenza, che: "La realizzazione di
una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l'accesso ad
un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il
preventivo rilascio del permesso di costruire; infatti, tali opere seppure
finalizzate a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile
non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo
preordinate ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale,
funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo
valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non
consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio
dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un
aumento del carico urbanistico", ci
si riferisce, evidentemente, ad opere (come una ringhiera protettiva e una
scala in ferro) accessive ad un organismo edilizio già qualificabile in
termini di terrazzo, laddove nella specie s'è invece in presenza, lo si
ribadisce, della trasformazione, in terrazzini, di preesistenti meri
lastrici solari.
---------------
Rientra nella nozione di opera
edilizia subordinata a permesso di costruire la trasformazione di un
lastrico di copertura in terrazzo praticabile, configurandosi una variazione
essenziale.
In tal senso, infatti, deve ritenersi che la modifica della
copertura in terrazza aumenti la superficie utile dell’immobile in quanto
idonea a trasformare la natura prevalentemente di protezione del fabbricato,
propria del lastrico, destinandola ordinariamente e durevolmente alla
fruizione umana, per affaccio e sosta.
---------------
Orbene, tal essendo l’ambito oggettivo degli abusi, realizzati dal
ricorrente ed accertati dal Comune di Amalfi, osserva il Collegio come le
prime due doglianze dell’atto introduttivo del giudizio (le quali, per
comodità d’esposizione, possono essere trattate insieme), nella misura in
cui pretendono che i lavori abusivi de quibus siano legittimi, grazie
al riferimento alla d.i.a. del 2003, depositata in vista del risanamento
della struttura dall’amianto, e nella misura in cui pretendono, in radice,
d’escludere, per le opere in questione, la necessità del p.d.c. (bastando
per l’appunto la d.i.a. in argomento, ovvero –al più– “un’ulteriore
d.i.a.”), e ciò sia per il terrazzo, di cui al punto 1), sia per le
opere pertinenziali, di cui ai successivi punti 2), 3) e 4) dell’ordinanza
gravata, sono del tutto prive di pregio.
In particolare, per quanto riguarda la trasformazione “della preesistente
copertura inclinata di porzione della veranda insistente al primo piano, in
copertura piana, previo livellamento del massetto in cls., sovrastante la
struttura portante costituita da elementi in ferro e lamiera grecata”,
detta opera, letta congiuntamente alla “installazione di ringhiera in
ferro, lungo il perimetro della stessa, per complessivi ml. 15, avente
altezza pari a mt. 1,05, cementata al suolo” e alla “realizzazione,
sul ricavato terrazzo, di uno scalino in muratura, nonché taglio della
preesistente ringhiera della sala da pranzo, in cui è stato ricavato un
cancelletto a due ante, di circa mt. 1,50 per mt. 1, il tutto finalizzato a
mettere in comunicazione il ricavato terrazzo con la sala ristorante”,
configura, all’evidenza, la modifica della destinazione d’uso di un
preesistente lastrico solare (o della copertura, come s’esprime l’ordinanza)
in terrazzo praticabile e calpestabile, all’evidente fine, testimoniato
proprio dalla predisposizione del collegamento tra lo stesso terrazzo, così
ricavato, e la sala ristorante, di un ampliamento della superficie
dell’esercizio pubblico di ristorazione, di cui è titolare il ricorrente.
Ma tanto non è consentito, trattandosi senz’altro d’intervento, per il quale
è richiesto il p.d.c., come la Sezione ha di recente affermato nella
sentenza n. 24 del 03.01.2018, nella cui parte motiva, sul punto, è dato
leggere: “(…) L'esame della giurisprudenza amministrativa, formatasi
relativamente ad opere abusive, consistite nella trasformazione di lastrici
solari in terrazzi, consegna un quadro caratterizzato dall'affermazione
della necessità del permesso a costruire, per opere siffatte.
In particolare, nella massima ricavata dalla sentenza del TAR
Campania-Napoli, Sez. IV, del 06/03/2013, n. 1247, si legge: "La sola posa
di una pavimentazione su un lastrico solare già precedentemente accessibile
(senza peraltro che possa rilevarsi l'apposizione di ringhiere, parapetti o
altre strutture), non può essere considerato un intervento di trasformazione
da lastrico solare a terrazzo, non mutando la sua destinazione di utilizzo,
stante l'inesistenza di altri manufatti che ne evidenzino la destinazione
all'utilizzo per la presenza stabile di persone e considerato che il
lastrico solare in questione era già pienamente accessibile tramite le scale
condominiali. La semplice posa in opera di pavimentazione è da qualificarsi
come intervento di manutenzione straordinaria assentibile all'epoca con
d.i.a., di tal che il provvedimento impositivo di una sanzione pecuniaria
appare pienamente giustificato".
In essa, la possibilità di prescindere dal rilascio del permesso a
costruire, e la conseguente sanzionabilità dell'abuso in termini pecuniari,
si collega, infatti, alle caratteristiche precipue dell'intervento, tenuto
presente nella specie, caratterizzato dalla sola pavimentazione del lastrico
solare e dalla mancata apposizione di ringhiere, parapetti o altre
strutture, tale da escludere "la destinazione all'utilizzo per la presenza
stabile di persone", laddove in parte motiva la stessa decisione precisa,
inequivocabilmente, che: "(...) Il Collegio riconosce l'esistenza di una
differenza, in termini di disciplina urbanistica, tra un lastrico solare e
un terrazzo.
Il primo è una parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un
tetto, o quanto meno una copertura di ambienti sottostanti, mentre la
terrazza è intesa come ripiano anch'esso di copertura, ma che nasce già
delimitato all'intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben
precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti.
Il Collegio ritiene, altresì, che, nel caso si realizzi un cambio di
destinazione d'uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è
prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi
edilizi, sia necessario il cambio il permesso di costruire (TAR Lazio-Roma,
Sez. II, 22.03.2004, n. 2676; TAR Campania, Sez. VII, 01.07.2010, n. 16540)
(...)".
Tal è il caso che viene in rilievo nella specie, essendosi per l'appunto in
presenza della trasformazione, in più punti, del lastrico solare di
copertura in terrazzo, destinato alla fruizione da parte del ricorrente,
che, per l'appunto, "ha pavimentato tre terrazzi e/o lastrici solari e vi
ha apposto le ringhiere di protezione (punti 2, 4 e 8 dell'ordinanza di
demolizione)" (…).
L'indirizzo in questione, d'altro canto, è corroborato da ulteriori
pronunce, tutte nel senso dell'imprescindibilità, in casi siffatti, del
permesso a costruire: "La sostituzione della preesistente copertura
inclinata con un terrazzo calpestabile che, in quanto destinato ad offrire
un affaccio e ulteriori utilità ai locali abitativi cui è stato collegato
mediante l'apertura di una porta - finestra, forma parte funzionalmente
integrante dei locali medesimi, comporta un evidente incremento della
superficie dello stabile: tale modifica configura un intervento di
ristrutturazione edilizia" (TAR Liguria, Sez. I, 01/12/2016, n. 1177); "La
trasformazione di un tetto di copertura in terrazzo calpestabile modifica
gli elementi tipologici formali e strutturali dell'organismo preesistente
-risolvendosi in ultima analisi in una alterazione di prospetto e sagoma
dell'immobile- e, quindi, non rientra nella categoria del restauro e
risanamento conservativo, bensì in quella della ristrutturazione edilizia"
(TAR Lazio-Latina, Sez. I, 24/12/2015, n. 870); "Il mutamento di
destinazione d'uso della terrazza e il complesso delle opere connesse
(rivestimento dell'area di calpestio, apposizione di fioriere prefabbricate
e di incannucciamento ancorato alla ringhiera, scala di accesso interna in
muratura a ridosso del piano finestra) necessita del permesso di costruire,
tenuto conto che esse realizzano un aumento del carico urbanistico nonché,
almeno in parte, una modifica del prospetto dell'edificio" (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII, 01/07/2010, n. 16540).
Insomma, ne risulta confermato che, secondo quanto sancito dalla succitata
sentenza del TAR Campania-Napoli, n. 1247/2013: "Nel caso si realizzi un
cambio di destinazione d'uso trasformando un solaio di copertura, per cui
non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi
edilizi, è necessario il permesso di costruire, non essendo realizzabile
detta trasformazione tramite semplice s.c.i.a. né tramite comunicazione di
inizio lavori ex art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001".
E anche quando s'afferma, in giurisprudenza, che: "La realizzazione di
una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l'accesso ad
un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il
preventivo rilascio del permesso di costruire; infatti, tali opere seppure
finalizzate a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile
non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo
preordinate ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale,
funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo
valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non
consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio
dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un
aumento del carico urbanistico" (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
01/04/2016, n. 846; conforme: TAR Liguria, Sez. I, 11/07/2011, n. 1088), ci
si riferisce, evidentemente, ad opere (come una ringhiera protettiva e una
scala in ferro) accessive ad un organismo edilizio già qualificabile in
termini di terrazzo, laddove nella specie s'è invece in presenza, lo si
ribadisce, della trasformazione, in terrazzini, di preesistenti meri
lastrici solari.
Stabilito, dunque, che l’opera abusiva, per così dire principale, consistita
nell’evidente trasformazione del preesistente lastrico di copertura in un
terrazzo praticabile, al fine d’ampliare la superficie del locale adibito a
ristorante, è senz’altro illegittima, per difetto del necessario titolo
abilitativo, legittimante tale genere d’intervento (a nulla valendo, ai fini
del necessario atto d’assenso urbanistico–edilizio, la d.i.a. del 2003, che,
come correttamente osservato dalla difesa dell’ente, nella memoria in atti,
riguardava “la rimozione delle lastre di eternit a copertura della
veranda insistente al primo piano e la realizzazione del nuovo manto di
copertura con lamiere in acciaio coibentato e soprastante battuto di malta,
il tutto senza alcuna trasformazione dello stato dei luoghi e dell’aspetto
esterno del manufatto”), rileva ulteriormente il Collegio come, del
resto, anche le stesse opere, di cui ai punti 2) e 4) dell’ordinanza gravata
(evidentemente avvinte da un nesso di inestricabile strumentalità, rispetto
alla divisata realizzazione di un terrazzo calpestabile), ove in sé e per sé
considerate, sia in ogni caso le opere, di cui al punto 3) della stessa
ordinanza (“installazione, sull’intera area ricavata, di un pergolato in
ferro costituito da n. 5 elementi verticali e 6 orizzontali, saldato alla
ringhiera, di cui al punto precedente”), non possono assolutamente dirsi
opere pertinenziali, di scarso impatto urbanistico, come tali
(autonomamente) sottratte alla necessità del p.d.c.; ciò in quanto
anch’esse, nel contesto della complessiva attività d’edificazione abusiva
posta in essere dal ricorrente, rivolte ad attuare quella rilevante “trasformazione
fisica del territorio” giustamente sanzionata, dalla P.A., con la più
grave misura della demolizione, ex art. 31 d.P.R. 380/2001 (restando
conseguentemente esclusa la possibilità, per la stessa P.A., di sanzionarle
in via esclusivamente pecuniaria).
In ogni caso, e conclusivamente sul punto, deve rimarcarsi come le predette
opere, quand’anche –astrattamente e singolarmente considerate– fossero
riferibili a un regime giuridico, diverso da quello del p.d.c., in ogni caso
–afferendo ad un immobile senz’altro abusivo (quello sub 1), in quanto
comportante incremento superficiario e necessitante del permesso di
costruire, giusta quanto sopra rilevato (trattandosi di trasformazione di
lastrico solare in terrazzo a livello)– non possono evidentemente che
seguirne le sorti, in termini della necessità della loro demolizione (“Simul
stabunt, simul cadent”).
...
Il quinto motivo di ricorso, che pretenderebbe di far discendere la
legittimità delle opere de quibus dalla loro asserita natura di “variazione
non essenziale” (evidentemente, rispetto alla d.i.a. del 2003, unico
titolo che il ricorrente potrebbe astrattamente vantare) rispetto al “progetto
approvato”, in quanto non implicanti un aumento in termini di cubatura,
si risolve, a ben vedere, in un’evidente petizione di principio: giova
richiamare, al riguardo, quanto sopra rilevato, a confutazione delle prime
due censure, circa la necessità del p.d.c. per lavori abusivi, del genere di
quelli posti in essere nella specie, sicché la circostanza che non si sia
realizzato alcun “aumento di cubatura” è del tutto irrilevante, in
presenza, comunque, di una rilevante attività di trasformazione
urbanistico–edilizia del territorio, comportante la necessità del titolo
abilitativo maggiore, nonché, in ogni caso, un incremento superficiario
(ottenuto, mercé la modifica della destinazione d’uso del lastrico di
copertura in terrazzo fruibile), come puntualmente confermato, d’altronde,
dall’analisi della giurisprudenza: “Rientra nella nozione di opera
edilizia subordinata a permesso di costruire la trasformazione di un
lastrico di copertura in terrazzo praticabile, configurandosi una variazione
essenziale. In tal senso, infatti, deve ritenersi che la modifica della
copertura in terrazza aumenti la superficie utile dell’immobile in quanto
idonea a trasformare la natura prevalentemente di protezione del fabbricato,
propria del lastrico, destinandola ordinariamente e durevolmente alla
fruizione umana, per affaccio e sosta” (TAR Sicilia–Catania, Sez. I,
10/11/2008, n. 2068)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1184 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In pendenza di manufatti abusivi non sanati né
condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro
e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori
abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali
sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione.
Ciò non significa negare in assoluto la
possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di
condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima
sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire
nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35, l.
n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla
successiva legislazione condonistica.
---------------
Tanto in disparte che, come pure dettagliatamente precisato, nel testo
dell’ordinanza gravata, difettavano –per tutte le opere de quibus– i
necessari assensi paesaggistici.
Va applicato, in definitiva, relativamente a tali opere, apparentemente “accessorie”,
l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, espresso in massime, del genere
della seguente: “In pendenza di manufatti abusivi non sanati né
condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro
e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori
abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali
sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare in assoluto la
possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di
condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima
sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire
nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35, l.
n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla
successiva legislazione condonistica” – TAR Campania–Napoli, Sez. VI,
04/07/2013, n. 3487)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1184 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non
sussiste un obbligo per la Pubblica amministrazione, prima dell’adozione
dell’ordinanza di demolizione dell’opera illegittimamente realizzata, di
dare avviso della possibilità di presentare istanza di sanatoria ai sensi
dell’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Tale facoltà discende direttamente dalla legge, sicché spetta al
destinatario dell’ordine di demolizione la scelta di avvalersi della stessa,
senza che incomba sul Comune alcun onere di avviso preventivo.
Tale onere non può neppure essere giustificato
richiamando alcuni principi generali sull’attività amministrativa, in quanto
ciò si risolverebbe in un inutile appesantimento dell’azione
dell’Amministrazione, in contrasto con le esigenze di celerità ed efficacia
dell’azione stessa.
---------------
I
provvedimenti amministrativi che rappresentano una manifestazione di
attività doverosa dell’Amministrazione, fra i quali rientra anche
l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo, essendo atti vincolati,
non necessitano per la loro adozione dell’invio della comunicazione di avvio
del procedimento.
---------------
Nella motivazione dell'ordine di
demolizione, è necessaria e sufficiente l'analitica definizione delle opere
abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la
descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime
destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso
di inottemperanza alla predetta ingiunzione, potendo la specificazione
intervenire nella successiva fase dell'accertamento della medesima
inottemperanza.
---------------
Quanto, poi, alla terza doglianza espressa in ricorso, secondo cui
l’Amministrazione avrebbe dovuto verificare, prima d’emettere l’ordine
ripristinatorio gravato, la possibilità che l’abuso fosse sanabile, è
contrastata da una giurisprudenza fermissima, la quale osserva come: “Non
sussiste un obbligo per la Pubblica amministrazione, prima dell’adozione
dell’ordinanza di demolizione dell’opera illegittimamente realizzata, di
dare avviso della possibilità di presentare istanza di sanatoria ai sensi
dell’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380; tale facoltà discende direttamente
dalla legge, sicché spetta al destinatario dell’ordine di demolizione la
scelta di avvalersi della stessa, senza che incomba sul Comune alcun onere
di avviso preventivo; tale onere non può neppure essere giustificato
richiamando alcuni principi generali sull’attività amministrativa, in quanto
ciò si risolverebbe in un inutile appesantimento dell’azione
dell’Amministrazione, in contrasto con le esigenze di celerità ed efficacia
dell’azione stessa” (TAR Puglia–Lecce, Sez. III, 05/10/2017, n. 1572).
Lo stesso dicasi per la quarta censura, impingente nella dedotta
efficacia invalidante dell’omessa comunicazione d’avvio del procedimento,
culminato nell’adozione del provvedimento impugnato, la quale è, del pari,
smentita dalla granitica giurisprudenza contraria, per la quale cfr., ex
plurimis, TAR Campania–Napoli, Sez. III, 08/04/2019, n. 1917: “I
provvedimenti amministrativi che rappresentano una manifestazione di
attività doverosa dell’Amministrazione, fra i quali rientra anche
l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo, essendo atti vincolati,
non necessitano per la loro adozione dell’invio della comunicazione di avvio
del procedimento”.
...
Lo stesso dicasi, del resto, per ciò che concerne la settima e ultima
doglianza, anch’essa adeguatamente superata dalla costante
giurisprudenza del G.A., del pari condivisa dalla Sezione, ricavabile da
massime, del genere della seguente: “Nella motivazione dell'ordine di
demolizione, è necessaria e sufficiente l'analitica definizione delle opere
abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la
descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime
destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso
di inottemperanza alla predetta ingiunzione, potendo la specificazione
intervenire nella successiva fase dell'accertamento della medesima
inottemperanza” (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 04/12/2018, n. 6966)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1184 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di verificazione
di un pregiudizio per la parte legittimamente edificata, nel caso di
esecuzione dell'ordine demolitorio, non incide sulla legittimità dell'ordine
di demolizione stesso e, semmai, può rilevare, solo nella fase successiva e
su impulso di parte, sempre che la demolizione sia ordinata ai sensi
dell'art. 33 o dell'art. 34 d.P.R. n. 380 del 2001, essendo comunque da
escludere l'applicazione di un mera sanzione pecuniaria quando la
demolizione è ingiunta ai sensi dell'art. 31.
---------------
Relativamente alla sesta censura, in disparte anche quanto rilevato
dalla difesa dell’ente al riguardo (“La demolizione dell’opera
abusivamente realizzata non arreca alcun pregiudizio alla restante parte del
fabbricato”), osserva il Tribunale come la stessa sia in contrasto con
altro orientamento, invalso nella giurisprudenza e costantemente seguito
anche dalla Sezione, secondo il quale: “La possibilità di verificazione
di un pregiudizio per la parte legittimamente edificata, nel caso di
esecuzione dell'ordine demolitorio, non incide sulla legittimità dell'ordine
di demolizione stesso e, semmai, può rilevare, solo nella fase successiva e
su impulso di parte, sempre che la demolizione sia ordinata ai sensi
dell'art. 33 o dell'art. 34 d.P.R. n. 380 del 2001, essendo comunque da
escludere l'applicazione di un mera sanzione pecuniaria quando la
demolizione è ingiunta ai sensi dell'art. 31” (TAR Campania–Napoli, Sez.
III, 06/03/2017, n. 1304)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1184 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: E'
stato ribadito come le scelte di pianificazione urbanistica costituiscano
esercizio di ampia discrezionalità da parte dell’Amministrazione; e che le
stesse, nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo,
sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta
illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (nei
sensi precisati dalla giurisprudenza), onde evitare un indebito
“sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”.
Sempre sul piano generale, si è sottolineato che “il potere di
pianificazione urbanistica del territorio –la cui attribuzione e
conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma
terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto
di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è limitato
alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale,
ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse; al
contrario,tale potere di pianificazione dovendo essere rettamente inteso in
relazione ad un concetto di urbanistica … non … limitato solo alla
disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi
di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo
della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità
economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in
armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali,
regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati”.
Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, si è,
inoltre, precisato che l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione
in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse
incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime
aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione
dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”.
In particolare, è stato affermato che “le scelte urbanistiche richiedono una
motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni
interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata,
ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative;
così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate del P.R.G., per le quali quest’ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative
dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area
muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale,
che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una
singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte
dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di
sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con
il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona
precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre,
di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa
modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una
nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati
contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”.
È pacifico in giurisprudenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione,
in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono
apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che
siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità; e che, in
occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale,
l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte
ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel
rivedere le proprie, precedenti previsioni urbanistiche), valutando gli
interessi in gioco e il fine pubblico (non incombendo, su di essa, l’onere
di corredare con specifica ostensione motivazionale le singole scelte
urbanistiche.
In tal senso, la scelta compiuta in un P.R.G. (o in una variante) di
imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessita
di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri
generali di ordine tecnico discrezionale seguiti nella impostazione del
piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di
specifiche considerazioni.
Le evenienze generatrici di affidamento “qualificato", sulla scia della
giurisprudenza ormai consolidata, sono ravvisabili nell'esistenza di
convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra
Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di
concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione.
In difetto di tali presupposti, non è configurabile un'aspettativa
qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella
pregressa, ma solo un'aspettativa, generica ed analoga a quella di qualunque
altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua
dell'immobile, avente carattere di cedevolezza rispetto alle scelte
urbanistiche dell'Amministrazione: sicché non può essere invocato il difetto
di motivazione, in quanto si porrebbe in contrasto con la natura generale
dell'atto e i criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione dello
stesso.
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2. La giurisprudenza (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
05.09.2016 n. 3806 e 11.10.2017 n. 4707) ha, come è noto, elaborato generali
principi interpretativi in materia di pianificazione urbanistica (e connessa
espansione del sindacato giurisdizionale di legittimità), ben suscettibili
di trovare applicazione (e conferma) in sede di decisione della presente
controversia.
Su un piano generale, e relativamente ai poteri del giudice, è stato
ribadito come le scelte di pianificazione urbanistica costituiscano
esercizio di ampia discrezionalità da parte dell’Amministrazione; e che le
stesse, nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo,
sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta
illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (nei
sensi precisati dalla giurisprudenza), onde evitare un indebito “sconfinamento”
nel cd. “merito amministrativo”.
Sempre sul piano generale, si è sottolineato che “il potere di
pianificazione urbanistica del territorio –la cui attribuzione e
conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma
terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto
di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è limitato
alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale,
ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse; al
contrario,tale potere di pianificazione dovendo essere rettamente inteso in
relazione ad un concetto di urbanistica … non … limitato solo alla
disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi
di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo
della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità
economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in
armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali,
regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati” (Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012 n.
2710).
Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, si è,
inoltre, precisato che l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione
in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse
incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime
aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione
dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato,
sez. IV, 03.11.2008 n. 5478).
In particolare, è stato affermato (Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2016 n. 2221;
id, 08.06.2011 n. 3497), che “le scelte urbanistiche richiedono una
motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni
interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata,
ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative;
così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate del P.R.G., per le quali quest’ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative
dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area
muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale,
che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una
singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte
dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di
sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con
il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona
precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre,
di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa
modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una
nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati
contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”.
È pacifico in giurisprudenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione,
in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono
apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che
siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità (cfr. Cons.
Stato, Ad. Plen., 22.12.1999 n. 24; sez. IV, 20.06.2012 n. 3571); e che, in
occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale,
l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte
ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel
rivedere le proprie, precedenti previsioni urbanistiche), valutando gli
interessi in gioco e il fine pubblico (non incombendo, su di essa, l’onere
di corredare con specifica ostensione motivazionale le singole scelte
urbanistiche: cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 13.09.2012 n.
4867).
In tal senso, la scelta compiuta in un P.R.G. (o in una variante) di
imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessita
di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri
generali di ordine tecnico discrezionale seguiti nella impostazione del
piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di
specifiche considerazioni (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 17.02.2012 n. 854).
Le evenienze generatrici di affidamento “qualificato", sulla scia
della giurisprudenza ormai consolidata, sono ravvisabili nell'esistenza di
convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra
Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di
concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione.
In difetto di tali presupposti, non è configurabile un'aspettativa
qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella
pregressa, ma solo un'aspettativa, generica ed analoga a quella di qualunque
altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua
dell'immobile, avente carattere di cedevolezza rispetto alle scelte
urbanistiche dell'Amministrazione: sicché non può essere invocato il difetto
di motivazione, in quanto si porrebbe in contrasto con la natura generale
dell'atto e i criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione dello
stesso (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 17.02.2012 n. 854 e
sez. IV, 04.04.2011 n. 2104).
In ogni caso, in materia di pianificazione urbanistica occorre tener conto
della congruenza delle scelte con le linee di sviluppo del territorio
illustrate nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.12.2018 n. 1220 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.09.2019 |
ã |
LAVORI SOMMA URGENZA, TRANSAZIONI e DEBITI FUORI
BILANCIO:
c'è sempre da "stare sul chi va là"...
se non si vuol pagare col proprio portafoglio!! |
LAVORI PUBBLICI:
M. Terzi,
LAVORI DI SOMMA URGENZA: LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE DI
BILANCIO 2019 ED IL RECENTE ORIENTAMENTO DELLA CORTE DEI
CONTI (PublikaDaily n. 15 - 31.07.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Debiti
fuori bilancio: anche in caso di dissesto, non si può
prescindere dal formale riconoscimento da parte dell’Organo
consiliare.
Circa la questione "se la gestione della massa passiva e
attiva nella ipotesi di Ente in dissesto è ad esclusiva
competenza dell'organo straordinario di liquidazione, o sono
previste deroghe istruttorie diverse dal dettato normativo",
la Sezione, sulla base della giurisprudenza di legittimità
stratificatasi nel tempo sulla materia dei debiti fuori
bilancio disciplinati dall'art. 194 TUEL, è dell'avviso che
il momento genetico dell'obbligazione contrattuale per
l'ente locale è l'esito dell'esternazione di una volontà
esplicita dell'organo rappresentativo a mezzo del tipizzato
atto deliberativo, in quanto competente ad esprimere un
apprezzamento di carattere generale in ordine alla
conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo
della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le
scelte amministrative compiute nei documenti di
programmazione a carattere autorizzatorio.
Alla luce dell'ordinamento positivo, considerata
l¿estraneità del debito fuori bilancio non riconosciuto
rispetto alla sfera patrimoniale dell'ente, anche in fase di
dissesto il momento costitutivo dell'obbligazione di
pagamento non può prescindere dal formale riconoscimento del
debito da parte dell'organo consiliare, senza che tale
espressione di volontà, non testualmente indicata
all'interno dell'art. 254 TUEL, possa essere interpretata
quale "deroga istruttoria".
La delibera consiliare costituisce in ogni caso elemento
costitutivo della fattispecie normativa tipizzata dall'art.
194 TUEL che individua in un determinato atto di volontà
promanante dall'organo istituzionale la genesi della
responsabilità patrimoniale dell'ente per le obbligazioni
maturate al di fuori del sistema autorizzatorio di bilancio.
---------------
1. Il Sindaco del Comune di Vizzini (CT), ente in stato di
dissesto a seguito della deliberazione del Consiglio
Comunale n. 13 del 09.05.2018, premette che, successivamente
all’insediamento dell’organo straordinario di liquidazione (OSL)
in data 05.09.2018, sono sorti dubbi interpretativi in
ordine alla competenza circa il formale riconoscimento dei
debiti fuori bilancio correlati ad atti e fatti di gestione
verificatasi entro il 31.12.2016.
In particolare, il Consiglio comunale, a fronte della
proposta dell’OSL di adottare la deliberazione di
riconoscimento di un debito fuori bilancio, avrebbe deciso
di non determinarsi sul punto, richiedendo un
approfondimento giuridico al Segretario dell’ente.
Mentre quest’ultimo ha espresso l’opinione della carenza di
competenza dell’organo consiliare, l’OSL, a sua volta, ha
declinato la propria competenza in materia, argomentando in
ordine alla posizione assunta dalla Sezione regionale di
controllo per la Campania nel parere adottato con la
deliberazione n. 66 del 09.05.2018.
In ragione del principio enunciato in quest’ultima
deliberazione, pertanto, il Sindaco formula la richiesta
di parere nei termini che seguono: se “la gestione della
massa passiva e attiva nella ipotesi di Ente in dissesto è
ad esclusiva competenza dell’organo straordinario di
liquidazione, o sono previste deroghe istruttorie diverse
dal dettato normativo”.
...
4. Occorre ripercorrere nelle sue linee essenziali la
disciplina della procedura di dissesto finanziario e,
segnatamente, analizzare il riparto legislativo delle
competenze tra gli organi ordinari e straordinari dell’ente
locale, alla luce delle disposizioni contenute nel capo II e
III del titolo VIII del TUEL (artt. 244-258).
Come già illustrato da questa Sezione di controllo
nell’esercizio della sua funzione consultiva (deliberazione
n. 176/2016, cit.), la dichiarazione di dissesto produce,
fondamentalmente, l’effetto di separare la c.d. gestione
ordinaria, di competenza degli organi istituzionali
dell’ente locale, dalla gestione straordinaria, c.d.
dissestata, specificamente attribuita all’organo
straordinario di liquidazione (art. 245 TUEL).
Agli organi istituzionali dell’ente, infatti, competono le
opportune manovre correttive tendenti ad assicurare
condizioni stabili di equilibrio della gestione finanziaria,
rimuovendo le cause strutturali che hanno determinato il
dissesto; al secondo, invece, la tacitazione delle pretese
creditorie e la risoluzione di eventuali pendenze,
ripianando l’indebitamento pregresso con i mezzi consentiti
dalla legge.
Nel separare le gestioni, la disciplina in esame mira a
garantire, secondo un percorso procedurale improntato a
esigenze di celerità, da un lato, la fuoriuscita dell’ente
locale dalle condizioni di dissesto funzionale, per condurlo
al ripristino dell’erogazione di funzioni e servizi
essenziali con lo strumento del bilancio stabilmente
riequilibrato; dall’altro, la soddisfazione dei creditori
sulla massa attiva dell’ente in condizioni di par condicio,
ossia secondo un ordine di priorità ispirato a criteri
costituzionali di imparzialità, ragionevolezza e non
discriminazione, nel rispetto delle cause legittime di
prelazione (Sezione regionale di controllo per la Campania,
deliberazione n. 128 del 12.12.2018).
4.1 In particolare, l’organo straordinario di liquidazione
ha una competenza temporalmente limitata, circoscritta a
tutti gli atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31
dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di
bilancio riequilibrato (art. 252 TUEL), dovendo provvedere:
a) alla rilevazione della massa passiva (art. 254 TUEL); b)
all’acquisizione e gestione dei mezzi finanziari disponibili
ai fini del risanamento, anche mediante alienazione dei beni
patrimoniali (art. 255 TUEL); c) alla liquidazione e
pagamento della massa passiva, secondo la procedura
ordinaria (art. 256 TUEL) o, ove possibile, secondo la
modalità semplificata (art. 258 TUEL).
Ai fini di un approfondimento sulla corretta interpretazione
della locuzione normativa “atti e fatti di gestione”, il
Collegio ritiene di poter operare un mero rinvio alla
completa disamina recentemente svolta dalla Sezione
regionale di controllo per la Campania nella deliberazione
n. 132 del 28.11.2018, in quanto questione non
specificamente ricadente nel perimetro del quesito
sollevato.
4.2 Ai fini della redazione del piano di rilevazione della
massa passiva dell’ente locale, l’art. 254, comma 3, TUEL,
elenca in maniera puntuale le diverse tipologie di debito
che l’OSL deve considerare. In particolare, trattasi di: a)
debiti di bilancio e fuori bilancio di cui all’art. 194 TUEL,
verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente
quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato; 2) debiti
derivanti dalle procedure esecutive estinte ai sensi
dell’art. 248, comma 2, TUEL; 3) debiti originati dalle
transazioni compiute dall’OSL ai sensi del comma 7 dello
stesso art. 254 TUEL.
Le disposizioni in esame devono essere applicate in
conformità alla norma d’interpretazione autentica introdotta
con l’art. 5, comma 2, del decreto-legge 29.03.2004, n.
80, convertito dalla legge 28.05.2004, n. 140, per la
quale “[a]i fini dell'applicazione degli articoli 252, comma
4, e 254, comma 3, del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, si intendono compresi
nelle fattispecie ivi previste tutti i debiti correlati ad
atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre
dell'anno precedente a quello dell'ipotesi di bilancio
riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento
giurisdizionale, successivamente a tale data ma, comunque,
non oltre quella di approvazione del rendiconto della
gestione di cui all'articolo 256, comma 11, del medesimo
testo unico”.
4.3 L’OSL provvede, altresì, all’accertamento della massa
attiva (art. 255 TUEL) con cui procedere, successivamente,
alla liquidazione e al pagamento delle passività inserite
nel piano di rilevazione, secondo la procedura cadenzata dal
legislatore (art. 256 TUEL).
A tali fini, come compiutamente illustrato dalla Sezione
delle autonomie (deliberazione n. 3/SEZAUT/2017/QMIG dell’08.02.2017), l’organo straordinario dovrà individuare,
innanzitutto, le poste attive dell’ente rappresentate da: 1)
i residui non riscossi, comprensivi dei ruoli non ancora
totalmente o parzialmente riscossi, ma anche delle entrate
tributarie per le quali non siano stati predisposti i
relativi ruoli e per le quali sia stata omessa la
predisposizione del relativo titolo di entrata,
opportunamente sottoposti al riaccertamento straordinario;
2) i ratei di mutuo disponibili, in quanto non ancora
utilizzati dall’ente; 3) i proventi derivanti da eventuali
alienazioni di beni patrimoniali disponibili,
all’individuazione dei quali l’OSL procede ai sensi
dell’art. 255, comma 9, TUEL.
Relativamente al perimetro delle eccezioni disciplinate
dall’art. 255, comma 10, a norma del quale “[n]on compete
all'organo straordinario di liquidazione l'amministrazione
delle anticipazioni di tesoreria di cui all'articolo 222 e
dei residui attivi e passivi relativi ai fondi a gestione
vincolata, ai mutui passivi già attivati per investimenti,
ivi compreso il pagamento delle relative spese, nonché
l'amministrazione dei debiti assistiti dalla garanzia della
delegazione di pagamento di cui all'articolo 206”, la
disposizione in esame deve essere coordinata con le novelle
normative successivamente intervenute.
In particolare, l'art. 2-bis, comma 1, del decreto-legge 24.06.2016, n. 113, convertito con modificazioni dalla
legge 07.08.2016, n. 160, ha disposto: “In deroga a
quanto previsto dall'articolo 255, comma 10, del testo unico
di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per le
amministrazioni provinciali in stato di dissesto,
l'amministrazione dei residui attivi e passivi relativi ai
fondi a gestione vincolata compete all'organo straordinario
di liquidazione”.
Successivamente, l'art. 1, comma 457, della legge 11.12.2016, n. 232, ha previsto: “In deroga a quanto
previsto dall'articolo 255, comma 10, del testo unico di cui
al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per i comuni
in stato di dissesto, l'amministrazione dei residui attivi e
passivi relativi ai fondi a gestione vincolata compete
all'organo straordinario di liquidazione”.
Infine, a modifica delle citate disposizioni, l'art. 36,
comma 2, del decreto-legge 24.04.2017, n. 50, convertito
con modificazioni dalla legge 21.06.2017, n. 96, ha
conseguentemente disposto: “1. In deroga a quanto previsto
dall'articolo 255, comma 10, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per i comuni e per le province in stato
di dissesto finanziario l'amministrazione dei residui attivi
e passivi relativi ai fondi a gestione vincolata compete
all'organo straordinario della liquidazione. 2.
L'amministrazione dei residui attivi e passivi di cui al
comma 1 è gestita separatamente, nell'ambito della gestione
straordinaria di liquidazione. Resta ferma la facoltà
dell'organo straordinario della liquidazione di definire
anche in via transattiva le partite debitorie, sentiti i
creditori”.
In ordine alle predette deroghe, la Sezione delle autonomie
(deliberazione n. 3/2017, cit.), nel pronunciarsi sulla
questione di massima posta dalla Sezione di controllo per la
Regione siciliana con la deliberazione n. 176/2016, ha
ritenuto che, a far data dal momento dell’entrata in vigore
dell’art. 2-bis del d.l. n. 113/2016, sia venuto meno il
principale riferimento normativo in ragione del quale parte
della giurisprudenza ha giustificato l’esclusione dei debiti
fuori bilancio riferiti a gestioni vincolate dalla c.d.
gestione dissestata dell’organo straordinario di
liquidazione, in analogia a quanto previsto per i residui
attivi e passivi, cosicché “rientrano nella competenza
dell’organo straordinario di liquidazione degli enti in
stato di dissesto i debiti fuori bilancio che, pur attenendo
al servizio indispensabile per il quale la legge prevede una
gestione vincolata, non siano stati ricompresi nell’ambito
di quest’ultima o non abbiano trovato adeguata copertura”.
L’interpretazione dell’art. 255, comma 10, TUEL è completata
dal recente parere pronunciato dalla Sezione regionale di
controllo per la Campania che, con la deliberazione n. 99
del 18.04.2019, ha precisato che “[a] seguito delle
modifiche intervenute, i residui considerati dalla deroga
riguardano solo quelli relativi ai fondi a gestione
vincolata. Tutti gli altri residui, considerati nel comma 10
dell’art. 255 TUEL, pertanto, restano soggetti
all’amministrazione dell’Ente, ivi compresi quelli relativi
ai debiti assistiti dalla garanzia della delegazione di
pagamento di cui all’art. 206.”
4.4 Dall’esposto quadro normativo è dato, pertanto,
enucleare il principio generale che la creazione di una
massa separata affidata alla gestione di un organo
straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente
locale, continui a rappresentare l’asse portante dell’intera
disciplina del dissesto, nonostante le modifiche intervenute
nel tempo su taluni aspetti della procedura.
5. All’interno di tale contesto ordinamentale, dunque, si
innesta il dubbio interpretativo prospettato dal Comune
richiedente il parere in esame, il quale domanda di
conoscere se possano sussistere “deroghe istruttorie” nella
gestione della massa passiva e attiva, ossia –secondo il
significato attribuito da questo Collegio– se, con
riferimento alla gestione “dissestata”, possano essere
ascritte agli organi istituzionali dell’ente competenze
ulteriori da quelle testualmente indicate dal legislatore
nella disciplina della procedura di risanamento.
Come illustrato nelle premesse, la questione concerne, in
particolare, la materia dei debiti fuori bilancio per fatti
e atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre
dell’anno precedente a quello dell’ipotesi riequilibrato.
5.1 Il Collegio osserva, in proposito, che i profili di
incertezza attengono al solo caso in cui, successivamente al
dissesto, l’OSL individui, in fase di rilevazione della
massa passiva e sulla base della documentazione messa a
disposizione dai responsabili dei servizi, debiti fuori
bilancio mai oggetto di riconoscimento dell’organo
consiliare, riferibili a fatti e atti di gestione
verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a
quello dell’ipotesi riequilibrato.
Diversamente, sulla base del delineato quadro normativo,
appaiono certi i comportamenti da adottare nelle seguenti
circostanze: 1) l’OSL deve includere nel piano di
rilevazione della massa passiva i debiti fuori bilancio
maturati entro il 31 dicembre dell’anno precedente quello
cui si riferisce l’ipotesi di bilancio riequilibrato, che
abbiano già formato oggetto di esplicito e formale
riconoscimento da parte dell’ente a norma dell’art. 194 TUEL,
in quanto la delibera del Consiglio implica accertamento
dell’utilità e del conseguito arricchimento da parte
dell’ente; 2) quanto ai debiti fuori bilancio concernenti
atti e fatti verificatisi successivamente al 31 dicembre
dell’anno precedente quello cui si riferisce l’ipotesi di
bilancio riequilibrato, il relativo riconoscimento compete
agli organi istituzionali dell’ente nell’ambito della
gestione ordinaria.
5.2 Lo specifico argomento è stato trattato dalla Sezione
regionale di controllo per la Campania in un recente parere
(delibera n. 66/2018, cit.) pronunciato in ordine
all’interpretazione dell’art. 254, comma 3, lett. a), TUEL,
su richiesta di un Comune in dissesto tendente a conoscere
se i debiti fuori bilancio, verificatisi entro il 31
dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di
bilancio riequilibrato, possano essere inclusi nel piano di
rilevazione della massa passiva in conseguenza di un
provvedimento di riconoscimento adottato direttamente dall’OSL
oppure se quest’ultimo debba richiedere al Consiglio
comunale di deliberare a norma dell’art. 194 TUEL.
Dal complessivo tenore del quesito sottoposto dall’ente
sembra potersi ragionevolmente dedurre che il dubbio
prospettato riguardasse unicamente quei debiti fuori
bilancio non oggetto di formale riconoscimento da parte
dell’organo consiliare anteriormente al dissesto.
La Sezione regionale di controllo per la Campania, nel
prendere posizione in merito al quesito, manifesta
l’opinione che l’OSL “nella richiamata logica della
separazione tra gestione passata e quella corrente, pur
avendo ampi poteri organizzatori per un rapido assolvimento
dei propri compiti di liquidazione della massa passiva
pregressa e di garanzia della par condicio creditorum, non
risulta dotato di un autonomo potere deliberativo di
riconoscimento dei debiti fuori bilancio, che resta una
prerogativa esclusiva del Consiglio comunale. È suo onere,
peraltro, accertare avvalendosi della collaborazione dei
responsabili competenti per materia, la sussistenza delle
altre condizioni di cui al comma 4 dell’art. 254, ossia che
la prestazione è stata effettivamente resa; che la stessa
rientra nell’ambito delle funzioni e dei servizi di
competenza dell’ente; che il debito non è stato pagato,
anche solo parzialmente; che lo stesso non è prescritto”.
Nel motivare la soluzione in questione, la Sezione sofferma
l’attenzione –in linea con il costante orientamento di
questa Corte- sull’ampio apprezzamento discrezionale
esercitato dall’organo consiliare nelle fattispecie
delineate dall’art. 194 TUEL, specialmente, riguardo alle
obbligazioni passive riconducibili alla lett. e), in punto
di accertamento dell'utilità di una prestazione contrattuale
richiesta in violazione delle ordinarie procedure di spesa e
dell’arricchimento conseguito dall’ente.
La Sezione, inoltre, pur riconoscendo la sostanziale
diversità delle obbligazioni giuridiche passive originate
dalle sentenze esecutive rispetto alle altre ipotesi
descritte dalla norma -in quanto la valutazione dell’an e
del quantum dell’obbligazione verso il terzo è
cristallizzata nella statuizione contenuta nel provvedimento
dell'autorità giudiziaria senza ulteriori margini di
apprezzamento da parte del Consiglio comunale– rimarca, in
continuità con la consolidata giurisprudenza della Corte dei
conti (Sezioni Riunite in sede giurisdizionale,
sentenza 27.12.2007 n. 12/2007/QM), che, in mancanza di una disposizione che
preveda una disciplina specifica e diversa per le sentenze
esecutive, non sia consentito discostarsi dalla stretta
interpretazione dell'art. 194 TUEL, ai sensi del quale il
riconoscimento del debito avviene, prima del pagamento, con
atto del Consiglio comunale (nei medesimi termini, Sezione
di controllo per la Regione siciliana,
parere 13.05.2015 n. 177).
In definitiva, la spendita di un potere implicante esercizio
di discrezionalità amministrativa demarcherebbe le
rispettive competenze tra il Consiglio comunale e l’OSL
nella fase dell’inclusione dei debiti fuori bilancio nel
piano di rilevazione della massa passiva, cosicché mentre il
primo avrebbe esclusiva prerogativa nel deliberarne il
riconoscimento, specialmente in punto di utilità e di
arricchimento per l’ente, il secondo avrebbe solo l’onere di
accertare, avvalendosi della collaborazione dei responsabili
competenti, che ricorrano tutte le altre condizioni di cui
all’art. 254, comma 4, TUEL, ossia: che la prestazione sia
stata effettivamente resa; che la stessa rientri nell’ambito
delle funzioni e dei servizi di competenza dell’ente; che il
debito non sia stato pagato, anche solo parzialmente; che lo
stesso non sia prescritto.
La medesima Sezione, nella successiva deliberazione n.
132/2018, ribadisce la necessità che i debiti fuori
bilancio, originati da atti e fatti di gestione antecedenti
alla data del 31 dicembre anteriore all’ipotesi di bilancio
riequilibrato e accertati entro la data di presentazione del
rendiconto della gestione liquidatoria (art. 256, comma 11,
TUEL), siano riconosciuti dall’ente e non dall’OSL2.
E ciò –aggiunge la Sezione– in quanto “espressione di un
orientamento da ritenere ormai consolidato, tenuto conto dei
precedenti di questa Corte” 3.
6. Il Collegio esprime condivisione per tale impostazione
concettuale per le ragioni che seguono.
La tesi della spendita di un potere discrezionale
ascrivibile unicamente al Consiglio comunale è corroborata
dalla giurisprudenza di legittimità stratificatasi, nel
tempo, sulla materia dei debiti fuori bilancio disciplinati
dall’art. 194 TUEL.
In particolare, la Corte di Cassazione, nel soffermarsi
sulla circostanza che la disciplina normativa imputi
distintamente alla diretta responsabilità patrimoniale del
funzionario le obbligazioni scaturenti dall’effettuazione di
spese in violazione dell’ordinamento giuscontabile (art.
191, comma 4, TUEL), ha costantemente sostenuto che la
pretesa del pagamento del terzo contraente non possa trovare
soddisfacimento a prescindere dall’espresso riconoscimento
del debito da parte dell’ente locale, con conseguente
esclusione dell’azione di arricchimento senza causa (ex multis, ordinanza 19.05.2017, n. 12608, seguita dalla
successiva ordinanza 21.11.2018, n. 30109).
L’ordinamento positivo muove, pertanto, nella chiara
direzione di precludere che, in presenza dell’ordinazione di
servizi o di forniture di beni al di fuori dello schema
procedimentale delineato dalle norme imperative
sull’assunzione di impegni, il mero dato fattuale
dell’utilizzazione della prestazione, con appropriazione del
correlato risultato utile da parte dell’Amministrazione,
possa produrre ex se l’effetto giuridico di uno spostamento
della responsabilità contrattuale dalla sfera patrimoniale
del funzionario a quella dell’ente.
In tale contesto normativo, dunque, il momento genetico
dell’obbligazione contrattuale per l’ente locale è l’esito
dell’esternazione di una volontà esplicita dell’organo
rappresentativo a mezzo del tipizzato atto deliberativo, in
quanto competente “ad esprimere un apprezzamento di
carattere generale in ordine alla conciliabilità dei
relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione
economico-finanziaria dell'ente e con le scelte
amministrative” compiute nei documenti di programmazione a
carattere autorizzatorio (ordinanza 19.05.2017, n.
12608, cit.).
Alla luce dell’ordinamento positivo e della citata
giurisprudenza, il Collegio ritiene che, considerata
l’estraneità del debito fuori bilancio non riconosciuto
rispetto alla sfera patrimoniale dell’ente, anche in fase di
dissesto il momento costitutivo dell’obbligazione di
pagamento non possa prescindere dal formale riconoscimento
del debito da parte dell’organo consiliare, senza che tale
espressione di volontà, non testualmente indicata
all’interno dell’art. 254 TUEL, possa essere interpretata
quale “deroga istruttoria” (secondo la terminologia
utilizzata dal Comune richiedente il parere), trattandosi
piuttosto dell’esercizio di un potere discrezionale
ricavabile dalla logica del sistema.
Se, infatti, fosse consentito all’OSL di includere il debito
fuori bilancio all’interno della massa passiva, sulla base
della mera istanza del creditore e della semplice
ricognizione della documentazione acquisita dai responsabili
dell’ente, idonea a dimostrare che la prestazione è stata
effettivamente resa nell’espletamento di pubbliche funzioni
e servizi di competenza dell’ente locale, si consentirebbe,
invero, di utilizzare le risorse finanziarie e i beni propri
dell’ente (la massa attiva) per l’estinzione di obbligazioni
ascrivibili alla responsabilità patrimoniale altrui, anche
qualora esse abbiano trovato origine nella violazione degli
indirizzi espressi in precedenza dall’organo consiliare
nella programmazione della gestione economico-finanziaria
dell'ente.
In disparte ogni considerazione sulla circostanza che, in
una situazione di grave patologia finanziaria dell’ente, sia
consentito agli stessi funzionari –cui siano eventualmente
imputabili le obbligazioni contratte in violazione
dell’ordinamento giuscontabile– far gravare sull’ente la
propria diretta responsabilità patrimoniale con la mera
esibizione all’OSL della documentazione disciplinata
dall’art. 254, comma 4, TUEL, deve essere considerato che il
riconoscimento del debito fuori bilancio involge un
apprezzamento discrezionale estraneo alle funzioni
dell’organo straordinario.
Sotto tale profilo deve essere ricordato, infatti, il
principio richiamato da questa Sezione di controllo nella
citata deliberazione n. 176/2016 in riferimento ad una
pronuncia del giudice amministrativo che, nel risolvere una
questione di riparto di giurisdizione, ha affermato:
“[L]'organo straordinario di liquidazione non effettua mai
valutazioni caratterizzate da discrezionalità amministrativa
[…] ma compie accertamenti o, tutt'al più, valutazioni di
ordine tecnico […]” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza
02.10.2012, n. 5170).
In definitiva, è da escludere che il
coinvolgimento del Consiglio comunale nella fase di
ammissione alla massa passiva dei debiti fuori bilancio
possa essere inteso quale inutile “incombente istruttorio”
gravante sulla procedura descritta dall’art. 254 TUEL, non
potendo dare luogo alla mera replica della valutazione
spettante all’OSL in punto di pertinenza della prestazione
all'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza dell'ente locale.
La delibera consiliare costituisce,
piuttosto, elemento costitutivo della fattispecie normativa
tipizzata dall’art. 194 TUEL che individua in un determinato
atto di volontà promanante dall’organo istituzionale la
genesi della responsabilità patrimoniale dell’ente per le
obbligazioni maturate al di fuori del sistema autorizzatorio
di bilancio (Corte
dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 17.06.2019 n. 124). |
LAVORI PUBBLICI: Somma
urgenza, la violazione dei termini taglia l'utile d'impresa.
È necessario procedere sempre al riconoscimento consiliare dei lavori di
somma urgenza. Non solo: occorre rispettare i termini temporali previsti
dalla legge, pena l'impossibilità di riconoscere l'utile d'impresa.
Con il
parere 11.06.2019 n. 121 la Sezione
regionale di controllo della Corte dei conti per la Sicilia ha chiarito la
portata applicativa delle novità della manovra 2019 in materia di lavori di
somma urgenza e il collegamento alle modalità previste per il riconoscimento
dei debiti fuori bilancio (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e
della Pa del 19 giugno).
I lavori di somma urgenza
In circostanze di somma urgenza, il responsabile dell'ufficio tecnico che si
reca prima sul luogo, può disporre, contemporaneamente alla redazione del
verbale (che indica lo stato di urgenza, le cause che lo hanno provocato e
le opere necessarie per rimuoverlo), l'immediata esecuzione dei lavori
(articolo 163 del Dlgs 50/2016). Le attività necessarie per la
regolarizzazione della spesa decorrono dall'ordine di esecuzione dei lavori
fatto a terzi. Entro dieci giorni il responsabile del procedimento (o il
tecnico) compila la perizia giustificativa dei lavori e la trasmette,
insieme al verbale di somma urgenza, per la copertura della spesa e
l'approvazione dei lavori.
Novità della manovra 2019
Il comma 901 dell'articolo 1 della legge 145/2018 ha abrogato, dal comma 3
dell'articolo 191 del Tuel, il riferimento all'insufficienza delle risorse
finanziarie per giustificare l'avvio delle procedure di riconoscimento dei
debiti fuori bilancio derivanti dai lavori pubblici di somma urgenza,
causati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile. Pertanto,
secondo la nuova versione della norma, è sempre obbligatorio riconoscere
come debito fuori bilancio i lavori di somma urgenza per i quali non risulta
possibile rispettare l'iter ordinario del procedimento di spesa, e non già
solo quando sull'apposito capitolo vi è insufficienza di fondi.
La procedura contabile
Sono però previsti termini rigidi entro i quali la giunta deve sottoporre,
su proposta del responsabile del procedimento, il riconoscimento del debito
al consiglio: entro venti giorni (sempre dall'ordine). Le modalità sono
quelle disciplinate dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel,
prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate
necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità (comma 3 dell'articolo 191 del Tuel). Il quantum da riconoscere
non può eccedere dunque i termini della accertata necessità per la rimozione
dello stato di pericolo, al fine di evitare che il ricorso alle procedure di
somma urgenza si trasformi da strumento eccezionale a mezzo per effettuare
interventi eccedenti la necessità contingente.
Il provvedimento di riconoscimento va adottato entro 30 giorni dalla data di
deliberazione della proposta da parte della giunta, e comunque entro il 31
dicembre dell'anno in corso, se a quella data il termine non sia scaduto. La
comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della
deliberazione consiliare.
L'utile d'impresa
Laddove l'iter procedurale per il riconoscimento della spesa si sia svolto
nell'ambito dei ristretti termini temporali previsti dalla legge, l'utilitas
per l'amministrazione coincide con la spesa sostenuta come risultante dalla
perizia tecnica e dal corrispettivo concordato consensualmente; non vi è
dunque ragione per giustificare la decurtazione dell'utile d'impresa. La
violazione di termini procedurali determina, invece, l'applicazione della
disciplina sostanziale stabilita dall'articolo 194, lettera e), del Tuel,
senza possibilità di riconoscere l'utile d'impresa, come da costante
giurisprudenza della Corte dei conti. Per questa parte, concludono i giudici
contabili, il rapporto obbligatorio intercorrerà tra il privato fornitore e
l'amministratore che ha disposto la fornitura
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.07.2019).
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PARERE
Con la nota in epigrafe, il sindaco del comune di Roccalumera ha chiesto
un parere in ordine all’interpretazione dell’art. 191, comma 3, del D.lgs.
n. 267 del 2000 (TUEL) a seguito della modifica recata dall’art. 1, comma
901, della legge finanziaria n. 145 del 2018, in materia di lavori di somma
urgenza.
In particolare, il Sindaco chiede di precisare se, pur in presenza di
regolare copertura finanziaria della spesa, si configuri un debito fuori
bilancio, atteso che l’art. 191, comma 3, del TUEL, fa riferimento al
riconoscimento di detta spesa secondo le modalità previste dall’art. 194,
comma 1, lett. e), che riguardano i debiti fuori bilancio.
...
Ciò detto, occorre innanzitutto riassumere le principali disposizioni
normative cui il quesito fa riferimento.
L’art. 163 del decreto legislativo n. 50 del 18.04.2016, recante il Codice
dei contratti pubblici, disciplina le procedure per gli interventi di somma
urgenza e di protezione civile; il comma 4, riferito alle procedure adottate
dagli enti locali, recita: “4. Il responsabile del procedimento o il
tecnico dell'amministrazione competente compila entro dieci giorni
dall'ordine di esecuzione dei lavori una perizia giustificativa degli stessi
e la trasmette, unitamente al verbale di somma urgenza, alla stazione
appaltante che provvede alla copertura della spesa e alla approvazione dei
lavori. Qualora l'amministrazione competente sia un ente locale, la
copertura della spesa viene assicurata con le modalità previste
dall'articolo 191, comma 3, e 194 comma 1, lettera e), del decreto
legislativo 18.08.2000 n. 267 e successive modificazioni e integrazioni”.
Il richiamato
art. 191 del decreto legislativo n. 267 del 2000, come modificato
dall’art. 1, comma 901, della legge n. 145 del 2018, ai commi 3 e 4, recita:
”3. Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di
un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, entro venti giorni
dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del
procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento
della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e),
prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate
necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni
dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque
entro il 31 dicembre dell'anno in corso, se a tale data non sia scaduto il
predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data
contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
4. Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione
dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio
intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile
ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e
l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la
fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si
estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni”.
Infine, l’art. 194, comma 1, del TUEL dispone: “1. Con deliberazione
consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità
stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la
legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da: ( omissis) e)
acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi
1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità
ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza”.
Con l'introduzione dell'articolo 1, comma 901, della legge finanziaria n.
145 del 2018 viene abrogato, all'interno del terzo comma dell'articolo 191
del TUEL, il riferimento all'insufficienza delle risorse finanziarie per
giustificare l'avvio delle procedure di riconoscimento dei debiti fuori
bilancio derivanti dai lavori pubblici di somma urgenza, causati dal
verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile.
Pertanto, secondo la nuova versione della norma, è sempre obbligatorio
riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma urgenza, per i
quali non risulta possibile rispettare l'iter ordinario del procedimento di
spesa e non già solo quando sull’apposito capitolo vi è insufficienza di
fondi. La modifica in questione determina un cambiamento di rotta
nell'interpretazione del terzo comma dell'articolo 191 del Tuel. Già con il
parere 18.03.2013 n. 12 ed il
parere 10.05.2013 n. 22, la Sezione regionale di controllo
della Corte dei conti per la Liguria aveva espresso il proprio parere in
merito, specificando come il riferimento alla carenza dei fondi in bilancio
costituisse una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di “autorizzazione”
da parte del legislatore a derogare in presenza di situazioni che richiedono
un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Con la novella del 2018, invero, il regime derogatorio rispetto
all’ordinaria procedura contabile è stato esteso all’intera materia dei
lavori di somma urgenza e di protezione civile: la giunta è tenuta a
sottoporre al consiglio dell'ente, entro venti giorni dall'ordinazione fatta
a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, il provvedimento di
riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma
1, lettera e), del TUEL, a prescindere dalla circostanza che il capitolo di
spesa presenti o meno disponibilità finanziaria.
In altre parole, sarà necessario procedere sempre al riconoscimento
consiliare delle spese derivanti per i lavori di somma urgenza apprestando
la relativa copertura finanziaria, tuttavia solamente nei limiti delle
necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio alla
pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento deve essere adottato
entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte
dell'organo esecutivo e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se
a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo
interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare.
Laddove, tuttavia, si verifichi la violazione dei commi 1,2 e, per quanto di
interesse ai fini del presente parere, del comma 3 (ovvero dei termini entro
i quali la Giunta deve provvedere alla sottoposizione al Consiglio del
provvedimento di riconoscimento del debito) si applica il successivo comma 4
e il riconoscimento potrà essere adottato, ai sensi dell’art. 194, comma 1,
lett. e) “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento
per l’ente”.
La vigente versione dell'articolo
191, terzo comma, del TUEL, pertanto, prevede sempre -in presenza
di lavori di somma urgenza- una deroga alla procedura ordinaria, da
circoscrivere, tuttavia, al rispetto dei termini di cui all’art. 191, terzo
comma, al di fuori dei quali si è comunque in presenza di “acquisizione
di beni e servizi in violazione dell’obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3”
e il riconoscimento non può che operare nei limiti dell’art. 2041 cod. civ.,
senza possibilità di riconoscere l’utile d’impresa, come da costante
giurisprudenza della Corte dei conti.
L’art. 191 del TUEL novellato, infatti, privato dell’inciso “qualora i
fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti”,
ha inteso introdurre una disciplina derogatoria per tutti i lavori di somma
urgenza e di protezione civile; tuttavia, l’esigenza di celerità e di
preminente tutela della pubblica incolumità che giustifica l’affidamento
diretto e la determinazione consensuale del corrispettivo con l’affidatario
prima che venga assunto l’impegno contabile, risulta controbilanciata dalla
rigida previsione di termini entro i quali la Giunta deve sottoporre la
proposta di riconoscimento di debito al Consiglio, al fine di ricondurre la
spesa nell’alveo del bilancio; il quantum da riconoscere, inoltre, non può
eccedere i termini della accertata necessità per la rimozione dello stato di
pericolo, al precipuo fine di evitare che il ricorso alle procedure di somma
urgenza si trasformi da strumento eccezionale in occasione per provvedere,
contestualmente, ad interventi eccedenti la necessità contingente.
In ordine al quesito, pertanto, il Collegio ritiene che il
rinvio alle modalità previste dall’art.
194, lett. e), per il riconoscimento di detti debiti fuori
bilancio non abbia valenza esclusivamente procedimentale ma anche
sostanziale: tuttavia, laddove l’iter procedurale seguito
dall’amministrazione si sia svolto nell’ambito dei ristretti termini
previsti dalla legge, il riferimento alle “modalità” di cui all’art.
194 lett. e), è da intendersi nel senso che è sempre necessaria
l’adozione della delibera consiliare con la quale riconoscere la spesa
sostenuta per lavori di somma urgenza, purché strettamente attinenti alla
rimozione dello stato di pericolo: in tal caso l’utilitas per
l’amministrazione coincide con la spesa sostenuta come risultante dalla
perizia tecnica e dal corrispettivo concordato consensualmente: ciò in
quanto tale modalità procedurale, sia pure derogatoria rispetto
all’ordinaria gestione contabile, è stata estesa dal legislatore, con la
novella del 2018, all’intera materia dei lavori di somma urgenza e di
protezione civile; pertanto, laddove l’attività gestionale sia mantenuta
entro l’alveo temporale segnato dalla legge non v’è ragione che giustifichi
la decurtazione dell’utile d’impresa.
La violazione di detti termini procedurali, invece, determina l’applicazione
della disciplina sostanziale di cui all’art.
194, lett. e), come da consolidata giurisprudenza del giudice
contabile: in tal caso il riconoscimento opererà esclusivamente nei limiti
dell’utilità ricevuta dall’amministrazione mentre per la parte non
riconoscibile (l’utile d’impresa) il rapporto obbligatorio intercorrerà tra
il privato fornitore e l’amministratore che ha disposto la fornitura. |
LAVORI PUBBLICI:
E’ sempre necessaria la delibera di riconoscimento di debito per i lavori di
somma urgenza.
E' sempre obbligatorio
riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma urgenza, per i
quali non risulta possibile rispettare l'iter ordinario del procedimento di
spesa e non già solo quando sull’apposito capitolo vi è insufficienza di
fondi.
La giunta è tenuta a sottoporre al consiglio dell'ente, entro venti giorni
dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del
procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità
previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del TUEL.
In altre parole, sarà necessario procedere sempre al riconoscimento
consiliare delle spese derivanti per i lavori di somma urgenza apprestando
la relativa copertura finanziaria, tuttavia solamente nei limiti delle
necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio alla
pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento deve essere adottato
entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte
dell'organo esecutivo e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se
a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo
interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare.
Laddove, tuttavia, si verifichi la violazione dei commi 1, 2 e, per quanto di
interesse ai fini del presente parere, del comma 3 (ovvero dei termini entro
i quali la Giunta deve provvedere alla sottoposizione al Consiglio del
provvedimento di riconoscimento del debito) si applica il successivo comma 4
e il riconoscimento potrà essere adottato, ai sensi dell’art. 194, comma 1,
lett. e), “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento
per l’ente”.
La vigente versione dell'articolo 191, terzo comma, del TUEL, pertanto,
prevede sempre -in presenza di lavori di somma urgenza- una deroga alla
procedura ordinaria, da circoscrivere, tuttavia, al rispetto dei termini di
cui all’art. 191, terzo comma, al di fuori dei quali si è comunque in
presenza di “acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo
indicato nei commi 1, 2 e 3” e il riconoscimento non può che operare nei
limiti dell’art. 2041 cod. civ., senza possibilità di riconoscere l’utile
d’impresa, come da costante giurisprudenza della Corte dei conti.
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In ordine al primo quesito, pertanto, il Collegio ritiene che
il rinvio alle
modalità previste dall’art. 194, lett. e) per il riconoscimento di detti
debiti fuori bilancio non abbia valenza esclusivamente procedimentale ma
anche sostanziale: tuttavia, laddove l’iter procedurale seguito
dall’amministrazione si sia svolto nell’ambito dei ristretti termini
previsti dalla legge, il riferimento alle “modalità” di cui all’art. 194,
lett. e), è da intendersi nel senso che è sempre necessaria l’adozione della
delibera consiliare con la quale riconoscere la spesa sostenuta per lavori
di somma urgenza, purché strettamente attinenti alla rimozione dello stato
di pericolo: in tal caso l’utilitas per l’amministrazione coincide con la
spesa sostenuta come risultante dalla perizia tecnica e dal corrispettivo
concordato consensualmente: ciò in quanto tale modalità procedurale, sia
pure derogatoria rispetto all’ordinaria gestione contabile, è stata estesa
dal legislatore, con la novella del 2018, all’intera materia dei lavori di
somma urgenza e di protezione civile; pertanto, laddove l’attività
gestionale sia mantenuta entro l’alveo temporale segnato dalla legge non v’è
ragione che giustifichi la decurtazione dell’utile d’impresa.
La violazione di detti termini procedurali, invece, determina l’applicazione
della disciplina sostanziale di cui all’art. 194, lett. e), come da
consolidata giurisprudenza del giudice contabile, senza che possano rilevare
le motivate ragioni del ritardo: in tal caso il riconoscimento opererà
esclusivamente nei limiti dell’utilità ricevuta dall’amministrazione mentre
per la parte non riconoscibile (l’utile d’impresa) il rapporto obbligatorio
intercorrerà tra il privato fornitore e l’amministratore che ha disposto la
fornitura.
La ratio della disposizione si rinviene, proprio, nella circostanza che
viene assoggettato al regime speciale derogatorio l’intero settore dei
lavori di somma urgenza (e non già come in precedenza solamente nei casi di
insufficienza di fondi) e, pertanto, anche la cadenza temporale entro la
quale ricondurre a bilancio le spese sostenute è fissata dal legislatore in
termini precisi, sottratti alle valutazioni discrezionali dell’organo di
gestione.
---------------
Con la nota in epigrafe, il sindaco del comune di Palermo ha chiesto un
parere in ordine all’interpretazione dell’art. 191, comma 3, del D.lgs. n. 267
del 2000 (TUEL) a seguito della modifica recata dall’art. 1, comma 901, della
legge finanziaria n. 145 del 2018.
In particolare, il Sindaco, con un primo quesito chiede di conoscere se il
riferimento operato dall’art. 191 novellato alla lettera e) dell’art. 194
del TUEL attenga semplicemente all’individuazione dell’iter procedurale da
adottare (apposita delibera del Consiglio) ovvero anche ai profili di
diritto sostanziale richiamati al successivo comma 4, in forza del quale il
riconoscimento opera nei termini dell’art. 2041 del codice civile laddove
l’acquisizione di beni e servizi sia avvenuta in violazione delle norme
giuscontabili.
Con il secondo quesito chiede di precisare se, in caso di mancato rispetto
da parte della Giunta dei termini previsti per la sottoposizione al
Consiglio della proposta di riconoscimento di debito fuori bilancio
derivante da lavori di somma urgenza, ancorché determinato da motivate
ragioni, debba applicarsi comunque la decurtazione dell’utile d’impresa,
come da consolidata giurisprudenza della Corte dei conti.
...
La Sezione, preliminarmente, ritiene la richiesta di parere ammissibile
sotto il profilo soggettivo -in quanto proveniente dal legale
rappresentante del comune– nonché sotto il profilo oggettivo, atteso che la
tematica del riconoscimento dei debiti fuori bilancio è indubbiamente
attinente alla materia della contabilità pubblica.
La richiesta, inoltre, presenta profili di carattere generale e non
interferisce con le competenze degli altri organi giurisdizionali.
Ciò detto, occorre innanzitutto riassumere le principali disposizioni
normative cui il quesito fa riferimento.
L’art. 163 del decreto legislativo n. 50 del 18.04.2016, recante il
Codice dei contratti pubblici, disciplina le procedure per gli interventi di
somma urgenza e di protezione civile; il comma 4, riferito alle procedure
adottate dagli enti locali, recita:
“4. Il responsabile del procedimento o il tecnico dell'amministrazione
competente compila entro dieci giorni dall'ordine di esecuzione dei lavori
una perizia giustificativa degli stessi e la trasmette, unitamente al
verbale di somma urgenza, alla stazione appaltante che provvede alla
copertura della spesa e alla approvazione dei lavori. Qualora
l'amministrazione competente sia un ente locale, la copertura della spesa
viene assicurata con le modalità previste dall'articolo 191, comma 3, e 194,
comma 1, lettera e), del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267 e
successive modificazioni e integrazioni”.
Il richiamato art. 191 del decreto legislativo n. 267 del 2000, come
modificato dall’art. 1, comma 901, della legge n. 145 del 2018, ai commi 3 e
4, recita:
”3. Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un
evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, entro venti giorni
dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del
procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento
della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e),
prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate
necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni
dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque
entro il 31 dicembre dell'anno in corso, se a tale data non sia scaduto il
predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data
contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
4. Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione
dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio
intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile
ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e
l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la
fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si
estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni”.
Infine, l’art. 194, comma 1, del TUEL dispone:
“1. Con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con
diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti
locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da: (omissis)
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai
commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati
utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di
pubbliche funzioni e servizi di competenza”.
Con l'introduzione dell'articolo 1, comma 901, della legge finanziaria n.
145 del 2018 viene abrogato, all'interno del terzo comma dell'articolo 191
del TUEL, il riferimento all'insufficienza delle risorse finanziarie per
giustificare l'avvio delle procedure di riconoscimento dei debiti fuori
bilancio derivanti dai lavori pubblici di somma urgenza, causati dal
verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile.
Pertanto, secondo la nuova versione della norma, è sempre obbligatorio
riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma urgenza, per i
quali non risulta possibile rispettare l'iter ordinario del procedimento di
spesa e non già solo quando sull’apposito capitolo vi è insufficienza di
fondi.
La giunta è tenuta a sottoporre al consiglio dell'ente, entro venti giorni
dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del
procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità
previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del TUEL.
In altre parole, sarà necessario procedere sempre al riconoscimento
consiliare delle spese derivanti per i lavori di somma urgenza apprestando
la relativa copertura finanziaria, tuttavia solamente nei limiti delle
necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio alla
pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento deve essere adottato
entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte
dell'organo esecutivo e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se
a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo
interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare.
Laddove, tuttavia, si verifichi la violazione dei commi 1, 2 e, per quanto di
interesse ai fini del presente parere, del comma 3 (ovvero dei termini entro
i quali la Giunta deve provvedere alla sottoposizione al Consiglio del
provvedimento di riconoscimento del debito) si applica il successivo comma 4
e il riconoscimento potrà essere adottato, ai sensi dell’art. 194, comma 1,
lett. e), “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento
per l’ente”.
La vigente versione dell'articolo 191, terzo comma, del TUEL, pertanto,
prevede sempre -in presenza di lavori di somma urgenza- una deroga alla
procedura ordinaria, da circoscrivere, tuttavia, al rispetto dei termini di
cui all’art. 191, terzo comma, al di fuori dei quali si è comunque in
presenza di “acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo
indicato nei commi 1, 2 e 3” e il riconoscimento non può che operare nei
limiti dell’art. 2041 cod. civ., senza possibilità di riconoscere l’utile
d’impresa, come da costante giurisprudenza della Corte dei conti.
L’art. 191 del TUEL novellato, infatti, privato dell’inciso “qualora i fondi
specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti”, ha inteso
introdurre una disciplina derogatoria per tutti i lavori di somma urgenza e
di protezione civile; tuttavia, l’esigenza di celerità e di preminente
tutela della pubblica incolumità che giustifica l’affidamento diretto e la
determinazione consensuale del corrispettivo con l’affidatario prima che
venga assunto l’impegno contabile, risulta controbilanciata dalla rigida
previsione di termini entro i quali la Giunta deve sottoporre la proposta di
riconoscimento di debito al Consiglio, al fine di ricondurre la spesa
nell’alveo del bilancio; il quantum da riconoscere, inoltre, non può
eccedere i termini della accertata necessità per la rimozione dello stato di
pericolo, al precipuo fine di evitare che il ricorso alle procedure di somma
urgenza si trasformi da strumento eccezionale in occasione per provvedere,
contestualmente, ad interventi eccedenti la necessità contingente.
In ordine al primo quesito, pertanto, il Collegio ritiene che
il rinvio alle
modalità previste dall’art. 194, lett. e) per il riconoscimento di detti
debiti fuori bilancio non abbia valenza esclusivamente procedimentale ma
anche sostanziale: tuttavia, laddove l’iter procedurale seguito
dall’amministrazione si sia svolto nell’ambito dei ristretti termini
previsti dalla legge, il riferimento alle “modalità” di cui all’art. 194,
lett. e), è da intendersi nel senso che è sempre necessaria l’adozione della
delibera consiliare con la quale riconoscere la spesa sostenuta per lavori
di somma urgenza, purché strettamente attinenti alla rimozione dello stato
di pericolo: in tal caso l’utilitas per l’amministrazione coincide con la
spesa sostenuta come risultante dalla perizia tecnica e dal corrispettivo
concordato consensualmente: ciò in quanto tale modalità procedurale, sia
pure derogatoria rispetto all’ordinaria gestione contabile, è stata estesa
dal legislatore, con la novella del 2018, all’intera materia dei lavori di
somma urgenza e di protezione civile; pertanto, laddove l’attività
gestionale sia mantenuta entro l’alveo temporale segnato dalla legge non v’è
ragione che giustifichi la decurtazione dell’utile d’impresa.
La violazione di detti termini procedurali, invece, determina l’applicazione
della disciplina sostanziale di cui all’art. 194, lett. e), come da
consolidata giurisprudenza del giudice contabile, senza che possano rilevare
le motivate ragioni del ritardo: in tal caso il riconoscimento opererà
esclusivamente nei limiti dell’utilità ricevuta dall’amministrazione mentre
per la parte non riconoscibile (l’utile d’impresa) il rapporto obbligatorio
intercorrerà tra il privato fornitore e l’amministratore che ha disposto la
fornitura.
La ratio della disposizione si rinviene, proprio, nella circostanza che
viene assoggettato al regime speciale derogatorio l’intero settore dei
lavori di somma urgenza (e non già come in precedenza solamente nei casi di
insufficienza di fondi) e, pertanto, anche la cadenza temporale entro la
quale ricondurre a bilancio le spese sostenute è fissata dal legislatore in
termini precisi, sottratti alle valutazioni discrezionali dell’organo di
gestione (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 04.06.2019 n. 118). |
APPALTI: Il
debito fuori bilancio reiterato mette a rischio il pareggio.
Se nella pubblica amministrazione il debito fuori bilancio ha assunto
dimensioni rilevanti e reiterate in più esercizi finanziari, è presumibile
che il fenomeno sia indice dell'incapacità di perseguire una corretta
politica di programmazione e gestione finanziaria delle risorse e delle
spese (per la sottostima degli stanziamenti di bilancio rispetto alle
effettive necessità di spesa), con un inevitabile pregiudizio per i vincoli
del pareggio e gli equilibri interni.
La Corte dei conti, del Veneto, con la
deliberazione
07.05.2019 n.
103 ha analizzato con rigore la situazione finanziaria di un
Comune alla luce del rendiconto per l'esercizio finanziario 2016, da cui
sono emersi debiti fuori bilancio che, sommati a quelli già registrati
nell'esercizio del 2014, hanno raggiunto l'importo di 150 mila euro.
Una cifra enorme, specie in rapporto alle esigue dimensioni dell'ente, che
ha portato il collegio a trasmettere senza indugio gli atti alla procura
della sezione regionale, nonché a soffermarsi sulla natura del debito fuori
bilancio e sui rimedi approntati dall'ordinamento per farvi fronte.
Il debito fuori bilancio, hanno scritto i giudici, è «un'obbligazione verso
terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro, assunta in
violazione delle norme giuscontabili che regolano il procedimento
finanziario della spesa degli enti locali».
La strada del risanamento
Premesso che questa evenienza non può assumere un carattere ricorrente, il
collegio rammenta che per ricondurre nell'alveo della regolarità contabile
una siffatta obbligazione l'unica via possibile è quella indicata
dall'articolo 194 del Tuel (Riconoscimento di legittimità dei debiti fuori
bilancio).
Trattandosi di una norma per la disciplina di un istituto avente carattere
eccezionale, è fuor di dubbio che la casistica delle ipotesi ivi prescritta
va presa alla lettera, essendo tassativa e inderogabile.
L'applicazione dell'articolo 194 è peraltro «subordinata all'accertamento
sia dell'utilità pubblica del bene acquisito in relazione alle funzioni e ai
servizi di competenza dell'ente, sia dell'arricchimento dell'ente stesso».
Nel contesto descritto, la delibera consiliare ha dunque il compito di:
• riscontrare e dimostrare che il debito rientra in una delle
fattispecie tipizzate dall'articolo 194 del Tuel;
• accertare e documentare puntualmente se e in che misura
sussistano i presupposti dell'utilità e dell'arricchimento;
• accertare, conseguentemente, se vi sia una parte del debito non
sorretta da entrambi questi presupposti, e dunque non riconoscibile (per la
quale, ai sensi dell'articolo 191, comma 4, del Tuel, il rapporto
obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore,
funzionario o dipendente che hanno consentito la prestazione in favore
dell'ente);
• ricondurre l'obbligazione all'interno della contabilità e del
sistema di bilancio dell'ente;
• individuare le risorse per il finanziamento;
• accertare le cause che hanno originato l'obbligo, anche al fine
di evidenziare eventuali responsabilità.
Si ribadisce che l'istituto rappresenta un'eccezione al principio che
postula la necessità del previo impegno formale e della copertura
finanziaria, fatto questo che giustifica facilmente la previsione dell'invio
della delibera consiliare in parola alla Procura regionale della Corte dei
conti.
Posto che la formazione di debiti fuori bilancio costituisce un evidente
fattore di rischio per gli equilibri di bilancio, ben si comprende la
preoccupazione espressa dai giudici per le dimensioni rilevanti e reiterate
del fenomeno riscontrato nella gestione finanziaria del Comune. Di qui la
censura senza mezzi termini della Sezione veneta e la contestuale
raccomandazione di segnalare con tempestività l'insorgenza di questi debiti
e del loro riconoscimento, allo scopo di evitare la formazione di ulteriori
passività a carico dell'ente, quali ad esempio gli oneri per interessi di
mora o spese legali
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.05.2019).
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MASSIMA
Tuttavia, si vuole qui rammentare, innanzitutto, che il debito fuori
bilancio è un'obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata
somma di denaro, assunta in violazione delle norme giuscontabili che
regolano il procedimento finanziario della spesa degli enti locali.
L'istituto, che ha carattere eccezionale, è disciplinato dall'art. 194 del
D.Lgs. n. 267/2000, che prevede, tra l'altro, che tale adempimento vada
posto in essere in occasione della ricognizione dello stato di attuazione
dei programmi e dell'accertamento degli equilibri generali di bilancio (art.
193, comma 2, del TUEL), nonché nelle altre cadenze periodiche previste dal
regolamento di contabilità.
L'elencazione prevista dalla norma contempla una serie di ipotesi, tassative
in quanto derogatorie rispetto all'ordinario procedimento di spesa, in cui è
possibile procedere al riconoscimento, e tra queste (art. 194, comma 1, lett.
e) rientra anche l'acquisizione di beni e servizi, in violazione degli
obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito
dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
L'operatività di quest'ultima norma è dunque subordinata all'accertamento
sia dell'utilità pubblica del bene acquisito in relazione alle funzioni ed
ai servizi di competenza dell'ente, sia dell'arricchimento dell'ente (che
corrisponde al depauperamento patrimoniale sofferto senza giusta causa dal
privato contraente ai sensi dell'art. 2041 cc.). L'accertamento della
sussistenza di entrambi questi presupposti, come già più volte ricordato da
questa Sezione (cfr.
deliberazione 11.09.2009 n. 156 e
deliberazione 19.06.2009 n. 107), è obbligatorio
e non può essere automaticamente ed implicitamente ricondotto alla semplice
adozione della deliberazione di riconoscimento, in quanto vi può essere una
parte del debito non riconoscibile ai sensi dell'art. 191, comma 4, del D.Lgs.
n. 267/2000.
In questo contesto, la delibera consiliare ha dunque il compito di:
- riscontrare e dimostrare che il debito rientra in una delle
fattispecie tipizzate dall'art. 194 del TUEL;
- accertare e documentare puntualmente se ed in che misura
sussistano i presupposti dell'utilità e dell'arricchimento;
- accertare, conseguentemente, se vi sia una parte del debito non
sorretta da entrambi questi presupposti, e dunque non riconoscibile (per la
quale, ai sensi dell'art. 191, comma 4, del TUEL, il rapporto obbligatorio
intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o
dipendente che hanno consentito la prestazione in favore dell'ente);
- ricondurre l'obbligazione all'interno della contabilità e del
sistema di bilancio dell'ente;
- individuare le risorse per il finanziamento;
- accertare le cause che hanno originato l'obbligo, anche al fine
di evidenziare eventuali responsabilità.
In altri termini, l’art. 194, primo comma, TUEL rappresenta un’eccezione ai
principi riguardanti la necessità del preventivo impegno formale e della
copertura finanziaria; onde per riportare le ipotesi previste nell’ambito
del principio di copertura finanziaria è richiesta la delibera consiliare
con la quale viene ripristinata la fisiologia della fase della spesa e i
debiti de quibus vengono ricondotti a sistema (cfr. ex multis
Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, 6/1c/2005 e sez. contr.
Campania
parere 23.05.2013 n. 213) mediante l’adozione dei necessari
provvedimenti di riequilibrio finanziario.
Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è quindi, come detto,
l’accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le
consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti, questa funzione di
accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio alla Procura regionale
della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. 289/2002) delle delibere di
riconoscimento di debito fuori bilancio. Nella delineata prospettiva
interpretativa, la delibera consiliare svolge una duplice funzione, per un
verso, tipicamente giuscontabilistica, finalizzata ad assicurare la
salvaguardia degli equilibri di bilancio; per l’altro, garantista, ai fini
dell’accertamento dell’eventuale responsabilità amministrativo-contabile (cfr.
ex multis: Corte dei conti, Sezione Regionale per la Puglia
deliberazione 23.10.2014 n. 180 e
deliberazione 03.06.2016 n. 122).
Va ricordato, inoltre, che il riferimento ad opera dell'art. 194, comma 1,
del TUEL ad adempimenti periodici e temporalmente cadenzati testimonia come
l'adempimento in questione, in presenza dei presupposti di legge,
costituisca un atto dovuto e vincolato per l'ente, in quanto consente di far
emergere eventuali passività insorte nel corso dell'esercizio, in
applicazione dei principi di veridicità, trasparenza e pareggio di bilancio,
nonché di adottare le misure necessarie al ripristino dell'equilibrio della
gestione finanziaria.
La tempestività della segnalazione dell'insorgenza di tali debiti e del loro
riconoscimento consente di evitare l'insorgere di ulteriori passività a
carico dell'ente, quali, ad esempio, eventuali interessi o spese di
giustizia.
Come si è sottolineato in precedenza, la formazione di debiti fuori bilancio
costituisce un fattore di rischio per gli equilibri e per la stabilità degli
esercizi successivi causa di partite debitorie riferite a quelli precedenti.
Nel caso di specie, la spesa riconosciuta per l’esercizio oggetto di
scrutinio ammonta a Euro 96.687,19, oltre a quegli € 668,16 di cui ha dato
evidenza l’Organo di revisione.
Va da sé, tuttavia, che quando il fenomeno assume dimensioni rilevanti e
reiterate in più esercizi finanziari, è presumibile che gran parte dei
debiti fuori bilancio sia riconducibile alla incapacità di porre in essere
una corretta politica di programmazione e gestione finanziaria delle risorse
e delle spese, alla possibile sottostima degli stanziamenti di bilancio
rispetto alle effettive necessità di spesa, ovvero al fine di garantire i
vincoli del pareggio e degli equilibri interni.
Per il finanziamento di tali spese, il legislatore pone precisi limiti (art.
193 e 194 del D.Lgs. n. 267/2000). La formazione di debiti fuori bilancio
costituisce infatti indice della difficoltà dell’Ente nel governare
correttamente i procedimenti di spesa attraverso il rispetto delle norme
previste dal TUEL. La necessità di una modifica delle priorità nelle
previsioni di spesa è, altresì, dimostrata dalla disposizione di cui
all’art. 191, comma 5, TUEL, che vieta, per l’appunto, agli enti che non
hanno validamente adottato i provvedimenti di salvaguardia degli equilibri e
di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, di assumere impegni e di pagare
spese per servizi che non siano obbligatori per legge. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Debiti
fuori bilancio da sentenze esecutive, necessario l'intervento della Sezione
Autonomie.
Le divergenze dei giudici contabili sulla obbligatorietà o meno del
riconoscimento preventivo da parte del consiglio comunale dei debiti fuori
bilancio che derivano da sentenze esecutive ovvero la possibilità di poter
disciplinare con il proprio regolamento di contabilità casi specifici di
pagamento anticipato da parte di altri organi (dirigenti o giunta comunale)
ha spinto la Corte dei conti pugliese (deliberazione
15.04.2019 n. 44) a richiedere un intervento della Sezione delle
Autonomie.
La richiesta del Comune
Il sindaco di un Comune ha chiesto alla propria sezione regionale della
Corte dei conti di poter disciplinare in via autonoma, con il proprio
regolamento di contabilità, il pagamento anticipato delle sentenze esecutive
prima della delibera consiliare.
Il caso posto all'attenzione riguarda le sentenze esecutive del giudice di
pace che, in considerazione degli importi modesti da corrispondere, avrebbe
il vantaggio di ridurre le spese rispetto alla procedura prevista
dall'articolo 194 del testo unico degli enti locali. Fermo restando, in ogni
caso, l'obbligo della trasmissione dei pagamenti al consiglio comunale ai
fini del rispetto delle procedure previste dalla normativa.
L'obbligatorio passaggio in consiglio comunale
Una parte della giurisprudenza contabile ha negato che possa essere
utilizzata una procedura diversa da quella stabilita dalle disposizioni del
testo unico degli enti locali che ha intestato il riconoscimento del debito
fuori bilancio alla approvazione preventiva da parte del consiglio, anche se
si tratti di sentenze esecutive che, a differenza delle altre ipotesi
-lettere b), c), d) ed e) del comma 1 dell'articolo 194 del Tuel– non
lasciano alcun margine di discrezionalità da parte del consiglio di poterne
riconoscere l'utilità.
È stato, infatti, sostenuto come il valore della deliberazione consiliare
non è quello di riconoscere la legittimità del debito, già verificata in
sede giudiziale, bensì, da un lato, di ricondurre al sistema di bilancio un
fenomeno di rilevanza finanziaria maturato all'esterno e, dall'altro, di
accertare le cause che hanno generato l'obbligo, con le conseguenti
eventuali responsabilità (anche mediante l'obbligatorio invio alla procura
contabile).
Va, infine, rilevato come la stessa Sezione delle Autonomie (si veda il
Quotidiano degli enti locali e della Ps del 23.04.2018) abbia indicato come
il riconoscimento e la copertura finanziaria del debito fuori bilancio
spetti, in via esclusiva e non delegabile, alla sola massima assise
comunale.
L'apertura sul pagamento prima del consiglio
Altra parte della giurisprudenza contabile (si veda il Quotidiano degli e
della Pa del 31.01.2018) ha, invece, consentito la possibilità di adempiere
prima della deliberazione del consiglio comunale, motivando sull'assenza di
discrezionalità dell'organo di indirizzo politico di valutare l'an e
il quantum del debito, poiché l'entità del pagamento rimane stabilita
nella misura indicata dal provvedimento dell'autorità giudiziaria,
rappresentando il riconoscimento del debito un atto dovuto. Ma ancora più
incisiva appare la posizione della Corte dei conti ligure (parere
22.03.2018 n. 73) che distingue due ipotesi.
La prima si presenta nel caso in cui sussista un pertinente e capiente
stanziamento nel bilancio in corso di gestione, in questo caso non si
sarebbe in presenza di alcuna situazione patologica tipica del debito fuori
bilancio. La seconda ipotesi riguarda, invece, il caso in cui nel bilancio
non sussista uno stanziamento corrispondente al tipo di spesa derivante dal
provvedimento giurisdizionale o lo stesso non offra la necessaria capienza,
con la conseguenza che si è in presenza di una situazione patologica del
bilancio. Tuttavia, in quest'ultimo caso, nulla vieterebbe al dirigente o
alla giunta comunale di poter procedere attraverso l'esercizio dei poteri di
variazione del bilancio al pagamento del debito.
In ogni caso, precisa la Sezione ligure, resta impregiudicato l'obbligo
della pronta attivazione e celere definizione del procedimento previsto
dall'articolo 194 del Tuel, nonché quello di includere la determinazione
relativa al pagamento anticipato nella documentazione da trasmettere alla
Procura della Corte dei conti competente.
In considerazione della divisione tra le Sezioni territoriali della Corte,
la Sezione pugliese ha rimesso la decisione alla Sezione Autonomie, al fine
di chiarire, in via definitiva, l'obbligo del consiglio comunale del previo
riconoscimento del debito fuori bilancio da sentenze esecutiva prima del suo
pagamento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Debiti
fuori bilancio da sentenze esecutive, necessario l'intervento della Sezione
Autonomie.
La Sezione regionale di
controllo per la Puglia sottopone al Presidente della Corte dei conti la
valutazione sull’opportunità di deferire alla Sezione delle Autonomie o alle
Sezioni Riunite in sede di controllo la seguente questione: «se, con
riferimento al procedimento per il riconoscimento di legittimità di debiti
fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, ai sensi dell’art. 194,
comma 1, lett. a) TUEL, sia possibile effettuare il pagamento prima della
prevista delibera del Consiglio comunale ovvero se quest’utima debba sempre
precedere l’attività solutoria».
-----------------
Con nota del 13.03.2019 il Sindaco del Comune di Taranto ha formulato una
richiesta di parere ex art. 7, comma 8 della l. 05.06.2003, n. 131 in
materia di riconoscimento di debiti fuori bilancio. In particolare,
premesso che:
· la Sezione regionale di controllo per la Campania ha ritenuto che
«è stato correttamente affermato (cfr. Corte dei conti -
SS.RR. per la Regione Sicilia,
parere 11.03.2005 n. 2)
che nel caso di debiti derivanti a carico dell’Ente locale da sentenza
esecutiva, l’Ente medesimo può procedere al pagamento ancor prima della
deliberazione consiliare di riconoscimento, atteso che, in ogni caso, “non
potrebbe in alcun modo impedire l’avvio della procedura esecutiva per
l’adempimento coattivo del debito” e che, anzi, la prassi seguita dagli enti
locali di attendere per il pagamento di quanto dovuto il preventivo
riconoscimento della legittimità del debito da parte del consiglio comunale
comporta il lievitare degli oneri patrimoniali per interessi legali ed
eventuale rivalutazione monetaria, cui vanno aggiunte le spese giudiziali
derivanti dalle procedure esecutive, nel caso in cui la predetta detta
deliberazione non intervenga in tempi ragionevoli»
(parere
10.01.2018 n. 2);
· anche la Sezione regionale di controllo per la Liguria ha
affermato che «in coerenza con i principi di efficienza
ed economicità dell’azione amministrativa e con l’interesse pubblico volto
ad evitare inutili sprechi di danaro pubblico, sia possibile per i
competenti organi dell’ente locale, nelle ipotesi e con le modalità
precisate nel presente pronunciamento, procedere al pagamento
dell’obbligazione derivante da un provvedimento giurisdizionale esecutivo
anche prima della deliberazione consiliare di riconoscimento. Restano
comunque salvi l’obbligo della pronta attivazione e celere definizione del
procedimento di cui all’art. 194 TUEL, nonché quello di includere la
determinazione relativa al pagamento anticipato nella documentazione da
trasmettere alla competente Procura della Corte dei conti ai sensi dell’art.
23 della legge n. 289 del 2002»
((parere
22.03.2018 n. 73);
· più di recente la Sezione regionale di controllo per la Lombardia
ha sostenuto che «E’ utile, sebbene non sia oggetto del
quesito, ma soltanto per completezza espositiva, richiamare il
parere 22.03.2018 n. 73 la Sezione della
Corte dei Conti per la Liguria con cui ha espresso un orientamento,
condiviso da questa Sezione, che ritiene legittimo, anche prima del
riconoscimento da parte del Consiglio del debito determinato dalla sentenza,
comunque necessario, provvedere al pagamento della somma in alcuni casi
espressamente indicati nel parere appena ricordato, al fine di evitare
l’aggravarsi della posizione debitoria in capo all’Ente»
(parere
20.12.2018 n. 368);
· l’art. 152 TUEL consente agli enti locali di approvare i
regolamenti di contabilità nel rispetto delle norme della parte seconda del
TUEL, «da considerarsi come principi generali con valore di limite
inderogabile» (comma 4), con l’eccezione di alcune disposizioni (fra cui
non figura l’art. 194 TUEL) destinate a non trovare applicazione qualora il
regolamento di contabilità dell’ente rechi una differente disciplina;
ha reso nota l’intenzione di disciplinare, a livello di regolamento di
contabilità, l’iter di riconoscimento dei debiti fuori bilancio ex art. 194,
comma 1, lett. a) TUEL, contemplando il pagamento anticipato, rispetto alla
delibera consiliare di riconoscimento, di quelli derivanti da sentenze del
giudice di pace.
In particolare, il Comune ha prospettato di prevedere
nel citato regolamento –alternativamente e per il caso in cui la prima
formulazione «non sia ritenuta legittima»– che:
a) «le sentenze rientranti nella competenza per valore del
Giudice di Pace siano pagate dalla direzione competente prima della scadenza
del termine di cui all’art. 14 del d.l. 31.12.1996, n. 669, convertito nella
legge 28.02.1997, n. 30, fermo restando da parte del Consiglio comunale, a
cui la determinazione di pagamento sarà trasmessa tempestivamente,
l’obbligatorio riconoscimento del debito a norma dell’art. 194, comma 1,
lett. A), TUEL da deliberare entro l’esercizio finanziario di riferimento
dell’avvenuto pagamento»;
b) «le sentenze rientranti nella competenza per valore del
Giudice di Pace siano pagate dalla direzione competente prima della scadenza
del termine di cui all’art. 14 del d.l. 31.12.1996, n. 669, convertito nella
legge 28.02.1997, n. 30, fermo restando da parte del Consiglio comunale, a
cui la determinazione di pagamento sarà trasmessa tempestivamente,
l’obbligatorio riconoscimento del debito a norma dell’art. 194, comma 1,
lett. A), TUEL da deliberare nel rispetto del predetto termine di legge».
In relazione alle suddette ipotesi regolamentari il Comune ha chiesto il
parere della Sezione.
...
2. Passando al merito, è opportuna una sintetica ricostruzione del
pertinente quadro normativo e della lettura offertane dal Giudice contabile.
2.1 Viene in primo luogo in rilievo l’art. 194 TUEL (rubricato «Riconoscimento
di legittimità di debiti fuori bilancio»), il quale, per quanto di
interesse in questa sede, prevede (comma 1) che con deliberazione consiliare
ex art. 193, comma 2, TUEL o con diversa periodicità stabilita dai
regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei
debiti fuori bilancio derivanti da: sentenze esecutive (lett. a); copertura
di disavanzi di consorzi, aziende speciali e istituzioni, nei limiti ivi
specificati (lett. b); ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previsti
dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per
l’esercizio di servizi pubblici locali (lett. c); procedure espropriative o
di occupazione d’urgenza per opere di pubblica utilità (lett. d);
acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi
1, 2 e 3 dell’art. 191 TUEL, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità
e arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza (lett. e).
A sua volta, l’art. 193 TUEL («Salvaguardia degli equilibri di bilancio»),
dopo aver sancito l’obbligo per gli enti locali di rispettare durante la
gestione e nelle variazioni di bilancio il pareggio finanziario e tutti gli
equilibri stabiliti in bilancio per la copertura delle spese correnti e per
il finanziamento degli investimenti (comma 1), prevede che, con periodicità
stabilita dal regolamento di contabilità e comunque almeno una volta entro
il 31 luglio di ciascun anno, l’organo consiliare provvede con delibera a
dare atto del permanere degli equilibri generali di bilancio o, in caso di
accertamento negativo, ad adottare, contestualmente le misure correttive ivi
previste, tra cui «i provvedimenti per il ripiano degli eventuali debiti
di cui all’art. 194» (comma 2, lett. b).
Infine, occorre richiamare l’art. 14 del d.l. 31.12.1996, n. 669
(convertito, con modificazioni, nella l. 28.02.1997, n. 30), in base al
quale «Le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici non economici e
l’ente Agenzia delle entrate - Riscossione completano le procedure per
l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi
efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro
entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo
esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad
esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto» (comma 1).
3. Nell’esercizio della sua funzione consultiva il giudice
contabile ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni sulla tematica del
riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive,
giungendo a conclusioni tra loro non conformi.
3.1
Secondo un primo indirizzo, di cui sono espressione le pronunce
richiamate dal Comune istante,
nel caso di debiti derivanti da sentenza
esecutiva la delibera consiliare varrebbe non già a riconoscere la
legittimità del debito, di per sé esistente in virtù della statuizione del
giudice, bensì quale strumento attraverso cui il debito viene ricondotto al
«sistema di bilancio», con la precipua funzione di salvaguardarne gli
equilibri.
A differenza delle ipotesi sub lett. b), c), d) ed e) del comma 1 dell’art.
194 TUEL, per le quali il debito fuori bilancio è oggetto di valutazioni
discrezionali più o meno ampie da parte del Consiglio,
di fronte ad un
titolo esecutivo l’organo assembleare dell’ente locale non dovrebbe compiere
alcuna valutazione, non potendo, in ogni caso, impedire il pagamento del
relativo debito.
Di conseguenza,
l’interpretazione logica-sistematica delle norme imporrebbe
di «distinguere i debiti derivanti da sentenze esecutive dalle altre
ipotesi, consentendo di affermare che per i primi il riconoscimento da parte
del Consiglio Comunale svolge una mera funzione ricognitiva, di presa d’atto
finalizzata al mantenimento degli equilibri di bilancio, ben potendo gli
organi amministrativi, accertata la sussistenza del provvedimento
giurisdizionale esecutivo, procedere al relativo pagamento anche prima della
deliberazione consiliare di riconoscimento»
(Sezioni Riunite per la
Regione Siciliana,
parere 11.03.2005 n. 2).
Inoltre, «la prassi seguita dagli enti locali di attendere per il
pagamento di quanto dovuto il preventivo riconoscimento della legittimità
del debito da parte del consiglio comunale comporta il lievitare degli oneri
patrimoniali per interessi legali ed eventuale rivalutazione monetaria, cui
vanno aggiunte le spese giudiziali derivanti dalle procedure esecutive, nel
caso in cui la predetta detta deliberazione non intervenga in tempi
ragionevoli» (Sezione regionale di controllo per la Campania,
parere 10.01.2018 n. 2).
Nella stessa prospettiva si colloca
il parere della Sezione regionale di
controllo per la Liguria
(parere
22.03.2018 n. 73), che
distingue l’ipotesi in cui, in relazione
all’obbligazione cui si riferisce la statuizione giurisdizionale, sussista
un pertinente e capiente stanziamento nel bilancio in corso di gestione da
quella in cui tale stanziamento sia assente o incapiente.
Nel primo caso, «(…) premesso che le obbligazioni giuridiche derivanti da
provvedimenti giudiziari esecutivi si presentano come obbligazioni che si
perfezionano senza il concorso della volontà dell’amministrazione, occorre
notare che in fattispecie di questo genere non si è in presenza di alcuna
situazione patologica né nel sistema di bilancio esistente, visto che già di
per sé reca la copertura finanziaria per la nuova spesa, né nell’impegno
contabile.
Sotto questo secondo profilo si osserva, infatti, che,
come è stato tradotto
in diritto positivo nel nuovo ordinamento contabile, la registrazione di un
impegno di spesa può avvenire soltanto dal momento in cui l’obbligazione a
carico dell’ente è giuridicamente perfezionata (cfr. punto 5.1 del già
menzionato principio applicato della contabilità finanziaria di cui
all’allegato 4/2). Perciò non può rilevarsi un’anomalia nell’assunzione
dell’impegno a seguito dell’obbligazione giuridica che sorge e si perfeziona
per effetto del provvedimento del giudice (…)
(…) anche in tali circostanze, il procedimento che culmina con la
deliberazione consiliare di riconoscimento del debito continua a
rappresentare la via ordinaria da seguire, che il legislatore ha
evidentemente scelto di prescrivere con il richiamo anche alle sentenze
esecutive, in considerazione della possibile, anche se non necessaria,
presenza di elementi di irregolarità o di anomalie negli atti o fatti
sottesi alla controversia giudiziale.
Ove, però, tale strada si riveli non tempestivamente e utilmente
praticabile, gli amministratori o funzionari competenti potranno comunque,
al verificarsi delle condizioni descritte, ugualmente attivarsi per il
pagamento del debito, salvo l’obbligo per i medesimi di adoperarsi
contemporaneamente per la definizione della deliberazione consiliare di
riconoscimento.
Negare tale possibilità, nei casi in cui costituisce l’unico rimedio per
evitare maggiori aggravi di spesa per l’ente, condurrebbe questa Sezione a
privilegiare un formalismo giuridico che si appalesa all’evidenza non
giustificato. (…) infatti, la sottoposizione della fattispecie di spesa da
provvedimento giurisdizionale esecutivo all’esame del Consiglio comunale in
un momento successivo al pagamento del debito, lascia inalterati i poteri e
i margini di valutazione che competono all’organo nell’ambito della
deliberazione di riconoscimento e che potrà esercitare con uguali modalità
e, soprattutto, con pari efficacia e rilevanza».
Nella seconda ipotesi, ovvero quella in cui nel bilancio non sussista uno
stanziamento corrispondente al tipo di spesa derivante dal provvedimento
giurisdizionale o lo stesso non offra la necessaria capienza,
si è in
presenza di una situazione patologica del bilancio; ciononostante, sempre
sul presupposto della non avvenuta tempestiva convocazione dell’organo
consiliare, le disponibilità finanziarie, necessarie per procedere al
pagamento del debito ed evitare aggravi di spesa, potrebbero essere
individuate attraverso l’esercizio dei poteri di variazione del bilancio
spettanti in via ordinaria agli altri organi dell’ente.
Per la Sezione ligure «Tale soluzione, d’altronde, si rivela pienamente
in linea con l’attuale conformazione degli schemi contabili armonizzati
degli enti locali, in cui si può distinguere, anche concettualmente, un
bilancio cd. “decisionale”, corrispondente al bilancio di previsione per
missioni e programmi sottoposto all’approvazione del Consiglio comunale
(l’unità di voto è il programma), e un bilancio cd. “gestionale”, ovvero il
Piano esecutivo di gestione (PEG) elaborato dalla Giunta, nel quale le
previsioni del primo documento vengono ulteriormente articolate».
In definitiva, in coerenza con i principi di efficienza ed economicità
dell’azione amministrativa,
la Sezione ligure ritiene «possibile per i
competenti organi dell’ente locale, nelle ipotesi e con le modalità
precisate nel presente pronunciamento, procedere al pagamento
dell’obbligazione derivante da un provvedimento giurisdizionale esecutivo
anche prima della deliberazione consiliare di riconoscimento. Restano
comunque salvi l’obbligo della pronta attivazione e celere definizione del
procedimento di cui all’art. 194 TUEL, nonché quello di includere la
determinazione relativa al pagamento anticipato nella documentazione da
trasmettere alla competente Procura della Corte dei conti ai sensi dell’art.
23 della legge n. 289 del 2002».
3.2
Un secondo indirizzo
è stato espresso anche di recente da questa
Sezione (parere
22.02.2018 n. 29). In dettaglio,
è stato osservato che:
· in mancanza di una disciplina specifica per le sentenze
esecutive, non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione
dell’art. 193, comma 2, lett. b), TUEL, ai sensi del quale «i provvedimenti
per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art. 194» sono assunti
dall’organo consiliare contestualmente all’accertamento negativo del
permanere degli equilibri di bilancio;
· il valore della deliberazione consiliare non è quello di
riconoscere la legittimità del debito che già è stata verificata in sede
giudiziale, bensì, da un lato, di ricondurre al sistema di bilancio un
fenomeno di rilevanza finanziaria maturato all’esterno e, dall’altro, di
accertare le cause che hanno generato l’obbligo, con le conseguenti
eventuali responsabilità; a tale funzione di accertamento è connessa la
previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti delle
delibere di riconoscimento di debito fuori bilancio (art. 23, comma 5, l.
27.12.2002, n. 289);
· la necessità del riconoscimento consiliare della legittimità del
debito fuori bilancio appare rafforzata dalla disposizione del d.lgs.
23.06.2011, n. 118 (art. 73) che, con formulazione analoga a quella
dell’art. 194, comma 1, TUEL, disciplina il riconoscimento, mediante legge,
dei debiti fuori bilancio delle regioni;
· la previsione legislativa del riconoscimento ad opera dell’organo
consiliare trova ulteriore specificazione nella misura di carattere
sanzionatorio dell’art. 188, comma 1-quater, TUEL, ai sensi del quale agli
enti locali che presentino, nell’ultimo rendiconto deliberato, debiti fuori
bilancio, ancorché da riconoscere, nelle more della variazione di bilancio
che dispone il riconoscimento e il finanziamento del debito fuori bilancio,
è fatto divieto di assumere impegni e pagare spese per servizi non
espressamente previsti per legge;
· pertanto, «nel caso di sentenze esecutive e di pignoramenti,
sussiste, l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del
Consiglio comunale per il riconoscimento del debito, in modo da impedire il
maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali
(Sezione Regionale per la Puglia,
deliberazione 03.06.2016 n. 122,
parere 15.09.2016 n. 152)».
A conclusioni analoghe è pervenuto il
parere 09.05.2018 n. 66 della Sezione regionale di controllo per
la Campania, secondo cui «in mancanza di una
disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le "sentenze
esecutive", non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione
dell’art. 194 Tuel ai sensi del quale il "riconoscimento" del debito
avviene, prima del pagamento, con atto del Consiglio comunale. Bisogna
infatti constatare che in tutte le ipotesi previste dall'art. 194 Tuel la
delibera del Consiglio serve per riportare all’interno del sistema del
bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato al di fuori
delle normali procedure di programmazione e di gestione delle spese
(cfr.
parere 29.04.2009 n. 22 di questa Sezione)».
In precedenza, nello stesso senso si era espressa la Sezione di controllo
per la Regione Siciliana (parere
29.04.2014 n. 55,
parere 30.10.2014 n. 189 e
parere 03.02.2015 n. 80).
In particolare, il
parere 03.02.2015 n. 80 ha affermato che:
· sussiste «la necessità, per tutte le ipotesi contemplate
dall’art. 194 del Tuel, della preventiva e tempestiva deliberazione
consiliare finalizzata a ricondurre l’obbligazione all’interno della
contabilità dell’ente, ad individuare le risorse per farvi fronte, ad
accertare la sussumibilità del debito all’interno di una delle fattispecie
tipizzate dalla norma, ed, infine, ad individuare le cause che hanno
originato l’obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità»;
· il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’organo
consiliare risulta necessario anche nell’ipotesi di debiti derivanti da
sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza di
discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte che,
accertando il diritto di credito del terzo, rende agevole la riconduzione al
sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza finanziaria maturato
all’esterno di esso: «Anche in questi casi, infatti, l’avvio del
procedimento di spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque, già sul
piano logico, una positiva valutazione dell’Organo consiliare sulla
sussistenza dei presupposti di riconoscibilità, sulle cause ed eventuali
responsabilità connesse, nonché sulle misure correttive tese ad evitare il
reiterarsi delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale»;
· le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del
Consiglio comunale non sono circoscritte alle scelte discrezionale, ma si
estendono anche ad attività e procedimenti di spesa di natura obbligatoria,
che transitano necessariamente attraverso l’atto programmatorio generale e
di natura autorizzatoria rappresentato dal bilancio di previsione;
· «Rispetto a tale complesso di autorizzazioni di spesa,
l’attività gestionale, affidata dalla legge ai dirigenti, rappresenta
espressione di un momento necessariamente successivo e, quindi,
inevitabilmente conseguenziale rispetto alla decisione dell’Organo cui è
intestata la responsabilità politica dell’azione amministrativa. La fase
gestionale, di natura prevalentemente esecutiva, non potrebbe dunque
validamente allocarsi in un segmento temporale anteriore rispetto
all’attività decisionale del Consiglio, senza che ne risulti sovvertita la
fondamentale distinzione tra attività di indirizzo politico ed attività
gestionale. L’eventuale previsione in bilancio di uno specifico stanziamento
per liti, arbitraggi, transazioni e quant'altro non elimina perciò la
necessità che il Consiglio deliberi anche sulla riconoscibilità dei singoli
debiti formatisi al di fuori delle norme giuscontabili (pr. cont. 1-105;
Sezione controllo per la Basilicata,
parere 27.03.2007 n. 6).
In conclusione,
anche in tale fattispecie, l’eventuale pretermissione o postergazione della
procedura consiliare vanificherebbe la disciplina di garanzia prevista
dall’ordinamento e la correlata fase di controllo politico amministrativo,
nonché la correlata verifica da parte della Procura regionale della Corte
dei conti ex art. 23, comma 5, della L. n. 289 del 2002»;
· quanto al rischio di azioni esecutive, il termine di 120 giorni
dalla notifica del titolo esecutivo, previsto dall’art. 14, del d.l. n.
669/1996 per la conclusione delle procedure di esecuzione dei provvedimenti
giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e
comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro, è sufficientemente
ampio per provvedere agli adempimenti di cui all'art. 194 TUEL, alla luce
del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.
4. Merita, inoltre, ricordare che di recente la Sezione delle Autonomie
–pronunciandosi su una richiesta di parere riguardante le modalità di
copertura finanziaria dei debiti fuori bilancio e, in particolare, di
imputazione contabile della relativa spesa in funzione della scadenza
dell’obbligazione giuridica- ha affermato, tra gli altri, il seguente
principio di diritto: «Ai fini di una corretta gestione
finanziaria, l’emersione di un debito non previsto nel bilancio di
previsione deve essere portata tempestivamente al Consiglio dell’ente per
l’adozione dei necessari provvedimenti, quali la valutazione della
riconoscibilità, ai sensi dell’art. 194, comma 1, del TUEL ed il reperimento
delle necessarie coperture secondo quanto previsto dall’art. 193, comma 3, e
194, commi 2 e 3, del medesimo testo unico»
(deliberazione
23.10.2018 n. 21).
5. Questa Sezione, in considerazione della rilevanza della questione
trattata e del contrasto fra le soluzioni prospettate dalle Sezioni
regionali di controllo, ritiene opportuno che la stessa sia sottoposta
all’esame del Presidente della Corte dei conti per la valutazione
sull’opportunità di deferirla alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni
Riunite in sede di controllo, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l.
10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 07.12.2012, n.
213.
La connessione del quesito posto alla Sezione rispetto alla questione in
esame impone la sospensione della pronuncia sul medesimo.
P.Q.M.
la Sezione regionale di controllo per la Puglia sottopone
al Presidente della Corte dei conti la valutazione sull’opportunità di
deferire alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni Riunite in sede di
controllo, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, la seguente
questione: «se, con riferimento al procedimento per il riconoscimento di
legittimità di debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, ai
sensi dell’art. 194, comma 1, lett. a) TUEL, sia possibile effettuare il
pagamento prima della prevista delibera del Consiglio comunale ovvero se
quest’utima debba sempre precedere l’attività solutoria».
La Sezione sospende la pronuncia
sul quesito formulato dal Sindaco del Comune di Taranto in attesa della
pronuncia di orientamento sopra richiesta (Corte dei Conti, sez. controllo
Puglia,
deliberazione
15.04.2019 n. 44). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nel caso di omessa creazione del fondo contenzioso, ciò che
rileva ai fini della determinazione delle iniziative da
assumere per la copertura delle spese derivanti da una
sentenza di condanna è l’emissione di tale pronuncia, dal
momento che l’esistenza di una sentenza esecutiva determina
in capo all’Ente l’obbligo di attivare la procedura di
riconoscimento di un debito fuori bilancio ai sensi
dell’art. 194, comma 1, lett. a) del T.U.E.L..
---------------
Nel periodo
antecedente all’emissione della sentenza, il principio
contabile applicato concernente la contabilità finanziaria (cfr.
allegato 4/2, punto 5.2 lett. h), del D.Lgs. n. 118/2011),
in presenza di contenzioso di importo particolarmente
rilevante, consente di ripartire l'accantonamento annuale,
in quote uguali, tra gli esercizi considerati nel bilancio
di previsione o a prudente valutazione dell'Ente.
---------------
Il termine
di 120 previsto dall’art. 14 del D.L. n. 669 del 1996
preclude al creditore la sola notifica dell’atto di precetto
per avviare un’azione esecutiva nei confronti dell’Ente
inadempiente, per cui, dal momento della notifica della
sentenza munita di formula esecutiva sorge comunque in capo
al debitore l’obbligo di avviare la procedura di
riconoscimento del relativo debito fuori bilancio nel cui
ambito l’Ente deve individuare le risorse necessarie alla
copertura della spesa, senza poter ricorrere alla
dismissione di un immobile dal momento che i proventi da
alienazione di beni patrimoniali disponibili non possono
avere destinazione diversa da quelle indicate negli artt. 1,
comma 443, della legge di stabilità 2013 e 193, comma 3, del
TUEL, come modificato dall'art. 1, comma 444, della legge di
stabilità 2013, salvo i casi contemplati dal TUEL in materia
di dissesto (art. 255) e di accesso al fondo di rotazione di
cui all'art. 243-ter e per le finalità di cui all'art.
243-bis del TUEL, casi nei quali detti proventi concorrono a
finanziare l'intera massa passiva.
---------------
Il Sindaco del Comune di Borgofranco d’Ivrea (TO),
dopo aver premesso che, in occasione di verifiche
propedeutiche all’elaborazione del bilancio di previsione
2019/2021, è emersa per l’Ente la necessità di accantonare
una cifra significativa al fondo contenzioso con riferimento
ad un giudizio instaurato contro lo stesso Comune nell’anno
2016, chiede:
- se è possibile stanziare un congruo accantonamento nel
redigendo bilancio di previsione in più esercizi (2019-2021),
nonché
- se è possibile vendere un immobile e accantonare l’entrata a
fondo contenzioso e, infine,
- se, nel caso la sentenza esecutiva di condanna fosse
pronunciata nel periodo ottobre-dicembre 2019, avendo 120
giorni di tempo per pagare, un fondo contenzioso con un
accantonamento di risorse di bilancio delle annualità 2019 e
2020 sarebbe considerato congruo.
...
Ciò posto, si rappresenta che il D.Lgs. n. 118 del 2011, nel
disciplinare l’armonizzazione dei sistemi contabili e degli
schemi di bilancio delle Regioni, degli Enti locali e dei
loro organismi, per quel che rileva ai fini dell’esame del
quesito proposto, all’allegato n. 4/2, avente ad oggetto “Principio
contabile applicato concernente la contabilità finanziaria”,
prevede al punto 5.2, lettera h: “nel
caso in cui l'ente, a seguito di contenzioso in cui ha
significative probabilità di soccombere, o di sentenza non
definitiva e non esecutiva, sia condannato al pagamento di
spese, in attesa degli esiti del giudizio, si è in presenza
di una obbligazione passiva condizionata al verificarsi di
un evento (l'esito del giudizio o del ricorso), con
riferimento al quale non è possibile impegnare alcuna spesa.
In tale situazione l'ente è tenuto ad accantonare le risorse
necessarie per il pagamento degli oneri previsti dalla
sentenza, stanziando nell'esercizio le relative spese che, a
fine esercizio, incrementeranno il risultato di
amministrazione che dovrà essere vincolato alla copertura
delle eventuali spese derivanti dalla sentenza definitiva. A
tal fine si ritiene necessaria la costituzione di un
apposito fondo rischi […omissis…]. In presenza di
contenzioso di importo particolarmente rilevante,
l'accantonamento annuale può essere ripartito, in quote
uguali, tra gli esercizi considerati nel bilancio di
previsione o a prudente valutazione dell'ente. Gli
stanziamenti riguardanti il fondo rischi spese legali
accantonato nella spesa degli esercizi successivi al primo,
sono destinati ad essere incrementati in occasione
dell'approvazione del bilancio di previsione successivo, per
tenere conto del nuovo contenzioso formatosi alla data
dell'approvazione del bilancio. […omissis…]. L'organo di
revisione dell'ente provvede a verificare la congruità degli
accantonamenti”.
Dal predetto principio, citato in parte dallo stesso Comune
istante, emerge come l’accantonamento di risorse per il
pagamento degli oneri previsti da una sentenza di condanna
sia necessario al fine di preservare gli equilibri di
bilancio atteso che “una delle cause del rischio di
squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il
dissesto finanziario è rappresentata da sentenze che
determinano per l’ente l’insorgere di oneri di rilevante
entità finanziaria e che il bilancio non riesce ad
affrontare con risorse disponibili nell’anno o nel triennio
di riferimento del bilancio (art. 193 TUEL)” (cfr.
parere 27.09.2017 n. 238 della Sezione regionale
di controllo per la Campania).
Da tale punto di vista, la Sezione regionale di controllo
per la Liguria, con
deliberazione 20.06.2018 n. 103 (citata dallo
stesso Ente richiedente), ha evidenziato che, in presenza di
contenziosi di ingente valore, l’ente deve valutare il grado
di possibilità/probabilità/quasi certezza dei medesimi, ai
fini di procedere ai necessari accantonamenti per evitare
che gli importi derivanti dalle relative sentenze di
condanna siano tali da minare gli equilibri di bilancio.
Tali accantonamenti devono, necessariamente, essere già
posti in essere nel corso del giudizio di primo grado e,
soprattutto, prima della sentenza di condanna la quale,
essendo de iure esecutiva, non rientra più tra le fonti
delle c.d. passività potenziali, ma tra quelle dei debiti da
riconoscere fuori bilancio, in assenza di una specifica
copertura finanziaria.
Ed è questa la fattispecie oggetto della richiesta di parere
formulata dal Comune di Borgofranco d’Ivrea, ovvero viene
prospettata la condizione di un Ente che prevede di essere
destinatario a breve di una sentenza di condanna di ingente
importo rispetto alla capacità finanziaria dell’Ente stesso,
con riferimento ad un contenzioso iniziato in anni pregressi
e per il quale non sono state accantonate risorse da
impegnare in caso di soccombenza.
Fermo restando quanto sancito dal predetto principio
indicato al punto 5.2., lett. h), dell’allegato 4/2 del
D.Lgs. n. 118 del 2011 in ordine alla necessità di creare (o
incrementare) il “fondo rischi spese legali” (di
seguito anche: fondo contenzioso) già al momento del
verificarsi di un nuovo contenzioso, nel caso in esame ciò
che rileva ai fini della determinazione delle iniziative da
assumere per la copertura delle spese derivanti da una
sentenza di condanna è proprio il momento di emissione di
tale pronuncia, dato che l’esistenza di una sentenza
esecutiva determina in capo all’Ente l’obbligo di attivare
la procedura di riconoscimento di un debito fuori bilancio
ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. a), del T.U.E.L.
Tale aspetto assume valore dirimente per la formulazione del
parere richiesto dal Comune di Borgofranco d’Ivrea che, per
la situazione ipotizzata, chiede se è possibile stanziare un
congruo accantonamento nel redigendo bilancio di previsione
in più esercizi (2019-2021), nonché se è possibile vendere
un immobile e accantonare l’entrata a fondo contenzioso e,
infine, se, nel caso la sentenza esecutiva di condanna fosse
pronunciata nel periodo ottobre-dicembre 2019, avendo 120
giorni di tempo per pagare, un fondo contenzioso con un
accantonamento di risorse di bilancio delle annualità 2019 e
2020 sarebbe considerato congruo.
Ebbene, fino all’emissione della sentenza esecutiva l’Ente,
al fine di preservare anche in prospettiva gli equilibri di
bilancio, è tenuto ad accantonare le risorse necessarie per
sostenere le spese derivanti dalla condanna. Sul punto, la
Sezione delle autonomie, con
deliberazione 23.06.2017 n. 14, ha affermato che
“particolare attenzione deve essere
riservata alla quantificazione degli altri accantonamenti a
fondi, ad iniziare dal Fondo contenzioso, legato a rischi di
soccombenza su procedure giudiziarie in corso. Risulta
essenziale procedere ad una costante ricognizione e
all’aggiornamento del contenzioso formatosi per attestare la
congruità degli accantonamenti, che deve essere verificata
dall’Organo di revisione. Anche in questo caso, la somma
accantonata non darà luogo ad alcun impegno di spesa e
confluirà nel risultato di amministrazione per la copertura
delle eventuali spese derivanti da sentenza definitiva, a
tutela degli equilibri di competenza nell’anno in cui si
verificherà l’eventuale soccombenza”.
In ordine alla possibilità di stanziare un congruo
accantonamento nel redigendo bilancio di previsione in più
esercizi, il menzionato principio (punto 5.2., lett. h)
dell’allegato 4/2 del D.Lgs. n. 118) prevede espressamente
che: “In presenza di contenzioso di importo
particolarmente rilevante, l'accantonamento annuale può
essere ripartito, in quote uguali, tra gli esercizi
considerati nel bilancio di previsione o a prudente
valutazione dell'ente”, per cui l’Ente ha la possibilità
di stanziare le risorse necessarie a sostenere le spese
derivanti da una probabile condanna di rilevante importo
ripartendo gli accantonamenti negli anni oggetto del
bilancio di previsione.
Qualora, tuttavia, la sentenza esecutiva dovesse essere
emessa prima che l’Ente effettui l’accantonamento totale
delle risorse, subentra l’obbligo di avviare le procedure di
riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi dell’art.
194 del T.U.E.L. con il conseguente obbligo di adottare i
provvedimenti per il ripiano del debito fuori bilancio
secondo le modalità indicate dagli artt. 193 e 194 del
T.U.E.L.
Sul punto, la Sezione delle autonomie, con
deliberazione 23.10.2018 n. 21
ha precisato che “Ai fini di una
corretta gestione finanziaria, l’emersione di un debito non
previsto nel bilancio di previsione deve essere portata
tempestivamente al Consiglio dell’ente per l’adozione dei
necessari provvedimenti, quali la valutazione della
riconoscibilità, ai sensi dell’art. 194 comma 1, del TUEL ed
il reperimento delle necessarie coperture secondo quanto
previsto dall’art. 193 comma 3, e 194, commi 2 e 3, del
medesimo testo unico. Gli impegni di spesa per il pagamento
dei debiti fuori bilancio riconosciuti e già scaduti devono
essere imputati all’esercizio nel quale viene deliberato il
riconoscimento. Per esigenze di sostenibilità finanziaria,
con l’accordo dei creditori interessati, è possibile
rateizzare il pagamento dei debiti riconosciuti in tre anni
finanziari compreso quello in corso, ai sensi dell’art. 194,
comma 2, del TUEL, a condizione che le relative coperture,
richieste dall’art. 193, comma 3, siano puntualmente
individuate nella delibera di riconoscimento, con
conseguente iscrizione, in ciascuna annualità del bilancio,
della relativa quota di competenza secondo gli accordi del
piano di rateizzazione convenuto con i creditori. Nel caso
in cui manchi un accordo con i creditori sulla dilazione di
pagamento, la spesa dovrà essere impegnata ed imputata tutta
nell’esercizio finanziario in cui il debito scaduto è stato
riconosciuto, con l’adozione delle conseguenti misure di
ripiano”.
Queste sono, pertanto, le disposizioni che l’Ente deve
applicare nel momento in cui viene emessa a suo carico una
sentenza esecutiva, per cui deve tempestivamente adoperarsi
per individuare le risorse per assicurare adeguata copertura
delle relative spese, che potrà reperire da fondi già
accantonati, ovvero tramite i rimedi previsti dai predetti
articoli 193 e 194 del T.U.E.L., ferma restando la necessità
di assicurare forme di copertura credibili, sufficientemente
sicure, non arbitrarie o irrazionali.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha ripetutamente
evidenziato la sostanziale diversità esistente tra la
fattispecie di debito derivante da sentenze esecutive e le
altre previste dall’art. 194 TUEL, osservando come, mentre
nel caso di sentenza esecutive di condanna il Consiglio
comunale non ha alcun margine di discrezionalità nel
valutare l’an e il quantum del debito, poiché
l’entità del pagamento rimane stabilita nella misura
indicata dal provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli
altri casi descritti dall’art. 194 del T.U.E.L. l’organo
consiliare esercita un ampio apprezzamento discrezionale (cfr.
ex multis, SS.RR.
sentenza 27.12.2007 n. 12/2007/QM). A
fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale
esecutivo, il valore della delibera consiliare non è quello
di riconoscere la legittimità del debito che già è stata
verificata in sede giudiziale, bensì di ricondurre al
sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che
è maturato all’esterno di esso.
Nel contempo, si evidenzia che la procedura
di riconoscimento consiliare ex art. 194 del T.U.E.L. del
debito fuori bilancio derivante da una sentenza esecutiva è
comunque necessaria anche qualora il pagamento del debito
avvenisse utilizzando uno specifico fondo presente in
bilancio al fine di non vanificare la disciplina di garanzia
prevista dall’ordinamento, impendendo sia il controllo
previsto dalla norma citata da parte del Consiglio comunale
che la verifica da parte della Procura della Corte dei conti
ex art 23, comma 5, della legge n. 289 del 2002
(cfr. Sezione regionale di controllo per la Campania,
parere 08.11.2017 n. 249).
In ordine, poi, alla prospettata ipotesi di poter sostenere
le spese di condanna utilizzando un fondo contenzioso
realizzato con un accantonamento di risorse di bilancio
delle annualità 2019 e 2020 qualora la sentenza esecutiva di
condanna fosse pronunciata nel periodo ottobre-dicembre 2019
sulla base della considerazione che l’Ente avrebbe 120
giorni di tempo per pagare, questa Sezione ritiene non
corretta la soluzione prospettata in quanto fondata
sull’erroneo presupposto di considerare il predetto termine
di 120 giorni un termine che dilazionerebbe la scadenza
dell'obbligazione derivante dalla sentenza di condanna.
Si premette che l’art. 14 del decreto legge 31.12.1996 n.
669, convertito con modificazioni dalla legge 28.02.1997 n.
30, prevede che “Le amministrazioni
dello Stato, gli enti pubblici non economici e l'ente
Agenzia delle entrate - Riscossione completano le procedure
per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei
lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti
l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine
di centoventi giorni dalla notificazione del titolo
esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può
procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di
precetto”.
Su tale norma si è pronunciata la Corte Costituzionale con
la sentenza n. 142 del 1998 con la quale, nell’affermare
l’infondatezza di una questione di legittimità
costituzionale del disposto normativo in esame, ha affermato
che “la disposizione denunciata, accordando alle
Amministrazioni statali e agli enti pubblici non economici,
attraverso il differimento dell'esecuzione, uno "spatium
adimplendi" per l'approntamento dei mezzi finanziari
occorrenti al pagamento dei crediti azionati, persegue lo
scopo di evitare il blocco dell'attività amministrativa
derivante dai ripetuti pignoramenti di fondi, contemperando
in tal modo l'interesse del singolo alla realizzazione del
suo diritto con quello, generale, ad una ordinata gestione
delle risorse finanziarie pubbliche”.
Dal testo della norma e dall’interpretazione formulata dalla
Corte Costituzionale emerge come il termine in discussione
precluda al creditore la sola notifica dell’atto di precetto
per avviare un’azione esecutiva nei confronti dell’Ente
inadempiente, per cui, dal momento della notifica della
sentenza munita di formula esecutiva sorge comunque in capo
al debitore l’obbligo di pagare, con il conseguente onere di
avviare la procedura di riconoscimento del relativo debito
fuori bilancio nel cui ambito l’Ente deve individuare le
risorse necessarie alla copertura della spesa nei termini
prima enunciati.
Con riguardo, infine, alla prospettata possibilità di
vendere un immobile per accantonare l’entrata a fondo
contenzioso, si evidenzia che l’art. 1, comma 443, della
Legge 24.12.2012 n. 228 (legge di stabilità per il 2013)
prevede che “in applicazione del secondo periodo del
comma 6 dell'articolo 162 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, i proventi da alienazioni di beni
patrimoniali disponibili possono essere destinati
esclusivamente alla copertura di spese di investimento
ovvero, in assenza di queste o per la parte eccedente, per
la riduzione del debito”.
Il comma 444 dell’art. 1 della medesima legge ha poi
integrato il testo del comma 3 dell’art. 193 del T.U.E.L.
che, nell’attuale formulazione, prevede che “ai fini del
comma 2 [ovvero l’onere dell’organo consiliare, in caso di
accertamento negativo del permanere degli equilibri generali
di bilancio, di provvedere ad adottare, tra gli altri, i
provvedimenti per il ripiano dei debiti fuori bilancio di
cui all’art. 194 del T.U.E.L.], fermo restando quanto
stabilito dall'art. 194, comma 2, possono essere utilizzate
per l'anno in corso e per i due successivi le possibili
economie di spesa e tutte le entrate, ad eccezione di quelle
provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle con
specifico vincolo di destinazione, nonché i proventi
derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili e
da altre entrate in c/capitale con riferimento a squilibri
di parte capitale”.
Sul tema è intervenuta la Sezione delle autonomie che, con
deliberazione 20.05.2013 n. 14, ha affermato che
“I proventi da alienazione di beni
patrimoniali disponibili non possono avere destinazione
diversa da quelle indicate negli artt. 1, comma 443, della
legge di stabilità 2013 e 193, comma 3, del TUEL, come
modificato dall'art. 1, comma 444 della legge di stabilità
2013, salvo i casi contemplati dal TUEL in materia di
dissesto (art. 255) e di accesso al fondo di rotazione di
cui all'art. 243-ter e per le finalità di cui all'art.
243-bis del TUEL, casi nei quali detti proventi concorrono a
finanziare l'intera massa passiva”.
Conclusivamente, pertanto, deve escludersi
la possibilità di utilizzare risorse derivanti dalla
dismissione di beni patrimoniali disponibili al di fuori
delle ipotesi indicate dalla Sezione delle autonomie con la
predetta deliberazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 06.02.2019
n. 8). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Non appare legittimo che il regolamento di contabilità possa
contenere una disposizione che consenta di riconoscere debiti fuori bilancio
determinati da una sentenza del giudice di pace, anche se di modestissimo
importo, in assenza di una norma di legge che permetta al regolamento di
contabilità di introdurre una disciplina che deroghi rispetto a quanto
previsto dall'art 194, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 267/2000.
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Il Sindaco del Comune di Pavia con la nota sopraindicata ha formulato una
richiesta di parere avente ad oggetto la disciplina relativa al
riconoscimento dei debiti fuori bilancio in conseguenza di una sentenza di
condanna emessa dal giudica di pace che ha annullato un verbale di
accertamento contenente sanzioni al cds.
In particolare il Sindaco chiede: “in conseguenza di condanne alla
rifusione delle spese legali ed alla restituzione di quanto già pagato dal
contravventore, disposte con sentenze (esecutive) del giudice di pace, a
seguito dell'impugnazione di sanzioni comminate per violazioni al codice
della strada, questo Ente ha finora fatto ricorso alla procedura di cui
all'articolo 194" del D.Lgs. n. 267/2000 per il riconoscimento di debiti
fuori bilancio.
Si tratta, nella quasi totalità dei casi, di somme molto modeste, anche
dell'ordine di poche decine di euro.
E' evidente che, anche in questi casi, almeno in linea di principio, le
emergenti obbligazioni non erano previste né quantificabili in precedenza e
che occorre, pertanto, ricondurle al complessivo sistema del bilancio
pubblico. E' evidente che resta sempre ferma resta la problematica relativa
all'accertamento di eventuali profili di responsabilità. E' altrettanto
evidente, però, che tali situazioni non comportano di per sé il recupero
degli equilibri di bilancio in senso sostanziale né la destinazione di
speciali risorse.
Nondimeno la trattazione da parte del Consiglio comunale delle relative
fattispecie bagatellari appare oltremodo incongruente ed asimmetrica
rispetto al sistema complessivo, fosse anche in base ad un elementare
principio di economicità dell'attività amministrativa e di buona
amministrazione.
Si chiede pertanto di sapere se e, in caso di risposta positiva, con
quali cautele possano ricondursi tali fattispecie in altro ambito, tenuto
conto che l'accantonamento nel fondo rischi contenzioso di per sé non
consente di impegnare e pagare spese di sorta. Si potrebbe, per esempio,
prevedere, attraverso specifica disposizione del regolamento di contabilità,
una informativa periodica al Consiglio comunale ed anche alla stessa Corte
dei Conti sulle determinazioni di rimborso adottate, in modo da non
pregiudicare, in ogni caso, l'eventuale esercizio dell'azione di
responsabilità.
In sintesi l’Istante chiede se sia possibile, non fosse che per ragioni
di economia procedimentale, eliminare il passaggio consiliare per il
riconoscimento del debito fuori bilancio allorquando si tratta di somme
modeste e le stesse possano essere soddisfatte attingendo al fondo rischi
per il contenzioso, prevedendo tuttavia una regolamentazione che informi il
Consiglio Comunale e venga informata la Corte dei Conti per l’accertamento
di eventuali responsabilità.
...
La Sezione comprende le osservazioni critiche del Sindaco in ordine alla
competenza del consiglio comunale per il riconoscimento di un debito
derivante da una sentenza di condanna alla restituzione di poche centinaia
di euro a causa dell’annullamento di verbali di accertamento per violazioni
al c.d.s. Tale procedura non pare ,a giudizio dell’Istante rispettosa del
principio di economia procedimentale .
Il tenore letterale della norma, tuttavia, non consente un’interpretazione
diversa da quella già espressa con orientamento costante dalle diverse
sezioni della Corte. L’art. 194 del D.Lgs. n. 267/2000 individua, in modo
tassativo, l’ambito e le procedure per riconoscere la legittimità dei debiti
fuori bilancio.
L’ente in presenza di una sentenza esecutiva (o altro provvedimento
esecutivo) è tenuto comunque procedere al tempestivo riconoscimento del
debito, ricorrendone evidentemente i presupposti di legge ai sensi dell’art.
194, comma 1, lett. a), e consentire, pertanto, alla Procura regionale della
Corte dei conti di verificare la sussistenza di una possibile ipotesi di
responsabilità erariale.
Secondo consolidata giurisprudenza della Corte dei conti,
il valore della delibera del Consiglio non è quello di riconoscere la
legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì
di ricondurre “al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza
finanziaria che è maturato all’esterno di esso”.
In tale prospettiva l’art. 194, comma 1, del TUEL
rappresenta un’eccezione ai principi riguardanti la necessità del preventivo
impegno formale e della copertura finanziaria; onde per riportare le ipotesi
previste nell’ambito del principio di copertura finanziaria è, dunque,
richiesta la delibera consiliare con la quale viene ripristinata la
fisiologia della fase della spesa ed i debiti de quibus vengono
ricondotti al sistema (in tal
senso Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, 6/1c/2005, cit.)
con l’adozione dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario.
Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è
l’accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le
consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti, questa funzione di
accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio alla Procura regionale
della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. 289/2002) delle delibere di
riconoscimento di debito fuori bilancio.
Nella prospettiva interpretativa delineata, la
Giurisprudenza unanime della Corte ha sancito che la delibera consiliare
svolge una duplice funzione, per un verso giuscontabilistica,
finalizzata ad assicurare la salvaguardia degli equilibri di bilancio; e per
l’altro garantista, ai fini dell’accertamento dell’eventuale responsabilità
amministrativo-contabile.
In base alle considerazioni esposte, sussiste, nel caso di
sentenze esecutive l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione
del Consiglio per il riconoscimento del debito, in modo da impedire il
maturare d’interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali. La
correttezza di tale condotta è confermata dal punto 103 del principio
contabile n. 2.
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito all’ente locale
discostarsi dalle prescrizioni letterali dell’art. 194 TUEL. che
garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa
per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale, né procedere al
pagamento di tale tipologia di debiti prima dell’adozione della delibera
consiliare; tale impostazione non muta neanche qualora vi sia già una
disponibilità finanziaria sui pertinenti capitoli di bilancio.
E’ utile, sebbene non sia oggetto del quesito, ma soltanto per completezza
espositiva, richiamare il
parere 22.03.2018 n. 73
la Sezione della Corte dei Conti per la Liguria con cui ha espresso un
orientamento, condiviso da questa Sezione, che ritiene legittimo, anche
prima del riconoscimento da parte del Consiglio del debito determinato dalla
sentenza, comunque necessario, provvedere al pagamento della somma in alcuni
casi espressamente indicati nel parere appena ricordato, al fine di evitare
l’aggravarsi della posizione debitoria in capo all’Ente.
In caso di contenzioso giudiziario, l’ente ha l’onere di
accantonare le risorse necessarie per tutelarsi, quantomeno sotto il profilo
finanziario, da una probabile soccombenza ed evitare o neutralizzare gli
effetti sfavorevoli che ne potrebbero derivare; tuttavia, anche la
sussistenza di uno specifico fondo non consentirebbe, comunque, all’ente di
omettere la delibera di riconoscimento, in quanto in tal modo si
vanificherebbe la disciplina di garanzia predisposta dall’ordinamento.
Non appare, quindi, legittimo che il regolamento di
contabilità possa contenere una disposizione che consenta di riconoscere
debiti fuori bilancio determinati da una sentenza del giudice di pace anche
se di modestissimo importo, in assenza di una norma di legge che permetta al
regolamento di contabilità di introdurre una disciplina che deroghi rispetto
a quanto previsto dall’art. 194, primo comma, lettera a), del decreto
legislativo 267/2000 (Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 20.12.2018 n. 368). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori
di somma urgenza, è sempre obbligatorio il riconoscimento come debiti fuori
bilancio.
Sempre obbligatorio riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma
urgenza per i quali non è stato rispettato l'iter del procedimento di spesa.
Con l'introduzione dell'articolo 65-bis al disegno di legge di bilancio 2019
viene abrogato, all'interno del terzo comma dell'articolo 191 del Tuel, il
riferimento all'insufficienza delle risorse finanziarie per giustificare
l'avvio delle procedure di riconoscimento dei debiti fuori bilancio
derivanti dai lavori pubblici di somma urgenza, causati dal verificarsi di
un evento eccezionale o imprevedibile.
La giunta, secondo la nuova versione
della norma, sarà pertanto tenuta a sottoporre al consiglio dell'ente, entro
venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile
del procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa con le
modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel.
Il provvedimento di riconoscimento
In altre parole, sarà necessario precedere al riconoscimento consiliare
delle spese derivanti dalla acquisizione di beni e servizi, effettuate in
violazione degli obblighi dell'articolo 191 del Tuel, nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l'ente, nell'ambito
dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
Contestualmente, deve essere prevista la relativa copertura finanziaria nei
limiti delle necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio
alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento deve essere
adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte
dell'organo esecutivo, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se
a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo
interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare.
Le indicazioni dei giudici contabili
La modifica in questione determina un cambiamento di rotta
nell'interpretazione del terzo comma dell'articolo 191 del Tuel. Già con
il
parere 18.03.2013 n. 12 ed il
parere 10.05.2013 n. 22, la Sezione regionale di controllo della
Corte dei conti per la Liguria aveva espresso il proprio parere in merito,
specificando come il riferimento alla carenza dei fondi a bilancio
costituisse una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di
“autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in presenza di
situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela
di interessi primari.
A parere dei magistrati liguri, la vigente versione dell'articolo 191, terzo
comma, del Tuel consentirebbe di interpretare chiaramente la volontà del
legislatore, che sarebbe quella di consentire una deroga alla procedura
ordinaria non solo in presenza di lavori di somma urgenza ma anche quando i
fondi a questo fine stanziati non risultino sufficienti. La carenza di
fondi, difatti, rende impossibile l'assunzione dell'impegno di spesa sul
competente capitolo o intervento di bilancio.
Diversamente, la presenza di fondi destinati o, in altre parole, quando
l'ente può attivare l'ordinaria procedura d'impegno, non risulta necessario
ricorrere alla disciplina derogatoria e attivare la procedura di
riconoscimento di debito fuori bilancio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.12.2018). |
APPALTI: I
debiti fuori bilancio a rate fanno litigare contabilità finanziaria ed
economico-patrimoniale.
La
deliberazione 23.10.2018 n. 21 della Sezione delle autonomie della Corte dei conti
(si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 7 novembre), che
sancisce definitivamente la possibilità di rateizzare contabilmente un
debito fuori bilancio a determinate condizioni, rappresenta l'ennesimo caso
di disallineamento tra la contabilità finanziaria e quella
economico-patrimoniale.
Il contenuto della delibera
Un debito fuori bilancio è un'obbligazione scaduta che va inserita tra le
spese dell'ente previo formale riconoscimento da parte dell'organo
consiliare, il quale deve provvedere anche a reperire le necessarie risorse
per finanziarlo.
L'iter amministrativo previsto dalla legge discende dalla necessità di
rispettare due regole fondamentali della contabilità finanziaria (che
ricordiamo è deputata a misurare l'effettivo impiego delle risorse prelevate
dai cittadini) e cioè:
1) predittività: le spese (e quindi i debiti) devono essere contabilizzate a
carico di stanziamenti di bilancio previsti nel bilancio di previsione o in
successive variazioni;
2) autorizzatorietà: gli stanziamenti approvati dal consiglio comunale
costituiscono il limite invalicabile per poter assumere impegni di spesa.
Da questi principi discende la regola, interpretata dalla Corte dei conti
con la delibera, secondo la quale il debito fuori bilancio andrebbe imputato
interamente a carico dell'esercizio in cui avviene il formale riconoscimento
dello stesso da parte dell'organo consiliare. Ciò in quanto la regolare
registrazione dell'impegno di spesa che ne deriva può essere effettuata solo
previa costituzione del necessario stanziamento di spesa autorizzato
dall'organo consiliare.
La normativa però, per facilitare la tenuta degli equilibri finanziari degli
enti, ha introdotto una deroga alla regola generale, sopravvissuta anche
alla riforma contabile, e cioè la possibilità di finanziare il debito su tre
annualità, compresa quella in corso, previo accordo scritto con i creditori
(articolo 193, comma 2, e articolo 194, comma 2, del Tuel). Quali
comportamenti dovranno tenere, quindi, gli enti per registrare e imputare il
debito fuori bilancio rateizzato?
Le regole di contabilizzazione
Le due caratteristiche sopra illustrate condizionano le regole di
contabilizzazione del debito fuori bilancio che, se rateizzato, presenta una
sorta di esigibilità rinegoziata, facendo sorgere un disallineamento tra la
contabilità finanziaria e quella economico-patrimoniale.
Nel caso preso in esame, in contabilità finanziaria l'impegno di spesa sarà
spalmato su tre anni, compreso quello in corso all'atto del riconoscimento,
con conseguente possibilità di iscrizione, in ciascuna annualità del
bilancio, della relativa quota di competenza secondo gli accordi del piano
di rateizzazione convenuto con i creditori, a condizione che le relative
coperture, richieste dall'articolo 193, comma 3, siano puntualmente
individuate nella delibera di riconoscimento.
In contabilità economico-patrimoniale, invece, il debito dovrà essere
interamente registrato a carico dell'esercizio senza rilevare, in termini
economici, l'eventuale rateizzazione concordata con il creditore. Di
conseguenza si rende necessario tenere memoria di tale registrazione negli
esercizi successivi, quando la matrice di correlazione contabilizzerà a
costo, in economico-patrimoniale, l'impegno di spesa rateizzato su tre
annualità in contabilità finanziaria.
Il fondo rischi
Nel caso in cui l'ente abbia provveduto, negli anni precedenti, alla
formazione di uno specifico fondo rischi, potrà ridurlo ed utilizzare quindi
tali accantonamenti.
In contabilità finanziaria dovrà essere assunto l'impegno di spesa, sulla
base degli accordi di rateizzazione, che sarà finanziato, in entrata, dalle
quote di avanzo di amministrazione accantonato.
A fine esercizio però, dovranno essere prodotte le necessarie scritture di
rettifica in contabilità economico-patrimoniale, in quanto l'impegno di
spesa avrà prodotto la registrazione di un costo di esercizio, così come
previsto dalla matrice di correlazione. Dovrà quindi essere effettuata una
scrittura di rettifica, in cui l'utilizzo del Fondo rischi da registrarsi in
Dare sostituirà, di fatto, la registrazione del costo avvenuta a seguito
della rilevazione dell'impegno
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.11.2018). |
APPALTI: I
debiti fuori bilancio con ripiano pluriennale vanno iscritti nel passivo
dello stato patrimoniale.
Indicazioni puntuali per il ripiano ultrannuale dei debiti fuori bilancio,
che devono essere anche iscritti nel passivo dello stato patrimoniale.
Con la
deliberazione 23.10.2018 n. 21
la Sezione Autonomie della Corte dei conti
(si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 25 ottobre), nel
dirimere positivamente la questione della imputazione in più annualità,
torna sull'urgenza del coinvolgimento dell'organo consiliare e chiarisce che
la spesa può essere impegnata nell'anno in corso e nei due successivi solo
per esigenze di sostenibilità finanziaria e previo accordo con i creditori.
Spetta al consiglio dell'ente la valutazione della riconoscibilità, secondo
l'articolo 194, comma 1, del Tuel e il reperimento delle necessarie
coperture finanziarie secondo quanto previsto dall'articolo 193, comma 3, e
194, commi 2 e 3 del medesimo testo unico.
Rate e alternative
La rateizzazione, che non può avere scopo solo dilatorio, dovrà comunque
rispettare tutti i criteri in materia di programmazione e di effettiva
copertura delle quote di spesa previste per le varie annualità.
Diversamente, si ricadrebbe in una situazione non dissimile a quella del
ritardato riconoscimento, con violazione dei principi di copertura delle
spese, di salvaguardia degli equilibri di bilancio e di veridicità dei
documenti contabili. In mancanza di un preventivo accordo con i creditori
sulla dilazione di pagamento, la spesa dovrà essere impegnata ed imputata
tutta nell'esercizio finanziario in cui il debito scaduto è stato
riconosciuto, con l'adozione delle conseguenti misure di ripiano.
In estrema sintesi, secondo la Corte, dal riconoscimento del debito possono
conseguire tre alternative:
a) l'ente ha risorse, imputa e paga nell'esercizio;
b) l'ente non ha risorse sufficienti a finanziare ed estinguere nel solo
esercizio di riconoscimento tutto il debito, ma deve dare copertura con
risorse esigibili nel triennio compreso nel bilancio, dunque ricorrere ad un
piano di rientro da convenire con i creditori;
c) l'ente non ha risorse ed accerta il disavanzo applicando le disposizioni
relative al suo ripiano.
La copertura finanziaria
L'individuazione delle necessarie coperture finanziarie deve
prioritariamente tenere conto delle possibili economie di spesa
dell'esercizio in corso o chiuso, ma anche delle risorse ancora da accertare
o che saranno accertate a conclusione di procedimenti che richiedono tempo,
come, ad esempio, l'alienazione dei beni patrimoniali disponibili.
La copertura finanziaria deve essere credibile, sufficientemente sicura, non
arbitraria o irrazionale, ed in equilibrato rapporto con la spesa che si
intende effettuare in esercizi futuri. La quota di spesa per debiti fuori
bilancio relativa ad ogni annualità del piano rateale dovrà pertanto trovare
copertura in entrate che siano ragionevolmente e seriamente realizzabili,
dunque esigibili nell'esercizio di scadenza della rata, nonché utilizzabili
per questo specifico fine coerentemente con quanto dettato dai principi
contabili, ulteriormente enunciati e precisati dalla giurisprudenza
costituzionale, con riferimento a qualsivoglia tipologia di spesa. In questa
circostanza, all'accordo con i creditori potrà riconoscersi una validità
sostanziale.
Se, viceversa, nella delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio
non sono puntualmente individuate le risorse specificamente destinate alla
copertura di tali spese -risorse la cui esigibilità dovrebbe realizzarsi
negli esercizi successivi- manca il presupposto giuridico per dare valore
ed efficacia all'accordo con i creditori ed il debito scaduto dovrà essere
imputato all'esercizio di riconoscimento con tutte le conseguenze sul piano
della situazione di equilibrio e dei rimedi da assumere secondo
l'ordinamento contabile.
Nel caso in cui, infine, il creditore acconsenta alla stipula di un piano di
rateizzazione, il debito deve essere iscritto per intero nello stato
patrimoniale, anche se per la copertura si dovrà tenere conto della scadenza
delle singole rate secondo quanto concordato nel piano
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.11.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Enti
locali - Debiti fuori bilancio - Artt. 193 e 194 Tuel - Allegato 4/2 d.lgs.
n. 118/2011 - Scadenza dell'obbligazione e copertura debiti fuori bilancio.
Copertura
finanziaria dei debiti fuori bilancio ed imputazione della relativa spesa in
funzione della scadenza dell'obbligazione giuridica.
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1. “Ai fini di una corretta gestione
finanziaria, l’emersione di un debito non previsto nel bilancio di
previsione deve essere portata tempestivamente al Consiglio dell’ente per
l’adozione dei necessari provvedimenti, quali la valutazione della
riconoscibilità, ai sensi dell’art. 194, comma 1, del TUEL ed il reperimento
delle necessarie coperture secondo quanto previsto dall’art. 193, comma 3, e
194, commi 2 e 3, del medesimo testo unico.
2. Gli impegni di spesa per il pagamento dei debiti fuori bilancio
riconosciuti e già scaduti devono essere imputati all’esercizio nel quale
viene deliberato il riconoscimento. Per esigenze di sostenibilità
finanziaria, con l’accordo dei creditori interessati, è possibile rateizzare
il pagamento dei debiti riconosciuti in tre anni finanziari compreso quello
in corso, ai sensi dell’art. 194, comma 2, del TUEL, a condizione che le
relative coperture, richieste dall’art. 193, comma 3, siano puntualmente
individuate nella delibera di riconoscimento, con conseguente iscrizione, in
ciascuna annualità del bilancio, della relativa quota di competenza secondo
gli accordi del piano di rateizzazione convenuto con i creditori.
3. Nel caso in cui manchi un accordo con i creditori sulla
dilazione di pagamento, la spesa dovrà essere impegnata ed imputata tutta
nell’esercizio finanziario in cui il debito scaduto è stato riconosciuto,
con l’adozione delle conseguenti misure di ripiano.”
---------------
L’art. 10-bis del d.l. 24.06.2016, n. 113, convertito in l. 07.08.2016, n. 160, ha modificato l'articolo 7, comma 8, della legge n. 131/2003,
ampliando la platea dei soggetti abilitati ad azionare la funzione
consultiva della Corte dei conti. È stato previsto, infatti, che le
richieste di parere in materia di contabilità pubblica “possono essere
rivolte direttamente alla Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti: per
le Regioni, dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e dalla
Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle
Province Autonome; per i Comuni, le Province e le Città Metropolitane, dalle
rispettive componenti rappresentative nell'ambito della Conferenza
unificata”. Con la deliberazione n. 32/2016 la Sezione delle autonomie ha
fornito linee di indirizzo interpretative e applicative sulla novella
legislativa.
Sulla scorta della richiamata disposizione, l’Associazione Nazionale dei
Comuni Italiani – ANCI, ha rivolto al Presidente della Corte dei conti, con
nota n. 51/SG/DGA/AD/dc-18 del 26.07.2018, una richiesta di parere
riguardante le modalità di copertura finanziaria dei debiti fuori bilancio
e, in particolare, come debba essere imputata contabilmente la relativa
spesa in funzione della scadenza dell’obbligazione giuridica, tenuto conto
delle nuove regole dettate dall’armonizzazione contabile.
L’Associazione istante, tra le innovazioni introdotte dal nuovo ordinamento
contabile degli enti territoriali e dei loro enti e organismi strumentali (d.lgs.
n. 118/2011), richiama, in particolare, le regole che sovrintendono alla
gestione dell’impegno delle spese (punto 5 dell’allegato 4/2 al medesimo
decreto legislativo), con precipuo riferimento a quelle sull’esigibilità
della spesa stessa, correlata alla scadenza dell’obbligazione giuridica
sottostante.
Il paragrafo 5.1 prevede infatti che “L’impegno si perfeziona
mediante l’atto gestionale, che verifica ed attesta gli elementi anzidetti e
la copertura finanziaria, e con il quale si dà atto, altresì, degli effetti
di spesa in relazione a ciascun esercizio finanziario contemplato dal
bilancio di previsione. Pur se il provvedimento di impegno deve annotare
l’intero importo della spesa, la registrazione dell’impegno che ne consegue,
a valere sulla competenza avviene nel momento in cui l’impegno è
giuridicamente perfezionato, con imputazione agli esercizi finanziari in cui
le singole obbligazioni passive risultano esigibili. Non possono essere
riferite ad un determinato esercizio finanziario le spese per le quali non
sia venuta a scadere, nello stesso esercizio finanziario, la relativa
obbligazione giuridica”.
Un nodo da sciogliere sarebbe, quindi, la definizione di “scadenza
dell’obbligazione”.
Sempre secondo i principi contabili (all. 4/2, punto 2,
ultimi periodi), “la scadenza dell’obbligazione è il momento in cui
l’obbligazione diventa esigibile. La consolidata giurisprudenza della Corte
di Cassazione definisce come esigibile un credito per il quale non vi siano
ostacoli alla sua riscossione ed è consentito, quindi, pretendere
l’adempimento. Non si dubita, quindi, della coincidenza tra esigibilità e
possibilità di esercitare il diritto di credito”. Con riferimento alle
entrate il paragrafo 3.5, prevede che: “Nel caso di rateizzazione di entrate
proprie l’accertamento dell’entrata è effettuato ed imputato all’esercizio
in cui l’obbligazione nasce a condizione che la scadenza dell’ultima rata
non sia fissata oltre i 12 mesi successivi. L’accertamento di entrate
rateizzate oltre tale termine è effettuato nell’esercizio in cui
l’obbligazione sorge con imputazione agli esercizi in cui scadono le rate.
(...)”.
L’ANCI rileva che, per quanto riguarda alcune tipologie di spesa e, in
particolare, la spesa derivante dal riconoscimento dei debiti fuori
bilancio, il momento della scadenza (e della conseguente imputazione
contabile) non risulterebbe di immediata individuazione.
Circa la disciplina contabile dei debiti fuori bilancio, vengono richiamati
la circolare del Ministero dell’Interno F.L. n. 21/1993, che definisce il
debito fuori bilancio “un’obbligazione verso terzi per il pagamento di una
determinata somma di denaro che grava sull’ente (…) assunta in violazione
delle norme giuscontabili che regolano i procedimenti di spesa degli enti
locali”, e gli artt. 193 e 194 del d.lgs. n. 267 del 2000 (TUEL).
L’art. 194 del TUEL prevede, come atto propedeutico all’inserimento del
debito fuori bilancio nell’ambito della contabilità dell’ente locale, il
riconoscimento della legittimità dello stesso, da effettuarsi “Con
deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa
periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità”.
L’art. 193 del TUEL, rubricato “Salvaguardia degli equilibri di bilancio”,
al comma 2 sancisce che “Con periodicità stabilita dal regolamento di
contabilità dell'ente locale, e comunque almeno una volta entro il 31 luglio
di ciascun anno, l'organo consiliare provvede con delibera a dare atto del
permanere degli equilibri generali di bilancio o, in caso di accertamento
negativo, ad adottare, contestualmente: (…) b) i provvedimenti per il
ripiano degli eventuali debiti di cui all'articolo 194; (...)”. Il comma 3
del medesimo articolo prevede inoltre che, a tali fini, possano essere
“utilizzate per l'anno in corso e per i due successivi le possibili economie
di spesa e tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti
dall'assunzione di prestiti e di quelle con specifico vincolo di
destinazione, nonché i proventi derivanti da alienazione di beni
patrimoniali disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento a
squilibri di parte capitale”, “fermo restando quanto stabilito dall'articolo
194, comma 2”. Quest’ultima disposizione stabilisce che “Per il pagamento
[dei debiti fuori bilancio] l'ente può provvedere anche mediante un piano di
rateizzazione, della durata di tre anni finanziari compreso quello in corso,
convenuto con i creditori”.
L’istante rileva che le norme sopra riportate –preesistenti al d.lgs. n.
118/2011– devono essere interpretate in conformità ai principi del nuovo
sistema contabile, con riferimento al nuovo paradigma di esigibilità della
spesa connesso alla scadenza dell’obbligazione.
In proposito, viene
richiamata la
sentenza
29.03.2018 n. 11 delle Sezioni Riunite in speciale
composizione, che, secondo la prospettazione rappresentata nella richiesta
di parere «definitivamente pronunciandosi rispetto alla possibilità di
imputare la spesa connessa ai debiti oggetto di accordi con i creditori in
funzione dei tempi di pagamento concordati, chiarisce che “tali accordi
riguardano i soli tempi di pagamento ed hanno effetto esclusivamente sulla
cassa”. Le Sezioni Riunite giungono a tale conclusione richiamando il punto
9.1 dell’allegato 4/2 al d.lgs. n. 118/2011, nella parte in cui dispone
testualmente che “L’emersione di debiti assunti dall’ente e non registrati
quando l’obbligazione è sorta comporta la necessità di attivare la procedura
amministrativa di riconoscimento del debito fuori bilancio, prima di
impegnare le spese con imputazione all’esercizio in cui le relative
obbligazioni sono esigibili. Nel caso in cui il riconoscimento intervenga
successivamente alla scadenza dell’obbligazione, la spesa è impegnata
nell’esercizio in cui il debito fuori bilancio è riconosciuto” e definendo i
debiti fuori bilancio quali “obbligazioni perfezionate e scadute, ma non
registrate in bilancio tempestivamente ai sensi dell’art. 183 TUEL”».
Sulla scorta di quanto premesso, l’Associazione Nazionale dei Comuni
Italiani chiede se: «quanto affermato dalle Sezioni Riunite della Corte dei
Conti nella
sentenza
29.03.2018 n. 11, che qualifica i debiti fuori bilancio
quali obbligazioni già scadute, si applica quando, in sede di rilevazione
dei risultati di gestione, o comunque successivamente al termine ultimo per
disporre variazioni di bilancio a salvaguardia degli equilibri (30
novembre), si rilevino debiti fuori bilancio non riconosciuti, mentre, di
converso, resta impregiudicata la facoltà per l’ente locale di prevedere, in
corso di gestione, la copertura di debiti fuori bilancio su più anni del
bilancio di previsione, a valere sugli stanziamenti contemplati nel bilancio
di previsione, previa dimostrazione dell’avvenuto raggiungimento
dell’accordo con il creditore per il pagamento del debito su più annualità
ed avendo cura di imputare le spese, nelle annualità del bilancio,
conformemente all’accordo di rateizzazione.
Ciò in quanto non v’è dubbio che la norma di cui all’articolo 193 TUEL,
comma 3, si riferisca alla copertura e non al pagamento della spesa
derivante dai debiti fuori bilancio riconosciuti dall’ente. L’inciso “fermo
restando quanto stabilito dall'articolo 194, comma 2” ha un significato ben
preciso, in quanto è riferito al presupposto indefettibile affinché l’ente
locale possa esercitare la facoltà di “utilizzare”, per l’anno in corso e i
due successivi, “le possibili economie di spesa e tutte le entrate, ad
eccezione di quelle provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle con
specifico vincolo di destinazione (...)”, ossia la sussistenza del previo
accordo con il creditore in ordine ai tempi di pagamento, che devono
anch’essi articolarsi sul triennio del bilancio di previsione. In altre
parole, tale facoltà è preclusa in assenza di una precisa manifestazione di
volontà del soggetto terzo di percepire le somme in maniera frazionata.
La conferma a tale conclusione è fornita dallo stesso articolo 194 TUEL, il
cui comma 3 parla espressamente di “finanziamento” delle spese in questione,
per le quali, “ove non possa documentalmente provvedersi a norma
dell'articolo 193, comma 3”, è previsto il ricorso a mutui (facoltà oggi da
ritenersi limitata esclusivamente ai debiti fuori bilancio riferiti a spese
di investimento, tenuto conto di quanto stabilito dall’articolo 119 della
Costituzione).
Tuttavia, il fatto che l’espressa manifestazione di volontà del creditore ad
accettare il pagamento frazionato debba avvenire prima del momento in cui il
debito fuori bilancio viene riconosciuto, si ricollega in maniera coerente
con il concetto di scadenza/esigibilità della spesa. La sottoscrizione di un
accordo tra le parti interviene infatti proprio sulla scadenza della spesa
correlata al debito fuori bilancio, determinandone l’esigibilità non più per
intero sull’anno nel quale è effettuato il riconoscimento del debito, bensì
in ragione della scansione dei pagamenti oggetto di accordo.
Tale lettura appare corroborata dal fatto che le stesse Sezioni Riunite
richiamino uno stralcio del paragrafo 9.1 dei principi contabili, rubricato
“La gestione dei residui”. In questo caso, non potendo più attivare la
“leva” costituita dagli accordi con i creditori, essendo ovviamente preclusa
qualsivoglia manovra di salvaguardia degli equilibri, non risulta più
possibile variare la scadenza/esigibilità della spesa connessa al debito
fuori bilancio oggetto di riconoscimento. Ne consegue che, in tal caso,
allorquando le spese derivanti dai debiti fuori bilancio risultano, come
evidenziato dalle Sezioni Riunite, “non registrate in bilancio
tempestivamente ai sensi dell’art. 183 TUEL”, la copertura deve essere
necessariamente assicurata nell’anno in cui avviene il riconoscimento, per
cui eventuali accordi con i creditori conservano valenza solo ed
esclusivamente dal punto di vista della cassa».
...
2. Tanto precisato, per quanto concerne la richiamata
sentenza
29.03.2018 n. 11 delle
Sezioni Riunite può soltanto osservarsi che detta decisione riguardava il
giudizio su un caso concreto, articolato in molteplici questioni.
Il punto
specifico dal quale sono state estrapolate le affermazioni riportate nella
richiesta di parere ineriva alla valutazione di un comportamento elusivo
degli obblighi relativi al rispetto dei saldi di finanza pubblica:
comportamento sostanziantesi nel ritardato riconoscimento di debiti emersi
in esercizi precedenti a quello in cui si era proceduto al formale
riconoscimento degli stessi; successivamente era anche intervenuto un
accordo con i creditori per una dilazione dei pagamenti. Di conseguenza,
negli esercizi di riferimento, non era stata considerata la voce passiva
relativa al debito emerso. Evidentemente un posteriore accordo per la
dilazione dei pagamenti non poteva essere preso in considerazione ai fini
della positiva valutazione del rispetto dei saldi di finanza pubblica.
2.1. È opportuno rammentare, infatti, che, secondo il combinato disposto
dell’art. 194, comma 1, con l’art. 193, comma 2, del TUEL, con deliberazione
consiliare da adottarsi con periodicità stabilita dai regolamenti di
contabilità e comunque almeno una volta entro il 31 luglio di ciascun anno,
gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio. Da ciò
scaturisce una prima considerazione: in una corretta gestione finanziaria
l’emersione di un debito non previsto nel bilancio di previsione deve essere
portata tempestivamente al Consiglio dell’ente per l’adozione dei necessari
provvedimenti, quali la valutazione della riconoscibilità, ai sensi
dell’art. 194, comma 1, e il reperimento delle necessarie coperture secondo
quanto previsto dall’art. 193, comma 3, e 194, commi 2 e 3. Il ritardo nel
riconoscimento, con rinvio ad esercizi successivi a quello in cui il debito
è emerso, comporta una non corretta rappresentazione della situazione
patrimoniale e finanziaria dell’ente.
3. Andando ad esaminare, invece, i profili di una gestione eseguita nel
rispetto della tempistica sopra indicata, la questione può essere risolta
nei termini che seguono.
3.1 Il comma 1 dell’art. 194 TUEL individua le fattispecie in cui il debito
fuori bilancio è riconoscibile. Il riconoscimento da parte del Consiglio,
per costante giurisprudenza della Cassazione (cfr., ex multis, Cass.
Civ., Sez. II,
sentenza 11.06.2018 n. 15050) è costitutivo dell’obbligazione. Se il
riconoscimento riguarda obbligazioni “scadute”, nel senso che il
creditore può esigere immediatamente il pagamento in quanto la prestazione è
già stata interamente eseguita, la spesa è impegnata nell’esercizio in cui
il debito fuori bilancio è riconosciuto, secondo quanto precisato dal punto
9.1 del principio contabile di cui all’all. 4/2 del d.lgs. n. 118/2011. Se
il riconoscimento riguarda prestazioni che ancora non sono state
completamente effettuate, e quindi il pagamento del prezzo non è esigibile o
lo è solo parzialmente, potrà essere imputato all’esercizio in corso solo la
quota esigibile, mentre la restante parte sarà imputata alle scadenze
previste.
3.2. Il comma 2 dell’art. 194 TUEL, peraltro, prevede la possibilità di un
pagamento rateizzato in un arco temporale massimo di tre anni, compreso
quello in cui è effettuato il riconoscimento. Il piano di rateizzazione deve
essere concordato con i creditori. La disposizione, infatti, testualmente
recita “Per il pagamento [dei debiti fuori bilancio] l'ente può
provvedere anche mediante un piano di rateizzazione, della durata di tre
anni finanziari compreso quello in corso, convenuto con i creditori”. Il
termine “convenuto” non può avere altro significato se non di un
accordo negoziale tra amministrazione e creditori avente come contenuto la
temporizzazione del pagamento del debito.
3.3. Trattandosi di un accordo, che richiede il consenso di entrambe le
parti, se il creditore non intende accedere ad un’ipotesi di rateizzazione,
l’ente che abbia riconosciuto il debito dovrà necessariamente registrarlo ed
impegnarlo integralmente nello stesso esercizio. Conseguentemente dovrà, con
idonea variazione di bilancio, reperire le risorse a copertura e quindi
procedere al pagamento.
Potrà ricorrere, se del caso, agli strumenti
previsti dall’art. 193, comma 3 (Salvaguardia degli equilibri di bilancio),
in base al quale: “Ai fini del comma 2, fermo restando quanto stabilito
dall'art. 194, comma 2, possono essere utilizzate per l'anno in corso e per
i due successivi le possibili economie di spesa e tutte le entrate, ad
eccezione di quelle provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle con
specifico vincolo di destinazione, nonché i proventi derivanti da
alienazione di beni patrimoniali disponibili e da altre entrate in
c/capitale con riferimento a squilibri di parte capitale. Ove non possa
provvedersi con le modalità sopra indicate è possibile impiegare la quota
libera del risultato di amministrazione. Per il ripristino degli equilibri
di bilancio e in deroga all'art. 1, comma 169, della legge 27.12.2006, n.
296, l'ente può modificare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di
propria competenza entro la data di cui al comma 2)”, o ricorrere a
mutui (ma solo nel caso in cui la spesa sia qualificabile come
investimento), ai sensi dell’art. 194, comma 3: “Per il finanziamento
delle spese suddette, ove non possa documentalmente provvedersi a norma
dell'articolo 193, comma 3, l'ente locale può far ricorso a mutui ai sensi
degli articoli 202 e seguenti. Nella relativa deliberazione consiliare viene
dettagliatamente motivata l'impossibilità di utilizzare altre risorse”.
4. Nel caso in cui il creditore acconsenta alla stipula di un piano di
rateizzazione, il debito deve essere registrato per intero e per intero
essere iscritto nello stato patrimoniale, ma per la copertura si dovrà
tenere conto della scadenza delle singole rate secondo quanto concordato nel
piano.
In altre parole, l’ipotesi della rateizzazione non è espressamente
prevista dal punto 9.1 del principio contabile, ma poiché la rateizzazione
incide sull’esigibilità, da riferirsi ora alle singole rate, si torna
all’applicazione del criterio generale espresso nel punto 5.1 del principio
stesso: il paragrafo 5.1 prevede infatti che “L’impegno si perfeziona
mediante l’atto gestionale, che verifica ed attesta gli elementi anzidetti e
la copertura finanziaria, e con il quale si dà atto, altresì, degli effetti
di spesa in relazione a ciascun esercizio finanziario contemplato dal
bilancio di previsione. Pur se il provvedimento di impegno deve annotare
l’intero importo della spesa, la registrazione dell’impegno che ne consegue,
a valere sulla competenza avviene nel momento in cui l’impegno è
giuridicamente perfezionato, con imputazione agli esercizi finanziari in cui
le singole obbligazioni passive risultano esigibili. Non possono essere
riferite ad un determinato esercizio finanziario le spese per le quali non
sia venuta a scadere, nello stesso esercizio finanziario, la relativa
obbligazione giuridica”.
5. La questione, in estrema sintesi, va valutata in relazione a due ipotesi:
a) riconoscimento di obbligazione scaduta (in quanto la prestazione
è già stata interamente eseguita) senza accordo con i creditori, che
comporta l’impegno dell’intera somma subito e riporto a residuo passivo, se
non si riesce a pagare tutto;
b) riconoscimento di obbligazione scaduta con accordo di
rateizzazione, che comporta registrazione dell’intero importo con impegno a
valere sull’esercizio in cui la singola rata è a scadenza.
6. Tanto premesso, va peraltro chiarito che l’accordo con i creditori non
può avere una mera finalità dilatoria, ma la rateizzazione dovrà comunque
rispettare tutti i criteri in materia di programmazione e di effettiva
copertura delle quote di spesa previste per le varie annualità.
Diversamente, si ricadrebbe in una situazione non dissimile a quella del
ritardato riconoscimento, con violazione dei principi di copertura delle
spese, di salvaguardia degli equilibri di bilancio e di veridicità dei
documenti contabili.
Il rispetto del criterio di imputazione enunciato al punto 9.1 del principio
contabile applicato 4/2, insomma, non è derogabile con il semplice accordo
con i creditori a prescindere da ogni altra condizione. In particolare, il
riconoscimento del debito scaduto costituisce atto di gestione che deve
necessariamente misurarsi con i principi fondamentali della gestione del
bilancio, trattandosi, comunque, di una spesa riconosciuta dall’ente per le
sue finalità istituzionali.
In effetti, dal riconoscimento possono conseguire le seguenti situazioni:
a) l’Ente ha risorse, imputa e paga nell’esercizio;
b) l’Ente non ha risorse sufficienti a finanziare ed estinguere nel
solo esercizio di riconoscimento tutto il debito ma deve dare copertura con
risorse esigibili nel triennio compreso nel bilancio, ricorre ad un piano di
rientro secondo i criteri di cui all’art. 193, comma 3, TUEL (“possono
essere utilizzate per l'anno in corso e per i due successivi le possibili
economie di spesa e tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti
dall'assunzione di prestiti e di quelle con specifico vincolo di
destinazione, nonché i proventi derivanti da alienazione di beni
patrimoniali disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento a
squilibri di parte capitale. Ove non possa provvedersi con le modalità sopra
indicate è possibile impiegare la quota libera del risultato di
amministrazione”); ai sensi dell’art. 194, comma 2, può convenire con i
creditori la tempistica dei pagamenti, nei limiti di tre anni finanziari
compreso quello in corso;
c) non ha risorse nei termini di cui ai punti a) e b), accerta il
disavanzo ed applica le disposizioni relative al ripiano del disavanzo.
7. Il comma 3 dell’art. 193, infatti, certamente si riferisce all’aspetto
delle coperture, ma bisogna considerare che, nell’individuare le medesime,
la norma tiene conto di quelle immediatamente disponibili, quali le
possibili economie di spesa che non possono che attenere all’esercizio in
corso o chiuso, ma anche delle risorse ancora da accertare o che saranno
accertate a conclusione di procedimenti che richiedono tempo, come, ad
esempio, l’alienazione dei beni patrimoniali disponibili. È questo possibile
gap temporale che costituisce la ratio della disposizione che
contempla l’accordo con i creditori e cioè la necessità di allineare
disponibilità di risorse e obbligo di pagamento. Bisogna considerare in
proposito che il principio di copertura delle spese contenuto nell’art. 81
Cost., richiede la contestualità tanto dei presupposti che giustificano le
previsioni di spesa quanto di quelli posti a fondamento delle previsioni di
entrata necessarie per la copertura finanziaria delle prime (C. Cost. sent.
n. 6/2017). Così come occorre tenere presente che la copertura delle spese
deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o
irrazionale, ed in equilibrato rapporto con la spesa che si intende
effettuare in esercizi futuri (C. Cost. sent. n. 192/2012).
Per cui la quota di spesa per debiti fuori bilancio relativa ad ogni
annualità del piano rateale dovrà trovare copertura in entrate che siano
ragionevolmente e seriamente realizzabili (in altre parole, “esigibili”
nell’esercizio di scadenza della rata) nonché utilizzabili per questo
specifico fine coerentemente con quanto dettato dai principi contabili,
ulteriormente enunciati e precisati dalla giurisprudenza costituzionale, con
riferimento a qualsivoglia tipologia di spesa. In questa circostanza,
all’accordo con i creditori potrà riconoscersi una validità sostanziale. Se,
viceversa, nella delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio non
sono puntualmente individuate le risorse specificamente destinate alla
copertura di tali spese -risorse la cui esigibilità dovrebbe realizzarsi
negli esercizi successivi- manca il presupposto giuridico per dare valore ed
efficacia all’accordo con i creditori ed il debito scaduto dovrà essere
imputato all’esercizio di riconoscimento con tutte le conseguenze sul piano
della situazione di equilibrio e dei rimedi da assumere secondo
l’ordinamento contabile.
8. Il quadro normativo e procedurale sopra ricostruito appare coerente con
il complessivo sistema delle misure ordinarie di risanamento del bilancio:
disavanzo ex art. 188 TUEL, salvaguardia degli equilibri ex art. 193 TUEL,
riecheggiate anche nel sistema delle misure straordinarie di risanamento,
piani di riequilibrio e dissesti che riflettono tutti la stessa struttura, e
cioè accertamento delle passività e pianificazione della estinzione delle
stesse. Ipotizzare che l’accordo con i creditori, sganciato dai principi che
regolano le spese secondo i criteri della competenza finanziaria potenziata,
possa tout court stabilire una diversa esigibilità del debito fuori bilancio
scaduto e riconosciuto significherebbe introdurre in maniera asistematica
una facoltà di gestione delle posizioni fuori bilancio secondo criteri che
esporrebbero le gestioni stesse al pericolo di comportamenti opportunistici,
non potendosi escludere che la prospettiva di poter spalmare, comunque in
più anni, un debito, potrebbe alimentare un maggior livello di
approssimazione nella programmazione delle spese.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla
richiesta di parere presentata dell’Associazione Nazionale dei Comuni
Italiani, enuncia i seguenti principi di diritto:
1. “Ai fini di una corretta gestione
finanziaria, l’emersione di un debito non previsto nel bilancio di
previsione deve essere portata tempestivamente al Consiglio dell’ente per
l’adozione dei necessari provvedimenti, quali la valutazione della
riconoscibilità, ai sensi dell’art. 194 comma 1, del TUEL ed il reperimento
delle necessarie coperture secondo quanto previsto dall’art. 193, comma 3, e
194, commi 2 e 3, del medesimo testo unico.
2. Gli impegni di spesa per il pagamento dei debiti fuori bilancio
riconosciuti e già scaduti devono essere imputati all’esercizio nel quale
viene deliberato il riconoscimento. Per esigenze di sostenibilità
finanziaria, con l’accordo dei creditori interessati, è possibile rateizzare
il pagamento dei debiti riconosciuti in tre anni finanziari compreso quello
in corso, ai sensi dell’art. 194, comma 2, del TUEL, a condizione che le
relative coperture, richieste dall’art. 193, comma 3, siano puntualmente
individuate nella delibera di riconoscimento, con conseguente iscrizione, in
ciascuna annualità del bilancio, della relativa quota di competenza secondo
gli accordi del piano di rateizzazione convenuto con i creditori.
3. Nel caso in cui manchi un accordo con i creditori sulla
dilazione di pagamento, la spesa dovrà essere impegnata ed imputata tutta
nell’esercizio finanziario in cui il debito scaduto è stato riconosciuto,
con l’adozione delle conseguenti misure di ripiano.”
(Corte dei Conti, Sez. autonomie,
deliberazione 23.10.2018 n. 21). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Debiti
fuori bilancio: sentenze esecutive e transazioni. Le corrette regole indicate dai giudici
contabili.
Il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’Organo
consiliare risulta comunque necessario anche nell’ipotesi di debiti
derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza
di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte, posto che
le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del Consiglio comunale
o provinciale non sono circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma
si estendono anche ad attività o procedimenti di spesa di natura vincolante
ed obbligatoria.
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è
consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e 194 del Tuel che garantiscono una maggiore efficienza ed
efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri
finanziari dell’ente locale.
Inoltre, il tempestivo riconoscimento e
finanziamento del debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento,
non esporrebbero l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il
decorso di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo (previsto
dall’art. 14, del D.L. 31/12/1996, n. 669 convertito in legge 28/02/1997, n.
30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23/12/2000, n. 288),
comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei confronti della pubblica
amministrazione.
---------------
Gli enunciati principi valgono, a maggior ragione, in caso di debiti fuori
bilancio di cui alla lett. e) derivanti dall’acquisizione di beni e servizi
senza preventivo impegno di spesa, ove sussiste la discrezionalità dell’Ente
nel riconoscimento dell’utilità dell’acquisizione.
---------------
La formazione di debiti fuori
bilancio costituisce indice della difficoltà dell’Ente di governare
correttamente i procedimenti di spesa attraverso il rispetto delle norme
previste dal TUEL.
L’esatta individuazione e quantificazione dei debiti
fuori bilancio nel corso dell’esercizio finanziario costituisce, pertanto,
un preciso dovere dell’organo consiliare, il quale è stato investito dal
legislatore dell’obbligo di dare atto del permanere degli equilibri di
bilancio (almeno una volta all’anno e comunque entro il 30 settembre) e, in
quella sede, di verificare se la sussistenza di debiti f.b. possa, in
qualche modo, incidere negativamente sulla situazione finanziaria o alterare
i risultati di competenza.
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Quanto alle transazioni oggetto di delibera di Giunta comunale, nel ribadire
quanto sopra affermato con riferimento alla necessaria tempestività della
definizione della debitoria fuori bilancio, questa Sezione ha precisato
come, quando ricorrano ipotesi transattive che comportino il finanziamento di operazioni contrattuali in più esercizi
finanziari, “non può essere messa in dubbio la competenza a provvedere in
capo al Consiglio comunale ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i), del TUEL“.
---------------
Pur prendendo atto di quanto
riferito, il Collegio non può che censurare il ritardo nel riconoscimento e
nella definizione dei debiti fuori bilancio. La circostanza che si tratti di
debiti derivanti dalle gestioni pregresse non assurge a fattore scriminante,
atteso che l’esame della Sezione è, in questa sede, limitato -in una
dimensione puramente oggettiva- alla situazione contabile e finanziaria
dell’ente, a prescindere dall’imputazione soggettiva di eventuali
responsabilità.
Si sottolinea la necessità che la gestione contabile sia conforme alle
regole per l’assunzione di impegni e per l’effettuazione delle spese di cui
all’art. 191 TUEL, atteso che le fattispecie di debiti fuori bilancio
rivestono carattere assolutamente eccezionale. Si ribadisce, inoltre,
l’imprescindibile priorità della fase di riconoscimento rispetto a quella di
pagamento.
In particolare, si richiama quanto ripetutamente statuito da questa Corte in
tema di tempestivo riconoscimento dei debiti fuori bilancio, anche se
derivanti da sentenze esecutive. Questa Sezione ha, infatti, sottolineato
che “il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’Organo
consiliare risulta comunque necessario anche nell’ipotesi di debiti
derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza
di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte, posto che
le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del Consiglio comunale
o provinciale non sono circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma
si estendono anche ad attività o procedimenti di spesa di natura vincolante
ed obbligatoria. Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è
consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e 194 del Tuel che garantiscono una maggiore efficienza ed
efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri
finanziari dell’ente locale. Inoltre, il tempestivo riconoscimento e
finanziamento del debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento,
non esporrebbero l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il
decorso di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo (previsto
dall’art. 14, del D.L. 31/12/1996, n. 669 convertito in legge 28/02/1997, n.
30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23/12/2000, n. 288),
comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei confronti della pubblica
amministrazione“ (parere
22.02.2018 n. 29).
Gli enunciati principi valgono, a maggior ragione, in caso di debiti fuori
bilancio di cui alla lett. e) derivanti dall’acquisizione di beni e servizi
senza preventivo impegno di spesa, ove sussiste la discrezionalità dell’Ente
nel riconoscimento dell’utilità dell’acquisizione.
Questa Sezione ha, inoltre, osservato che “La formazione di debiti fuori
bilancio costituisce indice della difficoltà dell’Ente di governare
correttamente i procedimenti di spesa attraverso il rispetto delle norme
previste dal TUEL. L’esatta individuazione e quantificazione dei debiti
fuori bilancio nel corso dell’esercizio finanziario costituisce, pertanto,
un preciso dovere dell’organo consiliare, il quale è stato investito dal
legislatore dell’obbligo di dare atto del permanere degli equilibri di
bilancio (almeno una volta all’anno e comunque entro il 30 settembre) e, in
quella sede, di verificare se la sussistenza di debiti f.b. possa, in
qualche modo, incidere negativamente sulla situazione finanziaria o alterare
i risultati di competenza” (deliberazione
03.06.2016 n. 122).
Quanto alle transazioni oggetto di delibera di Giunta comunale, nel ribadire
quanto sopra affermato con riferimento alla necessaria tempestività della
definizione della debitoria fuori bilancio, questa Sezione ha precisato
come, quando ricorrano ipotesi transattive che comportino, come nel caso di
specie, il finanziamento di operazioni contrattuali in più esercizi
finanziari, “non può essere messa in dubbio la competenza a provvedere in
capo al Consiglio comunale ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i), del TUEL“
(parere
25.05.2017 n. n. 80).
Infine, in relazione ai debiti fuori bilancio derivanti dal conferimento di
incarichi professionali, si richiama quanto attualmente previsto da punto 5,
lett. g), dell’allegato 4/2 in relazione agli impegni derivanti dal
conferimento di incarico a legali esterni (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
deliberazione 13.07.2018 n. 109). |
LAVORI PUBBLICI: Somme
urgenze, sempre necessario il riconoscimento nei limiti delle necessità
accertate.
Dopo la modifica della Legge di Bilancio 2019, è sempre necessario attivare
la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio per le spese di
somma urgenza, non essendo più previsto il presupposto dell'insufficienza
delle risorse.
È quanto ha stabilito la Corte dei Conti della Sicilia con la
deliberazione 21.05.2018 n. 121 (si veda anche il Quotidiano
degli enti locali e della Pa del 19 giugno).
L'iter di riconoscimento
Pertanto, è sempre necessario avviare l'iter di riconoscimento come debito
fuori bilancio dei lavori di somma urgenza, per i quali non risulta
possibile rispettare l'iter ordinario del procedimento di spesa e non già
solo quando sull'apposito capitolo vi è insufficienza di fondi. Di
conseguenza, la giunta è tenuta a sottoporre al Consiglio dell'ente, entro
20 giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del
procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa, con le
modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel, a
prescindere, appunto, dalla circostanza che il capitolo di spesa presenti (o
meno) sufficiente disponibilità finanziaria.
Il riconoscimento, nondimeno, deve avvenire (trattandosi di somme urgenze)
–individuando la relativa copertura finanziaria– nei limiti delle necessità
accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità.
Il provvedimento consiliare, poi, deve essere adottato nei 30 giorni
successivi all'approvazione della proposta da parte della giunta e comunque
entro il 31 dicembre, se non ancora scaduto il termine, con la contestuale
comunicazione dei riferimenti al terzo interessato.
Se non si rispettano i termini
Giustamente la pronuncia sottolinea che, qualora l'iter non sia rispettato
(anche in relazione ai termini per la proposta da parte della giunta), è
destinata a operare la previsione in forza della quale il rapporto
obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore,
funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura, ovviamente fatta
salva la parte riconoscibile (articolo 194, comma 1, lettera e), nei limiti
(però) «degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l'ente».
In quest'ultimo caso, tra l'altro, la pronuncia –riprendendo un consolidato
orientamento della Corte dei conti– sottolinea che il riconoscimento deve
operare nei limiti stabiliti dall'articolo 2041 del codice civile, con
l'effetto che non risulta possibile computare l'utile d'impresa (che sarà a
carico dell'amministratore o funzionario che ha disposto o consentito la
fornitura).
La delibera consiliare
Laddove, invece, lo stesso iter si sia svolto nell'ambito dei termini
previsti dalla legge, il riferimento alle modalità è da intendersi nel senso
che è sempre necessaria l'adozione della delibera consiliare con la quale
riconoscere la spesa sostenuta per i lavori di somma urgenza, purché
strettamente attinenti alla rimozione dello stato di pericolo. In questo
caso, l'utilità ricavata dall'amministrazione coincide con la spesa
sostenuta, come risulta dalla perizia tecnica e dal corrispettivo concordato
consensualmente, dal momento che qualora l'attività gestionale sia mantenuta
entro l'alveo temporale segnato dalla legge non sussiste alcuna motivazione
per la decurtazione dell'utile d'impresa.
Attraverso il percorso descritto, sottolinea infine la Corte, è quindi
realizzato un congruo bilanciamento tra, da una parte, l'esigenza di
celerità e di preminente tutela della pubblica incolumità che giustifica
l'affidamento diretto prima che venga assunto l'impegno contabile con,
dall'altra parte, la rigida previsione dei termini entro i quali la giunta
deve sottoporre la proposta di riconoscimento di debito al consiglio, nella
prospettiva di ricondurre la spesa all'alveo del bilancio (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.06.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
debito rateizzato non sposta l’impegno.
L’eventuale intesa con i creditori sul frazionamento di un debito fuori
bilancio in più anni non permette al Comune di spalmare in più esercizi
anche l’imputazione contabile, perché secondo i nuovi principi contabili la
mossa eluderebbe il pareggio in caso di incapienza dell’obiettivo di saldo
nell’anno di riferimento.
Lo spiega la Corte dei conti a Sezioni riunite, in
sede giurisdizionale in speciale composizione, con la
sentenza
29.03.2018 n. 11.
Questo principio importante si incontra nell’analisi sulla violazione del
Patto da parte del Comune di Napoli.
Sul punto, la Corte ha confutato il ragionamento del Comune che da un lato
ha accettato un peggioramento del risultato dell’anno 2016 per dare
copertura ai debiti fuori bilancio, ma dall’altro ha ritenuto escluso che
sullo stesso peggioramento potesse essere disposta anche un’elusione del
pareggio di bilancio.
Per i magistrati, invece, l’elusione dei saldi di
finanza pubblica si riferisce a una diversa analisi rispetto al
peggioramento del risultato accertato, in quanto il ritardato riconoscimento
dei debiti fuori bilancio da parte del Consiglio comunale viola l’articolo
194 del Tuel. Una volta accertato il mancato riconoscimento dei debiti fuori
bilancio, resta da chiarire se un eventuale accordo sulla ripartizione su
più esercizi del pagamento verso i debitori possa generare una posta
rettificativa del debito totale che avrebbe dovuto essere iscritto in
bilancio per il rispetto dei vincoli di finanza pubblica.
Secondo i principi della contabilità armonizzata, l’impegno deve essere
inserito al momento in cui l’obbligazione giuridica si è perfezionata
(articolo 183, comma 5, del Tuel), mentre il principio della contabilità
finanziaria punto 9.1 dell’allegato A/2 del Dlgs 118/2011 dispone che «nel
caso in cui il riconoscimento intervenga successivamente alla scadenza
dell’obbligazione, la spesa è impegnata nell’esercizio in cui il debito
fuori bilancio è riconosciuto».
Secondo le Sezioni Riunite, pertanto, va esclusa la possibilità da parte
dell’ente locale di detrarre dall’ammontare del debito la somma oggetto di
accordi di rateizzazione, perché questi accordi riguardano i soli tempi di
pagamento e hanno effetto esclusivamente sulla cassa. Effettuando le
rettifiche, ossia inserendo l’intero importo del debito fuori bilancio,
l’ente ha violato i saldi di finanza pubblica per un importo pari a circa
85,5 milioni di euro, a cui segue la sanzione di pari importo nell’anno
successivo alla violazione riscontrata
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.04.2018).
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MASSIMA
Occorre premettere che la nuova formulazione dell’articolo 183 TUEL, al
comma 5, dispone che l’impegno deve essere registrato in bilancio “...quando
l’obbligazione è perfezionata con imputazione all’esercizio in cui viene a
scadenza...”.
In relazione ai debiti fuori bilancio, che costituiscono obbligazioni
perfezionate e scadute, ma non registrate in bilancio tempestivamente ai
sensi dell’art. 183 TUEL, il principio della contabilità finanziaria 9.1
dell’allegato A/2 del d.lgs. n. 118/2011 dispone testualmente che “L’emersione
di debiti assunti dall’ente e non registrati quando l’obbligazione è sorta
comporta la necessità di attivare la procedura amministrativa di
riconoscimento del debito fuori bilancio, prima di impegnare le spese con
imputazione all’esercizio in cui le relative obbligazioni sono esigibili.
Nel caso in cui il riconoscimento intervenga successivamente alla scadenza
dell’obbligazione, la spesa è impegnata nell’esercizio in cui il debito
fuori bilancio è riconosciuto”.
Deve, conseguentemente, escludersi la possibilità di detrarre l’ammontare di
quanto oggetto di accordi di rateizzazione, in quanto tali accordi
riguardano i soli tempi di pagamento ed hanno effetto esclusivamente sulla
cassa. |
APPALTI: Gli
accordi transattivi non possono ricomprendersi
nell'istituto del "debito fuori bilancio".
Le fattispecie di debito fuori
bilancio, analiticamente indicate nell’art. 194,
comma 1, del D.Lgs. n. 267/2000, devono considerarsi
tassative e non suscettibili di estensione ad altre
tipologie di spesa, in considerazione della “…natura
eccezionale di detta previsione normativa
finalizzata a limitare il ricorso ad impegni non
derivanti dalla normale procedura di bilancio…”.
Ferma restando, tuttavia, la
possibilità del legislatore di disciplinare
ulteriori ipotesi di debito fuori bilancio, così
come è avvenuto con la modifica apportata all’art.
191, comma 3, del D.Lgs. n. 267/2000, a seguito
dell’entrata in vigore dell'art. 3, comma 1, lett.
i), D.L. 10.10.2012, n. 174, convertito, con
modificazioni, dalla L. 07.12.2012, n. 213,
con riferimento alla procedura di
riconoscimento del debito derivante da lavori di
somma urgenza.
Di conseguenza, nell’ambito delle
fattispecie normative di riconoscimento dei debiti
fuori bilancio, non può considerarsi incluso
l’istituto contrattuale della transazione.
Invero, si ravvisa l’impossibilità
di ricondurre la fattispecie degli accordi
transattivi al concetto di sopravvenienza
passiva e, dunque, alla nozione di debito fuori
bilancio. Infatti, a differenza dei debiti fuori
bilancio (chiaramente riconducibili al concetto di
sopravvenienza passiva in quanto, in assenza di una
specifica previsione nel bilancio di esercizio in
cui i debiti si manifestano, esse prescindono
necessariamente da un previo impegno di spesa), gli
accordi transattivi presuppongono, invece, la
decisione dell’Ente di pervenire ad un accordo con
la controparte, per cui è possibile prevedere, da
parte del Comune, tanto il sorgere dell’obbligazione
quanto i tempi per l’adempimento.
Ne deriva che l’ente locale, in tali casi, si trova
nelle condizioni (ed ha l’obbligo) di attivare le
normali procedure contabili di spesa (stanziamento,
impegno, liquidazione e pagamento) previste
dall’art. 191 del TUEL e di correlare ad esse
l’assunzione delle obbligazioni derivanti dagli
accordi transattivi.
---------------
Con riguardo all’individuazione dell’Organo deputato
a pronunciarsi sugli atti transattivi che
s’intendono stipulare, il Collegio ritiene opportuno
richiamare il dettato dell’art. 42, comma 2 lett.
i), del TUEL, che espressamente riserva al Consiglio
comunale l’adozione di qualsiasi atto che comporti
l’assunzione, da parte del Comune, di “…spese che
impegnino i bilanci per gli esercizi successivi,
escluse quelle relative alle locazioni di immobili
ed alla somministrazione e fornitura di beni e
servizi a carattere continuativo…”.
Pertanto, quando ricorrono
ipotesi transattive che comportino il
finanziamento di operazioni contrattuali in più
esercizi finanziari, non può essere messa in dubbio
la competenza a provvedere in capo al Consiglio
comunale.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del
Comune di Lizzanello (LE) ha presentato una
richiesta di parere in merito alla qualificazione
giuridico-contabile del contratto di transazione,
con possibile identificazione nella fattispecie di
debito fuori bilancio, ovvero, in caso di risposta
negativa, alla competenza dell’organo consiliare ad
autorizzare la spesa pluriennale, anche in sede di
approvazione del bilancio di previsione.
Preliminarmente il Sindaco ha rappresentato che:
“…- il Comune di Lizzanello, Ente sottoposto a Piano di
riequilibrio Pluriennale approvato in data
19/02/2016, - con deliberazione n. 203 dello
01/12/2016, la G.C. approvava una Transazione con la
Ditta Mo. Srl, finalizzata a definire il contenzioso
in essere per la corretta applicazione dell’art. 8
del contratto di igiene urbana e relativa al periodo
21.09.2006-28.02.2014 anche in esecuzione della
sentenza del Consiglio di Stato n. 4013/2016 (anni
2006/2010), prevedendo la corresponsione delle
relative somme, senza aggravio di interessi e
rivalutazione, in cinque annualità;
- con deliberazione della G.C. n. 220 del 19/12/2016 approvava una
transazione con la ditta SFL–Se.Fa.Lo. soc. coop. a
r.l., finalizzata alla conclusione della
controversia pendente innanzi al Tribunale di Lecce,
prevedendo la corresponsione delle relative somme,
senza aggravio di interessi, in quattro annualità;
- con deliberazione del C.C., n. 12 del 13.03.2017, esecutiva,
veniva approvato il Bilancio di Previsione
2017/2019, contenente la previsione di spesa
relativa alle predette transazioni (…).
Tutto ciò premesso, al fine di non incorrere
inconsapevolmente in erronee applicazioni della
legge, il Sindaco ha formulato la seguente
istanza di parere: “…Se la transazione si
ponga come una fattispecie di riconoscimento di
debito fuori bilancio ex art. 194 del TUEL e, in
caso di risposta negativa al predetto quesito, se la
competenza del Consiglio comunale si limiterebbe
alla mera autorizzazione alla spesa pluriennale (ex
art. 42, comma 2, lett. i del TUEL) e quindi
potrebbe essere prevista direttamente in sede di
approvazione del bilancio di previsione, oppure si
estenderebbe anche al merito della transazione
necessitando quindi di un provvedimento ad hoc…”.
...
Preliminarmente, si rende necessario precisare che
la giurisprudenza della Corte dei conti ha avuto già
occasione di pronunciarsi in merito
all’individuazione della normativa di riferimento
per analoghe fattispecie, sia in sede consultiva,
che in occasione dei controlli sulla gestione
finanziaria degli enti locali, prevista dall’art. 1,
comma 166 e ss. della legge n. 266/2005 (Finanziaria
per il 2006) e dall’art. 148-bis del Tuel.
Può, infatti, definirsi consolidato ed accolto
pienamente da questa Sezione, l’orientamento,
secondo il quale le fattispecie di
debito fuori bilancio, analiticamente indicate
nell’art. 194, comma 1, del D.Lgs. n. 267/2000,
devono considerarsi tassative e non suscettibili di
estensione ad altre tipologie di spesa, in
considerazione della “…natura eccezionale di
detta previsione normativa finalizzata a limitare il
ricorso ad impegni non derivanti dalla normale
procedura di bilancio…”
(v. ex multis, Sez. Piemonte,
parere
11.05.2007 n. 4; Sez. Basilicata, del. n. 16/2007; Sez. Puglia, del.
n. 106/2009). Ferma restando,
tuttavia, la possibilità del legislatore di
disciplinare ulteriori ipotesi di debito fuori
bilancio, così come è avvenuto con la modifica
apportata all’art. 191, comma 3, del D.Lgs. n.
267/2000, a seguito dell’entrata in vigore dell'art.
3, comma 1, lett. i), D.L. 10.10.2012, n. 174,
convertito, con modificazioni, dalla L. 07.12.2012,
n. 213 (cfr.
Sez. Puglia
deliberazione 14.05.2014 n. 93 e
deliberazione 03.06.2016 n. 122),
con riferimento alla procedura di
riconoscimento del debito derivante da lavori di
somma urgenza.
Di conseguenza, nell’ambito delle
fattispecie normative di riconoscimento dei debiti
fuori bilancio, non può considerarsi incluso
l’istituto contrattuale della transazione.
Tale opzione ermeneutica risulta, inoltre,
confermata da ulteriori considerazioni elaborate in
sede consultiva (cfr. Sezione Piemonte,
parere
11.05.2007 n. 4, cit. e Sezione Umbria
parere 24.09.2015 n. 123),
secondo le quali si ravviserebbe
l’impossibilità di ricondurre la fattispecie degli
accordi transattivi al concetto di
sopravvenienza passiva e, dunque, alla nozione di
debito fuori bilancio. Infatti, a differenza dei
debiti fuori bilancio (chiaramente riconducibili al
concetto di sopravvenienza passiva in quanto, in
assenza di una specifica previsione nel bilancio di
esercizio in cui i debiti si manifestano, esse
prescindono necessariamente da un previo impegno di
spesa), gli accordi transattivi presuppongono,
invece, la decisione dell’Ente di pervenire ad un
accordo con la controparte, per cui è possibile
prevedere, da parte del Comune, tanto il sorgere
dell’obbligazione quanto i tempi per l’adempimento.
Ne deriva che l’ente locale, in tali casi, si trova
nelle condizioni (ed ha l’obbligo) di attivare le
normali procedure contabili di spesa (stanziamento,
impegno, liquidazione e pagamento) previste
dall’art. 191 del TUEL e di correlare ad esse
l’assunzione delle obbligazioni derivanti dagli
accordi transattivi.
L’ente, inoltre, ha chiesto, in caso di risposta
negativa al primo quesito, se la competenza
del Consiglio comunale debba intendersi limitata
alla mera autorizzazione alla spesa pluriennale (ex
art. 42, co. 2, lett. i del TUEL), oppure possa
considerarsi estesa anche alle questioni di merito
inerenti i contenuti ed i termini della transazione.
Così come anticipato in punto di ammissibilità della
richiesta di parere, questa Sezione non può certo
pronunciarsi sulle fattispecie concrete di
transazioni, approvate dal comune e riportate in
elenco nella parte in fatto. La pronuncia deve,
quindi, limitarsi ad individuare i limiti generali
di applicabilità della transazione agli Enti
pubblici, al fine di escludere qualsiasi commistione
con le scelte gestionali di esclusiva competenza e
responsabilità degli organi dell’Ente; né può
considerarsi rientrante nell’alveo della funzione
consultiva, ed in particolare della contabilità
pubblica, l’interpretazione della normativa che
disciplina l’ambito di operatività delle competenze
specifiche ascritte dal legislatore all’organo
consiliare (cfr. art. 42 del TUEL, rubricato:
Attribuzioni dei consigli).
Preliminarmente, si evidenzia che
con riguardo all’individuazione dell’Organo deputato
a pronunciarsi sugli atti transattivi che
s’intendono stipulare, il Collegio ritiene opportuno
richiamare il dettato dell’art. 42, comma 2 lett.
i), del TUEL, che espressamente riserva al Consiglio
comunale l’adozione di qualsiasi atto che comporti
l’assunzione, da parte del Comune, di “…spese che
impegnino i bilanci per gli esercizi successivi,
escluse quelle relative alle locazioni di immobili
ed alla somministrazione e fornitura di beni e
servizi a carattere continuativo…”
(cfr. Sez. Piemonte
parere 26.09.2013 n. 345 e Sez. Puglia
parere 28.11.2013 n. 181).
Pertanto, quando ricorrono
ipotesi transattive che comportino, come nel
caso di specie, il finanziamento di operazioni
contrattuali in più esercizi finanziari, non può
essere messa in dubbio la competenza a provvedere in
capo al Consiglio comunale.
Per quel che concerne le modalità di applicazione
dell’istituto della transazione (a prescindere dagli
specifici contenuti nei quali tale contratto può
essere declinato) e l’individuazione dei principi
giuridico-contabili ai quali gli Enti pubblici
contraenti devono conformarsi, si rappresenta che si
è formata una consolidata giurisprudenza delle
Sezioni di controllo alla quale, in considerazione
della piena condivisione degli orientamenti
espressi, questo Collegio si riporta integralmente.
A titolo meramente esemplificativo si segnala che la
Sezione regionale di controllo per l’Umbria, con
parere 24.09.2015 n. 123
cit., ha indicato in modo esaustivo alcuni dei
principi applicabili alle pubbliche amministrazioni
che intendono stipulare contratti di transazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 25.05.2017 n. n. 80). |
APPALTI: L'elencazione
delle fattispecie di riconoscimento dei debiti fuori
bilancio contenuta nell''art. 194 del TUEL è da
considerarsi tassativa e non può estendersi alle
transazioni, in considerazione della natura
eccezionale di detta previsione normativa
finalizzata a limitare il ricorso ad impegni non
derivanti dalla normale procedura di bilancio.
Inoltre, non può essere messa in dubbio la
competenza a provvedere in capo al Consiglio
comunale, trattandosi di una ipotesi di
transazione in relazione alla quale l'Ente
intende finanziare la presumibile spesa in modo
rateizzato, mediante imputazione delle singole rate
annuali nei bilanci di previsione dei prossimi dieci
anni.
---------------
Con la nota indicata in premessa il Sindaco del
Comune di Terni, dopo avere premesso che:
- la richiesta di parere attiene all'attività di verifica della
situazione debitoria/creditoria di detto Comune con
una società partecipata;
- dall'esito della verifica emerge un credito a favore della
società, che l'Amministrazione intenderebbe
finanziare in modo rateizzato, mediante imputazione
delle singole rate annuali nei bilanci di previsione
dei prossimi dieci anni;
- la mancata risoluzione di detta situazione rischierebbe di
produrre un contenzioso dall'esito molto incerto e
che potrebbe esporre l'Ente ad oneri economici
rilevanti, magari anche superiori all'entità del
credito vantato dalla società, a causa del maturare
di interessi;
- per evitare il suddetto rischio è intenzione dell'Amministrazione
comunale procedere ad una soluzione transattiva con
la società partecipata, riconoscendo una parte del
credito vantato, previa attenta verifica e
valutazione che la transazione presenti tutti i
requisiti sostanziali previsti dalle regole di sana
gestione finanziaria: elevata aleatorietà dell'esito
di un eventuale e molto probabile contenzioso,
congruità delle prestazioni corrispettive dei
transigenti e convenienza economica per l'Ente,
chiede a questa Sezione:
- se la transazione
si ponga come una fattispecie di riconoscimento di
debito fuori bilancio ex art. 194 del TUEL e, in
caso di risposta negativa al predetto quesito,
- se la
competenza del Consiglio Comunale si limiterebbe
alla mera autorizzazione alla spesa pluriennale (ex
art. 42, co. 2, lett. i), del TUEL) oppure si
estenderebbe anche al merito della transazione.
...
Con il primo quesito il Comune di Terni
chiede l’avviso della Sezione sulla riconducibilità
della transazione all’alveo delle fattispecie di
riconoscimento di debito fuori bilancio disciplinate
dall’art. 194 del TUEL.
La risposta al quesito richiede un breve richiamo
della disciplina normativa di riferimento, ed in
particolare dei principi o postulati contabili
emanati dall’Osservatorio per la finanza e la
contabilità degli Enti locali presso il Ministero
dell’Interno costituito a norma dell’art. 154 del
TUEL.
Il principio contabile n. 2, lett. f), adottato dal
predetto Osservatorio in data 12.03.2008, prevede,
al punto 104, che “gli accordi transattivi
non sono previsti tra le ipotesi tassative elencate
all’articolo 194 del TUEL e non sono equiparabili
alle sentenze esecutive di cui alla lettera a) del
comma 1 del citato articolo”. Precisa, inoltre,
il punto 104 che la fattispecie degli accordi
transattivi non può essere ricondotta al concetto di
debito fuori bilancio e che gli accordi transattivi
presuppongono la decisione dell’Ente di pervenire ad
un accordo con la controparte, per cui è possibile
per l’Ente “definire tanto il sorgere
dell’obbligazione quanto i tempi dell’adempimento.
In ogni caso tale decisione è assunta sulla base di
una motivata analisi di convenienza per l’ente di
addivenire alla conclusione dell’accordo”.
Le Sezioni di controllo di questa Corte dei conti,
che si sono già occupate di detta questione, hanno
maturato l’orientamento, che può pertanto definirsi
consolidato e dal quale questa Sezione non ha motivo
di discostarsi, secondo la quale l’elencazione delle
fattispecie di riconoscimento dei debiti fuori
bilancio contenuta nell’art. 194 del TUEL “è da
considerarsi tassativa” e non può estendersi
alle transazioni, in considerazione della “natura
eccezionale di detta previsione normativa
finalizzata a limitare il ricorso ad impegni non
derivanti dalla normale procedura di bilancio”
(v. ex multis, Sez. Piemonte,
parere
11.05.2007 n. 4; Sez. Basilicata, del. n. 16/2007; Sez. Puglia, del.
n. 106/2009).
A sostegno di tale opzione ermeneutica è stata
peraltro addotta (v. Sezione Piemonte,
parere
11.05.2007 n. 4, cit.)
l’impossibilità di ricondurre la
fattispecie degli accordi transattivi al concetto di
sopravvenienza passiva e dunque alla nozione di
debito fuori bilancio, precisando che, a differenza
dei debiti derivanti da sentenze esecutive
(chiaramente riconducibili al concetto di
sopravvenienza passiva in quanto, in assenza di una
specifica previsione nel bilancio di esercizio in
cui i debiti si manifestano, esse prescindono
necessariamente da un previo impegno di spesa), gli
accordi transattivi presuppongono, invece, la
decisione dell’Ente di pervenire ad un accordo con
la controparte, per cui è possibile prevedere, da
parte del Comune, tanto il sorgere dell’obbligazione
quanto i tempi per l’adempimento. Ne discende che
l’Amministrazione in tali casi si trova nelle
condizioni (ed ha l’obbligo) di attivare le normali
procedure contabili di spesa (stanziamento, impegno,
liquidazione e pagamento) previste dall’art. 191 del TUEL e di rapportare ad esse l’assunzione delle
obbligazioni derivanti dagli accordi transattivi.
Con il secondo quesito l’Ente interpellante
chiede a questa Sezione se, in caso di risposta
negativa al primo quesito, la competenza del
Consiglio comunale debba intendersi limitata alla
mera autorizzazione alla spesa pluriennale (ex art.
42, co. 2, lett. i), del TUEL) oppure estendersi
anche al merito della transazione.
Come già precisato in punto di ammissibilità della
richiesta di parere, questa Sezione non può certo
pronunciarsi sulla opportunità dello strumento
(accordo transattivo) prescelto dall’Amministrazione
per risolvere in via bonaria un possibile
contenzioso con una sua società partecipata, che
vanta un credito nei confronti dell’Ente in
dipendenza del servizio pubblico dalla stessa
svolto. La pronuncia deve, quindi, limitarsi ad
individuare i limiti generali di applicabilità della
transazione agli Enti pubblici, al fine di escludere
qualsiasi commistione con le scelte gestionali di
esclusiva competenza e responsabilità degli organi
dell’Ente.
Quanto alla competenza in ordine alla transazione
del Consiglio comunale, il Collegio ritiene
opportuno richiamare il dettato dell’art. 42, comma
2, lett. i), del TUEL, che espressamente riserva a
detto organo consiliare l’adozione di qualsiasi atto
che comporti l’assunzione, da parte del Comune, di “spese
che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi,
escluse quelle relative alle locazioni di immobili
ed alla somministrazione e fornitura di beni e
servizi a carattere continuativo”.
Va, peraltro, richiamato l’orientamento di alcune
Sezioni regionali di controllo che si sono occupate
della questione (da ultimo, Sezione Liguria, deliberazione 5/2014) secondo cui la materia delle
transazioni è riconducibile di regola alla
competenza dirigenziale, potendo la stessa rientrare
nell’ambito di attribuzione della Giunta o del
Consiglio solo in situazioni particolari e cioè
qualora la transazione involga atti di disposizione
che implicano valutazioni esulanti dalla mera
gestione.
Nel caso di specie non può essere messa in dubbio la
competenza a provvedere in capo al Consiglio
comunale, trattandosi di una ipotesi di transazione
in relazione alla quale l’Ente intende finanziare la
presumibile spesa “in modo rateizzato, mediante
imputazione delle singole rate annuali nei bilanci
di previsione dei prossimi dieci anni”.
Quanto all’applicabilità della transazione agli Enti
pubblici, altre Sezioni regionali di controllo che
si sono occupate della questione
(v. ex multis,
Sez. Lombardia,
parere 05.05.2008 n. 26 e
parere 18.12.2009 n. 1116; Sez.
Piemonte, del. 15/2007 e
parere 28.02.2012 n. 20)
hanno affermato i
seguenti principi, che questo Collegio condivide:
- anche gli Enti pubblici possono di norma transigere le
controversie delle quali siano parte ex art 1965 c.c.;
- i limiti del ricorso alla transazione da parte degli Enti
pubblici sono quelli propri di ogni soggetto
dell’ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione
soggettiva e la disponibilità dell’oggetto, e quelli
specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del
rapporto tra privati e pubblica Amministrazione.
Sotto quest’ultimo profilo va ricordato che,
nell’esercizio dei propri poteri pubblicistici,
l’attività degli Enti territoriali è finalizzata
alla cura concreta di interessi pubblici e quindi
alla migliore cura dell’interesse intestato
all’Ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con
i privati non possono condizionare l’esercizio del
potere dell’Amministrazione pubblica sia rispetto
alla miglior cura dell’interesse concreto della
comunità amministrata, sia rispetto alla tutela
delle posizioni soggettive di terzi, secondo il
principio di imparzialità dell’azione
amministrativa;
- la scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una
transazione e la concreta delimitazione dell’oggetto
della stessa spetta all’Amministrazione nell’ambito
dello svolgimento della ordinaria attività
amministrativa e come tutte le scelte discrezionali
non è soggetta a sindacato giurisdizionale, se non
nei limiti della rispondenza delle stesse a criteri
di razionalità, congruità e prudente apprezzamento,
ai quali deve ispirarsi l’azione amministrativa. Uno
degli elementi che l’Ente deve considerare è
sicuramente la convenienza economica della
transazione in relazione all’incertezza del
giudizio, intesa quest’ultima in senso relativo, da
valutarsi in relazione alla natura delle pretese,
alla chiarezza della situazione normativa e ad
eventuali orientamenti giurisprudenziali;
- ai fini dell’ammissibilità della transazione è necessaria
l’esistenza di una controversia giuridica (e non di
un semplice conflitto economico), che sussiste o può
sorgere quando si contrappongono pretese
confliggenti di cui non sia possibile a priori
stabilire quale sia giuridicamente fondata. Di
conseguenza il contrasto tra l’affermazione di due
posizioni giuridiche è la base della transazione in
quanto serve per individuare le reciproche
concessioni, elemento collegato alla
contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha
in relazione all’oggetto della controversia. Si
tratta di un elemento che caratterizza la
transazione rispetto ad altri modi di definizione
della lite;
- la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili
(art 1966, co. 2 c.c.) e cioè, secondo la prevalente
dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il
potere di estinguere il diritto in forma negoziale.
E’ nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i
diritti che formano oggetto della lite siano
sottratti alla disponibilità delle parti per loro
natura o per espressa disposizione di legge;
- requisito essenziale dell’accordo transattivo disciplinato dal
codice civile (artt. 1965 e ss. c.c.) è, in forza
dell’art. 1321 dello stesso codice, la
patrimonialità del rapporto giuridico;
- inoltre, come affermato dalla giurisprudenza civile (cfr., ex
multis, Cass. 06.05.2003 n. 6861),
costituisce
transazione solo quell’accordo che cade su un
rapporto che, oltre a presentare, almeno
nell'opinione delle parti, carattere di incertezza,
è contrassegnato dalla reciprocità delle
concessioni. Oggetto della transazione, quindi, non
è il rapporto o la situazione giuridica cui si
riferisce la discorde valutazione delle parti, ma la
lite cui questa ha dato luogo o possa dar luogo e
che le parti stesse intendono eliminare mediante
reciproche concessioni. Quanto ai termini (soggetto
e oggetto) del contratto di transazione va ancora
rammentato che i soggetti devono essere dotati non
solo di capacità giuridica ma devono avere anche la
legittimazione intesa come potere di agire in ordine
ai rapporti sui quali incide la transazione. Sotto
questo profilo vengono in rilievo per gli enti
pubblici le procedure che prevedono le modalità di
formazione ed espressione della volontà
amministrativa. Per gli Enti territoriali non è
previsto un particolare iter procedimentale per gli
atti di transazione, ma, ove il medesimo sia dotato
di una propria avvocatura, sarebbe opportuno che
questa fosse investita della questione in analogia a
quanto prevede per le Amministrazioni dello Stato
l’art. 14 del R.D. n. 2440/1923 (legge di
contabilità generale)
(Corte dei Conti, Sez.
controllo Umbria,
parere 24.09.2015 n. 123).
|
ATTI AMMINISTRATIVI:
Non risulta possibile procedere al
riconoscimento dei debiti fuori bilancio nel corso
dell’esercizio provvisorio di bilancio. E ciò per un
duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, la delibera di riconoscimento
può essere adottata solo in occasione di precise
scansioni temporali, in particolare in sede di
approvazione del bilancio di previsione ovvero in
occasione della delibera di salvaguardia degli
equilibri di bilancio ex art 193, comma 2, del TUEL.
Si tratta, non a caso, dei momenti in cui gli
equilibri di bilancio vengono valutati in maniera
approfondita e complessiva. Di conseguenza,
ipotizzare che si possa provvedere al riconoscimento
dei debiti fuori bilancio proprio durante la
“vacanza” di bilancio, costituirebbe un’evidente
aporia logica.
In secondo luogo, il principio di tipicità e
tassatività delle spese consentite nel corso
dell’esercizio provvisorio esclude che si possa
procedere all’adempimento di obbligazioni che non
rientrano nei casi contemplati e, ancor di più, di
carattere eccezionale (come quelle aventi a oggetto
debiti fuori bilancio)
---------------
Il Comune di Vita (TP) chiede di conoscere se sia
possibile procedere al riconoscimento di debiti
fuori bilancio (nel caso concreto, di un debito
derivante da sentenza provvisoriamente esecutiva di
condanna al risarcimento del danno) durante
l’esercizio provvisorio di bilancio, nell’ipotesi in
cui risulti idoneo e capiente stanziamento per la
copertura della spesa.
...
I debiti fuori bilancio sono obbligazioni verso
terzi per il pagamento di una determinata somma di
denaro, assunte in violazione delle norme
giuscontabili che regolano il processo finanziario
della spesa e, in particolare, in mancanza del
dovuto atto contabile d’impegno.
La corretta programmazione e gestione finanziaria
dell’Ente locale impone, infatti, che tutte le spese
siano anticipatamente previste nel documento di
bilancio approvato dal Consiglio Comunale e che le
decisioni di spesa siano assunte nel rispetto delle
norme giuscontabili che ne disciplinano la procedura
(artt. 151 e 191 TUEL).
Tutto ciò costituisce la diretta conseguenza della
funzione autorizzatoria del bilancio di previsione
degli enti locali, i quali possono effettuare le
sole spese autorizzate dal Consiglio Comunale.
Quest’ultimo, attraverso l’approvazione del bilancio
annuale e pluriennale, esercita le sue prerogative
di organo di indirizzo dell’attività
politico-amministrativa dell’Ente, vincolando, al
contempo, i poteri di spesa degli organi
amministrativi.
L’art. 194 del TUEL ne disciplina l’ambito di
applicazione e le procedure, ed individua
tassativamente i presupposti per poter ricondurre
tali obbligazioni al sistema di bilancio dell’ente,
ossia: a) sentenze esecutive; b) copertura di
disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di
istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da
statuto, convenzione o atti costitutivi; c)
ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme
previste dal codice civile o da norme speciali, di
società di capitali costituite per l'esercizio di
servizi pubblici locali; d) procedure espropriative
o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica
utilità; e) acquisizione di beni e servizi, in
violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3
dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e
dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente,
nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni
e servizi di competenza.
In ciascuna delle sopra elencate tipologie, il
debito viene ad esistenza al di fuori ed
indipendentemente dalle ordinarie procedure che
disciplinano la formazione della volontà dell’ente,
e la deliberazione consiliare, che riconduce
l’obbligazione all’interno della contabilità
dell’ente ed individua le risorse per farvi fronte,
deve essere tesa ad accertare la riconducibilità del
debito ad una delle fattispecie tipizzate dalla
norma, nonché le cause che hanno originato
l’obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali
responsabilità.
Superando il precedente orientamento (Sezioni
Riunite per la Regione siciliana in sede consultiva,
parere 11.03.2005 n. 2), la più recente giurisprudenza
contabile (da ultimo, Sezione di controllo per la
Regione siciliana,
deliberazione
15.03.2013 n. 21,
deliberazione 03.05.2013 n.
74, deliberazione 30.11.2011 n. 270/2011/GEST), in coerenza con i
principi contabili dell’Osservatorio sulla finanza
locale (pr. n. 2-101/103), ha posto particolare
attenzione sull’imprescindibile attività valutativa
da parte dell’organo consiliare, che, essendo
ascrivibile alla funzione di indirizzo e controllo
politico-amministrativo, non ammette alcuna
possibilità di interposizione, sia pur in via
d’urgenza, da parte di altri organi.
La caratteristica funzione “autorizzatoria”
del bilancio preventivo, nella contabilità
finanziaria degli enti locali, impone la corretta
programmazione e conseguente assunzione, nel
rispetto di tutte le norme giuscontabili, delle
decisioni di spesa.
Nel quadro appena delineato, non risulta possibile
procedere al riconoscimento dei debiti fuori
bilancio nel corso dell’esercizio provvisorio di
bilancio. E ciò per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, la delibera di riconoscimento
può essere adottata solo in occasione di precise
scansioni temporali, in particolare in sede di
approvazione del bilancio di previsione ovvero in
occasione della delibera di salvaguardia degli
equilibri di bilancio ex art 193, comma 2, del TUEL.
Si tratta, non a caso, dei momenti in cui gli
equilibri di bilancio vengono valutati in maniera
approfondita e complessiva. Di conseguenza,
ipotizzare che si possa provvedere al riconoscimento
dei debiti fuori bilancio proprio durante la “vacanza”
di bilancio, costituirebbe un’evidente aporia
logica.
In secondo luogo, il principio di tipicità e
tassatività delle spese consentite nel corso
dell’esercizio provvisorio esclude che si possa
procedere all’adempimento di obbligazioni che non
rientrano nei casi contemplati e, ancor di più, di
carattere eccezionale (come quelle aventi a oggetto
debiti fuori bilancio) (Corte dei Conti, Sez.
controllo Sicilia,
parere 30.10.2014 n. 189). |
ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI:
I debiti fuori bilancio sono
obbligazioni verso terzi per il pagamento di una
determinata somma di denaro, assunte in violazione
delle norme giuscontabili che regolano il
procedimento finanziario di spesa.
La corretta programmazione e gestione finanziaria
dell’ente locale impone, infatti, che tutte le spese
siano anticipatamente previste nel documento di
bilancio approvato dal Consiglio comunale e che le
decisioni di spesa siano assunte nel rispetto delle
relative procedure (artt. 151 e 191 TUEL).
Il
debito viene ad esistenza al di fuori ed
indipendentemente dalle ordinarie procedure che
disciplinano la formazione della volontà dell’ente,
e la deliberazione consiliare, che riconduce
l’obbligazione all’interno della contabilità
dell’ente ed individua le risorse per farvi fronte,
deve accertare la sussumibilità del debito
all’interno di una delle fattispecie tipizzate dalla
norma, nonché le cause che hanno originato
l’obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali
responsabilità.
La più recente giurisprudenza di
questa Sezione
formatasi in materia ha posto particolare
attenzione sull’imprescindibile attività valutativa
da parte dell’organo consiliare, ascrivibile alla
funzione di indirizzo e controllo politico-amministrativo, che non ammette alcuna possibilità
di interposizione, sia pur in via d’urgenza, da
parte di altri organi.
Nel quadro appena delineato, i responsabili dei
servizi hanno l’obbligo di effettuare periodiche
ricognizioni (art. 193 del TUEL) ai fini di un
controllo concomitante e costante della situazione
gestionale, teso alla tempestiva segnalazione delle
passività all’organo consiliare.
Per quest’ultimo, una volta accertata la sussistenza
dei presupposti di cui all’art. 194 del TUEL, il
riconoscimento della legittimità costituisce atto
dovuto e vincolato, da espletare senza indugio, al
fine di evitare indebito aggravio di spesa per
maturazione di oneri accessori (interessi moratori,
spese legali, ecc.).
Le sottese esigenze di celerità, che trovano ragione
nell’esigenza di impedire la maturazione di oneri
ulteriori, e di adottare le conseguenti misure di
riequilibrio devono essere, infatti, soddisfatte
attraverso la celere convocazione dell’organo
consiliare, unico intestatario della funzione.
---------------
Seppur in presenza di apposito stanziamento nel
bilancio, nelle more del perfezionamento del
riconoscimento ex art. 194, lett. a) o lett. e), non
è possibile assumere impegno di spesa con apposita
determinazione dirigenziale, rinviandone in ogni
caso il pagamento ad un momento successivo al
riconoscimento.
Nell’ipotesi di acquisizione di beni e servizi in
violazione delle procedure di spesa di cui all’art.
191, commi 1, 2 e 3, del Tuel, l’organo consiliare,
pur in presenza di idonea copertura della spesa, è
chiamato ad una valutazione discrezionale –e al
conseguente obbligo di motivazione- sulla
sussistenza dei seguenti requisiti imprescindibili:
- l’utilità, ricavata dalla prestazione di beni e servizi del terzo
creditore, in termini anche di obiettivo riscontro
della congruità dei prezzi;
- l’arricchimento, da intendersi non necessariamente come
accrescimento patrimoniale, bensì come risparmio di
spesa, che include solo la quota corrispondente al
valore materiale della prestazione effettivamente
ricevuta, con esclusione della quota di utile d’impresa e
di voci accessorie quali interessi, rivalutazione,
spese legali, ecc. ;
- la propedeuticità all’espletamento di funzioni e servizi di
competenza, ossia la stretta coerenza con l’attività
istituzionale dell’ente.
Dall’eventuale carenza –totale o parziale- dei
predetti presupposti discende addirittura
l’interruzione del rapporto di immedesimazione
organica e l’estraneità dell’ente rispetto al
rapporto obbligatorio, che per la parte non
riconoscibile intercorre, ai fini della
controprestazione, tra il privato fornitore e
l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno
consentito la fornitura.
Nel quadro appena tratteggiato,
è evidente che
l’eventuale adozione interinale dell’impegno di
spesa, pur in assenza di pagamento, darebbe comunque
luogo ad un’inversione procedimentale lesiva delle
attribuzioni dell’organo consiliare.
Nelle ipotesi
contemplate dall’art. 194, comma 1, lett. e), del Tuel, il preliminare riconoscimento della
legittimità del debito appare strumentale alla
complessiva regolarizzazione contabile della spesa.
---------------
A conclusioni non difformi, il Collegio perviene
anche nell’ipotesi di riconoscimento di un debito da
sentenza esecutiva, caratterizzato da assenza di
discrezionalità per via del provvedimento
giudiziario a monte che, accertando il diritto di
credito del terzo, rende agevole la riconduzione al
sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza
finanziaria maturato all’esterno di esso
(pr. cont.
2.101).
Anche in questo caso, l’avvio del procedimento di
spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque,
già sul piano logico, una positiva valutazione
dell’organo consiliare sulla sussistenza dei
presupposti di riconoscibilità, sulle cause ed
eventuali responsabilità connesse, nonché sulle
misure correttive tese ad evitare il reiterarsi
delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale.
L’eventuale previsione in bilancio di uno specifico
stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e
quant’altro non elimina la necessità che il
Consiglio deliberi anche sulla riconoscibilità dei
singoli debiti formatisi al di fuori delle norme
giuscontabili
(pr. cont. 1-105).
Anche in tale fattispecie, l’eventuale
pretermissione o postergazione della procedura
consiliare vanificherebbe la disciplina di garanzia
prevista dall’ordinamento e la correlata fase di
controllo politico amministrativo, nonché la
correlata verifica da parte della Procura regionale
della Corte dei conti ex art. 23, comma 5, della
legge n. 289/2002.
---------------
Al
fine di evitare possibili prassi elusive del patto
di stabilità interno, in presenza di riconoscimento
del debito ex art. 194, c. 1, e), e di idoneo
stanziamento, a cui non sia seguito entro
l’esercizio finanziario il relativo impegno di
spesa, non è possibile considerare impegnate le somme
dovute sullo stanziamento, dandone atto nel
rendiconto di gestione.
Invero, la soluzione contraria
postulerebbe una modifica al regolamento di
contabilità che, nella fattispecie, trova ostacolo
nell’inderogabilità della disciplina degli “impegni
di spesa automatici” (art. 183, commi 2, 3, 5
del Tuel), sancita dall’art. 152, comma 4, del Tuel.
In prossimità della scadenza dell’esercizio
finanziario, la tempestiva formalizzazione
dell’impegno di spesa conseguente alla deliberazione
consiliare ex art. 194 del Tuel costituirebbe un
obiettivo prioritario per l’ente, proprio al fine di
scongiurare i rischi di elusione paventati
dall’ente, che esporrebbero il dirigente competente
alle possibili conseguenze sanzionatorie per
l’indebito miglioramento dei saldi rilevanti ai fini
del patto di stabilità interno connesso al suo
ritardo.
---------------
Qualora l’ente sia a conoscenza di un debito
fuori bilancio da sentenza esecutiva al termine
dell’esercizio, abbia il dovere di convocare con la
massima celerità il consiglio comunale ai fini della
tempestiva adozione dei provvedimenti di
riconoscimento e delle contestuali misure tese a
riportare in equilibrio la gestione (art. 193, comma
3, e 194 del Tuel) modificando, se necessario, le
priorità in ordine alle spese già deliberate per
assicurare la copertura delle passività insorte.
La consolidata giurisprudenza di questa Sezione ha
più volte evidenziato come
il rinvio di oneri
finanziari ad esercizi successivi rispetto a quello
in cui maturano i presupposti del riconoscimento può
costituire una prassi elusiva del patto di stabilità
interno, e dunque illecita, nella misura in cui
finisca per rinviare artificiosamente ad esercizi
futuri oneri finanziari di cui l’ente è -formalmente
o sostanzialmente- a conoscenza entro il termine
utile per la variazione di assestamento generale di
bilancio.
Nel caso particolare in cui
la passività da soccombenza giudiziaria emerga oltre
il termine per la variazione di assestamento
generale di bilancio (circostanza, quest’ultima,
comprovabile dalla data di comunicazione via PEC del
deposito del provvedimento), si ritiene che
l’amministrazione, in assenza di strumenti per
assicurare la copertura finanziaria della spesa,
abbia l’obbligo di approvare il nuovo bilancio di
previsione nel più breve termine possibile, ai fini
del celere riconoscimento della passività insorta.
In merito al rischio di azioni esecutive, la Sezione
riconosce che
il termine di 120 giorni dalla
notifica del titolo esecutivo previsto (art. 14, del
D.L. 31.12.1996, n. 669 convertito in L. n. 30/1997
e s.m.i.) per l’avvio di procedure esecutive nei
confronti della P.A. sia “sufficientemente ampio
per provvedere agli adempimenti di cui all'art. 194
del TUEL”, alla luce del principio di buon andamento
di cui all’art. 97 Cost..
Tale termine, ad avviso della Sezione,
è da
ritenersi “ragionevole” anche per consentire
all’ente di approvare celermente il nuovo bilancio
di previsione.
Condivisibili, a riguardo, appaiono le conclusioni
ermeneutiche cui approda la Sezione regionale di
controllo per la Campania circa
l’impossibilità, durante il
periodo di esercizio provvisorio, di provvedere al
riconoscimento dei debiti fuori bilancio per via
dell’eccezionalità della fattispecie di cui all’art.
194 del Tuel rispetto alle ipotesi previste
dall’art. 163, comma 3, del Tuel, ma soprattutto per
la mancanza del bilancio d’esercizio, cui ricondurre
le passività emerse.
L’esigenza di urgente ripristino degli equilibri di
bilancio -recentemente assurti a rango
costituzionale– impone la necessità di abbreviare al
massimo, nella fattispecie, la durata dell’esercizio
provvisorio, che di per sé costituisce una fase
eccezionale e transitoria.
Giova ricordare, peraltro, che
l’art. 191, comma 5,
del Tuel introduce forti limitazioni per gli enti
locali che presentino, nell’ultimo rendiconto
deliberato, disavanzo di amministrazione o che
indichino debiti fuori bilancio per i quali non sono
stati validamente adottati i provvedimenti di cui
all’art. 193 del Tuel, vietando agli stessi di
assumere impegni e pagare spese per servizi non
espressamente previsti per legge, salve le spese da
sostenere a fronte di impegni già assunti in
esercizi precedenti.
---------------
I debiti riconoscibili ex art. 194, comma
1, lett. a), del Tuel, sono quelli strettamente
riconducibili alla sentenza o al provvedimento
giudiziario esecutivo.
In tale ambito,
si ritiene possano rientrare anche
le spese di registrazione della sentenza,
che chi ha
assolto l’onere fiscale può ripetere dalla
controparte secondo le regole dell’azione di
regresso tra condebitori solidali, in coerenza con
la statuizione del giudice in punto di spese.
Sono da ritenere parimenti riconoscibili gli oneri
per il contributo unificato (costituenti spese di
giustizia, e dovuti in ogni caso dalla parte
soccombente nell’ipotesi di cui all’art. 13, comma
6-bis, del DPR n. 115/2002), nonché le spese legali
della parte vincitrice, entrambe di norma liquidate
dal giudice con il dispositivo in seno alle spese di
giudizio, secondo i criteri di cui all’art. 91 e ss.
del c.p.c..
Non rientrano, invece, nella fattispecie, le
eventuali altre spese collegate non al dispositivo
della sentenza, bensì ad autonome iniziative
dell’ente (ad esempio, incarichi di consulente
tecnico di parte, ecc.), semmai riconducibili, in
presenza dei relativi presupposti, alla fattispecie
di cui all’art. 194, c. 1, lett. e), del Tuel.
---------------
Tra le spese riconoscibili ex lett. a) possono
rientrare anche gli oneri legati al consulente
tecnico d’ufficio,
la cui parcella è liquidata con
decreto dal giudice che ne pone provvisoriamente
l’onere del pagamento a carico di una o più parti
della causa, salva statuizione in sentenza circa la
parte definitivamente onerata a riguardo.
---------------
Con la nota in epigrafe, il sindaco del comune di
Trapani formula una richiesta di parere in materia
di debiti fuori bilancio.
In particolare, dopo aver richiamato i
principi contabili dell’Osservatorio per la finanza
locale n. 2.96, 2.97, 2.101, 2.105, 3.65, formula
i seguenti quesiti:
1. se, in presenza di apposito stanziamento nel bilancio, nelle
more del perfezionamento del riconoscimento ex art.
194, comma 1, lett. a) ed e), sia possibile assumere
impegno di spesa con apposita determinazione
dirigenziale, rinviandone in ogni caso il pagamento
ad un momento successivo al riconoscimento;
2. se, al fine di evitare possibili prassi elusive del patto di
stabilità interno, in presenza di riconoscimento del
debito ex art. 194, c. 1, lett. e), e di idoneo
stanziamento, a cui non sia seguito entro
l’esercizio finanziario il relativo impegno di
spesa, sia possibile considerare impegnate le somme
dovute sullo stanziamento, dandone atto nel
rendiconto di gestione;
3. se, nell’ipotesi di conoscenza di un debito fuori bilancio da
sentenza esecutiva notificata oltre il termine utile
per la variazione di assestamento generale e in
assenza di copertura finanziaria, l’ente, pur avendo
la possibilità in sede di rendiconto di riservare
quota parte dell’avanzo, incorra nel divieto, fino
all’adozione dei provvedimenti consiliari di
riconoscimento e finanziamento, di assumere impegni
e pagare spese per servizi non espressamente
previsti per legge ex art. 191, c. 5, del Tuel;
4. se nell’ambito delle spese da sentenza esecutiva rientrino
anche la tassa di registro, le spese del contributo
unificato e le spese legali di soccombenza;
5. se le spese di nomina del CTU siano da considerare debiti
fuori bilancio o se lo siano solo se l’impegno di
spesa non avvenga nell’esercizio di conferimento
dell’incarico.
...
Nel merito, ricorda il Collegio che
i debiti fuori bilancio sono
obbligazioni verso terzi per il pagamento di una
determinata somma di denaro, assunte in violazione
delle norme giuscontabili che regolano il
procedimento finanziario di spesa.
La corretta programmazione e gestione finanziaria
dell’ente locale impone, infatti, che tutte le spese
siano anticipatamente previste nel documento di
bilancio approvato dal Consiglio comunale e che le
decisioni di spesa siano assunte nel rispetto delle
relative procedure (artt. 151 e 191 TUEL).
Ciò costituisce la diretta conseguenza della
funzione autorizzatoria del bilancio di previsione,
con il quale l’organo consiliare esercita le sue
prerogative di indirizzo dell’attività
politico-amministrativa dell’ente, vincolando, al
contempo, i poteri di spesa degli organi
amministrativi.
L’art. 194 del TUEL fornisce un elenco tassativo
delle tipologie di obbligazioni riconoscibili,
riconducibili a: a) sentenze esecutive; b) copertura
di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di
istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da
statuto, convenzione o atti costitutivi; c)
ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme
previste dal codice civile o da norme speciali, di
società di capitali costituite per l'esercizio di
servizi pubblici locali; d) procedure espropriative
o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica
utilità; e) acquisizione di beni e servizi, in
violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3
dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e
dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, e
nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni
e servizi di competenza.
In ciascuna delle sopra elencate tipologie,
il
debito viene ad esistenza al di fuori ed
indipendentemente dalle ordinarie procedure che
disciplinano la formazione della volontà dell’ente,
e la deliberazione consiliare, che riconduce
l’obbligazione all’interno della contabilità
dell’ente ed individua le risorse per farvi fronte,
deve accertare la sussumibilità del debito
all’interno di una delle fattispecie tipizzate dalla
norma, nonché le cause che hanno originato
l’obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali
responsabilità.
Superando il precedente orientamento (Sezioni
Riunite per la Regione siciliana in sede consultiva,
parere 11.03.2005 n. 2),
la più recente giurisprudenza
di questa Sezione (da ultimo, cfr.
deliberazione
15.03.2013 n. 21,
deliberazione 03.05.2013 n.
74,
deliberazione 30.11.2011 n. 270/2011/GEST)
formatasi in materia ha posto particolare
attenzione sull’imprescindibile attività valutativa
da parte dell’organo consiliare, ascrivibile alla
funzione di indirizzo e controllo politico-amministrativo, che non ammette alcuna possibilità
di interposizione, sia pur in via d’urgenza, da
parte di altri organi.
Nel quadro appena delineato, i responsabili dei
servizi hanno l’obbligo di effettuare periodiche
ricognizioni (art. 193 del TUEL) ai fini di un
controllo concomitante e costante della situazione
gestionale, teso alla tempestiva segnalazione delle
passività all’organo consiliare.
Per quest’ultimo, una volta accertata la sussistenza
dei presupposti di cui all’art. 194 del TUEL, il
riconoscimento della legittimità costituisce atto
dovuto e vincolato, da espletare senza indugio, al
fine di evitare indebito aggravio di spesa per
maturazione di oneri accessori (interessi moratori,
spese legali, ecc.).
Le sottese esigenze di celerità, che trovano ragione
nell’esigenza di impedire la maturazione di oneri
ulteriori, e di adottare le conseguenti misure di
riequilibrio devono essere, infatti, soddisfatte
attraverso la celere convocazione dell’organo
consiliare, unico intestatario della funzione.
Effettuato questo breve excursus di carattere
generale, può darsi risposta ai quesiti dell’ente.
Con il primo, il comune chiede se, in
presenza di apposito stanziamento nel bilancio,
nelle more del perfezionamento del riconoscimento ex
art. 194, lett. a) o lett. e), sia possibile
assumere impegno di spesa con apposita
determinazione dirigenziale, rinviandone in ogni
caso il pagamento ad un momento successivo al
riconoscimento.
Alla luce della superiore premessa, la risposta al
quesito è sicuramente negativa.
Nell’ipotesi di acquisizione di beni e servizi in
violazione delle procedure di spesa di cui all’art.
191, commi 1, 2 e 3, del Tuel, l’organo consiliare,
pur in presenza di idonea copertura della spesa, è
chiamato ad una valutazione discrezionale –e al
conseguente obbligo di motivazione- sulla
sussistenza dei seguenti requisiti imprescindibili:
- l’utilità, ricavata dalla prestazione di beni e servizi del terzo
creditore, in termini anche di obiettivo riscontro
della congruità dei prezzi;
- l’arricchimento, da intendersi non necessariamente come
accrescimento patrimoniale, bensì come risparmio di
spesa, che include solo la quota corrispondente al
valore materiale della prestazione effettivamente
ricevuta, con esclusione della quota di utile d’impresa e
di voci accessorie quali interessi, rivalutazione,
spese legali, ecc. ;
- la propedeuticità all’espletamento di funzioni e servizi di
competenza, ossia la stretta coerenza con l’attività
istituzionale dell’ente.
Dall’eventuale carenza –totale o parziale- dei
predetti presupposti discende addirittura
l’interruzione del rapporto di immedesimazione
organica e l’estraneità dell’ente rispetto al
rapporto obbligatorio, che per la parte non
riconoscibile intercorre, ai fini della
controprestazione, tra il privato fornitore e
l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno
consentito la fornitura.
Nel caso di esecuzioni reiterate o continuative,
questo effetto potrà essere esteso a coloro che
-colpevolmente- hanno reso possibili le singole
prestazioni.
Nel quadro appena tratteggiato,
è evidente che
l’eventuale adozione interinale dell’impegno di
spesa, pur in assenza di pagamento, darebbe comunque
luogo ad un’inversione procedimentale lesiva delle
attribuzioni dell’organo consiliare.
Come testualmente ricordato dall’ente,
nelle ipotesi
contemplate dall’art. 194, comma 1, lett. e), del Tuel, il preliminare riconoscimento della
legittimità del debito appare strumentale alla
complessiva regolarizzazione contabile della spesa.
A conclusioni non difformi, il Collegio perviene
anche nell’ipotesi di riconoscimento di un debito da
sentenza esecutiva, caratterizzato da assenza di
discrezionalità per via del provvedimento
giudiziario a monte che, accertando il diritto di
credito del terzo, rende agevole la riconduzione al
sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza
finanziaria maturato all’esterno di esso
(pr. cont.
2.101).
Anche in questo caso, l’avvio del procedimento di
spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque,
già sul piano logico, una positiva valutazione
dell’organo consiliare sulla sussistenza dei
presupposti di riconoscibilità, sulle cause ed
eventuali responsabilità connesse, nonché sulle
misure correttive tese ad evitare il reiterarsi
delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale.
L’eventuale previsione in bilancio di uno specifico
stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e
quant’altro non elimina la necessità che il
Consiglio deliberi anche sulla riconoscibilità dei
singoli debiti formatisi al di fuori delle norme
giuscontabili
(pr. cont. 1-105; in termini Sezione
controllo per la Basilicata,
parere
27.03.2007 n. 6).
Anche in tale fattispecie, l’eventuale
pretermissione o postergazione della procedura
consiliare vanificherebbe la disciplina di garanzia
prevista dall’ordinamento e la correlata fase di
controllo politico amministrativo, nonché la
correlata verifica da parte della Procura regionale
della Corte dei conti ex art. 23, comma 5, della
legge n. 289/2002.
La soluzione appena prospettata risulta anche
coerente con i nuovi parametri di deficitarietà
strutturale (DM Interno 18.02.2013), che, non
prendendo più a riferimento la consistenza dei
debiti “formatisi” nel corso dell’esercizio
di riferimento, bensì quella dei debiti “riconosciuti”
(cfr. parametro n. 8), valorizzano al massimo
livello l’importanza del momento formale di
riconduzione della passività al sistema di bilancio,
nonché del rispetto della scansione procedimentale
delineata dal legislatore.
Con il secondo quesito
l’ente chiede se, al
fine di evitare possibili prassi elusive del patto
di stabilità interno, in presenza di riconoscimento
del debito ex art. 194, c. 1, e), e di idoneo
stanziamento, a cui non sia seguito entro
l’esercizio finanziario il relativo impegno di
spesa, sia possibile considerare impegnate le somme
dovute sullo stanziamento, dandone atto nel
rendiconto di gestione.
Anche in questo caso, la risposta al quesito è
negativa.
La soluzione prospettata dall’ente, infatti,
postulerebbe una modifica al regolamento di
contabilità che, nella fattispecie, trova ostacolo
nell’inderogabilità della disciplina degli “impegni
di spesa automatici” (art. 183, commi 2, 3, 5
del Tuel), sancita dall’art. 152, comma 4, del Tuel.
In prossimità della scadenza dell’esercizio
finanziario, la tempestiva formalizzazione
dell’impegno di spesa conseguente alla deliberazione
consiliare ex art. 194 del Tuel costituirebbe un
obiettivo prioritario per l’ente, proprio al fine di
scongiurare i rischi di elusione paventati
dall’ente, che esporrebbero il dirigente competente
alle possibili conseguenze sanzionatorie per
l’indebito miglioramento dei saldi rilevanti ai fini
del patto di stabilità interno connesso al suo
ritardo.
Venendo al terzo quesito, osserva il Collegio
che
qualora l’ente sia a conoscenza di un debito
fuori bilancio da sentenza esecutiva al termine
dell’esercizio, abbia il dovere di convocare con la
massima celerità il consiglio comunale ai fini della
tempestiva adozione dei provvedimenti di
riconoscimento e delle contestuali misure tese a
riportare in equilibrio la gestione (art. 193, comma
3, e 194 del Tuel) modificando, se necessario, le
priorità in ordine alle spese già deliberate per
assicurare la copertura delle passività insorte.
La consolidata giurisprudenza di questa Sezione ha
più volte evidenziato (cfr., ex multis, delibera n. 44/2013/PRSP e
deliberazione
15.03.2013 n. 21; in
termini, cfr. Ragioneria generale dello Stato,
circolare 07.02.2013 n. 5/2013) come
il rinvio di oneri
finanziari ad esercizi successivi rispetto a quello
in cui maturano i presupposti del riconoscimento può
costituire una prassi elusiva del patto di stabilità
interno, e dunque illecita, nella misura in cui
finisca per rinviare artificiosamente ad esercizi
futuri oneri finanziari di cui l’ente è -formalmente
o sostanzialmente- a conoscenza entro il termine
utile per la variazione di assestamento generale di
bilancio.
Nel caso particolare prospettato dall’ente, in cui
la passività da soccombenza giudiziaria emerga oltre
il termine per la variazione di assestamento
generale di bilancio (circostanza, quest’ultima,
comprovabile dalla data di comunicazione via PEC del
deposito del provvedimento), si ritiene che
l’amministrazione, in assenza di strumenti per
assicurare la copertura finanziaria della spesa,
abbia l’obbligo di approvare il nuovo bilancio di
previsione nel più breve termine possibile, ai fini
del celere riconoscimento della passività insorta.
In merito al rischio di azioni esecutive, la Sezione
riconosce che
il termine di 120 giorni dalla
notifica del titolo esecutivo previsto (art. 14, del
D.L. 31.12.1996, n. 669 convertito in L. n. 30/1997
e s.m.i.) per l’avvio di procedure esecutive nei
confronti della P.A. sia “sufficientemente ampio
per provvedere agli adempimenti di cui all'art. 194
del TUEL”, alla luce del principio di buon
andamento di cui all’art. 97 Cost.
(cfr. Corte dei
Conti, Sezione regionale di controllo per la Puglia, par. 9/2012, Sezione regionale di controllo per la
Campania,
parere 23.05.2013 n. 213).
Tale termine, ad avviso della Sezione,
è da
ritenersi “ragionevole” anche per consentire
all’ente di approvare celermente il nuovo bilancio
di previsione.
Condivisibili, a riguardo, appaiono le conclusioni
ermeneutiche cui approda la Sezione regionale di
controllo per la Campania (cfr.
parere 23.05.2013 n. 213, cit.), circa
l’impossibilità, durante il
periodo di esercizio provvisorio, di provvedere al
riconoscimento dei debiti fuori bilancio per via
dell’eccezionalità della fattispecie di cui all’art.
194 del Tuel rispetto alle ipotesi previste
dall’art. 163, comma 3, del Tuel, ma soprattutto per
la mancanza del bilancio d’esercizio, cui ricondurre
le passività emerse.
L’esigenza di urgente ripristino degli equilibri di
bilancio -recentemente assurti a rango
costituzionale– impone la necessità di abbreviare al
massimo, nella fattispecie, la durata dell’esercizio
provvisorio, che di per sé costituisce una fase
eccezionale e transitoria
(cfr., sul punto, Sezione
delle Autonomie, delibera n. 23/SEZAUT/2013/INPR).
Giova ricordare, peraltro, che
l’art. 191, comma 5,
del Tuel introduce forti limitazioni per gli enti
locali che presentino, nell’ultimo rendiconto
deliberato, disavanzo di amministrazione o che
indichino debiti fuori bilancio per i quali non sono
stati validamente adottati i provvedimenti di cui
all’art. 193 del Tuel, vietando agli stessi di
assumere impegni e pagare spese per servizi non
espressamente previsti per legge, salve le spese da
sostenere a fronte di impegni già assunti in
esercizi precedenti.
Con il quarto quesito, l’ente chiede se tra
le spese riconoscibili rientrino anche quelle
relative all’imposta di registro della sentenza, al
contributo unificato e alle spese legali.
A riguardo, il Collegio osserva che, al fine di
consentire un controllo del costo complessivo della
soccombenza da parte dell’organo consiliare (sì da
potere valutare anche le responsabilità ivi
annesse),
i debiti riconoscibili ex art. 194, comma
1, lett. a), del Tuel, sono quelli strettamente
riconducibili alla sentenza o al provvedimento
giudiziario esecutivo.
In tale ambito,
si ritiene possano rientrare anche
le spese di registrazione della sentenza
(cfr., in
termini, Sezione regionale di controllo per la
Sardegna,
parere
21.01.2009 n. 2),
che chi ha
assolto l’onere fiscale può ripetere dalla
controparte secondo le regole dell’azione di
regresso tra condebitori solidali, in coerenza con
la statuizione del giudice in punto di spese.
Sono da ritenere parimenti riconoscibili gli oneri
per il contributo unificato (costituenti spese di
giustizia, e dovuti in ogni caso dalla parte
soccombente nell’ipotesi di cui all’art. 13, comma
6-bis, del DPR n. 115/2002), nonché le spese legali
della parte vincitrice, entrambe di norma liquidate
dal giudice con il dispositivo in seno alle spese di
giudizio, secondo i criteri di cui all’art. 91 e ss.
del c.p.c..
Non rientrano, invece, nella fattispecie, le
eventuali altre spese collegate non al dispositivo
della sentenza, bensì ad autonome iniziative
dell’ente (ad esempio, incarichi di consulente
tecnico di parte, ecc.), semmai riconducibili, in
presenza dei relativi presupposti, alla fattispecie
di cui all’art. 194, c. 1, lett. e), del Tuel.
Si richiamano, a riguardo, i principi di
programmazione della spesa e di prudenza e
veridicità nella contabilizzazione, più volte
affermati dalla giurisprudenza contabile.
Alla stregua di quanto detto,
la Sezione ritiene che
tra le spese riconoscibili ex lett. a) possano
rientrare anche gli oneri legati al consulente
tecnico d’ufficio
(cfr. Sezione regionale di
controllo per la Lombardia,
parere 18.09.2012 n. 401),
la cui parcella è liquidata con
decreto dal giudice che ne pone provvisoriamente
l’onere del pagamento a carico di una o più parti
della causa, salva statuizione in sentenza circa la
parte definitivamente onerata a riguardo
(Corte dei
Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 29.04.2014 n. 55).
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IN EVIDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Una
volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d’emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pubblica Amministrazione solamente ai soggetti responsabili
dell’inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte
generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od
omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
Quindi, è necessario un rigoroso accertamento al fine di individuare il
responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il
comportamento del responsabile all’effetto consistente nella contaminazione,
accertamento che presuppone un’adeguata istruttoria non essendo
configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al
proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità.
---------------
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha specificato che:
1) il proprietario… è tenuto soltanto ad adottare le misure di
prevenzione … ovvero le iniziative per contrastare un evento, un atto o
un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per
l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi
un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al
fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia;
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di
bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della
contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il
profilo oggettivo, l’inquinamento …;
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non
provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto
interessato) gli interventi che risultassero necessari sono adottati
dall’amministrazione competente;
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere
recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra
l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile
ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei
confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in
rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato
del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi;
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un
onere reale e di un privilegio speciale immobiliare”.
---------------
Il Consiglio di Stato evidenzia, inoltre, che
“l’obbligo in capo al proprietario di procedere alla messa in sicurezza e
alla bonifica dell’area non potrebbe essere desunto neanche dai principi
civilistici in materia di responsabilità aquiliana e, in particolare, da
quello di cui all’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile
del custode). Tale criterio, infatti, da un lato, richiederebbe, comunque,
l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento
dell’inquinamento …e, dall’altro, sembra comunque porsi in contraddizione
con i precisi obblighi di imputazione di messa in sicurezza e di bonifica
previsti dalle norme in materia di tutela ambientale che dettano una
disciplina esaustiva della materia, non integrabile dalla sovrapposizione di
una normativa (quella del codice civile, appunto) ispirata a ben diverse
esigenze. Né vale invocare l’evoluzione subita dal sistema di responsabilità
civile verso la direzione del progressivo abbandono dei criteri di
imputazione fondati sulla sola colpa. Nel sistema di responsabilità civile,
rimane centrale, infatti, anche nelle fattispecie che prescindono
dall’elemento soggettivo, l’esigenza di accertare comunque il rapporto di
causalità tra la condotta e il danno, non potendo rispondere a titolo di
illecito civile colui al quale non sia imputabile neppure sotto il profilo
oggettivo l’evento lesivo”.
---------------
il proprietario incolpevole
(o il possessore incolpevole), a prescindere da qualunque esame in ordine al
nesso eziologico fra la condotta e l’evento dannoso, non potrebbe essere
chiamato a rispondere a titolo di oggettiva responsabilità imprenditoriale,
gravante su di esso in ragione del mero dato dominicale.
Sul punto vale richiamare ancora le puntuali argomentazioni rese dalla già
citata ordinanza dell’Adunanza Plenaria n. 21 del 2013, la quale ha
chiarito:
- che sia nelle ipotesi di danno ambientale disciplinate dalle
previsioni della direttiva 2004/35/CE, sia in quelle che restano regolate
dalle sole previsioni del Codice dell’Ambiente, non sono configurabili
ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale nella
determinazione del danno;
- che il sub-sistema normativo di cui al decreto legislativo n. 152
del 2006 reca un preciso criterio di imputazione della responsabilità da
inquinamento (il quale si innesta sulla più volte richiamata necessità del
nesso eziologico), non ammettendo ulteriori, diversi e più sfavorevoli
criteri di imputazione;
- che, in particolare, il vigente quadro normativo nazionale non
ammette un criterio di imputazione basato su di una sorta di responsabilità
di posizione del proprietario incolpevole (secondo un modello che
implicherebbe la responsabilità patrimoniale di quest’ultimo non solo in
assenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, ma anche in assenza
dell’elemento oggettivo della mera riferibilità sul piano eziologico).
---------------
Alla luce degli atti di causa devono essere, invece, accolte le doglianze di
insufficienza dell’istruttoria e della motivazione in relazione
all’imposizione alla ricorrente di interventi di messa in sicurezza di
emergenza della falda superficiale e profonda.
La consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V,
30.07.2015, n. 3756, Cons. Stato, Sez. VI, 05.10.2016 n. 4099) ha avuto modo
di chiarire che “una volta riscontrato un fenomeno di potenziale
contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale
possono essere imposti dalla Pubblica Amministrazione solamente ai soggetti
responsabili dell’inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in
parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo
od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità
affermando, altresì, che è, quindi, necessario un rigoroso accertamento al
fine di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di
causalità che lega il comportamento del responsabile all’effetto consistente
nella contaminazione, accertamento che presuppone un’adeguata istruttoria
non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo
al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola
qualità”.
Nella vicenda in esame difetta il necessario e preventivo accertamento della
qualità di soggetto responsabile dell’inquinamento in capo alla ricorrente,
con la conseguenza che gli obblighi imposti risultano derivare dalla mera
qualifica di proprietario e possessore dell’area e, dunque, dal mero
collegamento materiale con essa, a prescindere dalla preliminare e
necessaria verifica della qualità della Fi.Au. s.p.a. quale soggetto
responsabile dell’inquinamento.
Gli obblighi in tal modo imposti risultano, pertanto, illegittimi.
Tale lettura è conforme agli approdi interpretativi cui è giunta l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato nella ordinanza n. 21 del 25.09.2013 che ha
specificato che, dal quadro normativo dell’epoca, come anche precisato dalle
successive disposizioni adottate dal legislatore, “emergono le seguenti
regole: 1) il proprietario… è tenuto soltanto ad adottare le misure di
prevenzione … ovvero le iniziative per contrastare un evento, un atto o
un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per
l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi
un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al
fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia;
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione,
cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo
oggettivo, l’inquinamento …;
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda
spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato) gli
interventi che risultassero necessari sono adottati dall’amministrazione
competente;
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere
recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra
l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile
ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei
confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in
rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato
del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi;
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere
reale e di un privilegio speciale immobiliare”.
Nella citata ordinanza del Consiglio di Stato si evidenzia che “l’obbligo
in capo al proprietario di procedere alla messa in sicurezza e alla bonifica
dell’area non potrebbe essere desunto neanche dai principi civilistici in
materia di responsabilità aquiliana e, in particolare, da quello di cui
all’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode).
Tale criterio, infatti, da un lato, richiederebbe, comunque, l’accertamento
della qualità di custode dell’area al momento dell’inquinamento …e,
dall’altro, sembra comunque porsi in contraddizione con i precisi obblighi
di imputazione di messa in sicurezza e di bonifica previsti dalle norme in
materia di tutela ambientale che dettano una disciplina esaustiva della
materia, non integrabile dalla sovrapposizione di una normativa (quella del
codice civile, appunto) ispirata a ben diverse esigenze. Né vale invocare
l’evoluzione subita dal sistema di responsabilità civile verso la direzione
del progressivo abbandono dei criteri di imputazione fondati sulla sola
colpa. Nel sistema di responsabilità civile, rimane centrale, infatti, anche
nelle fattispecie che prescindono dall’elemento soggettivo, l’esigenza di
accertare comunque il rapporto di causalità tra la condotta e il danno, non
potendo rispondere a titolo di illecito civile colui al quale non sia
imputabile neppure sotto il profilo oggettivo l’evento lesivo”.
Nel caso in questione, nel quale, dai dati disponibili, la contaminazione
della falda appare provenire dalla zona a monte idrogeologico del sito e,
dunque, da aree esterne allo stabilimento di Fi.Au., nonché da sostanze
diverse da quelle ivi utilizzate, non risulta, in sostanza, accertata la
responsabilità della ricorrente nell’inquinamento del sito, neppure sotto il
profilo del nesso di causalità tra l’attività dalla stessa svolta e la
predetta situazione di inquinamento, onde, allo stato, la posizione della
società non può essere assimilata a quella dell’operatore “responsabile
dell’inquinamento”.
Sulla scorta della giurisprudenza amministrativa ormai maggioritaria non può
neppure sostenersi che il carattere eminentemente cautelare (e non anche
latu sensu sanzionatorio) delle prescrizioni impartite non
contrasterebbe con (ma anzi risulterebbe imposta dal) l’applicazione del
principio “chi inquina paga” in forza del principio di precauzione.
Va in proposito osservato che la direttiva 2004/35/CE (la quale declina in
puntuali statuizioni i richiamati principi comunitari e fornisce indici
ermeneutici di grande rilievo sistematico) non opera alcuna distinzione, per
quanto riguarda la necessaria sussistenza del nesso eziologico in punto di
causazione del danno, fra le misure di prevenzione e le misure di
riparazione di cui all’articolo 2, punti 10 e 11.
Al contrario, in entrambi i casi l’insussistenza di un nesso eziologico fra
la condotta dell’operatore e l’evento dannoso vale ad escludere qualsiasi
conseguenza a suo carico, sia per ciò che riguarda le misure di prevenzione,
sia per quanto riguarda le misure di riparazione in senso proprio.
Allo stesso modo, il proprietario incolpevole (o il possessore incolpevole),
a prescindere da qualunque esame in ordine al nesso eziologico fra la
condotta e l’evento dannoso, non potrebbe essere chiamato a rispondere a
titolo di oggettiva responsabilità imprenditoriale, gravante su di esso in
ragione del mero dato dominicale.
Sul punto vale richiamare ancora le puntuali argomentazioni rese dalla già
citata ordinanza dell’Adunanza Plenaria n. 21 del 2013, la quale ha
chiarito:
- che sia nelle ipotesi di danno ambientale disciplinate dalle
previsioni della direttiva 2004/35/CE, sia in quelle che restano regolate
dalle sole previsioni del Codice dell’Ambiente, non sono configurabili
ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale nella
determinazione del danno;
- che il sub-sistema normativo di cui al decreto legislativo n. 152
del 2006 reca un preciso criterio di imputazione della responsabilità da
inquinamento (il quale si innesta sulla più volte richiamata necessità del
nesso eziologico), non ammettendo ulteriori, diversi e più sfavorevoli
criteri di imputazione;
- che, in particolare, il vigente quadro normativo nazionale non
ammette un criterio di imputazione basato su di una sorta di responsabilità
di posizione del proprietario incolpevole (secondo un modello che
implicherebbe la responsabilità patrimoniale di quest’ultimo non solo in
assenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, ma anche in assenza
dell’elemento oggettivo della mera riferibilità sul piano eziologico).
Non è, inoltre, condivisibile la tesi ministeriale secondo cui il principio
“chi inquina paga” dovrebbe essere inteso nel senso che la locuzione
“chi” vada riferita anche a colui che, con la propria condotta
omissiva o negligente, nulla faccia al fine di ridurre o eliminare
l’inquinamento.
Sul punto l’Adunanza Plenaria ha chiarito che il più volte richiamato
criterio di imputazione induce a riferire correttamente la condotta foriera
di inquinamento (e i conseguenti profili di responsabilità) all’attività di
un operatore economico e non già a quella del proprietario incolpevole che
non abbia adottato misure adeguate a fronte dell’inquinamento “causato”
(secondo una locuzione peraltro impropria) dal terreno di sua proprietà.
Né risulta fondata l’argomentazione secondo cui, laddove non si esigesse dal
proprietario del sito una diligenza particolarmente qualificata in relazione
a possibili e pregressi fenomeni di inquinamento, il modello normativo si
presterebbe ad applicazioni formalistiche e ad escamotages di
carattere elusivo.
Si rinvia, in proposito, agli argomenti ed alle considerazioni svolte
dall’Adunanza Plenaria nell’esame del sistema di responsabilità delineato
dal Codice dell’Ambiente, il quale esclude, come già evidenziato, la
responsabilità del proprietario per tali fattispecie.
Poiché, dunque, gli interventi di messa in sicurezza di emergenza
consistono, a norma dell’art. 2 del DM Ambiente n. 471/1999, nella rimozione
delle fonti inquinanti e l’esecuzione delle opere di ripristino e presidio,
secondo quanto prescritto dall’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997, deve essere
posta a carico del soggetto che inquina, i provvedimenti impugnati –nella
parte in cui ingiungono tali adempimenti a Fi.Au. s.p.a.- devono essere
annullati
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.09.2019 n. 10757 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
forza dell’espresso disposto dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, il
proprietario risponde della bonifica del suolo di sua proprietà non a titolo
di responsabilità oggettiva ma soltanto ove responsabile quanto meno a
titolo di colpa, anche omissiva, per non aver approntato l’adozione delle
cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà e preservarla
dall’abusivo abbandono dei rifiuti.
Per accertare la rimproverabilità della condotta occorre che gli organi
preposti al controllo svolgano approfonditi accertamenti in contraddittorio
con i soggetti interessati, di talché, in mancanza, non possono porsi
incombenti a carico dei proprietari delle aree.
Peraltro, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può
arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, estesa alle ore
notturne, tale da impedire ad estranei di invadere l’area e, per quanto
riguarda la fattispecie regolata dall’art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006 di
abbandonarvi rifiuti, posto che la richiesta di un impegno di tale entità
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del
buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa.
---------------
Sussiste la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento
in contraddittorio della condizione dei luoghi, dovendosi consentire al
soggetto nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere
rivolto –sia esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il
proprietario dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o
colpa- la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, sulla base di elementi precisi e
circostanziati, a verificare l’entità e le modalità concrete con cui gli
sversamenti si sono svolti nel tempo e più in generale lo stato di incuria e
di protratto abbandono dei luoghi.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza sindacale n. 17 del 26.04.2018,
notificata in data 09.05.2018, ad oggetto la rimozione e smaltimento dei
rifiuti e bonifica del terreno circostante la Masseria del Cardinale–Qualiano
– art. 192 D.lgs. 152 del 03.04.2006;
...
4. Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
5. Deve anzitutto osservarsi che l’ordinanza gravata è riconducibile,
conformemente al contenuto ed al fine cui è diretta, all’ordinario potere
d’intervento attribuito al Sindaco dall’art. 192 del Codice dell’Ambiente,
in caso di accertato abbandono o deposito incontrollato di rifiuti.
5.1 In forza dell’espresso disposto dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del
2006, il proprietario risponde della bonifica del suolo di sua proprietà non
a titolo di responsabilità oggettiva ma soltanto ove responsabile quanto
meno a titolo di colpa, anche omissiva, per non aver approntato l’adozione
delle cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà e preservarla
dall’abusivo abbandono dei rifiuti. Per accertare la rimproverabilità della
condotta occorre che gli organi preposti al controllo svolgano approfonditi
accertamenti in contraddittorio con i soggetti interessati, di talché, in
mancanza, non possono porsi incombenti a carico dei proprietari delle aree (ex
multis, C.d.S. sez. V, 17.07.2014, n. 3786; TAR Campania, Napoli, sez.
V, 03.10.2018, n. 5783; TAR Puglia, Bari, sez. I, 24.03.2017, n. 287 e
30.08.2016, n. 1089).
Peraltro, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può
arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, estesa alle ore
notturne, tale da impedire ad estranei di invadere l’area e, per quanto
riguarda la fattispecie regolata dall’art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006 di
abbandonarvi rifiuti, posto che la richiesta di un impegno di tale entità
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del
buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa (cfr., ex
plurimis: C. di Stato, Sez. V, 08.03.2005, n. 935; TAR Campania, sez. V,
03.03.2014, n. 1294 e 05.08.2008, n. 9795);
5.2 Così qualificata l’ordinanza de qua e individuati i presupposti
per la sua adozione, va rimarcato che, nel caso di specie, la stessa non è
stata preceduta da adeguata istruttoria, di talché non può dirsi accertato
l’elemento soggettivo della responsabilità.
Invero, è mancato lo svolgimento di specifici accertamenti in
contraddittorio con gli interessati da parte dei soggetti preposti al
controllo prima di imporre l’obbligo di rimozione, smaltimento o avvio al
recupero dei rifiuti, che, in subiecta materia, si aggiunge all’onere
di comunicazione di avvio del procedimento, ponendosi quale specifico dovere
dell'Amministrazione e presupposto per l’adozione della relativa ordinanza,
in funzione dell’accertamento dell’elemento psicologico del dolo o
quantomeno della colpa, che, come visto, deve sorreggere la condotta
omissiva secondo l’interpretazione fornita dalla richiamata giurisprudenza.
Sussiste la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento
in contraddittorio della condizione dei luoghi, dovendosi consentire al
soggetto nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere
rivolto –sia esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il
proprietario dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o
colpa- la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, sulla base di elementi precisi e
circostanziati, a verificare l’entità e le modalità concrete con cui gli
sversamenti si sono svolti nel tempo e più in generale lo stato di incuria e
di protratto abbandono dei luoghi.
Del resto, eventuali profili di colpa non possono essere desunti dalle
generiche affermazioni di principio contenute nella motivazione
dell’ordinanza e tali da risultare, addirittura, slegati dagli accertamenti
condotti dagli organi di polizia giudiziaria che, sia pure sotto il profilo
penale, hanno escluso ogni coinvolgimento in ordine al furtivo sversamento.
Peraltro, nemmeno risulta adeguatamente valutata dall’amministrazione la
circostanza che sin dal 2004 è stata apposta dai proprietari dei fondi
un’apposita recinzione con rete metallica lungo il perimetro dell'area de
qua per impedirne l’accesso e che la stessa risulta abusivamente divelta
ad opera di ignoti ed oltrepassata furtivamente, presumibilmente al momento
dello sversamento, come rimarcato dai ricorrenti e anche in assenza di
elementi che possano consentire di ritenere accertato il contrario.
5.3 Da ciò il difetto di istruttoria e di motivazione in ordine ai
presupposti per l’imputabilità soggettiva dello sversamento dei rifiuti ai
ricorrenti.
6. In conclusione il ricorso è accolto nei termini di cui in motivazione,
con conseguente annullamento dell’ordinanza sindacale gravata
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 03.09.2019 n. 4448 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
pubblica amministrazione non può imporre al proprietario di un'area
contaminata, che non sia (anche) l'autore dell'inquinamento, l'obbligo di
attuare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica di cui
all'art. 240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. 03.04.2006, n. 152, in quanto gli
effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto
espressamente previsto dall'art. 253 del medesimo decreto in tema di oneri
reali e privilegio speciale immobiliare.
Invero, “Da una piana lettura degli articoli 240, lettere i), m) ed n), 242
e 245, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006, alla luce del principio “chi inquina
paga” espresso dall’art. 191, par. 2, del TFUE e ribadito dall’art. 239,
comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 152/2006, emerge infatti che il solo
soggetto responsabile dell’inquinamento è tenuto, ai sensi del citato 242,
ad eseguire (oltre alle misure di prevenzione, la cui definizione è
contenuta nella lettera i) del citato articolo 240) anche le misure di messa
in sicurezza di emergenza e le opere di bonifica. Il proprietario dell’area
che non sia responsabile dell’inquinamento deve invece provvedere, ai sensi
del menzionato comma 2 dell’art. 245, a dare comunicazione dell’inquinamento
alla Regione, alla Provincia ed al Comune territorialmente competente,
nonché ad attuare unicamente le “misure di prevenzione”, con esclusione
delle più gravose misure costituite dalla messa in sicurezza d’emergenza e
dalla bonifica (il cui obbligo di attuazione grava, in entrambi i casi,
solamente sul soggetto responsabile dell’inquinamento)”.
Altresì, nell’esaminare la portata dell’art. 245, comma 2, del T.U., la
giurisprudenza ha statuito che “…. letta alla stregua del principio
giurisprudenziale comunitario sopra richiamato, il Collegio condivide quanto
sostenuto da parte ricorrente in ordine al fatto che in capo ai soggetti non
responsabili del fatto causativo del potenziale inquinamento non possa
essere addebitato alcun obbligo di intervento al di fuori dell’invio della
comunicazione ex art. 245 e della implementazione di eventuali misure di
prevenzione; agli stessi, nondimeno, è riconosciuta una mera facoltà di
intervenire spontaneamente nel procedimento per evitare di perdere la
proprietà/disponibilità dell’area a seguito dell’esercizio dell’onere reale
da parte della P.a.: facoltà che, anche ove manifestata (per l’area in
proprietà), tuttavia non può costituire il presupposto per l’emanazione di
un obbligo per interventi urgenti e di ripristino anche nelle aree
limitrofe”.
INsomma, il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento, “…. ai
sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di
prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative
per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia
imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
---------------
6.1 Ad ogni modo, sul punto di diritto questa Sezione si riporta alle
riflessioni sviluppate nella propria precedente pronuncia 24/09/2018 n. 897,
per cui <<la pubblica amministrazione non può imporre al proprietario di
un'area contaminata, che non sia (anche) l'autore dell'inquinamento,
l'obbligo di attuare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di
bonifica di cui all'art. 240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. 03.04.2006, n.
152, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano
limitati a quanto espressamente previsto dall'art. 253 del medesimo decreto
in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare (cfr. TAR Toscana,
sez. II – 19/06/2018 n. 882 e la giurisprudenza richiamata).
Come evidenziato da TAR Veneto, sez. III – 22/03/2018 n. 333, “Da una piana
lettura degli articoli 240, lettere i), m) ed n), 242 e 245, comma 2, del
D.Lgs. n. 152/2006, alla luce del principio “chi inquina paga” espresso
dall’art. 191, par. 2, del TFUE e ribadito dall’art. 239, comma 1, del
medesimo D.Lgs. n. 152/2006, emerge infatti che il solo soggetto
responsabile dell’inquinamento è tenuto, ai sensi del citato 242, ad
eseguire (oltre alle misure di prevenzione, la cui definizione è contenuta
nella lettera i) del citato articolo 240) anche le misure di messa in
sicurezza di emergenza e le opere di bonifica. Il proprietario dell’area che
non sia responsabile dell’inquinamento deve invece provvedere, ai sensi del
menzionato comma 2 dell’art. 245, a dare comunicazione dell’inquinamento
alla Regione, alla Provincia ed al Comune territorialmente competente,
nonché ad attuare unicamente le “misure di prevenzione”, con esclusione
delle più gravose misure costituite dalla messa in sicurezza d’emergenza e
dalla bonifica (il cui obbligo di attuazione grava, in entrambi i casi,
solamente sul soggetto responsabile dell’inquinamento)”.
Anche il TAR Palermo, sez. I – 11/05/2018 n. 1061, nell’esaminare la portata
dell’art. 245, comma 2, del T.U. ha statuito che “…. letta alla stregua del
principio giurisprudenziale comunitario sopra richiamato, il Collegio
condivide quanto sostenuto da parte ricorrente in ordine al fatto che in
capo ai soggetti non responsabili del fatto causativo del potenziale
inquinamento non possa essere addebitato alcun obbligo di intervento al di
fuori dell’invio della comunicazione ex art. 245 e della implementazione di
eventuali misure di prevenzione; agli stessi, nondimeno, è riconosciuta una
mera facoltà di intervenire spontaneamente nel procedimento per evitare di
perdere la proprietà/disponibilità dell’area a seguito dell’esercizio
dell’onere reale da parte della P.a.: facoltà che, anche ove manifestata
(per l’area in proprietà), tuttavia non può costituire il presupposto per
l’emanazione di un obbligo per interventi urgenti e di ripristino anche
nelle aree limitrofe”>>.
Il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento, “…. ai sensi
dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di
prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative
per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia
imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” (TAR Piemonte, sez. I –
12/09/2016 n. 1142, che risulta appellata; Consiglio di Stato, sez. VI –
05/10/2016 n. 4119)”.
6.2 Nello specifico, non risulta che l’amministrazione procedente abbia
effettuato approfondimenti sul tema illustrato (in particolare, sulla
concreta riconduzione degli interventi imposti nell’alveo delle “misure
di prevenzione”), e detta omissione integra un ulteriore deficit
istruttorio nell’ambito del procedimento intrapreso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 30.08.2019 n. 790 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento
ed eventuali responsabilità della curatela fallimentare.
In sede di applicazione
dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza dell'individuazione di una
univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso sull'abbandono
dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla
curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore
non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare
ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo
dell'impresa fallita.
Si è pertanto evidenziato, in applicazione di tale orientamento
giurisprudenziale, che "il curatore fallimentare non è correttamente
individuato come soggetto passivo dei sopra indicati obblighi di facere dal
momento che a tale organo della procedura fallimentare sono solo attribuiti
poteri di disporre dei beni fallimentari in vista delle finalità proprie
della procedura concorsuale, senza che ciò comporti l'attribuzione allo
stesso del dovere di adottare comportamenti attivi come richiesti
dall'ordinanza impugnata, poiché il curatore fallimentare non subentra negli
obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito, salvo quanto può essere più specificamente connesso all'eventuale
esercizio provvisorio dell'impresa”.
Ciò in quanto la curatela fallimentare non può essere destinataria di
ordinanze dirette alla bonifica di siti, per effetto del precedente
comportamento (omissivo o commissivo) dell'impresa fallita, posto che, tra
l’altro, il curatore, nell’espletamento del munus publicum, pur
potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr.
l'art. 72 R.D. n. 267 del 1942), in via generale «non è rappresentante,
né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo
patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (Cassazione
civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926)» (...), avendo il fallimento
finalità meramente liquidatorie.
Ed invero, per un verso, la «soluzione
opposta «determinerebbe un sovvertimento del principio "chi inquina paga"
scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con
l'inquinamento» (...). Correlativamente, il fallimento non acquista la
titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi
diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum
rivestito dagli organi della procedura (...). Su di lui non incombono né gli
obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che
lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della
procedura concorsuale. La curatela fallimentare, pertanto, non subentra
«negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità
dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione
dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla
legittimazione passiva dell'ordine di bonifica».
Alla luce di tali principi si è pertanto ritenuto che l’eccezione al difetto
di legittimazione passiva della Curatela potrebbe aversi nell’ipotesi di
autorizzazione da parte del competente Tribunale fallimentare all’esercizio
provvisorio, ai sensi dell'art. 90 l.fall., atteso che solo in tale ipotesi
la curatela non avrebbe esclusivamente finalità liquidatorie della massa
fallimentare.
Detti principi sono stati invero sostenuti dalla giurisprudenza di questa
Sezione e sono stati ribaditi anche dalla giurisprudenza recente secondo cui “È illegittima l'ordinanza con
cui il Sindaco ordina al curatore fallimentare di procedere alla messa in
sicurezza e allo smaltimento dei sali di cianuro presenti presso
l'insediamento produttivo sul quale l'azienda fallita aveva svolto la
propria attività d'impresa, atteso che fatta salva l'eventualità di
un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare in
punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non può essere
destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze
sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del precedente
comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando la
medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del fallito e non
sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare particolari
comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili
destinati alla bonifica da fattori inquinanti”.
---------------
La giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni che, in caso
di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può
essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo
carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso
soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione
in pristino.
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di
abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere
dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento",
accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a
recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei
luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di
dolo o di colpa.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente
vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di
cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità
degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base
di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità
soggettiva della condotta.
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva,
nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili
della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento,
occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo
o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale
responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato
l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o
a verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile
(anche) a responsabilità della Curatela ricorrente una presunta culpa in
vigilando di quest'ultima (comunque non evidenziata nel gravato
provvedimento) non sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la
responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato
l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva
immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a
carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode,
sarebbe inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva
che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ.
il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito
(da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della
colpa esclusiva del danneggiato).
---------------
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192
D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e
smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle
aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente
in motivazione;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva,
in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti
preposti al controllo.
Per la costante giurisprudenza in materia vi è infatti la necessità
dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i
soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di
carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del
procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006,
nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere
effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente
osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa.
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato, deve ritenersi la necessità, nella specifica materia
ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei
luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione
che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di
comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto
nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia
esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario
dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data
la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei
luoghi.
---------------
10. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente richiama un
costante orientamento giurisprudenziale, noto alla Sezione, che peraltro non
appare pertinente rispetto al caso di specie, fondandosi esso sul difetto di
legittimazione passiva della Curatela in relazione alle attività di
inquinamento e di sversamento dei rifiuti ricollegabili all’impresa in
bonis, in quanto verificatesi in data anteriore al fallimento.
10.1. Ed invero, in base a tale giurisprudenza, "in sede di applicazione
dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza dell'individuazione di una
univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso sull'abbandono
dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla
curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore
non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare
ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo
dell'impresa fallita” (TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 08.02.2016 n. 1804;
TRGA Trentino Alto Adige, Trento, Sez. Unica, 24.11.2017, n. 309).
Si è pertanto evidenziato, in applicazione di tale orientamento
giurisprudenziale, che "il curatore fallimentare non è correttamente
individuato come soggetto passivo dei sopra indicati obblighi di facere dal
momento che a tale organo della procedura fallimentare sono solo attribuiti
poteri di disporre dei beni fallimentari in vista delle finalità proprie
della procedura concorsuale, senza che ciò comporti l'attribuzione allo
stesso del dovere di adottare comportamenti attivi come richiesti
dall'ordinanza impugnata, poiché il curatore fallimentare non subentra negli
obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito, salvo quanto può essere più specificamente connesso all'eventuale
esercizio provvisorio dell'impresa” (TAR Toscana, Firenze, sez. III,
27.10.2015 n. 1457; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 05.01.2016, n. 1).
Ciò in quanto la curatela fallimentare non può essere destinataria di
ordinanze dirette alla bonifica di siti, per effetto del precedente
comportamento (omissivo o commissivo) dell'impresa fallita, posto che, tra
l’altro, il curatore, nell’espletamento del munus publicum, pur
potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr.
l'art. 72 R.D. n. 267 del 1942), in via generale «non è rappresentante,
né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo
patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (Cassazione
civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926)» (...), avendo il fallimento
finalità meramente liquidatorie.
Ed invero, per un verso, la «soluzione
opposta «determinerebbe un sovvertimento del principio "chi inquina paga"
scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con
l'inquinamento» (...). Correlativamente, il fallimento non acquista la
titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi
diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum
rivestito dagli organi della procedura (...). Su di lui non incombono né gli
obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che
lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della
procedura concorsuale. La curatela fallimentare, pertanto, non subentra
«negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità
dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione
dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla
legittimazione passiva dell'ordine di bonifica» (TAR Puglia, Lecce, sez.
III, 11.05.2017 n. 746).
Alla luce di tali principi si è pertanto ritenuto che l’eccezione al difetto
di legittimazione passiva della Curatela potrebbe aversi nell’ipotesi di
autorizzazione da parte del competente Tribunale fallimentare all’esercizio
provvisorio, ai sensi dell'art. 90 l.fall., atteso che solo in tale ipotesi
la curatela non avrebbe esclusivamente finalità liquidatorie della massa
fallimentare (TAR Puglia, Lecce, I, 19.02.2014 n. 504; TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 09.01.2017 n. 38).
Detti principi sono stati invero sostenuti dalla giurisprudenza di questa
Sezione (cfr. la sentenza 829/2018 del 08.02.2018) e sono stati ribaditi
anche dalla giurisprudenza recente (cfr. ex multis TAR Puglia Lecce
Sez. II, 16/04/2019, n. 611 secondo cui “È illegittima l'ordinanza con
cui il Sindaco ordina al curatore fallimentare di procedere alla messa in
sicurezza e allo smaltimento dei sali di cianuro presenti presso
l'insediamento produttivo sul quale l'azienda fallita aveva svolto la
propria attività d'impresa, atteso che fatta salva l'eventualità di
un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare in
punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non può essere
destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze
sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del precedente
comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando la
medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del fallito e non
sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare particolari
comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili
destinati alla bonifica da fattori inquinanti”).
10.2. Detto motivo di ricorso peraltro, come innanzi accennato, non è
meritevole di accoglimento, postulando la richiamata giurisprudenza la
circostanza che lo sversamento dei rifiuti si sia verificato in data
anteriore al fallimento –tanto è vero che l’eccezione a tali principi è data
dalla circostanza che vi sia stata autorizzazione da parte del competente
Tribunale fallimentare all’esercizio provvisorio, ai sensi dell'art. 90
l.fall.– mentre nell’ipotesi di specie dalle stesse deduzioni di parte
ricorrente e dagli atti istruttori richiamati nell’ordinanza gravata risulta
che lo sversamento dei rifiuti, sub specie di discarica abusiva, era
imputabile alla società cui era stato sublocato l’immobile; da ciò si desume
che dopo la dichiarazione di fallimento fosse ancora in essere il contratto
di locazione fra la Curatela del Fallimento -OMISSIS- e la -OMISSIS- , la
quale poi nel settembre del 2012 –ovvero dopo la dichiarazione di
fallimento– provvedeva a sublocare l’immobile di proprietà della ricorrente
alla società -OMISSIS-, che ivi operava l’illecito sversamento dei rifiuti.
11. Per contro fondato è il secondo motivo di ricorso, con cui parte
ricorrente deduce l’insussistenza del presupposto dell’imputabilità dello
sversamento dei rifiuti, dato dalla sussistenza di una corresponsabilità,
quanto meno colposa, e il difetto della relativa istruttoria e motivazione.
11.1 Ciò in considerazione del rilievo che nell’ordinanza gravata, da
qualificarsi, come chiaramente evincibile dall’obbligo imposto, come
ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti, ai sensi dell’art. 192 D.lgs.
152/2006, manca qualsiasi indicazione in ordine alla responsabilità per
colpa della Curatela, in qualità di soggetto proprietario.
11.2. Ed invero la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni (ex
multis, Cfr.: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004), che, in caso
di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può
essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo
carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso
soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e
rimessione in pristino (Cfr.: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR
Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di
abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere
dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento",
accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a
recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei
luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di
dolo o di colpa (Cfr.: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR
Umbria 10.03.2000, n. 253).
11.3. Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo
attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del
disposto di cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente
illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente
rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in
mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente,
sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione,
dell'imputabilità soggettiva della condotta (Cfr. C. di S., V, 19.3.2009, n.
1612, 25.08.2008, n. 4061).
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva,
nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili
della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento,
occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo
o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale
responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato
l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo
(TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
11.4. Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o
a verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile
(anche) a responsabilità della Curatela ricorrente, una presunta culpa in
vigilando di quest'ultima (comunque non evidenziata nel gravato
provvedimento) non sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la
responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato
l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva
immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a
carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode,
sarebbe inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva
che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ.
il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito
(da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della
colpa esclusiva del danneggiato).
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192
D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e
smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle
aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente
in motivazione;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva,
in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti
preposti al controllo (Cons. Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar
Campania Napoli Sez. V, n. 12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016;
945/2016; Tar Sardegna, Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n.
1068/2016).
11.5. Per la costante giurisprudenza in materia vi è infatti la necessità
dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i
soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo (Cons.
Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar Campania Napoli Sez. V, n.
12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016; 945/2016; Tar Sardegna,
Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n. 1068/2016).
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di
carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del
procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006,
nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere
effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente
osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa (ex multis TAR Campania, sez. V
03/03/2014 n. 1294).
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato (ordinanza, sez. IV, n.
2000 del 12.05.2017), deve ritenersi la necessità, nella specifica materia
ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei
luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione
che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di
comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto
nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia
esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario
dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data
la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei
luoghi.
11.6. Da ciò il difetto di istruttoria e di motivazione in ordine ai
presupposti per l’imputabilità soggettiva dello sversamento dei rifiuti alla
Curatela
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 29.08.2019 n. 4423 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
giurisprudenza si è espressa in materia di ordinanze sindacali per
rimozione/smaltimento rifiuti e obblighi di bonifica ravvisando,
essenzialmente, un principio di “non identità” tra gli obblighi dell’impresa
fallita e quelli spettanti (e suscettibili di ordine) alla curatela
fallimentare.
Al riguardo, è stato statuito quanto segue (difetto di legittimazione
passiva, per insussistenza di <obblighi> suscettibili di essere posti a
carico del Fallimento, a danno dei creditori):
* <<La curatela fallimentare non può essere destinataria di
ordinanze sindacali dirette alla bonifica dei siti inquinanti, sia in quanto
non sussiste alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti
attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla
bonifica da fattori inquinanti, sia perché la legittimazione passiva della
curatela fallimentare in tema di ordinanze sindacali di bonifica
determinerebbe un sovvertimento del principio " chi inquina paga ",
scaricando i costi sui creditori che non hanno alcun collegamento con
l'inquinamento>>;
* <<Non può essere richiesto al curatore un intervento che abbia lo
scopo di bonificare il sito dell'attività produttiva dell'impresa fallita
dopo la cessazione dell'attività di quest'ultima; in merito agli obblighi
dei curatori, fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara
responsabilità del curatore fallimentare sull'abbandono dei rifiuti, la
curatela fallimentare non può infatti essere destinataria, a titolo di
responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela
dell'ambiente per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo
dell'impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più
strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo,
per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti
attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla
bonifica da fattori inquinanti; invero, la società dichiarata fallita
conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio
patrimonio: solo ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di
inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda
dello spossessamento e, d'altra parte, il fallimento non acquista la
titolarità dei beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, la quale riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma,
a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli
organi della procedura>>;
* <<Il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia
un successore, dell'impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La
società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività
giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio. Solo, ne perde la
facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei
suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento.
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma
ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest'ultima
riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di
legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi
della procedura. Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo
subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito, in via generale,
non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante
nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri
conferitigli dalla legge. Nei confronti del Fallimento non è pertanto
ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare
il meccanismo estensivo, previsto dall'art. 194, comma 4, d.lgs. n. 152 del
2006, della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che
l'articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del
proprietario versante in dolo o colpa>>;
*<<È illegittima l'ordinanza con cui il Sindaco ordina al curatore
fallimentare di procedere alla messa in sicurezza di sostanze (un
sacco rotto contenente cianuro di sodio e allo smaltimento dei sali di
cianuro) presenti presso l'insediamento produttivo sul quale l'azienda
fallita aveva svolto la propria attività d'impresa, atteso che fatta salva
l'eventualità di un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore
fallimentare in punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non
può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di
ordinanze sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del
precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non
subentrando la medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del
fallito e non sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare
particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli
immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti>>;
* <<In tema di inquinamento, il potere del curatore di disporre dei
beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura.
concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta
necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi
finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da
fattori inquinanti e perciò la curatela fallimentare non subentra negli
obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con
conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione
passiva dell'ordine di bonifica>>.
In sostanza non può essere richiesto al Fallimento della società (in persona
del curatore) l’adozione di comportamenti “attivi”, con oneri di intervento,
in concreto, di bonifica del sito ove operava l’attività produttiva
(riferita all’impresa fallita).
La curatela fallimentare non può essere, dunque, destinataria, a titolo di
“responsabilità di posizione”, di provvedimenti diretti al
ripristino/bonifica dei territori, non subentrando essa negli obblighi
correlati all’eventuale responsabilità del fallito .
Posto che il Fallimento non acquista la titolarità dei beni ed il curatore è
solo un Amministratore, con potere di disporne, ma senza la vera e propria
“titolarità” dei relativi diritti. La sua legittimazione straordinaria trae
forza dal “munus publicum”, che caratterizza il ruolo del curatore, quale
organo di una procedura giudiziaria diretta alla tutela dei creditori.
---------------
La giurisprudenza si è espressa in materia (ordinanze sindacali
rimozione/smaltimento rifiuti e obblighi di bonifica), ravvisando,
essenzialmente, un principio di “non identità” tra gli obblighi
dell’impresa fallita e quelli spettanti (e suscettibili di ordine) alla
curatela fallimentare.
Per economia processuale si richiamano le seguenti pronunzie che delineano
tale orientamento (difetto di legittimazione passiva, per insussistenza di <obblighi>
suscettibili di essere posti a carico del Fallimento, a danno dei
creditori):
* <<La curatela fallimentare non può essere destinataria di
ordinanze sindacali dirette alla bonifica dei siti inquinanti, sia in quanto
non sussiste alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti
attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla
bonifica da fattori inquinanti, sia perché la legittimazione passiva della
curatela fallimentare in tema di ordinanze sindacali di bonifica
determinerebbe un sovvertimento del principio " chi inquina paga ",
scaricando i costi sui creditori che non hanno alcun collegamento con
l'inquinamento>> (TAR Catania, sez. I, 05/09/2018 n. 1764);
* <<Non può essere richiesto al curatore un intervento che abbia
lo scopo di bonificare il sito dell'attività produttiva dell'impresa fallita
dopo la cessazione dell'attività di quest'ultima; in merito agli obblighi
dei curatori, fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara
responsabilità del curatore fallimentare sull'abbandono dei rifiuti, la
curatela fallimentare non può infatti essere destinataria, a titolo di
responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela
dell'ambiente per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo
dell'impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più
strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo,
per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti
attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla
bonifica da fattori inquinanti; invero, la società dichiarata fallita
conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio
patrimonio: solo ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di
inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda
dello spossessamento e, d'altra parte, il fallimento non acquista la
titolarità dei beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, la quale riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma,
a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli
organi della procedura>> (TAR Emilia Romagna, sez. II, 03/10/2017 n.
644);
* <<Il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”,
ossia un successore, dell'impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La
società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività
giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio. Solo, ne perde la
facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei
suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento.
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma
ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest'ultima
riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di
legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi
della procedura. Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo
subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito, in via generale,
non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante
nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri
conferitigli dalla legge. Nei confronti del Fallimento non è pertanto
ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare
il meccanismo estensivo, previsto dall'art. 194, comma 4, d.lgs. n. 152 del
2006, della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che
l'articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del
proprietario versante in dolo o colpa>> (TAR Lombardia, Milano, sez. III,
03/03/2017 n. 520);
*<<È illegittima l'ordinanza con cui il Sindaco ordina al
curatore fallimentare di procedere alla messa in sicurezza di sostanze
(un sacco rotto contenente cianuro di sodio e allo smaltimento dei sali di
cianuro) presenti presso l'insediamento produttivo sul quale l'azienda
fallita aveva svolto la propria attività d'impresa, atteso che fatta salva
l'eventualità di un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore
fallimentare in punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non
può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di
ordinanze sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del
precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non
subentrando la medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del
fallito e non sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare
particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli
immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti>> (TAR Lombardia,
Milano, sez. III, 03/03/2017 n. 520);
* <<In tema di inquinamento, il potere del curatore di disporre
dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura.
concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta
necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi
finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da
fattori inquinanti e perciò la curatela fallimentare non subentra negli
obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con
conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione
passiva dell'ordine di bonifica>> (Consiglio di Stato, sez. V,
16/06/2009 n. 3885).
In sostanza non può essere richiesto al Fallimento della società (in persona
del curatore) l’adozione di comportamenti “attivi”, con oneri di
intervento, in concreto, di bonifica del sito ove operava l’attività
produttiva (riferita all’impresa fallita).
La curatela fallimentare non può essere, dunque, destinataria, a titolo di “responsabilità
di posizione”, di provvedimenti diretti al ripristino/bonifica dei
territori, non subentrando essa negli obblighi correlati all’eventuale
responsabilità del fallito .
Posto che il Fallimento non acquista la titolarità dei beni ed il curatore è
solo un Amministratore, con potere di disporne, ma senza la vera e propria “titolarità”
dei relativi diritti. La sua legittimazione straordinaria trae forza dal “munus
publicum”, che caratterizza il ruolo del curatore, quale organo di una
procedura giudiziaria diretta alla tutela dei creditori.
In conclusione, per questo primo aspetto (A), il ricorso va accolto per
carenza di legittimazione passiva del Fallimento quale soggetto responsabile
e obbligato “in proprio”, non avendo questo proseguito l’attività e
non avendo assunto alcun ruolo o veste operativa.
Con conseguente impossibile attribuzione di diretta ed autonoma
responsabilità per le azioni che sono state individuate dalla Provincia come
cause dell’inquinamento riscontrato nelle aree indicate sub “b” del
provvedimento (in solido con Sy. e Sa.)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 27.08.2019 n. 722 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: L’art.
192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla cui base è stata adottata l’ordinanza
in questione, prevede espressamente, al comma 3, che spetti al Sindaco
l'adozione dell'ordinanza con cui dispone le operazioni necessarie alla
rimozione, all'avvio a recupero e allo smaltimento dei rifiuti e al
ripristino dello stato dei luoghi, fissando altresì il termine entro cui
provvedere, decorso il quale si procede all'esecuzione in danno dei soggetti
obbligati e al recupero delle somme anticipate; e la giurisprudenza, anche
del Consiglio di Stato, ha ribadito in diverse pronunce tale indicazione di
competenza.
Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, il suddetto art. 192, comma 3,
del D.Lgs. n. 152 del 2006, che attribuisce espressamente al Sindaco la
competenza ad emanare ordinanze in materia di rimozione dei rifiuti, prevale
sulla norma generale di cui all’art. 107, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del
2000, in quanto disposizione speciale sopravvenuta.
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata è stata adottata dal Responsabile
dell'Area Tecnica del Comune invece che dal Sindaco, per cui la stessa è da
ritenersi viziata per incompetenza.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 11 prot. 3459 del 12.6.2013 del
Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di Trevenzuolo, notificata il
20.06.2013, con cui si è ordinato al Consorzio di Bonifica Veronese -ed in
caso di inottemperanza di quest'ultimo ai proprietari dei terreni- la
rimozione e smaltimento dei rifiuti solidi e dei limi nella fascia di
competenza identificata al foglio 28, mappali 23, 106, 24, 25 del Comune di
Trevenzuolo e il ripristino dello stato dei luoghi entro trenta giorni dal
ricevimento dell'atto, con invio all'Area Tecnica di copia della regolare
documentazione di avvenuto smaltimento nonché degli esiti del campionamento
delle matrici ambientali;
...
Con ordinanza n. 11, prot. n. 3459, del 12.06.2013 (doc. n. 2 in atti primo
deposito ricorrente), il Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di
Trevenzuolo ha ordinato al Consorzio di Bonifica Veronese la rimozione e
smaltimento dei rifiuti solidi e dei limi nella fascia di competenza
identificata al foglio 28, mappali 23, 106, 24, 25 del Comune di Trevenzuolo
e il ripristino dello stato dei luoghi, entro trenta giorni dal ricevimento
dell’atto, con invio all'Area Tecnica di copia della regolare documentazione
di avvenuto smaltimento nonché degli esiti del campionamento delle matrici
ambientali.
Nell’ordinanza si disponeva inoltre che, in caso di inottemperanza da parte
del Consorzio di Bonifica, all'esecuzione del provvedimento avrebbero dovuto
dare corso, nei successivi trenta giorni dalla notifica di apposita
comunicazione del Comune, i proprietari dell’area, e si avvisava che, in
caso di inottemperanza, il Comune avrebbe proceduto all'esecuzione degli
interventi in danno del soggetto obbligato, con recupero delle spese e fatta
salva l'applicazione delle sanzioni conseguenti alla violazione.
L’ordinanza è stata adottata sulla base delle segnalazioni dell’ARPAV che, a
seguito di un sopralluogo eseguito il 07.04.2011 lungo un tratto del fossato
del corso d’acqua Gamandone, in cui erano stati effettuati dei lavori di
escavazione di limo in data 10.03.2011 da parte del Consorzio di Bonifica,
aveva comunicato che nel materiale estratto e depositato lungo l'argine
risultavano presenti rifiuti mescolati al sedimento e concentrazioni di
cobalto e stagno superiori ai limiti di legge (come da analisi effettuate),
che impedivano il riutilizzo in loco del sedimento stesso.
Il superamento dei limiti di concentrazione era stato confermato anche dalle
analisi del 06.02.2013, commissionate dal Comune alla ditta Galileo Servizi.
Il 23.04.2013, si era tenuta, quindi, una riunione di coordinamento promossa
dal Comune di Trevenzuolo (presenti anche i rappresentanti di ARPAV, della
Provincia di Verona Settore Ambiente e del Consorzio di Bonifica), nelle cui
conclusioni si prevedeva che “il Comune di Trevenzuolo e/o il Consorzio,
anche di comune accordo, procederanno alla rimozione ed avvio a
recupero/smaltimento (il Consorzio parteciperà alla sola rimozione) dei
sedimenti e degli altri rifiuti presenti nell'area in questione, depositati
sul suolo e nel suolo, sulla base di un Programma di smaltimento approvato
dal Comune, ai sensi della DGRV 3560/1999” (verbale Conferenza di
servizi trasmesso dalla Provincia di Verona, doc. n. 6 in atti primo
deposito ricorrente), salva l'effettuazione di verifiche di fondo scavo del
canale Gamandone per accertare la potenziale contaminazione della matrice
ambientale, anche in relazione agli scarichi della ditta Anodall, indicata
come possibile responsabile della predetta contaminazione (come riferito nel
verbale della riunione di coordinamento e nella comunicazione 08.05.2013 a
firma del Responsabile del Settore Area Tecnica del Comune di Trevenzuolo).
Successivamente, il Comune, con una “nota integrativa alla riunione del
23.04.2013” dell'08.05.2013, comunicava al Consorzio e agli altri
partecipanti alla riunione che “il Comune di Trevenzuolo non intende
accollarsi responsabilità imputabili ad altri soggetti e sostenerne le
relative spese. Inoltre, essendo la procedura in ambito art. 192 del D. Lgs.
152/2006, indipendentemente da quanto stabilito in sede di riunione di
coordinamento, rimane di esclusiva competenza comunale…”, e precisava
che “il deposito dei sedimenti scavati dal fosso Gamandone, realizzato
sull'argine del fossato stesso è da considerarsi come deposito/abbandono
incontrollato di rifiuti ai sensi dell'art. 192 del D.Lgs. 152/2006 da parte
del Consorzio di Bonifica Veronese. Pertanto il Comune di Trevenzuolo
provvederà immediatamente a comunicare avvio di procedimento ai sensi art.
7-8-9-10 Legge 241/1990 al Consorzio di Bonifica Veronese ed ai proprietari
dei terreni, che rispondono in solido, affinché provveda entro il termine
indicato ad eseguire quanto indicato in tema di smaltimento e verifiche
analitiche sullo sfondo dello scavo accordate in sede di riunione di
coordinamento…” (doc. n. 12 in atti primo deposito ricorrente).
Il Comune ha, quindi, comunicato l’avviso di avvio del procedimento (nota
del 10.05.2013, prot. n. 2743, doc. n. 3 in atti primo deposito ricorrente)
finalizzato all’adozione dell’ordinanza per abbandono e deposito
incontrollato di rifiuti ex art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006 e ha
adottato l'ordinanza impugnata in questa sede, confermando poi, in riscontro
a quanto comunicato dal Consorzio con nota del 19.06.2013, le proprie prese
di posizione con lettera del 25.06.2013 (doc. n. 13 in atti primo deposito
ricorrente).
Il Consorzio, al solo fine di garantire la tutela dell'ambiente e in
particolare del suolo e del sottosuolo dei terreni in cui sono stati
depositati i materiali prelevati nel fossato Gamandone, tenendo altresì
conto della paventata comminatoria delle sanzioni, anche penali, derivanti
dalla mancata esecuzione dell'ordinanza, e riservandosi ogni iniziativa
volta all'accertamento dell’illegittimità degli atti posti in essere dal
Comune, nonché al recupero delle spese ed al risarcimento dei danni (vedi
nota prot. 12665 del 26.07.2014, doc. 14 in atti primo deposito ricorrente),
ha proceduto alla rimozione e smaltimento del materiale depositato lungo il
fossato, previa approvazione del piano di smaltimento da parte del Comune.
Il Consorzio, con il presente ricorso, impugna l’ordinanza comunale e i
relativi atti presupposti e connessi, lamentandone l’illegittimità per i
seguenti motivi di ricorso: ...
...
Il ricorso è fondato e va accolto con riferimento all’assorbente vizio di
incompetenza dedotto dal ricorrente Consorzio con il primo motivo di
ricorso.
L’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla cui base è stata adottata
l’ordinanza in questione, prevede, infatti, espressamente, al comma 3, che
spetti al Sindaco l'adozione dell'ordinanza con cui dispone le operazioni
necessarie alla rimozione, all'avvio a recupero e allo smaltimento dei
rifiuti e al ripristino dello stato dei luoghi, fissando altresì il termine
entro cui provvedere, decorso il quale si procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati e al recupero delle somme anticipate; e la
giurisprudenza, anche del Consiglio di Stato, ha ribadito in diverse
pronunce tale indicazione di competenza.
Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, il suddetto art. 192, comma 3,
del D.Lgs. n. 152 del 2006, che attribuisce espressamente al Sindaco la
competenza ad emanare ordinanze in materia di rimozione dei rifiuti, prevale
sulla norma generale di cui all’art. 107, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del
2000, in quanto disposizione speciale sopravvenuta (Cons. Stato, sez. V, n.
1684 del 2019; id., n. 4230 del 2017; id., n. 58 del 2016; id., n. 4635 del
2012; id., n. 3765 del 2009; TAR Campania Napoli, n. 1409 del 2018 e n. 3533
del 2017; TAR Puglia Bari n. 1232 del 2018; TAR Lombardia Brescia, n. 18 del
2019; Tar Veneto, n. 313 del 2019; TAR Campania, Salerno, n. 1644 del 2012;
TAR Emilia Romagna, Bologna, n. 61 del 2011).
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata è stata adottata dal Responsabile
dell'Area Tecnica del Comune invece che dal Sindaco, per cui la stessa è da
ritenersi viziata per incompetenza, con conseguente accoglimento del
primo motivo di ricorso ed assorbimento delle restanti censure, in
coerenza con le statuizioni di cui a Cons. Stato Ad. Plen. n. 5/2015 (in
particolare par. 8.3.1), considerato che il giudice amministrativo non può
esprimersi su poteri amministrativi non ancora esercitati dall’organo
competente.
L'accoglimento della domanda di annullamento per vizio di incompetenza, con
il conseguente necessario riesercizio del potere, esclude allo stato la
sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno (cfr., da ultimo,
Cons. Stato, n. 6320 del 2108, secondo cui l'annullamento del provvedimento
per vizi formali “…in quanto non contiene alcun accertamento in ordine
alla spettanza del bene della vita coinvolto nel provvedimento impugnato,
non consente di accogliere la domanda finalizzata al perseguimento della
pretesa sostanziale (come il risarcimento del danno)…omissis…prima del
riesercizio dell'azione amministrativa, è impossibile enucleare la
configurabilità di un collegamento causale tra il danno lamentato ed il
comportamento procedimentale dell'Amministrazione”; Cons. Stato n. 318
del 2014; vedi anche, tra le altre, Tar Catania, n. 966 del 2019)
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 26.08.2019 n. 943 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sull'ordinanza
sindacale di rimozione rifiuti abbandonati.
Per la costante giurisprudenza in materia vi è la necessità
dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i
soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di
carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del
procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006,
nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere
effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente
osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa.
Pertanto, deve ritenersi la necessità, nella specifica materia
ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei
luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione
che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di
comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto
nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia
esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario
dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data
la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei
luoghi.
Ciò posto irrilevante si palesa la circostanza che alla ricorrente, prima
dell’adozione dell’ordinanza sindacale sia stata inviata in precedenza la
diffida del pari oggetto di gravame, in primo luogo in quanto dal contenuto
della stessa non si poteva desumere la sua natura di atto endoprocedimentale,
volto a favorire in primo luogo la partecipazione procedimentale -non
essendovi tra l’altro nella stessa alcun riferimento alla possibilità di
presentare memorie e o documenti ex art. 10 l. 241/1990- ed in secondo luogo
in quanto, come detto, nella specifica materia ambientale non è sufficiente
la mera comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 l. 241/1990, ma è
necessario quel quid pluris dato dagli accertamenti in
contraddittorio, per cui deve essere data la possibilità alla parte
destinataria dell’ordinanza di partecipare all’istruttoria procedimentale ed
in particolare ai sopralluoghi.
---------------
In caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario
non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o
deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene
individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per
cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di
rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di
abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere
dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento",
accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a
recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei
luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di
dolo o di colpa.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente
vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di
cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità
degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base
di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità
soggettiva della condotta.
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva,
nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili
della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento,
occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo
o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale
responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato
l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
---------------
Il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo, non può arrivare
al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte,
per impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto riguarda la
fattispecie regolata dall'art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 22 del 1997 (ora
art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta
di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni
della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è alla base della
nozione di colpa.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato
l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva
immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a
carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode, è
inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che,
però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ. il
quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da
intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della
colpa esclusiva del danneggiato).
Ciò senza mancare di rilevare che in base ad un condivisibile orientamento
giurisprudenziale l'obbligo di diligenza va valutato
secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va
esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile
evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente
sproporzionato; in tale ottica la mancata recinzione del fondo, con effetto contenitivo dubitabile, atteso che non sempre la presenza di una recinzione
è di ostacolo allo sversamento dei rifiuti, non può comunque costituire di
per sé prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando la
recinzione una facoltà e non un obbligo.
Come osservato dalla giurisprudenza “L’obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole
esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa
anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un
sacrificio obiettivamente sproporzionato. Insomma è ben diverso il mantenere
in stato di corretta manutenzione e di pulizia le opere gestite dal
rimuovere gli effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti commessi
da terzi ignoti”.
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192
D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e
smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle
aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente
in motivazione;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva,
in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti
preposti al controllo.
---------------
11. Ciò posto, qualificata l’ordinanza de qua come ordinanza di rimozione
dei rifiuti adottata dal Sindaco nell’esercizio degli ordinari poteri di cui
all’art. 192 del T.U.A., il ricorso deve essere accolto per l’assorbente
profilo della fondatezza del primo motivo di ricorso, nella parte in cui si
lamenta l’assenza del necessario contraddittorio procedimentale, da
estendersi anche alla fase degli accertamenti istruttori –accertamento tanto
più necessario nell’ipotesi di specie avendo la ricorrente contestato anche
la circostanza che i rifiuti rinvenuti insistessero nella sua proprietà–
nonché nella parte riferita all’assenza di motivazione e di istruttoria in
ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo e/o della colpa.
11.1. Per la costante giurisprudenza in materia vi è infatti la necessità
dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i
soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo (Cons.
Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar Campania Napoli Sez. V, n.
12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016; 945/2016; Tar Sardegna,
Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n. 1068/2016).
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di
carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del
procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006,
nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere
effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente
osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa (ex multis TAR Campania, sez. V
03/03/2014 n. 1294).
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato (ordinanza, sez. IV, n.
2000 del 12.05.2017), deve ritenersi la necessità, nella specifica materia
ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei
luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione
che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di
comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto
nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia
esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario
dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data
la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei
luoghi.
Ciò posto irrilevante si palesa la circostanza che alla ricorrente, prima
dell’adozione dell’ordinanza sindacale sia stata inviata in precedenza la
diffida del pari oggetto di gravame, in primo luogo in quanto dal contenuto
della stessa non si poteva desumere la sua natura di atto endoprocedimentale,
volto a favorire in primo luogo la partecipazione procedimentale -non
essendovi tra l’altro nella stessa alcun riferimento alla possibilità di
presentare memorie e o documenti ex art. 10 l. 241/1990- ed in secondo luogo
in quanto, come detto, nella specifica materia ambientale non è sufficiente
la mera comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 l. 241/1990, ma è
necessario quel quid pluris dato dagli accertamenti in
contraddittorio, per cui deve essere data la possibilità alla parte
destinataria dell’ordinanza di partecipare all’istruttoria procedimentale ed
in particolare ai sopralluoghi.
11.2. Parimenti illegittima deve ritenersi l’ordinanza sotto il profilo
della mancanza di adeguata istruttoria e motivazione in ordine
all’imputabilità soggettiva dello sversamento dei rifiuti a parte
ricorrente.
Infatti la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni (ex multis,
Cfr.: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004), che, in caso di
rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può
essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo
carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso
soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e
rimessione in pristino (Cfr.: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR
Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di
abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere
dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento",
accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a
recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei
luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di
dolo o di colpa (Cfr.: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR
Umbria 10.03.2000, n. 253).
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente
vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di
cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità
degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base
di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità
soggettiva della condotta (Cfr. C. di S., V, 19.03.2009, n. 1612,
25.08.2008, n. 4061).
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva,
nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili
della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento,
occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo
o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale
responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato
l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo
(TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o a
verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile
(anche) a responsabilità della ricorrente, una presunta culpa in vigilando
di quest'ultima (comunque non evidenziata nel gravato provvedimento) non
sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la responsabilità per lo
sversamento di rifiuti.
Infatti, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo, non può
arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno
e notte, per impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto riguarda
la fattispecie regolata dall'art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 22 del 1997
(ora art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La
richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli
ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è
alla base della nozione di colpa, (Cfr., ex plurimis: C. di S., Sez.
V, 08.03.2005, n. 935; TAR Campania, Sez. V, 05.08.2008, n. 9795; TAR
Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294 cit.).
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato
l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva
immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a
carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode, è
inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che,
però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ. il
quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da
intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della
colpa esclusiva del danneggiato).
Ciò senza mancare di rilevare che in base ad un condivisibile orientamento
giurisprudenziale (tra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 28.09.2015, n.
4504, TAR Bari-Puglia, sez. I, 24.03.2017, n. 287; da ultimo Consiglio di
Stato, sez. IV 15/12/2017 n. 05911) l'obbligo di diligenza va valutato
secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va
esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile
evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente
sproporzionato; in tale ottica la mancata recinzione del fondo, con effetto
contenitivo dubitabile, atteso che non sempre la presenza di una recinzione
è di ostacolo allo sversamento dei rifiuti, non può comunque costituire di
per sé prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando la
recinzione una facoltà e non un obbligo.
Come osservato dalla giurisprudenza (TAR Bari, sez. I, 24/03/2017, n. 287
cit.) “L’obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole
esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa
anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un
sacrificio obiettivamente sproporzionato.
Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta manutenzione e di
pulizia le opere gestite dal rimuovere gli effetti prodotti sulle opere
gestite da atti illeciti commessi da terzi ignoti (Cons. Stato n. 705/2016)”.
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192
D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e
smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle
aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente
in motivazione;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva,
in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti
preposti al controllo (Cons. Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar
Campania Napoli Sez. V, n. 12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016;
945/2016; Tar Sardegna, Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n.
1068/2016).
12. Il ricorso va pertanto accolto, con conseguente annullamento degli atti
impugnati, stante l’assorbenza del primo motivo di ricorso, comportante
l’illegittimità in toto dell’ordinanza sindacale, rispetto al quarto motivo
di ricorso, che, in quanto volto a contestare solo la brevità del termine
assegnato per provvedere alla rimozione dei rifiuti, non può che intendersi
formulato in via sussidiaria
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 21.08.2019 n. 4377 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
materia di responsabilità ambientale connessa all’obbligo di bonifica è
principio ormai largamente consolidato quello chiaramente espresso dagli
artt. 242 e 244 del D.Lgs. n. 152/2006 secondo cui “l’obbligo di bonifica è
in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative
hanno l’onere di individuare e ricercare”; tale principio è stato
costantemente ribadito dal Giudice Amministrativo.
Anche la giurisprudenza comunitaria si è costantemente orientata nei termini
che precedono, ritenendo che l’addebito dei costi dello smaltimento dei
rifiuti a soggetti che non li hanno prodotti risulta essere incompatibile
con il principio “chi inquina paga”.
---------------
In tale quadro non sono solo i soggetti privati a venire gravati di precisi
obblighi di intervento; esistono infatti chiari doveri della Pubblica
Amministrazione posti a garanzia del funzionamento del sistema di tutela
ambientale delineato dal legislatore, il cui rispetto è una precondizione
dello stesso.
Come noto, già l’art. 17 del D.Lgs. 22/1997 e l’art. 8 del D.M. 25/10/1999
n. 471 prevedevano che i soggetti e gli organi pubblici che nell’esercizio
delle proprie funzioni istituzionali avessero individuato siti nei quali i
livelli di inquinamento fossero risultati superiori ai limiti normativamente
previsti, ne dovessero dare comunicazione al Comune, che doveva diffidare il
responsabile dell’inquinamento a provvedere agli interventi di bonifica,
nonché alla Provincia ed alla Regione.
La normativa vigente, a sua volta, impone all’Amministrazione il preciso
obbligo giuridico di individuazione del soggetto responsabile
dell’inquinamento rilevato e l’emanazione del conseguente provvedimento di
diffida.
Tuttavia, in mancanza della individuazione di un soggetto a ciò obbligato,
l’obbligo di procedere, ai sensi dell’art. 250 del D.Lgs. n. 152/2006, grava
“de residuo” sul Comune, in quanto territorialmente competente sul luogo del
rinvenimento medesimo.
---------------
Il provvedimento adottato dal Comune, ove qualificato come ordine di
bonifica del sito inquinato ex art. 244 del D.Lgs. n. 152/2006, risulta
essere stato palesemente emanato da autorità amministrativa priva della
relativa competenza.
Come è noto, tale provvedimento è invero di competenza della Provincia e non
del Comune, come testualmente disposto dall'art. 250 del D.Lgs. 152/2006, in
base al quale “le pubbliche amministrazioni che nell'esercizio delle proprie
funzioni (...) accertino che i livelli di contaminazione sono superiori ai
valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno comunicazione
alla regione, alla provincia e al comune competenti. La provincia, ricevuta
la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini
volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito
il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale
contaminazione a provvedere (...)” (cfr. commi 1 e 2).
Non solo, l'ordine comunale di bonifica risulta del tutto privo di
un’adeguata istruttoria finalizzata alla individuazione del responsabile
dell’inquinamento, in tal modo ponendosi anche sul piano della sua
formazione procedimentale in violazione del già citato principio comunitario
secondo il quale “chi inquina paga”.
---------------
In materia di responsabilità ambientale connessa all’obbligo di bonifica è
principio ormai largamente consolidato quello chiaramente espresso dagli
artt. 242 e 244 del D.Lgs. n. 152/2006 secondo cui “l’obbligo di bonifica
è in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative
hanno l’onere di individuare e ricercare”; tale principio è stato
costantemente ribadito dal Giudice Amministrativo (cfr. fra le tante, Cons.
Stato, Sez. VI, 09/01/2013, n. 56).
Anche la giurisprudenza comunitaria si è costantemente orientata nei termini
che precedono, ritenendo che l’addebito dei costi dello smaltimento dei
rifiuti a soggetti che non li hanno prodotti risulta essere incompatibile
con il principio “chi inquina paga” (cfr. fra le tante, Corte di
Giustizia, Grande Sezione, 24.06.2008, n. 188).
In tale quadro non sono solo i soggetti privati a venire gravati di precisi
obblighi di intervento; esistono infatti chiari doveri della Pubblica
Amministrazione posti a garanzia del funzionamento del sistema di tutela
ambientale delineato dal legislatore, il cui rispetto è una precondizione
dello stesso.
Come noto, già l’art. 17 del D.Lgs. 22/1997 e l’art. 8 del D.M. 25/10/1999
n. 471 prevedevano che i soggetti e gli organi pubblici che nell’esercizio
delle proprie funzioni istituzionali avessero individuato siti nei quali i
livelli di inquinamento fossero risultati superiori ai limiti normativamente
previsti, ne dovessero dare comunicazione al Comune, che doveva diffidare il
responsabile dell’inquinamento a provvedere agli interventi di bonifica,
nonché alla Provincia ed alla Regione.
La normativa vigente, a sua volta, impone all’Amministrazione il preciso
obbligo giuridico di individuazione del soggetto responsabile
dell’inquinamento rilevato e l’emanazione del conseguente provvedimento di
diffida.
È bene sottolineare, nel caso di specie, come tale obbligo non sia venuto
meno per il solo fatto che Ac.Pu. S.p.A. abbia deciso di attivare
volontariamente la procedura di bonifica (per non perdere il finanziamento
concesso) prevista dall’art. 242 e seguenti del D.Lgs. n. 152/2006, come la
normativa consente di fare al proprietario incolpevole, o ad altro soggetto
interessato, a fronte della necessità di liberare il sito dagli oneri reali
e dalle connesse limitazioni d’uso che gravavano sullo stesso a causa della
presenza di inquinamento.
È infatti opportuno ricordare che tali soggetti hanno la facoltà, ma non
l’obbligo di procedere alla bonifica.
Ebbene, è chiaro che in questo caso, in mancanza della individuazione di un
soggetto a ciò obbligato, l’obbligo di procedere, ai sensi dell’art. 250 del
D.Lgs. n. 152/2006, gravava “de residuo” sul Comune di Rodi Garganico,
in quanto territorialmente competente sul luogo del rinvenimento medesimo.
Peraltro, il provvedimento adottato dal Comune di Rodi Garganico, ove
qualificato come ordine di bonifica del sito inquinato ex art. 244 del D.Lgs.
n. 152/2006, risulta essere stato palesemente emanato da autorità
amministrativa priva della relativa competenza.
Come è noto, tale provvedimento è invero di competenza della Provincia e non
del Comune, come testualmente disposto dall'art. 250 del D.Lgs. 152/2006, in
base al quale “le pubbliche amministrazioni che nell'esercizio delle
proprie funzioni (...) accertino che i livelli di contaminazione sono
superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno
comunicazione alla regione, alla provincia e al comune competenti. La
provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le
opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di
superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il
responsabile della potenziale contaminazione a provvedere (...)” (cfr.
commi 1 e 2).
Anche al netto di tale evidente vizio di incompetenza nell’adozione del
provvedimento oggetto di doglianza, esso risulta altresì del tutto privo di
un’adeguata istruttoria finalizzata alla individuazione del responsabile
dell’inquinamento, in tal modo ponendosi anche sul piano della sua
formazione procedimentale in violazione del già citato principio comunitario
secondo il quale “chi inquina paga”.
Per le ragioni innanzi esposte, assorbita ogni altra censura, il ricorso è
fondato e deve essere accolto
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 19.08.2019 n. 1154 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Trasporto dei rifiuti – Abbandono dei rifiuti –
Obbligo di rimozione – Ordinanza sindacale di rimozione,
smaltimento e ripristino dei luoghi – Carenza dei
presupposti soggettivi – Proprietario “incolpevole” –
Disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo – Artt.
192, 193, 255, D.L.vo n. 152/2006 – Giurisprudenza.
In materia di di abbandono dei rifiuti e
al correlato obbligo di rimozione e ripristino dei luoghi,
la sanzione penale di cui all’art. 255, comma 3, D.Lvo n.
152/2006, è rivolta propriamente ai destinatari formali
dell’ordinanza sindacale, mentre i precetti di cui agli artt.
192 e 193, sono rivolti ai responsabili dell’abbandono di
rifiuti e ai proprietari del terreno inquinato.
In ogni caso, spetta a costoro, per evitare di rendersi
responsabili dell’inottemperanza, di ottenere l’annullamento
dell’ordinanza sindacale per via amministrativa o per via
giurisdizionale, o –al limite– di provare in sede penale di
non essere proprietari del terreno ne’ responsabili
dell’abbandono, al fine di ottenere dal giudice penale la
disapplicazione dell’ordinanza per illegittimità (cioè per
mancanza dei presupposti soggettivi).
Nella fattispecie, l’imputato, aveva provato l’assenza di
sua responsabilità nell’abbandono, al fine di ottenere la
disapplicazione della ordinanza illegittima (per carenza dei
presupposti soggettivi), e richiedeva la disapplicazione
dell’atto amministrativo illegittimo e conseguente
assoluzione per insussistenza del fatto
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2019 n. 31291
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Come
è noto, il provvedimento amministravo in sede giurisdizionale va
interpretato non solo in base al tenore letterale, ma soprattutto in base al
suo specifico contenuto, risalendo al potere concretamente esercitato
dall'amministrazione e prescindendo dal nomen iuris che gli è stato
assegnato.
---------------
Nel caso all’esame, l’espresso riferimento all’art. 192 del Dlgs.
03.04.2006, n. 152 quale unica fonte normativa del potere esercitato e, nel
dispositivo del provvedimento, l’avvertimento che in caso di inottemperanza
si sarebbe proceduto come previsto dal comma 3 del medesimo articolo con
riserva di trattenere gli importi per i costi sostenuti dal Comune mediante
compensazione sulle somme in liquidazione dovute per le attività relative ai
contratti in servizio in essere, con chiaro riferimento alla possibilità di
esecuzione in danno del soggetto obbligato ed al recupero delle somme
anticipate dal Comune in caso di inadempimento, conducono in modo univoco a
qualificare il provvedimento impugnato come un vero e proprio ordine di
rimozione rifiuti e non come una mera diffida.
---------------
Il ricorso deve essere accolto perché il provvedimento è stato adottato dal
dirigente anziché dal Sindaco nonostante l’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n.
152, attribuisca espressamente a quest’ultimo l’emanazione delle ordinanze
di rimozione rifiuti con norma di carattere speciale e successiva, in quanto
tale prevalente sulla norma generale di cui all’art. 107, comma 5, del Dlgs.
18.08.2000, n. 267.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Venezia, di data
incerta, con il quale il Comune di Venezia, relativamente all'area
denominata “ex Officina Gas di San Francesco della Vigna Venezia”, ha
diffidato la ricorrente “all'esecuzione delle operazioni di asporto e
smaltimento dei rifiuti abbandonati nell'area ex Officina Gas di San
Francesco della Vigna Venezia” entro 30 giorni dalla notificazione del
provvedimento e con termine massimo per l'esecuzione di 120 giorni;
...
E’ vero infatti che il provvedimento impugnato formalmente si limita a
diffidare la Società ricorrente alla rimozione dei rifiuti.
Tuttavia, come è noto, il provvedimento amministravo in sede giurisdizionale
va interpretato non solo in base al tenore letterale, ma soprattutto in base
al suo specifico contenuto, risalendo al potere concretamente esercitato
dall'amministrazione e prescindendo dal nomen iuris che gli è stato
assegnato (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 24.07.2018,
n. 4522).
Nel caso all’esame l’espresso riferimento all’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006,
n. 152 quale unica fonte normativa del potere esercitato e, nel dispositivo
del provvedimento, l’avvertimento che in caso di inottemperanza si sarebbe
proceduto come previsto dal comma 3 del medesimo articolo con riserva di
trattenere gli importi per i costi sostenuti dal Comune mediante
compensazione sulle somme in liquidazione dovute per le attività relative ai
contratti in servizio in essere, con chiaro riferimento alla possibilità di
esecuzione in danno del soggetto obbligato ed al recupero delle somme
anticipate dal Comune in caso di inadempimento, conducono in modo univoco a
qualificare il provvedimento impugnato come un vero e proprio ordine di
rimozione rifiuti e non come una mera diffida.
Ciò premesso, il ricorso deve essere accolto perché il provvedimento è stato
adottato dal dirigente anziché dal Sindaco nonostante l’art. 192 del Dlgs.
03.04.2006, n. 152, attribuisca espressamente a quest’ultimo l’emanazione
delle ordinanze di rimozione rifiuti con norma di carattere speciale e
successiva, in quanto tale prevalente sulla norma generale di cui all’art.
107, comma 5, del Dlgs. 18.08.2000, n. 267 (cfr. ex pluribus Tar
Lombardia, Brescia, Sez. I, 07.01.2019, n. 18; Tar Puglia, Bari, Sez. I,
20.09.2018, n. 1230; Tar Lecce, Sez. II, 26.06.2018, n. 1072; Consiglio di
Stato, Sez. V, 11.01.2016, n. 57).
Il vizio di incompetenza comporta l’assorbimento delle altre censure (cfr.
Tar Campania, Napoli, Sez. V, 30.05.2018, n. 3589; Tar Lombardia, Milano,
Sez. III, 13.04.2018, n. 1011; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria,
27.04.2015 n. 5)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 17.07.2019 n. 853 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
illegittimità dell'ordinanza sindacale contingibile ed urgente per rimuovere
l'amianto.
La giurisprudenza ha chiarito che <<la possibilità di
ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla
sussistenza di un pericolo concreto che imponga di provvedere in via
d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per fronteggiare emergenze sanitarie
o porre rimedio a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di
pericolo attuale e imminente per l'incolumità pubblica e la sicurezza
urbana, non fronteggiabili con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento>>.
Si è inoltre precisato che i <<presupposti per l'adozione da parte del
Sindaco dell'ordinanza contingibile ed urgente sono la sussistenza di un
pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non
altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento,
e la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità
del provvedimento; non è, quindi, legittimo adottare ordinanze contingibili
ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non
vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in
essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità;
aggiungasi che tale potere di ordinanza presuppone necessariamente
situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui
sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua
motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare
alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale>>.
---------------
A fronte di precisa e puntuale normativa tecnica,
introdotta in attuazione della
l. n. 257 del 1992, la legittima adozione di
un’ordinanza contingibile ed urgente in materia di amianto presuppone lo
svolgimento di un’adeguata istruttoria e di una motivazione estremamente
puntuale e dettagliata che dia conto di tutti gli elementi essenziali sopra
ricordati previsti dal
d.m.
06.09.1994.
Sul punto, deve ritenersi che la speciale competenza accordata dall’art. 12,
l. n. 257 del 1992 alle USL, non faccia venire meno il potere extra ordinem
riconosciuto dall’art. 50, d.lgs. n. 267 del 2000, in capo al Sindaco,
essendo quest’ultimo finalizzato a operare in situazioni di pericolo dovuto
ad una situazione di pericolo imprevedibile ed eccezionale, attuale ed
urgente.
D’altronde, perché tale competenza eccezionale sia legittimamente esercitata
occorre che nella motivazione del provvedimento sia dato conto in modo
preciso e puntuale degli elementi
peculiari della fattispecie che impongono un intervento contingibile ed
urgente.
---------------
Nel caso di specie, risulta che né
l’ordinanza sindacale né i documenti tecnici da essa richiamati danno conto, tra
l’altro:
a) delle modalità e della procedura di campionamento e di analisi
adottata e della puntuale compatibilità con i criteri previsti dal d.m. 06.09.1994;
b) di una puntuale valutazione delle condizioni di rischio
effettive e, in particolare, quali e quanti manufatti contenenti amianto
occorra procedere a mettere in sicurezza, le dimensioni e caratteristiche
degli stessi e se siano friabili o meno, e con quale grado di friabilità, in
relazione anche alla maggiore o minore predisposizione al danneggiamento da
parte di terzi;
c) della gravità e rilevanza dell’estensione delle zone
potenzialmente interessate;
d) dei possibili fattori di pericolosità (manomissione) esterna dei
manufatti in relazione alla consistenza degli stessi (ovvero se i beni
interessati siano manomettibili e in che misura e con quale grado potenziale
di rischio);
e) del perché sia, quindi, necessaria proprio la bonifica, e quale
modalità, tra quelle possibili, sia quella necessaria e sufficiente a
mettere in sicurezza la zona.
L’omessa precisa e puntuale indicazione di tutti gli elementi sopra estesi
non consente di comprendere se sussista o meno l’eccezionale urgenza e
l’imprevedibilità del pericolo che solo giustifica l’intervento da parte del
Sindaco.
Sul punto, deve ritenersi meramente ipotetico il pericolo connesso ad una
possibile reiterazione di episodi di incendio, senza una puntuale
descrizione e valutazione delle potenzialità di aerodispersione dell’amianto
presente nei manufatti in relazione allo specifico grado di “fragilità” dei
manufatti in contestazione in caso di incendio medesimo.
Peraltro, sempre con riferimento al pericolo di incendio, non è nemmeno
esplicitato per quale motivo non sia possibile adottare, e, quindi,
ordinare, l’adozione di misure diverse idonee a mettere adeguatamente in
sicurezza l’intero sito dal rischio di incendi.
A conferma di tutto quanto sopra detto, si rammentano le pronunce
giurisprudenziali che hanno sottolineato come <<è illegittimo l'ordine di
rimuovere manufatti contenenti amianto che non è stato preceduto da un
approfondimento tecnico-istruttorio in merito alla scelta del metodo di
bonifica più opportuno tra le diverse modalità attuabili, essendo invece
necessario un preventivo apprezzamento dei rischi connessi alla sua concreta
attuazione>>.
---------------
La particolarità della fattispecie in materia di amianto sia in termini di
attività istruttoria che di motivazione del provvedimento, in particolare in
caso di ordinanza contingibile e urgente, comporta, poi, di apprezzare
diversamente la questione della “derogabilità” all’obbligo di preventiva
comunicazione di avvio del procedimento.
Infatti, è vero che è affermato il principio secondo il quale <<in caso di
emanazione di un'ordinanza sindacale contingibile ed urgente non occorre il
rispetto delle regole procedimentali poste a presidio della partecipazione
del privato, ex art. 7, l . 07.08.1990 n. 241, essendo queste
incompatibili con l'urgenza di provvedere, anche in ragione della perdurante
attualità dello stato di pericolo, che può aggravarsi con il trascorrere del
tempo; in sostanza, la comunicazione di avvio del procedimento nelle
ordinanze contingibili e urgenti del Sindaco non può che essere di
pregiudizio all'urgenza di provvedere>>.
D’altronde, la complessità istruttoria, argomentativa e anche decisoria che
caratterizza i provvedimenti in materia di amianto, tali da comportare anche
un rilevante esercizio di discrezionalità tecnica da parte della P.A.,
comporta che anche nel caso di ordinanze contingibili ed urgenti, salvi casi
di eccezionale urgenza e gravità adeguatamente indicati nella motivazione
del provvedimento, il soggetto possibile destinatario di quest’ultimo deve
essere messo nelle condizioni di contraddire e offrire anche il suo apporto
tecnico alle valutazioni che la P.A. è chiamata ad adottare.
Poiché, come sopra visto, non è stato dato conto in modo adeguato e puntuale
della sussistenza di una situazione di tale eccezionale urgenza e gravità,
il Comune avrebbe dovuto procedere alla comunicazione di avvio del
procedimento nei confronti di parte ricorrente.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione, dell'ordinanza contingibile ed
urgente n. 11 dell'11.05.2019, notificata a mezzo p.e.c. in pari data,
avente ad oggetto l'ordine alla società di provvedere, entro 30 giorni dalla
notifica dell'ordinanza, alla bonifica completa della struttura dell'ex
Villaggio Marino Europa, all'interno del quale “è stata accertata la
presenza di amianto crisotilo”.
...
Con ordinanza n. 11 datata 11.05.2019, il Sindaco del Comune di Riomaggiore
ordinava alla società Vi.Ma.Eu. srl (d’ora in poi Vi.), proprietaria
della struttura sita nell’ex Villaggio Europa, Località Spiaggione di
Corniglia (Comune di Riomaggiore), in zona marino-costiera, di provvedere <<alla
bonifica completa della struttura attualmente in essere nel sito dell’ex
Villaggio Marino Europa, all’interno della quale è stata accertata la
presenza di amianto crisotilo, secondo modalità e criteri stabiliti dalle
normative vigenti>> e di comunicare al Comune il <<piano di lavoro>>.
...
1. Il provvedimento oggetto di impugnazione risulta essere stato adottato ai
sensi dell’art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000, in forza del quale <<in
caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente
locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale
rappresentante della comunità locale. Le medesime ordinanze sono adottate
dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in relazione
all'urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave
incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o
di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare
riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei
residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per
asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche>>.
Tale disposizione attribuisce al Sindaco, quale rappresentante della
comunità locale, il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti tra
l'altro "in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere
esclusivamente locale".
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che <<la possibilità di
ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla
sussistenza di un pericolo concreto che imponga di provvedere in via
d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per fronteggiare emergenze sanitarie
o porre rimedio a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di
pericolo attuale e imminente per l'incolumità pubblica e la sicurezza
urbana, non fronteggiabili con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento>>
(TAR Piemonte, Sez. II, n. 903 del 2018; TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I,
05/11/2018, n. 339).
Si è inoltre precisato che i <<presupposti per l'adozione da parte del
Sindaco dell'ordinanza contingibile ed urgente sono la sussistenza di un
pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non
altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento,
e la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità
del provvedimento; non è, quindi, legittimo adottare ordinanze contingibili
ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non
vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in
essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità;
aggiungasi che tale potere di ordinanza presuppone necessariamente
situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui
sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua
motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare
alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale>> (Cons. Stato, Sez. V, n.
774 del 2017).
Con riferimento, poi, alle fattispecie nelle quali viene in esame la
pericolosità della presenza di “amianto” occorre rammentare che
sussiste una specifica disciplina.
Il
d.m.
06.09.1994 recante <<normative e metodologie tecniche per la
valutazione del rischio, il controllo, la manutenzione e la bonifica di
materiali contenenti amianto presenti nelle strutture edilizie>>,
contiene una disciplina che si applica a strutture edilizie ad uso civile,
commerciale o industriale aperte al pubblico o comunque di utilizzazione
collettiva in cui sono in opera manufatti e/o materiali contenenti amianto
dai quali può derivare una esposizione a fibre aerodisperse.
Il documento contiene normative e metodologie tecniche riguardanti:
- l'ispezione delle strutture edilizie, il campionamento e
l'analisi dei materiali sospetti per l'identificazione dei materiali
contenenti amianto;
- il processo diagnostico per la valutazione del rischio e la
scelta dei provvedimenti necessari per il contenimento o l'eliminazione del
rischio stesso;
- il controllo dei materiali contenenti amianto e le procedure per
le attività di custodia e manutenzione in strutture edilizie contenenti
materiali di amianto;
- le misure di sicurezza per gli interventi di bonifica;
- le metodologie tecniche per il campionamento e l'analisi delle
fibre aerodisperse.
Il decreto precisa che <<la potenziale pericolosità dei materiali di amianto
dipende dall'eventualità che siano rilasciate fibre aerodisperse
nell'ambiente che possono venire inalate dagli occupanti. Il criterio più
importante da valutare in tal senso è rappresentato dalla friabilità dei
materiali: si definiscono friabili i materiali che possono essere
sbriciolati o ridotti in polvere mediante la semplice pressione delle dita.
I materiali friabili possono liberare fibre spontaneamente per la scarsa
coesione interna (soprattutto se sottoposti a fattori di deterioramento
quali vibrazioni, correnti d'aria, infiltrazioni di acqua) e possono essere
facilmente danneggiati nel corso di interventi di manutenzione o da parte
degli occupanti dell'edificio, se sono collocati in aree accessibili>>.
In base alla friabilità, i materiali contenenti amianto possono essere
classificati come:
- friabili: materiali che possono essere facilmente sbriciolati o
ridotti in polvere con la semplice pressione manuale;
- compatti: materiali duri che possono essere sbriciolati o ridotti
in polvere solo con l'impiego di attrezzi meccanici (dischi abrasivi, frese,
trapani, ecc.).
Quindi, <<una volta individuate le strutture edilizie su cui intervenire,
sarà opportuno, prima di procedere al campionamento dei materiali,
articolare un finalizzato programma di ispezione, che si può così
riassumere:
1) ricerca e verifica della documentazione tecnica disponibile
sull'edificio, per accertarsi dei vari tipi di materiali usati nella sua
costruzione, e per rintracciare, ove possibile, l'impresa edile
appaltatrice;
2) ispezione diretta dei materiali per identificare quelli friabili
e potenzialmente contenenti fibre di amianto;
3) verifica dello stato di conservazione dei materiali friabili,
per fornire una prima valutazione approssimativa sul potenziale di rilascio
di fibre nell'ambiente;
4) campionamento dei materiali friabili sospetti, e invio presso un
centro attrezzato, per la conferma analitica della presenza e del contenuto
di amianto;
5) mappatura delle zone in cui sono presenti materiali contenenti
amianto;
6) registrazione di tutte le informazioni raccolte in apposite
schede (allegato 5), da conservare come documentazione e da rilasciare anche
ai responsabili dell'edificio>>.
Il decreto, poi, indica analiticamente la procedura che il personale
incaricato dell'ispezione e del campionamento deve seguire, indicando anche
i criteri di selezione del materiale da campionare.
Il decreto chiarisce altresì che <<la presenza di materiali contenenti
amianto in un edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute
degli occupanti. Se il materiale è in buone condizioni e non viene
manomesso, è estremamente improbabile che esista un pericolo apprezzabile di
rilascio di fibre di amianto. Se invece il materiale viene danneggiato per
interventi di manutenzione o per vandalismo, si verifica un rilascio di
fibre che costituisce un rischio potenziale. Analogamente se il materiale è
in cattive condizioni, o se è altamente friabile, le vibrazioni
dell'edificio, i movimenti di persone o macchine, le correnti d'aria possono
causare il distacco di fibre legate debolmente al resto del materiale>>.
Per la valutazione della potenziale esposizione a fibre di amianto del
personale presente nell'edificio, poi, sono utilizzabili due tipi di
criteri:
- l'esame delle condizioni dell'installazione, al fine di stimare
il pericolo di un rilascio di fibre dal materiale;
- la misura della concentrazione delle fibre di amianto
aerodisperse all'interno dell'edificio (monitoraggio ambientale).
Viene precisato, ancora, che il c.d. monitoraggio ambientale, non può
rappresentare da solo un criterio adatto per valutare il rilascio, in quanto
consente essenzialmente di misurare la concentrazione di fibre presente
nell'aria al momento del campionamento, senza ottenere alcuna informazione
sul pericolo che l'amianto possa deteriorarsi o essere danneggiato nel corso
delle normali attività. In particolare, in caso di danneggiamenti, spontanei
o accidentali, si possono verificare rilasci di elevata entità, che
tuttavia, sono occasionali e di breve durata e che quindi non vengono
rilevati in occasione del campionamento. In fase di ispezione visiva
dell'installazione, devono essere, quindi, attentamente valutati:
- il tipo e le condizioni dei materiali;
- i fattori che possono determinare un futuro danneggiamento o
degrado;
- i fattori che influenzano la diffusione di fibre e l'esposizione
degli individui.
Il decreto, quindi, precisa che deve essere compilata una scheda di
sopralluogo, separatamente per ciascun'area dell'edificio in cui sono
presenti materiali contenenti amianto.
I fattori considerati, pertanto, devono consentire di valutare l'eventuale
danneggiamento o degrado del materiale e la possibilità che il materiale
stesso possa deteriorarsi o essere danneggiato.
In base agli elementi raccolti per la valutazione possono, conseguentemente,
delinearsi tre diversi tipi di situazioni:
a) Materiali integri non suscettibili di danneggiamento.
Sono situazioni nelle quali non esiste pericolo di rilascio di fibre di
amianto in atto o potenziale o di esposizione degli occupanti, come ad
esempio:
- materiali non accessibili per la presenza di un efficace
confinamento;
- materiali in buone condizioni, non confinati ma comunque
difficilmente accessibili agli occupanti;
- materiali in buone condizioni, accessibili ma difficilmente
danneggiabili per le caratteristiche proprie del materiale (duro e
compatto);
- non esposizione degli occupanti in quanto l'amianto si trova in
aree non occupate dell'edificio.
In questi casi non è necessario un intervento di bonifica. Occorre, invece,
un controllo periodico delle condizioni dei materiali e il rispetto di
idonee procedure per le operazioni di manutenzione e pulizia dello stabile,
al fine di assicurare che le attività quotidiane dell'edificio siano
condotte in modo da minimizzare il rilascio di fibre di amianto, secondo le
indicazioni riportate nel capitolo 4.
b) Materiali integri suscettibili di danneggiamento
Sono situazioni nelle quali esiste pericolo di rilascio potenziale di fibre
di amianto, come ad esempio:
- materiali in buone condizioni facilmente danneggiabili dagli
occupanti;
- materiali in buone condizioni facilmente danneggiabili in
occasione di interventi manutentivi;
- materiali in buone condizioni esposti a fattori di deterioramento
(vibrazioni, correnti d'aria, ecc.).
In situazioni di questo tipo, in primo luogo, devono essere adottati
provvedimenti idonei a scongiurare il pericolo di danneggiamento e quindi
attuare un programma di controllo e manutenzione secondo le indicazioni
riportate nel capitolo 4. Se non è possibile ridurre significativamente i
rischi di danneggiamento dovrà essere preso in considerazione un intervento
di bonifica da attuare a medio termine.
c) Materiali danneggiati
Sono situazioni nelle quali esiste pericolo di rilascio di fibre di amianto
con possibile esposizione degli occupanti, come ad esempio:
- materiali a vista o comunque non confinati, in aree occupate
dell'edificio, che si presentino:
- danneggiati per azione degli occupanti o per interventi
manutentivi;
- deteriorati per effetto di fattori esterni (vibrazioni,
infiltrazioni d'acqua, correnti d'aria, ecc.), deteriorati per degrado
spontaneo;
- materiali danneggiati o deteriorati o materiali friabili in
prossimità dei sistemi di ventilazione.
Sono queste le situazioni in cui si determina la necessità di un'azione
specifica da attuare in tempi brevi, per eliminare il rilascio in atto di
fibre di amianto nell'ambiente.
I provvedimenti possibili possono essere:
- restauro dei materiali: l'amianto viene lasciato in sede senza
effettuare alcun intervento di bonifica vera e propria, ma limitandosi a
riparare le zone danneggiate e/o ad eliminare le cause potenziali del
danneggiamento (modifica del sistema di ventilazione in presenza di correnti
d'aria che erodono il rivestimento, riparazione delle perdite di acqua,
eliminazione delle fonti di vibrazioni, interventi atti ad evitare il
danneggiamento da parte degli occupanti). È applicabile per materiali in
buone condizioni che presentino zone di danneggiamento di scarsa estensione
(inferiori al 10% della superficie di amianto presente nell'area
interessata). È il provvedimento di elezione per rivestimenti di tubi e
caldaie o per materiali poco friabili di tipo cementizio, che presentino
danni circoscritti. Nel caso di materiali friabili è applicabile se la
superficie integra presenta sufficiente coesione da non determinare un
rilascio spontaneo di fibre;
- intervento di bonifica mediante rimozione, incapsulamento o
confinamento dell'amianto. La bonifica può riguardare l'intera installazione
o essere circoscritta alle aree dell'edificio o alle zone dell'installazione
in cui si determina un rilascio di fibre.
Quando si presentano situazioni di incerta classificazione è necessaria
anche una indagine ambientale che misuri la concentrazione di fibre
aerodisperse, con le tecniche indicate nel decreto.
Una volta che si accerti una situazione per la quale è necessaria la
“bonifica”, il decreto indica le metodologie applicabili.
I metodi di bonifica
che possono essere attuati, sia nel caso di interventi circoscritti ad aree
limitate dell'edificio, sia nel caso di interventi generali,
sono:
1) Rimozione dei materiali di amianto
È il procedimento più diffuso perché elimina ogni potenziale fonte di
esposizione ed ogni necessità di attuare specifiche cautele per le attività
che si svolgono nell'edificio. Comporta un rischio estremamente elevato per
i lavoratori addetti e per la contaminazione dell'ambiente; produce notevoli
quantitativi di rifiuti tossici e nocivi che devono essere correttamente
smaltiti.
È la procedura che comporta i costi più elevati ed i più lunghi
tempi di realizzazione. In genere richiede l'applicazione di un nuovo
materiale, in sostituzione dell'amianto rimosso.
2) Incapsulamento
Consiste nel trattamento dell'amianto con prodotti penetranti o ricoprenti
che (a seconda del tipo di prodotto usato) tendono ad inglobare le fibre di
amianto, a ripristinare l'aderenza al supporto, a costituire una pellicola
di protezione sulla superficie esposta. Costi e tempi dell'intervento
risultano più contenuti. Non richiede la successiva applicazione di un
prodotto sostitutivo e non produce rifiuti tossici. Il rischio per i
lavoratori addetti e per l'inquinamento dell'ambiente è generalmente minore
rispetto alla rimozione. È il trattamento di elezione per i materiali poco
friabili di tipo cementizio.
Il principale inconveniente è rappresentato
dalla permanenza nell'edificio del materiale di amianto e dalla conseguente
necessità di mantenere un programma di controllo e manutenzione. Occorre
inoltre verificare periodicamente l'efficacia dell'incapsulamento, che col
tempo può alterarsi o essere danneggiato, ed eventualmente ripetere il
trattamento. L'eventuale rimozione di un materiale di amianto
precedentemente incapsulato è più complessa, per la difficoltà di bagnare il
materiale a causa dell'effetto impermeabilizzante del trattamento. Inoltre,
l'incapsulamento può alterare le proprietà antifiamma e fonoassorbenti del
rivestimento di amianto.
3) Confinamento
Consiste nell'installazione di una barriera a tenuta che separi l'amianto
dalle aree occupate dell'edificio. Se non viene associato ad un trattamento
incapsulante, il rilascio di fibre continua all'interno del confinamento.
Rispetto all'incapsulamento, presenta il vantaggio di realizzare una
barriera resistente agli urti.
È indicato nel caso di materiali facilmente
accessibili, in particolare per bonifica di aree circoscritte (ad es. una
colonna). Non è indicato quando sia necessario accedere frequentemente nello
spazio confinato. Il costo è contenuto, se l'intervento non comporta lo
spostamento dell'impianto elettrico, termoidraulico, di ventilazione, ecc.
Occorre sempre un programma di controllo e manutenzione, in quanto l'amianto
rimane nell'edificio; inoltre la barriera installata per il confinamento
deve essere mantenuta in buone condizioni.
Con riferimento, proprio alla scelta del metodo di bonifica, il decreto
fornisce precise indicazioni:
i) un intervento di rimozione spesso non costituisce la migliore
soluzione per ridurre l'esposizione ad amianto; se viene condotto
impropriamente può elevare la concentrazione di fibre aerodisperse,
aumentando, invece di ridurre, il rischio di malattie da amianto;
ii) materiali accessibili, soprattutto se facilmente danneggiabili,
devono essere protetti da un idoneo confinamento;
iii) prima di scegliere un intervento di incapsulaggio deve essere
attentamente valutata l'idoneità del materiale di amianto a sopportare il
peso dell'incapsulante.
In particolare trattamenti incapsulanti non sono indicati:
- nel caso di materiali molto friabili o che presentano scarsa
coesione interna o adesione al substrato, in quanto l'incapsulante aumenta
il peso strutturale aggravando la tendenza del materiale a delaminarsi o a
staccarsi dal substrato;
- nel caso di materiali friabili di spessore elevato (maggiore di 2
cm), nei quali il trattamento non penetra molto in profondità e non riesce
quindi a restituire l'adesione al supporto sottostante.
Per contro l'aumento di peso può facilitare il distacco dell'amianto:
- nel caso di infiltrazioni di acqua: il trattamento
impermeabilizza il materiale così che si possono formare internamente
raccolte di acqua che appesantiscono il rivestimento e ne disciolgono i
leganti, determinando il distacco;
- nel caso di materiali facilmente accessibili, in quanto il
trattamento forma una pellicola di protezione scarsamente resistente agli
urti. Non dovrebbe essere mai effettuato su superfici che non siano almeno a
3 metri di altezza, in aree soggette a frequenti interventi di manutenzione
o su superfici, a qualsiasi altezza, che possano essere danneggiate da
attrezzi (es. soffitti delle palestre);
- nel caso di installazioni soggette a vibrazioni (aeroporti,
locali con macchinari pesanti, ecc.): le vibrazioni determinano rilascio di
fibre anche se il materiale è stato incapsulato;
iv) tutti i metodi di bonifica alternativi alla rimozione
presentano costi minori a breve termine. A lungo termine, però il costo
aumenta per la necessità di controlli periodici e di successivi interventi
per mantenere l'efficacia e l'integrità del trattamento. Il risparmio
economico (così come la maggiore rapidità di esecuzione), rispetto alla
rimozione, dipende prevalentemente dal fatto che non occorre applicare un
prodotto sostitutivo e che non vi sono rifiuti tossici da smaltire. Le
misure di sicurezza da attuare sono, invece, per la maggior parte le stesse
per tutti i metodi;
v) interventi di ristrutturazione o demolizione di strutture
rivestite di amianto devono sempre essere preceduti dalla rimozione
dell'amianto stesso.
*********
A fronte della precisa e puntuale normativa tecnica sopra ricordata,
introdotta in attuazione della
l. n. 257 del 1992, la legittima adozione di
un’ordinanza contingibile ed urgente in materia di amianto presuppone lo
svolgimento di un’adeguata istruttoria e di una motivazione estremamente
puntuale e dettagliata che dia conto di tutti gli elementi essenziali sopra
ricordati previsti dal d.m. 06.09.1994.
Sul punto, deve ritenersi che la speciale competenza accordata dall’art. 12,
l. n. 257 del 1992 alle USL, non faccia venire meno il potere extra ordinem
riconosciuto dall’art. 50, d.lgs. n. 267 del 2000, in capo al Sindaco,
essendo quest’ultimo finalizzato a operare in situazioni di pericolo dovuto
ad una situazione di pericolo imprevedibile ed eccezionale, attuale ed
urgente.
D’altronde, perché tale competenza eccezionale sia legittimamente esercitata
occorre che nella motivazione del provvedimento sia dato conto in modo
preciso e puntuale, in aggiunta a quanto già sopra rilevato, degli elementi
peculiari della fattispecie che impongono un intervento contingibile ed
urgente.
Come accennato, il Comune ha ordinato la “bonifica” completa della struttura
attualmente in essere nel sito, limitandosi a precisare “secondo le modalità
e criteri stabiliti dalle norme vigenti”.
Il provvedimento risulta fondato:
- sui rilievi operati dal Comando provinciale dei Vigili del Fuoco
di La Spezia, di cui alla nota acquisita al protocollo comunale il 5.3.2019,
nota che a sua volta richiama i risultati dei rapporti di prova dell’Arpal
sul campione raccolto in data 21.02. u.s., “in corrispondenza della
struttura” ancora in essere nell’Ex Villaggio Europa presso lo spiaggione di
Corniglia, dai quali emergere la presenza di amianto crisotilo;
- sul fatto che l’intera struttura si trova in stato di abbandono
sicché <<non è esclusa la possibilità di ulteriori incendi, i quali a causa
delle problematiche collegate alle difficoltà di raggiungimento del sito da
parte dei vigili del fuoco, potrebbero risultare di difficile spegnimento,
rappresentando un potenziale pericolo per la salute delle persone, i beni
limitrofi e la salvaguardia della pubblica incolumità>>;
- sulla nota dei vigili del fuoco che indica come <<indispensabile
l’emissione da parte del Sindaco di un provvedimento amministrativo che
obblighi la proprietà ad una messa in sicurezza dell’intero sito dell’Ex
Villaggio Europa>>;
Per quanto concerne, poi, l’omessa comunicazione di avvio del procedimento,
il Comune si è limitato ad asserire che <<le particolari esigenze di
celerità del procedimento connesse all’urgenza e conseguente immediata
esecutività del presente provvedimento, rendono impossibile l’effettuazione
della comunicazione di avvio del procedimento prevista dalla legge 07.08.1990, n. 241>>.
Esaminiamo, quindi, la documentazione richiamata dal Comune.
Per quanto concerne la <<proposta di emissione di ordinanza per ripristino
rete e chiusure presso l’ex villaggio Marino Europa>> emessa, in data
19.06.2019, dai Carabinieri, questi ultimi hanno segnalato sia la presenza
irregolare di persone senza fissa dimora, sia il fatto che la presenza dei
soggetti nell’area non è limitata solo ad avere un giaciglio dove
trascorrere la notte, ma con l’estate il luogo riceve turisti amanti della
natura che invadono il terreno privato, nuovamente privo di reti,
limitazioni e cartelli segnalanti la chiusura; in talune occasioni, poi, il
comportamento di alcuni degli occupanti ha avuto risalto delittuoso per
discussioni alimentate anche dall’alcool e sfocianti con l’aggressione l’uno
contro l’altro, nonché con l’accensione di fuochi pericolosi per il rischio
incendio;
I carabinieri, quindi, per risolvere i problemi di cui sopra hanno proposto
al Comune di adottare un’ordinanza per:
- sensibilizzare la proprietà a reinstallare reti interdittive e a
vigilare sull’efficienza di queste, già oggetto di precedente ordinanza;
- ripristinare il cartello (anche in inglese) ad inizio sentiero,
anche in lingua inglese per preavvisare coloro che vi accedono e per mettere
in condizione la FFPP di contestare la violazione sindacale oltre a quelle
di settore;
- valutare la rimozione o l’abbattimento, mantenendo traccia dei
manufatti delle poche baracche ancora integre che vengono puntualmente
occupate abusivamente.
Nella relazione di intervento dei vigili del fuoco del 09.01.2019, poi, è
stato dato conto del fatto che gli stessi si erano recati in loco perché
stava bruciando <<l’ultima baracca lato Riomaggiore dell’abbandonato
villaggio turistico “Europa”, ubicato sotto la stazione ferroviaria di
Corniglia>>. E <<avendo sentore di probabile presenza di materiali M.C.A. si
attuavano normali e importanti precauzioni anti-contaminazione tra cui porsi
sopravento (forza vento alta) e bagnare tutta la zona circostante; si
provvedeva, poi, ad attaccare l’incendio e a smassare per il minuto
spegnimento>>.
Con riguardo ai provvedimenti di tutela adottati, veniva dato conto di:
<<lavaggio d.p.i., prelievo campione di materiale con sospetto M.C.A. e
consegnato a personale NBCR DEL comando>>.
Con atto del 05.03.2019 il Comando provinciale dei VV.FF. di La Spezia ha dato
conto del fatto che in occasione dell’intervento del 09.01.2019 di cui sopra,
era stata <<rilevata la presenza di materiale con sospetta presenza di
amianto>> <<in matrice compatta, in coperture, serbatoi, tubazioni>>, e che
era stato prelevato un campione di detto materiale consegnato ad Arpal, la
quale in data in data 21.02.2019 aveva fatto pervenire rapporti di prova del
campione dai quali emergeva la presenza di amianto crisotilo.
E’ stato, quindi, rilevato che <<l’intera struttura era in stato di
abbandono e non si esclude la possibilità che si possano verificare in
futuro ulteriori incendi e visto che la viabilità del sito non consente un
facile accesso agli automezzi di soccorso, si ritiene necessario che codesta
amministrazione comunale competente provveda a far eseguire gli interventi
necessari per la messa in sicurezza del sito>>.
***********
Ebbene, alla luce di tutto quanto sin qui detto risulta evidente che né
l’ordinanza, né i documenti tecnici da essa richiamati danno conto, tra
l’altro:
a) delle modalità e della procedura di campionamento e di analisi
adottata e della puntuale compatibilità con i criteri previsti dal d.m. 06.09.1994;
b) di una puntuale valutazione delle condizioni di rischio
effettive e, in particolare, quali e quanti manufatti contenenti amianto
occorra procedere a mettere in sicurezza, le dimensioni e caratteristiche
degli stessi e se siano friabili o meno, e con quale grado di friabilità, in
relazione anche alla maggiore o minore predisposizione al danneggiamento da
parte di terzi;
c) della gravità e rilevanza dell’estensione delle zone
potenzialmente interessate;
d) dei possibili fattori di pericolosità (manomissione) esterna dei
manufatti in relazione alla consistenza degli stessi (ovvero se i beni
interessati siano manomettibili e in che misura e con quale grado potenziale
di rischio);
e) del perché sia, quindi, necessaria proprio la bonifica, e quale
modalità, tra quelle possibili, sia quella necessaria e sufficiente a
mettere in sicurezza la zona.
L’omessa precisa e puntuale indicazione di tutti gli elementi sopra estesi
non consente di comprendere se sussista o meno l’eccezionale urgenza e
l’imprevedibilità del pericolo che solo giustifica l’intervento da parte del
Sindaco.
Sul punto, deve ritenersi meramente ipotetico il pericolo connesso ad una
possibile reiterazione di episodi di incendio, senza una puntuale
descrizione e valutazione delle potenzialità di aerodispersione dell’amianto
presente nei manufatti in relazione allo specifico grado di “fragilità” dei
manufatti in contestazione in caso di incendio medesimo.
Peraltro, sempre con riferimento al pericolo di incendio, non è nemmeno
esplicitato per quale motivo non sia possibile adottare, e, quindi,
ordinare, l’adozione di misure diverse idonee a mettere adeguatamente in
sicurezza l’intero sito dal rischio di incendi.
A conferma di tutto quanto sopra detto, si rammentano le pronunce
giurisprudenziali che hanno sottolineato come <<è illegittimo l'ordine di
rimuovere manufatti contenenti amianto che non è stato preceduto da un
approfondimento tecnico-istruttorio in merito alla scelta del metodo di
bonifica più opportuno tra le diverse modalità attuabili, essendo invece
necessario un preventivo apprezzamento dei rischi connessi alla sua concreta
attuazione>> (in tal senso, TAR, Ancona, sez. I, 07/10/2016, n. 545;
conformemente, TAR Puglia, sez. dist. Lecce, sez. I, 06/02/2014, n. 337).
La particolarità della fattispecie in materia di amianto sia in termini di
attività istruttoria che di motivazione del provvedimento, in particolare in
caso di ordinanza contingibile e urgente, comporta, poi, di apprezzare
diversamente la questione della “derogabilità” all’obbligo di preventiva
comunicazione di avvio del procedimento.
Infatti, è vero che è affermato il principio secondo il quale <<in caso di
emanazione di un'ordinanza sindacale contingibile ed urgente non occorre il
rispetto delle regole procedimentali poste a presidio della partecipazione
del privato, ex art. 7, l . 07.08.1990 n. 241, essendo queste
incompatibili con l'urgenza di provvedere, anche in ragione della perdurante
attualità dello stato di pericolo, che può aggravarsi con il trascorrere del
tempo; in sostanza, la comunicazione di avvio del procedimento nelle
ordinanze contingibili e urgenti del Sindaco non può che essere di
pregiudizio all'urgenza di provvedere>> (C. Stato, sez. V, 01/12/2014, n.
5919).
D’altronde, la complessità istruttoria, argomentativa e anche decisoria che
caratterizza i provvedimenti in materia di amianto, tali da comportare anche
un rilevante esercizio di discrezionalità tecnica da parte della P.A.,
comporta che anche nel caso di ordinanze contingibili ed urgenti, salvi casi
di eccezionale urgenza e gravità adeguatamente indicati nella motivazione
del provvedimento, il soggetto possibile destinatario di quest’ultimo deve
essere messo nelle condizioni di contraddire e offrire anche il suo apporto
tecnico alle valutazioni che la P.A. è chiamata ad adottare.
Poiché, come sopra visto, non è stato dato conto in modo adeguato e puntuale
della sussistenza di una situazione di tale eccezionale urgenza e gravità,
il Comune avrebbe dovuto procedere alla comunicazione di avvio del
procedimento nei confronti di parte ricorrente.
*********
In conclusione, alla luce di quanto sopra esposto, il provvedimento
impugnato deve essere annullato, nei limiti e per i motivi sopra esposti,
per difetto di motivazione e omessa comunicazione dell’avvio del
procedimento
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 08.07.2019 n. 603 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
tema di inquinamento del suolo, la disciplina di settore non impone il
coinvolgimento dei potenziali responsabili della contaminazione sin dai
primi accertamenti.
L’art. 244, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006, infatti, si limita a disporre
che “la provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver
svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai
sensi del presente titolo”.
La necessità di un coinvolgimento del potenziale responsabile si palesa solo
in un secondo tempo come si ricava dai contenuti dell’art. 242, comma 4,
laddove prevede che “entro sei mesi dall'approvazione del piano di
caratterizzazione, il soggetto responsabile presenta alla regione i
risultati dell'analisi di rischio. La conferenza di servizi convocata dalla
regione, a seguito dell'istruttoria svolta in contraddittorio con il
soggetto responsabile, cui è dato un preavviso di almeno venti giorni,
approva il documento di analisi di rischio entro i sessanta giorni dalla
ricezione dello stesso. Tale documento è inviato ai componenti della
conferenza di servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la
conferenza e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione
fornisce una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni
dissenzienti espresse nel corso della conferenza”
(massima tratta da www.lexambiente.it).
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La ricorrente, nell’anno 1962, realizzava un impianto di produzione di
laterizi (Fornace Quattro Castella) su un’area di proprietà.
Nell’anno 1982, in sede di conversione dei sistemi di generazione calore dei
propri stabilimenti da idrocarburi pesanti a gas metano, dismetteva le
cisterne sino a quel tempo utilizzate che, si afferma in ricorso, venivano
bonificate e riempite di materiale inerte negli anni 1995/1996 e interrate.
Con atto del 24.12.1998, l’area in questione, per mq. 42.600
classificata sotto il profilo urbanistico dal PRG all’epoca vigente come D1
(artigianale industriale edificata e di completamento) e per una parte
residuale, pari a mq. 4.857, mai interessata ai processi di lavorazioni e
stoccaggio, classificata G2 (residenziale o vincolata a verde privato o
pubblico), veniva ceduta alla Società immobiliare Ar.Be.Sc..
Nel mese di marzo 1999 veniva adottata una variante al PRG che classificava
l’intera area come B4, residenziale di ristrutturazione urbanistico
edilizia.
Nel novembre 2000, la medesima area, con diversa classificazione
urbanistica, veniva ceduta alla Società immobiliare ST.R. S.r.l. che la
acquistava per realizzavi un complesso residenziale in attuazione di un
piano di recupero che l’Amministrazione comunale approvava nel dicembre
2011.
Le verifiche disposte sull’area interessata all’intervento richieste da
ARPAE ai fini del rilascio del parere di competenza, affidate da ST.R. alla
Ditta Ri.Am. e Si. (18.07.2012 – come da provvedimento
impugnato), evidenziavano, in alcuni punti dell’area, il superamento delle
concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) previste per i siti destinati
ad uso verde pubblico privato e residenziale di cui all’allegato 5, parte IV,
del d.lgs. n. 152/2006, relativamente ad una pluralità di agenti inquinati.
Per tale ragione, in data 30.07.2012, ST.R. comunicava alla Provincia
ex art. 245 del D.Lgs. n. 152/2006 il superamento della CSC per i parametri
fluoruri, idrocarburi pesanti e piombo, allegando la Relazione redatta da
Ri. (la Società aveva già nell’anno 2000 effettuato una prima serie di
accertamenti).
La Provincia, con nota del 21.09.2012, procedeva ex art. 245, comma
2, richiedendo al Comune di Quattro Castella e ad ARPAE “informazioni utili”
ai fini dell’individuazione del soggetto responsabile della contaminazione.
Con nota del 29.09.2012, il Comune comunicava alla Provincia la
classificazione dell’area come B4 “residenziale di ristrutturazione
urbanistica soggetta a P.R.” precisando che il “comparto” veniva adottato
con delibera consiliare n. 23 del 21.04.2011 e approvato con delibera n.
89 del 10.11.2011.
Precisava ulteriormente che “in sede di approvazione del comparto” la
proprietà presentava una Relazione geologica dalla quale già risultava la
necessità di una caratterizzazione del suolo attesa la rilevata presenza di
fluoruro in misura eccedente le soglie di cui al D.M. n. 471/1999 e che il
Geologo incaricato affermava che “l’alto valore dei fluoruri potrebbe essere
attribuito ad una ricaduta di materiale particolato, o in altra forma,
proveniente dalle emissioni dei camini dell’ex Fornace”.
Riferiva, infine, che sulla base dell’esame dei titoli edilizi richiesti e
rilasciati negli anni, poteva presumersi che l’attività della fornace
gestita dalla ricorrente potesse essersi svolta sino all’anno 1995.
La ST.R. provvedeva pertanto alla redazione di un Piano di
caratterizzazione datato luglio 2013, acquisito dalla Provincia il 17.09.2013, “che riferisce sulle risultanze delle indagini eseguite nel
2000 e nel 2012” (pag. 3 del provvedimento impugnato).
La conferenza dei Servizi indetta dalla Provincia in data 06.11.2013 si
esprimeva sfavorevolmente stante la lacunosità delle informazioni necessarie
a ricostruire i fenomeni di contaminazione e richiedeva a ST.R. di
provvedere alla redazione di un nuovo Piano di caratterizzazione “tenendo
conto dei criteri generali previsti nell’allegato 2 titolo V parte IV del D.
Lgs. 152/2006”.
A seguito di comunicazione ex art. 245 del D.Lgs. n. 152/2006 ai competenti
Enti territoriali, la Provincia di Reggio Emilia, in data 17.04.2014
comunicava alla Società che “ad oggi, nonostante l’attivazione da parte
della Provincia delle procedure previste dal D.Lgs. 152/2006 non è stato
possibile identificare il soggetto responsabile”.
Preso atto dell’illustrato esito degli accertamenti esperiti dalla
Provincia, la ST.R. nel settembre 2015, sul presupposto della rilevata
presenza nel sottosuolo di contaminazioni superiori alle soglie di legge
che, si afferma, non consentivano la realizzazione dell’intervento edilizio
programmato, avviava un procedimento per Accertamento Tecnico Preventivo
(ATP) ex art. 696 c.p.c. innanzi al Tribunale di Reggio Emilia affinché,
“verificate le attività esercitate sull’area stessa dagli anni ’60 ad oggi”
accertasse “quali di queste sia stata causa dell’inquinamento e che ne sia
il soggetto responsabile”.
Il relativo procedimento si concludeva nell’anno 2016.
Il CTU incaricato in quella sede riteneva che esistesse un’elevata
probabilità che il responsabile dell’inquinamento da idrocarburi si
identificasse nel ricorrente che, tuttavia, non veniva ritenuto essere
responsabile dell’inquinamento da fluoruri.
Con nota del 03.05.2016 ARPAE (estranea al procedimento di ATP cui ST.R.
trasmetteva la CTU) comunicava al ricorrente l’avvio del procedimento ex
art. 244, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006, volto all’individuazione del
soggetto responsabile dell’inquinamento.
Nell’occasione ARPAE affermava l’esistenza di una elevata probabilità che il
ricorrente potesse indentificarsi nel responsabile in virtù delle analisi
svolte nel 2012 dalla Ditta RI. (incaricata da ST.R.) e precisava che “gli
approfondimenti e le considerazioni contenute nell’accertamento tecnico
preventivo costituiscono un nuovo elemento conoscitivo in possesso di questa
Agenzia per l’individuazione della responsabilità dell’inquinamento sopra
descritto”.
La ricorrente contestava i contenuti della comunicazione con nota del 30.05.2016.
Con nota del 20.09.2018, ARPAE richiedeva al ricorrente se intendesse
“segnalare ulteriori informazioni” o volesse “presentare osservazioni con
elementi aggiuntivi, anche emersi nell’ambito di eventuali sviluppi, nel
frattempo intercorsi, nel procedimento di parte per l’accertamento tecnico
preventivo”.
Con atto comunicato il 13.11.2018, ARPAE richiamava gli esiti della
CTU evidenziando come il Consorzio fosse stato individuato come probabile
responsabile dell’inquinamento da idrocarburi qualificando, invece, come
bassa la probabilità che l’inquinamento da fluoruri potesse essere
imputabile alle emissioni dei camini “ritenendo realisticamente più
probabile che siano gli stessi terreni ad avere fin dall’origine
variabilmente il contenuto del fluoruro riscontrato” (pag. 5 del
provvedimento impugnato).
ARPAE, che evidenziava, altresì, come il CTU avesse prospettato “che l’area
possa essere stata interessata da operazioni di riporto di materiali per
rendere pianeggiante l’intero sedime” (pag. 5 del provvedimento impugnato)
ordinava alla ricorrente di procedere alla presentazione entro 90 giorni di
un piano di caratterizzazione.
Il ricorrente impugnava l’ordinanza deducendo una pluralità di profili di
illegittimità.
...
Con il primo motivo il ricorrente deduceva l’incompetenza di ARPAE
all’adozione del provvedimento impugnato, nonché, la violazione degli artt.
244 e 245 del D.Lgs. n. 152/2006 e dell’art. 15, comma 9, della L.R. n.
13/2015.
Con memoria depositata il 10 maggio il ricorrente prendeva, tuttavia, atto
del deposito da parte della Provincia della Convenzione e dei relativi atti
di approvazione “tutti antecedenti alla data di comunicazione di avvio del
procedimento” (pag. 3), mediante i quali ARPAE veniva investita del potere
di provvedere e rinunziava al motivo.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt.
242, 244 e 245 del D.Lgs. n. 152/2006 e degli artt. 3 e 7 della L. n.
241/1990, nonché, eccesso di potere per difetto di istruttoria, motivazione
e di contraddittorio, difetto dei presupposti, ingiustizia grave e manifesta
e, infine, la violazione dei principi di buon andamento, imparzialità e
partecipazione.
Quanto alla dedotta lesione del diritto alla partecipazione procedimentale,
la doglianza è infondata atteso che la disciplina di settore non impone il
coinvolgimento dei potenziali responsabili della contaminazione sin dai
primi accertamenti.
L’art. 244, comma 2, del D. Lgs. n. 152/2006, infatti, si limita a disporre
che “la provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver
svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai
sensi del presente titolo”.
La necessità di un coinvolgimento del potenziale responsabile, come
correttamente rilevato da ARPAE, si palesa solo in un secondo tempo come si
ricava dai contenuti dell’art. 242, comma 4, laddove prevede che “entro sei
mesi dall'approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto
responsabile presenta alla regione i risultati dell'analisi di rischio. La
conferenza di servizi convocata dalla regione, a seguito dell'istruttoria
svolta in contraddittorio con il soggetto responsabile, cui è dato un
preavviso di almeno venti giorni, approva il documento di analisi di rischio
entro i sessanta giorni dalla ricezione dello stesso. Tale documento è
inviato ai componenti della conferenza di servizi almeno venti giorni prima
della data fissata per la conferenza e, in caso di decisione a maggioranza,
la delibera di adozione fornisce una adeguata ed analitica motivazione
rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza”.
In ogni caso non può che evidenziarsi che la vicenda dalla quale scaturiva
l’iniziativa provvedimentale in questa sede impugnata era nota alla
ricorrente per aver costituito oggetto, come illustrato, di più procedimenti
finalizzati all’individuazione del responsabile (Conferenza dei Servizi e
ATP).
Gli esiti dell’ATP richiamati da ARPA a presupposto dell’ordine impugnato,
inoltre, maturavano nell’ambito di un procedimento al quale la ricorrente
partecipava con un proprio consulente.
Il provvedimento impugnato veniva, infine, come anticipato, preceduto dalla
richiamata nota del 20.09.2018 mediante la quale l’Amministrazione
poneva la ricorrente in condizione di interloquire precedentemente
all’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento.
Circa la dedotta carenza motivazionale, la ricorrente evidenzia come ARPAE
abbia assunto acriticamente a presupposto della propria determinazione esiti
di accertamenti commissionati da ST.R. nell’anno 2012, nonché, i contenuti
della CTU disposta nell’ambito del richiamato ATP senza sottoporli ad alcuna
verifica.
Circa la CTU da ultimo richiamata la ricorrente evidenzia che l’incaricato
della stessa formulava le proprie conclusioni senza eseguire nuove indagini
ma limitandosi a recepire gli esiti degli accertamenti disposti da ST.R.
nel 2012.
ARPAE, si afferma ulteriormente, non avrebbe considerato che ST.R. avrebbe
acquisito la proprietà dell’area nell’anno 2000 e che nell’anno 2011,
precedentemente all’esecuzioni delle indagini in questione, avrebbe eseguito
sul sito lavori di demolizione suscettibili di contaminare il terreno.
Le conclusioni cui perveniva l’Amministrazione, inoltre, contraddirebbero
gli esiti degli accertamenti svolti dalla Provincia a seguito di una
segnalazione di ST.R. basata sui medesimi esiti degli accertamenti del
2012, che si concludevano ritenendo l’impossibilità di individuare il
responsabile della contaminazione lamentata.
Con il medesimo capo di impugnazione il ricorrente censura, altresì, la
tempistica procedimentale evidenziando come:
- il procedimento conclusosi con l’adozione dell’ordinanza
impugnata, veniva avviato con atto del 03.05.2016, nonostante la
segnalazione di ST.R. risalisse al 2012;
- nonostante la tempestiva produzione delle proprie deduzioni
(30.05.2016), il procedimento si arrestava sino al 20.09.2018 quanto ARPAE
comunicava di volerlo “proseguire”, invitando la ricorrente ad
integrare le propri deduzioni e concludendolo poi nel mese successivo.
Il descritto incedere paleserebbe la discontinuità e l’approssimazione con
la quale veniva condotta l’istruttoria procedimentale, violando in tal modo
il principio di buon andamento.
Quanto ai profili da ultimo evidenziati, ARPAE giustifica la censurata
tempistica procedimentale allegando come la CTU disposta in sede di ATP
fosse da qualificarsi in termini di elemento sopravvenuto che giustifica una
riattivazione procedimentale e che, con riferimento a tale sopravvenienza,
non sarebbe rilevabile alcun ritardo.
La posizione è condivisa dal Collegio.
L’acquisizione della più volte citata CTU (a prescindere dall’attendibilità
dei dati in essa contenuti), è elemento sopravvenuto astrattamente idoneo a
determinare una ripresa delle attività accertative.
A seguito di detta acquisizione (come già affermato, nota al ricorrente), il
Consorzio veniva tempestivamente invitato a dedurre in merito (nota del
20.09.2018) e il successivo epilogo provvedimentale interveniva in un breve
lasso di tempo.
In ogni caso, non è dedotto in ricorso che ARPAE sia incorsa nella
violazione di termini perentori.
Quanto ai dedotti vizi di contraddittorietà e difetto di istruttoria, come
anticipato, il provvedimento impugnato individua il responsabile della
contaminazione nel ricorrente sulla base dei soli dati forniti dalla Società
odierna proprietaria, peraltro datati, senza ulteriori accertamenti tesi a
verificarne la piena attendibilità.
A tal proposito si evidenzia che la Società ST.R. è da circa 20 anni
proprietaria dell’area contaminata e che, nel corso di tale significativo
lasso temporale, eseguiva una pluralità di interventi potenzialmente
inquinanti.
Sotto un primo profilo, si evidenzia che non è contestato che ST.R. abbia
effettuato interventi di demolizione dei fabbricati industriali che
insistevano sull’area.
Sotto altro profilo, è la stessa CTU resa in sede di ATP (che ARPAE assume,
da un lato come elemento sopravvenuto legittimante il superamento della
precedente posizione espressa dalla Conferenza dei servizi circa
l’impossibilità di individuare un responsabile e, da altro lato, come
fondamento dell’accertata responsabilità della contaminazione in capo al
ricorrente) ad affermare, come anticipato, che “che l’area possa essere
stata interessata da operazioni di riporto di materiali per rendere
pianeggiante l’intero sedime” (pag. 5 del provvedimento impugnato):
materiali in merito ai quali non veniva svolta alcuna indagine.
La medesima CTU, inoltre, escludeva l’imputabilità del rilevato inquinamento
da fluoruri al ricorrente, precisando che potrebbero essere presenti nel
terreno per condizione mineralogica dello stesso.
Tali elementi avrebbero dovuto indurre, in ossequio ai tradizionali principi
di buon andamento e imparzialità, ad intraprendere un’attività di verifica
dell’attendibilità delle acquisizioni in questione ed a valutare il
potenziale concorso di altri soggetti alla contaminazione, nonché, la
effettiva riconducibilità all’attività in precedenza esercitata di tutti gli
inquinanti indicati dal consulente di parte di ST.R. (Società in posizione
apertamente conflittuale con la ricorrente ai fini in esame) come presenti
sul sito.
Quanto al valore probatorio, ai fini in esame, della CTU acquisita,
fortemente enfatizzato dalle resistenti, deve rilevarsi che la stessa,
ancorché intervenuta nell’ambito di un procedimento giudiziale e nel
contraddittorio delle parti, fa proprie le conclusioni della Ditta RI.
incaricata privatamente, nel 2012 (6 anni prima dell’adozione dell’atto
impugnato) dalla Società ST.R., attuale proprietaria e potenziale
corresponsabile.
L’evidenziata carenza istruttoria non può essere superata invocando il
principio giurisprudenziale, richiamato da entrambe le resistenti, in base
al quale sarebbe ammesso l’utilizzo degli esiti di rilievi eseguiti da terzi
(TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.08.2018, n. 802).
Deve, infatti, rilevarsi che il TAR Lombardo perveniva all’affermazione del
suesposto principio, da condividersi in astratto, in presenza di una
fattispecie che presentava peculiarità non rinvenibili nel caso di specie.
In quel caso, ove procedeva la Provincia di Mantova (e non un Ente dotato
delle competenze e degli strumenti di ARPAE), si era in presenza di una
situazione “grave e tale da non consentire ulteriori ritardi” che
richiedeva una “messa in sicurezza di emergenza” precisando che era “l’urgenza
di procedere verso una soluzione stabile” che giustificava “anche [e,
quindi, non solo, ndr] l’utilizzazione degli studi e delle analisi già
effettuate da altri soggetti”.
Una tale urgenza non è rinvenibile nel caso di specie, ove si consideri che
i dati rilevanti ai fini dell’adozione dell’atto impugnato erano noti
all’Amministrazione sin dall’anno 2012 e già giudicati insufficienti ai fini
dell’individuazione del soggetto responsabile.
La circostanza da ultimo richiamata evidenzia, altresì, la contraddittorietà
dell’agire amministrativo che in diverse occasioni, e sulla base delle
medesime risultanze, perveniva ad esiti contrastanti.
Nei sensi invocati dalle resistenti, come già esposto, non può invocarsi la
CTU resa in sede di ATP, che, ancorché elemento sopravvenuto, veniva redatta
sulla base degli stessi accertamenti privatamente disposti da ST.R. nel
2012 e già valutati.
Ne consegue la fondatezza dei dedotti vizi di contraddittorietà e difetto di
istruttoria non potendosi formulare, allo stato delle evidenze istruttorie e
valutato il tempo intercorso dalla cessione delle aree e le successive
attività ivi svolte, un sicuro o anche solo attendibile giudizio di
imputabilità delle rilevate contaminazione alla pregressa attività della
ricorrente sulla base del mero e generico richiamo ai principi
giurisprudenziali del “chi inquina paga” e del “più probabile che
non” (Cons. St., Sez. IV, 04.12.2017, n. 5668 e Cass. Civ. Sez. un.,
11.01.2008, n. 581).
Per quanto precede il ricorso deve essere accolto ai fini di una complessiva
rivalutazione della posizione dei soggetti succedutisi nella proprietà del
fondo e dell’efficienza causale delle attività da ciascuno svolte sul sito
alla determinazione dell’evento inquinate previo esperimento degli
accertamenti del caso (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 24.06.2019 n. 177 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
materia di legittima emanazione dell'ordinanza di allontanamento e
smaltimento di rifiuti abbandonati è stato specificato dalla giurisprudenza:
- che colgono nel segno le doglianze di violazione dell’art. 192
TUAmb. e violazione del principio del contraddittorio;
- che, infatti, con riguardo all'ordine di rimozione ex art. 192,
comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, deve in primo luogo sussistere la colpa
specifica, e non già presunta o di posizione, del proprietario non autore
materiale delle condotte di abbandono dei rifiuti;
- che, dunque, la condanna del proprietario del suolo agli
adempimenti previsti dall'art. 192 d.lgs. n. 152/2006 necessita di un serio
accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio,
ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità ove si
ravvisi il titolo colposo di tale responsabilità, non potendosi configurare,
in assenza di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del
diritto europeo, una responsabilità del proprietario da posizione;
- che nella specie il sopralluogo comunale sul terreno è avvenuto
in assenza del comproprietario ricorrente.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia e/o adozione di
qualsiasi altra misura cautelare, dell’ordinanza n. 3 del 05/03/2019 prot.
n. 451 del 06/03/2019 Uff. Tecnico, notificata l'11/03/2019, emessa dal
Comune di San Sosti (CS), con cui si ordina ai sig.ri Ar.Co., Ar.Con.,
Ar.Gi.Vi. e Ar.Vi., in qualità di proprietari del terreno sito in località
Castagneto censito al N.C.T. di San Sosti al foglio 16 mappale 223, “a
voler provvedere, nel più breve tempo possibile e comunque entro e non oltre
60 (sessanta) giorni dalla notifica della presente ordinanza:
all'allontanamento ed allo smaltimento in base alla tipologia di rifiuto e
ai sensi dell'art. 192 del d.lgs 03.04.2006 n. 152 e s.m.i., dei rifiuti
abbandonati presso l'area sita in loc.tà Castagneto censita al Catasto al Fg.
16 mappale 223; al ripristino e alla bonifica dello stato dei luoghi. Gli
stessi, espletata la procedura corretta di smaltimento del materiale,
dovranno produrre una relazione circa gli interventi eseguiti, corredata
dalla certificazione comprovante l'avvenuto smaltimento dei su citati
rifiuti”.
...
Considerato:
- che colgono nel segno le doglianze di violazione dell’art. 192
TUAmb. e violazione del principio del contraddittorio;
- che, infatti, con riguardo all'ordine di rimozione ex art. 192,
comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, deve in primo luogo sussistere la colpa
specifica, e non già presunta o di posizione, del proprietario non autore
materiale delle condotte di abbandono dei rifiuti (cfr. da ultimo Cons.
Stato, IV, 07.06.2018, n. 3430);
- che, dunque, la condanna del proprietario del suolo agli
adempimenti previsti dall'art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 necessita di un
serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in
contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della
esigibilità ove si ravvisi il titolo colposo di tale responsabilità (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, n. 3672 del 2017; sez. V, n. 1089 del 2017; sez. IV,
n. 1301 del 2016; sez. V, n. 933 del 2015), non potendosi configurare, in
assenza di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del
diritto europeo, una responsabilità del proprietario da posizione (cfr. da
ultimo Corte giust. UE, sez. II, 13.07.2017, C-129/2016; sez. III,
04.03.2015, n. 534; Cons. Stato, Ad. plen., n. nn. 21 e 25 del 2013);
- che nella specie il sopralluogo sul terreno è avvenuto in assenza
del comproprietario ricorrente;
- che, tra l’altro, egli aveva esso stesso presentato denuncia al
Comune di rinvenimento delle lastre di eternit e che con apposita ctp ha
dimostrato vi fosse chiusura di accesso al fondo, a destinazione boschiva,
con cancello in legno divelto;
Ritenuto, pertanto:
- di accogliere il ricorso con annullamento dell’ordinanza
impugnata (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 20.06.2019 n. 1235 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: E'
illegittima l'ordinanza sindacale che impone al proprietario del fondo la
recinzione dello stesso al fine di evitare l'abbandono incontrollato di
rifiuti.
Costante giurisprudenza suffraga la natura essenzialmente facoltativa e non
obbligatoria della recinzione del fondo in capo al proprietario.
In tal senso depone in termini inequivoci l’art. 841 c.c., in virtù del
quale: “Il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo”. La
chiusura/recinzione del fondo è dunque un atto facoltativo per il titolare
del diritto dominicale.
Sicché, tra le prestazioni che il Sindaco può imporre al proprietario, tanto
nell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs. 152/2006, quanto in quelle emanate ai
sensi degli artt. 50 e 54 D.Lgs. 267/2000, non può essere annoverata la
recinzione del fondo.
Invero:
- “Per principio generale di diritto (cfr. art. 841 cod. civ.) la
"chiusura del fondo" costituisce, infatti, una mera facoltà del
proprietario, il cui mancato esercizio non può, dunque, ridondare in un
giudizio di responsabilità per condotta omissiva o inottemperante ad un
obbligo di diligenza”; “Secondo un principio generale del diritto,
riveniente dall'art. 841 c.c., la chiusura del fondo costituisce una mera
facoltà del proprietario e, dunque, giammai un suo obbligo”;
- La possibilità di addivenire all’imposizione della recinzione
potrebbe al limite ipotizzarsi in situazioni peculiari, e comunque sulla
scorta di una specifica e ponderata valutazione, da parte
dell’amministrazione procedente, svolta alla luce dei canoni della
proporzionalità e ragionevolezza, del tutto assente negli atti qui gravati:
“D’altronde, se anche si dovesse ravvisare un fondamento normativo
all'obbligo di recinzione, resterebbe comunque da considerare che un obbligo
di condotta di tal genere andrebbe valutato secondo criteri di ordinaria
diligenza e, quindi, di proporzionata e ragionevole esigibilità, che nella
specie non sono neppure astrattamente invocabili, atteso che -i paventati
pericoli per la salute dei residenti, asseritamente causati dallo
stazionamento di automezzi sul terreno- risultano essere frutto di
affermazioni non supportate da alcun effettivo accertamento.
Conseguentemente, appare opportuno sottolineare come l’omessa recinzione del
fondo, integrando una condotta del tutto legittima da parte del
proprietario, non può essere assunta dal comune, in sede di adozione
dell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs. 152/2006, quale indice della colpa del
titolare del terreno.
Anche sotto tale profilo, invero, l’opinione giurisprudenziale è
consolidata: “In caso di abbandono di rifiuti in un fondo di proprietà
privata, la colpa del proprietario non può ravvisarsi nel fatto che quest'ultimo
non abbia recintato l'area, posto che la chiusura del fondo costituisce una
mera facoltà del proprietario, ai sensi dell'art. 841 c.c., giammai un
obbligo”.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 61 del 30.07.2018, comunicata il
02.08.2018 e della successiva ordinanza sindacale n. 78 del 21.08.2018,
comunicata il 12.09.2018, in parte qua, laddove prevedono la realizzazione
della recinzione delle aree;
...
I Sigg.ri Pa.Si.Va., Ni.Bi.Va. e An.Va. sono proprietari di alcuni
appezzamenti di terreno ubicati in Comune di Arnesano.
Con ordinanza n. 61 del 30.07.2018 il Sindaco del Comune di Arnesano
ingiungeva ai Va.: “1. di provvedere, a propria cura e spese,
all’esecuzione delle opere di difesa e prevenzione antincendio, previa
estirpazione e pulizia delle erbacce cresciute nei lotti di terreno di
proprietà e smaltimento presso ditte autorizzate dei rifiuti abbandonati
entro e non altre 10 giorni dalla notifica della presente […]; 2. Di
provvedere alla recinzione dei lotti di terreno innanzi citati entro 90
giorni dalla data di notifica della presente ordinanza, previa preventiva
richiesta all’Ufficio tecnico Comunale del relativo titolo abilitativo ai
sensi del TUE […]”.
Immediatamente dopo la notifica di tale ordinanza, veniva fornita
all’amministrazione comunale documentazione fotografica attestante
l’intervenuta esecuzione delle opere di scerbatura dei terreni.
Con successiva ordinanza n. 78 del 21.08.2018 il Sindaco ingiungeva
ulteriormente ai Va., con riferimento ai fondi di loro proprietà, di “eseguire
le opere di estirpazione e pulizia delle erbe infestanti, nonché la raccolta
e smaltimento presso ditte autorizzate dei rifiuti di vario genere
abbandonati nei lotti di terreno […]; avverte […] che i soggetti obbligati,
nei termini previsti dall’ordinanza sindacale n. 61 /2018, sono tenuti a
provvedere alla recinzione dei lotti di terreno innanzi citati, previa
preventiva richiesta all’Ufficio Tecnico Comunale del relativo titolo
abilitativo ai sensi del TUE approvato con D.P.R. n. 380 del 6.6.2001 e
s.m.i.”.
Avverso i suddetti provvedimenti sindacali, i Vacca proponevano il ricorso
introduttivo del presente giudizio, chiedendone l’annullamento “in parte
qua, laddove prevede la realizzazione della recinzione delle aree”, per
il seguente articolato motivo: ...
...
1. Il ricorso è fondato.
La porzione del provvedimento che costituisce oggetto di impugnazione da
parte dei ricorrenti è quella con la quale il Sindaco imponeva ai Va. la
recinzione del proprio fondo.
1.1. Le valutazioni svolte in ricorso, e suffragate da costante indirizzo
giurisprudenziale, circa la natura essenzialmente facoltativa e non
obbligatoria della recinzione del fondo in capo al proprietario, sono
condivise dal Collegio. In tal senso depone in termini inequivoci l’art. 841
c.c., in virtù del quale: “Il proprietario può chiudere in qualunque
tempo il fondo”. La chiusura/recinzione del fondo è dunque un atto
facoltativo per il titolare del diritto dominicale.
Per quanto precede, tra le prestazioni che il Sindaco può imporre al
proprietario, tanto nell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs. 152/2006, quanto in
quelle emanate ai sensi degli artt. 50 e 54 D.Lgs. 267/2000, non può essere
annoverata la recinzione del fondo: “È fondato ed assorbente il rilievo
secondo cui non può essere imposta ai proprietari la recinzione del fondo.
Per principio generale di diritto (cfr. art. 841 cod. civ.) la "chiusura del
fondo" costituisce, infatti, una mera facoltà del proprietario, il cui
mancato esercizio non può, dunque, ridondare in un giudizio di
responsabilità per condotta omissiva o inottemperante ad un obbligo di
diligenza (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. I, n. 9276/2014; Cons. Stato,
sez. III, sentenza n. 4316/2018, sez. V, sentenza n. 4504/2015; sez. III,
sentenza n. 2518/2010; sez. V, sentenza n. 1612/2009)” (TAR Calabria, Reggio
Calabria, Sez. I, 11.09.2018 n. 529; TAR Calabria); “Secondo un principio
generale del diritto, riveniente dall'art. 841 c.c., la chiusura del fondo
costituisce una mera facoltà del proprietario e, dunque, giammai un suo
obbligo” (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 18.09.2012 n. 954; cfr: TAR
Umbria, Perugia, Sez. I, 27.01.2012 n. 13).
La possibilità di addivenire all’imposizione della recinzione potrebbe al
limite ipotizzarsi in situazioni peculiari, e comunque sulla scorta di una
specifica e ponderata valutazione, da parte dell’amministrazione procedente,
svolta alla luce dei canoni della proporzionalità e ragionevolezza, del
tutto assente negli atti qui gravati: “D’altronde, se anche si dovesse
ravvisare un fondamento normativo all'obbligo di recinzione, resterebbe
comunque da considerare che un obbligo di condotta di tal genere andrebbe
valutato secondo criteri di ordinaria diligenza e, quindi, di proporzionata
e ragionevole esigibilità, che nella specie non sono neppure astrattamente
invocabili, atteso che -i paventati pericoli per la salute dei residenti,
asseritamente causati dallo stazionamento di automezzi sul terreno-
risultano essere frutto di affermazioni non supportate da alcun effettivo
accertamento” (TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 11.09.2018 n.
529).
1.2. In conseguenza di quanto sopra, peraltro, appare opportuno sottolineare
come l’omessa recinzione del fondo, integrando una condotta del tutto
legittima da parte del proprietario, non possa essere assunta
dall’amministrazione, in sede di adozione dell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs.
152/2006, quale indice della colpa del titolare del terreno.
Anche sotto tale profilo, invero, l’opinione giurisprudenziale è
consolidata: “In caso di abbandono di rifiuti in un fondo di proprietà
privata, la colpa del proprietario non può ravvisarsi nel fatto che quest'ultimo
non abbia recintato l'area, posto che la chiusura del fondo costituisce una
mera facoltà del proprietario, ai sensi dell'art. 841 c.c., giammai un
obbligo” (Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.2009 n. 1612; cfr: TAR
Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 19.12.2012 n. 747).
1.3. Le ordinanze oggetto del presente giudizio, nella parte in cui
impongono ai proprietari la recinzione delle aree di loro proprietà,
risultano, per quanto precede, illegittime.
1.4. La fondatezza del rilievo dirimente qui esaminato consente di
assorbire, per ragioni di ordine logico, le ulteriori censure svolte
nell’atto introduttivo del giudizio.
2. Il ricorso risulta dunque fondato e deve essere accolto, con conseguente
annullamento dei provvedimenti impugnati nella parte in cui essi impongono
ai proprietari la chiusura del fondo
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 11.06.2019 n. 986 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ai
sensi degli articoli 242, comma 1, e 244, comma 2, del d.lgs. n. 152 del
2006, se viene accertata la potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili
dell'inquinamento e cioè a coloro che abbiano in tutto o in parte dato causa
alla contaminazione.
Si è di conseguenza esclusa la responsabilità del proprietario o del
possessore dell'immobile solo perché rivestono tale qualità.
Lo si desume chiaramente:
- dall’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, che considera il
proprietario, o il titolare di diritti reali o personali di godimento
sull'area inquinata, responsabile in solido con l’autore materiale
dell'abbandono o deposito incontrollati di rifiuti, se vengono meno
colpevolmente ad uno specifico obbligo di diligenza nella prevenzione
dell’inquinamento in quanto prevedibile e prevenibile con l’ordinaria
diligenza;
- dall'art. 311 che detta la definizione della colpa e disciplina
l'azione risarcitoria per danno ambientale e pone quindi in capo al soggetto
tenuto al risarcimento una responsabilità di tipo soggettivo;
- dall’art 245, che prevede la facoltà -non un obbligo- del
proprietario o possessore del suolo di attivare le procedure per gli
interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale e
di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione
degli interventi di bonifica.
- dall’art. 245, comma 2, che dispone: il proprietario o il gestore
dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del
superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve […]
attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'articolo
242, le quali, secondo la definizione dell’art. 240 consistono in
“iniziative mirate a contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha
creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come
rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il
profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
- dall’art. art. 244 che pone gli interventi di riparazione, messa
in sicurezza, bonifica e ripristino esclusivamente a carico del responsabile
della contaminazione e solo in subordine li pone a carico dalla p.a.
competente ove il responsabile rimanga ignoto o non vi provveda, né vi
provvedano il proprietario del sito o altro soggetto interessato;
- dall’art. 253, comma 4, secondo il quale le spese sostenute per
effettuare gli interventi necessari potranno essere recuperate, sulla base
di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità
di accertare l'identità del soggetto responsabile o di esercitare utilmente,
nei confronti del medesimo, azioni di rivalsa), a titolo di rivalsa nei
confronti del proprietario, nei limiti del valore di mercato del sito che è
gravato a tal fine di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare
(art. 253, comma 2).
Grava pertanto sul proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, solo la
messa in sicurezza del sito quale misura di prevenzione dei danni che
potrebbero derivare all'ambiente la quale, non avendo finalità sanzionatoria
o ripristinatoria, non presuppone l’imputabilità della contaminazione a
fatto (azione o omissione) e colpa del proprietario.
Si è infatti condivisibilmente ritenuto che ai sensi degli artt. 242, comma
1, e 244, comma 2, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un
fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di
caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica
e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica
amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè
quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un
proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un
preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di
mera posizione del proprietario del sito inquinato.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza del Sindaco di Sulmona n. 19 del
14.03.2018, notificata in data 11.04.2018, avente ad oggetto la bonifica
della discarica contaminata in località Santa Lucia nel Comune di Sulmona,
nella parte in cui dispone che le attività di indagine ambientale,
caratterizzazione e rimozione dei rifiuti, bonifica e ripristino del sito
siano poste a carico, tra gli altri, anche della Sig.ra Ce.Gi., in proprio e
nella qualità di legale rappresentante della Te. di Ce.Gi..
...
Con il ricorso in decisione Gi.Ce. chiede l’annullamento dell’ordinanza n.
19 del 14.03.2018 con la quale il Comune di Sulmona ha intimato a lei, quale
legale rappresentante della TE. di Ce.Gi. & C. S.a.s., proprietaria dei
terreni censiti in catasto al Fg. n. 29, part.lle n. 44, 52,312, 313 e 314,
alla S.r.l. L’Am. e a Ma.Do., quali responsabili in solido, di eseguire
indagini ambientali, caratterizzazione e rimozione di rifiuti, nonché la
bonifica del sito industriale dismesso nel quale detti terreni sono compresi
unitamente alla contigua particella n. 45, foglio 29, occupata da discarica
abusiva si proprietà di It.Pa., parimenti intimato.
...
La questione in decisione riguarda l’ordine rivolto alla proprietaria di
un’area contigua ad un suolo occupato da una discarica abusiva “di
eseguire una campagna di indagini ambientali con prelievo di campioni sulla
matrice Terreno superficiale (TopSoli) al fine di evidenziare l’estensione
della contaminazione anche eventualmente fuori del sito, nonché
relativamente alle varie matrici coinvolte; indagine di qualità ambientale
sulle matrici “acqua” e suolo”; caratterizzazione e rimozione rifiuti;
bonifica delle aree interessate e ripristino finale del sito; trasmissione,
entro 15 (quindici) giorni di tutta la documentazione tecnica comprovante
l’avvenuta esecuzione di quanto prescritto.
La ricorrente sostiene di non essere tenuta a tali adempimenti perché altri
sarebbero gli autori dell’inquinamento della particella n. 45 e
dell’eventuale contaminazione delle aree limitrofe comprese nel sito.
...
Gli altri motivi in quanto strettamente connessi possono essere esaminati
congiuntamente.
A tal fine è necessario premettere una sintesi delle disposizioni rilevanti
in materia.
Ai sensi degli articoli 242, comma 1, e 244, comma 2, del d.lgs. n. 152 del
2006, se viene accertata la potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili
dell'inquinamento e cioè a coloro che abbiano in tutto o in parte dato causa
alla contaminazione.
Si è di conseguenza esclusa la responsabilità del proprietario o del
possessore dell'immobile solo perché rivestono tale qualità (Cons. Stato,
sez. V, 30.07.2015, n. 3756).
Lo si desume chiaramente:
- dall’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, che considera il
proprietario, o il titolare di diritti reali o personali di godimento
sull'area inquinata, responsabile in solido con l’autore materiale
dell'abbandono o deposito incontrollati di rifiuti, se vengono meno
colpevolmente ad uno specifico obbligo di diligenza nella prevenzione
dell’inquinamento in quanto prevedibile e prevenibile con l’ordinaria
diligenza (TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, n. 2675/2016; Cons. di Sato – Sez.
IV n. 84/2010; Cass. Sez. Un. n. 4472/2009);
- dall'art. 311 che detta la definizione della colpa e disciplina
l'azione risarcitoria per danno ambientale e pone quindi in capo al soggetto
tenuto al risarcimento una responsabilità di tipo soggettivo;
- dall’art 245, che prevede la facoltà -non un obbligo- del
proprietario o possessore del suolo di attivare le procedure per gli
interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale e
di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione
degli interventi di bonifica.
- dall’art. 245, comma 2, che dispone: il proprietario o il gestore
dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del
superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve […]
attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'articolo
242, le quali, secondo la definizione dell’art. 240 consistono in “iniziative
mirate a contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una
minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
- dall’art. art. 244 che pone gli interventi di riparazione, messa
in sicurezza, bonifica e ripristino esclusivamente a carico del responsabile
della contaminazione e solo in subordine li pone a carico dalla p.a.
competente ove il responsabile rimanga ignoto o non vi provveda, né vi
provvedano il proprietario del sito o altro soggetto interessato;
- dall’art. 253, comma 4, secondo il quale le spese sostenute per
effettuare gli interventi necessari potranno essere recuperate, sulla base
di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità
di accertare l'identità del soggetto responsabile o di esercitare utilmente,
nei confronti del medesimo, azioni di rivalsa), a titolo di rivalsa nei
confronti del proprietario, nei limiti del valore di mercato del sito che è
gravato a tal fine di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare
(art. 253, comma 2).
Grava pertanto sul proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, solo la
messa in sicurezza del sito quale misura di prevenzione dei danni che
potrebbero derivare all'ambiente la quale, non avendo finalità sanzionatoria
o ripristinatoria, non presuppone l’imputabilità della contaminazione a
fatto (azione o omissione) e colpa del proprietario.
Si è infatti condivisibilmente ritenuto che ai sensi degli artt. 242, comma
1, e 244, comma 2, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un
fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di
caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica
e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica
amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè
quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un
proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un
preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di
mera posizione del proprietario del sito inquinato (Consiglio di Stato sez.
IV, 04/12/2017, n. 5668; Consiglio di Stato sez. V, 08/03/2017, n. 1089; C.
Giust. UE, sez. III, 04.03.2015, C-534/13).
In applicazione dei principi richiamati la ricorrente, in qualità di
proprietaria dell'area, alla quale il provvedimento gravato non imputa la
responsabilità neppure indiretta dell'inquinamento attuale (della particella
n. 45) o potenziale (della parte restante del sito), richiamando invece
quale titolo dell’ordine impartitole l’inclusione dei terreni che le
appartengono nel sito industriale dismesso, sarà, se del caso, responsabile
sul piano patrimoniale e tenuta, ove occorra, al rimborso delle spese
relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del
valore di mercato del sito determinato dopo l'esecuzione di tali interventi,
secondo quanto desumibile dalla disciplina vigente come sopra interpretata.
Ne consegue che l’ordinanza gravata deve essere annullata nella parte in cui
impone alla ricorrente attività del tutto diverse dall’adozione delle misure
di prevenzione che potrebbero esserle legittimamente imposte.
Non hanno infatti natura preventiva la campagna di indagini ambientali con
prelievo di campioni sulla matrice Terreno superficiale (TopSoli) al fine di
evidenziare l’estensione della contaminazione anche eventualmente fuori del
sito, nonché relativamente alle varie matrici coinvolte né l’indagine di
qualità ambientale sulle matrici “acqua” e "suolo”, né la
caratterizzazione e rimozione rifiuti e la bonifica delle aree interessate e
ripristino finale del sito imposti dall’ordinanza gravata, il cui obbligo di
facere grava in via diretta sui responsabili dell’abbancamento dei
rifiuti e, in via sostitutiva, sull’Amministrazione con rivalsa nei
confronti della ricorrente nei limiti del valore di mercato del suolo.
Infine, proprio perché la ricorrente viene intimata in qualità di
proprietaria, non è tenuta ad alcun adempimento con riferimento alla
particella n. 45 che appartiene al cointeressato It.Pa.,
Tale considerazione assorbe le censure del terzo motivo nella parte in cui
la ricorrente lamenta di non aver potuto allegare, stante l’omessa
comunicazione di avvio del procedimento concluso con l’adozione
dell’ordinanza, di essere estranea ad ogni coinvolgimento inerente
all’inquinamento della particella n. 45
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 10.06.2019 n. 294 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: E’ pacifico che il principio “chi inquina paga” non ammette
forme di responsabilità a prescindere dalla materiale causazione del danno o
del pericolo ambientale.
L’Amministrazione non può imporre, infatti, al proprietario di un’area
contaminata, il quale non sia l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di
provvedere alla bonifica di siffatta area. Orientamento, questo, che la
Corte di Giustizia ha ritenuto compatibile con la normativa comunitaria,
nello specifico la direttiva n. 2004/35 sulla responsabilità ambientale.
Per la giurisprudenza, ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2,
del d.lgs. n. 152 del 2006, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale
contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale
possono essere, invero, imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai
soggetti responsabili dell'inquinamento e cioè ai soggetti che abbiano in
tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento
commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di
causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione
del proprietario del sito inquinato.
Unica eccezione è costituita dalle (mere) misure di precauzione che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non
avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppongono affatto
l’accertamento del dolo o della colpa.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione cautelare, dell'ordinanza
sindacale del Comune di Spilimbergo n. 62 del 24.07.2018, per l'esecuzione
di misure di prevenzione ai sensi dell'art. 240 c. 1, lett. i), del d.lgs.
152/2006 presso l'area industriale sita in Spilimbergo “Zona industriale
Cosa”, Fg. 27 mapp. n. 335, nonché in merito alla presunta copertura in
cemento-amianto dell'immobile (doc. 1);
...
La società UB.Le. S.p.A., proprietaria di una serie di immobili ed aree siti
nel Comune di Spilimbergo (PN), Zona Industriale Cosa, contesta la
legittimità, invocandone l’annullamento, previa sospensione cautelare, del
provvedimento a firma congiunta del Sindaco e del Responsabile del Servizio
Ambiente in epigrafe compiutamente indicato, laddove le è stato ordinato,
quale proprietà dei mappali medesimi e, in particolare, di quelli
interessati dallo stabilimento “ex Sintesi” ove insistono le vasche
dell’impianto di trattamento (cromo e nichel) ancora parzialmente piene di
prodotto, nonché le vasche di raccolta reflui e acque di processo del pari
ancora piene, di provvedere ai sensi artt. 240, 242 e ss. d.lgs. n.
152/2006:
“- entro il termine perentorio di 10 giorni dal ricevimento
della presente, a porre in essere tutte le necessarie misure di prevenzione
finalizzate ad evitare che i materiali liquidi/rifiuti liquidi sopra
indicati alle lett. a) e b) delle premesse della presente ordinanza, possano
costituire potenziale sorgente attiva di contaminazione del suolo, del
sottosuolo e della falda sotterranea: le misure di prevenzione dovranno
consistere nella totale rimozione dei materiali/rifiuti liquidi sopra
indicati e nel loro avvio a recupero/smaltimento nelle forme di legge, ed
altresì nel successivo completo lavaggio e pulizia di tutte le
vasche/cisterne di raccolta degli stessi;
- di effettuare, entro 30 giorni dal ricevimento della presente,
l’analisi di classificazione della copertura dell’immobile indicato in
premessa, e ove risultasse composta da cemento-amianto (eternit), procedere,
nei 30 giorni successivi, ai sensi del D.M 06/09/1994 <Normative e
metodologie tecniche di applicazione dell'art. 6, comma 3, e dell'art. 12,
comma 2, della Legge 27.02.1992 n. 257, relativa alla cessazione
dell'impiego dell'amianto>, attraverso ditta specializzata e/o tecnico
qualificato, alla valutazione dello stato di degrado dei materiali contenti
amianto sulla copertura del fabbricato, trasmettendola al Comune; in seguito
alla valutazione dello stato di degrado o conservazione della copertura in
cemento-amianto, effettuare altresì gli interventi di monitoraggio e
controllo periodico o, se necessario, procedere, a seconda dello stato di
degrado della copertura, con uno degli interventi di bonifica previsti dalla
normativa vigente (D.M. 06.09.1994 rimozione, incapsulamento, confinamento)”.
...
Il ricorso merita accoglimento.
Indiscussa, invero, la permanenza dell’interesse alla decisione nel merito
in capo a parte ricorrente, atteso che, da quanto riferito da entrambe le
parti, la medesima avrebbe solo dato avvio ai lavori di rimozione dei
materiali/rifiuti liquidi presenti nel sito e manifestato l’intenzione di
effettuare quelli di bonifica dell’eternit del pari presente nel sito,
sicché –è evidente– il provvedimento gravato non ha, allo stato, ancora
esaurito i propri effetti nei suoi confronti, il Collegio ritiene dirimenti
i primi due motivi di gravame.
In disparte l’effettiva “perplessità” dell’adozione congiunta del
provvedimento gravato da parte dell’organo politico di vertice dell’ente
civico e di quello gestionale competente per materia, il Collegio ritiene,
in effetti, che il provvedimento in questione fuoriesca, per il suo
contenuto e la sua effettiva portata, dallo stretto perimetro delle cd.
misure di prevenzione di cui all’art. 240, c. 1, lett. i), d.lgs. n.
152/2006 e, in particolare, che difetti degli stringenti presupposti
stabiliti per l’emissione dei provvedimenti contingibili ed urgenti di
competenza sindacale, dovendo, per converso, venire declinato secondo la
procedura “ordinaria” di cui all’art. 244 d.lgs. citato, di spettanza
dell’ente cui competono le funzioni amministrative in materia di ambiente.
Decisiva, nei sensi dell’illegittimità dell’ordinanza in questione laddove
emessa nei confronti della ricorrente, è, in ogni caso, la circostanza che
la stessa poggia sulla mera e acritica constatazione della titolarità in
capo alla società Ub.Le. del bene su cui insiste l’inquinamento al quale,
ancorché impropriamente, ha inteso ovviare, senza peritarsi di indagare in
alcun modo se la situazione pregiudizievole per l’ambiente che è stata
riscontrata le sia effettivamente ascrivibile.
E’ pacifico, però, che il principio “chi inquina paga” non ammette
forme di responsabilità a prescindere dalla materiale causazione del danno o
del pericolo ambientale.
L’Amministrazione non può imporre, infatti, al proprietario di un’area
contaminata, il quale non sia l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di
provvedere alla bonifica di siffatta area (ex multis, Cons. Stato,
Sez. V, 21.11.2016, n. 4875). Orientamento, questo, che la Corte di
Giustizia ha ritenuto compatibile con la normativa comunitaria, nello
specifico la direttiva n. 2004/35 sulla responsabilità ambientale (cfr. CGUE,
Sez. III, 04.03.2015, causa C-534/13).
Per la giurisprudenza, ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2,
del d.lgs. n. 152 del 2006, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale
contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale
possono essere, invero, imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai
soggetti responsabili dell'inquinamento e cioè ai soggetti che abbiano in
tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento
commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di
causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione
del proprietario del sito inquinato (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 25.09.2013,
n. 21; Corte di giustizia, sez. III, 04.03.2015, C-534/13).
Unica eccezione è costituita dalle (mere) misure di precauzione, ipotesi che
non ricorre, però, nel caso di specie, che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non
avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppongono affatto
l’accertamento del dolo o della colpa (Cons. Stato, V, 08.03.2017, n. 1089;
in questi termini, Cons. Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509; Cons. Stato,
sez. VI, 15.07.2015, n. 3544).
In definitiva, i motivi scrutinati sono fondati
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 05.06.2019 n. 247 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Laddove
si contesti l’adozione da parte del Sindaco di un provvedimento contingibile e urgente in materia ambientale,
la giurisprudenza ha
opportunamente evidenziato che “la competenza in materia della Provincia
può essere considerata come esclusiva soltanto in relazione ai procedimenti
ordinari, visto che la norma attributiva del potere non fa uno specifico
riferimento alle situazioni in cui si ravvisi l’indifferibilità e l’urgenza
di provvedere (per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista
esplicitamente l’emanazione di ordinanze contingibili e urgenti, si veda
l’art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di
regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve
ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico
e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti (…), allorquando
se ne configurino i relativi presupposti.
L’astratta configurabilità di un tale modus operandi consente, altresì, di
prescindere, in tale fase, dalla previa individuazione del soggetto
responsabile dell’inquinamento, rendendo possibile indirizzare l’ordine di
intervento direttamente al proprietario dell’area inquinata”.
Con riguardo all’ultimo profilo preso in considerazione dalla giurisprudenza, è stato, peraltro, reiteratamente affermato
che “è il solo obbligo di bonifica che non può essere imposto al
proprietario incolpevole, mentre le misure di precauzione ben possono essere
imposte al proprietario dell’area che non sia anche responsabile
dell’inquinamento, dal momento che, non avendo finalità sanzionatoria o
ripristinatoria, prescindono dal requisito del dolo o della colpa” e, nello specifico, che “la messa in sicurezza del sito
costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra pertanto nel genus
delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e
al principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non
avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto
l’accertamento del dolo o della colpa”.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione cautelare dell'ordinanza
sindacale del Comune di Spilimbergo n. 64 del 26.07.2018, per l'esecuzione
di misure di prevenzione e per la messa in sicurezza ai sensi dell'art. 240
del d.lgs. 152/2006 all'interno dell'area industriale sita in Spilimbergo “Zona
industriale Cosa”, catastalmente censita L Fg. 27 mapp. N. 382;
...
La società UB.Le. S.p.A., proprietaria di una serie di immobili ed aree siti
nel Comune di Spilimbergo (PN), Zona Industriale Cosa, contesta la
legittimità, invocandone l’annullamento, previa sospensione cautelare, del
provvedimento sindacale in epigrafe compiutamente indicato, con cui le è
stato ordinato, quale proprietà del mappale 382 Fg. 27 ove insiste uno
sversamento di una sostanza riconducibile a possibili idrocarburi o oli
minerali, che potrebbe costituire una potenziale fonte di contaminazione (“hot
spot”): “1. di procedere con l’adozione delle opportune misure di
prevenzione e con l’immediata messa in sicurezza dell’hot spot indicato in
premessa, coprendo con un telo impermeabile l’area interessata dallo stesso
al fine evitare che –in caso di pioggia– possano verificarsi fenomeni di
percolamento e diffusione dei contaminanti nel sottosuolo ed in falda;
2. di porre in essere immediatamente tutte le più opportune misure di
sicurezza al fine di confinare la potenziale sorgente di contaminazione
indicata in premessa; tali misure andranno preventivamente condivise con
l’ARPA FVG – Dipartimento di Pordenone;
3. di comunicare al Comune di Spilimbergo, all’ARPA FVG – Dipartimento di
Pordenone, alla Regione FVG, all’AAS n. 5 e alla Procura della Repubblica di
Pordenone, con almeno 12 ore di preavviso, l’inizio delle operazioni di cui
al precedenti punti 1. e 2.”.
...
Il ricorso non ha pregio.
Invero, in disparte ogni considerazione in ordine ai “motivi di carattere
soggettivo” che hanno indotto parte ricorrente a dare medio tempore
esecuzione al provvedimento impugnato, deprivandola, ad avviso del Collegio,
di ogni interesse a contestarne la legittimità, dato, tra l’altro, che non
ha avanzato istanza risarcitoria (o, eventualmente, dichiarato di essere
intenzionata a farlo), il Collegio ritiene che il provvedimento in questione
sfugga, in ogni caso, ai vizi denunciati dalla medesima.
Valgono le seguenti considerazioni.
Il Collegio ritiene, innanzitutto, che la misura minimale di prevenzione
posta a carico della ricorrente (copertura con un telo impermeabile dell’hot
spot) possa pacificamente rientrare tra i provvedimenti contingibili e
urgenti di competenza sindacale (quale deve ritenersi pacificamente essere
quello gravato), essendo insita nel paventato rischio di percolamento e
diffusione dei contaminanti nel sottosuolo e in falda in caso di pioggia la
sussistenza di quei presupposti di straordinarietà e urgenza che ne
legittimano l’adozione.
E’ evidente, infatti, che la potenziale offesa per l’incolumità pubblica si
pone quale diretta (e facilmente prevedibile conseguenza) del danno
all’ambiente provocato dallo sversamento della sostanza ritenuta
riconducibile a possibili idrocarburi o oli minerali.
Lo strumento in questione (che, per quanto si dirà in seguito, deve
ritenersi applicabile pur a fronte di una normativa speciale che si occupa,
di regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati) può
essere utilizzato, invero, anche per evitare che un danno si verifichi o che
–come nel caso in esame– si aggravi, prevalendo comunque l’esigenza di dare
tutela all’interesse pubblico esposto a lesione (alla stregua dell’art.
3-quater introdotto nel testo del d.lgs. n. 152/2006 dal d.lgs. n. 4/2008, “nell’ambito
della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da
discrezionalità, gli interessi alla tutela dell’ambiente…devono essere
oggetto di prioritaria considerazione”).
Senza trascurare, peraltro, di rilevare che la misura imposta è andata a
vantaggio della stessa ricorrente, quale proprietaria dell’area, in quanto
le ha consentito di evitare, al contempo, anche il prodursi di ulteriori
danni a suo carico. Il Comune ha rappresentato, infatti, che le analisi sui
campioni dell’hot spot nel frattempo condotte dall’ARPA (vedi nota
ARPA FVG prot. 36589 del 15.10.2018) hanno confermato che trattasi di
rifiuto “classificato come speciale pericoloso classi di pericolosità
HP14 eco-tossico per la presenza di olio minerale (C10-C40) pari a 28000
mg/kg”.
Il Collegio condivide, peraltro, le considerazioni svolte dal Tar Lombardia,
Milano, sez. IV, nella sentenza 08.06.2010, n. 1758, laddove, in un caso in
cui era parimenti contestata l’adozione da parte del Sindaco di un
provvedimento contingibile e urgente in materia ambientale, ha
opportunamente evidenziato che “la competenza in materia della Provincia
può essere considerata come esclusiva soltanto in relazione ai procedimenti
ordinari, visto che la norma attributiva del potere non fa uno specifico
riferimento alle situazioni in cui si ravvisi l’indifferibilità e l’urgenza
di provvedere (per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista
esplicitamente l’emanazione di ordinanze contingibili e urgenti, si veda
l’art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di
regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve
ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico
e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti (…), allorquando
se ne configurino i relativi presupposti (cfr. Consiglio di Stato, V,
12.06.2009, n. 3765; II, parere 24.10.2007, n. 2210; TAR Lombardia, Milano,
IV, 16.07.2009, n. 4379).
L’astratta configurabilità di un tale modus operandi consente, altresì, di
prescindere, in tale fase, dalla previa individuazione del soggetto
responsabile dell’inquinamento, rendendo possibile indirizzare l’ordine di
intervento direttamente al proprietario dell’area inquinata (Consiglio di
Stato, V, 07.09.2007, n. 4718; TAR Lombardia, Milano, IV, 16.07.2009, n.
4379)”.
Con riguardo all’ultimo profilo preso in considerazione dalla pronuncia
richiamata, in giurisprudenza, è stato, peraltro, reiteratamente affermato
che “è il solo obbligo di bonifica che non può essere imposto al
proprietario incolpevole, mentre le misure di precauzione ben possono essere
imposte al proprietario dell’area che non sia anche responsabile
dell’inquinamento, dal momento che, non avendo finalità sanzionatoria o
ripristinatoria, prescindono dal requisito del dolo o della colpa” (TAR
Friuli Venezia Giulia, sent. n. 34/2018; Cons. Stato, V, sent. n. 1089/2017; Cons. Stato, V, sent. n. 1509/2016 e Cons. Stato, VI, sent. n. 3544/2015; TAR
Lombardia–Milano, sent. n. 1914/2015; n. 1915/2015, n. 927/2016 e n.
928/2016) e, nello specifico, che “la messa in sicurezza del sito
costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra pertanto nel genus
delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e
al principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non
avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto
l’accertamento del dolo o della colpa” (Cons. Stato, V, 08.03.2017, n.
1089; in questi termini, Cons. Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509; Cons.
Stato, sez. VI, 15.07.2015, n. 3544).
Nel caso di specie, è, peraltro, evidente che il Comune ha dato motivata
evidenza del pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di
eccezionalità tale da rendere indispensabili interventi immediati e
indilazionabili di precauzione, consistenti nell’imposizione del su
descritto obbligo di copertura dell’hot spot a carico del privato
proprietario per evitare ulteriore contaminazione ambientale, assolvendo
puntualmente alla dimostrazione della sussistenza dei presupposti
legittimanti il ricorso al potere extra ordinem eccezionalmente
esercitato.
Il Comune non ha, inoltre, in alcun modo travalicato i limiti del detto
potere e/o posto in essere un provvedimento sviato nella causa. L’ordinanza
emessa, che –si rammenta– non impone assolutamente la rimozione dello
sversamento inquinante (con asportazione del terreno compromesso) e/o la
bonifica del sito, ma solo l’adozione di una misura minimale preordinata al
suo “contenimento”, appare, infatti, anche assolutamente
proporzionata all’esigenza indilazionabile di tutela perseguita e tale da
non imporre un onere irragionevole al proprietario incolpevole.
E’ evidente, infine, che trattasi di misura di prevenzione incompatibile con
il rispetto dei tempi di interlocuzione con il soggetto destinatario, tale
da rendere sicuramente recessive anche eventuali garanzie di coinvolgimento
procedimentale in ragione del valore del bene protetto (tutela ambientale) e
delle sottese esigenze di tutela dell’incolumità pubblica.
Sulla scorta delle considerazioni sin qui svolte vanno, in definitiva,
respinte tutte le doglianze svolte dalla ricorrente, in quanto infondate
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 05.06.2019 n. 246 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Il
comune è incompetente all'adozione dell'ordinanza che impone un piano di
caratterizzazione essendo la competenza della Provincia (ndr: fatti salvi i
disposti della legislazione regionale concorrente in materia).
L’art. 244, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006
prescrive che “La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1,
dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai
sensi del presente titolo”.
In base a questa disposizione, emerge che l’ente deputato a curare la
gestione delle attività di bonifica e, dunque, delle attività ad essa
prodromica e strumentali sia la Provincia.
La deduzione, oltre che dal chiaro tenore letterale della norma, è
supportata anche da precedenti del giudice amministrativo che ha avuto modo
di statuire che il comune è incompetente all'adozione dell'ordinanza che
impone un piano di caratterizzazione, in quanto “l'art. 244 del D.Lgs. n.
152/2006, al comma 2, [dispone] che "La provincia, ricevuta la comunicazione
di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte a
identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune,
diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale
contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo" e al comma 3 che
"L'ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al proprietario
del sito ai sensi e per gli effetti dell'art. 253”.
In linea generale, è stato anche osservato come rispetto alle attività
ascrivibili a questa fase la competenza permanga sempre in capo alla
Provincia, anche in quei casi in cui il privato si attivi spontaneamente,
ribadendosi, per quel che qui interessa, la competenza di tale ente locale.
Altresì, “La
facoltà di intervento spontaneo da parte del proprietario nell'ambito del
procedimento di bonifica non elide il dovere della Provincia di attivarsi
per l'individuazione dell'autore dell'inquinamento, attraverso l'apertura
del procedimento previsto dall'art. 244 del D.Lgs. n. 152 del 03.04.2006. Il
compimento da parte dell'amministrazione dell'attività diretta ad accertare
il responsabile è una specifica e doverosa attività che l'ordinamento impone
all'amministrazione, sia a garanzia degli interessi pubblici sottesi al
principio "chi inquina paga", sia a tutela dell'integrità patrimoniale del
proprietario incolpevole, che abbia sostenuto, direttamente o
indirettamente, l'onere economico del ripristino”.
---------------
Anche qualora si volesse, in ipotesi, ritenere sussistente la competenza del
Comune all’adozione dell’atto gravato, permarrebbe il vizio censurato di
incompetenza del soggetto firmatario.
Ed infatti, in ragione del chiaro tenore letterale dell’art. 192 T.U., anche
a volere riportare nell’alveo di questa norma i poteri espressi nel caso in
esame, dovrebbe statuirsi la competenza del Sindaco in luogo del Dirigente
comunale, con analoga statuizione di incompetenza.
Sul punto, può ricordarsi quanto statuito di recente dal Consiglio di Stato:
“Il Responsabile dell'ufficio tecnico comunale è competente ad adottare
nei confronti di A.N.A.S. un'ingiunzione alla rimozione dei rifiuti
abbandonati. Il medesimo Responsabile è invece incompetente ad adottare un
ordine di bonifica, decontaminazione e risanamento igienico del sito,
trattandosi di adempimenti che vanno oltre la gestione e pulizia delle
strade, e sono strettamente espressione di un rimedio sanzionatorio per la
violazione del divieto dei abbandono dei rifiuti, rientrante nell'ambito di
operatività dell'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006. Il comma 3 dell'art.
192 enuclea, infatti, tale competenza in capo al Sindaco”.
Analogamente, il medesimo autorevole consesso ha ricordato che “In
materia di competenza ad emanare l'ordinanza di rimozione dei rifiuti, se
del Sindaco o del Dirigente, si sono succedute nel tempo diverse normative:
il D.Lgs. n. 22/1997, art. 14; il D.Lgs. n. 267/2000, art. 107, comma 5; il
D.Lgs. n. 152/2006, art. 192, comma 3, la prima e l'ultima delle quali
attribuiscono la competenza al Sindaco. Va ritenuto competente il sindaco ad
emanare le ordinanze in materia, ex art. 14 D.Lgs. 05.02.1997, n. 22
(decreto Ronchi), anche successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino all'entrata in vigore del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152 (Codice ambientale), che ha ribadito tale competenza”.
---------------
... per l'annullamento, dell’ordinanza prot. n. 88/07, del 27.07.2007, del
Comune di Angri, avente ad oggetto la presentazione di un progetto rimozione
e trasporto di rifiuti in discarica;
...
Con ordinanza n. 88 del 27.07.2007, il Comune intimato ordinava alla società
ricorrente e ai sigg. Ca.Ch. e An.Br. di provvedere alla presentazione di un
progetto per la caratterizzazione, rimozione e trasporto presso una
discarica autorizzata dei rifiuti collocati illecitamente in un’area ubicata
in Angri, località Campia, nonché alla relativa bonifica ambientale del
sito.
Il provvedimento emanato scaturiva da una serie di atti istruttori e
sopralluoghi compiuti dalla locale stazione dei Carabinieri e dall’ufficio
ambiente dell’ente locale, indicati nelle premesse dell’ordinanza comunale.
Nel provvedimento emanato si dava espressamente conto che gli autori del
presunto illecito ambientale erano i sigg. Ca.Ch. e An.Br., mentre si
indicava l’area interessata come “espropriata dalla società ANAS”.
...
Il motivo è fondato.
E’ doveroso precisare che, contrariamente a quanto sostenuto nella formulata
eccezione, da parte dell’ANAS, il contenuto del provvedimento impugnato non
è propriamente quello indicato dalla deducente società, poiché l’atto
autoritativo si limita ad ordinare non già il compimento delle operazioni su
indicate, ma la mera predisposizione del piano ad esse prodromico, che dovrà
prima essere esaminato ed approvato dagli organi competenti.
Trattasi di un piano volto, sostanzialmente e in estrema sintesi, alla
bonifica dell’area ritenuta contaminata.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tale imprecisione non infici, nella
sostanza, la censura elevata dalla società pubblica né muti il quadro
normativo di riferimento, e ritiene, altresì, che la fattispecie concreta,
per come allegata da parte ricorrente, sia disciplinata dalle norme di cui
agli artt. 240 e ss. e si rientri, dunque, nella prima delle due ipotesi
prospettate dalla ricorrente.
Va dunque richiamato l’art. 244, comma 2, D.Lgs. n. 152 del 2006, il quale
prescrive che “La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1,
dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai
sensi del presente titolo”.
In base a questa disposizione, emerge che l’ente deputato a curare la
gestione delle attività di bonifica e, dunque, delle attività ad essa
prodromica e strumentali sia la Provincia.
La deduzione, oltre che dal chiaro tenore letterale della norma, è
supportata anche da precedenti del giudice amministrativo che ha avuto modo
di statuire che il comune è incompetente all'adozione dell'ordinanza che
impone un piano di caratterizzazione, in quanto “l'art. 244 del D.Lgs. n.
152/2006, al comma 2, [dispone] che "La provincia, ricevuta la comunicazione
di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte a
identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune,
diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale
contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo" e al comma 3 che
"L'ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al proprietario
del sito ai sensi e per gli effetti dell'art. 253” (TAR Veneto Sez. III,
07/05/2015, n. 493; analogamente, TAR Puglia Lecce Sez. I Sent., 21/06/2013,
n. 1465).
In linea generale, è stato anche osservato come rispetto alle attività
ascrivibili a questa fase la competenza permanga sempre in capo alla
Provincia, anche in quei casi in cui il privato si attivi spontaneamente,
ribadendosi, per quel che qui interessa, la competenza di tale ente locale.
Come chiarito dal TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, 15/04/2015, n. 940: “La
facoltà di intervento spontaneo da parte del proprietario nell'ambito del
procedimento di bonifica non elide il dovere della Provincia di attivarsi
per l'individuazione dell'autore dell'inquinamento, attraverso l'apertura
del procedimento previsto dall'art. 244 del D.Lgs. n. 152 del 03.04.2006. Il
compimento da parte dell'amministrazione dell'attività diretta ad accertare
il responsabile è una specifica e doverosa attività che l'ordinamento impone
all'amministrazione, sia a garanzia degli interessi pubblici sottesi al
principio "chi inquina paga", sia a tutela dell'integrità patrimoniale del
proprietario incolpevole, che abbia sostenuto, direttamente o
indirettamente, l'onere economico del ripristino”.
I principi, condivisi dal Collegio, sono pienamente attinenti al caso in
esame e di conseguenza conducono all’accoglimento del motivo di gravame.
Per completezza, vale la pena osservare che anche qualora si volesse, in
ipotesi, ritenere sussistente la competenza del Comune all’adozione
dell’atto gravato, permarrebbe il vizio censurato, in ragione di quanto
dedotto dalla società ricorrente.
Ed infatti, in ragione del chiaro tenore letterale dell’art. 192 T.U., anche
a volere riportare nell’alveo di questa norma i poteri espressi nel caso in
esame, dovrebbe statuirsi la competenza del Sindaco in luogo del Dirigente
comunale, con analoga statuizione di incompetenza.
Sul punto, può ricordarsi quanto statuito di recente dal Consiglio di Stato:
“Il Responsabile dell'ufficio tecnico comunale è competente ad adottare
nei confronti di A.N.A.S. un'ingiunzione alla rimozione dei rifiuti
abbandonati. Il medesimo Responsabile è invece incompetente ad adottare un
ordine di bonifica, decontaminazione e risanamento igienico del sito,
trattandosi di adempimenti che vanno oltre la gestione e pulizia delle
strade, e sono strettamente espressione di un rimedio sanzionatorio per la
violazione del divieto dei abbandono dei rifiuti, rientrante nell'ambito di
operatività dell'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006. Il comma 3 dell'art.
192 enuclea, infatti, tale competenza in capo al Sindaco (riforma TAR Puglia-Lecce, Sez. I n. 2975/2009)” (Cons. Stato Sez. V, 14/03/2019, n. 1684).
Analogamente, il medesimo autorevole consesso ha ricordato che “In
materia di competenza ad emanare l'ordinanza di rimozione dei rifiuti, se
del Sindaco o del Dirigente, si sono succedute nel tempo diverse normative:
il D.Lgs. n. 22/1997, art. 14; il D.Lgs. n. 267/2000, art. 107, comma 5; il
D.Lgs. n. 152/2006, art. 192, comma 3, la prima e l'ultima delle quali
attribuiscono la competenza al Sindaco. Va ritenuto competente il sindaco ad
emanare le ordinanze in materia, ex art. 14 D.Lgs. 05.02.1997, n. 22
(decreto Ronchi), anche successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino all'entrata in vigore del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152 (Codice ambientale), che ha ribadito tale competenza”
(Consiglio di Stato Sez. V, 06/09/2017, n. 4230).
In definitiva, il motivo di ricorso va accolto e va pronunciato
l’annullamento del provvedimento, limitatamente alla posizione della
ricorrente ANAS s.p.a.
L’accoglimento del motivo di ricorso per incompetenza determina
l’assorbimento di tutte le altre censure articolate nel ricorso introduttivo
del giudizio, per le ragioni compiutamente ed esaustivamente esposte nella
sentenza n. 5 del 2015 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, dai
cui principi questo Collegio non ha ragione di discostarsi
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.05.2019 n. 830 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il proprietario del terreno non risponde dei reati di discarica non
autorizzata commessi da terzi.
Non è configurabile in forma omissiva il reato di
gestione o realizzazione di discarica abusiva nei confronti del proprietario
di un terreno sul quale terzi abbiano illecitamente depositato i rifiuti, in
quanto nessun obbligo di controllo può ravvisarsi a carico del proprietario,
mentre gli obblighi di corretta gestione e smaltimento sono posti
esclusivamente a carico dei produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi.
Infatti, in materia di rifiuti, il proprietario di un terreno non risponde,
in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non
autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità sussiste solo in
presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il
mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove
compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
---------------
4.2. In ordine al quinto e sesto motivo di censura, parimenti
da affrontare congiuntamente, la sentenza impugnata non ha affatto
contestato il consolidato principio in forza del quale non è configurabile
in forma omissiva il reato di gestione o realizzazione di discarica abusiva
nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano
illecitamente depositato i rifiuti, in quanto nessun obbligo di controllo
può ravvisarsi in carico del proprietario medesimo, mentre gli obblighi di
corretta gestione e smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei
produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi (Sez. 3, n. 49327 del
12/11/2013, Merlet, Rv. 257294).
Infatti, in materia di rifiuti, il proprietario di un terreno non risponde,
in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non
autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità sussiste solo in
presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il
mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove
compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 40528 del
10/06/2014, Cantoni, Rv. 260754; Sez. 3, n. 28704 del 05/04/2017, Andrisani
e altro, Rv. 270340; conf. altresì Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015,
Cucinella e altro, Rv. 266030, che ha ritenuto corretta la decisione di
merito che aveva condannato il proprietario non per la sua qualità di
possessore dell'area di deposito, ma per avere questi consapevolmente
partecipato all'attività illecita, mettendo a disposizione il terreno per lo
smaltimento abusivo di rifiuti derivanti da lavori edili da egli stesso
commissionati).
In specie, ed in coerenza con quanto deciso da questa Corte, la sentenza
impugnata ha invece correttamente dato atto che la responsabilità doveva
ascriversi al fatto che la discarica abusiva venne realizzata dalla La.St.
s.r.l proprio in quell'area nella quale la società divenuta dei Pe. si era
obbligata a provvedere ai lavori di urbanizzazione, sì che era stata invece
prestata fattiva adesione alla condotta dell'esecutrice dei lavori, col
risultato che un'area siffatta era stata invece destinata ad ospitare
materiali di demolizione provenienti anche da altri cantieri, anziché essere
destinati allo smaltimento in impianti autorizzati.
Laddove, a fronte di precisi obblighi, l'area in questione doveva essere
vocata ad area verde ed alle relative attrezzature, e non a discarica
incontrollata (tra l'altro con un, manifesto, innalzamento sul piano
stradale di addirittura tre metri).
Del tutto correttamente quindi la Corte milanese, nel salvaguardare il
principio per il quale il proprietario di per sé non è responsabile della
realizzazione di una discarica nel proprio terreno da parte di terzi, ha
osservato che la fattispecie, e gli obblighi relativi, erano del tutto
differenti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.05.2019 n. 21080). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Gli artt. 242 (“il responsabile dell'inquinamento mette
in opera…”), 244 (co. 4: “Se il responsabile non sia individuabile…”), 250
(“Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano…”),
192 del d.lgs. 152/2006 evidenziano che le misure di bonifica gravano sui
soggetti “ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa”,
per cui l’ordinanza che le impone presuppone necessariamente una valutazione
autonoma dei fatti “in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio
con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo” (art. 192
cit.).
Le indagini degli organi “preposti al controllo” hanno dunque la natura di
atti della fase istruttoria, sulla cui base il titolare del potere di
ordinanza deve formare la sua motivata decisione individuando gli specifici
fatti contestati ed esponendo l’iter logico che sostiene l’attribuzione
della loro responsabilità.
La esplicita volontà di escludere ogni valutazione sulle specifiche
responsabilità di per sé evidenzia la illegittimità dei provvedimenti, i
quali risultano manifestamente carenti della chiara individuazione dei
presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’esercizio del potere a
carico dei destinatari
(massima tratta da www.lexambiente.it).
---------------
1 – Con ordinanza del 29.01.2018 il Sindaco del Comune di San Vito Chietino,
“riscontrate le responsabilità di BU.Al. e VE.Co.”, ha ordinato ai
medesimi di provvedere alla “messa in sicurezza del sito”, nonché
alla rimozione “dei rifiuti illecitamente giacenti sui fondi agricoli
oggetto di sequestro” e ciò sulla base di nota del 24.11.2017 della
Stazione Carabinieri Forestali di Lanciano, con cui si comunicava “l’attività
di accertamento ambientale” esperita in data 07.11.2017 su fondi
agricoli di proprietà della Sig.ra Na.El., al cui esito “venivano
deferiti alla competente Procura della Repubblica di Lanciano” i Sigg.ri
Ve. e Bu. “per le rispettive illecite condotte perpetrate, in funzione
alle attività e responsabilità esercitate, in relazione alla
presenza/gestione dei rifiuti in amianto”.
A seguito di contestazioni sollevate dai destinatari, che avevano sostenuto
la illegittimità dell’atto in quanto assumeva che le loro responsabilità
erano state “riscontrate”, il Sindaco ha quindi adottato
provvedimento del 21.02.2018, con il quale ha integrato la precedente
ordinanza includendo i sigg. Pa. e Al. tra i destinatari dell’ordine di
ripristino e precisando che “il riscontro delle responsabilità non
rientra nell’ambito delle competenze sindacali”.
Le due ordinanze sono state impugnate con distinti ricorsi dai sigg. Bu. e
Ve. (nella loro rispettiva qualità di titolare della Ditta omonima e di
Responsabile del Settore assetto del territorio dello stesso Comune di S.
Vito Chietino), Pa. (dipendente del Comune) e Al. (dipendente della Ditta),
che ne hanno dedotto la illegittimità per violazione e/o falsa applicazione
degli artt. 54 d.lgs. 267/2000 e 192 d.lgs. 152/2016, nonché eccesso di
potere per travisamento, falsità dei presupposti e irragionevolezza.
...
3 - Quanto al merito, i ricorsi sono manifestamente fondati.
È infatti del tutto evidente che l’ordinanza impugnata, così come
successivamente rettificata, individua i suoi destinatari sulla base
dell’unica circostanza che gli stessi sono “interessati dal procedimento
penale”. Che non si sia inteso effettuare alcuna valutazione in ordine
alle responsabilità è del resto espressamente precisato nell’atto di
rettifica (“il riscontro delle responsabilità non rientra nell’ambito
delle competenze sindacali”), per cui il provvedimento si è limitato a
prendere atto dei nominativi deferiti all’autorità giudiziaria ingiungendo
ad essi la bonifica dell’area.
Gli artt. 242 (“il responsabile dell'inquinamento mette in opera…”),
244 (co. 4: “Se il responsabile non sia individuabile…”), 250 (“Qualora
i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano…”), 192 del
d.lgs. 152/2006, pur richiamati dall’ordinanza n. 1, al contrario
evidenziano che le misure di bonifica gravano sui soggetti “ai quali tale
violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa”, per cui l’ordinanza
che le impone presuppone necessariamente una valutazione autonoma dei fatti
“in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo” (art. 192 cit.).
Le indagini degli organi “preposti al controllo” hanno dunque la
natura di atti della fase istruttoria, sulla cui base il titolare del potere
di ordinanza deve formare la sua motivata decisione individuando gli
specifici fatti contestati ed esponendo l’iter logico che sostiene
l’attribuzione della loro responsabilità.
La esplicita volontà di escludere ogni valutazione sulle specifiche
responsabilità di per sé evidenzia la illegittimità dei provvedimenti, i
quali risultano manifestamente carenti della chiara individuazione dei
presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’esercizio del potere a
carico dei destinatari.
Si trattava infatti di individuare, sulla base dei rapporti dei soggetti
preposti al controllo, lo specifico comportamento illecito addebitabile a
ciascun destinatario, e tale contestazione doveva essere nella fattispecie
particolarmente accurata in considerazione dei diversi ruoli rivestiti dagli
interessati (il titolare della ditta esecutrice, un dipendente della stessa,
un dirigente e un dipendente dello stesso Comune), che imponevano la chiara
indicazione della specifiche condotte imputabili a ciascuno.
L’ordinanza invece si limita alla generica evocazione di un concorso tra i
destinatari “per le rispettive illecite condotte perpetrate, in funzione
delle attività e responsabilità esercitate in relazione alla
presenza/gestione dei rifiuti in amianto”, senza tuttavia chiarire quali
fossero in concreto tali attività e responsabilità e dunque non specificando
le condotte materiali od omissive che hanno concorso a causare la
contaminazione ambientale.
Non risultano in particolare specificate le condotte attribuite ai
dipendenti comunali, non essendo chiarito se si imputano ad essi le
pregresse omissioni dell’Ente (indicate dalla citata nota dei Carabinieri: “il
Comune di San Vito non ha recintato l’area oggetto di illecito abbandono ed
attuato le procedure previste. E’ risultato inadempiente … agli obblighi di
Legge e non ha neanche segnalato il potenziale pericolo, ovvero la presenza
dei tubi in amianto, giacenti sul fondo … il Comune di San Vito Chietino
nonostante il mandato conferito all’impresa Bu. … non ha avvisato/segnalato
del pericolo”) oppure/anche condotte concomitanti o successive alla
frantumazione del materiale inquinante (che non risultano dalla segnalazione
e invece evocate nell’ordinanza n. 1, dove si assume –genericamente- che i
destinatari, “successivamente all’illecito evento … non hanno attuato le
procedure previste…”).
Le suddette carenze non possono essere del resto colmate da argomentazioni
difensive, trattandosi di valutazioni che spettano esclusivamente al
titolare del potere di ordinanza e che quindi devono essere necessariamente
espresse nel provvedimento.
In accoglimento delle predette censure va pertanto disposto l’annullamento
delle impugnate ordinanze, fatto salvo il rinnovato esercizio del potere
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 05.02.2019 n. 27). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sulla
corretta costituzione del fondo [almeno l’8% delle somme riscosse per
oneri di urbanizzazione secondaria
incrementato di una quota non inferiore all’8 per cento: a) del valore delle opere di urbanizzazione realizzate direttamente
dai soggetti interessati a scomputo totale o parziale del contributo
relativo agli oneri di urbanizzazione secondaria; b) del valore delle aree cedute per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione secondaria; c) di ogni altro provento destinato per legge o per atto
amministrativo alla realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria]
destinato alla realizzazione delle attrezzature per servizi religiosi.
La questione si pone soltanto quando in seguito a
convenzioni, atti unilaterali d’obbligo o altri accordi comunque denominati,
il soggetto attuatore di interventi edilizi/urbanistici realizza opere di urbanizzazione
secondaria (a scomputo), ovvero ceda aree standards (per realizzare opere di
urbanizzazione secondarie) in luogo della loro monetizzazione, ed il comune
non abbia ulteriori introiti derivante da oneri di urbanizzazione secondaria
ovvero da monetizzazione di aree perché la dotazione del fondo previsto
dalla
legge regionale 12/2005 possa raggiungere almeno l’8 per cento del
valore complessivo degli oneri di urbanizzazione secondaria e delle cessioni
delle aree standars, secondo i parametri di quantificazione dettati dalla
legge regionale (art. 73).
Ebbene, nel suddetto caso il fondo stesso può (anzi
deve) essere incrementato con risorse che il comune avrebbe potuto
utilizzare per realizzare le suddette opere (con l'esclusione di mutui,
dell'avanzo vincolato per legge ed altre risorse comunque vincolate per
determinate spese).
L'incremento del fondo, nel bilancio, dovrà avvenire quando le opere
realizzate dal privato saranno consegnate al comune, ovvero nel caso di
inadempimento del privato, quando saranno incassati gli introiti della
fideiussione che garantisce le obbligazioni della convenzione o dell'atto
unilaterale d'obbligo.
---------------
Il Sindaco del comune di Lallio (BG) ha formulato una richiesta di parere
in ordine alla possibilità di iscrivere nel bilancio di previsione delle
quote relative all’8% degli oneri di urbanizzazione secondaria da destinare
in apposito fondo per la realizzazione di attrezzature di interesse comune
per servizi religiosi anche se gli stessi non siano stati definitivamente
incassati ed accertati.
La richiesta è presentata con riferimento ad una particolare fattispecie,
ovvero a quella in cui la realizzazione di opere di urbanizzazione
secondaria o di standards qualitativi siano realizzati in virtù di accordi
(o atti unilaterali d’obbligo) con l’amministrazione da parte del soggetto
attuatore di un intervento edilizio, ai sensi della legge regionale 12/2005
e successive modificazioni ed integrazioni, e non siano stati versati gli
oneri di urbanizzazione secondaria in quanto scomputati a causa
dell’intervento da realizzare.
Ovviamente la sezione di controllo non si esprime in ordine alla legittimità
o meno degli strumenti di attuazione del PGT così come declinati in concreto
dall’amministrazione comunale nella rappresentazione del caso in esame, ma
si sofferma soltanto sugli aspetti che riguardano la correttezza contabile
delle operazioni che il comune deve compiere per stanziare nel fondo l’8%
del valore delle opere di urbanizzazione secondaria non versate dal privato,
perché il soggetto attuatore ha realizzato interventi a scomputo degli oneri
di urbanizzazione secondaria dovuti.
L’art.
73 della legge regionale 12/2005, infatti, stabilisce non solo
che l’8% degli introiti dovuti per opere di urbanizzazioni secondarie devono
essere destinate al fondo per le attrezzature di interesse comune per i
servizi religiosi ma sancisce anche che il fondo di cui sopra, deve essere
incrementato di una quota non inferire al 8% del valore delle opere di
urbanizzazione realizzate direttamente dal privato a scomputo degli oneri di
urbanizzazione secondaria e del valore delle aree cedute per la
realizzazione delle suddette opere e di ogni altro provento destinato per
legge o atto amministrativo alla realizzazione di opere di urbanizzazione
secondarie.
...
Ritenuto che la richiesta sia soggettivamente ammissibile in quanto
proveniente dal rappresentante legale dell’ente ed oggettivamente
ammissibile in quanto interessa una materia compresa nel perimetro della
contabilità pubblica trattandosi di norma che impone all’amministrazione
l’incremento di un fondo da iscrivere in bilancio e che riguarda il modo il
come ed il quando, l’amministrazione debba finanziare l’incremento stesso,
qualora il soggetto privato realizzi opere a scomputo di oneri
urbanizzazione secondaria ai sensi dell’art. 73 della legge regionale
12/2005 ovvero debba finanziare l’8% del valore delle aree cedute (e quindi
non monetizzate) per la realizzazione di standards relativi ad opere di
urbanizzazione secondaria.
Per comodità espositiva si riporta, per quel che interessa, l’art.
73 della L.R. suddetta: “1. In ciascun comune, almeno l'8 per
cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria è ogni
anno accantonato in apposito fondo, risultante in modo specifico nel
bilancio di previsione, destinato alla realizzazione delle attrezzature
indicate all’articolo 71, nonché per interventi manutentivi, di restauro e
ristrutturazione edilizia, ampliamento e dotazione di impianti, ovvero
all'acquisto delle aree necessarie. Tale fondo è determinato con riguardo a
tutti i permessi di costruire rilasciati e alle denunce di inizio attività
presentate nell’anno precedente in relazione a interventi a titolo oneroso
ed è incrementato di una quota non inferiore all’8 per cento:
a) del valore delle opere di urbanizzazione realizzate direttamente
dai soggetti interessati a scomputo totale o parziale del contributo
relativo agli oneri di urbanizzazione secondaria;
b) del valore delle aree cedute per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione secondaria;
c) di ogni altro provento destinato per legge o per atto
amministrativo alla realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria”.
Esame nel merito
Il quesito assume significato, ovviamente, solo nei limiti e per i motivi
appena indicati, ovvero qualora non sia avvenuto nessun versamento (ovvero
un versamento parziale) di denaro nelle casse del comune, e si è in presenza
di obbligazioni convenzionali dirette alla realizzazione di opere da parte
del soggetto attuatore a scomputo di oneri (di urbanizzazione secondaria,
ovvero alla cessione di aree a standards (non monetizzate) per la
realizzazione di opere di urbanizzazione secondarie.
In breve, la questione si pone soltanto quando in seguito a convenzioni,
atti unilaterali d’obbligo o altri accordi comunque denominati, il soggetto
attuatore di interventi edilizi/urbanistici realizza opere di urbanizzazione
secondaria (a scomputo), ovvero ceda aree standards (per realizzare opere di
urbanizzazione secondarie) in luogo della loro monetizzazione, ed il comune
non abbia ulteriori introiti derivante da oneri di urbanizzazione secondaria
ovvero da monetizzazione di aree perché la dotazione del fondo previsto
dalla
legge regionale 12/2005 possa raggiungere almeno l’8 per cento del
valore complessivo degli oneri di urbanizzazione secondarie e delle cessioni
delle aree standars, secondo i parametri di quantificazione dettati dalla
legge regionale (art. 73).
Nel caso l’ente versi nella situazione appena rappresentata, il fondo stesso
può (anzi deve) essere incrementato con risorse che il comune avrebbe potuto
utilizzare per realizzare le suddette opere (con l’esclusione di mutui,
dell’avanzo vincolato per legge ed altre risorse comunque vincolate per
determinate spese).
L’incremento del fondo, nel bilancio, dovrà avvenire quando le opere
realizzate dal privato saranno consegnate al comune, ovvero nel caso di
inadempimento del privato, quando saranno incassati gli introiti della
fideiussione che garantisce le obbligazioni della convenzione o dell’atto
unilaterale d’obbligo
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere
26.09.2016 n. 256). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
illegittimità che il permesso di costruire convenzionato, ex art. 28-bis DPR
380/2001, preveda la corresponsione di un ulteriore contributo a titolo di
“corredo minimo delle prestazioni economiche per servizi”.
Un onere posto a carico del privato diverso ed ulteriore
(ed in aggiunta) rispetto sia al contributo di costruzione che agli oneri di
urbanizzazione non trova riscontro nel dato normativo relativo al "permesso
di costruire convenzionato", atteso che l’art. 28-bis del T.U in materia
edilizia non prevede espressamente la possibilità per l’Amministrazione di
richiedere un diverso ed ulteriore (rispetto agli oneri di urbanizzazione)
contributo per opere di urbanizzazione, ma unicamente che ove “le
esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità
semplificata, è possibile il rilascio di un permesso di costruire
convenzionato”.
Peraltro, se pure è ammissibile che in sede di convezione la parte privata
possa assumere impegni economici più onerosi di quelli teoricamente
stabiliti dalla relativa disciplina normativa, in quanto rientranti nella
libera disponibilità delle parti, nel caso in esame il censurato contributo
risulta unilateralmente fissato in via preventiva in sede di pianificazione,
con la conseguenza che la successiva (vincolata) trasfusione nell’accordo
tra la parte pubblica e privata appare concretizzare una prestazione imposta
che non trova base normativa.
Sotto distinto profilo, va rilevato che parimenti
illegittima sarebbe la previsione censurata ove la stessa fosse da
intendersi come previsione di contributo sovrapponibile all’ordinario
contributo per oneri di urbanizzazione –ipotesi peraltro esclusa
dall’Amministrazione comunale resistente-, in quanto ciò determinerebbe una
ingiustificata duplicazione del corrispettivo di diritto pubblico posto a
carico del costruttore connesso al rilascio del titolo edilizio, quale
partecipazione del titolare ai costi delle opere di urbanizzazione in
relazione ai benefici ottenuti dalla nuova costruzione.
---------------
Con il presente gravame, originariamente proposto quale ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica e, successivamente, trasposto
in sede giurisdizionale a seguito di opposizione del Comune di
Scanzorosciate, la società La.S. e l’avv. Le.Ge. hanno impugnato la variante
al PGT n. 61 del 27.09.2017, assunta dal suddetto Comune, limitatamente alla
parte in cui è stato modificato il PdS con l’estensione del pagamento di una
somma a titolo di “corredo minimo delle prestazioni economiche per
servizi” in aggiunta al costo di costruzione e agli oneri di
urbanizzazione.
I ricorrenti, in particolare, premesso di essere proprietari di terreni
ricadenti in zona denominata “R7.1”, individuata come “Area residenziale
di completamento soggetta a permesso di costruire convenzionato”
sottoposta, a seguito dell’impugnata variante, al suddetto “corredo
minimo”, hanno dedotto le seguenti censure:
1) Violazione del principio di legalità per difetto di potere, in
quanto la previsione del corredo minimo della prestazioni economiche per
servizi –diverso dal costo di costruzione e dagli oneri di urbanizzazione–
non avrebbe copertura legislativa, con conseguente contrasto con l’art. 23
Cost., tenuto che conto che l’art. 16 del d.P.R. 380/2001 e l’art. 43 della
L.R. n. 12/2005 prevedono esclusivamente la corresponsione di un contributo
commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione ed al costo di
costruzione, senza attribuire al Comune il potere di stabilire nuovi ed
ulteriori contributi;
2) in via subordinata, illegittimità dell’ammontare del contributo
minimo in conseguenza della illegittima determinazione della dotazione di
servizi da realizzare in funzione dell’utenza, avendo il Comune deciso il
dimensionamento dei servizi in base ad un rapporto ben superiore a quello
previsto dall’art. 9 della L.R. n. 12/2005, dimensionamento illogico ed
irrazionale;
3) in via subordinata, insussistenza dei presupposti per la
previsione del contributo in quanto non vi era necessità di urbanizzazione
dell’area e difetto di motivazione in ordine alla scelta operata dal Comune;
4) in via subordinata, violazione del principio di correttezza e
buona fede per mancato rispetto, senza alcuna motivazione, delle intese
raggiunte con i proprietari dell’area in questione in occasione
dell’approvazione del vigente PGT in base alle quali l’area stessa era stata
resa edificabile senza imposizione del contributo minimo.
Si è costituito in giudizio il Comune di Scanzorosciate, il quale ha
contestato le censure avversarie e chiesto il rigetto del ricorso.
...
Si può prescindere dall’eccezione, sollevata dalla parte ricorrente, di
tardività del deposito della memoria difensiva avversaria, stante la
fondatezza del ricorso in relazione alla censura di cui al primo motivo,
formulato in via principale.
Parte ricorrente sostiene che il contributo per “corredo minimo” sia
aggiuntivo e diverso rispetto al contributo di costruzione e agli oneri di
urbanizzazione, con conseguente illegittimità per violazione delle
disposizioni invocate, non potendo l’Amministrazione comunale imporre di
corrispondere somme aggiuntive in mancanza di copertura legislativa.
Sotto un primo profilo, si rileva che il Comune resistente non afferma,
invero, che tale contributo coincida con il costo di costruzione ovvero con
gli oneri di urbanizzazione, dovendosi dunque ritenere che il medesimo
costituisca effettivamente un onere posto a carico del privato diverso ed
ulteriore (ed in aggiunta) rispetto sia al contributo di costruzione che
agli oneri di urbanizzazione.
L’Amministrazione comunale sostiene che la normativa invocata dai ricorrenti
riguarderebbe unicamente il permesso di costruire ordinario e non quello
convenzionato, cui sarebbe, dunque, da ricollegare l’imposizione del corredo
minimo.
Tale tesi, però, non persuade in quanto non trova riscontro nel dato
normativo relativo al permesso convenzionato, atteso che l’art. 28-bis del
T.U in materia edilizia non prevede espressamente la possibilità per
l’Amministrazione di richiedere un diverso ed ulteriore (rispetto agli oneri
di urbanizzazione) contributo per opere di urbanizzazione, ma unicamente che
ove “le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una
modalità semplificata, è possibile il rilascio di un permesso di costruire
convenzionato”.
Peraltro, se pure è ammissibile che in sede di convezione la parte privata
possa assumere impegni economici più onerosi di quelli teoricamente
stabiliti dalla relativa disciplina normativa, in quanto rientranti nella
libera disponibilità delle parti, nel caso in esame il censurato contributo
risulta unilateralmente fissato in via preventiva in sede di pianificazione,
con la conseguenza che la successiva (vincolata) trasfusione nell’accordo
tra la parte pubblica e privata appare concretizzare una prestazione imposta
che non trova base normativa.
La doglianza di parte ricorrente risulta, dunque, fondata.
Sotto distinto profilo, va rilevato che parimenti illegittima sarebbe la
previsione censurata ove la stessa fosse da intendersi come previsione di
contributo sovrapponibile all’ordinario contributo per oneri di
urbanizzazione –ipotesi peraltro esclusa dall’Amministrazione comunale
resistente-, in quanto ciò determinerebbe una ingiustificata duplicazione
del corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del costruttore
connesso al rilascio del titolo edilizio, quale partecipazione del titolare
ai costi delle opere di urbanizzazione in relazione ai benefici ottenuti
dalla nuova costruzione.
In ogni caso, la censurata previsione del “corredo minimo delle
prestazioni economiche per servizi” risulta illegittima e deve,
pertanto, essere annullata
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 09.09.2019 n. 798 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime
dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia
concorrente del «governo del territorio», vincolando la legislazione
regionale di dettaglio.
Cosicché, pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare
gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale
esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve essere
coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia.
---------------
Non
è ragionevole ritenere che il legislatore statale abbia reso cedevole
l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio
del legislatore dei principi fondamentali della materia, di determinare
quali trasformazioni del territorio siano così significative da soggiacere
comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale
si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni
giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R.
n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo.
Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6, lettera
a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella «possibilità di
estendere i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente
nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli
interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6».
---------------
Le regioni possono sì estendere la disciplina statale dell’edilizia libera
ad interventi “ulteriori” rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2
dell’art. 6 del TUE, ma non anche differenziarne il regime giuridico,
dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività
deformalizzate, soggette a cil e cila.
L’omogeneità funzionale della comunicazione preventiva (asseverata o meno)
rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di
costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla norma che la
prescrive ‒al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi‒
la natura di principio fondamentale della materia del «governo del
territorio», in quanto ispirata alla tutela di interessi unitari
dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il
territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni
regionali.
Sicché, è precluso al legislatore regionale di discostarsi dalla disciplina
statale e di rendere talune categorie di opere totalmente libere da ogni
forma di controllo, neppure indiretto mediante denuncia.
---------------
Secondo la giurisprudenza costituzionale, la definizione delle categorie di
interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi
costituisce principio fondamentale della materia concorrente del «governo
del territorio», vincolando la legislazione regionale di dettaglio
(sentenza n. 303 del 2003; in
seguito, sentenze n. 259 del 2014, n. 171 del 2012; n. 309 del 2011).
Cosicché, pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare
gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale
esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve essere
coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia.
...
2.2.– Con riguardo al profilo di impugnazione concernente le opere di
arredo, va precisato che l’art. 6, comma 3, della legge reg. Liguria n. 12
del 2015 riconduce nella nozione di manutenzione ordinaria ‒e, quindi, al
regime giuridico della edilizia libera, ai sensi dell’art. 21, comma 1,
lettera a) della legge reg. n. 16 del 2008‒ l’installazione di «elementi
di arredo urbano e privato pertinenziali non comportanti creazione di
volumetria» (art. 6, comma 2, lettera i, della legge reg. n. 16 del 2008
come novellato).
Nel contempo, l’art. 6, commi 8, secondo trattino, e 11, terzo trattino,
della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 ha incluso nel novero delle attività
edilizie “libere” l’«installazione di opere di arredo pubblico e
privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di
nuove volumetrie, anche interrate» (art. 21, comma 1, lettera i-bis,
della legge reg. n. 16 del 2008 come novellato). Le due tipologie di
intervento non sembrano presentare significative differenze: né l’utilizzo
del termine «elementi» in luogo di «opere», né l’aggiunta
dell’esclusione delle volumetrie «anche interrate», appaiono in grado
di segnare una apprezzabile diversità dei rispettivi connotati edilizi.
Poiché il Governo lamenta l’illegittima inclusione delle opere in questione
tra gli interventi edilizi eseguibili liberamente, senza necessità di titolo
abilitativo, occorre verificare se il legislatore regionale, nel precisare
l’ambito riservato all’attività edilizia libera, si sia mantenuto nei limiti
di quanto gli è consentito.
L’art. 6, comma 6, del TUE prevede che le regioni a statuto ordinario
possano estendere tale disciplina a «interventi edilizi ulteriori»
(lett. a), nonché disciplinare «le modalità di effettuazione dei
controlli» (lett. b). Nel definire i limiti del potere così assegnato
alle regioni, questa Corte ha escluso «che la disposizione appena citata
permetta al legislatore regionale di sovvertire le “definizioni” di “nuova
costruzione” recate dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001» (sentenza n.
171 del 2012).
L’attività demandata alla Regione si inserisce pur sempre nell’ambito
derogatorio definito dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, attraverso la
enucleazione di interventi tipici da sottrarre a permesso di costruire e
SCIA (segnalazione certificata di inizio attività).
«Non
è perciò ragionevole ritenere che il legislatore statale abbia reso cedevole
l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio
del legislatore dei principi fondamentali della materia, di determinare
quali trasformazioni del territorio siano così significative da soggiacere
comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale
si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni
giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R.
n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo»
(sentenza n. 139 del 2013).
Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6, lettera
a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella «possibilità di
estendere i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente
nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli
interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6» (così ancora la
sentenza n. 139 del 2013).
Su queste basi, si deve ritenere che il legislatore regionale ligure,
nell’includere nel novero delle attività edilizie “libere”
l’installazione di opere di arredo privato, anche di natura pertinenziale,
purché non comportanti creazione di nuove volumetrie, non abbia esteso i
casi di attività edilizia libera a un’ipotesi integralmente nuova, non
coerente e logicamente assimilabile agli interventi già previsti ai commi 1
e 2 dell’art. 6 del TUE.
Come si può desumere anche dalla diversa disciplina riservata dallo stesso
legislatore regionale alle «opere di sistemazione e di arredo» di
natura pertinenziale (art. 17 della legge reg. n. 16 del 2008) assoggettate
a DIA “obbligatoria” (ai sensi dell’art. 23 della stessa legge), la
tipologia di arredo incluso tra gli interventi non subordinati a titoli
abilitativi corrisponde a manufatti che, per le loro caratteristiche di
precarietà strutturale e funzionale, sono destinati a soddisfare esigenze
contingenti e circoscritte nel tempo, e non sono pertanto idonei a
configurare un aumento del volume e della superficie coperta, né ad alterare
il prospetto o la sagoma dell’edificio.
Si tratta dunque di opere assimilabili a quelle previste all’art. 6, comma
6, del TUE, che alla lettera e) considera gli «elementi di arredo delle
aree pertinenziali degli edifici». La legge regionale appare anzi più
restrittiva, perché precisa (a differenza della legge statale) che tali
opere non possono comportare la creazione di volumetria. Sussiste, tuttavia,
un profilo rispetto al quale il legislatore regionale ha ecceduto dalla
sfera della competenza concorrente assegnata dall’art. 117, terzo comma,
Cost.
Mentre il citato art. 6, comma 2, lettera e), del TUE, subordina gli
«elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici» alla previa
comunicazione dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato al comune, la
previsione regionale impugnata accomuna la disciplina dell’arredo su area pertinenziale e di quello sugli spazi “scoperti” dell’edificio, ma non
impone per il primo lo stesso onere formale.
Le regioni possono sì estendere la disciplina statale dell’edilizia libera
ad interventi “ulteriori” rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2
dell’art. 6 del TUE, ma non anche differenziarne il regime giuridico,
dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività
deformalizzate, soggette a cil e cila.
L’omogeneità funzionale della comunicazione preventiva (asseverata o meno)
rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di
costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla norma che la
prescrive ‒al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi‒
la natura di principio fondamentale della materia del «governo del
territorio», in quanto ispirata alla tutela di interessi unitari
dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il
territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni
regionali.
Essendo precluso al legislatore regionale di discostarsi dalla disciplina
statale e di rendere talune categorie di opere totalmente libere da ogni
forma di controllo, neppure indiretto mediante denuncia, l’art. 6 della
legge reg. Liguria n. 12 del 2015 deve essere dichiarato costituzionalmente
illegittimo limitatamente ai commi 3, 8, secondo trattino, e 11, terzo
trattino
(Corte Costituzionale,
sentenza 03.11.2016 n. 231). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella
materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza
legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle
distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la
deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del
tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze
tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è
rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne
detta anche le modalità di esercizio..
Conseguentemente, «Nella delimitazione dei rispettivi
ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e
concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio
è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968,
che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e
inderogabile. Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento
civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti
urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio».
---------------
3.‒
Il Governo ritiene ancora che le modifiche apportate dal sesto comma
dell’art. 6 della legge impugnata all’art. 18, comma l, della legge
regionale n. 16 del 2008, recante la disciplina delle distanze da osservare
negli interventi sul patrimonio edilizio esistente e di nuova costruzione,
contrastino con l’art. 2-bis del TUE, in quanto la disciplina introdotta
dalla Regione Liguria sarebbe destinata, non a soddisfare esigenze di
carattere urbanistico, bensì a consentire interventi edilizi puntuali, in
deroga alla normativa statale in materia di distanze, e invaderebbe così la
sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento
civile» (di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.).
La questione è fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte sul riparto di competenze in tema
di distanze legali, «la disciplina delle distanze minime tra costruzioni
rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla
competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in
deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a
condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato
non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale
relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con
l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo
del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6
del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 134 del 2014 e n. 114 del 2012;
ordinanza n. 173 del 2011).
Si è affermato di conseguenza che: «Nella delimitazione dei rispettivi
ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e
concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio
è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968,
che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e
inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173
del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici
sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio (sentenza n. 6 del 2013)» (sentenza n. 134 del 2014).
Queste conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce
dell’introduzione −ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge
21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013,
n. 98− dell’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
La disposizione recepisce la giurisprudenza di questa Corte, inserendo nel
testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche
per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal
d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità di deroghe solo a condizione che
esse siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un
assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
(sentenza n. 134 del 2014; da ultimo sentenze 185 e 178 del 2016)
(Corte Costituzionale,
sentenza 03.11.2016 n. 231). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 10, comma l, lettera c), del TUE, subordina a permesso di costruire
la realizzazione delle opere di ristrutturazione edilizia sugli immobili
compresi nelle zone omogenee A, che comportino mutamenti della destinazione
d’uso.
Per la stessa tipologia di opere, l’art. 22, comma 3, del TUE
consente all’interessato, per ragioni di carattere acceleratorio, di optare
per la presentazione della DIA (cosiddetta “super DIA”).
Tale facoltà
esaurisce i propri effetti sul piano esclusivamente procedimentale, mentre
sul piano sostanziale dei presupposti, nonché su quello penale e
contributivo, resta ferma l’applicazione della disciplina dettata per il
permesso di costruire.
---------------
5.‒
È fondata anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6,
comma 15, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, nella parte in cui
assoggetta obbligatoriamente a DIA gli «interventi [di ristrutturazione
edilizia] comportanti mutamenti della destinazione d’uso aventi ad oggetto
immobili compresi nelle zone omogenee A o nelle zone o ambiti ad esse
assimilabili e non rientranti nei casi di cui al ridetto articolo 21-bis,
comma 1, lettera f)», per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.,
in riferimento all’art. 10, comma l, lettera c), del TUE.
L’art. 10, comma l, lettera c), del TUE, subordina a permesso di costruire
la realizzazione delle opere di ristrutturazione edilizia sugli immobili
compresi nelle zone omogenee A, che comportino mutamenti della destinazione
d’uso. Per la stessa tipologia di opere, l’art. 22, comma 3, del TUE
consente all’interessato, per ragioni di carattere acceleratorio, di optare
per la presentazione della DIA (cosiddetta “super DIA”). Tale facoltà
esaurisce i propri effetti sul piano esclusivamente procedimentale, mentre
sul piano sostanziale dei presupposti, nonché su quello penale e
contributivo, resta ferma l’applicazione della disciplina dettata per il
permesso di costruire
(Corte Costituzionale,
sentenza 03.11.2016 n. 231). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’onerosità del titolo edilizio abilitativo «riguarda
un principio della disciplina un tempo urbanistica e oggi ricompresa
fra le funzioni legislative concorrenti sotto la rubrica “governo del
territorio”», e anche le deroghe al principio
(elencate all’art. 17 del TUE), in quanto legate a quest’ultimo da un
rapporto di coessenzialità, partecipano della stessa natura di principio
fondamentale.
---------------
6.1.‒
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 20 e 21, primo
trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 , è fondata.
Con tali disposizioni il legislatore regionale esonera dal contributo di
costruzione due categorie di intervento che secondo la legge statale devono
invece restare soggette a contribuzione, nei termini fissati dal TUE: gli
interventi sul patrimonio edilizio esistente che determinano un aumento
della superficie agibile dell’edificio o delle singole unità immobiliari,
quando l’incremento della superficie agibile all’interno delle unità
immobiliari sia inferiore a 25 metri quadrati, e quando le variazioni di
superficie derivino da mera eliminazione di muri divisori; gli interventi di
frazionamento di unità immobiliari che determinino un numero di unità
immobiliari inferiore al doppio di quelle esistenti, sia pure con aumento di
superficie agibile.
A seconda delle loro concrete caratteristiche costruttive, questi interventi
(qualificati genericamente dal legislatore regionale come «interventi sul
patrimonio edilizio esistente») possono rientrare nella nozione di «manutenzione
straordinaria», come definita agli artt. 3, comma 1, lettera b) e 6,
comma 2, lettera a) del TUE, o in quella di «ristrutturazione edilizia»,
come definita dall’art. 3, comma 1, lettera d) del TUE.
La disciplina statale prevede per la prima (ove ricorrano i presupposti
dell’art. 17, comma 4, del TUE) una riduzione del contributo alla sola parte
corrispondente alla incidenza delle opere di urbanizzazione, e per la
seconda la regola del pagamento del contributo per intero, salvi casi
particolari di esonero, come quello della ristrutturazione di edifici
unifamiliari (art. 17, comma 3, lettera b, del TUE), o di riduzione, come
quello della ristrutturazione di immobili dismessi o in via di dismissione
(art. 17, comma 4-bis, del TUE).
Le fattispecie di esonero introdotte dalle norme regionali impugnate vanno
al di là di queste ipotesi e contrastano, dunque, con i principi
fondamentali della materia.
L’onerosità del titolo abilitativo «riguarda
infatti un principio della disciplina un tempo urbanistica e oggi ricompresa
fra le funzioni legislative concorrenti sotto la rubrica “governo del
territorio”» (sentenza n. 303 del 2003), e anche le deroghe al principio
(elencate all’art. 17 del TUE), in quanto legate a quest’ultimo da un
rapporto di coessenzialità, partecipano della stessa natura di principio
fondamentale (sentenze n. 1033 del 1988 e n. 13 del 1980)
(Corte Costituzionale,
sentenza 03.11.2016 n. 231). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 04.09.2019, "Ordine del
giorno concernente i contributi per la rimozione di coperture e di altri
manufatti in cemento-amianto" (deliberazione
C.R. 26.07.2019 n. 589). |
VARI:
G.U. 28.08.2019 n. 201 "Regolamento di organizzazione del Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, dell’Organismo
indipendente di valutazione della performance e degli Uffici di diretta
collaborazione"
(D.P.C.M.
19.06.2019 n. 97). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 35 del 28.08.2019, "Registro delle Unioni
di comuni lombarde. 2° aggiornamento 2019 (in attuazione della d.g.r.
27.03.2015, n. 3304)"
(decreto
D.S. 22.08.2019 n. 12188). |
PATRIMONIO: G.U.
12.08.2019 n. 188 "Testo
del decreto-legge 28.06.2019, n. 59, coordinato con la legge di conversione
08.08.2019, n. 81, recante: «Misure urgenti in materia di
personale delle fondazioni lirico sinfoniche, di sostegno del settore del
cinema e audiovisivo e finanziamento delle attività del Ministero per i beni
e le attività culturali, di credito d’imposta per investimenti pubblicitari
nei settori editoriale, televisivo e radiofonico, di normativa antincendio
negli edifici scolastici e per lo svolgimento della manifestazione UEFA Euro
2020, nonché misure a favore degli istituti superiori musicali e delle
accademie di belle arti non statali».
---------------
Di particolare interesse si legga:
●
Art. 4-bis - Modifiche all’articolo 4 del decreto-legge 30.12.2016, n. 244,
e piano straordinario per l’adeguamento alla normativa antincendio degli
edifici pubblici adibiti ad uso scolastico |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: G.
Nicolucci,
La tutela paesaggistica degli assetti fondiari collettivi: Naturschutz
vs. Landschaftspflege
(04.09.2019 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Gli usi civici, beni paesaggistici. — 2. Quali usi
civici? — 3. Il paradosso normativo. — 4. La tutela che non c’è: Naturschutz
vs. Landschaftspflege. — 5. L’ossimoro della sovraordinata pianificazione
paesaggistica nelle aree protette. — 6. Considerazioni di sintesi. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Bonomo,
ACCESSO GENERALIZZATO E RICHIESTE MASSIVE:
IL TAR IMPONE IL DIALOGO COOPERATIVO - TAR Campania, Sez. VI, sentenza
09.05.2019 n. 2486 (settembre 2019 - tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Istanze massive ed
eccessivamente onerose – Dialogo cooperativo -– Intralcio al buon
funzionamento dell’amministrazione – Accoglimento.
È illegittimo il provvedimento di diniego di accesso generalizzato sulla
base di un generico riferimento alla mole cospicua di documenti. L’intralcio
al buon andamento della pubblica amministrazione va adeguatamente dimostrato
e comunque deve seguire una fase di dialogo endoprocedimentale tesa a
permettere la specificazione dei documenti richiesti da parte dell’istante.
---------------
SOMMARIO - Premessa – 1. La vicenda. – 2. I limiti dell’accesso
generalizzato: tra genericità del dato normativo e misure di soft law. – 3.
Le istanze massive e la giurisprudenza amministrativa. – 4. La decisione del
Tar Campania e il dialogo cooperativo. |
APPALTI SERVIZI - ENTI LOCALI: M.
Lucca,
Il servizio pubblico di trasporto scolastico (e la copertura della spesa)
(02.07.2019 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
M. Terrei, I VERBALI DI GARA NELL’ERA DELLE
PIATTAFORME ELETTRONICHE DI NEGOZIAZIONE (giugno 2019 - tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Il verbale. Breve descrizione di
carattere generale. – 2.1. sulla forma del verbale - 3. Il soggetto
verbalizzante. - 4. I contenuti e le formalità delle verbalizzazioni. - 5.
La redazione del verbale. - 6. Il verbale nella normativa Appalti. - 7. La
funzione assegnata dalla norma alle Piattaforme Elettroniche di
Negoziazione. - 7.1. Le norme tecniche dei sistemi telematici nella
Direttiva e nel Codice. – 7.2. Circolare n. 3 del 06.12.2016 dell’Agenzia
per l’Italia Digitale (AGID). – 7.2.1. Circolare n. 3/2016 AGID – Appendice.
– 7.2.2. I sistemi telematici di acquisto e le norme tecniche. Una
riflessione sul verbale - 8. Le procedure di esame e valutazione delle
offerte con l’avvento delle Piattaforme Elettroniche di Negoziazione. – 8.1.
L’avvio della seduta di gara. – 8.2. l’accesso alla Piattaforma e l’avvio
della seduta di gara. – 8.3. La pubblicità delle sedute di gara. - 8.4.
l’analisi della documentazione amministrativa. - 8.5. l’analisi dell’offerta
tecnica. - 8.6. l’analisi dell’offerta economica. - 9. Le procedure di
valutazione dell’anomalia. – 10. I verbali di gara nel MePA (Mercato
elettronico della Pubblica Amministrazione). - 11. Conclusioni. |
A.N.AC. |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Sulla
contemporanea titolarità delle funzioni di Responsabile della Prevenzione
della Corruzione e della Trasparenza (RPCT) e di componente ovvero di
titolare dell’ufficio procedimenti disciplinari (UPD) di una pubblica
amministrazione - Fascicolo UVMAC/3992/2018
(delibera
23.07.2019 n. 700 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
Conclusioni
Una situazione di totale incompatibilità tra le due funzioni è pertanto da
escludersi, nei casi in cui l’UPD sia un organo collegiale (come in molti
Comuni, nei quali il Segretario Generale, di norma svolgente il ruolo di
RPCT, è componente dell’UPD).
Più delicata la situazione laddove l’UPD sia un organo monocratico, poiché
in questi casi l’RPCT segnala i dipendenti che non hanno attuato le misure
di prevenzione della corruzione previste dal PTPCT. Qui la pur insussistente
incompatibilità potrebbe presentarsi nella specie di conflitto di interessi
tra il soggetto segnalante (RPCT) e il soggetto che valuta le infrazioni
disciplinari (UPD).
Anche se esclusa la piena incompatibilità resta, ad avviso di questa
Autorità, altamente opportuno che le amministrazioni e gli enti di diritto
privato che dovranno nominare il proprio RPCT evitino di attribuire ad esso
anche le funzioni di componente dell’UPD.
Resta fermo l’orientamento dell’Autorità n. 111 del 04.11.2014, secondo il
quale una situazione di conflitto di interessi sussiste nel caso in cui
oggetto del procedimento disciplinare sia un’infrazione commessa dallo
stesso RPCT.
Tutto ciò premesso e considerato,
DELIBERA
• in via generale, di ritenere non
sussistente, specie nel caso in cui l’Ufficio Procedimenti Disciplinari
dell’Amministrazione sia costituito come Organo Collegiale, una situazione
di incompatibilità tra la funzione di RPCT e l’incarico di componente
dell’ufficio dei procedimenti disciplinari, salvo i casi in cui oggetto
dell’azione disciplinare sia un’infrazione commessa dallo stesso RPCT;
• di raccomandare, come altamente auspicabile, alle pubbliche
amministrazioni e agli enti interessati, laddove possibile, di distinguere
le due figure, soprattutto nelle amministrazioni e negli enti di maggiori
dimensioni e nel caso in cui l’UPD sia organo monocratico;
• di pubblicare la presente delibera sul sito istituzionale dell’ANAC
e di darne comunicazione al RPCT e al Sindaco del comune di [omissis].
---------------
MASSIMA
In via generale non sussiste una situazione di
incompatibilità in capo al RPCT titolare o componente dell’ufficio dei
procedimenti disciplinari, salvo i casi in cui oggetto dell’azione
disciplinare sia un’infrazione commessa dallo stesso RPCT.
Tuttavia è altamente auspicabile, negli Enti che ne hanno la possibilità,
tenere distinte le due figure, soprattutto nelle amministrazioni di maggiori
dimensioni e nel caso in cui l’UPD sia organo monocratico. |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Oggetto:
Pubblicazione del testo integrale dei contratti di acquisto di beni e
servizi di importo unitario superiore a 1 milione di euro in esecuzione del
Programma biennale, e dei suoi aggiornamenti, dopo l’abrogazione dell’art.
1, comma 505, della legge di stabilità 2016, operata dall’art. 217 del
Codice dei contratti pubblici
(comunicato
del Presidente 23.07.2019 - link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Oggetto:
sospensione dell’operatività dell’Albo dei commissari di gara di cui
all’articolo 78 del Decreto Legislativo 19.04.2016, n. 50
(comunicato
del Presidente 15.07.2019 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
Albo nazionale dei componenti delle commissioni giudicatrici. Sospesa
l'operatività dell'Albo dei commissari di gara fino al 31.12.2020.
Con il Comunicato del Presidente del 15.07.2019, è sospesa l’operatività
dell’Albo dei commissari di gara. Si informano, pertanto, i soggetti
interessati, che non è più possibile procedere all’iscrizione al suddetto
Albo e che l’Autorità, con successivo comunicato, renderà noti gli
adempimenti in relazione alla tariffa di iscrizione versata. |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Aggiornamento
«Linee
Guida n. 4, di attuazione del Decreto Legislativo 18.04.2016, n. 50, recanti
“Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore
alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e
gestione degli elenchi di operatori economici”»
(delibera
10.07.2019 n. 636 - link
a www.anticorruzione.it).
---------------
Nelle more dell’adozione del nuovo regolamento governativo di attuazione
del codice dei contratti pubblici, l’ANAC è autorizzata a modificare le
proprie Linee guida n. 4, ai soli fini dell’archiviazione della procedura di
infrazione n. 2018/2273.
Aggiornati i punti 1.5, 2.2, 2.3 e 5.2.6, lett. j), delle Linee guida.
Di particolare interesse i punti 2.3. e 2.3. che recitano:
2.2 Per le opere di urbanizzazione a
scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del
permesso di costruire, nel calcolo del valore stimato devono essere
cumulativamente considerati tutti i lavori di urbanizzazione primaria e
secondaria anche se appartenenti a diversi lotti, connessi ai lavori oggetto
di permesso di costruire, permesso di costruire convenzionato (articolo
28-bis d.P.R. 06.06.2001 n. 380) o convenzione di lottizzazione (articolo 28
l. 17.08.1942 n. 1150) o altri strumenti urbanistici attuativi. Quanto
disposto dall’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e 36, comma
4, Codice dei contratti pubblici si applica unicamente quando il valore di
tutte le opere di urbanizzazione, calcolato ai sensi dell’articolo 35, comma
9, Codice dei contratti pubblici, non raggiunge le soglie di rilevanza
comunitaria. Per l’effetto: se il valore complessivo delle opere di
urbanizzazione a scomputo –qualunque esse siano– non raggiunge la soglia
comunitaria, calcolata ai sensi dell’articolo 35, comma 9, Codice dei
contratti pubblici, il privato potrà avvalersi della deroga di cui
all’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, esclusivamente per
le opere funzionali; al contrario, qualora il valore complessivo di tutte le
opere superi la soglia comunitaria, il privato sarà tenuto al rispetto delle
regole di cui al Codice di contratti pubblici sia per le opere funzionali
che per quelle non funzionali. Per opere funzionali si intendono le opere di
urbanizzazione primaria (ad es. fogne, strade, e tutti gli ulteriori
interventi elencati in via esemplificativa dall’articolo 16, comma 7, d.P.R.
06.06.2001 n. 380) la cui realizzazione è diretta in via esclusiva al
servizio della lottizzazione ovvero della realizzazione dell’opera edilizia
di cui al titolo abilitativo a costruire e, comunque, quelle assegnate alla
realizzazione a carico del destinatario del titolo abilitativo a costruire.
2.3 Si applica
l’articolo 35, comma 11, del codice dei contratti pubblici. |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Integrazioni
e modifiche della delibera 08.03.2017, n. 241 per l’applicazione dell’art.
14, co. 1-bis e 1-ter, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 a seguito della sentenza
della Corte Costituzionale n. 20 del 23.01.2019 (delibera
26.06.2019 n. 586 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
La delibera prevede Integrazioni e modifiche della delibera 08.03.2017,
n. 241 per l’applicazione dell’art. 14, co. 1-bis e 1-ter, del d.lgs.
14.03.2013, n. 33 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 20
del 23.01.2019 sugli obblighi concernenti i titolari di incarichi politici,
di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi
dirigenziali. |
APPALTI: Linee
Guida n. 11 recanti «Indicazioni per la verifica del rispetto del limite di
cui all’articolo 177, comma 1, del codice, da parte dei soggetti pubblici o
privati titolari di concessioni di lavori, servizi pubblici o forniture già
in essere alla data di entrata in vigore del codice non affidate con la
formula della finanza di progetto ovvero con procedure di gara ad evidenza
pubblica secondo il diritto dell’Unione europea»
(delibera
26.06.2019 n. 570 - link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Linee
Guida n. 15 recanti «Individuazione e gestione dei conflitti di interesse
nelle procedure di affidamento di contratti pubblici»
(delibera
05.06.2019 n. 494 - link a www.anticorruzione.it). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Obblighi
di pubblicità e trasparenza bandi di concorso.
Domanda
Tra poche settimane dovremo pubblicare un bando di concorso. Quali sono gli
obblighi di trasparenza che ha il comune?
Risposta
Relativamente ai bandi di concorso, la legislazione vigente prevede vari e
diversi obblighi di pubblicità e trasparenza.
Il primo è rappresentato dalla pubblicazione del bando nella Gazzetta
Ufficiale, 4ª Serie Speciale – Concorsi ed Esami. Come previsto
dall’articolo 4, comma 1-bis, del DPR 09.05.1994, n. 487, per gli enti
locali, la diffusione in Gazzetta può essere sostituita dalla pubblicazione,
sempre nella G.U., del solo avviso di concorso, contenente gli estremi del
bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione delle
domande.
Il secondo obbligo è quello di pubblicare il bando e il relativo schema di
domanda di partecipazione all’albo pretorio on-line dell’ente, per tutta la
durata del termine di presentazione della domanda. Per evitare possibili
confusioni tra le date è bene che la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e
quella all’albo pretorio comunale sia prevista nella stessa data.
Sempre nella medesima data, parte il terzo obbligo che è quello di
pubblicare il bando e lo schema di domanda nella sezione del sito web,
denominata Amministrazione trasparente > Bandi di concorso.
Per tale sezione gli obblighi di trasparenza sono fissati nell’articolo 19,
del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che testualmente recita:
Art. 19 Bandi di concorso
1. Fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale, le
pubbliche amministrazioni pubblicano i bandi di concorso per il
reclutamento, a qualsiasi titolo, di personale presso l’amministrazione,
nonché i criteri di valutazione della Commissione e le tracce delle prove
scritte.
2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e tengono costantemente
aggiornato l’elenco dei bandi in corso.
Come si può notare, gli obblighi contenuti nel decreto Trasparenza (d.lgs.
33/2013) fanno salvi gli altri obblighi di pubblicità legale (Gazzetta e
albo) e non si limitano alla pubblicazione del bando e del fac-simile di
domanda, ma riguardano anche:
• i criteri di valutazione della Commissione (spesso previsti nel
regolamento dei concorsi ed eventualmente integrati dalla Commissione
stessa, nella sua prima seduta);
• le tracce delle prove scritte, intendendo sia quelle estratte per
lo svolgimento delle prove, sia quelle preparate dalla Commissione e non
utilizzate nella procedura concorsuale.
Con le ultime modifiche introdotte dall’articolo 18, del decreto legislativo
25.05.2016, n. 97, è stato soppresso l’obbligo di pubblicare tutti i bandi
espletati nel corso dell’ultimo triennio, accompagnati dall’indicazione, per
ciascuno di essi, del numero dei dipendenti assunti e delle spese sostenute
per l’espletamento del concorso.
Contrariamente a quanto previsto per le commissioni di gara (si veda
articolo 37, comma 1, lettera b, del d.lgs. 33/2013 e art. 29, comma 1,
d.lgs. 50/2016), per i bandi di concorso non vengono previsti obblighi
particolari di pubblicità circa la composizione della commissione
giudicatrice, né per la pubblicazione dei curricula dei suoi
componenti
(10.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Residenza
in roulotte.
Domanda
Un nostro cittadino vive in una roulotte posteggiata in un parcheggio
pubblico comunale, senza alcuna autorizzazione in tal senso e vuole chiedere
la residenza.
È possibile ricevere tale tipo di richiesta, viste le norme antiabusivismo?
Se si, è da iscrivere come “normale” residente APR, oppure come senza
fissa dimora?
Risposta
Sicuramente la richiesta deve essere ricevuta, questo per evitare l’ipotesi
del reato di omissione d’atti d’ufficio.
In seguito, eventualmente, si procederà con gli appositi strumenti
nell’ambito del procedimento amministrativo: se ricorre l’ipotesi dell’irricevibilità
(mancando ad es. i dati obbligatori previsti nel modulo di richiesta…) si
formerà un provvedimento negativo in forma semplificata, oppure si farà
ricorso al preavviso di rigetto previsto dall’art. 10-bis della legge
241/1990, infine l‘Ufficiale di Anagrafe potrà provvedere al ripristino
della posizione anagrafica precedente, mediante annullamento della mutazione
registrata, a decorrere dalla data della ricezione della dichiarazione.
Prima, però, di provvedere in tal senso, in riferimento al quesito
specifico, è necessario riflettere bene sulla situazione di fatto.
L’impostazione che si è consolidata nel tempo a proposito, che possiamo
riassumere brevemente come segue, è a grandi linee questa:
• l’Anagrafe si occupa di registrare la situazione di fatto e
tradizionalmente tale funzione non viene snaturata dalla difesa di altri
interessi (urbanistici, igienico -sanitari, di ordine pubblico, etc.).
Esistono strumenti giuridici appositi, differenti da quelli anagrafici, per
la tutela di tali interessi. Pertanto, in termini generali, se gli
accertamenti relativi alla dimora abituale danno esito positivo, il
cittadino viene iscritto in APR, indipendentemente dalle eventuali
violazioni edilizie. Ovviamente la presenza deve avere carattere di
stabilità e non essere itinerante;
• gli organi preposti (quali il Sindaco, l’Ufficio Tecnico comunale
ed il comando di Polizia) ricevono la segnalazione ad hoc da parte
dell’Ufficio Anagrafe (art. 1 della legge anagrafica: “L’iscrizione e la
richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica, da parte
dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie
dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza, ai
sensi delle vigenti norme sanitarie”).
Relativamente alle norme antiabusivismo, per potersi configurare
un’occupazione abusiva, secondo quanto previsto dall’art. 5 del d.l.
47/2014, occorre la contestuale presenza di due requisiti: l’occupazione
arbitraria di terreni o immobili altrui e la querela di parte della persona
offesa. Essendo il terreno dove è posizionata la roulotte di proprietà
comunale, a seguito della richiesta del cittadino, è necessario fare la
segnalazione agli organi preposti (Sindaco, Comando di Polizia, Ufficio
Tecnico). Il cittadino stesso dovrà indicare nella richiesta di residenza il
titolo in base al quale sta occupando legittimamente l’immobile (in questo
caso il terreno).
Pertanto una verifica in tal senso è necessaria. Se queste segnalazioni
porteranno ad una ordinanza di sgombero, o comunque alla rimozione della
roulotte, prima della conclusione del procedimento anagrafico, sarebbe
possibile non effettuare l’iscrizione stessa, per carenza del requisito
della dimora abituale. Quindi in questo caso la motivazione del rifiuto sarà
proprio determinata dalla situazione di fatto.
Riguardo all’ipotesi senza fissa dimora, è necessario chiarire che SFD è chi
non fermandosi mai per lungo tempo in uno stesso luogo, non possiede i
requisiti per essere considerato residente da nessuna parte e necessita
dunque di un trattamento diverso (in pratica si tratta di far coincidere la
residenza anagrafica con il domicilio). Secondo l’Istat (“Avvertenze,
note illustrative e normativa AIRE, Metodi e Norme, serie B – n. 29 –“,
edizione 1992) è chi non abbia in alcun Comune quella dimora abituale che è
elemento necessario per l’accertamento della residenza (girovaghi, artisti
delle imprese spettacoli viaggianti, commercianti e artigiani ambulanti,
ecc.); per tali persone si è adottato il criterio dell’iscrizione anagrafica
nel Comune di domicilio.
In base alla norme del c.d. decreto sicurezza del 2009, sono cambiate le
modalità di iscrizione anagrafica delle persone senza fissa dimora, vista
l’introduzione dell’obbligo di fornire all’ufficiale d’anagrafe, al momento
della richiesta di iscrizione, “gli elementi necessari allo svolgimento
degli accertamenti atti a stabilire l’effettiva sussistenza del domicilio”.
Quindi fondamentalmente la distinzione tra iscrizione APR e SFD si gioca
sulla differenza tra i concetti di residenza (dimora abitale) e domicilio
(sede principale dei propri affari e interessi).
Per concludere, e tornare al caso oggetto del quesito, sarà il cittadino che
farà una richiesta di “normale” residenza APR, oppure di iscrizione
come SFD, alla quale dovrete rispondere, utilizzando gli strumenti
procedimentali ad hoc, in base alle verifiche ed agli elementi emersi
nel corso dell’istruttoria, tenendo presenti i concetti che abbiamo cercato
di chiarire per delineare le due diverse situazioni
(06.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità
per interscambio.
Domanda
Come funzione la mobilità per interscambio o compensazione?
Risposta
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con la
nota prot. n. 20506 del 27.03.2015,
al fine di chiarire alcuni dubbi interpretativi in tema di ricollocazione
del personale degli enti di area vasta, ha inserito, tra gli altri
argomenti, anche un paragrafo dedicato alla mobilità per interscambio (o per
compensazione).
Il Dipartimento prevede che la stessa possa essere mutuata dal d.p.c.m.
325/1988 che, all’articolo 7, dispone che è consentita in ogni momento,
nell’ambito delle dotazioni organiche, la mobilità dei singoli dipendenti
presso la stessa o altre pubbliche amministrazioni, anche di diverso
comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri
dipendenti.
Si deve, in ogni caso, trattare di corrispondente categoria e profilo
professionale e l’operazione può concludersi previo nulla osta
dell’amministrazione di provenienza e di quella di destinazione. Ciò che si
realizza è solamente una reciproca sostituzione di dipendenti che ricoprono
un determinato ruolo, sostanzialmente neutra, in quanto non copre fabbisogni
evidenziati nel piano occupazionale, né genera nuovi fabbisogni.
Il contesto normativo che riguarda tale istituto è sicuramente quello della
mobilità volontaria disciplinato dall’art. 30 del TUPI, con la sola
eccezione, puntualizzata anche dal Dipartimento citato, che si possa
prescindere dall’adozione di veri e propri avvisi pubblici di mobilità.
È però indispensabile che le amministrazioni coinvolte accertino che non vi
siano controinteressati al passaggio, nel rispetto dei principi di
imparzialità e trasparenza, eventualmente ricorrendo, a seconda della
dimensione organizzativa e del numero di dipendenti, ad un interpello
interno finalizzato a verificare l’eventuale contestuale interesse alla
mobilità di altri dipendenti da sottoporre a valutazione (può essere
semplicemente un’e-mail destinata ai lavoratori appartenenti alla medesima
categoria e profilo professionale oggetto della mobilità in parola).
Non è necessario che l’ente si doti di apposita regolamentazione in materia,
potendo far riferimento ai comportamenti e/o regole già in uso per la
mobilità, dato che l’esigenza rimane quella di individuare, nell’ambito del
personale delle pubbliche amministrazioni, il soggetto più idoneo per titoli
e competenze possedute (non è mai una graduatoria), alla copertura della
posizione di lavoro interessata, in risposta comunque al criterio di buon
andamento dell’azione amministrativa
(05.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Questo
Commissariato sta rilasciando una licenza art. 88 TULPS per sala scommesse
ed intende prescrivere, d'accordo con il Sindaco, dei limiti di orario delle
attività di gioco.
Sono legittime queste prescrizioni o vi sono rischi di ricorso?
L'art. 9 del TULPS (R.D. 18.06.1931, n. 773 dispone "Oltre le condizioni
stabilite dalla legge , chiunque ottenga un'autorizzazione di polizia deve
osservare le prescrizioni, che l'autorità di pubblica sicurezza ritenga di
imporgli nel pubblico interesse". In questo caso la prescrizione
consiste nel rinvio alla disciplina degli orari delle attività economiche
stabiliti dalla competente autorità comunale (Sindaco) ai sensi dell'art. 50
TUEL (D.Lgs. 18.08.2000, n. 267).
La normativa in materia di gioco è divenuta negli ultimi anni più
restrittiva al fine di contrastare il cosiddetto "gioco patologico" e
le conseguenze sanitarie che derivano dallo stesso. Si ritiene che la
limitazione degli orari di attivazione delle apparecchiature da gioco
costituisce uno strumento concretamente idoneo a ridurne la possibilità di
utilizzo, così da integrare una misura amministrativa funzionale a
delimitare la diffusione del fenomeno del gioco patologico (l'art. 50, comma
7, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 è una statuizione di carattere generale, nel
cui ambito non vi sono ragioni preclusive a ritenere rientrante anche il
potere sindacale di determinazione degli orari delle sale da gioco o di
accensione e spegnimento degli apparecchi durante l'orario di apertura degli
esercizi, in cui i medesimi sono installati).
La giurisprudenza infatti ritiene che il Sindaco possa disciplinare gli
orari delle sale giochi e degli esercizi nei quali siano installate
apparecchiature per il gioco essendo attribuiti allo stesso poteri di
ordinanza a tutela della salute dei cittadini ed essendo considerate tali
apparecchiature nel loro aspetto negativo di strumenti di grave pericolo per
la salute individuale ed il benessere psichico e socio-economico della
popolazione.
Il potere esercitato dal Sindaco non interferisce con quello degli organi
statali preposti alla tutela dell'ordine e della sicurezza, atteso che la
competenza di questi ha ad oggetto rilevanti aspetti di pubblica sicurezza,
mentre quella del Sindaco concerne in senso lato gli interessi della
comunità locale, con la conseguenza che le rispettive competenze operano su
piani diversi non configurandosi alcuna violazione dell'art. 117, comma 2,
lett. h), della Costituzione.
Anche recentemente è stata ritenuta legittima la licenza per l'esercizio di
attività di gioco lecito, rilasciata dalla Questura ai sensi dell'art. 88
T.U.L.P.S., anche nella parte in cui prescrive che "devono essere
rispettati gli orari imposti dal Sindaco in materia di apertura degli
esercizi pubblici localizzati nel territorio. Il cartello dell'orario
dell'attività deve essere esposto ben visibile al pubblico, all'ingresso del
locale".
Si ritiene pertanto legittima la citata prescrizione e comunque, anche ove
non disposta, resta salvo i potere ordinatorio del Sindaco.
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Riferimenti normativi e contrattuali
R.D. 18.06.1931, n. 773, art. 88
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 50
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. III,
01.07.2019, n. 4509
Cons. Stato Sez. IV, 10.07.2018, n. 4199
Cons. Stato Sez. V Sent., 22.10.2015, n. 4861
Cons. Stato Sez. V, 20.10.2015, n. 4794
TAR Lombardia-Milano Sez. I, 02.04.2019, n. 716
TAR Lombardia-Milano Sez. I, 25.03.2019, n. 619 (04.09.2019 -
tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PATRIMONIO:
Acquisto immobile da destinare a Caserma dei Carabinieri.
Quesito
Il Comune chiede se ed eventualmente entro che limiti possa legittimamente
procedere all’acquisto di un immobile di proprietà privata, attualmente
locato come caserma dei Carabinieri ed alla cui vendita i proprietari
abbiano necessità di procedere; ciò al fine di evitare la delocalizzazione
dell'attuale stazione di comando.
Parere espresso
La materia dell’accasermamento rientra nella competenza dello Stato e, nel
caso specifico, del Ministero dell’Interno, sul quale pertanto indubbiamente
gravano in prima istanza i relativi oneri. Questo provvede all’alloggiamento
dei Carabinieri tramite la messa a disposizione di strutture idonee
rientranti nel proprio patrimonio, ove presenti, oppure, in mancanza,
verificando la possibilità di acquisire in locazione passiva immobili delle
Amministrazioni locali o, in ultima istanza, di proprietà di privati.
Presupposto per un’attivazione del Comune sul tema in oggetto è dunque,
anzitutto, che pervenga ad esso una specifica richiesta dal Commissariato
del Governo (cui sono state attribuite tutte le funzioni esercitate a
livello periferico dallo Stato).
Ciò precisato, va approfondito fino a che punto l’Amministrazione possa
legittimamente spingere la propria azione, ove, come nel caso di specie, non
abbia un immobile idoneo libero da mettere a disposizione e, precisamente,
se possa acquistarne uno, per destinarlo a Caserma e locarlo al Corpo.
In verità, un intervento sussidiario del Comune, ove risulti effettivamente
necessario ad assicurare il mantenimento di un presidio di pubblica
sicurezza, appare coerente con le finalità istituzionali proprie degli enti
locali.
A suffragare tale affermazione, apparentemente solo di buon senso,
soccorrono del resto le argomentazioni dedotte nella deliberazione n.
91/2017 della Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la
Liguria, inerente un caso analogo, secondo la quale «la sicurezza dei
cittadini non può appartenere ad un unico livello di Amministrazione (lo
Stato), ma deve rappresentare una responsabilità per tutti gli enti che si
occupano degli interessi pubblici della collettività amministrata,
concorrendo, infatti, “a soddisfare interessi pubblici generali meritevoli
di intensa e specifica tutela”». In tal senso è senz’altro legittimo,
secondo il Collegio, che l’Ente locale di “prossimità” «si
adoperi con attività amministrativa e finanziaria, a garantire la sicurezza
dei cittadini coadiuvando l’attività statale e delle Prefetture».
A conferma di tale inquadramento, il Collegio richiama alcune specifiche
disposizioni presenti nell’ordinamento giuridico che consentono ai Comuni di
alleggerire il peso finanziario che grava sullo Stato per la sicurezza: il
comma 439 della legge n. 311 del 2004, che riconosce ai comuni la facoltà
di concedere in uso gratuito alle amministrazioni dello Stato, per le
finalità istituzionali di queste ultime, beni immobili di loro proprietà;
il comma 4-bis. dell’art. 3, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, che
riconosce ai comuni la facoltà di contribuire al pagamento del canone di
locazione determinato dall’Agenzia delle Entrate, di immobili, di proprietà
di terzi, destinate a caserme delle forze dell’ordine.
Il Collegio sottolinea come le finalità perseguite da tali norme siano
evidentemente conseguibili anche con diverse modalità, compreso l’acquisto
diretto dell’immobile, a patto che la decisione consegua ad un’attenta
ponderazione in merito alla maggior convenienza, sotto il profilo
finanziario, della scelta optata rispetto alle possibili alternative.
Il Comune dovrà quindi essere in grado di dimostrare:
- l’effettiva necessità del proprio intervento, per evitare la
delocalizzazione dell'attuale stazione di comando; a tal fine occorrerà
disporre di una espressa richiesta di attivazione da parte del Commissariato
del Governo che dia conto della indisponibilità del proprietario a
rinnovare il contratto di locazione in essere;
- l’assenza di alternative più economiche rispetto all’acquisto di
un immobile e, in particolare, l’assenza di altri immobili idonei
acquistabili sul territorio comunale, a condizioni più vantaggiose di
quello attualmente abitato dal Corpo; in proposito il Comune darà conto di
aver esperito lo scorso anno idoneo avviso pubblico, con esito negativo e,
nell’ipotesi -prospettata- che l’immobile in questione sia posto in vendita
ad un’asta fallimentare, dell’opportunità di acquistarlo a condizioni
vantaggiose.
Naturalmente è essenziale che di tutte queste circostanze e valutazioni si
dia conto attraverso una compiuta e documentata motivazione.
Con riguardo ai quesiti ancillari al tema principale sopra affrontato, si
conferma che:
• nel caso in cui l'immobile sia messo all'sta, non si ritiene che
sussistano motivi o norme che impediscono all'amministrazione di presentare
offerta; peraltro, in tal caso dovranno essere valutate le condizioni per
far precedere l'offerta da un provvedimento che autorizza la presentazione
della medesima e modalità per garantirne la segretezza;
• il comproprietario dell’immobile consigliere comunale può
alienare pro quota il bene, non partecipando ovviamente al provvedimento che
autorizza l’acquisto, in quanto la normativa vigente pone in capo al
consigliere solo il divieto di essere acquirenti di beni immobili del Comune
(07.01.2019 - link a www.comunitrentini.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Incentivi alla pianificazione urbanistica, è danno erariale se
superano i limiti ministeriali.
Tra gli incentivi di progettazione la normativa all'epoca ha incluso anche
la possibilità, per i dipendenti tecnici, di liquidare gli importi per gli
atti di pianificazione urbanistica «comunque denominati», includendo anche
la definizione e l'approvazione del regolamento urbanistico, nel limite del
30% dell'importo che l'ente avrebbe dovuto corrispondere in caso di
affidamento degli atti a professionisti esterni.
La Corte dei conti della Toscana (sentenza 03.09.2019 n. 329), non tenendo conto
dell'assoluzione in ambito penale, ha condannato per danno erariale i due
responsabili tecnici che si erano liquidati degli incentivi aumentando la
base di calcolo della tariffa esterna.
Sul tema degli incentivi tecnici agli
atti di pianificazione si è recentemente pronunciata la Cassazione
(ordinanza
14.08.2019 n. 21424), precisando il principio di diritto secondo il
quale sono remunerabili esclusivamente gli atti di pianificazione
urbanistica qualora strettamente collegati alla realizzazione di una opera
pubblica, quindi nel caso di specie nulla avrebbe dovuto essere corrisposto
ai due dipendenti tecnici.
La vicenda
A seguito del complesso iter di approvazione dei piani urbanistici e del
regolamento, alcuni responsabili tecnici si erano liquidarti importi per
incentivi loro dovuti nel limite del 30% della tariffa che sarebbe stata
applicata ai professionisti esterni. Tuttavia, nel calcolo della tariffa, in
ragione della complessità delle attività svolte, i dipendenti non si
sarebbero attenuti alla
circolare del ministero dei Lavori pubblici
01.12.1969 n. 6679 secondo cui la maggiorazione dell'onorario
professionale, in caso di progettazione interna, non avrebbe potuto essere
superiore al 50%.
I dipendenti hanno, invece, proceduto a maggiorare la
tariffa del 70% tanto che la Procura ha chiamato i responsabili a rispondere
del danno erariale pari alla differenza della percentuale applicata rispetto
a quella massima. In sede di difesa i tecnici hanno evidenziato come, sul
medesimo giudizio di congruità dei valori presi a riferimento, il tribunale
penale li ha assolti perché non sussisteva il fatto ascritto.
Le precisazioni del collegio contabile
Secondo i giudici contabili toscani, in considerazione dell'autonomia dei
due giudizi (penale e contabile) e in ragione anche della non definitività
della sentenza, entrambi i responsabili sono stati condannati per danno
erariale per essersi distribuiti risorse in violazione del limite massimo
stabilito nella circolare ministeriale.
La Corte, inoltre, non ha ritenuto
valide le giustificazioni della difesa secondo cui alla tariffa di base
avrebbero dovuto essere aggiunti, in quanto non previsti nella circolare
ministeriale, gli onorari a discrezione e a vacazione, giustificazioni
queste accolte invece in sede penale. Secondo la Corte, infatti, gli onorari
richiesti in aumento si fondano in ogni caso su voci "eventuali" e non
dimostrate e comunque al di fuori del limite massimo previsto nella
circolare.
L'indirizzo della Cassazione
Il giudice di legittimità è stato di recente chiamato a verificare due
diversi indirizzi assunti dai giudici contabili, il primo (Corte dei conti
Veneto) che ha ritenuto incentivabili gli atti di pianificazione «comunque
denominati» non necessariamente collegato alla realizzazione di un opera
pubblica, mentre il secondo riteneva incentivabili i soli atti di
pianificazione strettamente collegati alla realizzazione dell'opera
pubblica, tanto che la Sezione delle Autonomie, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha chiuso il contrasto precisando l'obbligatorio collegamento con la
sola realizzazione dell'opera pubblica.
La Cassazione, che ha aderito al medesimo orientamento della nomofilachia
contabile, ha stabilito che gli atti di pianificazione comunque denominati
devono obbligatoriamente prevedere, ai fini della remunerazione degli
incentivi, la realizzazione dell'opera pubblica, risultando dirimente la
precisazione del legislatore secondo cui l'incentivo inerente l'atto di
pianificazione è ripartito fra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice, termine quest'ultimo che evoca il legame fra l'atto stesso e
la successiva aggiudicazione dei lavori finalizzati alla realizzazione
dell'opera pubblica (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
05.09.2019).
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SENTENZA
Osserva il Collegio che in via preliminare occorre esaminare l’efficacia
della sentenza di assoluzione penale nel processo contabile, atteso che le
parti convenute invocano l’assoluzione disposta dal Tribunale di Firenze in
data 28.02.2018 ( n. 704/2018).
Le contestazioni delle condotte in sede penale attenevano la violazione del
reato di cui agli artt. 110 e 314 c.p. in quanto “la maggiorazione
dell’onorario professionale in caso di progettazione interna non avrebbe
potuto essere superiore al 50%; in questo modo entrambi (il Co.e la Tr.), in concorso tra loro, si appropriavano dei fondi stanziati dal
Comune in relazione della costituzione del fondo, avendo in particolare il
Co. percepito complessivamente la somma di € 18.018,00 in luogo di
quanto gli sarebbe effettivamente spettato, tenuto conto del limite sopra
ricordato, e cioè € 11.681,71; la Tr. percepito la somma di €
19.110,00 in luogo di quanto le sarebbe spettato, tenuto conto del limite
sopra ricordato e cioè € 12.389,69”.
Da tali condotte ai due imputati, nelle rispettive qualità, veniva imputato
di essersi appropriati di fondi stanziati dal Comune per la redazione del
regolamento urbanistico di Impruneta in misura superiore a quello spettante,
avendo la Te. redatto la notula di liquidazione di € 54.600,00 in
luogo di quella dovuta pari a € 35.399,10, applicando una maggiorazione
dell’onorario professionale del 70% invece del 50%.
Il giudice penale osservava che “alla luce delle emergenze probatorie
assunte nel corso del dibattimento” (simulazione di calcolo sulla scorta di
un programma software esistente presso l’Ordine degli Architetti dalla
Guardia di Finanza con l’ausilio dell’arch. Bi. referente della
Commissione notule dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e
Conservatori della Provincia di Firenze), escussione di alcuni testi
unitamente al consulente tecnico di parte degli imputati) “non può reputarsi
che la notula della Tr. abbia determinato l’appropriazione di una
maggiore somma a vantaggio dei due imputati…. si impone, dunque, sentenza di
assoluzione nei confronti di entrambi gli imputati perché il fatto non
sussiste”.
Osserva il Collegio che, vista l’autonomia dei giudizi penale e contabile,
non può assegnarsi alcuna efficacia esimente alla sentenza penale di
assoluzione dal reato di peculato pronunciato dal magistrato penale di primo
grado a favore degli odierni convenuti, atteso che oltre a non trovare
applicazione l’art. 652 c.p.p., non essendo stata data prova
dell’irrevocabilità della sentenza, “la non ravvisabilità del delitto di cui
all’art. 314 c.p. non esclude ex se la censurabilità sul piano
amministrativo-contabile della condotta….. stante l’autonomia e separatezza dei giudizi e dei beni rispettivamente proposti dai diversi
livelli ordinamentali”: in termini Sez. II Centr. 24.10.2018.
Entrando nel merito la domanda attorea va accolta parzialmente nei sensi di
cui in motivazione.
Nella specie si verte delle disposizioni applicabili all’epoca (2012) ed in
specie della legge n. 143 del 1949 – Tariffa Professionale per gli
Architetti e Ingegneri nella circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n.
6679 del 1969.
Ai sensi dell’art. 5 della menzionata Circolare la maggiorazione
dell’onorario non poteva essere superiore al 50%, mentre il calcolo delle
spese, vertendo in spese espressamente indicate non poteva essere aggregato
in modo forfettario.
Nella specie l’arch. Pa.Tr. ha formulato una proposta di incentivo,
avvallata dall’arch. Co., determinando la notula professionale con una
maggiorazione del 70% - in luogo del 50% e calcolando le spese in misura del
36,20%.
L’eccesso dei coefficienti maggiorativi ha determinato una maggiore spesa
per l’ente, in quanto si fonda su voci “eventuali” e non dimostrate.
I convenuti deducevano che occorreva considerare nella specie la mancata
indicazione separata della quota di compenso a vacazione, la mancata
indicazione della quota di compenso a discrezione, la sottostima della
percentuale di adeguamento ISTAT e l’ulteriore sottostima per essere stati
utilizzati criteri applicabili solo ai piani della previgente L.R. 5/1995 e
non a quelli della L.R. n. 1/2005.
Operando correttamente i calcoli e applicando tutti i criteri della citata
circolare, osservavano i convenuti, i compensi quantificabili ai sensi della
richiamata circolare era superiore sia a quanto indicato nell’atto di
citazione sia a quanto determinato dai convenuti, siccome si evinceva dalla
perizia tecnica depositata nel giudizio penale (all. 8): la sommatoria della
quota di compenso a quantità (€ 138.050,40), della quota di compenso a
vacazione per l’esame delle osservazioni e la partecipazione a commissioni
pubbliche (con misura di compenso orario) pari ad € 52.268,00, e della quota
di compenso a discrezione (eventuali rifacimenti dopo gli esami delle
Autorità) e corrispondente ad un 10% di quello richiesto dal Piano nella sua
interezza (€ 138.050,40 + € 52.268,00) x 10/100 per un importo pari a €
19.031,84, determinava un totale complessivo pari a € 209.350,24 (a mente
della L.R. 5/1995), mentre ove si fosse dovuto tener conto della L.R. 1/2005
si sarebbe addivenuti ad un compenso di € 230.825,26.
Concludevano, i convenuti che, anche considerando il minor importo di €
209.350,24 si sarebbe dovuto computare una somma, pari al 30% del compenso,
di € 62.805,07 o, tenuto conto dell’applicazione del criterio, ritenuto
congruo dal giudice penale, di € 69.085,57 importi inferiori all’incentivo
calcolato (dalla Tr.) e poi liquidato (da Co.) pari a €
54.600,00.
Con riferimento alla quantificazione del danno secondo i convenuti occorreva
considerare, ove anche si ritenesse il compenso base pari a quello indicato
dalla Procura contabile, che le prestazioni non remunerate con la voce
relativa al cd. onorario base (valutazione delle osservazioni,
partecipazioni alle assemblee e commissioni, rielaborazione del piano) è
pari a € 21.398,95 (rappresentato dal 30% del valore delle medesime - €
52.268,00+ € 19.031,84 = € 71.389,95) dovevano essere detratte
dall’ipotetico danno erariale con elisione dello stesso.
Le osservazioni delle parti convenute non escludono la colpa grave, ritenuto
il chiaro dettato normativo di cui agli artt. 5, 11 e 12 della richiamata
circolare che gli architetti hanno adottato come parametro congruo per il
costo della prestazione, non elidono gli elementi della responsabilità
amministrativa per erronea applicazione della normativa tariffaria
determinativa di un danno alle pubbliche finanze.
In particolare l’art. 5 della Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici 01.12.1969 n. 6679 (tariffa degli onorari per le prestazioni urbanistiche
degli ingegneri ed architetti prevede che “le integrazioni all’onorario
vanno applicate tenendo conto delle elaborazioni specifiche effettivamente
svolte dal professionista in relazione ai temi suddetti secondo l’entità
delle caratteristiche cui si riferiscono: esse sono cumulabili fino ad una
integrazione massima complessiva del 50% con chiara preclusione di importi
superiori”.
D’altro canto, il Consiglio Nazionale degli Architetti con una circolare di
chiarimento (circolare n. 34/2012) ha affermato che nel calcolo dell’importo
si possono utilizzare le ex tariffe per i lavori privati (legge 143/1949) o
per i lavori pubblici (D.M. 04/04/2001 oppure nuovi parametri, liberamente
scelti, purché connotati dal requisito della trasparenza con il cliente.
Sussiste, pertanto, oltre alla condotta antigiuridica, il nesso di causalità
ed il danno erariale, perlomeno la colpa grave (se non il dolo eventuale)
vista la chiara indicazione del dettato normativo.
Nonostante il parametro utilizzato non sia stato correttamente applicato
nella specie, la condanna va quantificata e rimodulata nella misura di €
5.000,00 per ognuno dei convenuti, vista la riduzione derivante dalle
attività svolte (per natura, quantità, qualità e durata, cfr. Cass.
6888/1983) e non contabilizzate. La somma è comprensiva di rivalutazione e
ad essa vanno aggiunti gli interessi legali dal deposito della sentenza al
soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate nella misura di cui in
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dei conti - Sezione Giurisdizionale della Regione Toscana -
definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dal Procuratore
Regionale nei confronti dei signori Pa.Tr. e Le.Co., respinta ogni contraria
istanza ed eccezione, condanna entrambi i convenuti alla
somma di € 5.000,00 per ognuno, comprensivi di rivalutazione monetaria,
oltre interessi legali dal deposito della sentenza al soddisfo. |
INCARICHI PROFESSIONALI -
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Danno erariale al segretario comunale che autorizza l'incarico professionale
esterno a un dipendente dell'Ente.
I dipendenti della Pa a tempo parziale -che svolgono un orario lavorativo
non superiore alle 18 ore settimanali- possono essere autorizzati dall'ente
di appartenenza anche a svolgere altra attività lavorativa, inclusa quella
professionale a partita Iva. Tuttavia, l'amministrazione non può conferire
un incarico professionale esterno al medesimo dipendente.
Queste sono in
sintesi le conclusioni della Corte dei conti - Sez. giurisdiz. Puglia (sentenza
31.07.2019 n.
501) che ha condannato per danno erariale in solido il responsabile del
servizio finanziario e il segretario comunale che ha autorizzato l'incarico
esterno di resistenza nei giudizi tributari al medesimo responsabile del
servizio finanziario e dei tributi.
La vicenda
Il commissario straordinario di un Comune di modeste dimensioni aveva
attivato le procedure di recupero delle somme indebitamente corrisposte al
responsabile finanziario e dei tributi per l'incarico professionale di
resistenza in giudizio davanti alle commissioni tributarie.
In
considerazione del mancato versamento degli importi, la Procura della Corte
dei conti ha chiamato a rispondere di danno erariale sia il segretario
comunale, per aver espresso parere favorevole all'incarico professionale al
dipendente, sia il responsabile finanziario e dei tributi che, pur a
conoscenza della normativa, ha formalizzato e ricevuto le parcelle
professionali.
Nel caso di specie, la Procura ha contestato un reale
conflitto tra le due posizioni assunte dal medesimo soggetto, in quanto
l'attività di recupero tributario, non può che rientrare nelle funzioni
istituzionali dell'ente e del responsabile del settore preposto e, qualora esternalizzato, non può essere affidato allo stesso soggetto che svolge,
all'interno, le funzioni di responsabile del servizio.
La difesa dei convenuti
Nelle memorie di costituzione in giudizio è stato rilevato come il
responsabile finanziario fosse un dipendente in part-time, con orario non
superiore alla metà del tempo pieno, autorizzato dall'ente a svolgere
attività professionale esterna.
La disposizione legislativa -articolo 11,
comma 3, Dlgs 546/1992– prevede espressamente che «L'ente locale nei cui
confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il
dirigente dell'ufficio tributi …», mentre l'articolo 15, comma 2-bis,
dispone che «Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore,
dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui
all'articolo 53 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, se
assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la
liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del
venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto».
La decisione del collegio contabile
I giudici contabili pugliesi oltre a ritenere fondate le conclusioni cui è
giunto il Pm contabile, di un reale conflitto tra le due posizioni assunte
dal responsabile finanziario -da un lato resistente in giudizio in quanto
dirigente dell'ufficio tributi e dall'altro lato in qualità di libero
professionista- hanno anche accertato l'inconsistenza del pagamento
previsto dalla normativa.
L'Aran ha, infatti, da sempre chiarito che, per l'attività di difesa avanti
alle Commissioni tributarie, ai funzionari può essere riconosciuta
un'integrazione dell'indennità di risultato oppure una diversa forma di
incentivazione, a condizione che sussista al riguardo uno specifico
intervento di regolazione nell'ambito della contrattazione integrativa.
Nel caso di specie, ha precisato il collegio contabile, non c'è stato alcun
iter contrattuale per forme integrative di incentivi al personale, bensì
l'affidamento al dirigente responsabile del settore finanziario di due
incarichi esterni di rappresentanza del Comune davanti alle commissioni
tributarie, in palese violazione di legge.
Inoltre, stante la consapevolezza dei convenuti di tenere un comportamento
vietato dalla legge, si rientra nell'ipotesi di dolo con conseguente
responsabilità solidale dei convenuti al pagamento delle somme indebitamente
corrisposta al responsabile finanziario
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.08.2019).
---------------
MASSIMA
Il thema decidendum del presente giudizio riguarda l’accertamento
della responsabilità dei convenuti –in qualità di dipendenti del Comune di
Roseto Valfortore- per il danno patrimoniale, asseritamente arrecato
all’ente, in conseguenza dell’indebito affidamento di incarico professionale
al responsabile del settore finanziario dott. MI., in difetto dei
presupposti di legge.
...
2. Nel merito, la domanda è fondata.
Occorre premettere che l’obbligo della pubblica
amministrazione di provvedere ai compiti istituzionali con la propria
organizzazione e con il proprio personale, costituisce regola fondamentale
dell’ordinamento, codificata da specifiche disposizioni di legge.
In particolare, l’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, recependo
quanto già previsto dal d.lgs. n. 29 del 1993, ha rafforzato il principio di
onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti delle pubbliche
amministrazioni, stabilendo che il trattamento economico contrattualmente
determinato remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti, nonché
qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o,
comunque, conferito dall’Amministrazione presso cui prestano servizio o su
designazione della stessa.
Pertanto, risulta in primo luogo violato il principio di onnicomprensività
della retribuzione, svolgendo il Mi. l’incarico di dirigente a tempo
determinato ex art. 110, comma 2, del d.lgs n. 267 de 2000.
Egli, seppure in regime di part-time, svolgeva le funzioni di
responsabile del settore finanziario e, come tale, era responsabile anche
della gestione dei tributi, ivi compresa, appunto, tutta l'attività relativa
al loro recupero.
Invero, in quanto titolare di posizione organizzativa, al Mi. era già
attribuita l'indennità di posizione, l'indennità di risultato e la specifica
indennità ad personam prevista dall'art. 110, comma 3, del d.lgs. n.
267 del 2000, oltre ad un rimborso spese di viaggio per raggiungere la sede
di servizio (deliberazione della Giunta comunale n. 116 del 13.11.2002).
In merito alle attività attribuite alla responsabilità dell’odierno
convenuto, inoltre, il decreto del Sindaco del Comune di Roseto Valfortore,
n. 5912 del 13.11.2002 dispone espressamente che il dott. Mi. dal 01.01.2003
veniva chiamato o svolgere le funzioni di responsabile del Settore
economico–finanziario, “comprendente tutti servizi economico e finanziari
esemplificativamente riferiti a: ….tributi ed entrate patrimoniali (gestione
di tutte le fasi compreso controllo riscossioni in concessione)”.
Di conseguenza, la rappresentanza dell’ente avanti alle Commissioni
tributarie rientrava appieno tra i compiti istituzionali affidati al Mi.,
con ciò smentendo tutte le eccezioni opposte dai convenuti circa la
legittimità dell’affidamento dell’incarico professionale. Né vi è prova che
l’Amministrazione non fosse in grado di provvedervi per l’eccessivo carico
di lavoro, meramente enunciato dal Mi..
Al riguardo, l'art. 11, comma 3, del D.Lgs 546/1992, come modificato
dall'art. 3-bis del D.L. 31.03.2005, n. 44 prevede espressamente che "L'ente
locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche
mediante il dirigente dell'ufficio tributi, ovvero, per gli enti locali
privi di figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione
organizzativa in cui è collocato detto ufficio".
Il Procuratore regionale, pertanto, ha correttamente contestato agli odierni
convenuti un reale conflitto tra le due posizioni assunte dal medesimo
soggetto (art. 6, comma 2, d.p.c.m. 117/1989). In particolare, l’attore
pubblico ha osservato che l’attività di recupero dell'ICI, non può che
rientrare nelle funzioni istituzionali dell'ente e del responsabile del
settore preposto e, qualora esternalizzato, non può essere affidato allo
stesso soggetto che svolge, all'interno, le funzioni di responsabile del
servizio.
Il Collegio non può che condividere tale assunto.
Per l’attività in questione, al dirigente non spettava alcun compenso.
Priva di pregio appare, al riguardo l’eccezione opposta da parte convenuta
secondo cui il compenso sarebbe comunque spettato al Mi. ex art. 15, comma
2-bis (ora comma 2-sexies) del d.lgs n. 546 del 1992 che dispone “Nella
liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della
riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del
decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari,
si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli
avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi
previsto”.
Non vi è dubbio, infatti, che la liquidazione delle spese di difesa avviene
nei confronti dell’Amministrazione, risultata vittoriosa nel giudizio
tributario, e non già nei confronti del soggetto che la rappresenta. Sulla
questione, l'ARAN (RAL 1660) ha chiarito che, per l’attività di difesa
avanti alle Commissioni tributarie, ai funzionari può essere riconosciuta
un’integrazione dell'indennità di risultato oppure una diversa forma di
incentivazione, a condizione che sussista al riguardo uno specifico
intervento di regolazione nell’ambito della contrattazione integrativa.
Nel caso di specie, non vi è stata alcun iter contrattuale per forme
integrative di incentivi al personale, bensì vi è stato l’affidamento al
dirigente responsabile del settore finanziario di due incarichi esterni di
rappresentanza del Comune avanti alle Commissioni tributarie, in palese
violazione di legge.
Sicché il compenso che è stato erogato al Mi., nella veste
di professionista esterno, rappresenta certamente un’indebita spesa
sostenuta dal Comune.
Il danno risarcibile ammonta a complessivi euro 163.991,74.
Responsabili in solido di tale indebita spesa risultano entrambi i convenuti
a titolo di dolo. Al riguardo, occorre chiarire che, nel
processo contabile, per dolo deve intendersi la consapevolezza dell’agente
di tenere un comportamento vietato dalla legge.
Il Mi. è responsabile per aver scientemente lucrato il compenso per la
difesa del Comune, pur nella piena consapevolezza di aver assunto l’obbligo
di svolgere tale attività in veste di dirigente responsabile del settore
finanziario.
La dott.ssa Ce., in qualità di Segretario generale
dell’ente, per il ruolo rivestito di garante della legittimità dell’azione
amministrativa del Comune, che nulla ha obiettato a tutela della corretta e
proficua gestione del denaro pubblico, esprimendo per di più parere
favorevole per l’affidamento dell’incarico in questione e provvedendo ad
impegnare e liquidare il compenso de quo.
L’indebita spesa, pari a complessivi euro 163.991,74, erogata dal Comune di
Roseto Valfortore è la conseguenza unica e diretta delle
condotte tenute dai convenuti, nella piena consapevolezza del totale
dispregio degli interessi dell’Amministrazione.
Ai soli fini della ripartizione interna delle quote di danno, per cui
ciascuno potrà eventualmente rivalersi nei confronti dell’altro responsabile
in solido, per il ruolo preponderante rivestito nella vicenda dal dott. Mi.,
a lui compete la maggior quota di danno pari al 70 per cento del danno
risarcibile, mentre il restante 30 va attribuito alla responsabilità della
dott.ssa Ce..
Trattandosi di responsabilità per dolo deve essere escluso
il ricorso al potere riduttivo dell’addebito.
Sull’importo di euro 163.991,74 per cui è condanna va computata la
rivalutazione monetaria dalla data dei pagamenti e fino alla pubblicazione
della presente sentenza. Per tutte le ragioni espresse, la domanda è
accolta.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia,
definitivamente pronunciando, accoglie la domanda attrice e, per l’effetto,
CONDANNA
I signori Ma.MI. e Ma.Ce.An.CE. al pagamento in solido della complessiva
somma di euro 163.991,74 (centossessantatremilanovecentonovantuno/74), oltre
rivalutazione monetaria, in favore del Comune di Roseto Valfortore.
Sulle somme rivalutate spettano all’Amministrazione gli interessi al tasso
legale decorrenti dalla data di deposito della sentenza e fino al totale
soddisfo. |
APPALTI SERVIZI - ENTI LOCALI: Nella
determinazione del costo relativo all’espletamento del servizio di trasporto
scolastico lo stesso deve essere integralmente coperto dall’utenza (art. 5,
comma 2, Dlgs n. 63/2017).
Tuttavia, nell’obbligatorio rispetto dell’economicità del servizio,
presupposto essenziale per consentire l’effettività e la continuità della
sua erogazione, tra le risorse volte ad assicurare l’integrale copertura dei
costi possono essere ricomprese le contribuzioni regionali e quelle
autonomamente destinate dall’ente nella propria autonomia finanziaria purché
reperite nel rispetto della clausola d’invarianza finanziaria espressa nel
divieto dei nuovi e maggiori oneri.
---------------
Con la citata nota il Sindaco del Comune di San Pietro in Lama (LE) ha
formulato una richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della l.
05.06.2003, n. 131 diretto a conoscere se, nella determinazione del costo
afferente all’espletamento del servizio di trasporto scolastico, il Comune
sia tenuto a stabilire la misura percentuale di partecipazione finanziaria
dell’Ente locale e quantificare la residua parte di costi da finanziare
mediante tariffe a carico dell’utenza o se il costo del servizio debba
essere integralmente coperto dall’utenza, anche nel rispetto del principio
di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 63/2017.
...
2. Nel merito, il Collegio osserva che, come recentemente affermato dalla
Sezione regionale di controllo per il Piemonte (cfr.
parere 06.06.2019 n. 46) la giurisprudenza contabile, allo stato,
ritiene che il servizio di trasporto scolastico sia a tutti gli effetti un
servizio pubblico di trasporto, e, come tale, escluso dalla disciplina
normativa dei servizi pubblici a domanda individuale, che individua un
sistema di predeterminazione della misura percentuale della quota dei costi
complessivi di tutti i servizi pubblici a domanda individuale che viene
finanziata da tariffe o contribuzioni ed entrate specificamente destinate
(v., Sezione controllo Campania,
parere 21.06.2017 n. 222; id., Sezione controllo Sicilia,
parere 10.10.2018 n. 178).
Come noto, i servizi a domanda individuale trovano classificazione nel
dm 31.12.1983, emanato in attuazione del
dl 28.02.1983 n. 55, come convertito dalla legge 26.04.1983 n. 131:
nell’elencazione riportato nel decreto citato non è ricompreso il servizio
di trasporto scolastico. La Corte dei conti in più occasioni –tra le quali
le citate deliberazioni- ha evidenziato come né il dl 55/1983, convertito
dalla richiamata legge n. 131/1983, né il decreto 31.12.1983 del Ministero
dell'Interno ricomprendano tra i servizi pubblici locali a domanda
individuale quello di trasporto scolastico.
Tanto premesso, il Collegio ritiene di condividere le argomentazioni
formulate dalla Sezione piemontese citata che ha affermato il principio
secondo cui «…il trasporto scolastico è un servizio pubblico, ma non
potendo essere classificato tra quelli a domanda individuale, non possono
allo stesso reputarsi applicabili i conseguenti vincoli normativi e
finanziari che caratterizzano i servizi pubblici a domanda individuale,
espressamente individuati dal menzionato D.M. n. 131/1983.
La natura di servizio pubblico, in quanto oggettivamente rivolto a
soddisfare esigenze della collettività, comporta, pertanto, che per il
trasporto scolastico siano definite dall’Ente adeguate tariffe a copertura
dei costi, secondo quanto stabilito dall'articolo
117 del Tuel.
In effetti, per tutti i servizi pubblici, anche non definibili “a domanda
individuale”, come nella specie, l’art.
117 TUEL stabilisce che:
1. Gli enti interessati approvano le tariffe dei servizi pubblici in misura
tale da assicurare l'equilibrio economico-finanziario dell'investimento e
della connessa gestione. I criteri per il calcolo della tariffa relativa ai
servizi stessi sono i seguenti:
a) la corrispondenza tra costi e ricavi in modo da assicurare la
integrale copertura dei costi, ivi compresi gli oneri di ammortamento
tecnico-finanziario;
b) l'equilibrato rapporto tra i finanziamenti raccolti ed il
capitale investito;
c) l'entità dei costi di gestione delle opere, tenendo conto anche
degli investimenti e della qualità del servizio;
d) l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito,
coerente con le prevalenti condizioni di mercato.
2. La tariffa costituisce il corrispettivo dei servizi pubblici; essa è
determinata e adeguata ogni anno dai soggetti proprietari, attraverso
contratti di programma di durata poliennale, nel rispetto del disciplinare e
dello statuto conseguenti ai modelli organizzativi prescelti.
3. Qualora i servizi siano gestiti da soggetti diversi dall'ente pubblico
per effetto di particolari convenzioni e concessioni dell'ente o per effetto
del modello organizzativo di società mista, la tariffa è riscossa dal
soggetto che gestisce i servizi pubblici».
Pertanto, fermo restando che l’erogazione del servizio pubblico debba
avvenire in equilibrio ai sensi
dell’art.
117 TUEL –circostanza
che ovviamente presuppone una efficace rappresentazione dei costi ed una
copertura nel rispetto dei criteri generali di cui alla norma del Testo
unico degli enti locali- l’erogazione dello stesso non solo non può essere
gratuita per gli utenti ma la sua copertura deve avvenire mediante i
corrispettivi versati dai richiedenti il servizio (cfr. SRC Sicilia
parere 25.02.2015 n. 115,
SRC Molise
parere 14.09.2011 n. 80,
SRC Campania
parere 25.02.2010 n. 7),
di modo che le quote di partecipazione finanziaria, correlate al servizio e
poste a carico dell’utenza dovranno completamente concorrere alla copertura
integrale della spesa del medesimo.
Detto orientamento trova assoluto ed inequivoco riscontro nella stessa
giurisprudenza amministrativa, ad avviso della quale, in occasione
dell’erogazione di un servizio pubblico, gli Enti “…saranno tenuti, in sede
di copertura, alla stretta osservanza delle disposizioni dell’art. 117 TUEL,
in particolare, del principio dell’equilibrio ex ante tra costi e risorse a
copertura, principio che riguarda indistintamente tutti i servizi pubblici
erogati dall’ente locale, a prescindere dalla forma contrattuale di
affidamento del servizio (v., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.05.2012 n. 2537).
Simile interpretazione riceve pieno ed incontrovertibile conforto da
ulteriori recenti arresti giurisprudenziali contabili (v. Sezione regionale
di controllo della Sicilia,
parere 10.10.2018 n. 178), che, analizzando la natura del
servizio di trasporto degli alunni organizzato dai Comuni nell'ambito del
diritto allo studio, hanno reso un’interpretazione conforme all’indirizzo
sopra enunciato alla luce della nuova connotazione conferita dall'articolo
5, comma 2, del Dlgs 63/2017.
A mente del citato disposto dell’art.
5, comma 2, del decreto legislativo 63/2017, infatti, gli enti
locali “assicurano il trasporto delle alunne e degli alunni delle scuole
primarie statali per consentire loro il raggiungimento della più vicina sede
di erogazione del servizio scolastico. Il servizio è assicurato su istanza
di parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza
nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati”.
Il D.lgs. 63/2017, secondo l’indirizzo giurisprudenziale richiamato, non
solo non ha inciso nell’ambito delineato in via generale dalle menzionate
disposizioni del TUEL, bensì ha introdotto una disciplina specifica, che si
innesta nell'ampio perimetro disciplinato dall'articolo 112 del Tuel, il
quale attribuisce agli enti la gestione dei servizi pubblici che abbiano per
oggetto la produzione di beni e delle attività rivolte a realizzare fini
sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.
Ma soprattutto il richiamato
articolo 5 del D.lgs. 63/2017
prevede una espressa clausola di
invarianza finanziaria, richiedendo che il servizio di trasporto vada
realizzato “senza determinare nuovi e maggiori oneri per gli enti
territoriali” e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta da
parte dell’utenza quale corrispettivo della prestazione ricevuta.
Deve, quindi, concludersi nel senso che, ferme restando le scelte gestionali
e l'individuazione dei criteri di finanziamento demandate alla competenza
dell'ente locale, il quadro normativo sopra delineato non consenta
l'erogazione gratuita del servizio di trasporto pubblico scolastico,
servizio che deve avere a fondamento una adeguata copertura finanziaria
necessariamente riconducibile nei limiti fissati dai parametri normativi del
Tuel, alla luce della espressa previsione normativa della corresponsione
della quota di partecipazione diretta da parte degli utenti, quota la quale,
nel rispetto del rapporto di corrispondenza tra costi e ricavi, non può non
essere finalizzata ad assicurare l’integrale copertura dei costi del servizio».
Appare necessario precisare, ad ulteriore chiarimento, che nell’obbligatorio
rispetto dell’economicità del servizio, presupposto essenziale per
consentire l’effettività e la continuità della sua erogazione, tra le
risorse volte ad assicurare l’integrale copertura dei costi possono essere
ricomprese le contribuzioni regionali e quelle autonomamente destinate
dall’ente nella propria autonomia finanziaria purché reperite nel rispetto
della clausola d’invarianza finanziaria espressa nel divieto dei nuovi e
maggiori oneri (v. C.d.c., Sezione controllo Campania,
parere 06.05.2019 n. 102), con corrispondente minor aggravio a
carico all’utenza
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 25.07.2019 n. 76). |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno
da disservizio per il dipendente che si allontana senza timbrare.
Pochi minuti di allontanamento dal posto di lavoro, senza autorizzazione,
non sempre comportano il licenziamento ma possono rientrare in una sanzione
disciplinare conservativa, disciplinata dal contratto di lavoro degli enti
locali in caso di violazione dei doveri di servizio. Il danno erariale,
invece, corrisponde sicuramente ai minuti di allontanamento non registrati
cui si aggiunge anche il danno da disservizio, corrispondente alle risorse
inutilmente spese per l'attivazione e la conclusione della procedura
disciplinare, mentre non si configura danno all'immagine previsto dalla
disposizione di legge.
Queste sono le conclusioni cui è giunta la Corte dei Conti, Sez.
giurisdiz. per la Basilicata,
sentenza 08.05.2019 n. 18).
Il caso
La vicenda è quella del dipendente di un ente locale, con funzioni di
autista, che nei periodi nei quali non era impiegato nelle sue funzioni, si
rifiutava di svolgere attività di ufficio dimostrando incapacità di
attendere ai suoi compiti di servizio. Convocato dal responsabile per
chiarire questa continua situazione di inoperatività lavorativa, era
risultato assente dalla sede.
A seguito della ricostruzione delle sue
assenze dal servizio, nei periodi di non impiego come autista, l'ente aveva
attivato una procedura disciplinare dalla quale emergeva che molte delle ore
venivano passate presso il collega al centralino, mentre l'allontanamento
dal servizio, senza autorizzazione, pur ammesso dall'interessato, si
riducevano a soli 23 minuti di omessa timbratura.
L'Ufficio dei procedimento disciplinari non ha, tuttavia, giudicato
sufficienti i minuti di allontanamento dall'ufficio, per irrogare la
sanzione disciplinare espulsiva -sanzione tesa a reprimere la
falsificazione dei dati di presenza in servizio- ritenendo invece congrua
quella conservativa prevista dall'articolo 3, comma 6, lettera d)
(persistente insufficiente rendimento), lettera g) (comportamento di elusione dei sistemi di rilevamento elettronico della presenza) e lettera i)
(comportamenti che cagionino danno grave all'ente) del contratto
Regioni-Enti Locali del 11.04.2008, quale frutto di noncuranza e
trascuratezza dei doveri di ufficio.
A seguito di segnalazione, da parte
dell'Ufficio dei procedimenti disciplinari, alla Procura della Corte dei
conti, in presenza di avvio della procedura disciplinare del licenziamento
con sospensione immediata del dipendente -poi terminata con la sanzione
conservativa della sospensione dal servizio di quattro mesi- il dipendente
è stato rinviato a giudizio per responsabilità erariale.
Il Pm ha quantificato il danno erariale in tre separate poste. La prima
corrispondente alla mancata presenza in servizio, per violazione del sistema
di rilevazione delle presenze, pari al pagamento delle prestazioni non rese.
La seconda posta di danno, qualificata da disservizio, è stata considerata
pari al alla spesa sostenuta per l'impiego dei soggetti coinvolti nel
procedimento disciplinare distolti dai loro compiti di istituto. L'ultima
posta di danno erariale, quantificabile ex lege, qualificabile come danno
all'immagine, è stata quantificata pari a sei mensilità così come previsto
dall'articolo 55-quater del Dlgs 165/2001. Il dipendente ha confutato la
tesi del Pm evidenziando che l'allontanamento per pochi minuti era dovuto a
una dimenticanza.
Le indicazioni del collegio contabile
Il collegio contabile ha osservato che, dalla documentazione i del
procedimento disciplinare, è emerso che lo stesso dipendente abbia ammesso
di aver sbagliato per non avere timbrato l'uscita, ritenendo per questo
motivo configurabile la piena responsabilità del dipendente anche se per
soli 23 minuti, sia pure di natura non fraudolenta, che ha cagionato un
nocumento di lieve entità e tuttavia suscettibile di essere commisurato in
termini risarcitori per una somma pari a 9,50 euro.
Anche l'altra posta di danno erariale da disservizio è applicabile, in
considerazione del procedimento disciplinare che ha impiegato dipendenti
pubblici distogliendoli dai loro compiti istituzionali per causa dei
comportamenti negligenti del dipendente. Mentre l'ultima posta di danno,
qualificata dalla Procura come danno all'immagine, direttamente previsto
dalla normativa, nel caso di specie non risulta applicabile in quanto la
condotta del dipendente non è stata considerata dalla stessa amministrazione
come effettuata in modo fraudolento ma per trascuratezza nell'assolvimento
dei doveri di ufficio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Niente
responsabilità erariale al sindaco per l’assunzione a contratto di un
funzionario.
Spetta al sindaco l'assunzione del funzionario apicale a contratto, mentre
spetta alla dirigenza l'istruttoria e la verifica delle condizioni di
conformità alla normativa. La mancanza dell'impegno contabile non rileva ai
fini della responsabilità del sindaco, trattandosi di un atto monocratico
(decreto) e non collegiale (giunta), come non rileva la successiva mancata
stipula del contratto rimesso dalla normativa alla sola competenza
dirigenziale.
Sono questi i principi enunciati dalla Corte dei conti del Molise (sentenza
08.04.2019
n. 10) che ha sollevato dalla responsabilità contabile il
sindaco per l'avvenuto conferimento dell'incarico apicale.
La vicenda
Su specifica segnalazione della Sezione di controllo della Corte dei conti,
la Procura ha rinviato a giudizio per danno erariale il sindaco di un
Comune, tra l'altro, per illegittimo e illecito conferimento di un incarico
a contratto effettuato in base all'articolo 110, comma 1, del Tuel.
Tra le
contestazioni avanzate dalla Procura, la presunta illegittimità dell'atto di
conferimento dell'incarico –e conseguente illiceità dell'esborso–
dipendeva da una presunta incompetenza del sindaco nell'adottare, con
iniziativa esclusiva, un provvedimento di amministrazione attiva o di
gestione, di competenza degli uffici amministrativi, privo di adeguata
istruttoria e dei prescritti pareri tecnici e visti favorevoli.
La diversa posizione del collegio contabile
Il Collegio contabile molisano ha confutato la tesi della Procura in merito
all'asserita illegittimità e illiceità del conferimento dell'incarico a
contratto da parte del sindaco. In via preliminare, rientra nell'esclusivo
potere del sindaco (articolo 50, comma 10, del Dlgs 267/2000) l'emissione
del decreto di nomina del responsabile dei servizi avvenuta a seguito di
apposita selezione, in base all'articolo 110, comma 1, del Tuel e poi
successivamente prorogata.
Si tratta, in altri termini, dell'ipotesi che riguarda la tipologia della
copertura dei posti previsti «in dotazione» organica di responsabili dei
servizi o degli uffici, cosiddetti responsabili di posizione organizzativa o
unità operative (come pure di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione). Quindi, l'iniziativa e l'esercizio del potere di nomina
spetta al sindaco, mentre rientra nelle prerogative e competenze proprie del
dirigente o del responsabile amministrativo, diverso dall'organo di governo,
sulla base del tradizionale riparto o distinzione tra organi e funzioni di
indirizzo politico o di gestione, curare l'istruttoria, valutare la
fattibilità del provvedimento e riferire eventuali problematiche in ordine
alle scelte da effettuare.
Per queste ragioni, secondo il collegio contabile, non può certo ricadere
alcuna responsabilità amministrativa sul sindaco per fatto colpevole
omissivo di terzi. Pertanto, in primo luogo, non vi è alcuna responsabilità
del primo cittadino per la mancata apposizione del visto contabile sul
decreto di nomina, poiché nessun parere avrebbe dovuto essere
preventivamente rilasciato, non trattandosi di deliberazione di un organo
collegiale ma di un decreto sindacale.
Inoltre, va rilevato in ogni caso che la mancanza del visto contabile e
finanziario da parte del responsabile del servizio, si risolve nella mera
attestazione della copertura finanziaria del provvedimento su cui viene
apposto, ovvero sulla verifica dell'effettiva disponibilità delle risorse
impegnate. Infatti, il parere contabile non investendo la preventiva
valutazione di legittimità della presupposta decisione sindacale, una sua
eventuale omessa apposizione -sempre che obbligatoria- non sarebbe
comunque suscettibile di costituire, quanto meno ai fini dell'accertamento
della responsabilità amministrativa, un fatto eziologicamente addebitabile
al sindaco per fatto omissivo.
Né a miglior sorte può condurre a responsabilità sindacale la mancata
successiva stipula del contratto, in quanto sia la stipula del contratto,
sia l'adozione di ogni altro atto conseguenziale o esecutivo di detto
decreto rientra nella competenza propria dei dirigenti o dei responsabili
dei servizi (articolo 107, comma 3, del Tuel)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Danno all'immagine della PA, la sanzione al dipendente
assenteista dev'essere proporzionata.
Per contrastare i furbetti del cartellino, la specifica (e rilevante)
normativa sanzionatoria prevede la quantificazione del danno all'immagine
accanto agli aspetti disciplinari della procedura che accelera il
licenziamento. La mancanza di proporzionalità del danno all'immagine è
questione sulla quale la magistratura contabile ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 17.10.2018).
La Corte dei conti siciliana, invece, nella
sentenza
27.03.2019
n. 213 ha preferito azzerare il danno all'immagine di un
dipendente per le poche ore di violazione della propria presenza in ufficio,
non essendo stata fornita puntuale dimostrazione del clamore mediatico
necessario per la quantificazione equitativa del danno subito dall'ente.
La vicenda
Essendo stata accertata l'assenza ingiustificata, perché non autorizzata, di
un dipendente comunale, il dirigente avviava la procedura del licenziamento
senza preavviso con invio della documentazione alla competente procura della
Corte dei conti. Il Pm contabile quantificava in 81,54 euro il danno
erariale, corrispondente alle ore indebitamente fruite dal dipendente, e in
circa 10mila euro il danno all'immagine, pari a sei mensilità dello
stipendio del dipendente.
Nelle proprie memorie difensive, non accolte dal Pm, il dipendente ha evidenziato la sproporzione tra il danno delle ore
addebitate e la quantificazione automatica del danno all'immagine,
confutando la mancata dimostrazione del pregiudizio subito dall'ente, anche
in termini di notizie mediatiche del tutto assenti nel caso di specie.
La posizione del Corte
La contestazione riguarda la nuova disposizione dell'articolo 55-quater del
Dllgs n. 165/2001 che ha previsto, nei casi di assenteismo fraudolento «la
denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura
regionale della Corte dei conti entro 15 giorni dall'avvio del procedimento
disciplinare», precisando, inoltre, che «la procura della Corte dei conti,
quando ne ricorrono i presupposti, emette invito a dedurre per danno
d'immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di
licenziamento».
La nuova norma ha anche stabilito che «l'ammontare del danno risarcibile è
rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla
rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale
condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in
godimento, oltre interessi e spese di giustizia».
Il collegio contabile siciliano, tuttavia, contesta la legittimità della
quantificazione automatica elaborata dalla procura, in quanto a fronte di
81,54 euro di danno erariale, corrispondenti alla falsa attestazione della
propria presenza in servizio, il Pm non ha dimostrato il pregiudizio subito
dall'ente, anzi, risulta che la vicenda non ha avuto alcuna diffusione
mediatica.
Per il Collegio contabile, infatti, va accolta un'interpretazione
che ammette una nozione unitaria del danno all'immagine come davvero
compromettente la reputazione dell'ente danneggiato, ipotizzabile solo in
presenza di una propagazione di notizie da cui sia potuto derivare uno
scadimento dell'opinione pubblica sulla correttezza dell'operato delle
amministrazioni, escludendo la presunzione di dannosità intrinseca o in re ipsa.
Ora, se tale non fosse la lettura, la medesima sarebbe censurabile
sotto il profilo dell'esorbitanza dalla delega, dato che la legge 04.03.2009 n. 15 non contiene alcun principio che possa giustificare un simile
intervento da parte del legislatore delegato.
Conclusioni
In conclusione, l'inserimento della quantificazione del danno in sei
mensilità previsto dal legislatore, in conclusione, può solo considerarsi
quale parametro utile alla quantificazione del danno che il legislatore ha
inteso fornire, stante la natura estremamente astratta e intangibile del
bene leso, per assicurare proporzionalità, certezza e omogeneità delle
decisioni.
Il dipendente, pertanto, deve essere condannato per il solo danno erariale
pari alle ore indebitamente percepite, senza addebito per danno all'immagine
non essendo stato provato dalla procura
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
causa inutile arreca un danno erariale e nessuna utilità per l'Ente Locale.
Va condannato per danno erariale il sindaco di un comune che, anche nella
qualità di Presidente del Consiglio comunale, pone in essere una condotta
antigiuridica, consistente nel dichiarare nullo il voto di un consigliere
comunale, con ciò determinando l’impugnazione della delibera comunale,
annullata dal Tar con contestuale refusione delle spese processuali a carico
del comune stesso.
Così si esprime la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Basilicata, con la
sentenza 11.03.2019 n. 10.
Il fatto
La Procura Regionale del capoluogo lucano ha convenuto in giudizio il
Presidente del consiglio comunale, per aver determinato l’impugnazione
dinanzi al giudice amministrativo, da parte di un consigliere comunale, di
due deliberazioni.
Le delibere consiliari sono state impugnate perché il Presidente del
Consiglio, ritenuto che il consigliere fosse in conflitto d’interesse, ha
dichiarato la nullità del voto da questo espresso.
All’esito del contenzioso amministrativo, il Comune è stato condannato al
pagamento delle spese processuali, cosa che poteva essere evitata, perché
non compete al Presidente del Consiglio Comunale dichiarare la nullità di un
voto espresso da un Consigliere Comunale. Il voto espresso dal Consigliere
Comunale in conflitto d’interessi, infatti, può essere annullato soltanto
dalla competente Autorità Giudiziaria.
Il pagamento delle spese processuali è stato considerato un inutile
dispendio di risorse pubbliche, circostanza che ha determinato la condanna
del Sindaco/Presidente del Consiglio Comunale.
La decisione
Per il collegio giudicante risulta evidente che il comune ha dovuto
sostenere un esborso del tutto inutile: allo stesso, infatti, non
corrisponde alcuna utilità né per l'ente né per la collettività
amministrata; tale esborso costituisce danno erariale determinato dalle
antigiuridiche e gravemente colpose condotte del Sindaco f.f., Presidente
del Consiglio e Vice Sindaco.
Le condotte attuate sono state considerate antigiuridiche perché
contrastanti con i compiti istituzionali e i doveri d'ufficio: - di
responsabile dell'amministrazione del comune, di rappresentanza dell'ente,
di direzione e coordinamento dell'attività politica amministrativa del
comune nonché dell'attività della giunta, di sovrintendenza al funzionamento
dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti, compiti e doveri
allo stesso intestati, in qualità di Vice sindaco e Sindaco f.f., - di
direzione delle sedute consiliari, di accertamento del relativo esito e di
proclamazione del risultato della votazione, compiti e doveri allo stesso
intestati in qualità di Presidente del Consiglio comunale.
Risulta, inoltre, dagli processuali, che le su indicate condotte del predetto
responsabile sono state adottate anche in contrasto con l'espresso parere
del segretario comunale e debbono considerarsi quanto meno gravemente
colpose, in quanto connotate da inescusabile negligenza nell'adempimento dei
doveri connessi all’ufficio pubblico (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
14.05.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Comuni, contributi ai privati.
Per realizzare interventi a beneficio della comunità. Per
la Corte conti del Piemonte non conta la qualificazione soggettiva del
beneficiario.
Un
comune può erogare un contributo a un soggetto privato per un intervento di
adeguamento della viabilità, destinato ad essere fruito dall'intera
comunità.
La Corte dei conti, sez. reg. controllo Piemonte, con il
parere 06.02.2019 n. 7 ha chiarito che qualunque genere di
intervento di natura economica da parte dell'amministrazione comunale, per
poter essere eventualmente qualificato in termini di legittimità, deve
sottendere alla realizzazione di un significativo interesse proprio della
comunità stanziata sul territorio, posto che il comune, per espressa
disposizione legislativa (art. 3, comma 2, del dlgs n. 267/2000) è l'ente
locale che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità.
Pertanto, se l'azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della
collettività rientranti nelle finalità perseguite dal comune, l'erogazione
di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio
comunale, e ciò in considerazione dell'utilità che l'ente o la collettività
ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che riceve il contributo.
In ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo
comunale, la Corte dei conti precisa che la natura pubblica o privata del
soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, se il
criterio di orientamento è quello della necessità che l'attribuzione avvenga
allo scopo di perseguire i fini dell'ente pubblico, posto che la stessa
amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità
soggetti aventi natura privata e che nella stessa attività amministrativa la
legge prevede che l'amministrazione agisca con gli strumenti del diritto
privato ogniqualvolta non vi sia l'obbligo di utilizzare quelli di diritto
pubblico.
Il profilo di maggior interesse del particolare tipo di interazione si
sostanzia peraltro nello sviluppo concreto del principio di sussidiarietà
statuito dall'art. 118 della Costituzione.
La Corte dei conti rileva come l'amministrazione comunale abbia pieno
interesse al fatto che gli edifici insistenti su pubblica via, o alla
medesima adiacenti, esistenti sul proprio territorio siano mantenuti in
piena efficienza o che in relazione agli stessi vengano garantite le
necessarie esigenze di sicurezza della collettività locale.
L'amministrazione deve pertanto evidenziare i presupposti di fatto e l'iter
logico alla base dell'erogazione a sostegno dell'attività svolta dal
destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia,
efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa delle prestazioni
per la realizzazione dell'intervento, potendo peraltro disciplinare il
rapporto nella prospettiva di un'azione coordinata al perseguimento delle
finalità pubbliche nell'ambito di uno strumento quale una convenzione,
regolante anche i relativi rapporti finanziari e le eventuali previsioni
restitutorie.
Specifiche cautele dovranno essere adottate dal comune relativamente alla
corretta e congrua attribuzione dei fondi pubblici, dovendosi prevedere
nello stesso strumento convenzionale adeguate rendicontazioni sulle attività
rese e sulle opere realizzate, sì di permettere il controllo da parte
dell'ente locale sull'effettiva destinazione della spesa al fine pubblico
per cui è stata sostenuta (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019).
--------------
PARERE
Il Sindaco del Comune di Moriondo Torinese (TO), riproponendo un
quesito, già sottoposto di recente alla Sezione Regionale di Controllo del
Piemonte di questa Corte e dalla medesima dichiarato inammissibile con
Deliberazione n. 132/2018, ha riformulato, attraverso l’istanza all’esame,
la richiesta di parere in termini generali ed astratti.
Più precisamente, viene chiesto se sia “...lecita sotto il profilo
contabile l’esecuzione di un’opera pubblica in forma diversa da quella
canonica”, o meglio, a mezzo della richiesta di parere viene chiesto di
precisare se sia lecita l’attribuzione di un contributo pubblico a privati
al fine di conseguire “...l’adattamento ad esigenze di viabilità di
immobile adiacente a pubblica via”, con la precisazione che detto
intervento verrebbe eseguito a cura del soggetto privato affidatario
dell’incarico sotto la supervisione della parte pubblica.
...
Il quesito, riproposto dall’Ente interessato, concerne la problematica della
eventuale destinazione di fondi comunali, sotto forma di contributo
pubblico, a sostegno di interventi su beni di proprietà di un soggetto
giuridico diverso –segnatamente, privato– riferendosi il quesito ad immobili
privati, adiacenti a pubblica via, che necessitino di interventi funzionali
ad esigenze di sicurezza della viabilità.
La Sezione ritiene di ribadire (v., Sez. Controllo Piemonte,
parere 23.03.2018 n.
30) che qualunque genere di intervento di natura economica da parte
dell’amministrazione comunale, per poter essere eventualmente qualificato in
termini di legittimità, debba necessariamente sottendere alla realizzazione
di un significativo interesse proprio della comunità stanziata sul
territorio, posto che il Comune, per espressa disposizione legislativa (art.
3, co. 2, D.lgs. n. 267/2000) è l'ente locale che rappresenta e cura gli
interessi della propria comunità. A tal fine, il Comune, dovendo in via
generale realizzare gli interessi della collettività locale, ai sensi
dell’art. 13 del d.lgs. n. 267/2000, esercita tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, in
particolare nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità,
dell'assetto ed utilizzazione del territorio nonché dello sviluppo economico
e della sicurezza.
Al riguardo, va osservato che la giurisprudenza contabile, nell’esercizio
della propria funzione consultiva, ha elaborato da tempo il principio
generale per cui se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze
della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (come
tali generalmente ammissibili), l’erogazione di un finanziamento non può
equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, e ciò “…in
considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal
soggetto che riceve il contributo” (v., ex multis, Corte conti,
Sez. Controllo Lombardia 13.12.2007, n. 59; id,
parere 31.05.2012 n. 262).
Di modo che compete esclusivamente all’Ente valutare, nell’esercizio della
propria discrezionalità, se la spesa, oltre che finanziariamente
sostenibile, possa effettivamente corrispondere, in concreto, al
perseguimento di un interesse pubblico affidato alle proprie cure.
Inoltre, anche in ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del
contributo comunale, la medesima giurisprudenza ha precisato che
la natura
pubblica o privata del soggetto, che riceve l’attribuzione patrimoniale, è
indifferente se il criterio di orientamento è quello della necessità che
l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico,
posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per
molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di
compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi
natura privata e che nella stessa attività amministrativa la legge di
disciplina del procedimento amministrativo (L. n. 241/1990, come modificata
dalla L. n. 15/2005), prevede che l’amministrazione agisca con gli strumenti
del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare
quelli di diritto pubblico (Corte conti, Sez. Contr. Lombardia, 13.01.2010
n. 1; id.
parere 31.05.2012 n. 262; Corte conti, Sez. Contr. Piemonte,
parere 19.02.2014
n. 36).
Sotto il richiamato profilo, in base alle norme ed ai principi della
contabilità pubblica, non solo non è rinvenibile alcuna disposizione che
impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi,
ove le stesse siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali ma
l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire
l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento
di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
E’ stato altresì precisato che ogniqualvolta l’amministrazione ricorra a
soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente,
riconosca loro benefici di natura patrimoniale (come nella forma della
contribuzione) ovviamente le cautele debbono essere maggiori –rispetto ai
casi in cui vengano in rilievo enti pubblici- anche al fine di garantire
l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di non
discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa (Corte
conti, Sez. Contr. Lombardia,
parere 11.09.2015 n. 279).
Ne discende che sotto il profilo della liceità da un punto di vista
contabile dell’esecuzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità
il discrimine circa il corretto impiego delle risorse pubbliche risulta
condizionato dall’effettivo perseguimento e realizzazione di un interesse
pubblico (comunque riferibile all’ente pubblico interessato) a prescindere
dal formale soggetto destinatario in via diretta dell’attribuzione
patrimoniale.
In tale contesto non sembra revocabile in dubbio che l’amministrazione
comunale sia interessata al fatto che gli edifici insistenti su pubblica
via, o alla medesima adiacenti, esistenti sul proprio territorio siano
mantenuti in piena efficienza e/o che in relazione agli stessi vengano
garantite le necessarie esigenze di sicurezza della collettività locale.
In situazioni peculiari, l’ente locale, al fine di realizzare gli interventi
oggetto del quesito, piuttosto che procedere direttamente con il ricorso a
strumenti pubblicistici, può agire, in via mediata, per il tramite di
soggetti privati destinatari di risorse pubbliche, rappresentando la stessa
una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del Comune destinato a
finanziare lavori manutentivi e/o di adeguamento per le finalità
rappresentate su beni di proprietà di altro soggetto (peraltro, privato),
deve, comunque, si ribadisce, trovare puntuale giustificazione nella
dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e indifferibile interesse
della comunità locale.
Il necessario profilo teleologico, idoneo ad escludere la concessione di
contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni (come noto interdetto
alle amministrazioni pubbliche, v., art. 6, comma 9, del decreto legge
31.05.2010, n. 78, e art. 4, comma 6, del decreto legge 06.07.2012, n. 95,
convertito dalla legge 07.08.2012, n. 135), deve essere palesato dall’ente
locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione avrà cura di evidenziare i presupposti di fatto e l’iter
logico alla base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal
destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia,
efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa del servizio.
D’altro canto una siffatta tipologia di intervento potrebbe essere
disciplinata tra i soggetti interessati in virtù di un’azione coordinata
nell’ambito di uno strumento quale una convenzione, regolante altresì i
relativi rapporti finanziari e le eventuali previsioni restitutorie.
E’ necessario, comunque, sottolineare che simile convenzione, da stipularsi
tra ente pubblico e privato, debba evidenziare le finalità pubbliche
perseguite e le modalità di destinazione ad uso pubblico del bene oggetto
dell’intervento.
Altrettante cautele dovranno essere adottate dal Comune relativamente alla
corretta e congrua attribuzione dei fondi pubblici, dovendosi prevedere
convenzionalmente adeguate rendicontazioni sul servizio reso e/o sulle opere
realizzate, al fine di permettere il controllo da parte dell’Ente locale
sull’effettiva destinazione della spesa al fine pubblico per cui è stata
sostenuta.
Sulla base di quanto premesso, competerà all’amministrazione comunale
procedere ad effettuare tutte le valutazioni discrezionali di propria
spettanza quale ente esponenziale della collettività insediata sul
territorio. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Le
ipotesi di scomputo degli oneri di urbanizzazione e di esonero del costo di
costruzione devono considerarsi tassative e di stretta interpretazione
perché derogatorie alla regola della normale onerosità del permesso a
costruire che costituisce principio fondamentale della normativa di settore.
La possibilità di scomputare dalle opere di urbanizzazione, realizzate dal
privato, l'importo dei relativi oneri anche quando le suddette opere vengano
realizzate su beni privati e non si preveda il relativo trasferimento a
titolo gratuito in favore dell'Ente, va esclusa sulla base
dell'interpretazione letterale, ex art. 12 delle Preleggi, dell'art. 16 del
D.P.R. 380 del 2001 ed s.m.i. (Testo Unico edilizia).
L'espressione "conseguente acquisizione delle opere al patrimonio
indisponibile del Comune" ed in particolare l'impiego del sostantivo
"acquisizione" nella formulazione dell'art. 16 sopra richiamato, evoca
chiaramente il concetto di proprietà.
Limitare la possibilità di scomputo degli oneri di urbanizzazione dalle
relative opere realizzate dal privato alle sole ipotesi del trasferimento in
proprietà delle stesse è l'unica modalità che garantisce l'effettiva
funzionalizzazione del bene all'interesse pubblico e ne preserva la natura
pubblica.
--------------
La L.r. n. 56 del 05.12.1977 e ss.mm.ii. all'art. 21, comma 4, non contempla
la previsione di casi speciali di esoneri e/o esenzioni dal pagamento degli
oneri in relazione ad opere di urbanizzazione, realizzate su suoli privati,
ancorché destinate in perpetuo all'uso pubblico.
Né è possibile, al fine di introdurre ulteriori ipotesi di scomputo, non
contemplate dalla Legge, prendere in considerazione un ipotetico ed
ingiustificato arricchimento dell'Ente ai danni del privato per l'ipotesi in
cui non si riconosca il beneficio dello scomputo a fronte di opere
realizzate sulla proprietà privata, ancorché assoggettate in via permanente
all'uso pubblico.
---------------
Con nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Novara, dopo
un breve excursus normativo in ordine alla fattispecie delle opere a
scomputo degli oneri di urbanizzazione ha chiesto alla Sezione di
pronunciarsi in ordine al quesito di seguito riportato: “se la
possibilità di scomputare gli importi relativi all’esecuzione diretta delle
opere di urbanizzazione da quanto dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione
possa essere sempre accordata, anche quando dette opere ricadano su aree
solo assoggettate all’uso pubblico o se per contro il mancato scomputo di
detti importi nei suddetti casi possa configurarsi come indebito
arricchimento da parte dell’Ente”.
...
In via preliminare, la Sezione precisa che le scelte relative alle concrete
modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione, al riconoscimento
dell’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione come pure il
regime dominicale loro impresso dalla convenzione urbanistica, spettano, in
concreto, all’Ente, quali scelte di amministrazione attiva.
Ciò premesso, la richiesta in esame attiene sostanzialmente
all’interpretazione delle previsioni normative che regolamentano la
possibilità, per il privato, di realizzare opere di urbanizzazione in luogo
del pagamento dei relativi oneri anche allorquando le suddette opere vengano
realizzate su beni privati e non si preveda il relativo trasferimento a
titolo gratuito in favore dell’Ente.
Al fine di inquadrare compiutamente la tematica, questa Sezione ritiene
utile procedere ad un seppur sintetico excursus normativo in materia di
oneri di urbanizzazione tracciando le linee distintive tra questi ed il “contributo
di costruzione” talvolta adoperati come sinonimi anche se profondamente
diversi.
La legge 06.08.1967 n. 765 c.d. “legge - Ponte” ha previsto per la
prima volta nell’ordinamento il principio della normale onerosità del
permesso a costruire (rectius licenza urbanistica) secondo cui
l’obbligo ed il costo di realizzazione delle infrastrutture dell’intervento
edificatorio spetta ai soggetti attuatori. L’art. 31 della l. n. 1150/1942,
come modificato dalla richiamata Legge Ponte, ha poi previsto che il
rilascio del titolo abilitativo edilizio dovesse essere subordinato alla
presenza dell’urbanizzazione primaria o, comunque, all’impegno del
proprietario a realizzarla contemporaneamente all’intervento costruttivo.
Con tale previsione normativa è stato introdotto l’obbligo, a carico dell’attuatore,
di cedere gratuitamente al Comune le aree destinate alle opere di
urbanizzazione.
Infine l'art. 1 della legge n. 10 del 1977, a chiusura del sistema, ha
normato il principio fondamentale in base al quale ogni attività comportante
trasformazione urbanistico/edilizia del territorio partecipa agli oneri da
essa derivanti.
Il testo Unico delle norme in materia edilizia, approvato con d.p.r. n.
380/2001 ha conferito maggiore sistematicità alla materia.
L’art. 16 del T.U. 380 del 2001 rubricato come “Contributo per il
rilascio del permesso di costruire” prevede, come sopra affermato, che
il rilascio del permesso a costruire “Salvo quanto disposto all'articolo 17,
comma 3” obblighi al pagamento di un contributo “commisurato
all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”
.
Gli oneri di urbanizzazione si sostanziano in una prestazione patrimoniale
di diritto pubblico non avente natura tributaria posta a carico del privato.
Tali oneri, determinati in misura corrispondente all’entità ed alla qualità
delle opere di urbanizzazione necessarie ed in proporzione all’insieme dei
benefici che la nuova costruzione ne trae, rappresentano il corrispettivo
previsto in favore del Comune (ex multis Cons. Stato, sez. V
20.04.2009 n. 2359).
La quota di contributo per costo di costruzione, invece, non presenta natura
corrispettiva, configurandosi come prestazione tributaria (cfr. Cass., Sez.
I 27.09.1994 n. 7874). Tale quota è rapportata alle caratteristiche e alla
tipologia delle singole costruzioni, riguarda esclusivamente l'attività
edificatoria in sé, non avendo in alcun modo una funzione recuperatoria
delle spese sostenute dalla collettività comunale per le trasformazioni del
territorio su cui insiste. Il criterio di riferimento è quindi la specifica
“produzione di ricchezza connessa all’uso edificatorio del territorio e
delle potenzialità economiche che ne derivano” (cfr. TAR Liguria, sez.
I, 28.03.2013 n. 552).
Il Giudice amministrativo in due recenti interventi nomofilattici ha
affermato che il contributo per il permesso a costruire, articolato nelle
due differenti voci —oneri di urbanizzazione e costo di costruzione—
rappresenta la compartecipazione del singolo alla spesa pubblica necessaria
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, individuandone la ratio
nel “surplus di opere di urbanizzazione che l'amministrazione comunale è
tenuta ad affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del
richiedente il titolo edilizio”, riconducendolo quindi al novero delle
prestazioni patrimoniali imposte ex art. 23 Cost. (cfr. Ad. Plen.
30.08.2018, n. 12 e 07.12.2016, n. 24).
La partecipazione del privato, titolare del permesso a costruire, a tali
spese, si sostanzia dunque nell’assunzione di una parte dei costi della
vocazione edificatoria impressa al territorio e trova giustificazione nel
beneficio, economicamente rilevante in termini di valore del suolo, che il
privato medesimo riceve per effetto della concreta attuabilità del progetto
di costruzione. ( cfr. ex multis TAR Liguria n. 955 del 2016).
L’art. 16 del richiamato testo normativo ha poi confermato la possibilità
per il privato di obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione con relativo scomputo, parziale o totale degli oneri
prevedendo, altresì la “conseguente acquisizione delle opere al
patrimonio indisponibile del Comune”.
Da tali previsioni vanno, invece, tenute distinte, le ipotesi di esonero dal
pagamento del costo di costruzione (componente anch’essa del contributo per
il rilascio del permesso a costruire), di cui all’art. 17 del D.P.R. 380 del
2001 s.m.i. che, in particolare al terzo comma, dispone la non debenza del
contributo di costruzione in relazione agli “impianti, le attrezzature,
le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite
anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Orbene venendo ora all’esame, più nello specifico, del quesito formulato dal
Comune istante questo Collegio, facendo ricorso al criterio letterale quale
regola ermeneutica primaria, ex art 12 delle Preleggi, ritiene che
l’espressione “conseguente acquisizione delle opere al patrimonio
indisponibile del Comune” ed in particolare l’impiego del sostantivo
“acquisizione” nella formulazione dell’art. 16 evochi chiaramente il
concetto di proprietà. Ad avviso della Sezione il Legislatore ha inteso
limitare l’operatività dello scomputo degli oneri all’ipotesi del
trasferimento in proprietà delle opere di urbanizzazione in quanto unica
modalità in grado di garantire l’effettiva funzionalizzazione del bene
all’interesse pubblico ed a preservarne la natura pubblica (cfr. Cass. sez.
I,
sentenza 25.07.2016 n. 1534).
Con riferimento invece al costo di costruzione di cui all’art. 17 sopra
citato, questa Corte ha già avuto modo di affermare (sezione controllo per
la Lombardia
parere 09.10.2009 n. 783;
Lombardia
parere 21.02.2011 n. 91),
la necessaria sussistenza di due requisiti concorrenti, uno oggettivo e
l’altro soggettivo. Per effetto del primo la costruzione deve riguardare “opere
pubbliche o d’interesse generale”; per effetto del secondo le opere
devono essere eseguite da “un ente istituzionalmente competente”.
Anche la giurisprudenza amministrativa in considerazione dell’espressione
utilizzata dal Legislatore "opere di urbanizzazione eseguite in
attuazione di strumenti urbanistici" ha più volte ribadito che la
fattispecie di esonero dal contributo di costruzione ricorre quando l’opera
sia non solo conforme agli strumenti urbanistici ma sia da questi
espressamente contemplata(in tal senso C.d.S., sez. V, 10.05.1999, n. 536;
C.d.S., sez. V, 21.01.1997, n. 69; C.d.S., sez. V, 01.06.1992, n. 489).
La ratio della “gratuità” in termini di contributi di costruzione è “quella
di incentivare solo la dotazione di quelle infrastrutture che danno ordinata
e coerente attuazione alle previsioni urbanistiche espressamente previste
dall’Autorità comunale”. Pertanto affinché possa qualificarsi un
intervento come “opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di
strumenti urbanistici” è necessario che, oltre a potersi qualificare
opera di urbanizzazione, sia specificamente indicata nello strumento
urbanistico, corrispondendo ad una precisa indicazione dello stesso (TAR
Lombardia -Sez. Brescia- n. 163/2005).
Infine, la normativa regionale richiamata dall’Amministrazione istante, L.r.
n. 56 del 05.12.1977 e ss.mm.ii. all’art. 21, comma 4, prevede che ai fini
del computo degli standards si tenga conto oltre che delle superfici delle
quali sia prevista l’acquisizione da parte della p.a. anche di quelle
private per le quali sia previsto l’assoggettamento permanente ad uso
pubblico disciplinato con convenzione.
Neppure la disposizione regionale, invero, consente di fornire una risposta
positiva alla richiesta dell'Amministrazione, non essendo ivi contemplata la
previsione di casi speciali di esoneri e/o esenzioni dal pagamento degli
oneri in relazione ad opere di urbanizzazione, realizzate su suoli privati,
ancorché destinate in perpetuo all’uso pubblico.
D’altronde, le ipotesi di scomputo e di esonero, passate in rassegna, anche
ad avviso della giurisprudenza amministrativa, devono considerarsi tassative
e di stretta interpretazione proprio perché derogatorie rispetto alla regola
della normale onerosità del permesso a costruire (cfr. tra le molte,
Consiglio di Stato IV sez. n. 2754 del 2012) che costituisce principio
fondamentale della normativa di settore (cfr. Corte cost. 03.11.2016 n.
231).
Né è possibile, al fine di introdurre ulteriori ipotesi di scomputo, non
contemplate dalla Legge, prendere in considerazione un ipotetico ed
ingiustificato arricchimento dell’Ente ai danni del privato per l’ipotesi in
cui non si riconosca il beneficio dello scomputo a fronte di opere
realizzate sulla proprietà privata, ancorché assoggettate in via permanente
all’uso pubblico.
Ciò ancor più se si tiene conto che le spese di manutenzione delle opere e
delle aree destinate all’uso pubblico, asseritamente ritenute a carico del
privato nella richiesta di parere, gravano, al contrario, normalmente sulla
P.A. ai sensi dell’art. 1069 c.c. in quanto titolare della servitù perpetua
di uso pubblico, salvo che sia diversamente stabilito dal titolo o dalla
Legge (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 22.01.2019 n. 5). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuova posizione organizzativa e impossibilità di superare il limite.
A fronte dell'assunzione di un dipendente al quale affidare la
responsabilità di un settore, l'ente può riconoscere la retribuzione di
posizione e di risultato se questo causa lo sforamento del limite previsto
dalla norma ancorato all'anno 2016?
L'importo relativo alla retribuzione di posizione e di risultato da
attribuire alla nuova assunzione può essere escluso da quello complessivo
del salario accessorio di competenza dei dipendenti in servizio prima della
«nuova assunzione»?
Con il
parere 25.10.2018 n. 293 la Corte dei conti della Lombardia ritiene
irrilevante il fatto che il trattamento accessorio si riferisca a una nuova
assunzione, in quanto la norma non consente distinzione di sorta, ma indica
soltanto un limite finanziario che non deve essere superato.
Pertanto, il
collegio conferma l'orientamento secondo cui le risorse destinate a
remunerare le indennità, di posizione e risultato, spettanti ai titolari di
posizione organizzativa, anche dopo l'aggiornamento dei valori minimi e
massimi contenuto nell'articolo 15, comma 2, del Ccnl del 21.05.2018,
devono complessivamente osservare, sommate alle risorse confluenti nei fondi
per la contrattazione integrativa, il limite di finanza pubblica posto
dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
Come è stato precisato,
peraltro, dall'articolo 67, comma 7, dello stesso Ccnl (salve le facoltà di
rimodulazione, a invarianza complessiva di spesa, previste dagli articoli
15, comma 7, e 7, comma 4, lettera u)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.11.2018).
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PARERE
Il Sindaco del Comune di Barni (CO) con la nota sopraindicata ha
formulato una richiesta di parere avente ad oggetto la disciplina relativa
ai limiti finanziari della spesa inerente le posizioni organizzative in un
comune di piccole dimensioni (popolazione inferiore a 1000 abitanti)
Premette che, nell'anno 2011, un dipendente del Comune è cessato dal
servizio per pensionamento e l’amministrazione non ha provveduto alla sua
sostituzione, ma ha garantito l’espletamento del relativo servizio affidando
la responsabilità di tutti i servizi all’unico dipendente presente
nell’Ente.
Il pensionamento del dipendente è avvento nel contesto della dichiarazione
di dissesto finanziario, la cui procedura si è conclusa nel 2016 con
l’estinzione di tutti i debiti. Soltanto recentemente l’amministrazione ha
potuto procedere all’assunzione del dipendente (in sostituzione di quello
collocato in quiescenza) cui l’amministrazione intende affidare la
responsabilità del servizio finanziario attribuendo al medesimo la relativa
indennità contrattualmente prevista.
Ciò posto l’Istante chiede se occorre rispettare il disposto dell’art 23
della legge 75/2017 che sancisce il divieto di superamento del fondo
accessorio previsto per il personale nel 2016 ovvero se ”l'importo
relativo alla retribuzione di posizione e di risultato da attribuire alla
nuova assunzione possa essere escluso dall'importo complessivo del salario
accessorio di competenza dei dipendenti in servizio prima della "nuova
assunzione”, e ritiene che qualora non fosse possibile escludere dal salario
accessorio complessivo quanto necessario per compensare le responsabilità
del nuovo assunto titolare di posizione organizzativa sarebbe vanificato il
merito di chi svolge un ruolo avente funzione dirigenziale senza poter
remunerare quella posizione e penalizzando il dipendente di quell’amministrazione
che per scelte gestionali non ha proceduto ad assumere personale negli anni
precedenti".
...
Questa sezione della Corte de Conti, si è già espressa su questione analoga
ed in particolare con il
parere 02.07.2018 n. 200
ha formulato il proprio orientamento dal quale non vi sono ragioni per
discostarsi, pur comprendendo le osservazioni del Sindaco in ordine alle
criticità di talune conseguenze che l’interpretazione della norma comporta,
soprattutto nei piccoli comuni stante l’esiguità del fondo.
Infatti, l’Istante riferisce che se non sarà possibile escludere dal computo
della spesa complessiva del trattamento accessorio per il personale
sostenuta nel 2016 quella necessaria per finanziare l’indennità di posizione
del neoassunto, sarà necessario operare riduzioni di altre indennità o di
altre voci del fondo deputato al trattamento accessorio, con pregiudizio
della remunerazione che deve premiare il merito di chi assume responsabilità
di gestione.
Il tenore letterale della norma non consente, tuttavia, un’interpretazione
diversa da quella già espressa con il
parere 02.07.2018 n. 200 ossia che ai sensi del comma 2 dell’art.
23 del decreto legislativo 75/2017 stabilisce che “…, a
decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello
dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può
superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. …”.
Questa Sezione, con
parere 02.07.2018 n. 200,
si è già pronunciata sulla questione stabilendo che “le
risorse destinate a remunerare le indennità, di posizione e risultato,
spettanti ai titolari di posizione organizzativa, anche dopo l’aggiornamento
dei valori minimi e massimi contenuto nell’art. 15, comma 2, del CCNL
Funzioni locali del 21.05.2018, debbano complessivamente osservare, sommate
alle risorse confluenti nei fondi per la contrattazione integrativa, di cui
all’art. 67 del medesimo CCNL, il limite di finanza pubblica posto dall’art.
23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, come, peraltro, precisato dall’art.
67, comma 7, del ridetto CCNL (salve le facoltà di rimodulazione, ad
invarianza complessiva di spesa, previste dagli artt. 15, comma 7, e 7,
comma 4, lett. u)”.
Nel dare risposta negativa al quesito si evidenzia che
è irrilevante ai fini del rispetto della disposizione sopra citata il fatto
che il trattamento accessorio si riferisca ad una nuova assunzione in quanto
la norma non consente distinzione di sorta, ma indica soltanto un limite
finanziario che non deve essere superato e pertanto, questa Sezione conferma
l’orientamento già espresso rinviando alle motivazioni contenute nel
parere 02.07.2018 n. 200. |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli oneri relativi al trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti solidi,
liquidi e gassosi di cui all'art. 19 T.U. Edilizia devono ascriversi alla
categoria dei "corrispettivi di diritto pubblico".
Ne deriva che essi hanno
natura di entrata di parte capitale ordinariamente utilizzabili solo per
spese di investimento, salvo eccezione di legge.
Eccezione che per gli anni
2016 e 2017 è costituita dalla legge n. 208/2015, in base alla quale i
proventi delle concessioni edilizie possono essere impiegati per una quota
pari al 100% per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e
del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere
pubbliche.
---------------
Il Sindaco del Comune di Landriano (PV) –premesso:
che, a norma dell’art.
43 L. R. n. 12 del 11.03.2005, i titoli abilitativi per interventi di
nuova costruzione, ampliamento di edifici esistenti e ristrutturazione
edilizia sono soggetti alla corresponsione degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria, nonché del contributo sul costo di costruzione; che
l’art. 19 del T.U. Edilizia prevede, inoltre, che il permesso di costruire
relativo a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o
artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di
servizi comporta anche la corresponsione di un contributo pari alla
incidenza delle opere necessarie al trattamento e allo smaltimento dei
rifiuti solidi, liquidi e gassosi;
che il contributo di costruzione è
costituito da due differenti voci e cioè: gli oneri di urbanizzazione
(suddivisi in primari e secondari) e il contributo per il costo di
costruzione;
che quest’ultimo sarebbe sostituito, nel caso degli
insediamenti produttivi, da una ulteriore quota di oneri relativi al
trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi; che
l’art. 1, comma 737, legge 208 del 2015 ha disposto che: “per gli anni 2016
e 2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal
testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001,
n. 380, fatta eccezione per le sanzioni di cui all’articolo 31, comma 4-bis,
del medesimo testo unico, possono essere utilizzati per una quota pari al
100 per cento per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e
del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere
pubbliche”;
che codesta Corte, con parere numero 38/2016, reso nella seduta
del 19.01.2016, ha chiarito che: “quanto invece alle entrate connesse
al versamento dei contributi sul costo di costruzione, la natura tributaria
delle stesse le fa invece necessariamente riconfluire, come già rilevato da
questa Sezione nella deliberazione n. 1/pareri/2014, nel totale delle
entrate che, come tali, in virtù del principio di unità di bilancio
finiscono con l’essere destinate al finanziamento del totale delle spese”;–
ha chiesto alla Sezione conferma della possibilità dell’utilizzo delle quote
di oneri relativi al trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti solidi,
liquidi e gassosi per il finanziamento delle spese correnti, senza
particolari vincoli di destinazione.
...
In via preliminare, la Sezione precisa che la decisione di procedere ad una
determinata spesa attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra,
pertanto, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità
dell’ente; spetta altresì all’ente procedere alle attività amministrative e
giuscontabili conseguenti alla qualificazione della spesa, oggetto del
presente parere.
In generale, si osserva che l’allocazione in bilancio e la conseguente
corretta utilizzazione delle entrate derivanti dai contributi per permesso
di costruire è stata oggetto di ripetute modifiche da parte del legislatore,
nonché di ripetute interpretazioni da parte delle Sezioni regionali di
controllo di questa Corte.
Al riguardo, può rammentarsi che prima dell’attuale “contributo per permesso
di costruire”, i Comuni riscuotevano gli “oneri di urbanizzazione” previsti
dalla legge n. 10 del 1977, che subordinava la concessione edilizia alla
corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di
urbanizzazione, nonché al costo di costruzione (art. 3).
In tale contesto, i
proventi delle concessioni erano espressamente destinati alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di
complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché, nel limite massimo
del 30 per cento, a spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale
(art. 12, come modificato dall’art. 16-bis del decreto legge n. 318 del
1986, convertito con modificazioni dalla legge n. 488 del 1986).
In seguito, il d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), nel ridisciplinare
interamente la materia, ha al contempo introdotto il contributo per il
rilascio del permesso di costruire, commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione, nonché al costo di costruzione (art. 16, comma 1).
In riferimento a tale novella, si è consolidata la tesi (Sezione regionale
di controllo per la Basilicata,
deliberazione 27.11.2013 n. 123); Sezione
controllo Piemonte,
parere 10.05.2013 n. 168), già condivisa da
questa Sezione (parere
09.02.2016 n. 38), che l’intervento normativo
organico di settore, rappresentato dal testo unico, ha determinato la tacita
abrogazione –in via consequenziale– oltre che del citato disposto della
legge 10/1978, anche dell’art. 49, comma 7, legge n. 449 del 1997, in base
al quale i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni potevano
essere destinati anche al finanziamento di spese di manutenzione del
patrimonio comunale.
Come già evidenziato da questa sezione (parere
09.02.2016 n. 38), ciò
ha determinato l’ulteriore effetto, in mancanza di una diversa ed espressa
previsione di legge, del venir meno dei relativi vincoli e facoltà,
stabiliti dalle norme abrogate, di destinazione dei proventi riscossi a
titolo di contributi per il rilascio del permesso di costruire.
In conseguenza del venir meno di un’espressa destinazione, s’era in quel
contesto sottolineato che l’entrata derivante dal rilascio dei permessi di
costruire finisse per confluire nel totale delle entrate – ed in
particolare, s’è ritenuto, in quelle di natura tributaria – che
intrinsecamente sono destinate a finanziare il totale delle spese, secondo
il principio dell’unità di bilancio (art. 162, comma 2, T.U.E.L.), con
l’ulteriore conseguenza della riallocazione di queste risorse, in
considerazione del venir meno del predetto vincolo legislativo di
destinazione di cui all’art. 12, legge n. 10 del 1977 e ss.mm.ii., tra
quelle che contribuiscono complessivamente a determinare gli equilibri di
bilancio ex art. 193, comma 3, T.U.E.L. (cfr. ancora questa Sezione,
deliberazione 1/parere/2004; cfr. altresì la circolare della Ragioneria
Generale dello Stato 07.04.2004, n. 39656 ed il Principio contabile n. 2,
par. 20, dei “Principi contabili per gli Enti locali” elaborati nel 2004,
principio che ha ritenuto detta entrata ascrivibile al Titolo I
dell’Entrata, cioè alle entrate tributarie).
Tale approdo, riportato anche dal Comune nella parte motiva della richiesta
di parere, deve tuttavia essere ulteriormente precisato nei termini già
espressi dal
parere 09.02.2016 n. 38.
Invero, se tale allocazione da un lato, in quel medesimo contesto, ha
portato a considerare astrattamente l’entrata come liberamente disponibile
per il finanziamento (anche) di spese correnti, dall’altro, essa non ha
fatto venir meno la natura intrinsecamente aleatoria e irripetibile della
risorsa stessa, natura che trova una conferma nella specifica forma di
accertamento per essa prevista dei Principi contabili del 2004 (accertamento
effettuato sulla base degli introiti effettivi); pertanto, tale risorsa,
anche nel sistema derivante dall’entrata in vigore del d.P.R. n. 380 del
2001, non avrebbe comunque potuto essere destinata a finanziare spese
correnti consolidate e ripetibili, come ripetutamente rilevato anche da
questa Sezione (v. sul punto, le deliberazioni nn. 382/2015/PRSE; 360/2015/PRSE;
160/2015/PRSE; 155/2015/PRSE; 152/2015/PRSE).
In materia, il legislatore è successivamente intervenuto con disposizioni
aventi un’efficacia temporalmente limitata, al fine di introdurre facoltà e
limiti all’utilizzo di proventi delle concessioni edilizie, da ultimo con la
legge 208/2005, di cui si dirà oltre.
In assenza di una normazione specifica, quale quella da ultimo citata,
valgono invece i principi generali innanzi esposti così come ulteriormente
precisati dal
parere 09.02.2016 n. 38, che il Comune ha citato solo
parzialmente e che la Sezione intende confermare.
Quest’ultima delibera, infatti, ha declinato in maniera più analitica il
principio generale innanzi ricordato, a seconda delle diverse componenti in
cui concretamente si articola l’entrata derivante dal rilascio dei permessi
di costruire.
Giova, pertanto, ripercorrere seppur per sommi capi quanto già espresso
nella citata precedente deliberazione, sulla base delle cui conclusioni deve
darsi risposta anche al quesito specifico oggetto del presente parere.
Più precisamente, secondo quanto già affermato da questa Corte (v. Sezione
regionale di controllo per il Veneto,
parere 22.04.2015 n. 219)
–peraltro sulla scorta anche dell’ampia giurisprudenza amministrativa resa
in materia (v. in generale TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.05.2014,
n. 464; Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160; TAR
Lombardia, Brescia, sez. II, 25.03.2011, n. 469; Consiglio di Stato, sez.
V, 23.01.2006, n. 159)– deve essere sottolineato che il contributo
collegato all’assentimento dell’attività edilizia si compone di due distinti
elementi: uno, di natura contributiva, afferente alle spese per
l’urbanizzazione del territorio, e che costituisce pertanto una modalità di
concorso del privato agli “oneri sociali” derivanti dall’incremento del
carico urbanistico (oneri di urbanizzazione in senso stretto); l’altro, di
natura impositiva, conseguente invece all’aumento della capacità
contributiva del titolare dell’opera, in ragione dell’incremento, in virtù
dell’assentimento dell’attività edilizia, del patrimonio immobiliare
detenuto da tale soggetto (contributo di costruzione).
Quest’ultimo consiste in una prestazione patrimoniale ascrivibile alla
categoria dei tributi locali, in quanto il prelievo non si basa, come nel
caso degli oneri di urbanizzazione, sui costi collettivi derivanti
dall’insediamento di un nuovo edificio, ma sull’incremento di ricchezza
immobiliare determinato dall’intervento edilizio stesso. Gli oneri
propriamente di urbanizzazione sono invece ascrivibili alla categoria dei
“corrispettivi di diritto pubblico” e sono, conseguentemente, dovuti in
ragione dell’obbligo del privato di partecipare ai costi delle opere di
trasformazione del territorio di cui in definitiva si giova.
Tale natura “corrispettiva” emerge con evidenza da più indici normativi, sia
derivanti dalla possibilità di scomputare le opere pubbliche realizzate dal
privato dagli oneri dovuti, sia connessi alla possibilità di escludere
specifiche attività edilizie, in determinate ipotesi, dal versamento dal
contributo sul costo di costruzione, ma non dal versamento degli oneri di
urbanizzazione (v. le ipotesi contemplate dagli artt. 17 e 18, da un lato, e
dall’art. 19, dall’altro, del d.P.R. n. 380 del 2001; cfr. altresì l’art.
43, comma 2-ter, legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005).
Pertanto, quanto alla corretta allocazione in bilancio e utilizzazione di
dette risorse, in generale e sul presupposto dell’assenza di specifiche
normative applicabili, non può che muoversi dal riconoscimento di tale
natura duale dell’entrata, peraltro affermata, nell’ambito
dell’armonizzazione, anche dal principio 3.11. dell’Allegato 4/2 al decreto
legislativo n. 118 del 2011, come modificato dal decreto legislativo n. 126
del 2014, il quale correttamente evidenzia che “l’obbligazione per i
permessi di costruire è articolata in due quote”: “la prima (oneri di
urbanizzazione) è immediatamente esigibile, ed è collegata al rilascio del
permesso al soggetto richiedente, salva la possibilità di rateizzazione
(eventualmente garantita da fidejussione), la seconda (costo di costruzione)
è esigibile nel corso dell'opera ed, in ogni caso, entro 60 giorni dalla
conclusione dell'opera medesima”, con le relative conseguenze in tema
d’accertamento ed imputazione.
Alla luce di tale considerazione, si deve conseguentemente rilevare che le
entrate connesse al versamento degli oneri di urbanizzazione hanno
necessariamente natura di entrate di parte capitale, derivando in definitiva
dal “consumo” del suolo, cioè dall’irreversibile (almeno in linea
tendenziale) impiego di un bene pubblico, ed essendo intrinsecamente
destinate alla realizzazione di opere, volte al razionale e salubre impiego
dello stesso, destinate comunque ad incrementare il “patrimonio immobiliare”
dell’ente, sub specie di realizzazione (diretta o indiretta) di beni
rientranti nelle categorie, a seconda delle evenienze, del demanio (ad es.
strade, piazze, acquedotti, v. gli artt. 822, secondo comma, e 824 c.c.), o
del patrimonio indisponibile (v. al riguardo l’art. 826, terzo comma, c.c.).
In tali ipotesi, infatti, si verte nell’ambito di entrate naturalmente
destinate all’incremento dei beni annoverabili nel “patrimonio” latamente
inteso dell’ente e che, come tali, devono essere rappresentate nel bilancio;
in particolare, la naturale allocazione di tali entrate è, dunque, tra le
risorse di parte capitale, ordinariamente utilizzabili solo per spese di
investimento, salvo le eccezioni di legge (art. 162, comma 6, T.U.E.L.; v.
per la nozione d’investimento l’art. 3, comma 18, legge n. 350 del 2003).
Quanto, invece, alle entrate connesse al versamento dei contributi sul costo
di costruzione, la natura tributaria delle stesse le fa invece
necessariamente confluire, come già rilevato da questa Sezione nella
deliberazione n. 1/pareri/2014, nel totale delle entrate che, come tali, in
virtù del principio dell’unità di bilancio (art. 162, comma 2, T.U.E.L.),
finiscono coll’esser destinate a finanziare il totale delle spese.
E’ alla luce delle coordinate ermeneutiche innanzi esposte, che deve trovare
risposta il quesito concretamente posto dal Comune di Landriano relativo
alla possibilità dell’utilizzo delle quote di oneri relativi al trattamento
ed allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi (onere c.d.
ecologico) per il finanziamento delle spese correnti, senza particolari
vincoli di destinazione.
Invero, la soluzione non può che dipendere dalla natura che si intende
riconoscere a detti oneri: tributaria, come parrebbe implicitamente
presupporre il Comune; ovvero di “corrispettivo pubblico” nel senso innanzi
precisato.
Già l’art 10, primo comma, legge 28.01.1977 n. 10 prevedeva che l’onere
contributivo dovuto per il rilascio della concessione edilizia relativa ad
opere o impianti non destinati alla residenza va commisurato, oltre che in
relazione all’incidenza delle opere di urbanizzazione, a quella delle opere
“necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e
gassosi” ed a quelle “necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano
alterate le caratteristiche”.
Tale previsione trova oggi confermata nell’art. 19, T.U. 380/2001, rubricato
“Contributo di costruzione per opere o impianti non destinati alla
residenza”.
Se ne deduce che l’onere c.d. ecologico grava solo sugli insediamenti di
tipo industriale per il maggior impatto di tali costruzioni sul territorio
ed è, infatti, rapportato alle opere e ai correlati oneri economici gravanti
sulla collettività, che siano necessari per eliminare l’impatto ambientale
negativo che la realizzazione degli impianti industriali può comportare sul
territorio.
Più precisamente, non vengono in considerazione solo le usuali opere per lo
smaltimento dei rifiuti e delle sostanze inquinanti che altrimenti
graverebbero sull’amministrazione locale, ma anche tutti quegli interventi
che si richiedono per la sistemazione dell’ambiente circostante, le cui
caratteristiche possono risultare alterate in vario modo sia dalle opere
costituenti specificamente lo stabilimento industriale autorizzato, sia
dagli stessi impianti di disinquinamento realizzati.
In altre parole, l’onere di cui si discorre riguarda la partecipazione del
privato agli interventi tesi a mitigare il complessivo impatto ambientale
delle opere autorizzate e va commisurato agli effetti inquinanti che, seppur
mantenuti nei limiti consentiti dalla legge, devono per quanto possibile
essere contrastati con adeguati interventi il cui costo economico
graverebbe, altrimenti, per intero sulla collettività.
La ragione giustificativa di tale onere appare, dunque, immediatamente
assimilabile a quella degli oneri di urbanizzazione in senso stretto,
trattandosi in entrambi i casi di modalità di concorso del privato agli
“oneri sociali” derivanti dalla nuova costruzione.
Tale conclusione è avvalorata dalla lettera del T.U. Ediliza, che nell’art.
19 tratta in modo sostanzialmente unitario il contributo pari alla incidenza
delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo
smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie
alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche,
rivelandone così la medesima natura (“Il permesso di costruire relativo a
costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali
dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi comporta
la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere di
urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei
rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione
dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche. La incidenza di tali
opere é stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base a
parametri che la regione definisce con i criteri di cui al comma 4, lettere
a) e b), dell'articolo 16, nonché in relazione ai tipi di attività
produttiva”).
Del resto, l’assimilazione del c.d. onere ecologico agli oneri di
urbanizzazione è confermata anche dalla giurisprudenza amministrativa,
secondo la quale: “il contributo commisurato agli oneri di urbanizzazione ha
carattere generale perché prescinde totalmente dall’esistenza o meno delle
singole opere di urbanizzazione, ha natura di prestazione patrimoniale
imposta e viene determinato senza tenere conto né dell’utilità che il
privato ritrae dal titolo edificatorio, né delle spese effettivamente
occorrenti per realizzare le suddette opere. Analoghe caratteristiche vanno
per coerenza riconosciute al contributo commisurato al c.d. “onere
ecologico”, arbitrarie essendo distinzioni che non troverebbero fondamento
né nella lettera della legge, né nella “ratio” dell’istituto” (Consiglio di
Stato 2325/2007; Tar Emilia Romagna 431/2008).
La medesima giurisprudenza ha di conseguenza ritenuto applicabile all’onere
ecologico, in assenza di parametri regionali, la disposizione di cui
all’art. 16, T.U. edilizia (espressamente riferita alla sola fattispecie del
contributo concernete gli oneri di urbanizzazione), laddove prescrive che
nel caso di mancata definizione delle tabelle parametriche da parte della
regione e fino alla definizione delle stesse, i comuni provvedono, in via
provvisoria, con deliberazione del consiglio comunale.
Alla luce delle considerazioni che precedono appare, dunque, corretto
ascrivere alla categoria dei “corrispettivi di diritto pubblico” anche gli
oneri relativi al trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti solidi,
liquidi e gassosi.
Ne deriva che essi hanno necessariamente natura di entrate di parte
capitale, derivando in definitiva dall’utilizzo del territorio, cioè
dall’irreversibile (almeno in linea tendenziale) impiego di un bene
pubblico, ed essendo intrinsecamente destinate alla realizzazione di opere
volte al razionale e salubre impiego dello stesso, destinate comunque ad
incrementare il “patrimonio immobiliare” dell’ente.
Anche in tale ipotesi, infatti, si verte nell’ambito di entrate naturalmente
destinate all’incremento dei beni annoverabili nel “patrimonio” latamente
inteso dell’ente e che, come tali, devono essere rappresentate nel bilancio;
in particolare la naturale allocazione di tali entrate è, dunque, tra le
risorse di parte capitale, ordinariamente utilizzabili solo per spese di
investimento, salvo le eccezioni di legge.
Da ultimo, deve osservarsi che tale eccezione, per gli anni 2016 e 2017, è
rappresentata dalla legge n. 208 del 2015, secondo la quale “per gli anni
2016 e 2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste
dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001,
n. 380, fatta eccezione per le sanzioni di cui all’articolo 31, comma 4-bis,
del medesimo testo unico possono essere utilizzati per una quota pari al 100
per cento per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del
patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere
pubbliche” (art. 1, comma 737).
Tale disposizione contiene una specifica previsione facoltizzante, circa la
destinazione dell’entrata, di cui l’ente, nella propria autonomia, potrà
dunque avvalersi negli anni 2016 e 2017 e viene a configurare un’espressa
disciplina, parzialmente derogatoria rispetto al regime ordinario
d’imputazione di detti proventi, che tuttavia conferma a contrario, sotto il
profilo concettuale, la tendenziale annoverabilità degli stessi, quantomeno
pro parte, fra quelli di parte capitale (tanto che per destinare
integralmente tali entrate a spese di parte corrente il legislatore ha
ritenuto necessario dettare una disposizione ad hoc).
Spetta al comune di Landriano, sulla base dei principi espressi dalla
giurisprudenza contabile, oltre che da questo stesso parere, valutare la
fattispecie concreta al fine di addivenire, nel caso di specie, al migliore
esercizio possibile del proprio potere di autodeterminazione in riferimento
alla corretta copertura della spesa, nel rispetto del quadro legislativo
ratione temporis di volta in volta applicabile, anche in considerazione
della natura propria dello specifico intervento concretamente realizzato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere
11.05.2017 n. 144). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
possibilità di sostituzione del versamento degli oneri di urbanizzazione
dovuti per la realizzazione di un centro per anziani non autosufficienti
mediante erogazione di servizi alla persona a carico del Comune.
Non è ammissibile per il comune lo scomputo dell’entrata
corrispondente al provento relativo al permesso di costruire (pur
teoricamente compensata da una futura eventuale minore spesa) al di fuori
dei casi espressamente previsti dalla legge.
Detto altrimenti, non risulta ammissibile la sostituzione di un onere di
pagamento determinante un provento immediato e certo con una prestazione in
termini di servizi indeterminabile sia sotto il profilo temporale
(l’eventuale sconto dipenderebbe da una serie di variabili non determinabili
a priori, quali ad esempio il numero degli anziani non abbienti e l’entità
dello sconto) che quantitativo.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Pasian di Prato
(UD) ha
formulato alla Sezione una richiesta di motivato avviso con cui ha
rappresentato che:
- L’art. 1, c. 737, della L. 208/2005 dispone che per gli anni 2016
e 2017 i proventi delle concessioni edilizie e delle relative sanzioni, di
cui al DPR 380/2001, fatta eccezione per le sanzioni previste dall’arti 31,
comma 4-bis, possono essere utilizzati per una quota pari al 100% per spese
di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale,
nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche;
- L’art. 1, comma 460, della L. 232/2016 dispone che per l’anno
2018 (nel testo della norma “dal 01.01.2018”) i proventi delle
concessioni edilizie e delle relative sanzioni, di cui al DPR 380/2001, sono
destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e
manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei
centri storici e nelle periferie degradate a interventi di riuso e
rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive,
all’acquisizione di e alla realizzazione di aree verdi destinate ad uso
pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l’insediamento di
attività di agricoltura nell’ambito urbano;
- Il Comune ha stipulato una convenzione di urbanizzazione per la
realizzazione di un fabbricato ad uso residenza per anziani non
autosufficienti nella quale si prevede, oltre al versamento diretto, la
possibilità di procedere allo scomputo degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria e del costo di costruzione dovuti per il rilascio di
un permesso di costruire, mediante servizi compensativi alla persona che
sarebbero di spettanza del Comune in quanto diretti a persone non abbienti,
e sarebbero svolti direttamente da parte del titolare del permesso di
costruire o da società controllate. Ad esempio il Comune ventila l’ipotesi
di una riduzione o compensazione delle rette di ricovero per anziani
indigenti, qualora la retta sia in tutto o in parte a carico del Comune in
qualità di domicilio di soccorso;
- Il quesito riguarda le modalità di contabilizzazione dei servizi
eventualmente erogati dalla società in base alla convenzione (rilevazione
della spesa tramite mandato ed emissione in entrata di apposita reversale
per lo stesso importo) nonché la conformità dello scomputo, collegato a
servizi alla persona, alla normativa disciplinante le possibilità di
scomputo e i particolari vincoli di destinazione per detti proventi.
...
La richiesta dell’Ente riguarda la possibilità di scomputare in tutto o in
parte gli oneri di urbanizzazione (senza distinzione tra urbanizzazione
primaria secondaria e costo di costruzione) dovuti per la realizzazione di
una residenza per anziani non autosufficienti tramite la compensazione con
uno “sconto” sull’eventuale pagamento dovuto dall’Ente qualora lo
stesso dovesse farsi carico delle rette di degenza per anziani non abbienti
ricoverati nella predetta struttura.
L’Ente richiede, altresì, se sia corretta la contabilizzazione
dell’operazione sotto forma di una regolazione contabile che registri nella
spesa l’importo dovuto per i servizi alla persona (ospitalità ad anziani non
abbienti) resi dal titolare del permesso di costruzione (o da società dallo
stesso controllate) in base alla convenzione ed emetta contemporaneamente
apposita reversale nella parte entrata per un importo corrispondente.
Premesso che le determinazioni definitive relative alle decisioni in termini
di allocazione della spesa restano riservate all’ambito dell’esclusiva
discrezionalità dell’Ente, la problematica posta nella richiesta di motivato
avviso può essere ricondotta alla materia della contabilità pubblica in
quanto attinente il rispetto degli equilibri e l’adeguatezza delle coperture
disposte in bilancio.
Prima di effettuare valutazioni più specifiche sull’ambito applicativo delle
disposizioni recentemente introdotte in merito nell’art. 1. comma 737, dalla
L. 208/2015 e nell’art. 1, commi 460-461, della L. 232/2016 in relazione
alle destinazioni ammissibili per l’allocazione di tali proventi, richiamate
dal Comune nella richiesta di parere, appare opportuno considerare la
disciplina e la finalità degli oneri imposti al privato che richieda
l’autorizzazione ad effettuare un intervento costruttivo.
L’art. 22 della L.R. 19/2009, codice regionale dell’edilizia, stabilisce che
il permesso di costruire risulta, comunque, subordinato all’esistenza delle
opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte del Comune
dell’attuazione delle stesse per il periodo di validità del permesso
medesimo ovvero all’impegno, da parte degli interessati, di procedere
all’attuazione delle opere di urbanizzazione richieste dal Comune
contemporaneamente alla realizzazione dell’intervento oggetto del permesso.
Il successivo art. 29 prevede che il rilascio del permesso di costruire
comporti la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli
oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione (fatti salvi i casi
di esonero o riduzione previsti dagli artt. 30 e 32 della medesima legge
regionale) consentendo, tuttavia, lo scomputo totale o parziale del
contributo nell’ipotesi in cui il richiedente il permesso si obbligasse a
realizzare direttamente le opere di urbanizzazione necessarie. Giova
ricordare che le opere di urbanizzazione primaria elencate nell’art. 5 del
Regolamento emanato con D.P.Reg. 18 del 20.01.2012 riguardano precipuamente
strade, reti fognarie idriche e di distribuzione dell’energia elettrica e
del gas e altri interventi sostanzialmente imprescindibili per consentire
l’insediamento umano, mentre le opere di urbanizzazione secondaria prevedono
la realizzazione di scuole, strade di quartiere impianti sportivi e altri
interventi di completamento dell’insediamento urbano mirati ad una migliore
fruizione dei nuovi interventi costruttivi anche sotto il profilo della
convivenza sociale.
Natura diversa può, invece, riconoscersi al costo di costruzione che, come
può desumersi dall’art. 6 quarto comma del Regolamento citato, rappresenta
sostanzialmente un onere corrispondente all’incremento di valore determinato
dall’intervento edilizio. Trattandosi di entrate non continuative e
straordinarie, correlate alla necessaria realizzazione di infrastrutture sul
territorio, i proventi da oneri urbanistici sono stati ab origine
considerati entrate in conto capitale e, in quanto tali, destinati
esclusivamente alla coperture di spese di investimento.
Tra queste, va tenuta presente proprio la necessità per l’Ente di
provvedere, nel caso in cui il privato richiedente non se ne sia accollato
direttamente la realizzazione, alle opere di urbanizzazione primaria.
Tuttavia, nel tempo, probabilmente in ragione di particolari situazioni di
difficoltà finanziaria degli enti, successivi puntuali interventi
legislativi hanno eccezionalmente consentito la destinazione di detti
proventi anche alla copertura di spese correnti (una esaustiva ricostruzione
della successione degli interventi legislativi di deroga in materia è
contenuta nella deliberazione della Sezione di Controllo della Lombardia
parere 09.02.2016 n. 38).
Peraltro, la normativa più recente, intervenuta in un contesto ormai
fortemente caratterizzato dai principi della cosiddetta “armonizzazione
contabile”, ha segnato un deciso cambiamento di rotta rispetto alle
deroghe consentite in epoche precedenti: l’art. 1, comma 460, della L.
232/2016 dispone che a decorrere dall’01.01.2018 i proventi delle
concessioni edilizie e delle relative sanzioni, di cui al DPR 380/2001,
siano destinati “esclusivamente e senza vincoli temporali” alla
realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi
compresi nei centri storici e nelle periferie degradate a interventi di
riuso e rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive,
all’acquisizione di e alla realizzazione di aree verdi destinate ad uso
pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l’insediamento di
attività di agricoltura nell’ambito urbano.
Giova ricordare che, in periodo di poco precedente, a conferma di un
orientamento restrittivo sulle eccezioni ai principi in materia di
destinazione di entrate di parte capitale, la norma regionale (art. 18,
comma 25, della LR 18/2011) che prorogava per il 2013 e 2014 la possibilità
prevista dall’art. 11, comma 4, della LR. 22/2010, di destinare per intero i
proventi da urbanizzazione a spese correnti, è stata abrogata a decorrere
dall’01.01.2013 dall’art. 14, comma 38, della LR 7/2012 (cfr. Sezione
Controllo Friuli Venezia Giulia
parere 24.06.2014 n. 112).
Il tenore della recente disposizione (art. 1, comma 460, L. 232/2016),
introdotta dal Legislatore statale con effetto dal prossimo esercizio
finanziario, ha ricondotto l’allocazione dei proventi da urbanizzazione
all’alveo della naturale destinazione di una risorsa, eventuale e
irripetibile, utile a finanziare l’area degli interventi di conservazione e
sviluppo dei beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile,
necessari anche ai fini di un bilanciamento del “consumo del territorio”
conseguente all’intervento costruttivo di nuova realizzazione. Una tale
interpretazione, nel senso di un ritorno alle “origini” e ai principi
generali, può, peraltro, farsi discendere anche dallo stesso tenore
letterale della norma introdotta con la legge di bilancio 2017: il comma
460, infatti, dispone la destinazione dei proventi dei titoli abitativi
edilizi “…a decorrere dall’01.01.2018… e senza vincoli temporali…”
ancorandola ad interventi strettamente correlati alle opere di
urbanizzazione o in generale ad interventi di tutela e qualificazione del
territorio.
Il legislatore sembrerebbe quindi aver provveduto ad un intervento
stabilizzatore della disciplina della materia scegliendo una forma
espressiva diversa dai precedenti interventi riferiti in modo puntuale ad
esercizi specifici. L’attuale disciplina introdotta a partire
dall’01.01.2018 ha ricondotto la gestione dei proventi derivanti dai titoli
abitativi edilizi, in quanto entrata eccezionale e non ricorrente, ad un
utilizzo compatibile con un rispetto sostanziale dell’equilibrio di parte
corrente e non suscettibile di sortire l’effetto di sottrarre le risorse
necessarie ad investimenti comunque obbligatori.
In un’ottica di sana gestione finanziaria e di attenzione alla qualità e
congruità delle coperture, le norme derogatorie al rispetto di tali principi
devono essere, pertanto, oggetto di un’interpretazione assolutamente
restrittiva.
Premesse queste considerazioni relative al ristretto ambito
interpretativo che deve essere riconosciuto alle eccezioni in materia di
destinazione di entrate in conto capitale al finanziamento di spese della
medesima natura, si deve rilevare che l’esempio ipotizzato nel quesito non
risulta, comunque, riconducibile alla normativa citata, in quanto l’Ente non
riscuoterebbe risorse da riservare a destinazioni più o meno riconducibili
alle eccezioni previste dalla legge, ma accetterebbe, in applicazione della
convenzione, di sostituire un’entrata certa e immediata con una minore spesa
del tutto aleatoria ed eventuale.
Si tratterebbe, in buona sostanza, di una prestazione in luogo
dell’adempimento di cui all’art. 1197 c.c. che non risulta in alcun modo
riconducibile all’unico caso ammesso dalla legge, relativo all’impegno,
assunto contrattualmente dal privato, di realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione che sarebbero di spettanza del comune.
Al di fuori della
predetta ipotesi, prevista dall’art. 29, secondo comma, del codice regionale
dell’edilizia e in difetto di ulteriore specifica previsione legislativa (in
tal senso risulta d’interesse anche il parere n. 60/2017/PAR reso dalla Sezione Emilia
Romagna in relazione ad una ipotesi di datio in solutum in materia
tributaria) non risulta ammissibile la sostituzione di un
onere di pagamento determinante un provento immediato e certo con una
prestazione in termini di servizi indeterminabile sia sotto il profilo
temporale (l’eventuale sconto dipenderebbe da una serie di variabili non
determinabili a priori, quali ad esempio il numero degli anziani non
abbienti e l’entità dello sconto) che quantitativo.
Una tale conclusione si desume, del resto, anche dalla lettura del principio
contabile (Principio contabile concernente la contabilità finanziaria
Allegato 4/2 al D.Lgs.118/2011 punto 3.11) che consente l’imputazione della
regolazione contabile dell’ipotesi di scomputo (evidentemente riferita ai
casi di opere di urbanizzazione realizzate direttamente dal privato
richiedente) solo nell’esercizio in cui venga effettuato il collaudo e la
consegna delle opere.
Da tutto quanto premesso emerge non solo che la destinazione dei proventi da
urbanizzazione deve essere esclusivamente correlata, in un’ottica volta ad
assicurare la copertura degli interventi necessari a consentire
l’insediamento umano nel territorio, alle specifiche ipotesi previste dalla
legge, ma anche che non è ammissibile per l’Ente lo scomputo dell’entrata
corrispondente al provento relativo al permesso di costruire (pur
teoricamente compensata da una futura eventuale minore spesa) al di fuori
dei casi espressamente previsti dalla legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia,
parere 11.05.2017 n. 41). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: L'art.
92, comma 5, consente l'erogazione dell'incentivo, ai soli dipendenti
espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile
del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro
collaboratori),
riferiti all'aggiudicazione ed esecuzione "di un'opera o un lavoro".
Il
regolamento deve ripartire gli incentivi in maniera conforme alle
responsabilità attribuite e previo accertamento positivo delle specifiche
attività svolte dai predetti dipendenti, con la conseguenza che le quote
parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi
dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
costituiscono economie.
La previsione, da parte di un regolamento interno,
della corresponsione dell'emolumento anche nell'ipotesi di attività svolta
da un soggetto esterno risulta in contrasto con la ratio della disposizione
legislativa, concretando un'ipotesi di duplicazione di spesa.
Il primo
presupposto per l¿erogazione dell'incentivo in esame è comunque costituito dall'applicabilità del d.lgs. n. 163/2006.
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Il Sindaco del Comune di Seregno (MI), con nota 04.03.2014 (prot. Comunale
n. 10252/14), ricevuta dalla Corte dei Conti il 10.03.2013 (prot. n.
2978), ha formulato una richiesta di parere in merito all’interpretazione
dell’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006.
In particolare il
rappresentante dell’ente chiede se “possa prevedersi in sede regolamentare
l’incentivo FIP destinato al personale comunale che svolga le funzioni di
a)
responsabile unico del procedimento,
b) collaudatore, nel caso di opere
pubbliche progettate da professionisti esterni all’ente e di
c) collaudatore
nel caso di opere pubbliche realizzate da privati a scomputo di oneri di
urbanizzazione”.
...
L’art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163/2006 (c.d. Codice dei contratti pubblici),
oggetto della richiesta di parere così recita: “Una somma non superiore
al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell’amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui
all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e
assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile
del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano
della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per
cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità
professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La
corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di
progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può
superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo
lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte
dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
costituiscono economie”.
La disciplina in discorso è stata già oggetto di attenzione da parte di
precedenti pronunce della Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione
Autonomie
deliberazione 13.11.2009 n. 16 e Sezione Lombardia
parere 08.10.2012 n. 425 e
parere 24.10.2012 n. 453) alle cui
motivazioni e conclusioni può farsi riferimento.
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dall’art. 92 del Codice dei
contratti pubblici, costituisce uno dei casi nei quali il legislatore,
derogando al generale principio per cui il trattamento economico è fissato
dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale,
rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa
contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
Rispetto ai generali principi di onnicomprensività e determinazione
contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico l’art. 92, comma 5,
del d.lgs. 163/2006 costituisce un’eccezione che si presta a stretta
interpretazione e per la quale sussiste il divieto di analogia posto
dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso
Sezione Lombardia,
parere 08.10.2012 n. 425).
Come evincibile dalla lettera della disposizione, la legge pone alcuni
paletti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la
disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto
previa contrattazione decentrata.
Il regolamento interno deve rispettare quanto disposto dall’art. 92, comma
5, che consente l’erogazione dell’incentivo, dal punto di vista soggettivo
–profilo oggetto della richiesta di parere-, ai soli dipendenti espletanti
gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori),
riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non,
pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non
presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario
espletamento interno di tutte le attività (per esempio, la progettazione)
purché siano rispettate alcune condizioni. In particolare il regolamento
deve ripartire gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità
attribuite e previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte
dai predetti dipendenti, con la conseguenza che “le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi
dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
costituiscono economie”.
Ne consegue che il comma 5 in esame impone la ripartizione del trattamento
economico accessorio ivi previsto in quote di prestazioni frazionate, sì da
poterlo corrispondere –anche in caso di prestazioni parzialmente
esternalizzate– limitatamente a quelle svolte da personale interno (in
termini Sezione Veneto
parere 22.11.2013 n. 361).
Presupposto indefettibile dell’erogazione dell’incentivo è infatti
chiaramente costituito dall’effettivo espletamento, da parte del dipendente,
dell’attività alla quale si riferisce. Già la normativa generale sul
pubblico impiego e, in particolare, l’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001
dispone che “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti
economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente
rese”.
In aderenza al suddetto criterio generale di attribuzione del trattamento
accessorio il legislatore, anche nella materia degli incentivi di cui si
discute, ha previsto per il caso in cui l’accertamento delle specifiche
attività rese dai pubblici dipendenti sia negativo la medesima regola della
devoluzione in economia stabilita per il caso di attività eseguita da
professionisti esterni. Pertanto, la previsione, da parte di un regolamento
interno, della corresponsione dell’emolumento anche nell’ipotesi di attività
svolta da un soggetto esterno risulta in contrasto con la ratio della
disposizione legislativa, concretando un’ipotesi di duplicazione di spesa.
Alla luce del dettato normativo e dei precedenti sopra richiamati, appare
necessario ribadire che l’amministrazione non può, in sede di regolamento,
adottare disposizioni in contrasto con quanto previsto dall’art. 92 comma 5
del d.lgs. n. 165/2006 e dai principi posti in tema di pubblico impiego dal
d.lgs. n. 165/2001 e dall’ulteriore normativa di rango primario. Ne deriva
che il regolamento deve prevedere analiticamente, e graduare, le percentuali
spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da
permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano svolte da
professionisti esterni, la devoluzione in economia delle relative quote del
fondo incentivante (in termini Sezione Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72).
Il medesimo regolamento deve altresì contenere la ripartizione, con i
criteri individuati dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006,
dell’incentivo in discorso fra i dipendenti che hanno adempiuto agli
incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori)
sul presupposto –oggetto di accertamento da parte del dirigente preposto
alla struttura competente- che la specifica attività alla quale è ancorato
il beneficio economico non sia stata svolta da un professionista esterno e
anzi sia stata espletata nel concreto dal soggetto incaricato di svolgerla.
Ciò vale anche per il responsabile del procedimento e l’incaricato del
collaudo di cui alla richiesta di parere.
Al riguardo è però necessario precisare che il primo presupposto per
l’erogazione dell’incentivo in esame è comunque costituito
dall’applicabilità del d.lgs. n. 163/2006.
Pertanto nelle ipotesi di assenza
di tale condizione –ipotesi che ad esempio ricorre, per espressa
disposizione normativa, per l’esecuzione diretta, a scomputo degli oneri di
urbanizzazione, delle opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore
alla soglia di cui all’art. 28, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006,
prevista dall’art. 16, comma 2-bis, del d.p.r. n. 380/2001- manca il
presupposto preliminare perché il regolamento disponga la corresponsione
dell’indennizzo.
Ciò anche in considerazione del fatto che l’art. 92, comma
5, del d.lgs. 163/2006 costituisce, per i motivi anzidetti, un’eccezione
che, in quanto tale, deve essere interpretata in modo stringente e senza
poter applicare il criterio dell’analogia
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere
25.03.2014 n. 131). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Domanda di sanatoria – Doppia conformità – Verifica di
conformità delle opere abusive agli strumenti urbanistici –
Rilascio del permesso in sanatoria – PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE – Attività vincolata della P.A. – Necessità
di motivazione del pubblico funzionario – Art. 36 D.P.R.
380/2001 – Giurisprudenza.
L’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 si
riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e
stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al
momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della
presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad
un’attività vincolata della P.A., consistente
nell’applicazione alla fattispecie concreta di previsioni
legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non
elastica, che non lasciano all’Amministrazione medesima
spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
Pertanto, costituendo la verifica della “doppia conformità”
il fulcro di tale potere in ordine all’atto adottato ex art.
36 DPR 380/2001, consegue che del relativo accertamento deve
darsi conto in motivazione come dimostrazione della avvenuta
effettuazione della funzione affidata al pubblico
funzionario e quale strumento di controllo del corretto
esercizio della medesima.
...
Sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità” –
Verifica affidata al giudice penale – Responsabile del
procedimento amministrativo – Motivazione dell’atto
scrutinato – Effetti.
In materia urbanistica, la verifica
affidata al giudice penale, diretta a stabilire la
sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità”,
passa per il previo accertamento di una motivazione che dia
conto dell’avvenuto, positivo esercizio della funzione di
sanatoria dell’atto adottato ex art. 36 DPR 380/2001,
incentrata sulla verifica di conformità delle opere abusive
agli strumenti urbanistici vigenti al momento della loro
realizzazione e della presentazione della richiesta di
sanatoria.
Cosicché, l’eventuale esito negativo della verifica, sul
piano motivazionale dell’atto scrutinato, dell’avvenuto
espletamento di tale attività, portando all’esclusione del
controllo “tipico” dell’atto di sanatoria ex art. 36 DPR
380/2001, consente al giudice penale già di escludere
qualsivoglia estinzione sopravvenuta del reato edilizio.
Di converso invece, in caso di verifica positiva del profilo
motivazionale dell’atto di sanatoria nei termini anzidetti,
non può escludersi che il giudice penale approfondisca
ulteriormente, ove ritenuto opportuno, il tema della
sussistenza del requisito della “doppia conformità”
attraverso una verifica “in concreto” dell’avvenuto rispetto
degli strumenti urbanistici nel predetto intervallo
temporale, in grado in tal modo di confermare o meno la
correttezza del giudizio di doppia conformità sostenuto in
motivazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.09.2019 n. 37050 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Attività
connesse riconducibili all’ambito agricolo.
---------------
Agricoltura - Attività connesse - Riconducibilità all'ambito agricolo -
Presupposti.
Le attività connesse, per essere riconducibili
all’ambito agricolo, devono essere svolte dallo stesso imprenditore agricolo
e devono riguardare prevalentemente prodotti propri (1).
---------------
(1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 2135 c.c. esclude che
possano qualificarsi come connesse attività ausiliare dell’agricoltura
svolte da chi già non eserciti un’attività qualificabile come essenzialmente
agricola ai sensi del primo e secondo comma dello stesso art. 2135 c.c.
Il comma 423 della legge finanziaria 2006 ha ampliato le categorie delle
attività agricole connesse di cui al terzo comma dell’art. 2135 c.c.,
riconducendovi anche la produzione di energia elettrica o calorica derivante
da fonti rinnovabili agroforestali (biomasse) e fotovoltaiche.
L’art. 1, comma 369, della legge finanziaria 2007 ha sostituito il comma n.
423 sopra citato, riformulandolo nel senso di sottolineare che, sebbene la
connessione sia stabilita ex lege, devono essere rispettate le
condizioni di prevalenza e di esercizio da parte dello stesso imprenditore
agricolo.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 66/2015 ha evidenziato che il
legislatore ha delineato la categoria delle attività connesse utilizzando il
concetto della prevalenza dell’attività propriamente agricola nell’economia
complessiva dell’impresa; nello stesso senso dispone l’art. 32, d.P.R. n.
917 del 1986 ai fini dell’Irpef.
La ratio dell’art. 52, comma 2-bis, d.l. n. 83 del 2012 è quella di
concentrare nello stesso imprenditore agricolo lo svolgimento dell’attività
primaria diretta alla produzione agricola e quella accessoria di
utilizzazione di un biodigestore, alimentato con i prodotti della propria
azienda o di quella di altre aziende a lui collegate.
Nel concetto di agroindustria, da intendersi come l’insieme dei processi
produttivi dedicati alla raccolta, al trattamento e alla trasformazione dei
prodotti agricoli, non può rientrare, quindi, l’attività industriale di
produzione di carburanti svolta dalla società appellata.
Ha aggiunto la Sezione che il tema dei sottoprodotti è particolarmente
delicato perché incide sulla materia ambientale e sulla salute umana.
Sebbene la normativa europea (direttiva 2008/98/CE) promuova il riciclaggio
dei rifiuti, ed incentivi le fonti rinnovabili per la produzione di energia
elettrica (direttiva 2001/77/CE, direttiva 2009/28/CE), sollecitando il
massimo sfruttamento delle risorse, la riduzione dei rifiuti ed il loro
recupero/riciclaggio, nondimeno la qualificazione come sottoprodotto di un
residuo necessita particolare cautela e presuppone la verifica della
sussistenza delle condizioni caso per caso.
Nella specie l’Amministrazione, facendo applicazione del principio di
precauzione e prevenzione, nel disciplinare il digestato per usi agronomici,
ha ritenuto di ammettere i soli materiali per i quali l’impiego doveva
ritenersi sicuramente privo di rischi sotto il profilo ambientale e
sanitario e, dunque, presuntivamente innocuo per l’ambiente e per la salute
umana
(Consiglio diStato, Sez. III,
sentenza 04.09.2019 n. 6093 -
tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
richiesta avente ad oggetto il rilascio delle credenziali informatiche di
accesso all’area “Contabile e Patrimonio” appare esorbitante rispetto alla
ratio ed al
perimetro del diritto di accesso esercitabile da parte dei consiglieri
regionali, sicché risulta legittimo il diniego opposto.
In linea generale, l'accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali e
provinciali, e, per estensione, anche regionali, espressione delle loro
prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in
relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo
del segreto d'ufficio che lo astringe.
---------------
Vero è che l’accesso previsto dall’art. 43 del T.U.E.L. -pacificamente
estensibile ai consiglieri regionali- deve essere letto ed applicato in
conformità alla progressiva digitalizzazione che ha interessato negli ultimi
anni l’attività degli uffici pubblici, ciò che rende sicuramente ammissibile
l’accesso mediante l’utilizzo di sistemi informatici.
E’ però parimenti vero che la concreta modalità dell’accesso con l’impiego
di applicativi informatici non deve determinare la elusione dei principi di
fondo che conformano l’esercizio del relativo diritto, nei termini stabiliti
dagli artt. 22 e 24 della legge n. 241 del 1990.
In particolare, resta ferma la regola per cui l’esercizio del diritto di
accesso presuppone la presentazione di una richiesta specifica e puntuale,
che deve riferirsi a documenti preesistenti e già formati.
Invece, nel caso di specie, il rilascio delle credenziali informatiche di accesso
all’area “Contabile e Patrimonio”, nei termini
richiesti dai ricorrenti, consentirebbe ai consiglieri regionali di accedere
alla generalità indiscriminata dei documenti relativi alla contabilità
dell’ente in mancanza di apposita istanza.
Tale forma di accesso “diretto” si risolve in un monitoraggio assoluto e
permanente sull’attività degli uffici, tale da violare la ratio
dell’istituto, che, così declinato, eccede strutturalmente la sua funzione
conoscitiva e di controllo in riferimento ad una determinata informazione
e/o ad uno specifico atto dell’ente, siccome ritenuti strumentali al mandato
politico, per appuntarsi, a monte, sull’esercizio della funzione propria
dell’area “Contabile e Patrimonio” e sulla complessiva attività degli
uffici, con finalità essenzialmente esplorative, che eccedono dal perimetro
delle prerogative attribuite ai consiglieri regionali.
In tal senso è stato affermato che “è legittimo il diniego opposto alla
richiesta tendente ad ottenere la documentazione relativa a molteplici
settori dell'Ente ed ancorata non ad un determinato periodo di tempo, ma
sostanzialmente riferita anche ad epoche future. Infatti una richiesta così
strutturata, tesa ad utilizzare, in lettura, gli applicativi informatici del
Comune, appare preordinata a compiere un sindacato generalizzato
sull'attività, presente, passata e futura, degli organi decidenti,
deliberanti e amministrativi dell'Ente e non risulta strumentale al mandato
politico, che deve essere riferito a singole problematiche che di volta in
volta interessano l'elettorato e desumibili da atti e documenti già in
possesso dell’Amministrazione … omissis … In definitiva, compete al
richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse,
attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che non può
mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia esercitato da
soggetti cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata. Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a
fondamento del contestato diniego, secondo cui il rilascio delle richieste
credenziali si tradurrebbe in un accesso generalizzato e indiscriminato a
tutti i dati della corrispondenza in entrata e uscita e della contabilità”.
Più di recente, la giurisprudenza del TAR ha ritenuto legittimo il
rilascio delle credenziali di accesso al sistema informatico dell’ente ai
soli fini della consultazione del protocollo informatico, avendo cura di
precisare espressamente che tali credenziali non devono consentire l’accesso
diretto ai documenti: “… al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla
totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso
da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili
dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al
contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle
ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di
richiesta specifica)”.
---------------
6. Il ricorso è infondato.
6.1. Innanzi tutto si osserva che è condivisibile quanto sostenuto dai
ricorrenti in riferimento al fatto che il diritto di accesso del consigliere
regionale non incontra il limite della riservatezza.
Infatti, sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha recentemente
chiarito che: “l'accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali e
provinciali, e, per estensione, anche regionali, espressione delle loro
prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in
relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo
del segreto d'ufficio che lo astringe” (Cons. Stato, Sez. V, 02.03.2018 n.
1298).
Ciò nondimeno, la predetta questione non è conferente nel caso di specie,
dal momento che il limite della riservatezza, inizialmente opposto dalla
Regione Molise con la nota del 01.03.2019, non ha trovato ulteriore
riscontro in sede di riesame.
6.2. Con la nota in data 05.03.2019 la Regione Molise ha conclusivamente
giustificato il provvedimento di diniego in ragione del fatto che “la
concessione della richiesta abilitazione equivarrebbe ad un accesso
indiscriminato e generale su non ben definiti atti d’ufficio”.
Sotto tale profilo il diniego di rilascio delle credenziali di accesso al
sistema informativo Urbi Smart appare giustificato e conforme ai principi
desumibili dalla normativa di riferimento.
Vero è che l’accesso previsto dall’art. 43 del T.U.E.L. -pacificamente
estensibile ai consiglieri regionali- deve essere letto ed applicato in
conformità alla progressiva digitalizzazione che ha interessato negli ultimi
anni l’attività degli uffici pubblici, ciò che rende sicuramente ammissibile
l’accesso mediante l’utilizzo di sistemi informatici.
E’ però parimenti vero che la concreta modalità dell’accesso con l’impiego
di applicativi informatici non deve determinare la elusione dei principi di
fondo che conformano l’esercizio del relativo diritto, nei termini stabiliti
dagli artt. 22 e 24 della legge n. 241 del 1990.
In particolare, resta ferma la regola per cui l’esercizio del diritto di
accesso presuppone la presentazione di una richiesta specifica e puntuale,
che deve riferirsi a documenti preesistenti e già formati.
Invece, nel caso di specie, il rilascio delle credenziali di accesso
all’area “Contabile e Patrimonio” del sistema Urbi Smart, nei termini
richiesti dai ricorrenti, consentirebbe ai consiglieri regionali di accedere
alla generalità indiscriminata dei documenti relativi alla contabilità
dell’ente in mancanza di apposita istanza.
Tale forma di accesso “diretto” si risolve in un monitoraggio assoluto e
permanente sull’attività degli uffici, tale da violare la ratio
dell’istituto, che, così declinato, eccede strutturalmente la sua funzione
conoscitiva e di controllo in riferimento ad una determinata informazione
e/o ad uno specifico atto dell’ente, siccome ritenuti strumentali al mandato
politico, per appuntarsi, a monte, sull’esercizio della funzione propria
dell’area “Contabile e Patrimonio” e sulla complessiva attività degli
uffici, con finalità essenzialmente esplorative, che eccedono dal perimetro
delle prerogative attribuite ai consiglieri regionali.
6.3. In tal senso è stato affermato che “è legittimo il diniego opposto alla
richiesta tendente ad ottenere la documentazione relativa a molteplici
settori dell'Ente ed ancorata non ad un determinato periodo di tempo, ma
sostanzialmente riferita anche ad epoche future. Infatti una richiesta così
strutturata, tesa ad utilizzare, in lettura, gli applicativi informatici del
Comune, appare preordinata a compiere un sindacato generalizzato
sull'attività, presente, passata e futura, degli organi decidenti,
deliberanti e amministrativi dell'Ente e non risulta strumentale al mandato
politico, che deve essere riferito a singole problematiche che di volta in
volta interessano l'elettorato e desumibili da atti e documenti già in
possesso dell’Amministrazione … omissis … In definitiva, compete al
richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse,
attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che non può
mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia esercitato da
soggetti cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata (TAR Toscana,
I, 30.03.2016, n. 563). Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a
fondamento del contestato diniego, secondo cui il rilascio delle richieste
credenziali si tradurrebbe in un accesso generalizzato e indiscriminato a
tutti i dati della corrispondenza in entrata e uscita e della contabilità”
(TAR Toscana, Sez. I, 22.12.2016 n. 1844).
6.4. Più di recente, la giurisprudenza del TAR ha ritenuto legittimo il
rilascio delle credenziali di accesso al sistema informatico dell’ente ai
soli fini della consultazione del protocollo informatico, avendo cura di
precisare espressamente che tali credenziali non devono consentire l’accesso
diretto ai documenti: “… al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla
totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso
da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili
dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al
contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle
ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di
richiesta specifica)” (TAR Basilicata, 10.07.2019 n. 599).
6.5. Per le ragioni sopra esposte la richiesta avente ad oggetto il rilascio
delle credenziali di accesso all’area “Contabile e Patrimonio” del sistema Urbi Smart o comunque la previsione di equivalenti strumenti di reperimento
di atti ed informazioni, appare esorbitante rispetto alla ratio ed al
perimetro del diritto di accesso esercitabile da parte dei consiglieri
regionali, sicché il ricorso merita di essere respinto
(TAR Molise,
sentenza 03.09.2019 n. 285 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Discrezionalità
tecnica nelle valutazioni espresse dalla Commissione giudicatrice sulle
offerte tecniche e sindacato del giudice amministrativo.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Offerta - Offerte tecniche -
Declaratoria di inammissibilità del ricorso per insindacabilità della
valutazione - Annullamento con rinvio al giudice di primo grado.
Va annullata con rinvio al giudice di primo grado la
sentenza del Tar che ha dichiarato inammissibile l’impugnazione dell’esito
di una gara pubblica per la non corretta valutazione delle offerte tecniche
sul rilievo dell’insindacabilità giurisdizionale dell’attività valutativa da
parte della Commissione giudicatrice, senza però in alcun modo supportare
tale affermazione con una almeno sintetica disamina circa il contenuto delle
censure tecniche (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che il sindacato del giudice
amministrativo sull’esercizio della propria attività valutativa da parte
della Commissione giudicatrice di gara non può sostituirsi a quello della
pubblica amministrazione, in quanto la valutazione delle offerte nonché
l’attribuzione dei punteggi da parte della Commissione giudicatrice
rientrano nell’ampia discrezionalità tecnica riconosciuta a tale organo.
Le censure che attingono il merito di tale valutazione (opinabile) sono
inammissibili, perché sollecitano il giudice amministrativo ad esercitare un
sindacato sostitutivo, al di fuori dei tassativi casi sanciti dall’art. 134
c.p.a., fatto salvo il limite della abnormità della scelta tecnica (v., tra
le numerose pronunce,
Cons. St., sez. V, 08.01.2019, n. 173;
Cons. St., sez. III, 21.11.2018, n. 6572).
Ne deriva che, come da consolidato indirizzo giurisprudenziale, per
sconfessare il giudizio della Commissione giudicatrice non è sufficiente
evidenziarne la mera non condivisibilità, dovendosi piuttosto dimostrare la
palese inattendibilità e l’evidente insostenibilità del giudizio tecnico
compiuto.
La declaratoria di inammissibilità del ricorso, senza nemmeno scrutinare
l’essenza delle sue fondamentali censure tecniche, è tuttavia una “formula
pigra” e reca una motivazione apparente, che cela un sostanziale rifiuto
di giurisdizione e un’abdicazione alla propria doverosa potestas
iudicandi da parte del giudice amministrativo anche entro il limite,
indiscusso, di un giudizio che in nessun modo intenda sostituirsi a quello
della pubblica amministrazione e, cioè, di un sindacato giurisdizionale
intrinseco, ma “debole”.
Una sentenza che quindi non eserciti alcun sindacato giurisdizionale
sull’attività valutativa da parte della Commissione giudicatrice, affermando
sic et simpliciter che il ricorso a tal fine proposto solleciterebbe
un sindacato sostitutivo del giudice amministrativo, senza però in alcun
modo supportare tale affermazione con una almeno sintetica disamina circa il
contenuto delle censure tecniche, e trincerandosi apoditticamente dietro la
natura non anomala o non manifestamente irragionevole della valutazione
espressa dalla Commissione, reca una motivazione apodittica e tautologica e,
in quanto tale, meritevole di annullamento con rinvio al primo giudice, ai
sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., per nullità della stessa in difetto
assoluto di motivazione, come ha stabilito l’Adunanza plenaria in alcune
fondamentali pronunce (Cons.
St., A.P., 28.09.2018, n. 15).
La motivazione tautologica non è sindacabile dal giudice dell’appello, in
quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato e, dunque, non è
nemmeno integrabile da detto giudice, se non con il riferimento alle più
varie, ipotetiche congetture circa la vera ratio decidendi della
sentenza impugnata, che tuttavia non è dato rinvenire nell’apparato
motivazionale, sicché una sentenza “congetturale” è, per definizione,
una non-decisione giurisdizionale –o, se si preferisce, e all’estremo
opposto, un atto di puro arbitrio– e, quindi, un atto di abdicazione al
proprio potere decisorio da parte del giudice.
Da rilevare che nel caso all'esame della Sezione non c'è stato annullamento
con rinvio perché nella sentenza impugnata una motivazione, pur embrionale,
era presente
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 02.09.2019 n. 6058 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Applicabilità
delle informazioni antimafia alle attività soggette a s.c.i.a..
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Informativa antimafia - Provvedimenti di tipo abilitativo-autorizzativo –
Attività soggette a s.c.i.a. – Applicabilità.
Le informazioni antimafia si applicano anche ai
provvedimenti autorizzatori e alle attività soggette a s.c.i.a. (1).
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(1) La Sezione del Consiglio di Stato, nel ribadire l’orientamento
già espresso dalla
sentenza n. 1109 del 22.02.2018 (e condiviso dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 4 del 18.01.2018), ha riaffermato, ancora
una volta, l’applicabilità delle informazioni antimafia anche ai
provvedimenti autorizzatori e alle attività soggette a s.c.i.a.
L’art. 89, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 prevede espressamente, alla lett.
a), che l’autocertificazione, da parte dell’interessato, che nei propri
confronti non sussistono le cause di divieto, di decadenza o di sospensione,
di cui all’art. 67, riguarda anche «attività private, sottoposte a regime
autorizzatorio, che possono essere intraprese su segnalazione certificata di
inizio attività da parte del privato alla pubblica amministrazione».
La Sezione ha ritenuto quindi che, per lo stesso tenore letterale del
dettato normativo e per espressa volontà del legislatore antimafia, che le
attività soggette a s.c.i.a. non sono esenti dai controlli antimafia, e che
il Comune ben possa e anzi debba verificare che l’autocertificazione
dell’interessato sia veridica e richiedere al Prefetto di emettere una
comunicazione antimafia liberatoria o, come nel caso di specie, revocare la
s.c.i.a. in presenza di una informazione antimafia comunque comunicatagli o
acquisita dal Prefetto.
Nulla infatti impedisce al Prefetto e, anzi, l’art. 89-bis, d.lgs. n. 159
del 2011 –che ha superato il vaglio di legittimità costituzionale (sent. n.
4 del 18.01.2018 della Corte costituzionale)– espressamente gli impone di
emettere una informazione antimafia, in luogo della comunicazione antimafia
liberatoria richiesta dal Comune, laddove accerti la sussistenza di
tentativi di infiltrazione mafiosa nell’impresa, anche quando tale richiesta
sia effettuata in ipotesi di s.c.i.a. e/o durante i controlli che concernono
le attività ad esse soggette, potendo le verifiche di cui all’art. 88, comma
2, essere attivate anche nel caso di autocertificazione, previsto dall’art.
89, comma 2, lett. a), anche per la s.c.i.a..
Una visione moderna, dinamica e non formalistica del diritto amministrativo,
quale effettivamente vive e si svolge nel tessuto economico e
nell’evoluzione dell’ordinamento, individua un rapporto tra amministrato e
amministrazione in ogni ipotesi in cui l’attività economica sia sottoposta
ad attività provvedimentale, che essa sia di tipo concessorio o
autorizzatorio o, addirittura soggetta a s.c.i.a., come questo Consiglio, in
sede consultiva, ha chiarito nei numerosi pareri emessi in ordine
all’attuazione della l. n. 124 del 1015 (v., in particolare e tra gli altri,
il parere n. 839 del 30.03.2016 del Consiglio di Stato sulla riforma della
disciplina della s.c.i.a.).
La natura vincolata della revoca della s.c.i.a. o, comunque dir si svoglia,
l’effetto inibitorio conseguente all’emissione della documentazione
antimafia (anche nella forma dell’informazione antimafia), applicabile anche
all’attività soggetta a s.c.i.a. per stessa previsione legislativa (art. 89,
comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011), escludono qualsivoglia contrasto con
l’affermata natura privatistica dell’attività soggetta a s.c.i.a.
La stessa Corte costituzionale, di recente, ha chiarito che l’attività
soggetta a s.c.i.a., pur orientata al principio della liberalizzazione, non
è esente da controlli e verifiche, previste dall’art. 19, l. n. 241 del
1990, «cosicché la fase amministrativa che ad essa accede costituisce una
–sia pur importante– parentesi puntualmente delimitata nei modi e nei tempi»
(ord. n. 45 del 13.03.2019) e ciò vale, a maggior ragione, anche per i
controlli antimafia
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 02.09.2019 n. 6057 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Necessità
di sottoporre a V.I.A. normativamente non obbligatoria le modifiche ad un
progetto a suo tempo sottoposto a V.I.A..
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Ambiente - Valutazione di impatto ambientale – Modifiche e estensioni di
progetti sottoposti a V.I.A. - Non soggetti a V.I.A. alla luce della
normativa sopravvenuta – Conseguenza.
Non devono essere necessariamente sottoposte a
valutazione di impatto ambientale (od a verifica di assoggettabilità) le
"estensioni" o le "modifiche" di progetti che, in base alla normativa
sopravvenuta, non siano più soggetti ex lege a V.I.A. e che, dunque, se
presentati ex novo, non dovrebbero esservi necessariamente sottoposti (1).
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(1) Ha affermato la Sezione che l’Amministrazione, ove ritenga che
un intervento possa comunque determinare, in concreto, “impatti ambientali
significativi e negativi”, può sempre disporre -previa idonea motivazione-
l’attivazione della verifica di assoggettabilità a V.I.A. anche al di fuori
degli specifici casi prescritti dalla legge; ove, invece, ritenga che
esulino tali "impatti" non è tenuta a confezionare alcuna specifica
motivazione, posto che, a monte, il legislatore ha escluso che quella
tipologia di intervento sia, di regola, in grado di arrecare potenziali
danni all’ambiente.
La rinnovazione del giudizio di compatibilità ambientale, di regola doverosa
allorché siano introdotte delle modificazioni progettuali che determinino la
costruzione di un manufatto significativamente diverso da quello già
esaminato, è viceversa superflua ogni qualvolta al progetto originario siano
apportate modifiche che risultino più conformi agli interessi pubblici,
determinando, in particolare, una più efficace mitigazione del rischio
ambientale presentato dall'originario progetto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.08.2019 n. 5972 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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MASSIMA
5. Sulla scorta di tali premesse in fatto e in diritto, il Collegio
giudica infondato il ricorso di primo grado per le seguenti ragioni.
5.1. Il Collegio prende le mosse dalla disposizione dell’Allegato IV alla
Parte II del d.lgs. n. 152 del 2006, punto 8, lett. t), ai sensi del quale
sono sottoposte a verifica di assoggettabilità a VIA le “modifiche o
estensioni di progetti di cui all’allegato III o all’allegato IV già
autorizzati, realizzati o in fase di realizzazione, che possono avere
notevoli ripercussioni negative sull’ambiente”.
Orbene, tale disposizione muove dall’implicita premessa che
il progetto “già
autorizzato, realizzato o in fase di realizzazione” sia ancora da sottoporre
a VIA secondo la normativa vigente: in altre parole, la disposizione
sottopone a VIA le “modifiche o estensioni” di progetti che, se fossero
presentati ex novo, sarebbero tuttora da sottoporre a VIA.
Siffatta interpretazione risponde a ragioni d’ordine logico: la
sottoposizione di modifiche od estensioni di progetti alla procedura di VIA
si spiega solo se il progetto modificato od esteso sia, a sua volta, ancora
da sottoporre a VIA.
Argomentando a contrario, infatti, si avrebbe che dovrebbero essere
sottoposte a VIA (ossia ad un aggravamento del procedimento - cfr. art. 1,
comma 2, l. n. 241 del 1990) modifiche od estensioni di un progetto che, se
fosse presentato ora, non vi dovrebbe essere ab ovo sottoposto.
Né è ragionevole opinare che, per il solo fatto che ab origine un progetto
fu sottoposto a VIA, ogni successiva estensione o modifica, pur se disposta
a distanza di tempo, debba comunque e per ciò solo essere sottoposta a tale
sub-procedimento: ciò, invero, significherebbe, da un punto di vista
giuridico, ascrivere efficacia ultra-attiva alle norme che perimetrano
l’ambito dei progetti da sottoporre a VIA (od alla preliminare verifica di
assoggettabilità), sterilizzando irreversibilmente l’efficacia normativa
dell’eventuale disciplina sopravvenuta.
Nella specie, la richiamata novella del 2008 ha modificato l’Allegato IV,
prescrivendo la verifica di assoggettabilità a VIA per i parcheggi con
capacità superiore ai 500 posti e, dunque, implicitamente ma
inequivocabilmente escludendola (recte, qualificandola come non doverosa)
per i parcheggi con capienza minore.
Se il progetto fosse stato presentato ex novo nel 2014, quindi, non avrebbe
dovuto necessariamente essere sottoposto alla verifica di assoggettabilità,
in considerazione del numero di posti previsto (293), ben inferiore ai 500:
ne consegue, per le esposte ragioni logico-testuali, che la modifica in
questione non era ex lege da sottoporre a verifica di assoggettabilità.
5.2. Vi è, inoltre, un’altra ragione, parimenti di carattere
logico-testuale.
La disposizione in esame si riferisce ai “progetti autorizzati, realizzati o
in corso di realizzazione”: ora, al luglio 2014 il parcheggio de quo non era
ancora né materialmente “in corso di realizzazione” (tanto meno
“realizzato”), né giuridicamente “autorizzato”: difettava ancora, infatti,
il titolo edilizio, unico atto con cui l’Amministrazione presta il proprio
definitivo assenso alla costruzione di un opus.
Esulano anche per tale profilo, pertanto, i requisiti fattuali per applicare
la disposizione de qua.
6. Vi sono, altresì, ulteriori e più pregnanti considerazioni da svolgere.
6.1. Il progetto in variante presentato da CAM ed approvato con la delibera
gravata determina una generale e decisa riduzione dell’intervento
contemplato dal precedente progetto: il verificatore nominato nel presente
giudizio, invero, ha precisato che “il progetto del 2014 presenta un volume
pari a meno della metà di quello del 2010” ed “una superficie ad ogni piano
pari a molto meno della metà di quello del 2010” (così la relazione di
verificazione, pag. 10).
Il nuovo progetto, per vero, presenta pure una “maggiore profondità media di
scavo, pari a circa 1,5 metri”, corrispondente ad un incremento di circa il
13% rispetto al pregresso: tuttavia, una variazione di tale entità è da
considerarsi “poco rilevante da un punto di vista tecnico”, giacché “i
progettisti e gli enti di controllo adottano nella stesura e
nell’approvazione dei progetti il giudizio di scarsa rilevanza tecnica per
una differenza dimensionale del 10%. E’ questo uno dei principi fondatori
per il moderno ed internazionale metodo di calcolo semiprobabilistico delle
costruzioni, accettato da tutte le norme internazionali più evolute” (così
la relazione di verificazione, pagine 17 e 18).
Oltretutto, “il volume ubicato al di sotto della massima quota di scavo
considerata nella relazione geologica (e, quindi, valutata positivamente
dall’Area Valutazione di Impatto Ambientale) è pari solo al 5,9% dello
stesso volume assentito con VIA” (così la relazione di verificazione, pagina
11): anche in tal caso, dunque, la variazione risulta tecnicamente poco
significativa.
Pertanto, nell’ambito di una considerazione unitaria, globale e sintetica
dell’intervento, il nuovo progetto costituisce prima facie una riduzione, un
contenimento, un ridimensionamento del precedente: da un lato, infatti, non
si ravvisa alcuna “estensione”, dall’altro la “modifica” apportata è
pressoché tutta “al ribasso”, nel senso di una contrazione strutturale dell’opus
con conseguente minor impatto ambientale.
Tale, evidentemente, è stata la conclusione della Giunta capitolina, che ha
implicitamente escluso che fosse il caso di procedere alla (facoltativa)
verifica di assoggettabilità a VIA, in considerazione della complessiva
riduzione dell’impatto ambientale recata dal nuovo progetto rispetto al
pregresso, tale da non determinare alcuna “estensione” né alcuna “modifica”
in senso potenzialmente deteriore per l’ambiente.
Invero, in termini generali l’Amministrazione, ove ritenga che un intervento
possa determinare, in concreto, “impatti ambientali significativi e
negativi”, può sempre disporre l’attivazione della verifica di assoggettabilità a VIA anche al di fuori degli specifici casi prescritti
dalla legge: evidentemente, tale scelta dovrà essere puntualmente motivata,
in ossequio alla previsione di cui all’art. 1, comma 2, l. n. 241 del 1990.
Di converso, al di fuori dei casi prescritti dalla legge la scelta di non
procedere a verifica di assoggettabilità non richiede alcuna specifica
motivazione, posto che, a monte, il legislatore ha escluso che quella
tipologia di intervento sia, di regola, in grado di arrecare potenziali
danni all’ambiente.
Nel caso di specie, pertanto, ben poteva l’Amministrazione disporre la
verifica di assoggettabilità a VIA, benché il parcheggio fosse inferiore a
500 posti e, dunque, non vi fosse un puntuale obbligo in tale senso: per far
ciò, tuttavia, avrebbe dovuto attendere ad una puntuale motivazione che
desse ragione dell’aggravamento dell’istruttoria.
In caso contrario, viceversa, non era necessaria alcuna motivazione ed il
progetto poteva essere approvato de plano: l’operato della Giunta, pertanto,
non disvela sotto questo aspetto alcun vizio della funzione.
6.2. Per di più, osserva il Collegio, la verificazione disposta nel presente
grado di giudizio ha confermato ex post la correttezza della valutazione
giuntale: ai fini dell’impatto idraulico ed idrogeologico, infatti, il dato
che assume rilievo centrale è costituito non dalla profondità di scavo,
bensì dal volume dell’intervento, che, quale “rappresentativo del
quantitativo di liquido spostato … costituisce l’azione di disturbo nel
sottosuolo”, sì che “non appare, sulla base dei dati acquisiti, alcun motivo
per il quale un manufatto notevolmente inferiore per superficie e volume
rispetto a quello previsto nel progetto del 2010, seppure localmente più
approfondito, potrebbe interferire con la falda profonda” (cfr. relazione di
verificazione, pagine 15, 16 e 18).
In sostanza, minore il volume interrato, minore la massa d’acqua
(attualmente o potenzialmente) spostata, minore il conseguente impatto
idraulico ed idrogeologico.
Oltretutto, ha osservato il verificatore, “l’interferenza con la falda
profonda … è meno rilevante, perché le paratie perimetrali sono meno
profonde di quelle previste nel progetto del 2010” (cfr. relazione di
verificazione, pagine 16 e 17).
Del resto, nel corso dei lavori, a quanto consta ultimati in data 28.07.2016, non risultano essere emerse problematiche idrauliche o idrogeologiche
(cfr. relazione di verificazione, pag. 9).
7. In conclusione, l’Amministrazione, nell’approvare la variante, ha
implicitamente ritenuto, con valutazione ex ante, che l’esecuzione dei
relativi lavori non fosse in grado di determinare ripercussioni negative
sull’ambiente ulteriori rispetto a quelle già positivamente in precedenza
vagliate: tale scelta, conforme all’apparato normativo applicabile ratione
temporis, si palesava ab initio logica e coerente e si è vieppiù confermata
tale all’esito dello scrutinio specialistico disposto da questo Consiglio.
Il Collegio, in ottica più ampia, evidenzia che la rinnovazione del giudizio
di compatibilità ambientale –di regola doverosa allorché siano introdotte
delle modificazioni progettuali che determinino la costruzione di un
manufatto significativamente diverso da quello già esaminato– è superflua
ogni qualvolta al progetto originario siano apportate modifiche che
risultino più conformi agli interessi pubblici, determinando, in
particolare, una più efficace mitigazione del rischio ambientale (cfr. Cons.
Stato, Sez. VI, 22.11.2006, n. 6831; Cons. Stato, Sez, VI, 22.03.2012, n. 1640; in tal senso anche la Corte di Giustizia Europea con la
sentenza 17.03.2011, C-275/09, Brussels Hoofdstedelijk Gewest).
Laddove, dunque, le modifiche si sostanzino, come nella presente vicenda, in
un generale ridimensionamento strutturale dell’opus proprio con riferimento
a quegli aspetti (nella specie, il volume) potenzialmente pericolosi per gli
specifici profili di sensibilità ambientale presi in considerazione (nella
specie, quelli di carattere idraulico/idrogeologico), non vi è ragione di
attivare il sub-procedimento di verifica di assoggettabilità a VIA, anche
alla luce della valenza generale rivestita dal principio di economicità
dell’azione amministrativa (cfr. art. 1 l. n. 241 del 1990).
8. Per le esposte ragioni, i ricorsi in appello svolti da CAM e da Roma
Capitale debbono essere accolti: conseguentemente, in riforma delle sentenze
impugnate deve essere rigettato il ricorso di primo grado. |
ATTI AMMINISTRATIVI: La responsabilità da comportamento illecito
ha trovato
progressivamente riconoscimento nella giurisprudenza sia civile che
amministrativa, che ha affermato in più occasioni che anche nello
svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a
rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione
implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale
responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma
anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con
lealtà e correttezza.
«Come è stato efficacemente rilevato in dottrina, in questi casi il
provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico
connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più
elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto
dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo
privatistico. Si tratta, in altri termini, di una responsabilità da
comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti
illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei
provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale» (il CdS ha espressamente evocato un modello di pubblica amministrazione, come si
è andato evolvendo nel diritto vivente, permeato dai principi di correttezza
e buona amministrazione, desumibili dall’art. 97 della Costituzione).
---------------
Sul punto il Collegio rileva per completezza come la sentenza del TAR per la
Lombardia, anche omettendo di affrontare l’eccepita eccezione di
prescrizione, non perimetri l’esatto thema decidendum in relazione al
tipo di responsabilità addebitata all’Amministrazione procedente.
Alla base dell’odierna richiesta risarcitoria, infatti, si pongono una serie
di atti, o favorevoli alla parte, e pertanto non impugnati (delibera e atti
del 1961), ovvero pregiudizievoli (ingiunzione a demolire dell’08.07.1988),
ma ormai cristallizzati nei relativi effetti dalla scelta di non coltivare
il contenzioso originariamente intrapreso, con ciò di fatto accettandone per
acquiescenza presupposti e conseguenze.
La controversia finisce pertanto per collocarsi in una zona chiaroscurale,
non potendo essere ascritta alle richieste risarcitorie conseguenti a
provvedimento illegittimo, mancando il relativo presupposto causativo; ma
neppure identificandosi nel danno da solo comportamento, per come
incardinato dal Giudice di prime cure, avendo il provvedimento finale
(legittimo) contraddetto atti orientati contenutisticamente in senso
diametralmente opposto, e dunque divenendone soltanto l’epifenomeno
terminale.
La responsabilità da comportamento illecito, sicuramente lambita
dall’odierna vicenda per come prospettata dalle parti, ha trovato
progressivamente riconoscimento nella giurisprudenza sia civile che
amministrativa, che ha affermato in più occasioni che anche nello
svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a
rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione
implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale
responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma
anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con
lealtà e correttezza (sul punto v. Cons. Stato, A.P. 04.05.2018, n. 5,
nonché, fra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 06.02.2013, n. 633; Cons. Stato,
sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; Cons. Stato, A.P., 05.09.2005, n. 6; Cass. civ.,
Sez. un. 12.05.2008, n. 11656; Cass. civ., Sez. I, 12.05.2015, n. 9636;
Cass. civ., Sez. I, 03.07.2014, n. 15250).
«Come è stato efficacemente rilevato in dottrina, in questi casi il
provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico
connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più
elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto
dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo
privatistico. Si tratta, in altri termini, di una responsabilità da
comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti
illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei
provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale» (v. ancora Cons.
Stato, A.P. n. 5/2018. Cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 06.03.2018, n. 1457,
che ha espressamente evocato un modello di pubblica amministrazione, come si
è andato evolvendo nel diritto vivente, permeato dai principi di correttezza
e buona amministrazione, desumibili dall’art. 97 della Costituzione).
12. L’avvenuto radicamento della vicenda senza valutarne l’esatta
perimetrazione, consegue all’innegabile anomalia di aver sostanzialmente
riaperto una controversia, in realtà ormai definita, finendo per rimettere
in discussione -indebitamente- la legittimità di provvedimenti stabilizzati
da tempo. Ove, infatti, fosse emersa una qualche fondatezza della pretesa
della parte, essa non avrebbe potuto non impattare sulla qualificazione
dell’illecito posta a base dell’ingiunzione a demolire; l’eventuale
incidenza sulla colpevolezza della condotta, infatti, indirettamente pure
invocata, attiene al profilo della responsabilità penale ed è pertanto
estranea ai contenuti dell’odierno giudizio.
Tuttavia, anche ripercorrendo la vicenda secondo la logica della parte
appellante, l’operato della pubblica amministrazione appare esente da mende
sia in termini comportamentali che provvedimentali, non potendosi ascrivere
alla stessa l’eventuale agire del singolo, al di fuori di qualsiasi schema
legale e dunque uti singulus, appunto, e non nel ruolo ricoperto. Né
appare scusabile, o comprensibile, ovvero indice di incolpevole affidamento,
la condotta dell’autore dell’abuso.
Al riguardo, va rilevato che la tenuta, da parte del danneggiato, di una
condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al
parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che
altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile
imperniato sulla probabilità relativa, recide, in tutto o in parte, il nesso
causale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta
antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili ( cfr. Cons. Stato, A.P.
23.03.2011, n. 3).
Per quanto sopra esposto, ciò è quanto avvenuto anche nel
caso di specie
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.08.2019 n. 5966 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
casetta mobile ancorata a terra è un abuso edilizio e non c’è tenuità del
fatto.
Sistemare casette mobili (ma anche camper o roulotte) fissandoli al suolo in
assenza di titolo edilizio è un reato senza se e senza ma, del quale non è
riconosciuta la «lieve tenuità».
E' configurabile il reato di
costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380) nell'ipotesi di installazione su un terreno, senza permesso di
costruire, di strutture mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia
pure
montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una destinazione
duratura al
soddisfacimento di esigenze abitative (Sez. 3, n. 25015 del 23/03/2011 -
dep.
22/06/2011, Di Rocco, Rv. 250601: nella specie si trattava di case
prefabbricate
munite di ruote gommate).
Altresì, integra il reato di
costruzione edilizia abusiva la collocazione su un'area di una "casa mobile"
con
stabile destinazione abitativa, in assenza di permesso di costruire, perché
quest'ultimo non è necessario, ai sensi dell'art. 3 del citato d.P.R. (come
modificato dalla l. 03.08.2013, n. 98 e dalla l. 23.05.2014, n. 80),
per i
soli interventi in cui ricorrono contestualmente i requisiti di cui al comma
primo,
lett. e 5), del predetto art. 3 (collocazione all'interno di una struttura
ricettiva
all'aperto, temporaneo ancoraggio al suolo, conformità alla normativa
regionale
di settore, destinazione alla sosta ed al soggiorno, necessariamente
occasionali e
limitati nel tempo, di turisti).
---------------
1. Il ricorso è inammissibile perché meramente riproduttivo delle medesime
doglianze già rigettate dalla Corte territoriale con motivazione immune da
vizi
logici e giuridici.
2. Per dare un ordine logico alla trattazione dei motivi di ricorso, occorre
prendere le mosse dal secondo, con cui la ricorrente contesta la sussistenza
dei
reati.
Il motivo è manifestamente infondato perché diretto a una diversa
valutazione dei dati probatori, non consentita in sede di legittimità.
2.1. Secondo quanto accertato dai giudici di merito, con doppia valutazione
conforme, sul terreno di proprietà dell'imputata era stato posizionato un
prefabbricato modulare di 42 mq., in parte poggiato su carrello, in parte su
pali
telescopici, articolato in due unità abitative arredate, con ingressi
distinti, dotate
la prima di cucina, bagno e una camera da letto e la seconda di una cucina,
due
camere da letto e un vano adibito a bagno; all'esterno, il manufatto
presenta
una terrazza con parapetti in metalli a protezione e un'area pavimentata con
mattoni autobloccanti.
2.2. Ciò posto, con apprezzamento fattuale logicamente motivato, la Corte
territoriale ha ribadito che il manufatto era adibito ad uso abitativo, il
che
esclude in radice l'invocata applicazione della disciplina regionale, la
quale si
riferisce a impianti prefabbricati a uso non abitativo.
La Corte territoriale, inoltre, ha ribadito la sussistenza del reato,
facendo
corretta applicazione del principio secondo cui è configurabile il reato di
costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380) nell'ipotesi di installazione su un terreno, senza permesso di
costruire, di strutture mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia
pure
montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una destinazione
duratura al
soddisfacimento di esigenze abitative (Sez. 3, n. 25015 del 23/03/2011 -
dep.
22/06/2011, Di Rocco, Rv. 250601: nella specie si trattava di case
prefabbricate
munite di ruote gommate).
Si è parimenti precisato che integra il reato di
costruzione edilizia abusiva la collocazione su un'area di una "casa mobile"
con
stabile destinazione abitativa, in assenza di permesso di costruire, perché
quest'ultimo non è necessario, ai sensi dell'art. 3 del citato d.P.R. (come
modificato dalla l. 03.08.2013, n. 98 e dalla l. 23.05.2014, n. 80),
per i
soli interventi in cui ricorrono contestualmente i requisiti di cui al comma
primo,
lett. e 5), del predetto art. 3 (collocazione all'interno di una struttura
ricettiva
all'aperto, temporaneo ancoraggio al suolo, conformità alla normativa
regionale
di settore, destinazione alla sosta ed al soggiorno, necessariamente
occasionali e
limitati nel tempo, di turisti) (Sez. 3, n. 41067 del 15/09/2015 - dep.
13/10/2015, Pullara, Rv. 264840).
2.3. Nel caso in esame, come anticipato, i giudici di merito hanno accertato
che l'opera, seppur potenzialmente mobile e precaria, era fissata al terreno
attraverso tubi telescopi posizionati alla base del terreno ed era
corredata, nella
parte esterna, da una terrazza con parapetti e una pavimentazione in
mattino,
da ciò logicamente desumendo che era destinata a soddisfare esigenze
abitative
di carattere duraturo, come tra l'altro dimostrato dal fatto che dal momento
dell'installazione de fabbricato (settembre 2014) fino al giugno 2015 la
casa
mobile era rimasta in maniera stabile e perdurante sul fondo dell'imputata.
3. Il primo motivo è manifestamente infondato.
3.1. La speciale causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod.
pen. -applicabile, ai sensi del comma 1, ai soli reati per i quali è prevista una
pena
detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena
pecuniaria,
sola o congiunta alla predetta- è configurabile in presenza di una duplice
condizione, essendo congiuntamente richieste la particolare tenuità
dell'offesa e
la non abitualità del comportamento.
Il primo dei due requisiti richiede, a
sua volta, la specifica valutazione della modalità della condotta e
dell'esiguità del
danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall'art.
133 cod.
pen., cui segue, in caso di vaglio positivo -e dunque nella sola ipotesi in
cui si
sia ritenuta la speciale tenuità dell'offesa-, la verifica della non
abitualità del
comportamento, che il legislatore esclude nel caso in cui l'autore del reato
sia
stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero
abbia
commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente
considerato sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di
reati che
abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
3.2. Con riferimento, in particolare, alla speciale tenuità dell'offesa,
come
affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, il giudizio sulla tenuità del
fatto
richiede una valutazione complessa che prenda in esame tutte le peculiarità
della
fattispecie concreta riferite alla condotta in termini di possibile disvalore e non
solo di quelle che attengono all'entità dell'aggressione del bene giuridico
protetto, che comunque ricorre senza distinzione tra reati di danni e reati
di
pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 - dep. 06/04/2016, Tushaj, Rv.
266590).
3.3. Nel caso in esame, la Corte territoriale, con apprezzamento fattuale
logicamente motivato, ha correttamente negato la sussistenza dei presupposti
integranti la causa di non punibilità in esame, per l'assorbente ragione che
è
stata esclusa la "speciale tenuità" dell'offesa in considerazione del tipo e
delle
dimensioni del manufatto, come sopra descritto (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 28.08.2019 n. 36481). |
|
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell'art. 23 ss., d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in presenza di D.I.A. in
materia edilizia, decorso il termine di trenta giorni dalla sua
presentazione, l'Amministrazione può assumere determinazioni soltanto nel
rispetto delle condizioni prescritte per l'esercizio dei poteri di
autotutela dall'art. 21-nonies della l. n. 241/1990.
La denuncia di inizio attività (D.I.A.), una volta perfezionatasi,
costituisce, infatti, un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale
profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso),
che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso
l'esercizio del potere di autotutela decisoria.
Ne consegue l'illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio avente
ad oggetto lavori che risultano oggetto di una D.I.A. già perfezionatasi
(per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.
---------------
4) Il ricorso è fondato.
5) Colgono nel segno i primi due motivi di ricorso con i quali la ricorrente
deduce l’illegittimità del provvedimento inibitorio impugnato per
inosservanza del termine di trenta giorni previsto dall’art. 23 DPR 380/2001
per la sua adozione.
6) Sul punto, la giurisprudenza è costante nell’affermare che “ai sensi
dell'art. 23 ss., d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in presenza di D.I.A. in
materia edilizia, decorso il termine di trenta giorni dalla sua
presentazione, l'Amministrazione può assumere determinazioni soltanto nel
rispetto delle condizioni prescritte per l'esercizio dei poteri di
autotutela dall'art. 21-nonies della l. n. 241/1990. La denuncia di inizio
attività (D.I.A.), una volta perfezionatasi, costituisce, infatti, un titolo
abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad
effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso,
per espressa previsione legislativa, solo attraverso l'esercizio del potere
di autotutela decisoria. Ne consegue l'illegittimità del provvedimento
repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una
D.I.A. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non
previamente rimossa in autotutela" (ex multis: TAR Sicilia
Palermo sez. III 28/02/2018 n. 514; TAR Campania Napoli sez. VIII 21/02/2018
n. 1145)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 24.08.2019 n. 525 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nell'impugnazione
di un diniego di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione, il
proprietario confinante non configura un controinteressato in senso formale
e sostanziale, nei riguardi dei quali sia necessario instaurare un
contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di
vantaggio che scaturirebbe per lo stesso dall'esecuzione della misura
repressiva ed anche quando egli abbia provveduto a segnalare
all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso, atteso che la
qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va
riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere
in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca
conseguenze solo indirette o riflesse), ma unicamente a chi dal
provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un
positivo ampliamento della propria sfera giuridica
---------------
8) E’ principio costante in giurisprudenza che “Nell'impugnazione di un
diniego di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione, il
proprietario confinante non configura un controinteressato in senso formale
e sostanziale, nei riguardi dei quali sia necessario instaurare un
contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di
vantaggio che scaturirebbe per lo stesso dall'esecuzione della misura
repressiva ed anche quando egli abbia provveduto a segnalare
all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso, atteso che la
qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va
riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere
in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca
conseguenze solo indirette o riflesse), ma unicamente a chi dal
provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un
positivo ampliamento della propria sfera giuridica” (ex multis
TAR Lazio Latina 17/04/2015 n. 346)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 24.08.2019 n. 523 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990 e ordinanza di
demolizione: l’irrilevanza dell’omessa comunicazione di
avvio del procedimento.
La motivazione del TAR Calabria, sez.
Reggio Calabria, contenuta nella sentenza n. 513 del 2019,
non si discosta dalla giurisprudenza dominante che
identifica l’ordinanza di demolizione come un atto di natura
vincolata e che l’eventuale omessa comunicazione dell’avvio
del relativo procedimento non produce effetti vizianti
sull’atto sanzionatorio emanato ex art. 31 D.P.R. 380/2001.
Infatti, secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’ordinanza di
demolizione costituisce un atto di natura vincolata, con la
conseguenza che l’eventuale omessa comunicazione dell’avvio
del relativo procedimento non produce effetti vizianti
sull’atto sanzionatorio emanato ex art. 31 D.P.R. 380/2001:
“L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce attività vincolata della PA con la conseguenza
che i relativi provvedimenti -tra cui l’ordinanza di
demolizione- costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l’invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell’atto”
(ex pluribus: TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 09.06.2015 n.
3119).
Tuttavia, il TAR Calabria, sez. Reggio
Calabria si sofferma su un aspetto estremamente rilevante,
ossia: “in virtù dell’art. 21-octies, comma 2, L. n.
241/1990, che l’omessa comunicazione ex art. 7 L.n. 241/1990
non determina l’annullabilità del provvedimento: “Per
effetto della dequotazione introdotta dall’art. 21-octies L.
241/1990, nei procedimenti preordinati all’emanazione di
ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive,
l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione
dell’avvio dell’iter procedimentale non produce
l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che
il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in
concreto adottato”
(TAR Lecce sez. II, 14.03.2019 n. 441; Cons. St. Sez. VI,
12.08.2016 n. 3620).
Nel caso concreto, se anche tale
comunicazione fosse intervenuta, l’apporto partecipativo del
ricorrente non sarebbe stato decisivo, quanto meno nei
termini dallo stesso prospettati con la censura in esame”.
Rimane, quindi, da approfondire un argomento (a contrario),
di estremo interesse anche da un punto di vista “pratico” e
di “casistica”: l’identificazione dei termini minimi e
necessari per considerare l’apporto partecipativo del
ricorrente come “decisivo” al fine di poter concludere che
l’eventuale omissione di partecipazione al procedimento
amministrativo ex L. 241/1990 possa essere ritenuta
“rilevante” dal Giudice Amministrativo.
...
Rapporto tra l’ordine di demolizione e la tutela
dell’affidamento del privato: aspetti esemplificativi del “carattere
incolpevole”.
In ordine al rapporto tra l’ordine di
demolizione e la tutela dell’affidamento del privato, il decorso anche di un lungo
tempo non è idoneo a far perdere il potere
dell’amministrazione di provvedere in quanto, se così fosse,
si realizzerebbe una sorta di sanatoria “extra ordinem”, non
potendo la distanza temporale tra l’abuso e la sua
repressione giustificare la formazione di un legittimo
affidamento anche nell’ipotesi in cui l’attuale proprietaria
dell’immobile non sia responsabile dell’abuso
(cfr. Cons. St. sez. II, 24.06.2019 n. 4315).
Tuttavia, l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa
in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso
presenti un carattere incolpevole (…) (sentenza n. 9 del
2017 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato).
Invero,
alcuni degli elementi sintomatici del predetto carattere
incolpevole sono rinvenibili:
1. nell’ipotesi in cui il privato,
il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota
la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da
un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere
come legittimo il suo operato
(TAR Napoli, con sentenze n. 5473 del 20.11.2017, n. 184 del
10.01.2018, n. 685 del 31.01.2018, n. 1273 del 26.02.2018 e
n. 1493 del 08.03.2018);
2. la risalenza
nel tempo dell’abuso contestato, l’affidamento ingeneratosi
in conseguenza del rilascio del titolo edilizio del locale
integrano, complessivamente considerati, altrettanti
parametri oggettivi di riferimento da valutare
(Consiglio di Stato con la sentenza n. 3372 del 04.06.2018).
L’incolpevole affidamento del privato è
caratterizzato, nel caso in esame, dalla piena conoscenza
dello stato dei luoghi da parte della P.A. e dall’implicita
attività di controllo dalla stessa effettuato in merito alla
regolarità edilizia ed urbanistica del manufatto.
...
Il decorso di un notevole lasso di tempo dalla commissione
dell’abuso edilizio determina l’obbligo di motivazione del
Comune sulla prolungata inerzia.
Nel caso sia
decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione
dell’abuso edilizio, l’Amministrazione è tenuta a
specificare la sussistenza dell’interesse pubblico
all’eliminazione dell’opera realizzata o, addirittura, a
indicare le ragioni della sua prolungata inerzia, atteso che
si sarebbe ingenerato un affidamento in capo al privato,
solo in caso di situazioni assolutamente eccezionali nelle
quali risulti evidente la sproporzione tra il sacrificio
imposto al privato e l’interesse pubblico al ripristino
della legalità violata
(cfr.TAR Napoli sez. VII, 03.05.2018 n. 2972).
Nel caso in esame il TAR Calabria,
puntualizza come il Comune “per superare le smagliature della
contraddittoria azione amministrativa posta in essere,
avrebbe dovuto ricorrere ad una adeguata motivazione su
quello che era il concreto ed attuale l’interesse pubblico
al ripristino dello stato dei luoghi, comparandolo con
l’interesse oppositivo del privato a conservare l’integrità
dell’assetto edilizio minacciato”.
...
L’ordine di demolizione di un manufatto di modeste
dimensioni: l’assenza di un pregiudizio all’interesse
pubblico urbanistico.
Discutendosi
nel caso in esame di un manufatto di modeste dimensioni
ricadente in un cortile di proprietà esclusiva della
ricorrente, intercluso alla pubblica via e destinato a vano
cucina, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto
illegittimo “il provvedimento con il quale un Comune ha
ordinato la rimessione in pristino dello stato dei luoghi,
in relazione a un abuso edilizio (accertato 54 anni dopo la
realizzazione) nel caso in cui lo stesso si traduca in una
modifica di lieve entità, con sostanziale assenza di un
pregiudizio all’interesse pubblico urbanistico e, pertanto,
in mancanza di “offensività” per l’interesse pubblico
tutelato. Ciò che viene a mancare è proprio l’esistenza di
un abuso rilevante, tale da giustificare l’irrogazione della
sanzione edilizia”
(cfr. Cons. St. sez. VI 28.05.2018 n. 2237) (TAR
Calabria-Reggio Calabria, Sez. I,
sentenza 24.08.2019 n. 513 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’ordinanza di demolizione
costituisce un atto di natura vincolata, con la conseguenza che l’eventuale
omessa comunicazione dell’avvio del relativo procedimento non produce
effetti vizianti sull’atto sanzionatorio emanato ex art. 31 D.P.R. 380/2001.
Invero,
“L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività
vincolata della PA con la conseguenza che i relativi provvedimenti–tra cui
l’ordinanza di demolizione–costituiscono atti vincolati per la cui adozione
non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non
essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto”.
Ne consegue, anche in virtù dell’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990,
che l’omessa comunicazione ex art. 7 L. n. 241/1990 non determina
l’annullabilità del provvedimento: “Per effetto della dequotazione
introdotta dall’art. 21-octies L. 241/1990, nei procedimenti preordinati
all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive,
l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter
procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando
emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato”.
---------------
1. Con ricorso notificato in data 25.10.2018 e tempestivamente depositato, la
sig.ra Pa.An. ha agito in giudizio nei confronti del Comune di
Reggio Calabria e del Dirigente del Settore Pianificazione Urbana per
ottenere l’annullamento dell’ordine di esecuzione delle opere di demolizione
e di sgombero dei lavori abusivi con ripristino dello stato dei luoghi entro
il termine di novanta giorni, assunto in data 08.08.2018 e comunicato il
31.08.2018.
2. Nei fatti, la ricorrente ha esposto:
- di essere comproprietaria dell’immobile sito in Reggio Calabria
alla via ... n. 7f, primo piano fuori terra;
- di aver ricevuto in data 31.08.2018 la notifica del predetto ordine
di demolizione relativo ad un “corpo avanzato in m.o. e c.a…. munito di
apertura finestra lato monte con conseguente ampliamento volumetrico
dell’immobile in quanto collegato al vano soggiorno tramite apertura
interna”, ordine giunto a seguito dell’esecuzione di rilievi e misurazioni
del manufatto -poi individuato come abusivo ad opera degli agenti del
Comando di Polizia Municipale di Reggio Calabria- effettuati in data
13.06.2018.
3. Avverso l’ordine di demolizione è insorta l’esponente, deducendone
l’illegittimità sulla base dei seguenti motivi:
- Violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 8 della L.
241/1990 per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento relativamente
al provvedimento di ingiunzione impugnato.
Con il primo motivo viene censurata la violazione dell’art. 7 della
L. 241/1990, in quanto la comunicazione dell’avvio del procedimento, se
avvenuta, avrebbe consentito all’odierna ricorrente di modificare il
contenuto della statuizione amministrativa attraverso la dimostrazione del
fatto che il manufatto era stato realizzato in data anteriore al 1967;
- Illegittimità del provvedimento per contraddittorietà degli atti;
violazione dell’art. 32, comma 37, della L. 326/2003, del principio del
legittimo affidamento, nonché sull’errata applicazione del D.P.R. 380/2001.
Con il secondo motivo viene censurata la contraddittorietà degli atti
adottati dal Comune sulla scorta di una perizia giurata allegata dalla
ricorrente, da cui emergerebbe che in data 01.08.1991 erano state effettuate
delle ristrutturazioni interne sull’unità immobiliare in questione di cui il
Comune era stato portato a conoscenza, senza che venisse contestato alcunché
rispetto al manufatto oggetto del contenzioso, ingenerando nel privato un
legittimo affidamento sulla regolarità edilizia dell’opera.
Completava il mezzo di gravame la doglianza relativa alla carenza
motivazionale del provvedimento di demolizione.
...
7. Il Collegio, dando seguito alla sommaria valutazione della controversia
espressa in sede cautelare, reputa che il ricorso meriti di essere accolto,
avuto riguardo alla fondatezza del secondo motivo di impugnazione.
8. Affrontando nell’ordine di prospettazione le censure formulate dalla
ricorrente, va innanzitutto disattesa la prima censura incentrata sulla
mancata comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. n.
241/1990.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’ordinanza di demolizione
costituisce un atto di natura vincolata, con la conseguenza che l’eventuale
omessa comunicazione dell’avvio del relativo procedimento non produce
effetti vizianti sull’atto sanzionatorio emanato ex art. 31 D.P.R. 380/2001:
“L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività
vincolata della PA con la conseguenza che i relativi provvedimenti–tra cui
l’ordinanza di demolizione–costituiscono atti vincolati per la cui adozione
non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non
essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto” (ex pluribus: TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
09.06.2015 n. 3119).
Ne consegue, anche in virtù dell’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990,
che l’omessa comunicazione ex art. 7 L. n. 241/1990 non determina
l’annullabilità del provvedimento: “Per effetto della dequotazione
introdotta dall’art. 21-octies L. 241/1990, nei procedimenti preordinati
all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive,
l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter
procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando
emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato”
(TAR Lecce sez. II, 14.03.2019 n. 441; Cons. St. Sez. VI, 12.08.2016 n. 3620).
Nel caso concreto, se anche tale comunicazione fosse intervenuta, l’apporto
partecipativo del ricorrente non sarebbe stato decisivo, quanto meno nei
termini dallo stesso prospettati con la censura in esame.
La ricostruzione difensiva di parte ricorrente si fonda, infatti, sul
rilievo che gli abusi contestati consisterebbero nell’esecuzione di
interventi realizzati al di fuori del centro abitato del Comune resistente
in epoca anteriore alla entrata in vigore della legge n. 765/1967, atteso
che, solo con l'entrata in vigore della stessa è stato generalizzato, dal 01.09.1967, l’obbligo sino ad allora limitato ai centri urbani, di
richiedere al Sindaco apposita “licenza edilizia” per l’attività
costruttiva.
Sennonché, mentre in atti è stato offerto un riscontro probatorio idoneo ad
attestare la preesistenza del contestato intervento edilizio in epoca
anteriore al 1967 (v. planimetria catastale del 01.04.1966 in cui si
nota chiaramente l’esistenza del vano adibito a cucina di cui si discute -all. 2 parte ricorrente), non è invece stata sufficientemente dimostrata la
sicura collocazione fisica dell’edificio principale, rispetto al quale il
manufatto da demolire rappresenta un’evidente struttura aggiuntiva,
all’esterno del centro abitato, tale da non necessitare del titolo edilizio
espresso.
Il motivo in esame non può dunque essere accolto (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 24.08.2019 n. 513 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
tutela dell’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica
soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole.
Il Collegio non intende rimettere qui in discussione il condivisibile
approdo giurisprudenziale raggiunto dalla sentenza n. 9 del 2017
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato concernente il rapporto tra
ordine di demolizione e tutela di affidamento del privato.
Come è noto, l’Adunanza Plenaria ha chiarito che il decorso anche di un
lungo tempo non è idoneo a far perdere il potere dell’amministrazione di
provvedere in quanto, se così fosse, si realizzerebbe una sorta di sanatoria
“extra ordinem”, non potendo la distanza temporale tra l’abuso e la sua
repressione giustificare la formazione di un legittimo affidamento.
Questi esiti, condivisi anche dalla recente giurisprudenza amministrativa,
devono rimanere fermi anche nell’ipotesi, come quella in decisione, in cui
l’attuale proprietaria dell’immobile non sia responsabile dell’abuso.
Bisogna tuttavia dar conto che, in epoca relativamente recente, la
giurisprudenza amministrativa ha apportato significative precisazioni sul
tema del rapporto tra ordine di demolizione e legittimo affidamento,
attualizzando la portata interpretativa della sentenza dell’Adunanza
Plenaria n. 9/2017 che si era limitata a ribadire l’esistenza dell’istituto
(al paragrafo 7.3, si riconosce che: “(…) l’ordinamento tutela l’affidamento
di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti
un carattere incolpevole (…)”, senza peraltro ancora chiarire quando in
concreto esso rivestisse portata “scriminante” nei confronti del
responsabile dell’abuso.
Il TAR Napoli, ad esempio, con sentenza n. 5473 del 20.11.2017, anch’essa
successiva all’arresto dell’A.P. n. 9/2017, puntualmente richiamata, e più
recentemente, con sentenze n. 184 del 10.01.2018, n. 685 del 31.1.2018, n.
1273 del 26.02.2018 e n. 1493 del 08.03.2018 ha stabilito “come di
affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il
quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria
posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della
stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel
caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa
della stessa”.
Similarmente, il Consiglio di Stato ha aggiunto qualche ulteriore elemento
chiarificatore, affermando che “La risalenza nel tempo dell’abuso
contestato, l’affidamento ingeneratosi in conseguenza del rilascio del
titolo edilizio del locale (tecnico-deposito poi utilizzato come) garage,
integrano, complessivamente considerati, altrettanti parametri oggettivi di
riferimento da valutare, decorsi oltre quaranta anni dalla realizzazione
dell’abuso, prima d’adottare la misura ripristinatoria ovvero da dover
indurre il Comune a fornire adeguata motivazione sull’interesse pubblico
attuale al ripristino dello stato dei luoghi”.
---------------
In casi analoghi a quello qui in discussione, la giurisprudenza
amministrativa ha ritenuto illegittimo “il provvedimento con il quale un
Comune ha ordinato la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, in
relazione a un abuso edilizio (accertato 54 anni dopo la realizzazione) nel
caso in cui lo stesso si traduca in una modifica di lieve entità, con
sostanziale assenza di un pregiudizio all'interesse pubblico-urbanistico e,
pertanto, in mancanza di“ offensività” per l'interesse pubblico tutelato.
Ciò che viene a mancare è proprio l'esistenza di un abuso rilevante, tale da
giustificare l'irrogazione della sanzione edilizia”.
---------------
9. Meritano invece condivisione le doglianze illustrate con il secondo
motivo di ricorso.
Va premesso che il Collegio non intende rimettere qui in discussione il
condivisibile approdo giurisprudenziale raggiunto dalla sentenza n. 9 del
2017 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato concernente il rapporto
tra ordine di demolizione e tutela di affidamento del privato.
Come è noto, l’Adunanza Plenaria ha chiarito che il decorso anche di un
lungo tempo non è idoneo a far perdere il potere dell’amministrazione di
provvedere in quanto, se così fosse, si realizzerebbe una sorta di sanatoria
“extra ordinem”, non potendo la distanza temporale tra l’abuso e la
sua repressione giustificare la formazione di un legittimo affidamento.
Questi esiti, condivisi anche dalla recente giurisprudenza amministrativa (cfr.
Cons. St. sez. II, 24.06.2019 n. 4315), devono rimanere fermi anche
nell’ipotesi, come quella in decisione, in cui l’attuale proprietaria
dell’immobile non sia responsabile dell’abuso.
Bisogna tuttavia dar conto che, in epoca relativamente recente, la
giurisprudenza amministrativa ha apportato significative precisazioni sul
tema del rapporto tra ordine di demolizione e legittimo affidamento,
attualizzando la portata interpretativa della sentenza dell’Adunanza
Plenaria n. 9 del 2017 che si era limitata a ribadire l’esistenza
dell’istituto (al paragrafo 7.3, si riconosce che: “(…) l’ordinamento
tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto
laddove esso presenti un carattere incolpevole (…)”, senza peraltro
ancora chiarire quando in concreto esso rivestisse portata “scriminante”
nei confronti del responsabile dell’abuso.
Il TAR Napoli, ad esempio, con sentenza n. 5473 del 20.11.2017, anch’essa
successiva all’arresto dell’A.P. n. 9/2017, puntualmente richiamata, e più
recentemente, con sentenze n. 184 del 10.01.2018, n. 685 del 31.01.2018, n.
1273 del 26.02.2018 e n. 1493 del 08.03.2018 ha stabilito “come di
affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il
quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria
posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della
stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel
caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa
della stessa (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2009, n. 5509)”.
Affrontando una vicenda simile a quella che deve essere qui decisa, il
Consiglio di Stato con la sentenza n. 3372 del 04.06.2018 ha aggiunto
qualche ulteriore elemento chiarificatore, affermando che “La risalenza
nel tempo dell’abuso contestato, l’affidamento ingeneratosi in conseguenza
del rilascio del titolo edilizio del locale (tecnico-deposito poi utilizzato
come) garage, integrano, complessivamente considerati, altrettanti parametri
oggettivi di riferimento da valutare, decorsi oltre quaranta anni dalla
realizzazione dell’abuso, prima d’adottare la misura ripristinatoria ovvero
da dover indurre il Comune a fornire adeguata motivazione sull’interesse
pubblico attuale al ripristino dello stato dei luoghi”.
Vero che qui il Comune di Reggio Calabria non ha rimosso alcun titolo
edificatorio in precedenza rilasciato alla ricorrente o al suo dante causa e
che quindi non si può applicare a un fatto illecito -quale è, si ribadisce,
l’abuso edilizio- il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato per il ben diverso ordine di
presupposti su cui si fonda l’istituto dell’autotutela decisoria, ma è
altrettanto vero che la stessa Amministrazione resistente, come
pacificamente emerso in corso di causa (v. perizia giurata all. 5 parte
ricorrente, depositata il 09.11.2018) ha avuto o poteva avere certamente
contezza della natura abusiva del vano cucina in contestazione fin dal 1991,
epoca in cui lo stesso Comune resistente ne ha permesso la ristrutturazione
attraverso la ridistribuzione degli spazi disponibili.
Più precisamente, il riferimento corre alla comunicazione di inizio lavori
datata 01.08.1991, a seguito della quale la ricorrente ha realizzato
sull’immobile per cui è causa opere di ristrutturazione interna ai sensi
dell’art. 26 della Legge n. 47 del 28.02.1985, comportanti una nuova
distribuzione degli spazi interni, destinando il vano di cui oggi si è
ingiunta la demolizione al solo angolo cottura e lo spazio occupato
originariamente dalla cucina a soggiorno.
In quell’occasione, come puntualmente evidenziato dalla difesa della
ricorrente, l’Amministrazione comunale non ha posto alcuna obiezione né
sulla regolarità dei lavori da eseguire né tanto meno sul carattere abusivo
o meno del vano ripostiglio all’interno del quale essi furono realizzati né
sulla sua destinazione d’uso rimasta peraltro immutata.
10. A fronte di siffatto contesto fattuale, è opinione del Collegio che
l’incolpevole affidamento del privato possa dirsi positivamente, ancorché
eccezionalmente, caratterizzato dalla piena conoscenza dello stato dei
luoghi da parte della P.A. e dall’implicita attività di controllo dalla
stessa effettuato in merito alla regolarità edilizia ed urbanistica del
manufatto in questione, discendendone sul piano giuridico due decisive
considerazioni.
La prima è che, come annotato da attenta giurisprudenza (cfr.TAR
Napoli sez. VII, 03.05.18 n. 2972), “ove sia decorso un notevole lasso di
tempo dalla commissione dell'abuso edilizio, l'Amministrazione è tenuta a
specificare la sussistenza dell'interesse pubblico all'eliminazione
dell'opera realizzata o, addirittura, a indicare le ragioni della sua
prolungata inerzia, atteso che si sarebbe ingenerato un affidamento in capo
al privato, solo in caso di situazioni assolutamente eccezionali nelle quali
risulti evidente la sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e
l'interesse pubblico al ripristino della legalità violata”.
La seconda è che il Comune, per superare le smagliature della
contraddittoria azione amministrativa posta in essere, avrebbe dovuto
ricorrere ad una adeguata motivazione su quello che era il concreto ed
attuale l'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi,
comparandolo con l’interesse oppositivo del privato a conservare l’integrità
dell’assetto edilizio minacciato.
Sotto questo profilo -evidenzia il Collegio- ciò di cui si va discorrendo è
un manufatto di modeste dimensioni ricadente in un cortile di proprietà
esclusiva della ricorrente, intercluso alla pubblica via e destinato a vano
cucina.
In casi analoghi, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto illegittimo “il
provvedimento con il quale un Comune ha ordinato la rimessione in pristino
dello stato dei luoghi, in relazione a un abuso edilizio (accertato 54 anni
dopo la realizzazione) nel caso in cui lo stesso si traduca in una modifica
di lieve entità, con sostanziale assenza di un pregiudizio all'interesse
pubblico-urbanistico e, pertanto, in mancanza di“ offensività” per
l'interesse pubblico tutelato. Ciò che viene a mancare è proprio l'esistenza
di un abuso rilevante, tale da giustificare l'irrogazione della sanzione
edilizia” (cfr. Cons. St. sez. VI 28.05.2018 n. 2237).
Quanto illustrato conferma, pertanto, il convincimento che l’Amministrazione
resistente debba necessariamente rivalutare, prima di riadottare una nuova
ed eventuale misura demolitoria, il tempo trascorso, l’attività di controllo
già implicitamente posta in essere quasi trent’anni fa e la preminenza
dell’interesse pubblico in relazione all’entità e alla destinazione
dell’opera da demolire.
Del resto, anche la giurisprudenza della Corte europea, intervenendo sulla
compatibilità dell’ordine di demolizione con la CEDU, non ha mancato di
sottolineare che il giudice nazionale deve sempre verificare se
l’Amministrazione abbia esercitato i propri poteri valutando “caso per
caso” se l’esecuzione dell’ordine possa incidere, in violazione del
principio di proporzionalità, sul diritto all’abitazione, richiedendo in tal
caso un obbligo particolare di motivazione (cfr. Corte eur. dir. uomo,
21.04.2016, ric. n. 46577/15).
11. Per le ragioni sin qui esaminate, il ricorso in epigrafe deve essere
accolto e, per l’effetto, deve essere disposto l’annullamento dell’atto
impugnato (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 24.08.2019 n. 513 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione
dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza
di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi,
l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto
sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame
dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto),
che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di
demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere
spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello
assegnato in precedenza).
---------------
Sul tema della sorte processuale del ricorso avverso l’ordinanza di
demolizione seguita da un’istanza di sanatoria, è ormai principio acquisito
nella giurisprudenza anche di questa Sezione quello per cui “La
presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione
dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza
di demolizione, rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta
domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile
l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di
interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato
dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità,
comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o
implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A.
dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al
privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato
(una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza)” (cfr.
ex multis TAR Reggio Calabria 17.9.18, n. 559; 03.07.18, n. 406)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 24.08.2019 n. 511 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
cambio di destinazione d’uso da laboratorio a luogo di aggregazione e di
preghiera (moschea).
Come chiarito efficacemente dalla giurisprudenza, la ratio
dell’art. 52, comma 3-bis, L.R. 11.03.2005 n. 12 (Lombardia) é quella di
garantire il controllo dei mutamenti di destinazione d'uso suscettibili, per
l'afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese,
moschee, centri sociali) aventi come destinazione principale o esclusiva
l'esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante
impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di
attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni.
Essendo questa la sua ratio, affinché la disposizione possa dirsi
effettivamente violata è necessario che sia adeguatamente dimostrato che
l'edificio costituisca, in ragione delle funzioni che gli sono state
impresse in assenza di titolo edilizio, un forte centro di aggregazione
umana presso il quale si riunisce, a fini religiosi o sociali, un elevato
numero di persone.
Non è invece sufficiente, come ha chiarito la succitata
sentenza, l'occasionale riscontro della presenza di persone raccolte in
preghiera, non potendosi qualificare, ai predetti fini, "luogo di culto",
un centro culturale o altro luogo di riunione nel quale si svolgano,
privatamente e saltuariamente, preghiere religiose; tanto più ove si
consideri che non rileva, di norma, ai fini urbanistici l'uso di fatto
dell'immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è
libero di esplicare.
---------------
Come affermato dalla giurisprudenza e dalla prassi (in tal senso il parere al Ministero
dell'Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l'Islam Italiano),
per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme
edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l'uno intrinseco, dato
dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l'altro estrinseco,
dato dal dover accogliere "tutti coloro che vogliano pacificamente
accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte" e
"consentire la pratica del culto a tutti i fedeli della religione islamica,
uomini e donne, di qualsiasi scuola o nazionalità essi siano".
Allo stesso modo, si ribadisce che una chiesa consacrata nei termini della
religione cattolica, e anche di altri culti, può esistere anche all'interno
di una proprietà privata —come nel caso delle cappelle gentilizie, di
conventi o di istituti, dove è ben possibile dire regolarmente Messa— ma
non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero
accesso dei fedeli.
Pertanto, l'uso incompatibile potrebbe verificarsi nel
caso in cui l'accesso per la libera attività di preghiera fosse non
riservato ai membri dell'associazione ma indiscriminato, perché è in quest'ultimo
caso che si verifica l'aumento di carico urbanistico da valutare in sede di
rilascio del permesso di costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in
concreto accertato dall'autorità attraverso una corretta e completa
istruttoria.
---------------
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, la modifica della
destinazione d'uso -nel caso di specie a luogo di culto- deve trovare una
precisa corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere realizzate in
quanto la stessa non può essere certamente inferita dall'uso di fatto che
possa, in precedenza, essere stato posto in essere.
---------------
Dall’esame degli atti risulta che l’utilizzo permanente ad uso di culto è
provato non solo dall’accesso presso la sede dell’associazione ma anche
dalle dichiarazioni delle persone interrogate sul luogo, da video su youtube,
da estratti di siti web e dalle dichiarazioni rese sul motore di ricerca
google da persone che hanno frequentato il luogo.
Deve quindi escludersi che l’individuazione dell’uso dell’immobile sia stato
affidato ad un solo accesso ma deriva da una pluralità di elementi che
formano un complesso di indizi gravi precisi e concordanti in merito
all’utilizzo non saltuario dell’immobile quale luogo di culto aperto alla
generalità dei fedeli.
A ciò si aggiunge che dal sopralluogo effettuato dalla Polizia Locale risulta, tra l’altro, un’insegna
sull’immobile con la denominazione “....”, ossia moschea.
A ciò si aggiunge che nessuna prova contraria è fornita dalla ricorrente,
neppure in merito al preteso mancato accertamento dei caratteri delle
suppellettili presenti nell’immobile.
---------------
Sebbene possa convenirsi con la giurisprudenza citata dalla ricorrente,
secondo la quale non è luogo di culto ai fini urbanistici quello utilizzato
a tali fini saltuariamente, per uso privato, e con frequenza limitata, manca
nel caso di specie alcuna prova che effettivamente si sia trattato di un uso
di tal fatta.
Infatti non esiste traccia dell’uso a laboratorio dell’immobile né di altro
uso diverso da quello individuato dagli accertamenti della polizia locale.
Si tratta inoltre di locali assurti all’onore della cronaca per l’uso a fini
religiosi continuo da parte di un ampio numero di persone, con la
conseguenza che si deve escludere che l’uso religioso sia saltuario ed abbia
natura privata.
In merito la giurisprudenza ha chiarito che il mutamento d’uso
dell’immobile, in assenza di opere edilizie, diviene rilevante, in base
all’articolo 32 del D.P.R. n. 380/2001, esclusivamente ove implichi
variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968.
L’afflusso non sporadico di un notevole numero di persone porta ad escludere
che il cambio di destinazione d’uso in questione non sia idoneo a
determinare un aumento del fabbisogno di aree per servizi e attrezzature
pubbliche e di interesse pubblico o generale tale da renderlo irrilevante
dal punto di vista urbanistico.
---------------
1. La ricorrente ha impugnato l’ordine di rimessione in pristino della
precedente destinazione edilizia dell’immobile sito in Milano via ... n. 15,
sede dell’associazione ricorrente. Il Comune ha contestato il cambio di
destinazione d’uso da laboratorio a luogo di aggregazione e di preghiera e
la realizzazione di opere di manutenzione straordinaria.
...
Come chiarito efficacemente dalla giurisprudenza del TAR adito, infatti, (cfr.
ex multis TAR Lombardia Milano, Sez. II, 08.11.2013 n. 2486) la ratio
dell’art. 52, comma 3-bis, L.R. 11.03.2005 n. 12 é quella di garantire il
controllo dei mutamenti di destinazione d'uso suscettibili, per l'afflusso
di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee,
centri sociali) aventi come destinazione principale o esclusiva l'esercizio
del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto
urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature
pubbliche rapportate a dette destinazioni (cfr. TAR Lombardia Milano, Sez.
II, 28.10.2010 n. 7050).
Essendo questa la sua ratio, affinché la disposizione possa dirsi
effettivamente violata è necessario che sia adeguatamente dimostrato che
l'edificio costituisca, in ragione delle funzioni che gli sono state
impresse in assenza di titolo edilizio, un forte centro di aggregazione
umana presso il quale si riunisce, a fini religiosi o sociali, un elevato
numero di persone. Non è invece sufficiente, come ha chiarito la succitata
sentenza, l'occasionale riscontro della presenza di persone raccolte in
preghiera, non potendosi qualificare, ai predetti fini, "luogo di culto", un
centro culturale o altro luogo di riunione nel quale si svolgano,
privatamente e saltuariamente, preghiere religiose; tanto più ove si
consideri che non rileva, di norma, ai fini urbanistici l'uso di fatto
dell'immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è
libero di esplicare (cfr. TAR Milano, Sez. Il, 17.09.2009 n. 4665).
Come affermato dalla giurisprudenza (in tal senso C.d.S., Sez. IV, 28.01.2011, n. 683) e dalla prassi (in tal senso il parere al Ministero
dell'Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l'Islam Italiano),
per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme
edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l'uno intrinseco, dato
dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l'altro estrinseco,
dato dal dover accogliere "tutti coloro che vogliano pacificamente
accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte" e
"consentire la pratica del culto a tutti i fedeli della religione islamica,
uomini e donne, di qualsiasi scuola o nazionalità essi siano".
Allo stesso modo, si ribadisce che una chiesa consacrata nei termini della
religione cattolica, e anche di altri culti, può esistere anche all'interno
di una proprietà privata —come nel caso delle cappelle gentilizie, di
conventi o di istituti, dove è ben possibile dire regolarmente Messa— ma
non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero
accesso dei fedeli. Pertanto, l'uso incompatibile potrebbe verificarsi nel
caso in cui l'accesso per la libera attività di preghiera fosse non
riservato ai membri dell'associazione ma indiscriminato, perché è in quest'ultimo
caso che si verifica l'aumento di carico urbanistico da valutare in sede di
rilascio del permesso di costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in
concreto accertato dall'autorità attraverso una corretta e completa
istruttoria (cfr. TAR Lombardia Brescia Sez. I sent. 29.05.2013 n. 522).
Trattasi, tuttavia, di indagini che l'Amministrazione comunale non può aver
in alcun modo affrontato nel corso dell'istruttoria, dal momento in cui il
provvedimento gravato è stato emesso in conseguenza di un unico e sporadico
sopralluogo da parte della Polizia Locale.
3) Eccesso di potere sotto il profilo del difetto assoluto di motivazione in
merito alla correlazione tra mutamento della destinazione d'uso a luogo di
aggregazione e preghiera e le opere edilizie realizzate dalla ricorrente
(ristrutturazione dei bagni e realizzazione di un bagno per disabili).
Secondo la ricorrente il provvedimento impugnato omette del tutto di
specificare quale sia la presunta correlazione tra la realizzazione delle
suddette opere e l'ipotizzato cambio di destinazione a "luogo di
aggregazione e preghiera".
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, infatti, la modifica
della destinazione d'uso -nel caso di specie a luogo di culto- deve trovare
una precisa corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere
realizzate in quanto la stessa non può essere certamente inferita dall'uso
di fatto che possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. TAR
Lombardia Milano Sez. II, Sent., 23.09.2010, n. 6415; TAR Lombardia Milano
Sez. II, Sent., 23.09.2010, n. 6416; Tar Lombardia, Milano, 17.09.2009, n.
4665).
...
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Dall’esame degli atti risulta che l’utilizzo permanente ad uso di culto è
provato non solo dall’accesso presso la sede dell’associazione ma anche
dalle dichiarazioni delle persone interrogate sul luogo, da video su youtube,
da estratti di siti web e dalle dichiarazioni rese sul motore di ricerca
google da persone che hanno frequentato il luogo.
Deve quindi escludersi che l’individuazione dell’uso dell’immobile sia stato
affidato ad un solo accesso ma deriva da una pluralità di elementi che
formano un complesso di indizi gravi precisi e concordanti in merito
all’utilizzo non saltuario dell’immobile quale luogo di culto aperto alla
generalità dei fedeli.
A ciò si aggiunge che il sopralluogo effettuato dalla Polizia Locale in data
23.09.2014 è stato confermato da un ulteriore sopralluogo della Polizia
Locale, in data 21.03.2019, dal quale risulta, tra l’altro, un’insegna
sull’immobile con la denominazione “Sh.Ja.Ma.”, ossia moschea.
A ciò si aggiunge che nessuna prova contraria è fornita dalla ricorrente,
neppure in merito al preteso mancato accertamento dei caratteri delle
suppellettili presenti nell’immobile.
2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Sebbene possa convenirsi con la giurisprudenza citata dalla ricorrente,
secondo la quale non è luogo di culto ai fini urbanistici quello utilizzato
a tali fini saltuariamente, per uso privato, e con frequenza limitata, manca
nel caso di specie alcuna prova che effettivamente si sia trattato di un uso
di tal fatta.
Infatti non esiste traccia dell’uso a laboratorio dell’immobile né di altro
uso diverso da quello individuato dagli accertamenti della polizia locale.
Si tratta inoltre di locali assurti all’onore della cronaca per l’uso a fini
religiosi continuo da parte di un ampio numero di persone, con la
conseguenza che si deve escludere che l’uso religioso sia saltuario ed abbia
natura privata.
In merito la giurisprudenza ha chiarito che il mutamento d’uso
dell’immobile, in assenza di opere edilizie, diviene rilevante, in base
all’articolo 32 del D.P.R. n. 380/2001, esclusivamente ove implichi
variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968 (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 27.01.2015 n. 91).
L’afflusso non sporadico di un notevole numero di persone porta ad escludere
che il cambio di destinazione d’uso in questione non sia idoneo a
determinare un aumento del fabbisogno di aree per servizi e attrezzature
pubbliche e di interesse pubblico o generale tale da renderlo irrilevante
dal punto di vista urbanistico.
3. Anche l’ultimo motivo di ricorso è infondato.
La correlazione tra i lavori di ristrutturazione dei bagni e la
realizzazione di un bagno per disabili da un lato e la funzione religiosa
dall’altro, è facilmente desumibile dal fatto che si tratta di servizi
presenti normalmente in luoghi aperti al pubblico destinati a soddisfare le
esigenze di persone che provengono dall’esterno.
Nessuna prova dell’uso
privato di tali servizi è stata fornita dalla ricorrente. Poiché non è
fornita prova di alcun uso dell’immobile diverso da quello religioso è del
tutto ragionevole ritenere che i bagni siano a servizio degli avventori
della moschea.
In definitiva quindi il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.08.2019 n. 1916 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L'art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, a norma del quale il
trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un
atto di pianificazione comunque denominato è ripartito...tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto, va letto alla
luce di quanto previsto dai commi da 1 a 5 della stessa disposizione nonché
dall'art. 90 del d.lgs., e, pertanto, è applicabile nei soli casi in cui
l'atto di pianificazione sia prodromico e strettamente correlato alla
realizzazione di un'opera pubblica.
---------------
4.1. è necessario premettere che l'approvazione delle linee guida per la
stesura del progetto pilota denominato «la logistica pubblica e privata
nella filiera degli elettrodomestici» è avvenuta con delibera n. 953 del
10.09.2006, cui ha fatto seguito il decreto del 07.12.2006, con il quale il
dirigente del settore mobilità, trasporti ed infrastrutture ha costituito il
gruppo di lavoro e ripartito gli incarichi fra dipendenti assegnati allo
stesso settore nonché alle funzioni «ciclo dei rifiuti» e «informatica»;
4.2. non vi è dubbio, pertanto, che debba trovare applicazione ratione
temporis il richiamato art. 92 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, intitolato
«corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione
delle stazioni appaltanti», con il quale il legislatore delegato, nel
riprendere la previsione già contenuta, al momento della redazione del
Codice dei contratti pubblici, nell'art. 18 comma 2 della legge n. 109/1994
(modificato dall'articolo 6, comma 1, lettera b), del D.L. 03.04.1995, n.
101, convertito con modificazioni dalla Legge 02.06.1995, n. 216 e
successivamente sostituito dall'articolo 6, comma 13, della Legge
15.05.1997, n. 127 e dall'articolo 13, comma 4, della Legge 17.05.1999, n.
144) ha previsto che «Il trenta per cento della tariffa professionale
relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento tra i
dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.»;
4.3. sull'interpretazione della disposizione in parola si sono formati,
principalmente nella giurisprudenza contabile, opposti orientamenti e se,
da un lato, nei pareri espressi ex art. 7 l. n. 131/2003, è prevalso
l'indirizzo che ritiene il corrispettivo previsto dall'art. 92, comma 6,
necessariamente connesso alla realizzazione di un'opera pubblica,
dall'altro è stata comunque espressa un'opinione minoritaria (Sezione
Regionale di Controllo per il Veneto
parere 22.11.2013 n. 361,
parere 03.12.2013 n. 380
e
parere 03.12.2013 n. 381)
che, facendo leva sul tenore letterale della norma, ha ritenuto la stessa,
per come formulata, idonea a ricomprendere nel suo ambito oggettivo ogni
atto di pianificazione, a prescindere dal collegamento diretto con la
progettazione e realizzazione dell'opera pubblica;
4.4. l'indirizzo maggioritario ha avuto l'avallo della Sezione Centrale
delle Autonomie, la quale nell'adunanza del 04.04.2014 (deliberazione
15.04.2014 n. 7),
risolvendo il contrasto, ha privilegiato la tesi che, oltre a valorizzare il
criterio sistematico e la ratio legis, armonizza la disposizione con
i principi, desumibili dal d.lgs. n. 165/2001, cui si ispira la disciplina
del trattamento economico dei dipendenti pubblici;
4.5. il Collegio ritiene condivisibile detta opzione interpretativa perché,
a fronte di un tenore letterale della norma non univoco e compatibile con
entrambe le tesi a confronto, occorre innanzitutto tener conto della
collocazione della disposizione, che non può essere avulsa dal contesto nel
quale è inserita, riguardante, nell'ambito dei «servizi attinenti
all'architettura ed all'ingegneria» (così la rubrica del capo IV
sostituita dall'articolo 2 del d.lgs. 31.07.2007 n. 113), la «progettazione
interna ed esterna e livelli di progettazione» (art. 90) ed in particolare «le
prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva
di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto
tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del
dirigente competente alla formazione del programma triennale dei lavori
pubblici» (così l'incipit dell'art. 90);
4.6. l'art. 90 circoscrive in modo chiaro l'ambito di applicazione della
disciplina alle attività direttamente connesse con la realizzazione
dell'opera pubblica o con la programmazione triennale degli interventi,
sicché, evidentemente, anche l'atto di pianificazione al quale fa
riferimento il comma 6 dell'art. 92 deve porsi in stretta correlazione con
il successivo intervento;
4.7. d'altro canto l'espressione utilizzata dal legislatore, «atto di
pianificazione comunque denominato», non è di per sé sufficiente a far
attrarre nell'ambito oggettivo della disposizione qualsivoglia attività di
programmazione, perché l'avverbio «comunque» è riferito alla
denominazione, che evidentemente può variare da ente ad ente, e, quindi, non
è di per sé sufficiente ad esprimere una volontà del legislatore di
riconoscere l'incentivo in relazione ad ogni intervento programmatorio che
venga svolto dal soggetto pubblico per mezzo dei propri dipendenti, anche se
del tutto avulso dalla realizzazione di opere pubbliche;
4.8. è significativo che nello stesso periodo si precisi che l'incentivo
inerente l'atto di pianificazione è ripartito fra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice, termine quest'ultimo che evoca il
legame fra l'atto stesso e la successiva aggiudicazione dei lavori
finalizzati alla realizzazione dell'opera pubblica;
4.9. la sentenza impugnata, della quale va corretta la motivazione ex art.
384, comma 4, cod. proc. civ., è conforme a diritto nella parte in cui ha
escluso l'applicabilità del richiamato art. 92 d.lgs. n. 163/2006,
assorbente rispetto alle ulteriori censure sviluppate nel secondo motivo,
atteso che le disposizioni regolamentari non possono disciplinare la materia
in modo difforme dalla legge che, nel caso di specie, legittima le singole
amministrazioni a stabilire «modalità e criteri» per la ripartizione
dell'incentivo fra i soggetti indicati nello stesso art. 92, ma non consente
di attribuire il beneficio anche in relazione ad attività che esulano dalla
previsione normativa;
4.10. al riguardo osserva il Collegio che le disposizioni di cui ai commi 5
e 6 del citato art. 92, nel riconoscere ai dipendenti pubblici un compenso
ulteriore e speciale, derogano alla disciplina generale dettata dal d.lgs.
n. 165/2001 che, quanto ai dirigenti, sancisce, all'art. 24, il principio
dell'onnicomprensività della retribuzione e, per il restante personale,
prevede, all'art. 45, che il trattamento economico, fondamentale ed
accessorio, è quello previsto dalla contrattazione collettiva (con i limiti
indicati dallo stesso decreto per la contrattazione decentrata);
4.11. le richiamate disposizioni, pertanto, non sono suscettibili di
interpretazione analogica ed inoltre delle stesse non può essere fornita
un'esegesi che, mortificando la ratio legis, finisca per estendere il
beneficio anche ad attività che il legislatore non ha inteso espressamente
includere fra quelle meritevoli di incentivazione;
4.12. in via conclusiva, poiché i ricorrenti non contestano in alcun modo
che il progetto del quale qui si discute non fosse collegato alla
realizzazione di un'opera pubblica (pag. 17 del ricorso) la censura è
infondata e va rigettata perché il dispositivo della sentenza impugnata, di
rigetto della domanda, è conforme al principio di diritto che il Collegio
ritiene di dover enunciare nei termini che seguono: «l'art. 92, comma 6,
del d.lgs. n. 163/2006, a norma del quale il trenta per cento della tariffa
professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque
denominato è ripartito...tra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto, va letto alla luce di quanto previsto
dai commi da 1 a 5 della stessa disposizione nonché dall'art. 90 del d.lgs.,
e, pertanto, è applicabile nei soli casi in cui l'atto di pianificazione sia
prodromico e strettamente correlato alla realizzazione di un'opera pubblica»
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 14.08.2019 n. 21424). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di impiego
pubblico, l'annullamento d'ufficio di provvedimenti che comportano
l'illegittimo esborso di risorse pubbliche «non richiede una specifica
valutazione in ordine all'interesse pubblico, atteso che esso deve
considerarsi in re ipsa, con la conseguente irrilevanza "di ogni altra
circostanza idonea a qualificare il contrapposto interesse del privato,
quale, ad esempio, il perdurare nel tempo della situazione di fatto a lui
vantaggiosa"».
La natura privatistica degli atti di
gestione dei rapporti di lavoro di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001
non consente alle Pubbliche Amministrazioni di esercitare il potere di
autotutela, che presuppone la natura amministrativa del provvedimento e
l'esercizio di poteri autoritativi.
Tuttavia, qualora l'atto adottato risulti in contrasto con norma imperativa,
l'ente pubblico, che è tenuto a conformare la propria condotta alla legge,
nel rispetto dei principi sanciti dall'art. 97 Cost., ben può sottrarsi
unilateralmente all'adempimento delle obbligazioni che trovano titolo
nell'atto illegittimo ed in tal caso, al di là dello strumento formalmente
utilizzato e dell'autoqualificazione, la condotta della P.A. è equiparabile
a quella del contraente che non osservi il contratto stipulato, ritenendolo
inefficace perché affetto da nullità.
Dalla natura privatistica degli atti di gestione del rapporto discende
inoltre che, qualora il dipendente intenda reagire all'atto unilaterale
adottato dalla P.A., deve fare valere in giudizio il diritto soggettivo che
da quell'atto è stato ingiustamente mortificato e non limitarsi a sostenere
l'illegittimo esercizio di poteri di autotutela, perché il giudice ordinario
è giudice non dell'atto ma del rapporto e dei diritti/doveri che dallo
stesso scaturiscono.
Sulla base di detti principi è stato affermato, in relazione al trattamento
economico, che l'atto deliberativo non è sufficiente a costituire una
posizione giuridica soggettiva in capo al dipendente, occorrendo anche la
conformità alle previsioni della legge e della contrattazione collettiva, in
assenza della quale l'atto risulta essere affetto da nullità, con la
conseguenza che la Pubblica Amministrazione, a ciò tenuta in forza della
previsione di cui al richiamato art. 97 Cost., deve ripristinare la legalità
violata.
---------------
6. il motivo è, poi, infondato
quanto alla doglianza relativa all'esercizio del potere di autotutela, che,
secondo l'assunto dei ricorrenti contrapposto all'opinione espressa dalla
Corte territoriale, richiederebbe da parte del datore di lavoro pubblico una
valutazione comparativa fra gli interessi in rilievo, perché quello del
privato può essere sacrificato solo in presenza di ragioni di interesse
pubblico che giustifichino l'annullamento del provvedimento accrescitivo
della sfera giuridica soggettiva del destinatario dell'atto;
6.1. il principio invocato è stato da tempo superato, in tema di impiego
pubblico, dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui l'annullamento
d'ufficio di provvedimenti che comportano l'illegittimo esborso di risorse
pubbliche «non richiede una specifica valutazione in ordine all'interesse
pubblico, atteso che esso deve considerarsi in re ipsa (ex multis, Cons.
Stato, VI, 23.04.2009, n. 2510; più di recente, V, 23.10.2014 n. 5267; VI,
10.05.2013 n. 2539; III, 04.06.2012, n. 3290), con la conseguente
irrilevanza "di ogni altra circostanza idonea a qualificare il contrapposto
interesse del privato, quale, ad esempio, il perdurare nel tempo della
situazione di fatto a lui vantaggiosa"» (C.d. S. 07.02.2018 n. 790);
6.2. nel caso di specie, inoltre, l'atto della cui legittimità si discute
non può essere propriamente qualificato di autotutela, perché la
giurisprudenza di questa Corte da tempo è consolidata nell'affermare che la
natura privatistica degli atti di gestione dei rapporti di lavoro di cui
all'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 non consente alle Pubbliche
Amministrazioni di esercitare il potere di autotutela, che presuppone la
natura amministrativa del provvedimento e l'esercizio di poteri autoritativi;
6.3. è stato, però, aggiunto che, qualora l'atto adottato risulti in
contrasto con norma imperativa, l'ente pubblico, che è tenuto a conformare
la propria condotta alla legge, nel rispetto dei principi sanciti dall'art.
97 Cost., ben può sottrarsi unilateralmente all'adempimento delle
obbligazioni che trovano titolo nell'atto illegittimo ed in tal caso, al di
là dello strumento formalmente utilizzato e dell'autoqualificazione, la
condotta della P.A. è equiparabile a quella del contraente che non osservi
il contratto stipulato, ritenendolo inefficace perché affetto da nullità
(Cass. 26.02.2016 n. 3826, Cass. 01.10.2015 n. 19626, Cass. 08.04.2010 n.
8328 e Cass. 24.10.2008 n. 25761 quest'ultima in tema di revoca di
inquadramento illegittimamente attribuito);
6.4. dalla natura privatistica degli atti di gestione del rapporto discende
inoltre che, qualora il dipendente intenda reagire all'atto unilaterale
adottato dalla P.A., deve fare valere in giudizio il diritto soggettivo che
da quell'atto è stato ingiustamente mortificato e non limitarsi a sostenere
l'illegittimo esercizio di poteri di autotutela, perché il giudice ordinario
è giudice non dell'atto ma del rapporto e dei diritti/doveri che dallo
stesso scaturiscono;
6.5. sulla base di detti principi è stato affermato, in relazione al
trattamento economico, che l'atto deliberativo non è sufficiente a
costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al dipendente,
occorrendo anche la conformità alle previsioni della legge e della
contrattazione collettiva, in assenza della quale l'atto risulta essere
affetto da nullità, con la conseguenza che la Pubblica Amministrazione, a
ciò tenuta in forza della previsione di cui al richiamato art. 97 Cost.,
deve ripristinare la legalità violata (cfr. fra le più recenti Cass. n.
3826/2016, Cass. 16088/2016 e Cass. n. 25018/2017)
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 14.08.2019 n. 21424). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
pacifico che ai fini dell'accoglimento dell'istanza di sanatoria relativa ad
un intervento edilizio già realizzato abusivamente sia necessaria la
sussistenza del rispetto della c.d. doppia conformità, ossia non solo la
conformità agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati al
momento della realizzazione dell'opera, ma anche al momento della
presentazione della domanda della conformità.
La c.d. doppia conformità costituisce, perciò, un requisito dal quale non
può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie.
---------------
3.2. Come è pacifico, ai fini dell'accoglimento dell'istanza
di sanatoria relativa ad un intervento edilizio già realizzato abusivamente,
è necessaria la sussistenza del rispetto della c.d. doppia conformità, ossia
non solo la conformità agli strumenti urbanistici generali e di attuazione
approvati al momento della realizzazione dell'opera, ma anche al momento
della presentazione della domanda della conformità (cfr. ex plurimis, Cons.
Stato, sez. VI , 18/01/2019 , n. 470, id. sez, IV, 05/05/2017, n. 2603; TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 17/05/2018, n. 1298).
La c.d. doppia conformità costituisce, perciò, un requisito dal quale non
può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie
(TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 14.08.2019 n. 1173 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le “varianti essenziali” sono quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai
parametri indicati dall' art. 32 t.u.e., sono soggette al rilascio di
permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello
originario.
Per quanto normativamente non compiutamente definita, l'essenzialità, o
meno, della variazione risiede anche, ma non soltanto, nell'aspetto
quantitativo. Una variazione essenziale si manifesta nella realizzazione
abusiva d'un ampliamento che, pur senza creare un organismo edilizio nuovo
ed incompatibile col progetto assentito e con la sua essenza, ne altera la
struttura e le dimensioni sì da apparire la dilatazione strutturale,
funzionale e spaziale di quanto invece sarebbe dovuto essere nella realtà.
---------------
7.1.
Che si tratti di variazione essenziale scaturisce dalla circostanza che le
opere realizzate non possono essere inquadrate nella fattispecie della
sopraelevazione di edificio già esistente, trattandosi di realizzazione di
un ulteriore piano abitabile in un edificio in costruzione, abuso
assoggettabile alla rimessione in pristino e non, come ritenuto dalla
ricorrente, regolarizzabile mediante pagamento di una sanzione pecuniaria,
ex art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380/2001.
Le “varianti essenziali” sono quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai
parametri indicati dall' art. 32 t.u.e., sono soggette al rilascio di
permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello
originario.
Per quanto normativamente non compiutamente definita, l'essenzialità, o
meno, della variazione risiede anche, ma non soltanto, nell'aspetto
quantitativo. Una variazione essenziale si manifesta nella realizzazione
abusiva d'un ampliamento che, pur senza creare un organismo edilizio nuovo
ed incompatibile col progetto assentito e con la sua essenza, ne altera la
struttura e le dimensioni sì da apparire la dilatazione strutturale,
funzionale e spaziale di quanto invece sarebbe dovuto essere nella realtà (Cons.
Stato, sez. VI, 04/06/2018, n. 3371; id., 23/11/2017, n. 5473).
Pare difficile non ritenere che tale debba considerarsi la realizzazione di
un ulteriore piano abitabile al quarto piano fuori terra, dal quale ricavare
ulteriori due unità immobiliare, avente superficie lorda di mq. 140,
superficie utile di mq. 120, altezza di m. 2,70 e volumetria di mc. 380.
D’altra parte, non può non rilevarsi che l’art. 133, co. 2, della l.reg. n.
1/2005 stabilisce che "Le variazioni concernenti la superficie e l'altezza
costituiscono variazioni essenziali anche se inferiori ai limiti di cui alle
lettere b), c) e d) del comma 1 ove comportino aumento del numero di piani o
delle unità immobiliari" (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 14.08.2019 n. 1173 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per consolidata giurisprudenza, il provvedimento con cui viene ingiunta la
demolizione di un immobile abusivo (oltre a non costituire, stante la sua
autonomia rispetto ai precedenti eventuali atti autorizzativi un contraris
actus), per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei
relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in
ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al
ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui
l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, inerzia non può certamente radicare un affidamento
di carattere ‘legittimo' in capo al destinatario dell’atto.
---------------
9. Lamenta, infine, la ricorrente la violazione dell'obbligo di motivazione
ex art. 3 l. n. 241/1990 sia perché si tratterebbe di un contrarius actus,
soggetto ad un pregnante onere motivazionale, sia perché il provvedimento
non tiene conto dell'affidamento ingeneratosi per effetto degli atti
precedentemente adottati e ometterebbe qualsivoglia indicazione circa la
valutazione dell'interesse pubblico.
La tesi non ha fondamento.
Per consolidata giurisprudenza, il provvedimento con cui viene ingiunta la
demolizione di un immobile abusivo (oltre a non costituire, stante la sua
autonomia rispetto ai precedenti eventuali atti autorizzativi un contraris
actus), per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei
relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in
ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al
ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui
l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, inerzia non può certamente radicare un affidamento
di carattere ‘legittimo' in capo al destinatario dell’atto (tra le tante, Cons., sez. VI, 05/11/2018, n. 6233, id. sez. VI, 05/09/2018, n. 5204, id.
sez. VI, 19.11.2018 n. 6493) (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 14.08.2019 n. 1173 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: L'IRAP
dovuta sugli incentivi tecnici e dell'avvocatura non può essere a carico
dell'Ente.
Mentre non vi è alcun dubbio sul fatto che gli
incentivi tecnici e quelli corrisposti alle avvocature interne debbano
essere distribuiti ai dipendenti al netto degli oneri assistenziali e
previdenziali a carico dell'ente, la giurisprudenza amministrativa
(tra le tante Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.10.2017 n. 4970) e parte di quella
contabile hanno invece ritenuto che l'Irap dovesse restare a carico solo
dell'ente.
Di contrario avviso, su questa posta fiscale, è la Corte di
Cassazione - Sez. lavoro (ordinanza
13.08.2019 n. 21398)
secondo la quale non è ammissibile che una parte del costo resti a carico
dell'ente locale, con la conseguenza che le amministrazioni dovranno
quantificare le somme che gravano sull'ente a titolo di Irap, rendendole
indisponibili, e successivamente procedere alla ripartizione dell'incentivo,
corrispondendo lo stesso ai dipendenti interessati al netto degli oneri
assicurativi e previdenziali.
Questa è la corretta interpretazione della normativa, a suo tempo già
indicata dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti (deliberazione
30.06.2010 n. 33)
secondo la quale, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri
di personale (tra cui l'Irap) si riflettono in sostanza sulle disponibilità
dei fondi per la progettazione e per l'avvocatura interna, ripartibili nei
confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse
necessarie alla copertura dell'onere Irap gravante sull'amministrazione.
In altri termini, la percentuale di incentivazione prevista dai regolamenti
interni deve prevedere l'iniziale scorporo dell'Irap per essere
successivamente distribuita ai dipendenti al netto degli oneri previdenziali
e assistenziali. Eventuali disposizioni che prevedono spese ulteriori per
gli enti locali, con l'Irap a loro carico, sono da considerare nulle per
violazione di norme imperative.
La questione controversa
Alcuni dipendenti comunali hanno chiesto la restituzione dell'Irap,
indebitamente trattenuta dall'ente locale, sugli incentivi ai lavori
pubblici loro liquidati in diversi anni. La Corte d'appello, in riforma
della sentenza del tribunale di primo grado, ha rigettato la domanda dei
ricorrenti ritenendo che le disposizioni legislative prevedono che gli
accantonamenti disposti dall'ente locale per gli incentivi tecnici devono
essere comprensivi di tutti gli oneri accessori gravanti sul datore di
lavoro pubblico, inclusa la componente fiscale.
In considerazione di una errata lettura delle disposizioni legislative, per
non avere correttamente valorizzato la distinzione fra oneri fiscali e oneri
contributivi e previdenziali, escludendo che l'Irap possa essere ricompresa
negli oneri riflessi inclusi nel fondo incentivante, la questione è giunta
in Cassazione. Infatti, per i ricorrenti gli obblighi di copertura
finanziaria, che certamente gravano sull'ente, impongono a quest'ultimo di
accantonare anche la provvista necessaria al pagamento dell'Irap, ma non
incidono sull'ammontare del compenso spettante ai lavoratori che va
determinato nel rispetto dei criteri fissati dal regolamento.
Le indicazioni della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità, l'onere fiscale dell'Irap non potrà mai
essere posto a carico del dipendente pubblico, ma questo non significa che
la quantificazione dell'incentivo non risenta della necessità di tener conto
della maggiore imposta che verrà a gravare sull'ente, quale conseguenza
indiretta dell'erogazione del trattamento retributivo speciale e aggiuntivo,
che comporta un innalzamento della base imponibile.
Infatti, ogni incremento della retribuzione accessoria determina anche una
maggiorazione del tributo, della quale non può non tenersi conto ai fini del
rispetto del tetto massimo delle risorse disponibili.
Sulla questione si è già espressa la Corte dei conti a Sezioni Riunite (deliberazione
30.06.2010 n. 33)
precisando che «le disposizioni sulla provvista e la copertura degli
oneri di personale (tra cui l'IRAP) si riflettono in sostanza sulle
disponibilità dei fondi per la progettazione e per l'avvocatura interna,
ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al
netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere IRAP gravante
sull'amministrazione».
Nel caso di specie, le aliquote previste sono state determinate dall'ente
nel limite massimo previsto dalla normativa, con la conseguenza che
l'eventuale risorsa addizionale dell'Irap corrisponderebbe a una spesa
disposta in violazione della normativa e della contrattazione collettiva.
In altri termini, eventuali regolamenti dell'ente, che dovessero
disciplinare la distribuzione di risorse addizionali, non potranno essere
considerati sufficienti a costituire una posizione giuridica soggettiva in
capo al dipendente medesimo, occorrendo anche la conformità alle previsioni
della legge e della contrattazione collettiva, in assenza della quale l'atto
risulta essere affetto da nullità, con la conseguenza che la Pa, a ciò
tenuta in forza dell'articolo 97 della Costituzione, sarà obbligata a
ripristinare la legalità violata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa
del 29.08.2019).
---------------
RILEVATO CHE
1. la Corte d'Appello di Firenze, previa riunione dei giudizi ed in riforma
delle sentenze del Tribunale di Pistoia che avevano accolto i ricorsi, ha
respinto le domande proposte nei confronti del Comune di Pistoia dai
litisconsorti indicati in epigrafe i quali, tutti dipendenti comunali che
avevano partecipato ad attività di progettazione, direzione dei lavori o
collaudo di opere pubbliche, avevano agito in giudizio chiedendo
l'accertamento del diritto ad ottenere la liquidazione degli incentivi ex
artt. 18 l. n. 109/1994 e 92 d.lgs. n. 163/2006 al netto dell'IRAP e la
conseguente condanna dell'ente convenuto al pagamento delle somme che a
detto titolo il Comune, erroneamente, aveva trattenuto negli anni compresi
fra il 2004 ed il 2009;
2. la Corte territoriale ha premesso che il Tribunale non aveva compreso gli
esatti termini della questione perché pacificamente l'IRAP deve gravare
sull'ente pubblico, il quale, nel caso di specie, aveva scorporato l'imposta
dopo aver determinato gli importi spettanti a ciascun dipendente;
3. ad avviso del giudice d'appello il Comune aveva agito nel rispetto del
principio generale secondo cui qualsiasi stanziamento o destinazione di
bilancio si deve intendere al lordo delle imposte, principio questo che,
quanto all'incentivo previsto dalla legge n. 109/1994, è stato espressamente
applicato dal legislatore nel dettare l'art. 3, comma 29, della legge n.
350/2003 con la quale, in via interpretativa, è stato chiarito che la somma
stanziata o accantonata deve essere comprensiva di tutti gli oneri
accessori, ivi compresi quelli a carico del datore di lavoro;
4. ha precisato che l'espressione atecnica utilizzata dalla norma di
interpretazione autentica è di ampiezza tale da ricomprendere tutti i costi
che vengono a gravare sull'ente pubblico ed ha aggiunto che negli stessi
termini deve essere interpretato l'art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, con il
quale non sono stati esclusi gli oneri fiscali nella quantificazione
dell'ammontare complessivo dello stanziamento bensì si è solo precisato che
quest'ultimo deve comprendere "anche" le ritenute previdenziali e
assistenziali;
5. ha richiamato a sostegno della decisione i principi affermati da questa
Corte con la
sentenza 12.04.2011 n. 8344
nonché la
deliberazione 30.06.2010 n. 33
con la quale la Corte dei Conti, a Sezioni Riunite in sede di controllo, ha
precisato che le somme stanziate sono ripartibili tra i dipendenti
destinatari dell'incentivo soltanto se al netto delle risorse necessarie
alla copertura dell'onere IRAP;
...
CONSIDERATO CHE
1. con il primo motivo i ricorrenti denunciano «violazione e falsa
applicazione di legge dell'art. 18 della legge n. 109/1994 (come modificato
dall'art. 3, comma 29, della legge n. 350 del 24.12.2003, interpretato
autenticamente dall'art. 1, comma 207, della legge n. 266 del 23.12.2005 e
abrogato con decorrenza 01.07.2006 dall'art. 256 d.lgs. 163/2006) nonché
dell'art. 92, V e VI comma, d.lgs. 163 del 12.04.2006.....dell'art. 2 nonché
del combinato disposto dell'art. 10-bis, commi 1 e 3, comma 1, lett. e-bis),
del d.lgs. 15.12.1997 n. 446» e sostengono, in sintesi, che la Corte
territoriale, nel ritenere legittima la trattenuta operata dal Comune di
Pistoia, oltre a fornire un'interpretazione della normativa in contrasto con
il tenore letterale della stessa, ha finito per trasformare
inammissibilmente l'IRAP da imposta sulle attività produttive in imposta sul
reddito da lavoro dipendente;
1.2. aggiungono che il giudice d'appello, pur richiamandola, si è discostato
dalla giurisprudenza dei giudici contabili i quali, contrariamente a quanto
asserito dalla Corte territoriale, hanno rimarcato la distinzione fra oneri
fiscali e oneri contributivi e previdenziali, escludendo che l'IRAP possa
essere ricompresa negli oneri riflessi inclusi nel fondo incentivante;
1.3. sottolineano la non pertinenza del rinvio alla
sentenza 12.04.2011 n. 8344
di questa Corte, i cui principi risultano applicabili alla diversa questione
degli oneri fiscali gravanti sul reddito del lavoratore e delle ritenute
previdenziali;
1.4. sostengono, in sintesi, che gli obblighi di copertura finanziaria, che
certamente gravano sull'Ente, impongono a quest'ultimo di accantonare anche
la provvista necessaria al pagamento dell'IRAP, ma non incidono
sull'ammontare del compenso spettante ai lavoratori che va determinato nel
rispetto dei criteri fissati dal regolamento;
2. la seconda censura addebita alla sentenza impugnata l'omesso esame
di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti che
i ricorrenti individuano nella «questione della diversa formulazione dei
regolamenti approvati dal Comune di Pistoia per la ripartizione degli
incentivi, susseguitisi nel tempo, rispetto alla bozza di nuovo regolamento
attualmente in discussione che per la prima volta reca espressa menzione
dell'IRAP come onere compreso nel fondo accantonato (sì da intaccare il
compenso netto spettante ai lavoratori professionisti o avvocati)»;
2.1. si sostiene che i regolamenti adottati dal Comune di Pistoia, pur
attribuendo ai dipendenti la percentuale massima prevista dalla legge, non
avevano ricompreso nell'importo del fondo anche l'IRAP, che doveva essere
oggetto di separato accantonamento, sicché l'ente non poteva, al momento
della liquidazione, ridurre unilateralmente l'importo;
3. il terzo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360 n. 3 cod. proc.
civ., denuncia la «violazione e falsa applicazione delle norme di
carattere regolamentare (di cui all'art. 1 del Regolamento di ripartizione
degli incentivi approvato con Delibera di Giunta Comunale di Pistoia n. 250
del 20/11/2000 ed all'art. 1 del Regolamento di ripartizione degli incentivi
approvato con Delibera di Giunta Comunale n. 202 del 07/12/2006)»;
3.1. richiamato il testo degli atti regolamentari succedutisi nel tempo, i
ricorrenti sostengono che solo con la delibera di giunta n. 151 del
07.07.2011, per la prima volta e con disposizione di carattere innovativo,
il Comune ha precisato che al momento dello stanziamento occorre indicare in
modo esplicito la presenza degli oneri fiscali all'interno del fondo
incentivante «articolando l'aliquota da ripartire in una quota
indisponibile (destinata alla copertura delle somme che gravano su l'ente
per oneri fiscali, nella fattispecie a titolo di IRAP) e la restante quota
destinata al pagamento degli incentivi (comprensiva degli oneri
previdenziali ed assistenziali a carico dell'Amministrazione)»;
4. i motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente in ragione della loro
connessione logico giuridica, sono infondati;
5. l'art. 18 della n. 109/1994, con il quale il legislatore ha introdotto un
compenso ulteriore e speciale in favore dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni impegnati nell'attività di progettazione e realizzazione di
opere pubbliche, è stato più volte riformulato e le modificazioni ed
integrazioni rispetto al testo originario hanno principalmente riguardato,
da un lato, la platea dei destinatari, dall'altro l'ambito di
intervento della contrattazione collettiva decentrata nonché i rapporti fra
quest'ultima e l'esercizio della potestà regolamentare attribuita alle
singole amministrazioni (si rimanda per l'evoluzione della normativa a Cass.
sentenza 05.06.2017 n. 13937),
aspetti, questi, che non rilevano in modo specifico nella fattispecie;
5.1. in tutte le versioni succedutesi nel tempo il legislatore ha
quantificato la somma massima da destinare all'incentivazione rapportandola
in termini percentuali al costo dell'opera o del lavoro, senza precisare se
l'importo così determinato dovesse essere al lordo o al netto degli oneri
fiscali, previdenziali ed assistenziali che gravano sull'obbligazione
retributiva;
5.2. infatti, nella versione risultante all'esito delle modifiche apportate
dalla legge n. 144/1999, la norma disponeva, per quel che qui rileva, «Una
somma non superiore all'1,5 per cento dell'importo posto a base di gara di
un'opera o di un lavoro, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui
all'art. 16, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le
modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed
assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile
unico del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i
loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo dell'1,5
per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla
complessità dell'opera da realizzare......»;
5.3. il legislatore, pertanto, è intervenuto sul tema, dapprima con la legge
n. 350/2003, art. 3, comma 29, prevedendo che «I compensi che gli enti
locali, ai sensi dell'articolo 18 della legge 11.02.1994, n. 109, e
successive modificazioni, ripartiscono, a titolo di incentivo alla
progettazione, nella misura non superiore al 2 per cento dell'importo a base
di gara di un'opera o di un lavoro, si intendono al lordo di tutti gli oneri
accessori connessi alle erogazioni, ivi compresa la quota di oneri accessori
a carico degli enti stessi» e successivamente con la legge n. 266/2005,
art. 1, comma 207, espressamente qualificata di interpretazione, con la
quale si è precisato che «L'articolo 18, comma 1, della legge 11.02.1994,
n. 109, e successive modificazioni, che prevede la possibilità di ripartire
una quota percentuale dell'importo posto a base di gara tra il responsabile
unico del progetto e gli incaricati della redazione del progetto, del piano
della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori, si interpreta nel senso che tale quota percentuale è
comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione»;
5.4. il testo dell'art. 18, come integrato dalla legge interpretativa, è
stato poi trasfuso, con modificazioni, nell'art. 92, comma 5, del d.lgs. n.
163/2006 secondo cui «Una somma non superiore al due per cento
dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui
all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e
assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile
del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano
della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per
cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare....»;
5.5. il decreto legislativo, inoltre, ha espressamente previsto, all'art.
256, l'abrogazione della legge n. 109/1994 e della norma interpretativa
dettata dal richiamato art. 1, comma 207, della legge n. 266/2005;
6. questa
Corte, nell'interpretare le
disposizioni sopra richiamate, da tempo ha affermato che il
compenso incentivante ha natura retributiva e, quindi, su di esso vanno
operate le ordinarie ritenute previdenziali e fiscali, ivi comprese quelle
gravanti sul datore di lavoro, con la conseguenza che la quota percentuale
massima va calcolata al lordo e non al netto delle ritenute medesime
(cfr. Cass.
sentenza 27.04.2015 n. 8522, n. 19328/2012,
sentenza 12.04.2011 n. 8344, n. 17536/2010);
7. si tratta, però, di pronunce rese in controversie nelle quali venivano in
rilievo le obbligazioni, gravanti sul lavoratore e sul datore, direttamente
connesse alla prestazione lavorativa in regime di subordinazione, e, quindi,
il principio affermato non è risolutivo nella fattispecie, nella quale si
discute dell'incidenza dell'IRAP, ossia di un onere posto ad esclusivo
carico dell'amministrazione, tenuta al versamento dell'imposta, ex artt. 2 e
3, comma 1, lett. e bis, del d.lgs. n. 446/1997, in ragione della produzione
o dello scambio di beni ovvero della prestazione di servizi;
7.1. la circostanza che l'ammontare dell'imposta debba essere quantificato
assumendo a base di calcolo, ex art. 10 del richiamato d.lgs. n. 446/1997,
le retribuzioni spettanti al personale dipendente ed i compensi corrisposti
ai collaboratori autonomi, non incide sulla natura del tributo, che non
colpisce il reddito bensì il valore aggiunto prodotto dalle attività
autonomamente organizzate;
7.2. ciò induce il Collegio a ritenere condivisibile l'orientamento espresso
dalla giurisprudenza contabile (Corte dei Conti, Sezioni Riunite in sede di
controllo,
deliberazione 30.06.2010 n. 33)
secondo cui, in ragione dei presupposti impositivi, l'onere
fiscale non può gravare sul lavoratore dipendente e, pertanto, si deve
escludere che i commi 207 e 208 dell'art. 1 legge n. 266/2005, nella parte
in cui si riferiscono, rispettivamente, agli «oneri assistenziali e
previdenziali a carico dell'amministrazione» e, quanto al personale
delle avvocature interne degli enti pubblici, agli «oneri riflessi»,
possano essere interpretati nel senso di ricomprendere anche la maggiore
imposta che il datore di lavoro dovrà corrispondere a titolo di
maggiorazione IRAP, in ragione del compenso aggiuntivo corrisposto al
proprio personale;
7.3. per le medesime ragioni la previsione contenuta
nell'art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, che ricalca sostanzialmente la norma di
interpretazione autentica dell'art. 18 della legge n. 109/1994, è riferibile
ai soli oneri previdenziali e costituisce un'eccezione al principio di
carattere generale sancito dall'art. 2115 cod. civ., secondo cui «l'imprenditore
e il prestatore di lavoro contribuiscono in parti eguali alle istituzioni di
previdenza e di assistenza»;
8. ciò, peraltro, non significa che la quantificazione dell'incentivo non
risenta della necessità di tener conto della maggiore imposta che verrà a
gravare sull'ente, quale conseguenza indiretta dell'erogazione del
trattamento retributivo speciale ed aggiuntivo, che comporta un innalzamento
della base imponibile, perché soccorrono al riguardo altre disposizioni
dettate sempre dalla legge n. 266/2005 nonché i principi generali ai quali,
in tema di spesa, deve sempre essere orientata l'azione delle pubbliche
amministrazioni;
8.1. al riguardo va, infatti, osservato che le disposizioni della richiamata
legge n. 266/2005, specificatamente volte a disciplinare le modalità di
costituzione dei fondi destinati a spese relative al personale, includono in
modo espresso nell'ammontare complessivo anche i maggiori oneri che ne
derivano a titolo di IRAP (commi 181, 185 e 198), e ciò perché, se così non
fosse, sui bilanci dello Stato e degli enti pubblici graverebbero spese
prive della necessaria copertura;
8.2. si è già detto che l'imposta è commisurata all'ammontare della spesa
per il personale sicché ogni incremento della retribuzione accessoria
determina anche una maggiorazione del tributo, della quale non può non
tenersi conto ai fini del rispetto del tetto massimo delle risorse
disponibili;
8.3. il Collegio,
pertanto, condivide e fa proprie le conclusioni alle quali
sono già pervenuti i giudici contabili secondo cui, in sede interpretativa,
l'art. 1, comma 207, della legge n. 266/2005 e l'art. 92 del d.lgs.
163/2006, che del primo ripete il contenuto, vanno armonizzati con i
principi che regolano la costituzione dei fondi, con la conseguenza che le
amministrazioni dovranno quantificare le somme che gravano sull'ente a
titolo di IRAP, rendendole indisponibili, e successivamente procedere alla
ripartizione dell'incentivo, corrispondendo lo stesso ai dipendenti
interessati al netto degli oneri assicurativi e previdenziali;
8.4. in altri termini «le disposizioni sulla provvista e
la copertura degli oneri di personale (tra cui l'IRAP) si riflettono in
sostanza sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per
l'avvocatura interna, ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi
titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura
dell'onere IRAP gravante sull'amministrazione»
(Corte dei Conti
deliberazione 30.06.2010 n. 33
cit.);
9. le richiamate conclusioni sono coerenti con i principi desumibili, quanto
alla spesa per il personale, dal d.lgs. n. 165/2001 le cui disposizioni, pur
nella diversità delle formulazioni succedutesi nel tempo, hanno sempre
perseguito l'obiettivo di armonizzare l'avvenuta contrattualizzazione del
rapporto di impiego pubblico con l'esigenza primaria di garantire il
controllo ed il contenimento della spesa pubblica, esigenza dalla quale
derivano, da un lato, il divieto per il datore di corrispondere trattamenti
economici che non trovino fondamento nella contrattazione collettiva o nella
legge (ciò, perché entrambe dette fonti presuppongono la previa valutazione
della sostenibilità finanziaria), dall'altro la previsione di nullità delle
clausole della contrattazione integrativa non compatibili con i vincoli di
bilancio delle amministrazioni;
10. l'esegesi data alle norme che qui vengono in rilievo si armonizza,
altresì, con il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui
anche in materia di spese per il personale l'esigenza di
prevedere la copertura economica si pone per la pubblica amministrazione
contraente quale presupposto per la formazione di una valida volontà
negoziale (Cass. 17770/2017 e in
tema di incarichi di consulenza Cass. n. 17358/2019);
11. non si traggono argomenti di segno contrario dalle sentenze di questa
Corte nn. 16579, 16838 e
17356/2017, riprese da Cass. n. 29375/2018, perché in quei casi
si discuteva unicamente dell'incidenza degli oneri previdenziali e non dell'IRAP,
che il datore di lavoro aveva già restituito sua sponte al personale
assegnato all'avvocatura interna;
12. sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere
rigettato, non potendo i ricorrenti fare leva sulla circostanza che solo in
occasione dell'adozione del regolamento approvato con delibera n. 151 del
07.07.2011 il Comune di Pistoia abbia fatto espresso riferimento all'accontamento
delle somme da versare a titolo di IRAP in relazione all'incentivo
corrisposto;
13. detto obbligo di accantonamento, infatti, discendeva già in precedenza
dalla disciplina vigente, da interpretare nei termini sopra indicati, sicché
non poteva l'ente corrispondere ai dipendenti l'intero ammontare del fondo
stanziato, quantificato nella misura massima, ponendo in essere un atto
dispositivo in contrasto con norma imperativa;
14. nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, è ormai consolidato il
principio secondo cui in relazione al trattamento economico
del dipendente pubblico, l'atto deliberativo non è sufficiente a costituire
una posizione giuridica soggettiva in capo al dipendente medesimo,
occorrendo anche la conformità alle previsioni della legge e della
contrattazione collettiva, in assenza della quale l'atto risulta essere
affetto da nullità, con la conseguenza che la Pubblica Amministrazione, a
ciò tenuta in forza della previsione di cui al richiamato art. 97 Cost.,
deve ripristinare la legalità violata
(cfr. fra le più recenti Cass. n. 3826/2016, Cass. 16088/2016 e Cass. n.
25018/2017) (Corte di cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 13.08.2019 n. 21398). |
ESPROPRIAZIONE: Richiesta
risarcimento danni per equivalente pari al valore del fondo formulata in
costanza di occupazione acquisitiva.
---------------
●
Risarcimento danni - Espropriazione per pubblica utilità – Richiesta di
risarcimento danni per equivalente pari al valore del fondo – Formulata in
costanza di occupazione acquisitiva – Riconoscimento risarcimento danni da
occupazione illegittima – Possibilità.
●
Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione acquisitiva - Possesso ad
usucapionem – Esclusione – Conseguenza.
●
Non viola il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato la
sentenza che, a fronte della richiesta del danno per equivalente pari al
valore del fondo formulata allorché l'ordinamento contemplava l'istituto
dell'occupazione acquisitiva, abbia disposto il solo danno da occupazione
illegittima, nel presupposto della permanente proprietà del cespite in capo
al privato: la tutela giurisdizionale, infatti, deve essere modulata in base
all'assetto esegetico generalmente condiviso al momento della pronuncia (1).
●
Nel periodo di tempo in cui trovava applicazione l'istituto
dell'occupazione acquisitiva non è in radice ravvisabile alcun possesso ad
usucapionem, di talché non può ipotizzarsi l'acquisto in capo a terzi (nella
specie, assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica) della
proprietà del bene ai sensi dell'art. 1159 c.c. (cd. "usucapione
abbreviata") allorché il decennio sia maturato in costanza dell'indirizzo
giurisprudenziale che riconosceva l'occupazione acquisitiva (2).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che la richiesta di giustizia avanzata
dall’appellante aveva come causa petendi la posizione dominicale
illo tempore incisa dall’indebita occupazione del bene da parte
dell’Amministrazione e ne chiedeva la tutela nell’ambito dei rimedi allora
considerati rilevanti dalle Corti.
Correttamente, dunque, il Tribunale ha fatto riferimento alla (diversa)
tutela contemplata dall’attuale diritto vivente, che ha espunto
dall’ordinamento, per insuperabile contrasto con superiori principi
sovranazionali cui la Repubblica è costituzionalmente tenuta a conformarsi,
l’istituto dell’occupazione acquisitiva.
Più in particolare, venuto meno il riconoscimento della valenza acquisitiva
dei comportamenti di apprensione materiale del bene posti in essere sine
titulo dall’Amministrazione, il Tribunale ha ricondotto la domanda
nell’alveo dell’ordinario illecito aquiliano ed ha, pertanto, condannato
l’Ente al risarcimento del solo danno (“a carattere permanente”) da
perdita della disponibilità materiale del bene, specificando che la
proprietà è rimasta in capo ai ricorrenti.
(2)
Cons. St., A.P., 09.02.2016, n. 2; id.,
sez. IV, 01.08.2017, n. 3838; id.
30.08.2017, n. 4106 (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.08.2019 n. 5703 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI -
URBANISTICA: Accertamento
dell’obbligo di sottoposizione del progetto
alla valutazione di compatibilità
ambientale.
Le preclusioni di
diritto interno devono essere valutate dalla
prospettiva del diritto comunitario; è
possibile, infatti, che la mancanza di
rimedi giurisdizionali costituisca essa
stessa un ostacolo al raggiungimento degli
obiettivi fissati dalla normativa
comunitaria, e debba quindi essere superata
mediante la disapplicazione delle norme
interne che impediscono la proposizione di
nuovi ricorsi.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha
precisato che il diritto comunitario, pur
consentendo agli Stati di fissare un termine
per le impugnazioni dei provvedimenti in
materia di VIA, non tollera che i progetti
la cui autorizzazione non è più esposta a un
ricorso giurisdizionale diretto, data la
scadenza del termine di ricorso previsto
dalla normativa nazionale, siano puramente e
semplicemente considerati autorizzati sotto
il profilo dell’obbligo di valutazione della
compatibilità ambientale; in particolare,
non è possibile impedire la proposizione di
un’azione di risarcimento basata sulla
violazione dell’obbligo di valutazione della
compatibilità ambientale.
Poiché il risarcimento in forma specifica
può consistere, prima dell’esecuzione dei
lavori, nell’apertura di una procedura di
VIA, si deve ritenere che i soggetti
interessati, compresi i comitati di
cittadini che risentono delle conseguenze
dell’opera, possano chiedere l’accertamento
dell’obbligo di sottoposizione del progetto
alla valutazione di compatibilità ambientale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 13.08.2019 n. 739 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Sul problema dell’ammissibilità del
ricorso
17. Come si è visto sopra, il Comitato ha
già proposto davanti a questo TAR un ricorso
diretto a ottenere l’accertamento della
decadenza del decreto di VIA del 22.10.2002 allo scadere dei cinque anni. In quel
caso, è stata scelta la doppia
qualificazione di ricorso per ottemperanza e
di ricorso contro il silenzio. Nel presente
giudizio, invece, viene proposta
direttamente un’azione di accertamento. La
sostanza della domanda, tuttavia, non
cambia.
La causa petendi è la stessa (ossia
la tesi, condivisa dalla sentenza di questo
TAR n. 859/2008, della retroattività della
norma nazionale del 2006 che prevede
l’efficacia quinquennale della VIA), e
identico è anche il petitum (accertare
l’obbligo di reiterazione della valutazione
di compatibilità ambientale, con blocco
immediato dei lavori che si basano sulla
precedente serie procedimentale, alla cui
origine si colloca appunto il decreto di VIA
del 22 ottobre 2002).
È quindi fondata
l’eccezione di litispendenza, essendosi già
pronunciato questo TAR con la sentenza in
rito n. 1264/2017.
18. Occorre poi sottolineare che la
presentazione di nuove istanze
all’amministrazione non rimette in termini
il Comitato per la formulazione di ricorsi
costituenti una replica di quelli dichiarati
irricevibili e inammissibili. Anche se
pronunciata in rito, la sentenza n.
1264/2017 ha esaurito per il Comitato le vie
interne di ricorso dedicate alle censure
contro l’inottemperanza alla sentenza n.
859/2008 e contro il silenzio sull’apertura
di una nuova procedura di VIA. È quindi
fondata anche questa eccezione di
inammissibilità.
19. La circostanza che all’azione venga ora
applicato un nome nuovo (da
ottemperanza/silenzio ad accertamento) non
individua una realtà giuridica diversa, che
possa essere oggetto di cognizione senza
limiti di tempo e indipendentemente
dall’esito di precedenti ricorsi.
20. Un ricorso che, riproponendo questioni
già decise in passato dal giudice
amministrativo su impulso di altri soggetti,
cercasse di perseguire non l’ottemperanza
alla precedente sentenza ma una pronuncia
con lo stesso contenuto, ossia accertativa
della precedente, incontrerebbe la
preclusione costituita dall’assenza
nell’ordinamento interno di una
giurisdizione di diritto oggettivo a
presidio della legittimità degli atti
amministrativi. La stessa sentenza n.
859/2008, nel dichiarare la decadenza della
VIA, ha specificato (v. punti 5 e 6) che la
tutela giurisdizionale è stata concessa
unicamente nei limiti in cui è stata
ravvisata una lesione diretta e attuale
dell’interesse dei Comuni ricorrenti.
Dopo
che questi ultimi, tramite l’accordo transattivo del 19.12.2008, hanno
rinunciato agli effetti della sentenza n.
859/2008, con alcune garanzie riferite ai
rispettivi territori, non vi è alcun
giudicato, né alcuna possibilità per altri
soggetti di invocare l’autorità della
precedente sentenza allo scopo di ottenere
la medesima dichiarazione di decadenza della
VIA.
Non potrebbe farlo l’interveniente Legambiente Lombardia Onlus, la cui
posizione accessoria segue la sorte dei
ricorrenti, come precisato nella sentenza n.
1264/2017, e a maggior ragione non possono
farlo soggetti come il Comitato, del tutto
estranei al giudizio originario. Dal punto
di vista del Comitato, la sentenza n.
859/2008 è dunque un generico precedente
giurisprudenziale, che non integra in alcun
modo i presupposti processuali necessari per
esperire un’autonoma azione di accertamento.
21. Peraltro, le preclusioni di diritto
interno devono essere valutate dalla
prospettiva del diritto comunitario. È
possibile, infatti, che la mancanza di
rimedi giurisdizionali costituisca essa
stessa un ostacolo al raggiungimento degli
obiettivi fissati dalla normativa
comunitaria, e debba quindi essere superata
mediante la disapplicazione delle norme
interne che impediscono la proposizione di
nuovi ricorsi.
La Corte di Giustizia
dell’Unione Europea ha precisato che il
diritto comunitario, pur consentendo agli
Stati di fissare un termine per le
impugnazioni dei provvedimenti in materia di
VIA, non tollera che i progetti la cui
autorizzazione non è più esposta a un
ricorso giurisdizionale diretto, data la
scadenza del termine di ricorso previsto
dalla normativa nazionale, siano puramente e
semplicemente considerati autorizzati sotto
il profilo dell’obbligo di valutazione della
compatibilità ambientale. In particolare,
non è possibile impedire la proposizione di
un’azione di risarcimento basata sulla
violazione dell’obbligo di valutazione della
compatibilità ambientale (v. C.Giust. Sez. I
17.11.2016 C-‘348/15, Stadt Wiener
Neustadt, punti 43 e 48).
Poiché il
risarcimento in forma specifica può
consistere, prima dell’esecuzione dei
lavori, nell’apertura di una procedura di
VIA, si deve ritenere che i soggetti
interessati, compresi i comitati di
cittadini che risentono delle conseguenze
dell’opera, possano chiedere l’accertamento
dell’obbligo di sottoposizione del progetto
alla valutazione di compatibilità
ambientale.
22. Nel caso in esame, tuttavia, non vi sono
i presupposti per riconoscere la protezione
individuata dalla giurisprudenza della Corte
di Giustizia dell’Unione Europea. Il
raccordo autostradale tra la A4 e la
Valtrompia è stato infatti sottoposto
regolarmente alla procedura di VIA, e ha
ottenuto in data 22.10.2002 una
valutazione favorevole di compatibilità
ambientale.
Il medesimo giudizio è stato
confermato dalla Commissione Tecnica VIA-VAS
in data 19.06.2008 per due stralci
funzionali dell’originario progetto
esecutivo, tra cui quello relativo alla
realizzazione del tratto Concesio-Sarezzo,
che qui interessa. Non essendovi stata
quindi alcuna violazione degli obblighi
comunitari, non vi è neppure l’esigenza di
rimediare attraverso l’ampliamento delle
facoltà processuali e la rimessione in
termini di quanti si oppongono al progetto. |
APPALTI: È
la stazione appaltante a decidere se la valutazione dell'anomalia compete al Rup o alla commissione
Il codice dei contratti non ha operato una scelta precisa circa il
soggetto/organo competente alla verifica dell'anomalia dell'offerta. Ciò
induce a ritenere che rimanga nella competenza della stazione appaltante
individuare l'organo competente e questa è tenuta ad esplicitarlo nella
legge speciale di gara.
In questi termini si è espresso il TAR Liguria, Sez. II, con
la
sentenza
13.08.2019 n. 688.
La vicenda
Risulta di particolare importanza la posizione espressa dal giudice ligure
in relazione alla competenza in tema di verifica della potenziale anomalia
dell'offerta.
Le linee guida Anac n. 3, come noto, attribuiscono questa competenza al Rup
con il supporto solo eventuale (nel senso che sarà il Rup a decidere il
coinvolgimento o meno dell'organo collegiale nel procedimento) della
commissione di gara.
Nel caso di specie, la stazione appaltante ha proceduto secondo le
indicazioni appena prospettate. In questo modo, però, secondo il ricorrente
sono state violate le disposizioni della legge speciale di gara che, in più
punti, richiamavano l'esigenza di una procedura svolta in concerto tra Rup e
commissione di gara, perciò l'organo collegiale non poteva essere estromesso
dalla verifica di congruità dell'offerta. Il giudice condivide la
ricostruzione prospettata dalla parte ricorrente.
La sentenza
Secondo il giudice, il tenore della legge di gara risulta chiaro
«nell'imporre che la valutazione di anomalia dell'offerta sia svolta
obbligatoriamente dal Rup con il supporto della commissione». Dirimente in
questo senso diverse prescrizioni contenute nella lex specialis.
Il richiamo, per esempio, alla seduta riservata in cui avrebbero dovuto
essere valutate le giustificazioni. Lo stesso richiamo a una seduta
riservata, secondo quanto si legge in sentenza, renderebbe palese l'esigenza
della «presenza contemporanea del Rup e della commissione, non avendo
altrimenti senso esprimersi in termini di seduta relativamente a un organo
monocratico».
Depone, inoltre, nel senso invocato dal ricorrente anche la previsione che
l'esclusione sia prerogativa propria del Rup, con il che al contrario, deve
ritenersi la competenza concorrente all'esame delle giustificazioni della
commissione e del Rup.
Il necessario coinvolgimento della commissione di gara, si legge ancora nel
decisum, emergerebbe in maniera chiara dall'articolo 77, comma 1, del codice
dei contratti secondo cui «nelle procedure di aggiudicazione di contratti di
appalti o di concessioni, limitatamente ai casi di aggiudicazione con il
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa la valutazione delle
offerte dal punto di vista tecnico ed economico è affidata a una commissione
giudicatrice, composta da esperti nello specifico settore cui afferisce
l'oggetto del contratto».
Nel momento in cui questa norma impone che sia la
«commissione a valutare l'offerta induce a ritenere» che la stessa
valutazione di anomalia costituisca una «competenza della commissione posto
che anche la valutazione di anomalia si sostanzia in una valutazione
dell'offerta e che nessuno meglio della commissione, che conosce l'offerta
per averla valutata, può operare la verifica di anomalia della stessa».
In definitiva, il codice dei contratti non individuerebbe uno specifico
soggetto competente a condurre il procedimento di verifica della congruità
dell'offerta riferendosi in modo generico alla stazione appaltante tenuta a
operare attraverso i propri organi.
Non si può dubitare, rileva il giudice che, sia il Rup sia la commissione
siano, nella normalità dei casi, organi della stazione appaltante, ne
consegue, quindi, «che la disciplina di fonte primaria non opera una scelta
a favore di un organo o di un altro».
La scelta deve, pertanto, essere rimessa alla stazione appaltante, «la sola
che conoscendo le peculiarità della singola competizione, in termini di
valore economico, complessità fattuale, esigenze di rapidità eccetera, può
consapevolmente decidere a quale organo fare svolgere la verifica di
anomalia».
La legge di gara ha previsto la conduzione della procedura di concerto tra
Rup e commissione di gara e a questa disposizione occorreva adeguarsi non
apparendo questa previsione neppure «illogica o irrazionale ed anzi (…)
giustificata dalla complessità e dal valore della competizione».
In ultima analisi, quindi, a prescindere dalle indicazioni fornite dalle
linee guida Anac n. 3, il codice dei contratti «contiene degli indizi tali
da fare ritenere che la scelta in ordine alla competenza sulla verifica di
anomalia dell'offerta sia (…) rimessa alla stessa stazione appaltante in
sede di redazione della lex specialis di gara»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.08.2019).
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MASSIMA
Il primo motivo, che configura come obbligatorio il supporto
della Commissione all’attività valutativa dell’anomalia dell’offerta del RUP,
è fondato.
La lex specialis di gara, art. 22 del disciplinare di gara (doc n. 1
prod. ricorrente 10 aprile 2019) ha previsto, infatti, che: “Al ricorrere
dei presupposti di cui all’art. 97, comma 3, del Codice e in ogni altro caso
in cui, in base a elementi specifici, l’offerta appaia anormalmente bassa,
il RUP, con il supporto della Commissione, valuta la congruità, serietà,
sostenibilità e realizzabilità delle offerte che appaiono anormalmente basse
(comma 1)”.
L’art. 22 del disciplinare ha ulteriormente confermato il ruolo della
Commissione nella valutazione di anomalia dell’offerta precisando che: “Il
RUP, con il supporto della Commissione, esamina in seduta riservata le
spiegazioni fornite dall’offerente e, ove non le ritenga sufficienti ad
escludere l’anomalia, chiede per iscritto la presentazione, per iscritto, di
ulteriori chiarimenti, assegnando un termine di n. giorni 5 dal ricevimento
dell’offerta” (comma 4).
L’ultimo comma poi precisa: “Il RUP esclude, ai sensi dell’art. 97, commi
5 e 6 del Codice, le offerte che, in base all’esame degli elementi forniti
con le spiegazioni risultino, nel complesso, inaffidabili”.
Il tenore della lex specialis è chiaro nell’imporre che la
valutazione di anomalia dell’offerta sia svolta obbligatoriamente dal RUP
con il supporto della Commissione.
A tal riguardo oltre al dato costituito dal tenore letterale dei commi primo
e quarto depone in tal senso la previsione secondo la quale, come prescritto
dal comma quarto, l’esame della giustificazioni avvenga in seduta riservata,
con ciò rendendo palese la presenza contemporanea del RUP e della
Commissione, non avendo altrimenti senso esprimersi in termini di seduta
relativamente ad un organo monocratico.
Depone, inoltre, nel senso invocato dal ricorrente la previsione che
l’esclusione sia prerogativa propria del RUP, con il che a contrario, deve
ritenersi la competenza concorrente all’esame delle giustificazioni della
Commissione e del RUP.
La controinteressata, tuttavia, ha spiegato ricorso incidentale avverso la
disposizione di cui all’art. 22 del disciplinare di gara ove interpretata
nel senso di richiedere obbligatoriamente l’intervento della Commissione,
lamentandone l’illegittimità per violazione e falsa applicazione degli artt.
31, 77 e 97 del d.lgs. 50/2016, oltre che delle linee guida ANAC n. 3/2016
come modificate con deliberazione del Consiglio n. 1096 del 26.10.2016, e
per violazione e falsa applicazione del principio di economicità e non
aggravio del procedimento.
Si sostiene che le norme di cui agli artt. 31, 77 e 97 d.lgs. 50/16
escluderebbero la competenza della Commissione in merito alla valutazione di
anomalia dell’offerta che conseguentemente ricadrebbe nella competenza
residuale del RUP.
La tesi è priva di fondamento.
L’art. 77, comma 1, d.lgs. 50/2016 stabilisce: “Nelle
procedure di aggiudicazione di contratti di appalti o di concessioni,
limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa la valutazione delle offerte dal punto di
vista tecnico ed economico è affidata ad una commissione giudicatrice,
composta da esperti nello specifico settore cui afferisce l'oggetto del
contratto”.
Orbene tale norma nel prevedere che sia la commissione a valutare l’offerta
induce a ritenere che anche la valutazione di anomalia dell’offerta sia di
competenza della Commissione posto che anche la valutazione di anomalia si
sostanzia in una valutazione dell’offerta e che nessuno meglio della
Commissione, che conosce l’offerta per averla valutata, può operare la
verifica di anomalia della stessa.
L’art. 97 d.lgs. 50/2016 stabilisce una generica competenza della stazione
appaltante in ordine alla verifica di anomalia dell’offerta. A tal riguardo
occorre rilevare come sia il RUP sia la Commissione siano, nella normalità
dei casi, organi della stazione appaltante
L’art. 97, tuttavia, contiene degli indizi tali da fare ritenere che la
scelta in ordine alla competenza sulla verifica di anomalia dell’offerta sia
in ultima analisi rimessa alla stessa stazione appaltante in sede di
redazione della lex specialis di gara.
Deve, infatti, rilevarsi come ai commi 2 e 2-bis dell’art. 97 d.lgs. 50/2016
sia prevista la competenza alternativa della Commissione o del RUP nella
predisposizione dei criteri per la determinazione della soglia di anomalia.
Ne consegue che la disciplina di fonte primaria non opera una scelta a
favore di un organo o di un altro.
La scelta deve, pertanto, essere rimessa alla stazione appaltante, la sola
che conoscendo le peculiarità della singola competizione, in termini di
valore economico, complessità fattuale, esigenze di rapidità ecc., può
consapevolmente decidere a quale organo fare svolgere la verifica di
anomalia.
Nella specie la lex specialis ha stabilito la regola del concorso di
RUP e Commissione nella valutazione di anomalia dell’offerta.
Tale previsione non appare illogica o irrazionale ed anzi appare
giustificata dalla complessità e dal valore della competizione.
Né può essere utilmente invocato il principio di speditezza o non aggravio
del procedimento amministrativo posto che le esigenze di valutazione
ponderata, attenta e competente dell’anomalia dell’offerta devono ritenersi
prevalenti sull’esigenza di celerità che, non altrimenti specificata, si
risolve in una mera petizione di principio.
La valutazione di anomalia dovrà, pertanto, essere ripetuta secondo le
modalità di cui si darà conto di seguito.
Il Collegio ritiene di esaminare anche il merito del ricorso al fine di
fornire orientamenti alla futura attività di verifica di anomalia
dell’offerta da compiersi congiuntamente in apposita seduta secondo le
previsioni dell’art. 22 del disciplinare di gara da parte del RUP con il
supporto della Commissione.
A tal riguardo una premessa metodologica si impone al fine di evitare
malintesi in ordine alla portata della verifica di anomalia dell’offerta
nella gara de qua.
Si è, infatti, sostenuto, in particolare da parte della controinteressata,
che, nelle fattispecie di partenariato pubblico-privato, la verifica di
anomalia dell’offerta dovrebbe essere circoscritta alla coerenza del piano
economico finanziario proposto.
Simile tesi è infondata, in generale, dovendo essere svolta, specie nelle
concessioni -dove l’introito atteso dalla gestione del bene o del servizio
appare fondamentale per l’equilibrio economico finanziario del rapporto- una
penetrante indagine in ordine alla attendibilità e coerenza delle previsioni
fornite, indagine che non può pretermettere l’esame dei dati sulla cui base
le previsioni di redditività sono state formulate.
Simile tesi, inoltre, è infondata nello specifico caso portato
all’attenzione del Collegio, atteso che la lex specialis di gara ha
richiesto, in sede di valutazione di anomalia dell’offerta, una valutazione
della “congruità, serietà, sostenibilità e realizzabilità delle offerte”
(art. 22, comma 1, del disciplinare di gara).
L’enfasi posta dalla lex specialis di gara non appare frutto del caso
ma di una meditata e condivisibile scelta di verificare la fondatezza delle
giustificazioni e dei dati sulle quali le stesse si fondano per evitare che
una concessione dall’oggetto così delicato, quale la gestione di presidi
ospedalieri, possa essere compromessa successivamente per erronee
valutazioni in ordine alla redditività e alla capacità di generare flussi di
cassa. |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione (prima o dopo la proposizione del ricorso) di un’istanza di
sanatoria di un abuso edilizio non determina l’inammissibilità, per carenza
di interesse, o l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse,
dell’impugnazione proposta avverso l’ordine di demolizione, ma comporta, al
più, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva, che
riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
---------------
Premesso che tale domanda ha ad oggetto soltanto la traslazione
dell’area di sedime dell’edificio il fase di realizzazione dello stesso,
l’eccezione comunque non può essere accolta in quanto -secondo una
consolidata e condivisibile giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 10.09.2018, n. 5293; id., Sez. VI, 27.02.2018, n. 1171)- la
presentazione (prima o dopo la proposizione del ricorso) di un’istanza di
sanatoria di un abuso edilizio (alla quale può essere assimilata la domanda
di regolarizzazione ai sensi dell’art. 128, comma 8, legge provinciale n.
1/2008) non determina l’inammissibilità, per carenza di interesse, o l’improcedibilità,
per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso
l’ordine di demolizione, ma comporta, al più, un arresto temporaneo
dell’efficacia della misura repressiva, che riacquista la sua efficacia nel
caso di rigetto della domanda di sanatoria
(TRGA Trentino Alto Adige,
sentenza 08.08.2019 n. 108 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
APPALTI: Esclusione
dalla gara per gravi illeciti professionali.
In relazione alle
ipotesi in cui i fatti considerati
dall’amministrazione siano oggetto di un
procedimento penale, deve riconoscersi alla
stazione appaltante la facoltà di escludere
un concorrente per ritenuti “gravi illeciti
professionali” a prescindere dalla
definitività degli accertamenti compiuti in
sede penale, ma resta ferma la necessità che
il potere esercitato dall’amministrazione
sottenda un’adeguata istruttoria, un
compiuto contraddittorio e una congrua
motivazione.
E' certamente vero che, mentre nel processo
penale deve essere raggiunta la prova piena
degli elementi del reato contestato,
un’amministrazione aggiudicatrice che
intenda escludere un operatore economico
deve solo dimostrare i fatti che ne rendano
dubbia l’integrità e affidabilità;
nondimeno, il fatto in sé del rinvio a
giudizio, seppure per un grave reato
commesso, in ipotesi, in correità con
funzionari comunali, non è espressivo
dell’inaffidabilità dell’operatore, perché
nella materia in esame non è configurabile
alcun automatismo, ma si impone
all’amministrazione, dotata di poteri
discrezionali, di procedere ad un vaglio
accurato degli elementi di fatto a
disposizione, delle risultanze istruttorie,
dei supporti probatori e delle risultanze
del confronto dialettico con l’operatore
interessato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 24.07.2019 n. 1724 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2) Con un primo gruppo di censure, la
ricorrente lamenta la violazione sostanziale
delle garanzie partecipative e la carenza di
istruttoria e di valutazione, quanto meno in
ordine all’adozione di misure di self
cleaning.
2.1) Tanto la ricorrente, quanto
l’amministrazione resistente, sviluppano
argomentazioni che pongono sullo sfondo il
problema della possibilità per una stazione
appaltante di prendere in esame, ai fini
della valutazione della sussistenza in
concreto della fattispecie delineata
dall’art. 80, comma 5, lett. c), del d.l.vo
2016, n. 50, anche i fatti che siano oggetto
di un rinvio a giudizio.
Sul punto, il Tribunale evidenzia, in linea
generale e in coerenza con il prevalente
orientamento della giurisprudenza
amministrativa e della Corte di Giustizia
UE, che anche i fatti oggetto di un
procedimento penale in corso possono
costituire “mezzi adeguati”, per
un’amministrazione aggiudicatrice, al fine
di dimostrare che un operatore economico si
sia reso responsabile di gravi illeciti
professionali.
La giurisprudenza eurounitaria,
nell’individuare le “ricerche e verifiche”
che le stazioni appaltanti possono condurre
per accertare se determinati fatti, oggetto
di un procedimento penale, abbiano reso
dubbia l’integrità di un operatore
economico, laddove esista “una procedura
specifica disciplinata dal diritto
dell'Unione o dal diritto nazionale per
perseguire determinate violazioni e in cui
particolari organismi sono incaricati di
effettuare indagini al riguardo”, ha
precisato che l’amministrazione aggiudicatrice, “nell’ambito della
valutazione delle prove fornite, deve
basarsi in linea di massima sull'esito di
siffatta procedura” (Corte di Giustizia UE,
24.10.2018, C-124/17, punti 24-25).
Si badi, la Corte di Giustizia non ha
affermato l’impossibilità per una stazione
appaltante di procedere ad un’autonoma
valutazione dei fatti oggetto di un
procedimento penale in corso, ma ha statuito
che “occorre tener conto delle funzioni
rispettive, da un lato, delle
amministrazioni aggiudicatrici e,
dall'altro, delle autorità investigative”,
precisando che “mentre queste ultime hanno
il compito di stabilire la responsabilità di
determinati agenti nel commettere una
violazione a una norma di diritto,
accertando con imparzialità la realtà di
fatti che possono costituire una siffatta
violazione, nonché punendo il comportamento
illecito pregresso di detti agenti, le
amministrazioni aggiudicatrici devono
valutare i rischi cui potrebbero essere
esposte aggiudicando un appalto a un
offerente la cui integrità o affidabilità
sia dubbia” (v. punto 26, giur. cit.).
Ad analoghe conclusioni giunge la
giurisprudenza amministrativa, ritenendo
che, in linea generale, l’art. 80, c. 5,
lett. c) cit., rimetta alla stazione
appaltante il potere di apprezzamento delle
condotte dell’operatore economico che
possono integrare un “grave illecito
professionale”, tale da porne in dubbio
l’integrità e l’affidabilità, anche oltre le
ipotesi elencate nel medesimo articolo
(Consiglio di Stato, Sez. V, 03.09.2018, n. 5142).
E’ pacifico in giurisprudenza che non è
indispensabile che i gravi illeciti
professionali, posti a fondamento
dell’espulsione del concorrente dalla gara,
siano accertati con sentenza, anche se non
definitiva, essendo, infatti, sufficiente
che gli stessi siano ricavabili da altri
gravi indizi (cfr. Consiglio di Stato, Sez.
V, 27.02.2019, n. 1367; Consiglio di
Stato, Sez. V, 20.03.2019, n. 1846), nel
contesto di un ampio potere discrezionale
riconosciuto alle stazioni appaltanti.
Potere che trova diretto riconoscimento
nell’ampiezza della formulazione lessicale
utilizzata dall’art. 57, comma 4 lett. c),
della direttiva 2014/24, che, consentendo di
escludere i partecipanti che abbiano
commesso “gravi illeciti professionali”,
riconosce un ampio potere valutativo alle
amministrazioni aggiudicatrici, ciò che ha
indotto la giurisprudenza a dubitare della
legittimità degli automatismi previsti
dall’art. 80, comma 5, lett. c), del d.l.vo
2016, n. 50.
Sul punto vale rammentare che, a fronte del
quesito posto dal TAR Campania (ordinanza
n. 5893 del 13.12.2017), l’Avvocato Generale
-nelle conclusioni rese nella causa C-41/18
in data 07.03.2019- ha sostenuto che la
normativa italiana, nella parte in cui
preclude la partecipazione ad un operatore
economico che non avesse contestato in
giudizio la risoluzione anticipata di un
precedente contratto di appalto, “sottrae
all’amministrazione aggiudicatrice la
facoltà di valutare pienamente
l’affidabilità del candidato” (v. punto 53),
restringendone indebitamente il campo di
azione (v. punto 55. Un’analoga questione è
stata peraltro sollevata da Consiglio di
Stato, 03.05.2018 n. 2639).
L’art. 80, comma 5, cit. è stato modificato
dall’art. 5, comma 1, del d.l. 2018, n. 135,
convertito con L. 2019 n. 12, sicché se, da
un lato, si consente alle amministrazioni
aggiudicatrici di escludere il concorrente
cha abbia subito una risoluzione per
inadempimento, una condanna al risarcimento,
o altre sanzioni, anche a fronte dalla loro
mancata contestazione, dall’altro, si
prescrive che, in tali casi, la stazione
appaltante motivi anche con riferimento al
tempo trascorso dalla violazione e alla
gravità della stessa.
Ecco, allora, che tanto il paradigma
normativo, quanto quello giurisprudenziale,
palesano, ai fini dell’individuazione dei
“gravi illeciti professionali”, una
tendenziale riduzione delle fattispecie
tipiche, normativamente previste, in favore
della dilatazione dei poteri valutativi
delle stazioni appaltanti.
In altre parole, le stazioni appaltanti sono
chiamate ad individuare in concreto le
condotte suscettibili di integrare un “grave
illecito professionale” e, pertanto, devono
soddisfare un preciso onere motivazionale,
palesando le ragioni fattuali e giuridiche
sottese all’esercizio dei poteri
discrezionali loro attribuiti.
In tal senso, la giurisprudenza riconosce
che il vigente art. 80, comma 5 lett. c),
del dl.vo 2016 n. 50 ha dilatato il potere
valutativo discrezionale delle
amministrazioni aggiudicatrici in tema di
esclusione dei concorrenti, correlandone
l’esercizio ad un “concetto giuridico
indeterminato”, sicché spetta alle stazioni
appaltanti declinare, caso per caso, la
condotta dell’operatore economico “colpevole
di gravi illeciti professionali” (sul punto,
Consiglio di Stato, Sez. III, 23.11.2017, n. 5467).
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, va
evidenziato (cfr. giur. ult. cit.) che:
- la categoria dei concetti giuridici a contenuto indeterminato
attiene ad una particolare tecnica
legislativa, nella quale, per individuare il
fatto produttivo di effetti, la norma non
descrive la fattispecie astratta in maniera
tassativa ed esaustiva, ma rinvia, per la
sussunzione del fatto concreto nell’ipotesi
normativa, all’integrazione dell’interprete,
mediante l’utilizzo di concetti che vanno
completati e specificati con elementi o
criteri extragiuridici;
- a fronte di concetti giuridici indeterminati, l’Amministrazione
dispone di un più ampio potere
discrezionale, ciò che è potenzialmente
suscettibile di pregiudicare il principio di
legalità, dovendo, pertanto, richiedersi
l’adempimento di un onere motivazionale
rafforzato;
- conseguentemente, quando la stazione appaltante esclude un
operatore economico perché considerato
colpevole di un grave illecito
professionale, non compreso nell’elenco
dell’art. 80, comma 5 lett. c) cit., deve
adeguatamente motivare l’esercizio di
siffatta discrezionalità ed in maniera ben
più rigorosa ed impegnativa rispetto a
quanto avviene a fronte delle particolari
ipotesi esemplificate dal testo di legge (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, 02.03.2018, n.
1299).
In definitiva, anche in relazione alle
ipotesi in cui i fatti considerati
dall’amministrazione siano oggetto di un
procedimento penale, deve riconoscersi alla
stazione appaltante la facoltà di escludere
un concorrente per ritenuti “gravi illeciti
professionali” a prescindere dalla definitività degli accertamenti compiuti in
sede penale, ma resta ferma la necessità che
il potere esercitato dall’amministrazione
sottenda un’adeguata istruttoria, un
compiuto contraddittorio e una congrua
motivazione, secondo quanto sinora
precisato. |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Valutazione d'incidenza ambientale, il Tar verifica illogicità e difetti
procedimentali.
La valutazione di incidenza ambientale (cd. Vinca), similmente alla
valutazione di impatto ambientale (Via), si caratterizza quale giudizio di
ampia discrezionalità oltre che di tipo tecnico, anche amministrativa, sul
piano dell'apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro
ponderazione rispetto all'interesse all'esecuzione dell'opera.
Il sindacato del giudice amministrativo, di conseguenza, è limitato alla
manifesta illogicità, incongruità, travisamento o macroscopici difetti di
motivazione o di istruttoria, diversamente ricadendosi in un inammissibile
riesame nel merito con sostituzione della valutazione giudiziale a quella
affidata dal legislatore all'amministrazione.
---------------
Nell’esame dei diversi motivi risulta necessario rammentare che la
valutazione di incidenza ambientale (cd. Vinca), similmente alla valutazione
di impatto ambientale (Via), si caratterizza quale giudizio di ampia
discrezionalità oltre che di tipo tecnico, anche amministrativa, sul piano
dell'apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro
ponderazione rispetto all'interesse all'esecuzione dell'opera (TAR
Calabria–Catanzaro n. 2057/2016; TAR Umbria, 07.11.2013, n. 515; per la VIA
cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 22.06.2009, n. 4206; Cons. Stato., Sez. V,
21.11.2007, n. 5910; Cons. Stato, Sez. VI, 17.05.2006, n. 2851; Cons. Stato,
Sez. IV, 22.07.2005, n. 3917).
Il sindacato del giudice amministrativo, di conseguenza, è limitato alla
manifesta illogicità, incongruità, travisamento o macroscopici difetti di
motivazione o di istruttoria (Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2007, n. 5910;
Cons. Stato, Sez. IV, 17.09.2013, n. 4611; TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
26.01.2011, n. 135; TAR. Toscana, Sez. II, 20.04.2010, n. 986), diversamente
ricadendosi in un inammissibile riesame nel merito con sostituzione della
valutazione giudiziale a quella affidata dal legislatore all'amministrazione (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 19.07.2019 n. 1455 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Scelta
delle misure per far cessare le immissioni
da rumore e prova del danno patrimoniale da
immissioni superiori alla normale
tollerabilità.
Nell'accogliere la
domanda volta a far cessare le immissioni,
il giudice del merito, pur avendo la facoltà
di scegliere tra le diverse misure
consentite dalla norma, ha tuttavia
l'obbligo di precisare le ragioni della
scelta dell'una o dell'altra e di indicare
con sufficiente determinazione le misure in
concreto adottate, soprattutto quando
ritenga impossibile adottare misure meno
invasive ed indispensabile condannare il
convenuto alla cessazione delle immissioni e
quindi anche dell'attività che ad esse dà
luogo.
Il danno non patrimoniale subito in
conseguenza di immissioni di rumore
superiore alla normale tollerabilità non può
ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che
tale concetto giunge ad identificare il
danno risarcibile con la lesione del diritto
(nella specie quello al normale svolgimento
della vita familiare all'interno della
propria abitazione ed alla libera e piena
esplicazione delle proprie abitudini di vita
quotidiane) ed a configurare un vero e
proprio danno punitivo, per il quale non vi
è copertura normativa, ponendosi così in
contrasto sia con l'insegnamento delle
Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972 del
2008), secondo il quale quel che rileva ai
fini risarcitori è il danno-conseguenza, che
deve essere allegato e provato, sia con
l'ulteriore e più recente intervento
nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che
ha riconosciuto la compatibilità del danno
punitivo con l'ordinamento solo nel caso di
espressa sua previsione normativa, in
applicazione dell'art. 23 Cost.;
Ne consegue che il danneggiato che ne chieda
in giudizio il risarcimento è tenuto a
provare di aver subito un effettivo
pregiudizio in termini di disagi sofferti in
dipendenza della difficile vivibilità della
casa, potendosi a tal fine avvalersi anche
di presunzioni gravi, precise e concordanti,
sulla base però di elementi indiziari (da
allegare e provare da parte del preteso
danneggiato) diversi dal fatto in sé
dell'esistenza di immissioni di rumore
superiori alla normale tollerabilità
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 18.07.2019 n. 19434 -
commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
7. È altresì fondato il terzo motivo,
di rilievo logico preliminare rispetto al
secondo.
La pronunzia impugnata conferma la decisione
di primo grado, che aveva riconosciuto il
danno in questione nella misura sopra
indicata —in quanto derivante dalla lesione
del diritto (non alla salute ma) al normale
svolgimento della vita familiare all'interno
della propria abitazione ed il diritto alla
libera e piena esplicazione delle proprie
abitudini di vita quotidiane, quali diritti
costituzionalmente garantiti, nonché
tutelati dall'art. 8 della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo— limitandosi a
richiamare il principio rinvenibile in
alcune pronunce di questa Corte, predicativo
dell'esistenza di un danno in re ipsa
ogniqualvolta venga accertata la non
tollerabilità delle immissioni (Cass.
18/10/1978, n. 4693; 12/03/1987, n. 2580 Rv.
451713; 13/03/2007, n. 5844).
Siffatto principio,
tralaticiamente ribadito ancora di recente
(v. Cass. 12/02/2016, n. 2864),
non è condiviso da più recente
giurisprudenza, secondo la quale, anche
nell'ipotesi considerata, il danno non può
essere considerato in re ipsa ma deve
essere provato secondo la regola generale
dell'art. 2697 cod. civ.. Ne consegue che la
relativa allegazione deve essere
circostanziata e riferirsi a fatti specifici
e precisi non potendo risolversi in mere
enunciazioni di carattere generico,
astratto, eventuale ed ipotetico
(Cass. 09/11/2018, n. 28742; 29/01/2018, n.
2056).
A tale secondo indirizzo si intende qui dare
continuità.
È invero ormai generalmente riconosciuta,
almeno in via di principio, l'antiteticità
del concetto di danno in re ipsa —il
quale, anche letteralmente, postula la
coincidenza del danno risarcibile con
l'evento dannoso (e al quale pure, in
passato, non va dimenticato, si era fatto
ricorso, per giustificare la risarcibilità
del danno biologico, attraverso
l'elaborazione del concetto, sovrapponibile,
di danno- vento: v. Corte cost. n. 184 del
1986)— rispetto al sistema di responsabilità
civile, fondato all'opposto sulla netta
distinzione, ex artt. 1223 e 2056 cod. civ.,
tra fatto illecito, contrattuale o
extracontrattuale, produttivo del danno e il
danno stesso, da identificare nelle
conseguenze pregiudizievoli di quel fatto,
nella loro duplice possibile fenomenologia
di «danno emergente» (danno «interno»,
che incide sul patrimonio già esistente del
soggetto) e di «lucro cessante» (che,
di quel patrimonio, è proiezione dinamica ed
esterna), come tale apprezzabile sia in
ambito patrimoniale che non patrimoniale (v.
Cass. 17/01/2018, n. 901, in motivazione,
pag. 27): perdita-danno emergente-sofferenza
interiore, da un lato, e, dall'altro,
mancato guadagno-lucro cessante-danno alla
persona nei suoi aspetti
esteriori/relazionali.
In ambito di responsabilità aquiliana ciò è
definitivamente chiarito dalle già
richiamate sentenze c.d. di San Martino
(Cass. Sez. U. 11/11/2008, nn. 26972-26975)
che, proprio con riferimento al danno non
patrimoniale, evidenziano come il sistema
fornisce una struttura dell'illecito «articolata
negli elementi costituiti dalla condotta,
dal nesso causale tra questa e l'evento
dannoso, e dal danno che da quello consegue
(danno-conseguenza)», essendo l'evento
dannoso rappresentato dalla «lesione
dell'interesse protetto».
Pertanto quel che rileva ai fini risarcitori
è il danno-conseguenza, «che deve essere
allegato e provato»; non è accettabile
la tesi che identifica il danno con l'evento
dannoso, ovvero come danno-evento, e
parimenti da disattendere è la tesi che
colloca il danno appunto in re ipsa,
perché così «snatura la funzione del
risarcimento, che verrebbe concesso non in
conseguenza dell'effettivo accertamento di
un danno, ma quale pena privata per un
comportamento lesivo».
Può peraltro al riguardo rammentarsi che già
Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576, di poco
anteriore, in materia di responsabilità da
trasfusione di sangue infetto, avvertiva che
«il danno rileva ... sotto due profili
diversi: come evento lesivo e come insieme
di conseguenze risarcibili, retto il primo
dalla causalità materiale ed il secondo da
quella giuridica. Il danno oggetto
dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è
... esclusivamente il danno conseguenza del
fatto lesivo (di cui è un elemento l'evento
lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo,
ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è
l'obbligazione risarcitoria».
È ben vero che la prova del pregiudizio
(sofferto a causa della lesione del diritto
al normale svolgimento della vita familiare
all'interno della propria abitazione ed il
diritto alla libera e piena esplicazione
delle proprie abitudini di vita quotidiane
assolta conseguente alle immissioni
intollerabili) può —e anzi normalmente non
potrà che— essere fornita attraverso
presunzioni (come nel caso considerato da
Cass. 03/10/2018, n. 23754, ove si evidenzia
che il complessivo materiale probatorio
comprovava «un quadro sufficientemente
chiaro e completo dei disagi sofferti dalla
famiglia ..., con i trasferimenti fuori di
casa, le assenze a scuola dei figli e le
altre circostanze sopravvenute in dipendenza
della difficile vivibilità della casa»).
Ciò tuttavia è ben diverso dall'affermare
che il danno da immissioni intollerabili sia
da considerare in re ipsa.
Ed invero, una cosa è dire che il danno è
presunto (con inversione dell'onere della
prova, addossandosi al danneggiante quello
di provare il contrario), altra è dire che
può essere provato per presunzioni.
La «presunzione» del danno, in quest'ultima
corretta prospettiva, è solo il risultato
finale della valutazione da compiere ed
equivale a dire «convincimento basato su
ragionamento probatorio di tipo presuntivo,
ex art. 2729 cod. civ.», il quale però
non può mancare e deve poter essere
verificabile. Nel senso usato invece secondo
l'orientamento qui respinto, mancando
sovente ogni riferimento a tale necessario
passaggio logico intermedio, esso acquista
il diverso significato di mera regola di
giudizio che solleva (il «presunto»
danneggiato) dall'onere di fornire elementi
indiziari (diversi rispetto al mero fatto
lesivo) che possano giustificare quel
convincimento e pone piuttosto l'onere della
prova contraria a carico del «presunto»
danneggiante.
Mette conto al riguardo ancora soggiungere
che, in mancanza di allegazione e prova di
tali elementi indiziari, il riconoscimento
di un danno risarcibile comporta la
sovrapposizione tra danno-evento e
danno-conseguenza, con il che si trasmoda
dal «tradizionale danno compensativo/ripristinatorio»
a quello del risarcimento con funzione
punitiva in contrasto anche con l'ulteriore
intervento nomofilattico di Cass. Sez. U.
05/07/2017, n. 16601, che ha riconosciuto la
compatibilità del danno punitivo con
l'ordinamento ponendo però come limite
l'espressa sua previsione normativa, in
applicazione dell'art. 23 Cost..
Ogni elemento sanzionatorio che venga a
sostituire —in ultima analisi— quello
risarcitorio non può, dunque, derivare da
volontà del giudicante, bensì esige riserva
di legge (v. in tal senso, sia pure in
ambito di danno patrimoniale, ma alla
stregua di considerazioni certamente valide
anche, mutatis mutandis, nel presente
contesto, Cass. 04/12/2018, n. 31233;
25/05/2018, n. 13071).
Deve sul punto in conclusione affermarsi il
seguente principio di diritto:
il danno non
patrimoniale subito in conseguenza di
immissioni di rumore superiore alla normale
tollerabilità non può ritenersi sussistente
in re ipsa, atteso che tale concetto giunge
ad identificare il danno risarcibile con la
lesione del diritto (nella specie quello al
normale svolgimento della vita familiare
all'interno della propria abitazione ed alla
libera e piena esplicazione delle proprie
abitudini di vita quotidiane) ed a
configurare un vero e proprio danno
punitivo, per il quale non vi è copertura
normativa, ponendosi così in contrasto sia
con l'insegnamento delle Sezioni Unite della
S.C. (sent. n. 26972 del 2008) secondo il
quale quel che rileva ai fini risarcitori è
il danno-conseguenza, che deve essere
allegato e provato, sia con l'ulteriore e
più recente intervento nomofilattico (sent.
n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la
compatibilità del danno punitivo con
l'ordinamento solo nel caso di espressa sua
previsione normativa, in applicazione
dell'art. 23 Cost..
Ne consegue che il danneggiato che ne chieda
in giudizio il risarcimento è tenuto a
provare di aver subito un effettivo
pregiudizio in termini di disagi sofferti in
dipendenza della difficile vivibilità della
casa, potendosi a tal fine avvalersi anche
di presunzioni gravi, precise e concordanti,
sulla base però di elementi indiziari (da
allegare e provare da parte del preteso
danneggiato) diversi dal fatto in sé
dell'esistenza di immissioni di rumore
superiori alla normale tollerabilità.
La sentenza impugnata applica una regola di
giudizio evidentemente difforme da tale
principio e va pertanto, anche sul punto,
cassata, restando assorbito l'esame dei
restanti due motivi di ricorso. |
EDILIZIA PRIVATA: L’espressione
“volumi tecnici” corrisponde a opere prive di qualsivoglia autonomia
funzionale, anche solo potenziale, in quanto aventi una consistenza
volumetrica del tutto contenuta e destinati unicamente a contenere impianti
serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima e che non possono essere in alcun modo
ubicati al suo interno.
Volumi che non comportano, cioè, aumento di carico territoriale o di impatto
visivo, mentre al di fuori di tale ambito deve escludersi che possa negarsi
rilevanza giuridica a volumi comunque esistenti nella realtà fisica.
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La conclusione non può essere condivisa, se si considera che l’espressione “volumi
tecnici” corrisponde a opere prive di qualsivoglia autonomia funzionale,
anche solo potenziale, in quanto aventi una consistenza volumetrica del
tutto contenuta e destinati unicamente a contenere impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della
medesima e che non possono essere in alcun modo ubicati al suo interno.
Volumi che non comportano, cioè, aumento di carico territoriale o di impatto
visivo, mentre al di fuori di tale ambito deve escludersi che possa negarsi
rilevanza giuridica a volumi comunque esistenti nella realtà fisica (fra le
moltissime, cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.07.2016, n. 3059; id., sez. VI,
29.01.2015, n. 406; id., sez. V, 17.06.2014, n. 3074) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.07.2019 n. 1113 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Incostituzionale
la legge regionale lombarda in materia di consumo di suolo che, nella fase
transitoria, impedisca varianti urbanistiche anche di tipo riduttivo.
La Corte costituzionale dichiara la illegittimità costituzionale delle
disposizioni regionali della Lombardia che impedivano ai Comuni -nelle more
dell’adeguamento dei piani urbanistici comunali ai principi regionali
relativi alla riduzione del consumo di suolo ed alla riqualificazione di
quello già degradato- la variazione dei documenti di piano vigenti nella
ipotesi di “anticipata riduzione” delle esistenti potenzialità
edificatorie (Corte Costituzionale,
sentenza 16.07.2019 n. 179).
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Urbanistica ed edilizia – Regione Lombardia – Riduzione del consumo del
suolo e riqualificazione del suolo degradato – Fase transitoria – Funzione
di pianificazione urbanistica comunale – Limiti – Incostituzionalità
È incostituzionale, per violazione del combinato
disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla
competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali, e degli artt. 5 e
118, primo e secondo comma, Cost., con riguardo al principio di
sussidiarietà verticale, l’ultimo periodo dell’art. 5, comma 4, della legge
della Regione Lombardia 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del
consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato), nel testo
precedente alle modifiche apportate dalla legge della Regione Lombardia
26.05.2017, n. 16, recante «Modifiche all’articolo 5 della legge regionale
28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per
la riqualificazione del suolo degradato)», nella parte in cui non consente
ai Comuni, sino all’adeguamento degli strumenti urbanistici sulla base dei
principi previsti dalla medesima legge regionale n. 31 del 2014 (riduzione
consumo suolo e riqualificazione di quello degradato), di apportare varianti
che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano
vigente (1).
---------------
(1) I. – Con la sentenza in rassegna la Corte costituzionale
dichiara illegittima la disposizione regionale di cui all’art. 5, comma 4,
ultimo periodo, l.r. Lombardia 28.11.2014, n. 31 (“Disposizioni per la
riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato”),
con la quale, in attesa dell’adeguamento del piano urbanistico comunale alle
finalità ed ai principi generali ivi contenuti, venivano mantenute ferme le
previsioni edificatorie contemplate nei vigenti strumenti di piano di
livello comunale.
Una simile disposizione, secondo la Corte, si pone in contrasto con le norme
costituzionali in tema di funzioni fondamentali degli enti locali e di
sussidiarietà verticale atteso che il potere urbanistico comunale verrebbe
di fatto vanificato e paralizzato nell’ipotesi, altresì, ove quest’ultimo
risulti preordinato ad introdurre, sempre nella fase transitoria,
modificazioni riduttive delle attuali potenzialità edificatorie
(modificazioni, queste, idonee anzi ad “anticipare” le suddette
finalità della richiamata legge regionale).
II. – Più in particolare:
a) alcuni proprietari di suoli (a loro tempo
edificabili) impugnavano la variante al piano regolatore del Comune di
Brescia con cui le loro rispettive originarie facoltà edificatorie venivano
cancellate.
Il Tar per la Lombardia, sez. staccata di Brescia, con sentenza 17.01.2017,
n. 47, accoglieva il ricorso dal momento che l’art. 5, comma 4, ultimo
periodo, della legge regionale n. 31 del 2014, impedisce la possibilità di
introdurre varianti di questo tipo nelle more dell’adeguamento degli
strumenti urbanistici comunali alle finalità ed ai principi di cui alla
stessa legge regionale (riduzione consumo suolo e riqualificazione di quello
degradato).
Una volta appellata la suddetta sentenza di primo grado il
Consiglio di Stato, con ordinanza n. 5711 del 04.12.2017 della
quarta sezione (oggetto della
News US del 21.12.2017 ed alla quale si rinvia per ogni
approfondimento di giurisprudenza e di dottrina), ha sollevato q.l.c. della
richiamata disposizione regionale transitoria per la violazione sia delle
competenze esclusive statali in materia di funzioni fondamentali degli enti
locali di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. (e tra queste
anche di quella in tema di pianificazione urbanistica comunali), sia del
principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118, primo comma, Cost.;
b) questo in sintesi il ragionamento
sviluppato dalla Corte costituzionale:
b1) la disposizione
transitoria regionale consente, nelle more dell’adeguamento del piano
comunale alle predette finalità di riduzione e di riqualificazione della
stessa legge regionale, soltanto varianti di riorganizzazione
planovolumetrica, tipologica o progettuale di interventi già previsti.
Compressioni delle facoltà edificatorie quali quelle apportate con la
variante oggetto di impugnativa non sarebbero invece ammesse;
b2) le finalità perseguite
dalla legge regionale n. 31 del 2014 sono senz’altro degne della massima
considerazione, atteso che il consumo di suolo costituisce uno dei più gravi
problemi in termini di sostenibilità e di tutela delle risorse ambientali;
b3) occorre al tempo stesso
considerare: da un lato il riconoscimento della pianificazione urbanistica
nel novero delle funzioni fondamentali degli enti locali e in particolare di
quelli comunali; dall’altro lato la possibilità per il legislatore
regionale, data la competenza costituzionalmente riservata in materia di “governo
del territorio” (art. 117, terzo comma, Cost.), di disciplinare e di
conformare tale competenza amministrativa comunale;
b4) nella ricerca di un “punto
di equilibrio tra regionalismo e municipalismo” occorre comunque che le
leggi regionali in materia di “governo del territorio”, nel
conformare e disciplinare come detto la funzione urbanistica comunale, non
giungano mai a paralizzare o a vanificare quest’ultima;
b5) un tale punto di
equilibrio non va fissato in astratto ma va ricercato in concreto,
attraverso una valutazione “caso per caso” basata su un test di
proporzionalità che deve bilanciare: da un lato la meritevolezza
dell’interesse perseguito dal legislatore regionale; dall’altro lato la
adeguatezza e la stretta necessità del mezzo utilizzato per disciplinare ed
eventualmente limitare le funzioni urbanistiche comunali in vista degli
obiettivi che, più “a monte”, si intendono realizzare (criterio del “minimo
mezzo utile per perseguire gli scopi del legislatore regionale”);
b6) in questa direzione, se
per un verso lo scopo perseguito dal legislatore regionale (riduzione
consumo di suolo) costituisce senz’altro legittimo esercizio delle proprie
competenze costituzionalmente riservate, per altro verso lo strumento
utilizzato (divieto varianti anche in caso di eliminazione di facoltà
edificatorie) si rivela non solo non necessario ma addirittura
contraddittorio rispetto alle finalità poste dalla stessa legge regionale;
b7) ed infatti: la
compressione della potestas variandi in capo all’amministrazione
comunale, anche in caso di eliminazione di precedenti facoltà edificatorie,
non solo impedisce oltre misura l’esplicazione di una funzione fondamentale
degli enti locali ma addirittura preclude, in termini “paradossali”,
il raggiungimento “in anticipo” delle finalità di fondo della
legislazione regionale (riduzione consumo di suolo);
b8) né potrebbe invocarsi
la violazione del legittimo affidamento in capo ai proprietari circa la
pregressa vocazione edificatoria dei rispettivi suoli, e tanto in
considerazione di una univoca giurisprudenza del Consiglio di Stato (vengono
qui citate: “Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 12.05.2016, n.
1907 e 07.11.2012, n. 5665.....”) diretta a non ritenere tutelabili,
sotto tale specifico profilo, le posizioni di coloro che non hanno stipulato
almeno una convenzione urbanistica.
III. – Si segnala per completezza quanto segue:
c) sulle iniziative legislative in tema di
riduzione del consumo di suolo si veda:
c1) disegno di legge n.
A.C. 2039 della XVII Legislatura (disegno di legge di iniziativa
governativa, c.d. collegato ambientale, in materia di “Contenimento del
consumo di suolo e riuso del suolo edificato” – presentato il
03.02.2014) poi non definitivamente approvato e secondo cui il suolo
costituisce “bene comune e risorsa non rinnovabile, che esplica funzioni
e produce servizi ecosistemici e che deve essere tutelato anche in funzione
della prevenzione e della mitigazione degli eventi di dissesto idrogeologico
e delle strategie di adattamento ai cambiamenti climatici” (cfr.
relazione illustrativa, pag. 2). Ulteriore principio fondamentale è poi “quello
della priorità del riuso del suolo edificato esistente e della rigenerazione
urbana rispetto all’ulteriore consumo di suolo inedificato” (cfr.
relazione illustrativa, pag. 2).
Con decreto ministeriale, da adottare dietro parere della Conferenza
unificata e sulla base di criteri da quest’ultima predeterminati, sarebbe
poi stato fissato “a livello nazionale … il limite quantitativo di
riduzione del consumo di suolo in vista del graduale azzeramento del consumo
in coerenza con quanto stabilito dalla Commissione europea circa il
traguardo da raggiungere entro il 2050” (cfr. relazione illustrativa,
pag. 3). Sulla base di tale programmazione di livello nazionale le singole
regioni avrebbero poi dato concreta attuazione alle norme di principio della
legislazione statale. Ciò anche ai fini del riuso e della rigenerazione
edilizia (attuata in concreto dalle amministrazioni comunali).
Veniva infine prevista una disposizione transitoria (alquanto più stringente
di quella della Regione Lombardia oggetto della decisione della Corte
costituzionale n. 179 del 2019) diretta a congelare per tre anni il consumo
di suolo, fatta eccezione per opere già inserite nei relativi strumenti di
programmazione e con salvezza, in ogni caso, dei procedimenti in corso al
momento della entrata in vigore della legge stessa;
c2) A.S. 984 della XVIII
Legislatura tuttora in corso (disegno di legge di iniziativa parlamentare
recante “Disposizioni per la rigenerazione urbana e per il contrasto al
consumo di suolo”, presentato in data 07.12.2018) con cui, dopo avere
ribadito alcuni principi sulla riduzione del consumo di suolo e sulla
priorità del riuso e della rigenerazione in analogia rispetto al richiamato
d.d.l. 2039 (ma senza prevedere una programmazione di livello nazionale),
viene prevista una più ampia ed articolata disciplina del periodo
transitorio con cui, tra l’altro, sono innanzitutto fatti salvi “i poteri
di pianificazione urbanistica dei comuni in senso più riduttivo” (art.
3, comma 5).
Si prevede poi un progressivo decremento, quanto al nuovo consumo di suolo,
sia dei piani già previsti dagli strumenti urbanistici vigenti al momento
della entrata in vigore della legge, sia di quelli approvati successivamente
ad essa. È in ogni caso previsto un incremento del contributo di
costruzione;
d) a livello eurounitario si veda:
d1) comunicazione della
Commissione del 22.09.2006, recante “Strategia tematica per la protezione
del suolo”, la quale, dopo avere descritto il quadro di intervento e lo
stato di estremo degrado del suolo in ambito europeo, si propone tra gli
obiettivi quello di adottare una direttiva quadro in materia nonché di
procedere alla modifica in parte qua delle direttive sui fanghi di
depurazione e sulla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento
(direttiva IPPC), di verificare la coerenza e la congruità dei piani di
sviluppo rurale e di avviare progetti di sensibilizzazione e di supporto ai
progetti di ricerca;
d2) decisione n.
1386/2013/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20.11.2013, recante
approvazione del cosiddetto Settimo programma di azione per l’ambiente, la
quale si concentra “su tre obiettivi tematici: a) proteggere, conservare
e migliorare il capitale naturale dell’Unione; b) trasformare l’Unione in
un’economia a basse emissioni di carbonio, efficiente nell’impiego delle
risorse, verde e competitiva; c) proteggere i cittadini dell’Unione da
pressioni e rischi d’ordine ambientale per la salute e il benessere”.
In particolare, dopo avere rammentato i problemi ambientali derivanti dal
degrado e della frammentazione del suolo, nonché dopo avere dato atto che
alcuni Stati membri hanno già compiuto alcuni progressi in materia, ci si
sofferma sull’importanza di “affrontare le problematiche legate alla
qualità del suolo all’interno di un quadro giuridico vincolante utilizzando
un approccio basato sui rischi mirato e proporzionato. Dovrebbero inoltre
essere stabiliti degli obiettivi per un uso sostenibile dei terreni e del
suolo” (cfr. punto 25 dell’Allegato alla decisione);
e) sul tema della riduzione del consumo del
suolo si veda, in dottrina: W. TOCCI, L'insostenibile ascesa della rendita
urbana; P. BERDINI, Il consumo di suolo in Italia: 1995-2006; J.P. LACAZE,
La speculazione, danni e benefici; H. NESSI e A. DELPIROU, La «compensazione»
urbanistica a Roma; P. URBANI, L'edilizia abitativa tra piano e mercato - I
programmi integrati di promozione di edilizia residenziale e di
riqualificazione urbana; V. CERULLI IRELLI e L. DE LUCIA, Il secondo «piano
casa»: una (incostituzionale) depianificazione del territorio, tutti in
Democrazia e diritto, 2009, fasc. n. 1; C. BOVINO, Pac, biodiversità
agraria, consumo del suolo (Agricoltura e ambiente ai tempi di Expo 2015),
in Ambiente, 2015, suppl. al n. 7, 33; P. CHIRULLI, La pianificazione
urbanistica tra esigenze di sviluppo e riduzione del consumo di suolo: la
riqualificazione dell’esistente, in Riv. giuridica urbanistica, 2015, 4,
592; W. GASPARRI, Suolo, bene comune? Contenimento del consumo di suolo e
funzione sociale della proprietà privata, in Dir. pubbl., 2016, 69; F.
SCALIA, Governo del territorio e tutela dell'ambiente: urbanistica e
limitazione del consumo di suolo, in Urbanistica e appalti, 2016, 1065; P.
URBANI, A proposito della riduzione del consumo di suolo, in Riv. giur.
edilizia, 2016, II, 227; G.F. CARTEI, Il suolo tra tutela e consumo, in Riv.
giur. urbanistica, 2016, 4, 10; F.F. GUZZI, Il contenimento del consumo di
suolo alla luce della recente legislazione nazionale e regionale, in Riv.
giur. urbanistica, 2016, 4, 25; E. FERRERO, Il contenimento del consumo di
suolo: problemi e prospettive, in Urbanistica e appalti, 2017, 191; S.
CIRIESI, Consumo del suolo e scenari urbanistici (Nota a Tar Lombardia, sede
Brescia, sez. I, n. 47/2017, in www.lexitalia.it, 2017); N. LUCIFERO, Il «contenimento
del consumo del suolo agricolo»: un problema di qualificazione e
regolamentazione giuridica, in Dir. agroalimentare, 2017, 27; L. DE LUCIA,
Il contenimento di consumo di suolo in Veneto, in Riv. giur. urbanistica,
2017, 597; M. ROVERSI MONACO, Tutela dell'ambiente e riduzione del consumo
di suolo nella legge regionale dell'Emilia Romagna n. 24/2017, in
Istituzioni del federalismo, 2017, 827; G. IACOVONE, Politiche fiscali nella
costruzione della città pubblica - A margine del consumo di suolo, in Dir. e
processo amm., 2018, 957; G. GUZZARDO, La regolazione multilivello del
consumo di suolo e del riuso dell'abitato, in Riv. it. dir. pubbl.
comunitario, 2018, 119; A. QUARANTA, Il consumo del suolo fra impasse
normativa, proposte settoriali e necessità di un cambio di marcia, in
Ambiente, 2018, 539;
f) sulla rigenerazione urbana si veda il
Piano nazionale per la rigenerazione urbana sostenibile, a cura del
Consiglio nazionale degli architetti pianificatori paesaggisti e
conservatori (maggio 2012), il quale si pone quale obiettivo principale
quello di garantire “efficienza, sicurezza e vivibilità alle 100 città
italiane che ospitano il 67% della popolazione nazionale”.
Di qui l’importanza di attivare “un Piano Nazionale per la Rigenerazione
Urbana Sostenibile -sul modello del Piano Energetico nazionale- che fissi
gli obiettivi e ne deduca gli strumenti politici, normativi e finanziari”.
In questa direzione, “La riqualificazione degli spazi pubblici, incidendo
sulla qualità della vita degli abitanti e sul loro senso di appartenenza ai
luoghi può, infatti, costituire un fattore decisivo nella riduzione delle
disparità tra quartieri ricchi e poveri, contribuendo a promuovere una
maggiore coesione sociale”. Iniziative queste “da attuarsi anche
mediante sostituzione di isolati, parti o interi quartieri costruiti nel
secondo dopoguerra, caratterizzati da un’edilizia di scarsissima qualità,
inadeguata sia in riferimento alle norme antisismiche ed idrogeologiche, che
a quelle sulla qualità degli impianti e contenimento dei consumi”.
Questi i principali obiettivi del piano:
f1) messa in sicurezza,
manutenzione e rigenerazione del patrimonio edilizio pubblico e privato
(nelle zone a rischi sismico risiedono oltre 24 milioni di persone, mentre
altri 6 milioni convivono con il rischio idrogeologico);
f2) drastica riduzione del
consumo del suolo e degli sprechi degli edifici, energetici e idrici,
promuovendo “distretti energetici ed ecologici”;
f3) rivalutazione degli
spazi pubblici, del verde urbano, dei servizi di quartiere;
f4) razionalizzazione della
mobilità urbana e del ciclo dei rifiuti;
f5) implementazione delle
infrastrutture digitali innovative con la messa in rete delle città
italiane, favorendo l’home working e riducendo così spostamenti e
sprechi;
f6) salvaguardia dei centri
storici e loro rivitalizzazione, evitando di ridurli a musei;
g) sulla rigenerazione urbanistica quale
strumento di contrasto al consumo del suolo si veda, in dottrina: E.M.
TRIPODI, Distretti del commercio e reti di impresa: le strategie per la
rigenerazione urbana, in Disciplina comm., 2014, fasc. 1, 17; R. DIPACE, La
rigenerazione urbana tra programmazione e pianificazione, in Riv. giur.
edilizia, 2014, II, 237; P. MANTINI, La perequazione urbanistica nel tempo
della rigenerazione urbana, in Riv. giur. edilizia, 2017, II, 375; M.
BITONDO, La nuova legge regionale del Lazio in materia di «rigenerazione
urbana» e di «recupero edilizio», in www.lexambiente.it, 2017; La
rigenerazione urbana e le nuove sfide per il governo del territorio, in
Istituzioni del federalismo, 2017, 603; ivi anche i saggi di: G.F. CARTEI,
Rigenerazione urbana e governo del territorio; R. DIPACE, Le politiche di
rigenerazione dei territori tra interventi legislativi e pratiche locali; G.
TORELLI, La rigenerazione urbana nelle recenti leggi urbanistiche e del
governo del territorio; T. BONETTI, La riforma urbanistica in Emilia Romagna
tra presente e futuro; F. SPANICCIATI, Emergenza sisma e nuovi strumenti
decisionali: la pianificazione delle zone colpite dai terremoti 2016-2017;
(a cura di) DI F. LASCIO e F. GIGLIONI, La rigenerazione di beni e spazi
urbani - Contributo al diritto delle città, Bologna, 2017; F. DI LASCIO,
Quali tendenze in corso nella rigenerazione delle città? (in Riv. giur.
edilizia, 2018, II, 135); A. GIUSTI, La rigenerazione urbana - Temi,
questioni e approcci nell'urbanistica di nuova generazione, Napoli, 2018; B.
GRAZIOSI, Gli interventi di riuso e rigenerazione urbana all'interno del
perimetro del territorio urbanizzato nella legge regionale dell'Emilia
Romagna 21.12.2017 (commento alla l.reg. Emilia Romagna 21.12.2017 n. 24),
in Riv. giur. edilizia, 2018, III, 71; M. BITONDO, La nuova legge regionale
del Lazio in materia di «rigenerazione urbana» e di «recupero
edilizio» - Modifiche legislazione previgente (art. 10), in
www.lexambiente.it, 2018; A. CALDERAZZI, N. OISHI, A.L.G. TARANTINO, G.
TORTORICI e C.M. TORRE, Lifestyle nella rigenerazione urbana: contesti,
strumenti ed azioni, a cura di A.L.G. TARANTINO, Bari, 2019;
h) sulle funzioni fondamentali degli enti
locali e su una loro eventuale compressione, anche nella materia
urbanistica, si veda:
h1) Corte cost.,
27.12.2018, n. 245 (in Giur. cost., 2018, 2758) secondo cui “Non è
fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 4,
l.reg. Abruzzo 01.08.2017, n. 40, censurato, per violazione dell'art. 117,
comma 2, lett. s), Cost., in relazione agli artt. 6, comma 3, 12 e 65, comma
4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152; nonché dell'art. 117, comma 3, Cost., in
relazione agli artt. 2, comma 4, e 9 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e agli artt.
4 e 7 l. 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), in quanto prevede che il
recupero dei vani e locali di cui all'art. 2, comma 1 (ossia dei vani e
locali accessori situati in edifici esistenti o collegati direttamente ad
essi ed utilizzati anche come pertinenze degli stessi e dei vani e locali
seminterrati) «è ammesso anche in deroga ai limiti e prescrizioni edilizie
degli strumenti urbanistici ed edilizi comunali vigenti, ovvero in assenza
dei medesimi». La disposizione censurata è dettata nell'esercizio della
potestà legislativa concorrente in materia di governo del territorio e si
limita, unitamente alle altre contenute nella l.reg. n. 40 del 2017, ad
incentivare il recupero dei vani seminterrati ed accessori nel rispetto
della normativa ambientale e dei princìpi fondamentali della disciplina
urbanistica ed edilizia nazionale, dettando minute prescrizioni edilizie.
Essa, quindi, non comporta una «elusione» dell'obbligo di verifica di
assoggettabilità a VAS, mediante l'attrazione alla sfera legislativa della
modifica di strumenti amministrativi di pianificazione suscettibili di
incidere sull'ambiente. La norma censurata non pone, inoltre, alcuna deroga
alle previsioni del piano di bacino che, proprio in forza del parametro
interposto invocato (art. 65 d.lgs. n. 152 del 2006), si impongono a tutte
le amministrazioni e ai privati, a prescindere dal loro recepimento in altre
fonti legislative o regolamentari. Neanche sussiste la dedotta violazione
del principio fondamentale di attribuzione ai Comuni della funzione di
pianificazione urbanistica del territorio, poiché la disposizione censurata
consente esclusivamente deroghe minute alla disciplina edilizia comunale,
dettate nell'esercizio della competenza legislativa concorrente in materia
di governo del territorio, né del principio fondamentale stabilito dall'art.
9 TUE, che individua l'attività edilizia realizzabile in assenza degli
strumenti urbanistici (sentt. nn. 232, 254 del 2009, 168, 254 del 2010, 58,
251 del 2013, 46, 197 del 2014, 117, 219 del 2015, 84, 114 del 2017, 68 del
2018)”;
h2) Corte cost.,
09.02.2017, n. 32 (in Foro it., 2018, I, 1848), che ha dichiarato infondata
la questione di costituzionalità sollevata dalla Regione Veneto, per
violazione delle competenze legislative regionali in materia di “polizia
amministrativa locale” (art. 117, quarto comma, Cost.), in ordine alle
disposizioni del d.l. 19.06.2015, n. 78 (c.d. Legge Del Rio), nella parte in
cui veniva variamente regolato il transito del personale di polizia
provinciale nel ruolo degli enti locali. La Corte ha ritenuto in tale
occasione che: “Le censurate disposizioni si inseriscono nel processo di
riordino delle province e delle città metropolitane, avviato con la l.
07.04.2014 n. 56 (disposizioni sulle città metropolitane, sulle province,
sulle unioni e fusioni di comuni), con la quale, nell'esercizio delle
proprie competenze di cui agli art. 114 e 117, 2° comma, lett. p, Cost., «il
legislatore ha inteso realizzare una significativa riforma di sistema della
geografia istituzionale della repubblica»”.
Ed inoltre che: “Parallelamente alla nuova disciplina concernente il
riordino di detti enti, il legislatore statale ha previsto misure dirette
all'individuazione del personale da riallocare … disciplinandone altresì le
modalità di trasferimento e ridefinendo le dotazioni organiche … In
proposito, questa corte ha già affermato che «non c’è dubbio che la
disciplina del personale costituisca uno dei passaggi fondamentali della
riforma» … da farsi rientrare, in termini generali, nella competenza
esclusiva dello Stato in materia di «funzioni fondamentali di comuni,
province e città metropolitane» (art. 117, 2° comma, lett. p, Cost.). È del
tutto evidente, infatti, che «la ridefinizione delle funzioni amministrative
spettanti a regioni ed enti locali non può prescindere, per divenire
effettiva, dall’individuazione delle corrispondenti risorse di beni, di
mezzi finanziari e di personale»”.
Prosegue la Corte affermando che: “In particolare, la disciplina dettata
… stabilisce il transito del personale nei ruoli degli enti locali,
rimettendo peraltro agli enti di area vasta, alle città metropolitane e alle
stesse regioni l'individuazione di quel personale che, di volta in volta, è
necessario allo svolgimento delle proprie funzioni”.
Infine che: “La normativa impugnata deve essere ricondotta … non solo
alla materia di competenza esclusiva statale «funzioni fondamentali di
comuni, province e città metropolitane» —trattandosi, come detto, di
intervento che si colloca nel processo di riordino degli enti territoriali
avviato con la l. n. 56 del 2014—, ma anche a ulteriori titoli di competenza
statale”.
Ed infatti, trattandosi di “misure relative a rapporti lavorativi già in
essere”, le disposizioni statali impugnate erano dunque preordinate a
garantire le posizioni e le qualifiche già rivestite dai membri del suddetto
corpo, rendendo così “effettivo il diritto al lavoro di cui all’art. 4
Cost.”: di qui il pieno titolo ad intervenire mediante norme statali dal
momento che si rientrava, altresì, nella competenza legislativa esclusiva
dello Stato in materia di “ordinamento civile” (art. 117, secondo
comma, lett. l);
h3) Corte cost.,
07.07.2016, n. 160 (in Giur. cost., 2016, 1312) secondo cui “Non sono
fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 609,
lett. a), l. 23.12.2014, n. 190, censurato, per violazione degli artt. 117,
commi 3 e 4, 118 e 123 Cost., nonché dell'art. 3, comma 2, st. reg. Veneto,
nella parte in cui, al fine di organizzare i servizi pubblici locali a rete
di rilevanza economica, afferma l'obbligo per gli enti locali di partecipare
agli enti istituiti o designati per il governo degli ambiti o bacini
territoriali ottimali e omogenei, sanzionando la mancata adesione con la
previsione di poteri sostitutivi in capo al Presidente della Regione. La
disposizione censurata trova un duplice fondamento nelle competenze che
l'art. 117 Cost. attribuisce allo Stato, nell'ambito del coordinamento della
finanza pubblica e della tutela della concorrenza, essendo diretta al
conseguimento di risultati economici migliori nella gestione dei servizi
pubblici locali a rete di rilevanza economica e, quindi, a un contenimento
della spesa pubblica attraverso sistemi tendenzialmente virtuosi di
esercizio delle relative funzioni e, al contempo, essendo finalizzata, nel
disciplinare gli ambiti territoriali ottimali e le relative autorità di
governo, a superare situazioni di frammentazione e a garantire la
competitività e l'efficienza dei relativi mercati. Né le norme censurate
ledono l'autonomia amministrativa degli enti locali, in quanto si limitano a
razionalizzarne le modalità di esercizio, al fine di superare la
frammentazione nella gestione, preservando uno specifico ruolo agli enti
locali titolari di autonomia costituzionalmente garantita, nella forma della
partecipazione agli organismi titolari dei poteri decisionali. Infine,
benché il coordinamento tra la disposizione censurata e l'art. 1, comma 90,
l. 07.04.2014, n. 56 (che rafforza il ruolo delle Province, attribuendogli
il compito di organizzare i servizi pubblici locali, prima assegnato a enti
o agenzie soppressi) da essa richiamato non sia enunciato in termini del
tutto univoci, è pur sempre possibile conciliare le due disposizioni,
attraverso una lettura sistematica, rispettosa della ratio di entrambe,
posto che nulla impedisce alle Regioni, nei casi in cui optino per ambiti o
bacini di dimensioni provinciali (o, eccezionalmente, sub-provinciali), di
designare come enti di governo, titolari delle relative funzioni di
organizzazione, le Province secondo i principi di adeguatezza e
sussidiarietà, anche valorizzando, ove possibile, le autonomie funzionali.
Una tale scelta non impedisce alle Regioni di sopprimere, nel contempo, enti
e agenzie alle quali sia stato demandato, in precedenza, l'esercizio delle
stesse funzioni. In questi casi non si porrà alcun problema di adesione dei
Comuni agli enti di governo designati: più semplicemente, si verificherà un
trasferimento delle funzioni, per ragioni di esercizio unitario, presso le
Province, attualmente caratterizzate come enti di secondo grado”;
h4) Corte cost.,
13.03.2014, n. 46 (in Giur. cost., 2014, 1134) secondo cui “Non è fondata
la q.l.c. dell'art. 2 l. reg. Sardegna 23.10.2009, n. 4 -sollevata in
riferimento agli art. 3, 25, 117, 118 cost. e all'art. 3 dello statuto
speciale per la Sardegna- che consente l'ampliamento dei fabbricati ad uso
residenziale, di quelli destinati a servizi connessi alla residenza e di
quelli relativi ad attività produttive, entro il limite del venti per cento
della volumetria esistente, "anche mediante il superamento degli indici
massimi di edificabilità previsti dagli strumenti urbanistici".
La previsione regionale -che costituisce attuazione dell'intesa sul
cosiddetto "piano casa", raggiunta tra Stato, regioni ed enti locali
in sede di Conferenza unificata nel 2009- non viola gli art. 117, comma 3,
cost. e 3, comma 1, dello statuto speciale in ragione del suo asserito
contrasto con il "sistema della pianificazione" che assegna in modo
preminente ai comuni la valutazione generale degli interessi coinvolti
nell'attività urbanistica ed edilizia, in quanto il primo parametro risulta
inconferente, posto che lo statuto assegna alla Regione, in virtù della “clausola
di maggior favore” dettata dall'art. 10 l. cost. n. 3 del 2001, potestà
legislativa primaria, ossia piena, nella materia dell'"edilizia ed
urbanistica", entro la quale si colloca la norma censurata, né il
parametro statutario, atteso che, anche riconoscendo il "sistema della
pianificazione" come "principio dell'ordinamento giuridico della
Repubblica" ed espressione degli "interessi nazionali", esso non
potrebbe ritenersi assoluto, tale da impedire deroghe quantitativamente,
qualitativamente e temporalmente circoscritte, censurabili solo laddove
investono profili evocativi di specifici titoli di competenza legislativa
esclusiva dello Stato, quale, in particolare, la disciplina delle distanze
tra i fabbricati rientrante nella materia dell'”ordinamento civile”.
Né è ravvisabile la denunciata violazione degli art. 117, comma 6, ultimo
periodo, e 118 cost., per avere la norma censurata esautorato i comuni delle
loro competenze in tema di pianificazione urbanistica, in quanto essa si
limita a consentire ampliamenti volumetrici di edifici esistenti ad una
certa data in deroga agli indici massimi di fabbricabilità, collegati a
specifici presupposti e circoscritti in limiti ben determinati.
La disposizione regionale, poi, non contrasta con l'art. 117, comma 1, cost.,
in quanto non elude la disciplina in materia di valutazione ambientale
strategica (v.a.s.), la quale trova applicazione nei casi da essa previsti
senza necessità di uno specifico richiamo, né viola la competenza
legislativa esclusiva dello Stato in materia penale ex art. 25 e 117 cost.,
per avere la norma denunciata reso lecita in Sardegna una condotta
(l'edificazione in contrasto con gli strumenti urbanistici) che, in base
all'art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, dovrebbe rimanere
invece soggetta a pena, atteso che tale ultima disposizione configura
pacificamente una norma penale in bianco, rispetto alla quale la
legislazione regionale -pur non potendo costituire fonte diretta e autonoma
di norme penali- può, concorrere a precisare, "secundum legem", i
presupposti di applicazione di norme penali statali, svolgendo, in pratica,
funzioni analoghe a quelle che sono in grado di svolgere fonti secondarie
statali.
Non sono fondate, infine, le censure concernenti la lesione del principio di
eguaglianza ex art. 3 cost. in quanto le doglianze del giudice remittente
sono meramente “ancillari” rispetto a quelle prospettate in
riferimento agli altri parametri, delle quali condividono pertanto la sorte
(sentt. n. 487 del 1989; 14, 213, 504 del 1991; 185 del 2004: 168 del 2010,
173 del 2011; 63 del 2012; 251 del 2013)”;
h5) Corte cost.,
27.07.2000, n. 378 (in Urbanistica e appalti, 2000, 1183, con nota di
MANFREDI) secondo cui: “La tutela del bene culturale è contemplata
nell'art. 9 cost., insieme a quella del paesaggio e dell'ambiente come
espressione di principio fondamentale unitario dell'ambito territoriale in
cui si svolge la vita dell'uomo e tali forme di tutela, esposte con
un'endiadi, costituiscono compito dell'apparato della repubblica nelle sue
diverse articolazioni, dello stato, in primo luogo, oltre che delle regioni
e degli enti locali; pertanto, rispetto a dette materie non può configurarsi
un assorbimento nei compiti comunali di autogestione del territorio né tanto
meno un'esclusività delle funzioni degli enti locali in forza della loro
autonomia in campo urbanistico, potendo semmai il comune imporre, in
relazione a particolari esigenze locali, vincoli aggiuntivi o più rigorosi
riguardo ai beni già vincolati sul piano culturale o ambientale”.
Aggiunge la Corte che: “Pur se l'autonomia comunale, inclusa quella
urbanistica, non costituisce un'elargizione delle regioni nell'esercizio
delle loro competenze legislative, fruendo i comuni di una posizione di
autonomia presupposta dagli art. 5 e 128 cost. e non comprimibile dalle
stesse regioni fino al punto di negarla, la medesima autonomia comunale non
implica una riserva funzionale intangibile, essendo viceversa consentito al
legislatore regionale individuare le dimensioni di detta autonomia,
valutando la maggiore efficienza della gestione ad un livello sovra comunale
degli interessi coinvolti, come avviene peculiarmente per la protezione dei
valori estetico-culturali e ambientali; pertanto, gli art. 5, 3º comma e 6,
2º comma, l.reg. Emilia Romagna 07.12.1978 n. 47, nel testo di cui alla l.
reg. 29.03.1980 n. 23, e gli art. 15 l.reg. stessa regione 05.09.1988 n. 36,
nonché 55 predetta l.reg. n. 47 del 1978, che attribuiscono carattere
immediatamente precettivo e vincolante verso i privati ai piani territoriali
stralcio, e specie al piano territoriale paesistico regionale, con valore
prevalente sulle destinazioni dei piani regolatori comunali, non contrastano
con l'art. 128 cost.”.
Afferma infine la Corte che: “Gli art. 5, 3º comma e 6, 2º comma, l.reg.
Emilia Romagna 07.12.1978 n. 47, nel testo di cui alla l.reg. 29.03.1980 n.
23, e gli art. 15 l.reg. stessa regione 05.09.1988 n. 36, nonché 55 predetta
l.reg. n. 47 del 1978, che attribuiscono carattere immediatamente precettivo
e vincolante verso i privati ai piani territoriali stralcio e specie al
piano territoriale paesistico regionale, con valore prevalente sulle
destinazioni dei piani regolatori comunali, non contrastano con l'art. 128
cost., neppure sotto il profilo procedimentale, essendo previste nella
legislazione regionale idonee forme di partecipazione dei comuni alla
composizione dei piani paesistici, con termini congrui e cadenze
procedimentalizzate non solo nella fase di approvazione, ma anche in quella
di formazione”;
h6) Corte cost.,
30.07.1997, n. 286 (in Foro it., 1998, I, 32) la quale giunge alla pronuncia
di infondatezza negando innanzi tutto che, attraverso la legge regionale
siciliana impugnata (l.r. n. 9 del 1986), si sia dato vita ad un ente
territoriale intermedio tra il comune e la provincia, in quanto la
delimitazione delle aree metropolitane realizzerebbe solo un diverso assetto
delle funzioni ripartite tra i due livelli di governo locale esistenti,
mentre l’attribuzione alle province di funzioni prima spettanti ai comuni
non lederebbe l’autonomia di questi ultimi, in quanto l’autonomia comunale,
fermo restando che “gli art. 5 e 128 Cost. presuppongono una posizione di
autonomia dei comuni che le leggi regionali non possono mai comprimere fino
a negarla … non implica una riserva intangibile di funzioni e non esclude
che il legislatore regionale possa, nell’esercizio della sua competenza
esclusiva, individuare le dimensioni dell’autonomia stessa, valutando la
maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi
coinvolti”.
Puntualizza la Corte che “Il problema del rispetto delle autonomie non
riguarda, perciò, in via astratta, la legittimità dell’intervento del
legislatore, ma, piuttosto, la verifica dell’esistenza di esigenze generali
che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative
limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali”;
h7) si veda altresì, con
riguardo alla medesima sentenza n. 286 del 1997 della Corte costituzionale,
la nota di F. DELLO SBARBA, Organizzazione funzionale o strutturale delle
aree metropolitane: modelli a confronto innanzi alla Corte costituzionale
(in Giur. cost., 1997, 2603) secondo cui: in via generale, il fenomeno
relativo all’aumento dimensionale dei “governi locali” viene
istituzionalmente affrontato attraverso “soluzioni di tipo funzionale”
oppure mediante “soluzioni di tipo strutturale: nella prima categoria
rientrano le scelte volte a mantenere l'assetto istituzionale esistente e
basate sul ricorso a moduli di collaborazione, nella seconda, invece, sono
da ricondursi tutti i tentativi volti alla riorganizzazione dell'assetto
istituzionale, in particolare quelli che rinviano alla creazione di un ente
nuovo da preporsi al governo dell'«area vasta»”.
Ebbene il modello seguito dalla legge regionale siciliana si ispira secondo
l’autrice alla prima soluzione (rimodulazione assetto funzioni per ragioni
di maggiore efficienza e razionalità), per quanto una simile scelta
sembrerebbe piuttosto “essere imposta dall'alto, in maniera autoritaria”,
ossia attraverso “un intervento imperativo del legislatore”;
h8) sulla stessa sentenza
n. 286 del 1997 della Corte costituzionale si veda la nota di C. L.
KUSTERMANN, Autonomia comunale, tassatività degli enti territoriali e
istituzione delle aree metropolitane in Sicilia (in Giur. cost., 1997,
2610), secondo cui il “totem” dell’autonomia locale di cui agli artt.
5 e 128 Cost. è destinato “a infrangersi contro lo scoglio della
discrezionalità del legislatore … nell'oggettiva esigenza di rendere più
efficiente, economica e razionale l'azione amministrativa (art. 97 Cost.)”.
Da una lettura della Carta costituzionale e della giurisprudenza
costituzionale, ancora secondo l’autore, sembra del resto non essere “mai
esplicitamente enunciato il principio del numero chiuso degli enti
territoriali autonomi”.
In questa direzione si assisterebbe ad “un'interpretazione più elastica
dell'art. 114 Cost.” in virtù della quale “sarebbero così compatibili
con l'art. 114 Cost. … le comunità montane, i comprensori, e in generale gli
enti locali istituiti con legge, per il fatto che i loro organi
rappresentativi non sono eletti direttamente dal popolo”;
h9) Corte cost.,
08.04.1997, n. 83 (in Foro it., 1998, I, 2739) secondo cui “È
incostituzionale l’art. 3, 4° comma, l. prov. Trento 12.03.1990 n. 10, nella
parte in cui stabilisce che le previsioni dei programmi per l’attuazione di
interventi diretti alla riorganizzazione della mobilità nelle zone urbane ed
interurbane e in quelle ad alta concentrazione di presenze turistiche,
approvati dalla giunta provinciale, prevalgono su quelle eventualmente
diverse contenute negli strumenti urbanistici subordinati, potendo il comune
esprimere su detti interventi solo un parere non vincolante, in contrasto
con il potere, costituzionalmente riconosciuto, di autodeterminazione dei
comuni in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio”.
È stato in particolare affermato che: “Questa corte ha già riconosciuto
in via generale, con riferimento al sistema delle autonomie ordinarie, che
il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e
all’utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le
regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica, siano libere di
compiere. Si tratta invece di un potere che ha il suo diretto fondamento
nell’art. 128 Cost., che garantisce, con previsione di principio,
l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato,
ma anche nei rapporti con le stesse regioni, la cui competenza nelle diverse
materie elencate nell’art. 117, e segnatamente nella materia urbanistica,
non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia
dei comuni. Questa, infatti, non può dirsi rispettata se il procedimento
finalizzato all’approvazione, da parte della regione, degli strumenti
urbanistici non assicuri la partecipazione degli enti il cui assetto
territoriale venga coinvolto [...]; partecipazione –si aggiunga– che non può
essere puramente nominale ma deve essere effettiva e congrua, nel senso che
non potrebbero le regioni disporre la trasformazione dei poteri comunali in
ordine all’uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di
reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività
esecutive”.
Afferma infine la Corte che: “L’art. 3, 4° comma, l. prov. n. 10 del
1990, nello stabilire che le previsioni dei programmi per l’attuazione di
interventi diretti alla riorganizzazione della mobilità nelle zone urbane ed
interurbane e in quelle ad alta concentrazione di presenze turistiche,
approvati dalla giunta provinciale –programmi sui quali i comuni hanno la
facoltà di esprimere un parere entro trenta giorni dalla richiesta–
«prevalgono su quelle eventualmente diverse contenute negli strumenti
urbanistici subordinati», riserva invece alla provincia il potere di
irrompere in via autoritativa nei piani regolatori dei comuni e si pone in
contrasto con il principio di salvaguardia dell’autonomia comunale. Tale
disposizione, infatti, riduce la capacità del comune di autodeterminarsi in
ordine alla programmazione e all’utilizzazione del proprio territorio nei
troppo angusti limiti della facoltà di esprimere, entro un termine breve, un
parere non vincolante, laddove il rispetto di quel principio avrebbe
richiesto forme più incisive di partecipazione del comune alla
programmazione provinciale di interventi incidenti sul proprio territorio,
mediante l’impiego di moduli procedimentali, analoghi a quelli peraltro già
conosciuti nell’ordinamento regionale, che, pur scongiurando situazioni di
stallo decisionale, valorizzino l’apporto di tutti gli enti interessati”;
h10) La decisione n. 83 del
1997 della Corte costituzionale è commentata da GROPPI, Principio
costituzionale di autonomia locale e regioni a statuto speciale: la corte
individua limiti al legislatore regionale validi anche per le leggi statali?
e da ESPOSITO, Autonomia comunale e governo del territorio (in Giur. cost.,
1997, rispettivamente, 811 e 824);
i) in tema di allocazione di funzioni
amministrative e di chiamata in sussidiarietà si veda:
i1) Corte cost.,
13.06.2018, n. 126 (in Giur. cost., 2018, 1374) secondo cui “Non è
fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 33, commi 3, 9,
10 e 13, d.l. 12.09.2014, n. 133, come convertito, censurato per violazione
degli art. 117, comma 2, lett. s), e comma 3, nonché 118 , comma 1, Cost.
nella parte in cui non è previsto che l'approvazione del programma di
rigenerazione urbana, quanto al comprensorio Bagnoli-Coroglio, sia preceduta
dall'intesa tra lo Stato e la Regione Campania e da una specifica
valorizzazione del ruolo del Comune. Benché la disciplina dettata dalle
disposizioni in esame intrecci indubbiamente diverse competenze, statali e
regionali, in particolare la «tutela dell'ambiente» e il «governo del
territorio», l'intervento del legislatore statale, in quanto teso al
risanamento e alla bonifica di un sito d'interesse nazionale, può essere
certamente ricondotto, in via prevalente, alla potestà legislativa esclusiva
dello Stato di cui all'art. 117, comma 2, lett. s), Cost., cui spetta
disciplinare, pure con disposizioni di dettaglio e anche in sede
regolamentare, le procedure amministrative dirette alla prevenzione,
riparazione e bonifica dei siti contaminati. Dunque, per tutti gli aspetti
concernenti la bonifica dell'area interessata, la compressione delle
attribuzioni regionali in materia urbanistica è diretta conseguenza delle
esigenze di tutela ambientale, di competenza esclusiva statale, senza che
possa profilarsi una violazione delle disposizioni costituzionali sul
riparto di competenze. La disciplina censurata appare rispettosa anche
dell'art. 118 Cost., in relazione ai contenuti del programma di risanamento
più propriamente ascrivibili al «governo del territorio», quali ad esempio
la localizzazione delle opere infrastrutturali, sebbene si tratti comunque
di aspetti strettamente connessi al risanamento dell'area. Infatti,
nell'allocare in capo allo Stato le varie funzioni amministrative, il
legislatore statale ha previsto varie forme di coinvolgimento della Regione
e del Comune, le quali, pur disegnando un procedimento diverso dall'intesa,
assicurano una costante e adeguata cooperazione istituzionale (sentt. nn.
378 del 2000, 478 del 2002, 50 del 2005, 50, 214 del 2008, 10, 61, 225, 247
del 2009, 278, 331, 334 del 2010, 33, 244 del 2011, 54 del 2012, 285 del
2013, 44, 269 del 2014, 58, 140, 149, 180 del 2015, 1, 7, 21, 251 del 2016)”;
i2) Corte cost.,
21.01.2016, n. 7 (in Foro it., 2016, I, 770) secondo cui “Lo Stato può
ricorrere alla chiamata in sussidiarietà «al fine di allocare e disciplinare
una funzione amministrativa (sentenza n. 303 del 2003 …) pur quando la
materia, secondo un criterio di prevalenza, appartenga alla competenza
regionale concorrente, ovvero residuale» (sentenza n. 278 del 2010 …).
Questa corte ha affermato in proposito che, «perché nelle materie di cui
all’art. 117, 3° e 4° comma, Cost., una legge statale possa legittimamente
attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso
regolarne l’esercizio, è necessario che essa innanzi tutto rispetti i
principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nell’allocazione
delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario
di tali funzioni. È necessario, inoltre, che tale legge detti una disciplina
logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette
funzioni, e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale
fine. Da ultimo, essa deve risultare adottata a seguito di procedure che
assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso
strumenti di leale collaborazione o, comunque, deve prevedere adeguati
meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni
amministrative allocate in capo agli organi centrali. Quindi, con
riferimento a quest’ultimo profilo, nella perdurante assenza di una
trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei
procedimenti legislativi —anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art.
11 l. cost. 18.10.2001 n. 3 (modifiche al titolo V della parte seconda della
Costituzione)— la legislazione statale di questo tipo ‘può aspirare a
superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una
disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le
attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese,
che devono essere condotte in base al principio di lealtà’ (sentenza n. 303
del 2003, cit.)» (sentenza n. 6 del 2004 …). Si è aggiunto che deve
trattarsi di «intese forti» … non superabili con una determinazione
unilaterale dello Stato se non nella «ipotesi estrema, che si verifica
allorché l’esperimento di ulteriori procedure bilaterali si sia rivelato
inefficace»”;
j) si evidenzia come la Corte, nella sentenza
in rassegna, avalli infine la tesi più rigorosa e consolidata in seno al
Consiglio di Stato sui limiti in cui si ammette la tutela dell’affidamento
in sede di pianificazione urbanistica. Si veda, a tale specifico riguardo:
j1) Cons. Stato, sez. IV,
03.07. 2018, n. 4071, secondo cui “Sul piano più generale, le scelte
effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici
costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità,
salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità,
sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di
apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali,
di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso,
essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento
al progetto di modificazione al PRG, a meno che particolari situazioni non
abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui
posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni (cfr. ex multis,
Cons. Stato, sez. IV, n. 4037 del 2017)”;
j2) Cons. Stato, sez. IV,
09.05.2018, n. 2780 (citata anche dalla sentenza qui in rassegna), secondo
cui, tra l’altro: “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di
merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che
risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni
procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche
aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano
ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
18.08.2017, n. 4037; sez. VI, 05.03.2013, n. 1323; sez. IV, 25.11.2013, n.
5589; sez. IV, 16.04.2014, n. 1871)".
Ed ancora che: “l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in
sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso
incida su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative,
è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità
di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008, n.
5478)”.
Infine che: “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica
attraverso il ridimensionamento dell’attitudine edificatoria di un’area è
interdetta solo da determinazioni vincolanti per l’amministrazione in ordine
ad una diversa “zonizzazione” dell’area stessa, ovvero tali da fondare
legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del
privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi
di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella
modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. ex plurimis sez. IV,
04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)”;
j3) Cons. Stato, sez. IV,
06.10.2017, n. 4660, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute con gli
atti di pianificazione generale non richiedono una motivazione puntuale e,
purché non manifestamente illogiche o contraddittorie o ingiustificate, sono
sufficientemente motivate con riguardo ai principi e ai criteri di fondo del
piano, quali emergono dagli atti del procedimento e particolarmente dalla
relazione di accompagnamento (cfr. per tutte, da ultimo, Cons. Stato, sez.
IV, 03.07.2017, n. 3237)”;
j4) Cons. Stato, sez. IV,
12.05.2016, n. 1907 (in Foro amm., 2016, 5, 1189), secondo cui “In sede
di pianificazione generale del territorio la discrezionalità, di cui
l'Amministrazione dispone per quanto riguarda le scelte in ordine alle
destinazioni dei suoli, è talmente ampia da non richiedere una particolare
motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali
che ispirano il piano regolatore generale, potendosi derogare a tale regola
solo in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del
privato a una specifica destinazione del suolo”;
j5) Cons. Stato, sez. IV,
07.11.2012, n. 5665 (in Foro amm. CDS, 2012, 11, 2843), secondo cui “le
scelte di destinazione urbanistica costituiscono valutazioni ampiamente
discrezionali che non richiedono una particolare motivazione al di là di
quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano lo strumento
di pianificazione, potendosi derogare a tale regola soltanto in presenza di
specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del proprio suolo, quali ad esempio la sussistenza di
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di
concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della
destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2011 n. 6049)”;
j6) Cons. Stato, sez. IV,
10.05.2012, n. 2710 (in Foro amm. CDS, 2012, 5, 1160), secondo cui “L’onere
di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di uno
strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone
territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei
criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una
motivazione puntuale e mirata, così come, nell’ambito del procedimento volto
all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre
singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione”
(Corte Costituzionale,
sentenza 16.07.2019 n. 179 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Per
costante giurisprudenza, il principio generale dell’onere della prova
previsto nell’art.
2697 cod. civ. si applica anche all’azione di risarcimento per
danni proposta dinanzi al giudice amministrativo, con la conseguenza che
spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli elementi
costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di cui si
invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove
la domanda di risarcimento manchi dalla prova del danno da risarcire, la
stessa deve essere respinta.
Pertanto, il danno ingiusto va dimostrato sia sotto il profilo
dell’esistenza, sia sotto il profilo dell’ammontare, sicché in mancanza di
idonea allegazione e di prova da parte di colui che assume di essere stato
danneggiato, non può essere accordato alcun risarcimento; né al riguardo può
sopperire la liquidazione equitativa del giudice, che ha natura sussidiaria
e non sostitutiva dell’onere di allegazione e di prova della parte: essa
interviene laddove l’impossibilità o l’estrema difficoltà di una stima
esatta dei danni patiti dal danneggiato dipenda da fattori oggettivi e non
dalla negligenza di questi nell’adempiere all’onere su di esso incombente.
---------------
La domanda di risarcimento dei danni avanzata dal ricorrente, deve essere
respinta, in quanto assolutamente generica e sfornita di prova, atteso che
il ricorrente si limita a chiedere il risarcimento di € 50.000, ovvero della
somma “che sarà per risultare ovvero ritenuta per equità”.
Per costante giurisprudenza, invero, il principio generale dell’onere della
prova previsto nell’art.
2697 cod. civ. si applica anche all’azione di risarcimento per
danni proposta dinanzi al giudice amministrativo, con la conseguenza che
spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli elementi
costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di cui si
invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove
la domanda di risarcimento manchi dalla prova del danno da risarcire, la
stessa deve essere respinta (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI,
19/11/2018 n. 6506).
Pertanto, il danno ingiusto va dimostrato sia sotto il profilo
dell’esistenza, sia sotto il profilo dell’ammontare, sicché in mancanza di
idonea allegazione e di prova da parte di colui che assume di essere stato
danneggiato, non può essere accordato alcun risarcimento; né al riguardo può
sopperire la liquidazione equitativa del giudice, che ha natura sussidiaria
e non sostitutiva dell’onere di allegazione e di prova della parte: essa
interviene laddove l’impossibilità o l’estrema difficoltà di una stima
esatta dei danni patiti dal danneggiato dipenda da fattori oggettivi e non
dalla negligenza di questi nell’adempiere all’onere su di esso incombente
(v. TAR Lombardia, Sez. II, 06/02/2019 n. 269) (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 15.07.2019 n. 1629 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
nuove disposizioni ex lege n. 124/2015 trovano applicazione “solo ai provvedimenti di
annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano,
anch’essi, successivi all’entrata in vigore della nuova disposizione”.
Va, d’altronde, considerato che la nuova disposizione àncora l’esercizio del
potere al momento di emanazione del primo atto ponendo, quindi, una
limitazione temporale calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di
secondo grado rimuove. La generalizzata applicazione del termine dalla data
di entrata in vigore della legge 124 del 2015 muta il presupposto fondante
su cui poggia la previsione imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela –per i provvedimenti già emessi prima del 28.08.2015–
necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data. In tal modo, però,
si altera la ratio della norma nella sua applicazione nella dinamica
intertemporale, trasformando la stessa in un termine generale di definizione
di tutti i provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già adottati
prima della novella.
Aderendo alla tesi pur autorevolmente patrocinata da parte della
giurisprudenza, l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza, onerata di una
verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi entro un
generale termine di 18 mesi onde non vedersi precludere la possibilità di
successiva rimozione.
In tal modo, però, per gli atti adottati prima della novella il termine di
decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi sulla data di emanazione del
singolo atto –come espressamente disposto dalla norma– ma, al contrario,
sulla data di entrata in vigore della legge. Si perviene, così, al risultato
di negare la ratio della previsione che, come detto, intende calibrare
temporalmente l’atto di esercizio del potere sul provvedimento da rimuovere.
L’interpretazione che appare, pertanto, maggiormente acconcia al dato
letterale e alla specifica ratio legis è quella che àncora le nuove
disposizioni all’esercizio del potere su atti emanati dopo l’entrata in
vigore della nuova legge.
Conclusione che, del resto, appare confermata dalla circostanza che il
legislatore non ha voluto approntare una disciplina di diritto transitorio,
l’unica che, in tale quadro, avrebbe potuto medio tempore derogare al
rigido parametro temporale di riferimento ora previsto dall’ordinamento (ubi
lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).
---------------
5. Con il primo motivo di ricorso si assume l’illegittimità dell’atto
di annullamento degli effetti della d.i.a. n. 63/2014, avuto riguardo
all’avvenuto superamento del termine ragionevole indicato dagli artt. 19 e
21-nonies della legge n. 241 del 1990, essendo trascorsi ben trentasei mesi
dalla formazione del titolo, avvenuta nel mese di dicembre 2014, rispetto
all’atto di autotutela, adottato il 20.11.2017.
5.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che la fattispecie de qua è sorta sotto il vigore della
disciplina antecedente all’introduzione della legge n. 124 del 2015 e quindi
alla stessa non risulta applicabile il novellato testo dell’art. 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, a mente del quale “Il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi
di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato
d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine
ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e
dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge”.
Difatti, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento secondo cui le
nuove disposizioni trovano applicazione “solo ai provvedimenti di
annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano,
anch’essi, successivi all’entrata in vigore della nuova disposizione”
(TAR Lazio, Roma, I-bis, 02.07.2018, n. 7272).
Va, d’altronde, considerato che la nuova disposizione àncora l’esercizio del
potere al momento di emanazione del primo atto ponendo, quindi, una
limitazione temporale calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di
secondo grado rimuove. La generalizzata applicazione del termine dalla data
di entrata in vigore della legge 124 del 2015 muta il presupposto fondante
su cui poggia la previsione imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela –per i provvedimenti già emessi prima del 28.08.2015–
necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data. In tal modo, però,
si altera la ratio della norma nella sua applicazione nella dinamica
intertemporale, trasformando la stessa in un termine generale di definizione
di tutti i provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già adottati
prima della novella.
Aderendo alla tesi pur autorevolmente patrocinata da parte della
giurisprudenza, l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza, onerata di una
verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi entro un
generale termine di 18 mesi onde non vedersi precludere la possibilità di
successiva rimozione.
In tal modo, però, per gli atti adottati prima della novella il termine di
decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi sulla data di emanazione del
singolo atto –come espressamente disposto dalla norma– ma, al contrario,
sulla data di entrata in vigore della legge. Si perviene, così, al risultato
di negare la ratio della previsione che, come detto, intende calibrare
temporalmente l’atto di esercizio del potere sul provvedimento da rimuovere.
L’interpretazione che appare, pertanto, maggiormente acconcia al dato
letterale e alla specifica ratio legis è quella che ancora le nuove
disposizioni all’esercizio del potere su atti emanati dopo l’entrata in
vigore della nuova legge.
Conclusione che, del resto, appare confermata dalla circostanza che il
legislatore non ha voluto approntare una disciplina di diritto transitorio,
l’unica che, in tale quadro, avrebbe potuto medio tempore derogare al
rigido parametro temporale di riferimento ora previsto dall’ordinamento (ubi
lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) [TAR Lombardia, Milano, II,
21.01.2019, n. 118; 03.10.2018, n. 2200; si veda anche Consiglio di Stato,
Ad. plen., 17.10.2017, n. 8]
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.07.2019 n. 1628 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
“pergolato” è una struttura aperta su almeno tre lati e nella parte
superiore.
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Del resto, non può in alcun modo ritenersi che il provvedimento del
10.09.2014 costituisca un “inutile doppione” del titolo edilizio
175/98: quest’ultimo, infatti ha ad oggetto una struttura in legno aperta
sui lati e sulla sommità (cfr. pag. 2 del ricorso), mentre il primo riguarda
una struttura in legno aperta su tutti i lati con soprastante telo/rete
ombreggiante; ed è noto che il “pergolato” è una struttura aperta su
almeno tre lati e nella parte superiore (Cons. Stato, sez. VI, 25.01.2017,
n. 306; che un’opera, per essere definita “pergolato”, non debba
essere chiusa nel lato di copertura, lo ribadisce anche Cons. Stato, sez. IV,
29.09.2011, n. 5409) (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.07.2019 n. 839 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'indagine
penale non preclude l'accesso agli atti se non sono confluiti nel fascicolo
del procedimento.
Il diritto d'accesso tradizionale non può spingersi fino al controllo
indiscriminato dell'azione pubblica. Forme di accesso più ampie sono oggi
invece garantite dal più giovane accesso civico alle informazioni
disponibili in rete sui siti web degli enti pubblici. Se queste informazioni
non sono disponibili sul sito web dell'ente, supplisce l'ancor più giovane
diritto d'accesso «di chiunque» di accedere a documenti ulteriori rispetto a
quelli oggetto di obbligo di pubblicazione, purché nel limite degli
interessi privati o pubblici, argomentati e non pretestuosi, opposti
dall'ente coinvolto.
Anche quest'ultimo strumento generalizzato di trasparenza deve essere
utilizzato senza abusi, nell'ambito di finalità partecipative e di leale
collaborazione tra cittadini e istituzioni: sono inammissibili istanze
esplorative che comportino un carico di lavoro paralizzante per l'ente.
Con la
sentenza
12.07.2019 n. 1085, il TAR Toscana-Sez. II indaga sul possibile sviamento
dell'istituto del diritto d'accesso dalle proprie funzioni, che a seconda
delle forme utilizzate, sono di tutela di interessi privati, ovvero civici,
ovvero difensivi.
La vicenda
Un cittadino era stato rinviato a giudizio penale per interruzione di
servizio pubblico causato da ripetitive e spesso immotivate richieste di
accesso ad atti, richieste e solleciti di informazioni in merito a
procedimenti amministrativi, richieste di accesso agli atti in relazione a
presunti abusi edilizi con conseguenti istanze di trasmissione di notizie di
reato, istanze di sopralluogo, inviti all'immediata adozione di
provvedimenti, minacciando continuamente denunce.
A seguito della citazione penale, il cittadino ha formulato (ulteriore)
istanza di accesso agli atti anche interni, relativi a ciascun esposto
denuncia avanzato. L'ente coinvolto ha rigettato l'istanza poiché a suo dire
si tratta di atti relativi a un procedimento penale in corso. Il cittadino
ha impugnato dinanzi al Tar il diniego per ragioni attinenti al proprio
diritto d'accesso difensivo.
La strada tracciata dal Tar
Il Tar ha chiarito che il diritto d'accesso tradizionale non è una sorta di
azione popolare diretta a consentire una forma di controllo generalizzato
sulla pubblica amministrazione, né può essere trasformato in uno strumento
di ispezione pubblica sull'efficienza di un soggetto pubblico. Da una parte,
l'interesse che legittima ciascun soggetto all'istanza deve essere personale
e concreto, dall'altra la documentazione richiesta deve essere direttamente
riferibile a quell'interesse, oltre che individuata/individuabile.
La legittima aspirazione del cittadino al controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali può invece trovare soddisfazione attraverso la
consultazione della sezione «Amministrazione Trasparente» del sito web degli
enti pubblici e, in seconda (eventuale) battuta, attraverso l'esercizio del
diritto di accesso civico a documenti ulteriori rispetto a quelli
pubblicati, seppur nel limite degli interessi pubblici o privati,
individuati dal legislatore. Ma attenzione: anche quest'ultimo strumento di
trasparenza va utilizzato senza abusarne, bensì nell'ambito delle finalità
partecipative e di leale collaborazione tra cittadini e pubblica
amministrazione.
Sulla base di queste condizioni non possono essere ritenute ammissibili da
una parte richieste meramente indagatorie, cioè volte unicamente a scoprire
di quali informazioni l'ente dispone, e tali da generare un carico di lavoro
in grado d'interferire sul buon funzionamento dell'ente, e dall'altra
preclusioni meccaniche e generali opposte dall'ente alla conoscibilità dei
documenti richiesti. In altre parole l'amministrazione non può trincerarsi
(come nel caso di specie) dietro l'esistenza di un'indagine penale che non è
di per sé causa ostativa all'accesso ai documenti se questi ultimi non sono
confluiti nel fascicolo del procedimento penale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 31.07.2019).
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MASSIMA
Giova premettere che il presente giudizio ha per oggetto la verifica
della spettanza o meno del diritto di accesso ex L. n. 241/1990, più che la
verifica della sussistenza o meno di vizi di legittimità dell’atto
amministrativo. Infatti, il giudice può ordinare
l’esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all’Amministrazione
e ordinandole un facere pubblicistico, solo se ne sussistono i
presupposti (art. 116, co. 4, c.p.a.). Questo implica che, al di là degli
specifici vizi e della specifica motivazione del provvedimento
amministrativo di diniego dell’accesso, il giudice deve verificare se
sussistono o meno i presupposti dell’accesso, potendo pertanto negarlo anche
per motivi diversi da quelli indicati dal provvedimento amministrativo
(cfr., TAR Toscana, sez. II, 16.02.2015, n. 268; Cons. di Stato, sez. VI,
12.01.2011, n. 117).
Ciò premesso, come noto, l’art. 24 della L. n. 241/1990, nel disciplinare le
ipotesi di esclusione del diritto di accesso, stabilisce, al comma III, che
“Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo
generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni”.
Il diritto d'accesso ai documenti riconosciuto dall'art. 22
legge n. 241/1990, non si atteggia dunque come una sorta di azione popolare
diretta a consentire una forma di controllo generalizzato
sull'Amministrazione, né può essere trasformato in uno strumento di
ispezione popolare sull'efficienza di un soggetto pubblico o di un
determinato servizio, nemmeno in ambito locale
(cfr. Cons. St., VI, 25.08.2017, n. 4074).
Ne deriva che, da una parte, l'interesse che
legittima ciascun soggetto all'istanza, e che va accertato caso per caso,
deve essere personale e concreto e, dall'altra, la documentazione
richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse, oltre che
individuata o ben individuabile.
Ebbene, nel caso in esame l’istanza di accesso, inoltrata dal ricorrente ai
sensi della L. n. 241/1990, come si evince dalla precedente esposizione in
fatto, è dichiaratamente volta ad effettuare un controllo generalizzato
sull’operato del -OMISSIS-, al fine di verificare l’efficienza della sua
attività o accertare eventuali negligenze, o colpevoli ritardi od omissioni
da parte dei suoi funzionari e del comandante della Polizia Municipale in
particolare. Il tutto senza che sia ravvisabile il collegamento degli atti
richiesti con l’interesse diretto concreto e attuale dell’odierno ricorrente
ad apprestare la propria difesa nell’ambito del giudizio penale, il quale ha
per oggetto, invece, la documentazione depositata dallo stesso ricorrente
presso il -OMISSIS-, che nell’ipotesi accusatoria, per il suo contenuto e
per la sua mole eccezionale, costituirebbe il mezzo di realizzazione delle
condotte delittuose di minaccia a pubblico ufficiale e interruzione di
pubblico servizio.
In aggiunta, il Collegio, condividendo le difese dell’Amministrazione
resistente, osserva come l’istanza in esame sia formulata in modo generico,
in quanto riferita ad una quantità indefinita di atti, non specificamente
individuati (tutti gli atti relativi a…), afferenti ad un numero altrettanto
irragionevole di segnalazioni, diffide, richieste d’informazioni, esposti,
ordinanze etc.; mentre come noto, l'Amministrazione, in
sede di accesso, è tenuta a produrre documenti individuati in modo
sufficientemente preciso e circoscritto, e non anche a compiere attività di
ricerca ed elaborazione degli stessi, atteso che richieste generiche
sottoporrebbero l'Amministrazione a ricerche incompatibili sia con la
funzionalità dei plessi, sia con l'economicità e la tempestività dell'azione
amministrativa (TAR Emilia
Romagna, Bologna, 04.04.2016, n. 366; Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2016, n.
68).
Nel caso in esame, il carico di lavoro che deriverebbe al -OMISSIS- dalla
domanda di accesso dell’odierno ricorrente sarebbe tale da paralizzarne
l’attività almeno per diversi giorni.
Pertanto il diniego espresso al riguardo dall'Amministrazione deve ritenersi
del tutto legittimo, dovendosi bilanciare gli interessi personali del
ricorrente con il mantenimento dell’efficienza e del buon funzionamento di
quest’ultima.
Piuttosto, la legittima aspirazione che anima il ricorrente, come da questi
chiarito in sede di discussione orale, alla trasparenza amministrativa e al
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali da parte del
-OMISSIS-, potrà trovare soddisfazione attraverso l’utilizzo degli strumenti
a tal fine apprestati dall’ordinamento con il d.lgs. n. 33/2013, ovvero, in
primo luogo, attraverso la consultazione della sezione “amministrazione
trasparente” del sito web istituzionale del detto Comune, ed in seconda
battuta, attraverso l’esercizio del diritto (di chiunque) di accedere ai
documenti ulteriori rispetto a quelli oggetto di obbligo di pubblicazione,
nel limite degli interessi pubblici e privati, quali individuati dal
legislatore.
Tuttavia, anche quest’ultimo strumento di trasparenza (accesso civico
generalizzato) dovrà essere utilizzato senza abusare dello stesso, bensì
nell’ambito delle finalità partecipative perseguite dal legislatore e di un
rapporto di leale collaborazione tra cittadini e Amministrazione.
Sulla base di tali condizioni si dovrà concordemente pervenire alla corretta
individuazione dell’oggetto dell’istanza di accesso civico, che, anche se
libera da requisiti soggettivi legittimanti, dovrà comunque identificare “i
dati, le informazioni o i documenti richiesti” ex art. 5 comma 3, d.lgs.
n. 33/2013; non potendo, da una parte, anche in base a tale disciplina,
essere ritenute ammissibili richieste meramente esplorative, cioè volte
semplicemente a scoprire di quali informazioni l’Amministrazione dispone, o
manifestamente irragionevoli, tali cioè da dover comportare un carico di
lavoro in grado d’interferire con il buon funzionamento dell’Amministrazione
(come quella oggetto del presente giudizio); e dall’altra, dovendosi quest’ultima
astenere dall’opporre preclusioni automatiche e assolute alla conoscibilità
dei documenti richiesti, al di fuori dei casi previsti dall’art. 5-bis,
comma 3, del d.lgs. n. 33/2013; considerato che anche
l’esistenza di un’indagine penale non è di per sé causa ostativa all’accesso
ai documenti se quest’ultimi non sono confluiti nel fascicolo del
procedimento penale e non rientrano tra gli “atti di indagine compiuti
dal pubblico ministero” di cui all’art. 329 c.p.p..
In conclusione, per le sopra esposte ragioni, il ricorso deve essere
respinto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI – Utilizzazione delle terre e rocce da scavo –
Abbandono o deposito in modo incontrollato rifiuti –
Procedura di riutilizzo del “materiale da scavo” – Modalità
operative della nuova normativa – Dubbi interpretativi della
norma penale – Inevitabilità dell’errore – Limiti – Criteri
oggettivi – Artt 192, 256, D.L.vo n. 152/2006 –
Giurisprudenza.
Integra una situazione di assoluta non
conoscibilità del precetto, in base a criteri (c.d.
oggettivi puri), l’oscurità del testo legislativo, oppure,
un atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari o
amministrativi gravemente caotico, ma non può configurasi,
certamente, come “ignoranza inevitabile” l’evenienza del
tutto normale e ordinaria, che fisiologicamente si
riconnette con le incertezze applicative di una legge appena
entrata in vigore, ciò che dovrebbe rendere più cauta la
condotta dell’agente, il quale, perdurando quell’incertezza,
deve astenersi dal compimento di qualsivoglia attività, in
attesa di indicazioni certe e affidabili, provenienti da
organi qualificati, circa le modalità operative della nuova
normativa (Corte
costituzionale, sentenza n. 364/1988).
...
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Scusabilità dell’ignoranza
della legge da parte del comune cittadino – Limite di
inevitabilità dell’errore – Criterio dell’ordinaria
diligenza – Dovere di informazione – Svolgimento di attività
professionale.
Il limite di inevitabilità dell’errore,
per il comune cittadino è sussistente ogni qualvolta egli
abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al
cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso
l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per
conseguire la conoscenza della legislazione vigente in
materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti
coloro che svolgono professionalmente una determinata
attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di
una culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica.
Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza,
occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi
amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento
giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento
della correttezza dell’interpretazione normativa e,
conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto
(Sez. U, n. 8154/1994, P.G. in proc. Calzetta).
Si è inoltre affermato che l’incertezza
derivante da contrastanti orientamenti giurisprudenziali
nell’interpretazione e nell’applicazione di una norma non
abilita da sola ad invocare la condizione soggettiva
d’ignoranza inevitabile della legge penale; al contrario, il
dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un
atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge
dalla sentenza n. 364/1988 della Corte Costituzionale,
all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le
informazioni assunte, permanga tale incertezza, dato che il
dubbio, non essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed
invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la
consapevolezza dell’illiceità
(Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016 – dep. 18/01/2017, Incardona)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.07.2019 n. 30536
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Gestione non autorizzata di rifiuti – Rifiuti
sottoposti a lavorazione – Attività soggetta a specifico
titolo abilitativo – D.l. 172/2008 – Art. 181 digs. 42/2004
– D.L.vo n. 152/2006 – Giurisprudenza.
Configura il reato di gestione non
autorizzata di rifiuti, di cui all’art. 256 D.L.vo n.
152/2006, in assenza di titolo abilitativo, l’effettuazione
della raccolta e smaltimento di rifiuti pericolosi, anche se
di fatto sottoposti ad un certo tipo lavorazione, in
considerazione che tale processo presuppone un’attività
svolta in maniera certamente non occasionale.
Nella specie gestione senza la preventiva autorizzazione di
rifiuti provenienti da carcasse di autovetture in parte
smontate, materiale ferroso, pneumatici, fusti metallici,
filtri laminati, batterie esauste, componenti di autoveicoli
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.07.2019 n. 30533
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALI: Cassazione:
la scelta del titolo autorizzativo rientra nelle competenze tecniche del
progettista.
La scelta del titolo autorizzativo all'esecuzione di
opere, in relazione al tipo di intervento edilizio progettato, rientra nelle
competenze tecniche del professionista incaricato di progettare l'opera,
anche nell'ipotesi di un accordo illecito fra le parti per porre in essere
un abuso edilizio.
Con l'ordinanza
09.07.2019 n. 18342, la III Sez. civile della Corte di Cassazione
ha ribadito che la scelta del titolo autorizzativo all'esecuzione di opere,
in relazione al tipo di intervento edilizio progettato, rientra nelle
competenze tecniche del professionista incaricato di progettare l'opus
finanche nell'ipotesi di un accordo illecito fra le parti per porre in
essere un abuso edilizio (Cass. 21/05/2012, n. 8014).
Pertanto, la incompletezza della istruttoria della pratica amministrativa o
l'erronea individuazione del titolo autorizzatorio, avendo carattere
strumentale e preliminare rispetto all'esecuzione dell'opera su cui il
direttore dei lavori aveva uno specifico ed ulteriore obbligo di controllo e
di verifica, non possono ricadere sul committente che, in quanto profano,
neppure avrebbe avuto gli strumenti per percepire l'errore (commento tratto
da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
FATTI DI CAUSA
An.Ri. ricorre per la cassazione della sentenza n. 2813/2017 della Corte
D'appello di Milano, n. 2813/2017, pubblicata il 21/06/2017, formulando tre
motivi.
Nessuna attività difensiva è svolta da Ch.Gr..
Il Tribunale di Lodi, adito dall'odierno ricorrente perché fosse dichiarata
la risoluzione del contratto d'opera stipulato con Ch.Gr. e perché quest'ultimo
fosse condannato al risarcimento dei danni subiti, rigettava la domanda
attorea: riteneva che difettasse la prova che al convenuto, progettista e
direttore dei lavori, fosse stato conferito l'incarico in relazione alle
opere rivelatesi abusive, che la prova testimoniale non fosse concludente
perché troppo generica, che le prestazioni indicate negli avvisi di parcella
non contenessero indicazioni circa gli interventi rilevatisi abusivi, che
non fosse stato dimostrato il danno lamentato.
L'odierno ricorrente asseriva che il professionista, progettista e direttore
dei lavori, aveva omesso, a sua insaputa, di presentare al Sindaco e al
Responsabile del Servizio Settore edilizia privata, la relazione tecnica
illustrativa degli interventi da realizzare su sua commissione: relazione
che egli aveva ricevuto in copia, in occasione della sottoscrizione della
DIA, e che conteneva l'elenco delle singole opere oggetto dell'intervento di
manutenzione straordinaria; lamentava, inoltre, che il convenuto neppure in
seguito, avvedutosi dell'errore, avesse presentato una variante.
La mancanza di tale relazione, l'unica in cui venivano descritti tutti i
lavori da realizzare, anche quelli rivelatisi abusivi, aveva determinato, ad
avviso del ricorrente, l'adozione dell'ordinanza di demolizione e la sua
iscrizione nel registro degli indagati per il reato di cui all'art. 44,
comma 1, lett. b), del dpr. n. 380/2001.
Ch.Gr., dunque, in quanto non solo progettista, ma anche direttore dei
lavori, avrebbe dovuto essere considerato responsabile per avere eseguito
delle opere sanzionate come abusive e, per l'effetto, non solo non avrebbe
avuto diritto di percepire l'onorario pattuito, ma sarebbe stato tenuto a
restituire quanto ricevuto, a corrispondergli il danno all'immagine, gli
importi pagati per la realizzazione delle opere e a rifonderlo delle spese
di lite e di tutti gli esborsi per sanzioni, multe, spese di rimessione in
pristino, difesa in sede penale.
La Corte d'Appello di Milano, investita del gravame dall'odierno ricorrente,
confermava la decisione di prime cure, ritenendo che l'ordinanza comunale di
demolizione desse atto che, durante il sopralluogo del responsabile
comunale, la formazione del bagno e del portico e la copertura del passaggio
pedonale risultavano riconducibili a nuova costruzione realizzata in assenza
di permesso di costruire. La planimetria allegata alla Dia, infatti, non
menzionava gli interventi rivelatisi abusivi e il lamentato inadempimento
del professionista Gr. non trovava riscontro nel confronto tra l'elenco
delle opere redatto da questi e quelle contestate dalla PA.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo ricorrente denuncia la violazione o falsa
applicazione degli artt. 1218 c.c., degli artt. 22, 23 e 29 D.p.r. n.
380/2001, degli artt. 1173, 1375, 1176, comma 2, 2222, 2226, 2229-2230 e
2236 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione o falsa
applicazione degli artt. 1453 e 2697 c.c., per avere la Corte territoriale
disatteso il principio di cui alla sentenza n. 13533 del 30/10/2001,
mandando esente da responsabilità Ch.Gr., inadempiente rispetto all'obbligo
di assicurare la conformità del progetto e dei lavori in variante alla
normativa edilizia primaria e secondaria, sebbene egli non avesse fornito la
prova liberatoria di cui all'art. 1218 c.c.
3.Con il terzo motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360, comma 1, n.
5, c.p.c., l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato
oggetto di discussione: il fatto omesso è costituito dalla condotta posta in
essere dal professionista che, avendo anche il ruolo di direttore dei
lavori, avrebbe dovuto informare anche in corso d'opera il committente della
difformità tra capitolato e Dia e tra lavori da eseguirsi e Dia,
rappresentando la necessità di presentare una variante.
4. I motivi possono essere esaminati congiuntamente, in ragione della loro
innegabile connessione.
Sia il Tribunale che la Corte d'Appello si sono limitati ad escludere la
responsabilità del professionista sull'assunto che non fosse provato che gli
fosse stato conferito l'incarico di eseguire proprio ed anche le opere
risultate abusive.
Non hanno, tuttavia, tenuto conto del fatto che —non risultando escluso che
dette opere siano state realizzate sotto la sua direzione— egli non poteva
sottrarsi alle domande formulate dal committente, se non provando di aver
stipulato con lui un contratto contra legem al fine di perpetrare un
abuso edilizio che, al netto delle implicazioni estranee all'odierna
vicenda, avrebbe precluso all'istante di lamentarsi delle conseguenze di un
comportamento conforme a quanto, sia pure illecitamente, convenuto.
Nei rapporti interni, provato il conferimento dell'incarico
di progettare e dirigere i lavori edilizi, con individuazione dell'impresa
costruttrice e con assunzione dell'incarico di provvedere agli adempimenti
urbanistici ed edilizi, è da ritenere che, quand'anche i lavori rivelatisi
abusivi non fossero stati da lui progettati
(in questo senso deve intendersi che non rientravano nell'incarico
conferito), Ch.Gr., in quanto anche direttore dei lavori,
avesse un obbligo di controllo e di verifica, il quale oltre ad un controllo
dinamico, continuativo, di accertamento per gradi e tappe intermedie della
effettiva concretizzazione e specificazione di quanto programmato e, quindi,
dovuto, comprendeva anche un obbligo di controllo e di verifica, per così
dire, statico e retrospettivo di comparazione tra l'opera da realizzare,
quella oggetto del programma negoziale e da lui stesso progettata, e quella
che in concreto veniva realizzata
(Cass. 05/10/2018, n. 24555), la quale, oltre che difforme rispetto a quella
da lui stesso progettata, risultava anche priva dei necessari titoli
autorizzatori.
Il cumulo dell'incarico di progettista dei lavori e di
direttore degli stessi fa sì che egli debba rispondere nei confronti del
committente della conformità del progetto alla normativa urbanistica, della
individuazione in termini corretti della procedura amministrativa da
utilizzare, così da assicurare l'acquisizione del permesso di costruire e la
realizzazione di quanto commissionato in conformità con la normativa
edilizia.
La giurisprudenza di questa Corte ritiene,
in particolare, che la scelta del titolo autorizzativo
all'esecuzione di opere, in relazione al tipo di intervento edilizio
progettato, rientri nelle competenze tecniche del professionista incaricato
di progettare l'opus finanche nell'ipotesi un accordo illecito fra le
parti per porre in essere un abuso edilizio
(Cass. 21/05/2012, n. 8014).
Sicché la incompletezza della istruttoria della pratica
amministrativa o l'erronea individuazione del titolo autorizzatorio, avendo
carattere strumentale e preliminare rispetto all'esecuzione dell'opera su
cui Cr.Gr., in quanto direttore dei lavori, aveva uno specifico ed ulteriore
obbligo di controllo e di verifica, non possono ricadere sul committente
che, in quanto profano, neppure avrebbe avuto gli strumenti per percepire
l'errore.
La Corte di merito si è limitata a respingere le censure, ribadendo le
argomentazioni del giudice di prime cure sul difetto di prova che gli
interventi abusivi fossero stati commissionati al professionista, omettendo
di considerare che essi erano stati realizzati dalla ditta appaltatrice,
sotto la direzione di Ch.Gr., il quale, dunque, non poteva non assumersi la
responsabilità della lacunosa od erronea istruttoria della pratica
amministrativa, preliminare e strumentale alla loro realizzazione, e/o
(ipotizzando che i lavori eseguiti non fossero quelli da lui progettati)
della responsabilità di non aver rilevato la difformità tra l'opera
progettata e quella eseguita e il difetto di titoli autorizzatori relativi a
quest'ultima.
Anche il difetto di argomentazioni della Corte territoriale sul motivo di
appello con cui il ricorrente lamentava la violazione da parte del
professionista delle obbligazioni ex lege su di lui gravanti in
quanto progettista e direttore dei lavori per avere realizzato un'opera
sprovvista di permesso di costruire, senza informarne il cliente e senza
provvedere a correggere l'errore, giustifica l'accoglimento del ricorso.
5. Il ricorso merita, dunque, accoglimento (Corte di Cassazione, Sez. III
civile,
ordinanza
09.07.2019 n. 18342). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
passaggio da una destinazione agricola ad una destinazione commerciale (di
vicinato) risulta essere urbanisticamente rilevante in quanto, a prescindere
o meno dalla realizzazione di opere, implica una variazione degli standard
previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444.
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Dall’esame della disciplina urbanistica applicabile all’area in cui insiste
il fabbricato di proprietà della ricorrente emerge con evidenza che per
poter porre in essere interventi urbanisticamente rilevanti sarebbe stata
necessaria la previa approvazione di un Piano attuativo, unitamente alla
previsione di delocalizzazione dell’attività agricola in essere.
Il passaggio da una destinazione agricola ad una destinazione commerciale
(di vicinato) risulta essere urbanisticamente rilevante in quanto, a
prescindere o meno dalla realizzazione di opere, implica una variazione
degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444 (cfr. TAR Lombardia,
Milano, II, 04.07.2019, n. 1529)
(TAR Lombardia-Milano Sez. II,
sentenza 08.07.2019 n. 1573 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittimo il provvedimento di inammissibilità della presentata
"comunicazione di cambio di destinazione d’uso", essendo stata riscontrata
l’assenza dei richiesti presupposti per dar corso ad una tale variazione,
che invece avrebbe richiesto la sussistenza di un idoneo titolo edilizio
(Piano attuativo); in tal modo si è proceduto a sanzionare l’attività
edilizia realizzata in violazione della normativa di settore, visto che in
tali frangenti l’Amministrazione dispone esclusivamente di un potere
sanzionatorio.
Del resto, è compito dell’Amministrazione riscontrare l’ammissibilità e/o la
legittimità delle istanze dei privati al fine di verificare la sussistenza
dei presupposti delle stesse e quindi accertarsi che l’effetto legale
prodotto dalle stesse sia conforme alle prescrizioni normative ed
intervenire, se necessario, utilizzando i poteri repressivi e sanzionatori (cfr.
la disciplina in materia di c.i.l.a.: sul punto Consiglio di Stato,
Commissione Speciale, parere 04.08.2016, n. 1784).
---------------
Quanto alla mancata comunicazione del preavviso di rigetto, si può
richiamare il disposto di cui all’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990, secondo il quale un provvedimento non è annullabile per il mancato
rispetto della normativa sul procedimento, qualora si tratti di atto
vincolato o comunque l’Amministrazione dimostri in giudizio che il suo
contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
---------------
4.
Con la terza doglianza del ricorso R.G. n. 2492/2016 e la prima del
ricorso R.G. n. 2775/2016, da trattare congiuntamente in quanto connesse, si
deduce l’illegittimità del provvedimento inibitorio, considerata la natura
di mera comunicazione del cambio di destinazione d’uso effettuata dal
privato e, in ogni caso, la mancata trasmissione del preavviso di rigetto.
4.1. Le doglianze sono infondate.
Correttamente lo Sportello unico ha adottato un provvedimento di
inammissibilità della comunicazione di cambio di destinazione d’uso, avendo
riscontrato l’assenza dei richiesti presupposti per dar corso ad una tale
variazione, che invece avrebbe richiesto la sussistenza di un idoneo titolo
edilizio (Piano attuativo); in tal modo si è proceduto a sanzionare
l’attività edilizia realizzata in violazione della normativa di settore,
visto che in tali frangenti l’Amministrazione dispone esclusivamente di un
potere sanzionatorio (TAR Sicilia, Catania, I, 16.07.2018, n. 1497; TAR
Toscana, III, 20.09.2016, n. 1625; assume, invece, la nullità dell’atto
dichiarativo dell’inammissibilità della c.i.l.a. ai sensi dell’art.
21-septies, L. n. 241/1990, poiché espressivo di un potere non tipizzato
nell’art. 6-bis D.P.R. n. 380/2001, salva e impregiudicata l’attività di
vigilanza contro gli abusi e l’esercizio della correlata potestà repressiva
dell’Ente territoriale, il TAR Calabria, Catanzaro, II, 29.11.2018, n.
2052).
Del resto, è compito dell’Amministrazione riscontrare l’ammissibilità e/o la
legittimità delle istanze dei privati al fine di verificare la sussistenza
dei presupposti delle stesse e quindi accertarsi che l’effetto legale
prodotto dalle stesse sia conforme alle prescrizioni normative ed
intervenire, se necessario, utilizzando i poteri repressivi e sanzionatori (cfr.
la disciplina in materia di c.i.l.a.: sul punto Consiglio di Stato,
Commissione Speciale, parere 04.08.2016, n. 1784).
Quanto alla mancata comunicazione del preavviso di rigetto, si può
richiamare il disposto di cui all’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990, secondo il quale un provvedimento non è annullabile per il mancato
rispetto della normativa sul procedimento, qualora si tratti di atto
vincolato o comunque l’Amministrazione dimostri in giudizio che il suo
contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(Consiglio di Stato, V, 21.06.2013, n. 3402; TAR Lombardia, Milano, II,
28.01.2019, n. 186).
4.2. Ciò determina il rigetto delle suesposte censure
(TAR Lombardia-Milano Sez. II,
sentenza 08.07.2019 n. 1573 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordinanza di
demolizione è stata motivata con l’avvenuto accertamento della
realizzazione, in totale difformità dalle cc.ii.ll.aa., di varie tipologie
di interventi edilizi che hanno condotto alla realizzazione di un immobile
con destinazione d’uso differente da quella sua propria, in palese
difformità dalla disciplina urbanistica vigente.
Sulla base di tali elementi fattuali è stata adottata l’ordinanza di
ripristino, quale atto di carattere del tutto vincolato, che ponendosi quale
conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività
degli interventi non richiede una particolare motivazione né con riguardo
all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico interesse del
privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla
puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione
delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso.
Nemmeno è possibile delimitare la portata della sanzione ripristinatoria a
seconda della rilevanza dei singoli abusi o effettuando una valutazione
specifica per ognuno di essi, dovendo l’abuso essere considerato
complessivamente e non atomisticamente.
Difatti, nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi, il carattere
sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del
richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e “la selezione e
ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a
monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile
l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001),
in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo
esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di
adozione dei propri provvedimenti”.
Anche le conseguenze di carattere ablatorio, in caso di inottemperanza
all’ordine di riduzione in pristino sono previste direttamente dalla legge e
operano ipso iure al ricorrere di determinati presupposti.
---------------
8.
Con le successive doglianze –rubricate dalla 4 alla 8 e da trattare
congiuntamente in quanto strettamente connesse– si assume l’illegittimità
dell’annullamento d’ufficio ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241
del 1990 per carenza del requisito dell’interesse pubblico prevalente su
quello dei privati alla conservazione delle opere edilizie realizzate,
unitamente alla irrogazione della sanzione ex art. 31 del D.P.R. n. 380 del
2001, avuto riguardo alla natura degli interventi, qualificabili quale
manutenzione ordinaria/straordinaria, e alla inattualità della destinazione
agricola che dovrebbe essere ripristinata in capo all’immobile.
8.1. Le doglianze sono complessivamente infondate.
L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuto accertamento
della realizzazione, in totale difformità dalle cc.ii.ll.aa., di varie
tipologie di interventi edilizi che hanno condotto alla realizzazione di un
immobile con destinazione d’uso differente da quella sua propria, in palese
difformità dalla disciplina urbanistica vigente.
Sulla base di tali elementi fattuali è stata adottata l’ordinanza di
ripristino, quale atto di carattere del tutto vincolato, che ponendosi quale
conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività
degli interventi non richiede una particolare motivazione né con riguardo
all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico interesse del
privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla
puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione
delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 21.01.2019, n. 112; 02.05.2018, n. 1190).
Nemmeno è possibile delimitare la portata della sanzione ripristinatoria a
seconda della rilevanza dei singoli abusi o effettuando una valutazione
specifica per ognuno di essi, dovendo l’abuso essere considerato
complessivamente e non atomisticamente (TAR Lombardia, Milano, II,
04.07.2019, n. 1529).
Difatti, nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi, il carattere
sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del
richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e “la selezione e
ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a
monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile
l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001),
in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo
esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di
adozione dei propri provvedimenti” (Consiglio di Stato, Ad. plen.,
17.10.2017, n. 9).
Anche le conseguenze di carattere ablatorio, in caso di inottemperanza
all’ordine di riduzione in pristino, peraltro non attuali, sono previste
direttamente dalla legge e operano ipso iure al ricorrere di determinati
presupposti, certamente sussistenti nella fattispecie de qua.
Va comunque sottolineato come dall’esame dell’ordinanza impugnata emerga
l’approfondita istruttoria svolta dall’Amministrazione e l’esaustiva
motivazione posta a supporto della stessa determinazione
(TAR Lombardia-Milano Sez. II,
sentenza 08.07.2019 n. 1573 - link a
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COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE: Il
provvedimento di acquisizione sanante è competenza riservata al consiglio
comunale.
La competenza all'adozione del provvedimento di acquisizione sanante è
riservata al Consiglio comunale, in quanto riconducibile al novero dei
provvedimenti di acquisizione ex articolo 42, comma 2, lett. l), del Dlgs n.
267/2000, che dispone doversi adottare con delibera consiliare gli acquisti
e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non
siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne
costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del
Segretario o di altri funzionari.
È quanto afferma il TAR Campania-Salerno, Sez. II, con la
sentenza 05.07.2019 n. 1205.
L’approfondimento
Il Tar Salerno è intervenuto sui profili di legittimità del provvedimento di
acquisizione sanante adottato con atto monocratico del dirigente del settore
patrimonio dell’Ente locale, piuttosto che con deliberazione del Consiglio
comunale.
La decisione
Nell’accogliere parzialmente il ricorso, il Collegio ha avuto modo di
rilevare come la competenza all'adozione del provvedimento di acquisizione
sanante è riservata al Consiglio comunale, in quanto riconducibile al novero
dei provvedimenti di acquisizione ex articolo 42, comma 2, lett. l), del
Dlgs n. 267/2000, che dispone doversi adottare con delibera consiliare gli «acquisti
e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non
siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne
costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del
segretario o di altri funzionari», così ricomprendendo anche l'ipotesi
di acquisto di immobili disciplinata dall'articolo 42-bis del Dpr n.
327/2001.
Per il Collegio, inoltre, in tema di espropriazione per pubblica utilità,
sussiste la giurisdizione del Giudice ordinario, ove si discuta –come,
appunto, nella specie– della quantificazione dell'importo dovuto in
applicazione dell'articolo 42-bis del Dpr n. 327/2001, e le relative
controversie sulla determinazione e corresponsione dell'indennizzo,
globalmente inteso, previsto per la c.d. acquisizione sanante, sono, quindi,
devolute, in unico grado, alla Corte d’appello, secondo una regola generale
dell'ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle
indennità, dovendosi interpretare in via estensiva l'articolo 29 del Dlgs n.
150/2011, tanto più che tale norma non avrebbe potuto fare espresso
riferimento a un istituto –quale quello della acquisizione sanante–
introdotto nell'ordinamento solo in epoca successiva.
Pertanto, nella fattispecie di cui all'articolo 42-bis del Dpr n. 327/2001,
l'illecita o illegittima utilizzazione dell'immobile per scopi di interesse
pubblico costituisce solo un presupposto dell'acquisizione del bene, sicché,
ove il provvedimento acquisitivo sia stato adottato in conformità agli altri
presupposti normativi, l'indennizzo previsto per la perdita della proprietà
non ha natura risarcitoria, ma indennitaria, e la controversia sulla sua
determinazione e corresponsione appartiene alla giurisdizione del giudice
ordinario ai sensi degli articoli 53 del Dpr n. 327/2001 e 133, lett. g,
c.p.a. (si veda Cassazione, Sezioni unite, n. 2583/2018; n. 11180/2018).
Conclusioni
Alla luce di queste premesse, ne deriva che il provvedimento impugnato è
viziato da incompetenza, siccome adottato dal Responsabile del Settore
patrimonio, ambiente e lavori pubblici, anziché dal Consiglio comunale (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.08.2019).
---------------
MASSIMA
Considerato, in rito, che:
- sul petitum sostanziale volto a far valere l’erronea
quantificazione dell’indennizzo ex art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001
sussiste, per ius receptum, la giurisdizione del giudice ordinario;
- in particolare, in tema di espropriazione per
pubblica utilità, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, ove si
discuta –come, appunto, nella
specie– della quantificazione dell'importo dovuto in
applicazione dell'art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001, e le relative
controversie sulla determinazione e corresponsione dell'indennizzo,
globalmente inteso, previsto per la c.d. acquisizione sanante, sono, quindi,
devolute, in unico grado, alla Corte d’appello, secondo una regola generale
dell'ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle
indennità, dovendosi interpretare in via estensiva l'art. 29 del d.lgs. n.
150/2011, tanto più che tale norma non avrebbe potuto fare espresso
riferimento a un istituto –quale quello della acquisizione sanante–
introdotto nell'ordinamento solo in epoca successiva
(cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., m. 15283/2916; n. 15343/2018;
n. 28572/2018; n. 33539/2018; Cons. Stato, sez. IV, n. 4550/2017; n.
5739/2018; n. 6272/2018);
- nella fattispecie di cui all'art. 42-bis del
d.p.r. n. 327/2001, l'illecita o illegittima utilizzazione dell'immobile per
scopi di interesse pubblico costituisce, infatti, solo un presupposto
dell'acquisizione del bene, sicché, ove il provvedimento acquisitivo sia
stato adottato in conformità agli altri presupposti normativi, l'indennizzo
previsto per la perdita della proprietà non ha natura risarcitoria, ma
indennitaria, e la controversia sulla sua determinazione e corresponsione
appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario ai sensi degli artt. 53
del d.p.r. n. 327/2001 e 133, lett. g, cod. proc. amm.
(cfr. Cass., sez. un., n. 2583/2018; n. 11180/2018);
Considerato, in merito alla proposta censura di incompetenza, esulante dal
perimetro delle questioni sul quantum indennitario, che:
- la competenza all'adozione del provvedimento di
acquisizione sanante è riservata al Consiglio comunale, in quanto
riconducibile al novero dei provvedimenti di acquisizione ex art. 42, comma
2, lett. l), del d.lgs. n. 267/2000, che dispone doversi adottare con
delibera consiliare gli «acquisti e alienazioni immobiliari, relative
permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti
fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che,
comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e
servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari»,
così ricomprendendo anche l'ipotesi di acquisto di immobili disciplinata
dall'art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 775/2010; sez. V, n.
7472/2010; sez. IV, n. 2810/2018; TAR Puglia, Bari, sez. III, n. 750/2014;
TAR Campania, Napoli, sez. V, n. 219/2016; n. 5031/2018);
- conseguentemente, il provvedimento impugnato è viziato da
incompetenza, siccome adottato dal Responsabile del Settore Patrimonio,
Ambiente e Lavori Pubblici, anziché dal Consiglio comunale di Baronissi;
Ritenuto, in conclusione, che:
- alla stregua delle considerazioni svolte:
- quanto alle contestazioni rivolte alla determinazione
dell’indennizzo ex art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001, va dichiarato il
difetto di giurisdizione dell’adito Tribunale amministrativo regionale,
dovendosi individuare, ai sensi dell’art. 11 cod. proc. amm., nel giudice
ordinario l’autorità munita di giurisdizione, dinanzi alla quale il processo
andrà riassunto, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali delle
domande proposte;
- quanto alla rassegnata censura di incompetenza, il ricorso va
accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato; |
APPALTI SERVIZI: Appalti
di servizi, illegittima la clausola che prescrive il sopralluogo
obbligatorio.
La regola di gara che prescrive il sopralluogo a pena di esclusione, è
illegittima se l’adempimento assume un ruolo meramente formale.
Lo
stabilisce il TAR Basilicata con la
sentenza
28.06.2019 n.
544.
Il caso
Il caso si riferisce ad una gara per l’affidamento del servizio di gestione
di un asilo nido comunale. Nella specie la stazione appaltante aveva
stabilito l’esclusione della ricorrente per aver violato la norma del
disciplinare di gara che disponeva l’obbligatorietà del sopralluogo per
partecipare alla competizione. Il provvedimento, tuttavia, è stato annullato
dal Tar sul presupposto che l’adempimento assumeva nel caso di specie un
ruolo meramente formale, quindi, sul piano sostanziale, non necessario per
la formulazione dell’offerta.
Per il Giudice amministrativo la previsione escludente del disciplinare di
gara si presenta del tutto priva di reale contenuto sostanziale in relazione
alle caratteristiche concrete del servizio oggetto della procedura.
La decisione
La questione giuridica giunta all’attenzione del Tar Basilicata riguarda i
rapporti tra obbligo di sopralluogo e clausole escludenti.
Per il Giudice
amministrativo «anche negli appalti di servizi, la clausola di lex specialis,
con la quale il sopralluogo è prescritto a pena di esclusione, non può di
per sé dirsi contraria alla legge o non prevista dalla legge, sempre che
detto adempimento venga ad assumere un ruolo sostanziale, e non meramente
formale, per consentire ai concorrenti di formulare un'offerta consapevole e
più aderente alle necessità dell'appalto» (si veda Consiglio di Stato,
Sezione V, 26.07.2018, n. 4597).
Nei casi in cui detta proiezione
funzionale non ricorra, la prescrizione escludente viene a porsi in
contrasto «con i principi di massima partecipazione alle gare e divieto di
aggravio del procedimento, ponendo in capo all’operatore economico in
maniera irragionevole un onere formale sproporzionato e ingiustificato» (si
veda Consiglio di Stato, Sezione V, 29.05.2019, n. 3581), e quindi in
violazione dell’articolo 83, comma 8, del Dlgs n. 50/2016, in quanto la sua
inosservanza non precluderebbe in alcun modo il perseguimento dei risultati
verso cui è diretta l’azione amministrativa ovvero il puntuale rispetto
delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.07.2019).
---------------
MASSIMA
6. E’, invece, fondato il secondo motivo di ricorso.
Preliminarmente,
va richiamato in materia di rapporti tra obbligo di sopralluogo e
clausole escludenti, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, anche
negli appalti di servizi, la clausola di lex specialis, con la quale
il sopralluogo è prescritto a pena di esclusione, non può di per sé dirsi
contraria alla legge o non prevista dalla legge, sempre che detto
adempimento venga ad assumere “un ruolo sostanziale, e non meramente
formale, per consentire ai concorrenti di formulare un'offerta consapevole e
più aderente alle necessità dell'appalto”
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26.07.2018, n. 4597).
Nei casi in cui detta proiezione funzionale non ricorra, la
prescrizione escludente viene a porsi in contrasto “con i principi di
massima partecipazione alle gare e divieto di aggravio del procedimento,
ponendo in capo all’operatore economico in maniera irragionevole un onere
formale sproporzionato e ingiustificato”
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2019, n. 3581), e
quindi in violazione dell’art. 83, co. 8, del D.Lgs. n. 50/2016, in quanto
la sua inosservanza non precluderebbe in alcun modo il perseguimento dei
risultati verso cui è diretta l’azione amministrativa ovvero il puntuale
rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara.
In adesione alle richiamate coordinate interpretative, deve ritenersi che la
previsione escludente di cui l’art. 11 del Disciplinare di gara si presenta
del tutto priva di reale contenuto sostanziale in relazione alle
caratteristiche concrete del servizio oggetto della procedura.
Depongono in tal senso i seguenti profili.
Il servizio oggetto di causa non ha nessuna diretta e stretta attinenza con
le strutture edilizie in cui viene esercitato, come desumibile dalla
descrizione delle prestazioni oggetto dell’affidamento (cfr. art. 10 del
Capitolato speciale) e dei criteri di valutazione dell’offerta tecnica (art.
18.1 del Disciplinare di gara). Nessuna di tali previsioni di lex
specialis riconnette, infatti, alcuna rilevanza a tale profilo
nell’economia dell’affidamento.
A dimostrazione dell’assenza di una stretta connessione tra lo svolgimento
del servizio e la sede comunale dell’asilo nido, è persino previsto che il
Comune di Melfi possa modificare in corso di rapporto detta sede (cfr. art.
8 del Capitolato speciale). Circostanza che, sia pure indirettamente,
testimonia l’irrilevanza sostanziale del sopralluogo dei locali ai fini
della formulazione dell’offerta e, quindi, della successiva prestazione del
servizio.
Le planimetrie e la descrizione dell’immobile di proprietà comunale adibito
a svolgimento del servizio sono state incluse tra i documenti della lex
specialis, essendo, dunque, lo stato e la conformazione dei luoghi
conoscibili da ciascun offerente, a prescindere dal sopralluogo fisico.
L’ATI esclusa ha, nel suo complesso, comunque acquisito effettiva conoscenza
dei luoghi, avendo due delle imprese associate svolto il sopralluogo prima
della formulazione dell’offerta unitariamente formulata.
A fronte di tali perspicui elementi fattuali, unitariamente intesi, deve
ritenersi che il Comune di Melfi non ha esposto alcuna convincente
motivazione riguardo al carattere sostanziale del prescritto sopralluogo e,
quindi, alla giustificazione della sanzione escludente. Invero, non può
rilevare la dedotta essenzialità del sopralluogo in relazione alla
dislocazione del servizio presso due sedi (una comunale e l’altra messa a
disposizione dall’aggiudicatario), considerato che trattasi di un profilo
meramente estrinseco che non è di per sé stesso in grado di incidere sulle
conclusioni cui le considerazioni dianzi esposte conducono.
A ciò consegue il contrasto dell’art. 11 del Disciplinare di gara con l’art.
83, co. 8, del D.Lgs. n. 50/2016, con conseguente nullità della clausola
escludente e, dunque, illegittimità del conforme provvedimento di
esclusione.
7. Conclusivamente, il ricorso va accolto e, per l’effetto, va disposto
–previa declaratoria di nullità dell’articolo 11 del Disciplinare di gara-
l’annullamento del provvedimento di esclusione impugnato. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Quanto
alla legittimità dell’esercizio del particolare potere di ordinanza
sindacale contingibile e urgente delineato dall'art. 9 della legge
26.10.1995 n. 447 esso deve ritenersi "normalmente" consentito allorquando
gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti agenzie
Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di
inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente
(per esplicita previsione dell'art. 2 della legge n. 447 del 1995)-
rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la legge quadro
sull'inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento
amministrativo ordinario che consenta di ottenere il risultato
dell'immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti.
In siffatto contesto normativo, l'accertata presenza di un fenomeno di
inquinamento acustico (pur se non coinvolgente l'intera collettività) appare
sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a
tutela della salute pubblica con l'efficace strumento previsto soltanto
dall'art. 9, comma 1, della citata legge n. 447 del 1995.
Più in dettaglio e facendo applicazione dei principi enucleati dalla
giurisprudenza amministrativa in materia, si osserva che:
- l’art. 9, comma 1, della legge n. 447 del 1995 “non può essere
riduttivamente intesa come una mera (e, quindi, pleonastica) riproduzione,
nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento
acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente
tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al Sindaco
(quale Ufficiale di Governo) in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che
invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente interpretata nel
particolare significato che assume all'interno di una normativa dettata -in
attuazione del principio di tutela della salute dei cittadini previsto
dall'art. 32 della Costituzione- allo scopo primario di realizzare un
efficace contrasto al fenomeno dell'inquinamento acustico, tenendo nel
dovuto conto il fatto che la Legge n. 447/1995 (nell'art. 2 primo comma
lettera "a") ha ridefinito il concetto di inquinamento acustico,
qualificandolo come "l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o
nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed
alle attività umane", sancendo espressamente che esso concreta (in ogni
caso) "un pericolo per la salute umana"”;
- conseguentemente, l'utilizzo del particolare potere di ordinanza
contingibile e urgente delineato dal menzionato art. 9 è legittimo laddove
ha a presupposto l’accertamento da parte delle competenti Agenzie Regionali
di Protezione Ambientale (nel caso di specie sussistente), effettuato sulla
base di appositi rilievi tecnici, di un fenomeno di inquinamento acustico;
- l'accertata presenza di detto fenomeno (pur se non coinvolgente
l'intera collettività, ma una singola persona o famiglia) giustifica il
ricorso allo strumento previsto dall'art. 9, comma 1, della legge n. 447 del
1995.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza del Sindaco di San Benedetto del
Tronto n. 56 del 01.10.2018, notificata tramite PEC in data 02.10.2018,
avente ad oggetto “Ordinanza Sindacale ai sensi dell’art. 9 della Legge
n. 447/1995 – Inquinamento acustico prodotto da attività in Via ... a San
Benedetto del Tronto”, nonché di ogni atto conseguente, presupposto o
comunque connesso, anche non conosciuto, ivi inclusi:
...
3. Passando all’esame degli ulteriori motivi, essi sono infondati e vanno
respinti.
3.1. Quanto alla legittimità dell’esercizio del particolare potere di
ordinanza contingibile e urgente delineato dall'art. 9 della legge
26.10.1995 n. 447, il Collegio non ha motivo per discostarsi
-condividendolo- dall’orientamento secondo cui esso deve ritenersi "normalmente"
consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle
competenti agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza
di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest'ultimo
-ontologicamente (per esplicita previsione dell'art. 2 della legge n. 447
del 1995)- rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la legge
quadro sull'inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento
amministrativo ordinario che consenta di ottenere il risultato
dell'immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti.
In siffatto contesto normativo, l'accertata presenza di un fenomeno di
inquinamento acustico (pur se non coinvolgente l'intera collettività) appare
sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a
tutela della salute pubblica con l'efficace strumento previsto soltanto
dall'art. 9, comma 1, della citata legge n. 447 del 1995 (TAR Umbria-Perugia,
sez. I, 15.05.2015, n. 215; TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2011, n.
1276; TAR Campania Napoli, sez. V, 06.07.2011, n. 3556).
Più in dettaglio e facendo applicazione dei principi enucleati dalla
giurisprudenza amministrativa in materia, si osserva che:
- l’art. 9, comma 1, della legge n. 447 del 1995 “non può essere
riduttivamente intesa come una mera (e, quindi, pleonastica) riproduzione,
nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento
acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente
tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al Sindaco
(quale Ufficiale di Governo) in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che
invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente interpretata nel
particolare significato che assume all'interno di una normativa dettata -in
attuazione del principio di tutela della salute dei cittadini previsto
dall'art. 32 della Costituzione- allo scopo primario di realizzare un
efficace contrasto al fenomeno dell'inquinamento acustico, tenendo nel
dovuto conto il fatto che la Legge n. 447/1995 (nell'art. 2 primo comma
lettera "a") ha ridefinito il concetto di inquinamento acustico,
qualificandolo come "l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o
nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed
alle attività umane", sancendo espressamente che esso concreta (in ogni
caso) "un pericolo per la salute umana"” (testualmente, TAR Lombardia
Brescia, sentenza n. 1276 del 2011, citata);
- conseguentemente, l'utilizzo del particolare potere di ordinanza
contingibile e urgente delineato dal menzionato art. 9 è legittimo laddove
ha a presupposto l’accertamento da parte delle competenti Agenzie Regionali
di Protezione Ambientale (nel caso di specie sussistente), effettuato sulla
base di appositi rilievi tecnici, di un fenomeno di inquinamento acustico;
- l'accertata presenza di detto fenomeno (pur se non coinvolgente
l'intera collettività, ma una singola persona o famiglia) giustifica il
ricorso allo strumento previsto dall'art. 9, comma 1, della legge n. 447 del
1995 (sul punto, oltre alle sentenze innanzi richiamate, si segnalano
ulteriormente TAR Trento, sez. I, 29.01.2014, n. 19; TAR Piemonte-Torino,
sez. I, 05.04.2013, n. 422; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 27.12.2007, n.
6819).
Facendo applicazione dei suesposti principi al caso in esame, va, dunque,
respinto il primo motivo di ricorso
(TAR Marche,
sentenza 26.06.2019 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di abusi edilizi, l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia, è atto vincolato che non richiede una valutazione
specifica delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione,
non potendo ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto contra legem.
Deve, infatti, riconoscersi all’illecito edilizio natura permanente in
quanto, un immobile interessato da un intervento illegittimo, conserva nel
tempo il suo carattere abusivo tale per cui l’interesse pubblico al
ripristino della legalità violata è “in re ipsa”, dovendosi, quindi,
considerare l’interesse del privato necessariamente recessivo rispetto a
quello pubblico all’osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al
corretto governo del territorio.
---------------
Con il secondo motivo di ricorso viene dedotto l’eccesso di potere
per carenza di motivazione e la violazione del principio di affidamento del
privato.
Il ricorrente sostiene che l’ordinanza di demolizione, intervenuta a
distanza di circa sessant’anni dalla costruzione dell’immobile oggetto degli
abusi accertati, avrebbe dovuto essere corredata di indicazioni specifiche
circa l’interesse pubblico perseguito, anche in ragione del legittimo
affidamento ingenerato nel frattempo nell’interessato.
La censura è priva di pregio.
Sul punto è sufficiente richiamare il consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo il quale, in caso di abusi edilizi, l’ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia, è atto
vincolato che non richiede una valutazione specifica delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo
ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto contra legem.
Deve, infatti, riconoscersi all’illecito edilizio natura permanente in
quanto, un immobile interessato da un intervento illegittimo, conserva nel
tempo il suo carattere abusivo tale per cui l’interesse pubblico al
ripristino della legalità violata è “in re ipsa”, dovendosi, quindi,
considerare l’interesse del privato necessariamente recessivo rispetto a
quello pubblico all’osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al
corretto governo del territorio (cfr. ex multis Consiglio di Stato,
Sezione VI, 04.06.2018, n. 3351)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 30.05.2019 n. 767 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
è pur vero che l’art. 21-nonies della L. n. 241/1990, al primo
comma, individua in diciotto mesi il termine ragionevole al fine di
annullare d’ufficio un provvedimento, sussistendone motivi di interesse
pubblico, è necessario specificare che la stessa disposizione, al comma
2-bis, statuisce che “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla
base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di
condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato,
possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del
termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle
sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico
di cui al d.P.R. 28.12.2000, n. 445”.
In merito, la giurisprudenza più recente ha specificato che, pur in carenza
di una sentenza passata in giudicato, in ipotesi di falsa rappresentazione
del privato l’Amministrazione ben può agire in autotutela oltre il termine
prefissato dalla succitata norma.
Difatti, “appare del tutto logico, in siffatta situazione –in cui
l’Amministrazione sia stata propriamente indotta della misrepresentation dei
presupposti necessari al conseguimento del riconosciuto vantaggio– che la
parte non possa beneficiare, contra factum proprium, della rigidità del
termine imposto all’esercizio dell’autotutela: e ciò in quanto, per
l’appunto:
a) per un verso, l’affidamento vantato non avrebbe i connotati della
meritevolezza di tutela;
b) per altro verso, l’immutazione dei dati di realtà sottesi all’azione
amministrativa non potrebbe plausibilmente comprimere –di là dal generale e
generico limite di complessiva ragionevolezza– i tempi per l’accertamento
della verità … in quanto la norma si limita a valorizzare la (paritetica)
rilevanza della (dolosa) prospettazione di insussistenti presupposti di
fatto, indipendentemente dalla allegazione (che ne rappresenta soltanto una
della alternative modalità di ingresso nel procedimento amministrativo) di
dichiarazioni sostitutive e di atti di notorietà”.
---------------
Come è noto, la CILA (Comunicazione Inizio Lavori Asseverata) è stata
introdotta con la legge n. 73/2010 che ha modificato l’art. 6 del Testo
Unico dell’edilizia (d.p.r. n. 380/2001). Si tratta di uno strumento
normativo finalizzato alla realizzazione di interventi di manutenzione
straordinaria che non tocchino le parti strutturali dell’edificio.
La successiva legge n. 164 del 2014 ha esteso gli interventi di manutenzione
straordinaria anche a quelli di frazionamento o accorpamento di unità
immobiliari.
Quest’ultima ipotesi è quella che risulta essersi verificata nel caso di
specie.
In relazione alla CILA oggetto del presente contenzioso, non appare
condivisibile la tesi sostenuta dal Comune di Foggia, secondo cui
sussisterebbe una “impossibilità da parte dell’ente comunale ad annullare la CILA per il decorso termine di 18 mesi” dalla data di acquisizione al
protocollo comunale, nell’ottobre 2015.
Orbene, se è pur vero che l’art. 21-nonies della L. n. 241/1990, al primo
comma, individua in diciotto mesi il termine ragionevole al fine di
annullare d’ufficio un provvedimento, sussistendone motivi di interesse
pubblico, è necessario specificare che la stessa disposizione, al comma
2-bis, statuisce che “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla
base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di
condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato,
possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del
termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle
sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico
di cui al d.P.R. 28.12.2000, n. 445”.
In merito, la giurisprudenza più recente ha specificato che, pur in carenza
di una sentenza passata in giudicato, in ipotesi di falsa rappresentazione
del privato l’Amministrazione ben può agire in autotutela oltre il termine
prefissato dalla succitata norma.
Difatti, “appare del tutto logico, in siffatta situazione –in cui
l’Amministrazione sia stata propriamente indotta della misrepresentation dei
presupposti necessari al conseguimento del riconosciuto vantaggio– che la
parte non possa beneficiare, contra factum proprium, della rigidità del
termine imposto all’esercizio dell’autotutela: e ciò in quanto, per
l’appunto:
a) per un verso, l’affidamento vantato non avrebbe i connotati della
meritevolezza di tutela;
b) per altro verso, l’immutazione dei dati di realtà sottesi all’azione
amministrativa non potrebbe plausibilmente comprimere –di là dal generale e
generico limite di complessiva ragionevolezza– i tempi per l’accertamento
della verità … in quanto la norma si limita a valorizzare la (paritetica)
rilevanza della (dolosa) prospettazione di insussistenti presupposti di
fatto, indipendentemente dalla allegazione (che ne rappresenta soltanto una
della alternative modalità di ingresso nel procedimento amministrativo) di
dichiarazioni sostitutive e di atti di notorietà” (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, Sent. n. 3940/2018).
Nel caso di specie, anche a seguito delle due pronunce del Tribunale
Ordinario di Foggia, è conclamato che la controinteressata abbia abbattuto
il muro perimetrale del condominio “Spezzati” senza aver ottenuto
alcuna autorizzazione assembleare preventiva, nonostante le dichiarazioni
sostitutive contrarie rese sul punto.
Su tali presupposti, non vi è dubbio che i ricorrenti siano titolari di un
interesse a che il Comune di Foggia prenda una specifica posizione
provvedimentale sul caso in esame, adottando una determinazione espressa
sulla richiesta così come avanzata.
In conclusione, le considerazioni sin qui svolte impongono l’accoglimento
dell’introdotto ricorso (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 30.05.2019 n. 754 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'atto amministrativo plurimo è caratterizzato dal fatto di
contenere una pluralità di autonome e separate determinazioni
amministrative, concernenti una pluralità di altrettanto specifici
destinatari, che si trovano occasionalmente riunite in unico provvedimento,
ma che avrebbero potuto assumere anche la veste di tanti separati
provvedimenti quanti sono i singoli destinatari (L. n. 241/1990).
La circostanza, del tutto accidentale e contingente,
che vi sia formalmente un ordine unico, indirizzato uno actu a tre
distinti destinatari, nulla toglie circa la qualificazione dell’atto come
plurimo e circa le conseguenze, soltanto parziali, del giudicato di
annullamento.
Sul punto, valgano i principi espressi dalle seguenti massime del Consiglio
di Stato, per il quale:
- “Solamente per gli atti collettivi l'annullamento
giurisdizionale ha efficacia erga omnes (ad es., proclamazione degli eletti,
scioglimento di un organo collegiale) e lo stesso per gli atti normativi
(regolamenti); per l'atto plurimo, invece, ammettere lo stesso principio di
efficacia generalizzata ultra partes della sentenza di annullamento
significherebbe sottrarre i singoli destinatari di esso, che sono portatori
di uno specifico interesse personale e differenziato in relazione ad una
volontà amministrativa rivolta distintamente a più destinatari
occasionalmente raggruppati in un unico provvedimento, ai principi del
processo impugnatorio e dei relativi termini decadenziali. In tal caso la
diligenza e la solerzia di alcuni andrebbe a beneficio di coloro che non
hanno fatto valere tempestivamente il loro diritto di difesa” e
- “L'annullamento giurisdizionale di
un atto plurimo, in "parte qua", non ha effetto generale nei confronti anche
dei soggetti estranei alle parti impugnate di esso. Negli atti plurimi,
insomma, l'annullamento rimane comunque scindibile in ragione dell'interesse
di chi se ne avvale e l'illegittima composizione della commissione
giudicatrice non è suscettibile di travolgere parti del provvedimento
oggettivamente estranee alla pretesa del ricorrente”.
Vale la pena evidenziare che, di regola, i co-interessati hanno l’onere di
proporre un’autonoma impugnazione, non essendo loro neppure consentito di
spiegare intervento adesivo autonomo (o, secondo altra denominazione,
litisconsortile)..
Quest’ultimo ove proposto, se ne ricorrono i requisiti di forma e di
sostanza, dovrà essere qualificato –in ossequio al principio di
conservazione dei mezzi giuridici– come autonomo ricorso.
---------------
... per l'annullamento, dell’ordinanza prot. n. 88/07, del 27.07.2007, del
Comune di Angri, avente ad oggetto la presentazione di un progetto rimozione
e trasporto di rifiuti in discarica;
...
Con ordinanza n. 88 del 27.07.2007, il Comune intimato ordinava alla società
ricorrente e ai sigg. Ca.Ch. e An.Br. di provvedere alla presentazione di un
progetto per la caratterizzazione, rimozione e trasporto presso una
discarica autorizzata dei rifiuti collocati illecitamente in un’area ubicata
in Angri, località Campia, nonché alla relativa bonifica ambientale del
sito.
Il provvedimento emanato scaturiva da una serie di atti istruttori e
sopralluoghi compiuti dalla locale stazione dei Carabinieri e dall’ufficio
ambiente dell’ente locale, indicati nelle premesse dell’ordinanza comunale.
Nel provvedimento emanato si dava espressamente conto che gli autori del
presunto illecito ambientale erano i sigg. Ca.Ch. e An.Br., mentre si
indicava l’area interessata come “espropriata dalla società ANAS”.
...
E’ doveroso puntualizzare la portata dell’annullamento pronunciato, ossia se
dall’accoglimento della domanda proposta da ANAS s.p.a. discenda
automaticamente l’eliminazione dell’ordine impartito dal Comune intimato
anche nei confronti dei sigg. Ch. e Br..
Sul punto, ritiene il Collegio che il provvedimento gravato costituisca un
esempio di provvedimento amministrativo plurimo, formalmente unico, ma che
si scinde, sul piano sostanziale degli effetti giuridici, in tanti
provvedimenti quanti sono i suoi destinatari.
Da ciò discende che, effettivamente, i sigg. Ch. e Br. erano titolari di un
interesse legittimo oppositivo autonomo a resistere alla pretesa
dell’amministrazione.
Ciascuno di costoro aveva dunque l’onere di spiegare autonoma impugnazione
del provvedimento, deducendone i vizi di illegittimità.
Invero, “L'atto amministrativo plurimo è caratterizzato dal fatto di
contenere una pluralità di autonome e separate determinazioni
amministrative, concernenti una pluralità di altrettanto specifici
destinatari, che si trovano occasionalmente riunite in unico provvedimento,
ma che avrebbero potuto assumere anche la veste di tanti separati
provvedimenti quanti sono i singoli destinatari (L. n. 241/1990) (Conferma
della sentenza del Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 18.09.2009, n. 5074)”
(Cons. Stato Sez. V Sent., 10/09/2014, n. 4587).
Con riferimento alla vicenda in esame, si ritiene che l’ente competente ben
avrebbe potuto adottare tre atti amministrativi, distinti e separati sul
piano formale, ciascuno dei quali contenente l’ordine per il destinatario di
provvedere alla predisposizione del progetto di caratterizzazione e bonifica
del sito inquinato.
Qualora l’ente avesse agito in tal modo, se uno degli interessati non avesse
proceduto ad esperire azione di annullamento nei confronti dell’atto a lui
notificato, non vi sono dubbi che ciò ne avrebbe comportato
l’inoppugnabilità, anche laddove analoghi ordini, basati su identici
presupposti e contenuto, e riferentesi alla medesima vicenda, frutto dello
stesso procedimento e di un’unica volontà deliberativa dell’amministrazione,
fossero stati invece impugnati da parte degli altri destinatari ed annullati
dal G.A.
Conseguentemente, la circostanza, del tutto accidentale e contingente, che
vi sia formalmente un ordine unico, indirizzato uno actu a tre
distinti destinatari, nulla toglie circa la qualificazione dell’atto come
plurimo e circa le conseguenze, soltanto parziali, del giudicato di
annullamento.
Sul punto, valgano i principi espressi dalle seguenti massime del Consiglio
di Stato, per il quale “Solamente per gli atti collettivi l'annullamento
giurisdizionale ha efficacia erga omnes (ad es., proclamazione degli eletti,
scioglimento di un organo collegiale) e lo stesso per gli atti normativi
(regolamenti); per l'atto plurimo, invece, ammettere lo stesso principio di
efficacia generalizzata ultra partes della sentenza di annullamento
significherebbe sottrarre i singoli destinatari di esso, che sono portatori
di uno specifico interesse personale e differenziato in relazione ad una
volontà amministrativa rivolta distintamente a più destinatari
occasionalmente raggruppati in un unico provvedimento, ai principi del
processo impugnatorio e dei relativi termini decadenziali. In tal caso la
diligenza e la solerzia di alcuni andrebbe a beneficio di coloro che non
hanno fatto valere tempestivamente il loro diritto di difesa” (Cons.
Stato Sez. V, 15/12/2005, n. 7144) e “L'annullamento giurisdizionale di
un atto plurimo, in "parte qua", non ha effetto generale nei confronti anche
dei soggetti estranei alle parti impugnate di esso. Negli atti plurimi,
insomma, l'annullamento rimane comunque scindibile in ragione dell'interesse
di chi se ne avvale e l'illegittima composizione della commissione
giudicatrice non è suscettibile di travolgere parti del provvedimento
oggettivamente estranee alla pretesa del ricorrente” (Cons. Stato Sez.
V, 23/09/2005, n. 5035).
Vale la pena evidenziare che, di regola, i co-interessati hanno l’onere di
proporre un’autonoma impugnazione, non essendo loro neppure consentito di
spiegare intervento adesivo autonomo (o, secondo altra denominazione,
litisconsortile) (ex multis, TAR Campania-Salerno Sez. II,
05/03/2019, n. 370; Cons. Stato Sez. IV, 28/08/2018, n. 5065; TAR Liguria
Genova Sez. I, 06/11/2018, n. 873).
Quest’ultimo ove proposto, se ne ricorrono i requisiti di forma e di
sostanza, dovrà essere qualificato –in ossequio al principio di
conservazione dei mezzi giuridici– come autonomo ricorso (Cons. Stato Sez.
IV Sent., 29/11/2017, n. 5596, in particolare ai paragrafi 10.5 e 10.6 e ivi
per ulteriore giurisprudenza; TAR Campania Napoli Sez. I, 10/02/2004, n.
2017).
Nel caso di specie, tuttavia, la memoria di costituzione dei sigg. Ch. e Br.
non è stata notificata alle altre parti del processo e, conseguentemente,
non è possibile effettuare la suddetta riqualificazione della memoria in
autonomo ricorso.
Le regole finora affermate sono state recentemente ribadite dall’autorevole
sentenza del Cons. Stato, Ad. Plen., 27/02/2019, n. 4, che ha avuto modo di
statuire che “Il giudicato amministrativo ha di regola effetti limitati
alle parti del giudizio e non produce effetti a favore dei cointeressati che
non abbiamo tempestivamente impugnato. I casi di giudicato con effetti ultra
partes sono eccezionali e si giustificano in ragione dell'inscindibilità
degli effetti dell'atto o dell'inscindibilità del vizio dedotto: in
particolare, l'indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone
l'esistenza di un legame altrettanto inscindibile fra le posizione dei
destinatari, in modo da rendere inconcepibile, logicamente, ancor prima che
giuridicamente, che l'atto annullato possa continuare ad esistere per quei
destinatari che non lo hanno impugnato. Per tali ragioni deve escludersi che
l'indivisibilità possa operare con riferimento a effetti del giudicato
diversi da quelli caducanti e, quindi, per gli effetti conformativi,
ordinatori, additivi o di accertamento della fondatezza della pretesa
azionata, che operano solo nei confronti delle parti del giudizio (riforma
TAR Lazio Latina, n. 172/2018)”.
In conclusione, il ricorso va accolto e il provvedimento gravato annullato
limitatamente alla posizione della società ricorrente
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.05.2019 n. 830 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
procedimento di rilascio del permesso di costruire, così come in quello
finalizzato al provvedimento di diniego di sanatoria, l'Amministrazione
Comunale ha il potere-dovere di
verificare che a favore del richiedente esista un titolo idoneo al godimento
dell'intero bene interessato, pur a fronte della circostanza che il titolo abilitativo è comunque rilasciato "facendo salvi i diritti dei terzi".
L'Amministrazione deve quindi condurre un'attività istruttoria il cui scopo
non è tuttavia di risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in
merito all'assetto proprietario degli immobili. L'obiettivo principale è,
invece, quello di accertare il requisito della legittimazione soggettiva del
richiedente.
---------------
2.1. In ordine al primo motivo di ricorso.
Al riguardo, occorre rammentare che nel procedimento di rilascio del
permesso di costruire, così come in quello finalizzato al provvedimento di
diniego di sanatoria, l'Amministrazione Comunale ha il potere-dovere di
verificare che a favore del richiedente esista un titolo idoneo al godimento
dell'intero bene interessato, pur a fronte della circostanza che il titolo abilitativo è comunque rilasciato "facendo salvi i diritti dei terzi".
L'Amministrazione deve quindi condurre un'attività istruttoria il cui scopo
non è tuttavia di risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in
merito all'assetto proprietario degli immobili. L'obiettivo principale è,
invece, quello di accertare il requisito della legittimazione soggettiva del
richiedente (TAR Campania, sez. IV, 13/12/2018, n. 7167; similmente,
TAR Abruzzo, sez. I, 08/11/2011, n. 525; TAR Valle d'Aosta, sez. I,
17/11/2010, n.63).
Nel caso che ci occupa, è pacifico che le opere realizzate da parte
ricorrente abbiano seppur parzialmente invaso un terreno che non spetta
interamente in proprietà delle sole ricorrenti, ma anche di Va.Pa. il
quale ha manifestato espressamente la sua contrarietà alla sanatoria e,
quindi, alle opere che ne costituiscono l’oggetto.
Peraltro, a poco rileva il fatto che tale “invasione” sia stata determinata
“a monte” dal progetto approvato, in quanto in ogni caso la Pubblica
Amministrazione non avrebbe potuto, ex post, legittimare, mediante un
provvedimento in sanatoria, opere che comunque incidono su un terreno non di
proprietà esclusiva della parte istante in contrasto con i diritti di un
soggetto terzo avente interesse contrario alla sanatoria.
Sotto altro profilo, poi, l’eccezione di usucapione, sollevata da parte
ricorrente, non è fondata.
Infatti, allo stato non risulta essere intervenuta alcuna sentenza, passata
in giudicato, di accertamento della predetta usucapione.
Ferma restando, infatti, la portata dichiarativa di una eventuale sentenza
accertativa dell’intervenuta usucapione, per escludere la rilevanza
dell’occupazione di un terreno formalmente intestato o cointestato a
soggetti terzi contrari, occorre comunque che tale sentenza di accertamento
sia passata in giudicato al momento della presentazione dell’istanza di
sanatoria e prima della decisione sulla stessa.
Peraltro, l’azione civilistica di accertamento non risulta ancora essere
stata nemmeno esperita, sicché non si pone il problema di disporre la
sospensione del presente giudizio ex art. 295 c.p.c.
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 22.05.2019 n. 470 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 32 d.p.r. n. 380/2001 le regioni stabiliscono
quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che
l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle
seguenti condizioni:
a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli
standards previsti dal d.m. 02.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da
valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto
approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando
non attenga a fatti procedurali.
Non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono
sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla
distribuzione interna delle singole unità abitative.
---------------
La
difformità parziale dal permesso di costruire è una categoria
residuale e presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se
contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall'autorità
amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste
e autorizzate a livello progettuale.
Si è, pertanto, in presenza di difformità parziale quando le
modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della
costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non
incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
---------------
3.2. In merito al sesto motivo di ricorso.
Al riguardo, occorre premettere che, ai sensi dell’art. 31, comma 1, d.p.r.
n. 380 del 2001, sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso
di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio
integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o
di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione
di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire
un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed
autonomamente utilizzabile.
All’esecuzione in assenza o totale difformità dal permesso è equiparata la
costruzione con “variazioni essenziali”, determinate ai sensi dell’articolo
32.
In entrambi i casi, l’organo competente dell’Ente comunale ingiunge al
proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi
del comma 3.
Ai sensi dell’art. 32 d.p.r. n. 380 del 2001, fermo restando quanto
disposto dal comma 1 dell’art. 31 sopra richiamato, le regioni stabiliscono
quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che
l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle
seguenti condizioni:
a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli
standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da
valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto
approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando
non attenga a fatti procedurali.
Non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono
sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla
distribuzione interna delle singole unità abitative.
Secondo la normativa regionale, e, in particolare, l’art. 44, l.r. Liguria
n. 16 del 2008, poi, si è di fronte ad una ipotesi di “variazione
essenziale” in caso di:
a) mutamento parziale della destinazione d’uso comportante alternativamente:
1) l’insediamento di una diversa destinazione d’uso non consentita dallo
strumento urbanistico generale;
2) un incremento degli standard urbanistici, salvo il reperimento da parte
dell’interessato, a mezzo di atto unilaterale d’obbligo o convenzione, delle
aree o dotazioni di standard dovuti per la nuova destinazione, da
formalizzare prima della ultimazione dei lavori nel contesto
dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 49;
b) aumento della cubatura o della superficie agibile ovvero della superficie
coperta rispetto al progetto approvato nei limiti sotto indicati, sempre che
non comportante la realizzazione di manufatti edilizi autonomamente
utilizzabili:
1) per gli edifici residenziali e per quelli aventi destinazione
turistico-ricettiva, direzionale e commerciale, ad esclusione della grande
struttura di vendita, di qualunque dimensione, in misura pari ad almeno 80
metri cubi ovvero ad almeno 25 metri quadrati;
2) per gli edifici aventi destinazione industriale, artigianale e
commerciale, costituita da grandi strutture di vendita e da quelle di
distribuzione all’ingrosso, di qualunque dimensione, in misura pari ad
almeno 50 metri quadrati di superficie coperta;
c) modifiche di entità superiore al 10 per cento rispetto all’altezza dei
fabbricati, alle distanze da altri fabbricati, dai confini di proprietà e
dalle strade, anche a diversi livelli di altezza, nonché diversa
localizzazione del fabbricato sull’area di pertinenza, quando la
sovrapposizione della sagoma a terra dell’edificio in progetto e di quello
realizzato sia inferiore al 50 per cento;
d) aumento del numero dei piani o del numero delle unità immobiliari
dell’edificio comportanti l’incremento di almeno due nuove unità, al di
fuori dei casi di varianti in corso d’opera di cui all’articolo 25, comma 2;
e) mutamenti delle caratteristiche degli interventi edilizi di
ristrutturazione edilizia, comportanti il passaggio ad interventi di nuova
costruzione e di ristrutturazione urbanistica;
f) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando
non attenga a fatti procedurali.
Non possono comunque ritenersi variazioni essenziali quelle che incidono
sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla
distribuzione interna delle singole unità abitative.
Infine, norma di chiusura del sistema normativo statale in punto sanzioni
edilizie è l’art. 34, comma 2-ter, d.p.r. n. 380 del 2001, ai sensi del
quale, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di
violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non
eccedano per singola unità immobiliare il 2% delle misure progettuali.
L’art. 47, l.r. Liguria n. 16 del 2008, al riguardo, prevede che gli
interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di
costruire, dalla DIA obbligatoria o dalla DIA alternativa al permesso di
costruire sono demoliti o rimossi a cura e spese dei responsabili dell’abuso
entro il congruo termine fissato dalla relativa ordinanza del responsabile
dello SUE. Decorso tale termine sono demoliti o rimossi nei modi stabiliti
dall’articolo 56 a cura del Comune e a spese dei medesimi responsabili
dell’abuso.
Ai sensi del comma 2 della predetta norma, non si configura parziale
difformità dal titolo abilitativo in caso di opere comportanti discostamenti
dai parametri dell’altezza, dei distacchi, della cubatura o della superficie
coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento
rispetto alle misure del progetto assentito.
Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte
eseguita in conformità, il responsabile dello SUE applica una sanzione
amministrativa pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore
dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere.
D’altronde, la difformità parziale dal permesso di costruire è una categoria
residuale e presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se
contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall'autorità
amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste
e autorizzate a livello progettuale. Si è, pertanto, in presenza di
difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari
e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze
qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali
dell'opera (C. Stato, sez. VI, 30/03/2017, n. 1484).
Nel caso di specie, le difformità rilevanti sono date, come si è più sopra
visto: dal fatto che le opere realizzate hanno determinato uno
“sconfinamento” sul mapp. 584; che al posto del c.d. terrapieno è stato
realizzato un locale uso ripostiglio avente volumetria di 55,84 mc e
superficie aggiunta di mq 18,93.
Ebbene, fermo restando che a fronte dello “sconfinamento”, contestato dal
terzo comproprietario, l’opera non può che essere oggetto di demolizione,
per la parte recante occupazione illegittima, con riferimento al volume
oggetto di contestazione occorre considerare che, se anche non integrante
una “variazione essenziale”, ad ogni modo determina l’applicabilità
dell’art. 34, comma 1, d.p.r. n. 380 del 2001 e 47, l.r. Liguria n. 16 del
2008, posto che per le caratteristiche dimensionali del manufatto abusivo
rispetto alle caratteristiche dell’opera a progetto (che prevedeva un mero
terrapieno), non può ritenersi integrata l’ipotesi, meramente residuale, di
cui all’art. 34, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001 sopra richiamato.
Parimenti, con riguardo alla “traslazione” del manufatto, è evidente che
essa si risolve in una difformità parziale tale da comportare l’obbligo di rimessione in pristino.
Peraltro, occorre rilevare che l’asserito errore di rappresentazione grafica
in sede di progetto, dedotto da parte ricorrente negli atti del presente
giudizio, oltre a non essere stato sollevato in modo chiaro nel corso
dell’istruttoria del procedimento conseguente all’istanza di accertamento di
conformità, non risulta dimostrato dalle produzioni in atti, laddove il
profilo stradale come disegnato nella documentazione progettuale non risulta
differente rispetto a quello rappresentato nella documentazione grafica
ritenuta “corretta” da parte ricorrente.
Pertanto, il motivo di ricorso deve essere respinto
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 22.05.2019 n. 470 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'eventuale impossibilità tecnica di demolire il manufatto, senza
arrecare un grave pregiudizio per le parti legittime dell'edificio, non
produce alcun effetto sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio,
dunque la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive
costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.
Parimenti, <<con riguardo agli interventi e alle opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di costruire, la possibilità di sostituire
la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dall' art. 34,
del d.p.r. n. 380 del 2001, deve essere valutata dall'Amministrazione
competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva e autonoma
rispetto all'ordine di demolizione. In quella sede, le parti ben possono
dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato
asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione del muro di
contenimento del terrapieno>>.
---------------
3.3. In merito al
settimo e all’ottavo motivo di ricorso.
Al riguardo, è sufficiente rammentare l’insegnamento secondo il quale
l'eventuale impossibilità tecnica di demolire il manufatto, senza arrecare
un grave pregiudizio per le parti legittime dell'edificio, non produce alcun
effetto sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio, dunque la
possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive costituisce
solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza
dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi (TAR Campania,
sez. VIII, 31/07/2018, n. 5122; TAR Puglia, sez. dist. Lecce, sez. III,
27/02/2015, n. 717).
Parimenti, <<con riguardo agli interventi e alle opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di costruire, la possibilità di sostituire
la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dall' art. 34,
del d.p.r. n. 380 del 2001, deve essere valutata dall'Amministrazione
competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva e autonoma
rispetto all'ordine di demolizione. In quella sede, le parti ben possono
dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato
asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione del muro di
contenimento del terrapieno>> (C. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4169).
Pertanto, entrambi i motivi dedotti devono essere respinti
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 22.05.2019 n. 470 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La demolizione di un immobile edificato senza il necessario
titolo, avendo natura vincolata ed essendo rigidamente ancorato alla
sussistenza dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non necessita di
specifica motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che
impongono la rimozione dell'abuso.
Tale principio, peraltro, non ammette deroghe neanche nell'ipotesi in cui
l'ingiunzione di demolizione sia intervenuta a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell'abuso e il trasferimento non sia finalizzato ad eludere l'onere di
ripristino.
---------------
3.4. In merito al
nono motivo di ricorso.
Al riguardo, premesso che dal testo del provvedimento si comprende in modo
sufficiente, anche per relationem, quali siano le difformità in
considerazione delle quali è stato disposto l’ordine di rimessione in
pristino, è sufficiente rammentare l’insegnamento secondo il quale <<la
demolizione di un immobile edificato senza il necessario titolo, avendo
natura vincolata ed essendo rigidamente ancorato alla sussistenza dei
relativi presupposti in fatto e in diritto, non necessita di specifica
motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che impongono la
rimozione dell'abuso; tale principio, peraltro, non ammette deroghe neanche
nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione sia intervenuta a distanza
di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell'abuso e il trasferimento non sia finalizzato ad eludere
l'onere di ripristino>> (C. Stato, sez. VI, 03/12/2018, n. 6839).
Pertanto, anche tale ultimo di motivo di impugnazione deve essere respinto
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 22.05.2019 n. 470 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: La
previsione di un vincolo a parcheggio ovvero di opera di pubblica utilità,
pur se condizionata nell’attuazione ad un piano attuativo di iniziativa
privata, è da ritenersi immediatamente efficace, secondo la disciplina dei
vincoli c.d. strumentali o di rinvio, assimilabile quanto al termine di
decadenza a quelli preordinati all'espropriazione o che comportano l'inedificabilità
solo in ipotesi di attuazione esclusivamente per mano pubblica.
---------------
4. - Venendo al merito l’atto di motivi aggiunti, per la residua parte, è
fondato e merita accoglimento.
5. - Giova premettere in punto di fatto come la tettoia in questione,
realizzata senza alcun titolo abilitativo, abbia dimensioni pari a circa
5,50 x 2,8 mt. con altezza in gronda pari a 2,10 mt. e risulti aperta sui
lati e dotata di copertura di tipo precario, come da documentazione
fotografica allegata.
Quanto alla vasca ad uso piscina, di dimensioni 14,00 x 6,00 mt. corredata
da pavimentazione lungo i bordi, essa è stata autorizzata nel 2001 quale
vasca antincendio e per dimensioni leggermente inferiori (13,60 x 5,50 mt.)
con traslazione, rispetto al progetto autorizzato, dell’area di sedime di 11
mt. in direzione sud e 4 mt. in direzione est.
Entrambe le opere insistono su area non soggetta a vincoli paesaggistici,
come è pacifico.
6. - Preliminarmente ritiene il Collegio di dover esaminare la fondatezza
dei motivi veicolati avverso la presunta incompatibilità delle opere con il
vincolo urbanistico derivante dall’insistenza delle opere in zona P “parcheggi
aggiuntivi” di cui all’art. 15 N.T.A., incompatibilità con cui
l’Amministrazione ha integrato la motivazione a sostegno del potere
repressivo esercitato.
Segnatamente secondo l’art. 15 delle N.T.A., richiamato nell’ordinanza, in
dette zone “è vietata la costruzione di qualsiasi edificio. E’ facoltà
dell’Amministrazione Comunale autorizzare la costruzione di tettoie
smontabili per la formazione di zone d’ombra”.
6.1. - Ad avviso del ricorrente (IV motivo) il vincolo in questione, in
sintesi, sarebbe allo stato del tutto inefficace e comunque irrilevante,
stante che l’intera conformazione del comparto in questione C4 è destinata
ad essere definita soltanto a seguito dell’approvazione di un piano
attuativo di iniziativa privata, allo stato del tutto mancante.
6.2. - Non ritiene il Collegio di poter del tutto condividere tale assunto.
6.3. - La previsione di un vincolo a parcheggio ovvero di opera di pubblica
utilità, pur se condizionata nell’attuazione ad un piano attuativo di
iniziativa privata, è infatti da ritenersi immediatamente efficace, secondo
la disciplina dei vincoli c.d. strumentali o di rinvio, assimilabile quanto
al termine di decadenza a quelli preordinati all'espropriazione o che
comportano l'inedificabilità solo in ipotesi di attuazione esclusivamente
per mano pubblica (Consiglio di Stato, sez. IV, 24.03.2009, n. 1765).
6.4. - Non può dunque dubitarsi, nel caso di specie, dell’efficacia del
vincolo di cui all’art. 15 delle N.T.A. e della sua idoneità ad impedire la
realizzazione dell’opera di pubblica utilità, anche se -come si dirà- detto
regime urbanistico nella fattispecie non è concretamente ostativo alla
realizzazione delle opere.
6.5. - Non ritiene infatti il Collegio che i contestati interventi possano
rientrare nella nozione di “edifici” accolta dall’art. 15 delle
richiamate N.T.A. (TAR Umbria,
sentenza 09.04.2019 n. 193 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come noto per giurisprudenza consolidata la qualifica di
pertinenza urbanistica è meno ampia di quella civilistica ed è applicabile
solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera
principale, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e
della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che ne
risulti possibile una diversa utilizzazione economica.
---------------
Una tettoia, per caratteristiche morfologiche di realizzazione e
destinazione funzionale -in quanto struttura in ferro aperta sui lati,
ricoperta da onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni
adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza incremento del carico
urbanistico- è riconducibile alla nozione di pertinenza urbanistica,
ordinariamente sottratta al regime del titolo edilizio concessorio.
---------------
Quanto alle piscine realizzate in un complesso immobiliare esistente, parte
della giurisprudenza invero ne nega la riconducibilità al regime delle
pertinenze urbanistiche in ragione della pretesa funzione autonoma rispetto
a quella propria dell’edificio al quale accede mentre secondo altra tesi
costituiscono opere pertinenziali soggette a DIA/SCIA non creando volumi ma
solo superfici.
Ritiene il Collegio come non possa ritenersi in via del tutto aprioristica
la necessità di autorizzazione edilizia per la realizzazione di ogni
piscina, dovendosi di volta in volta verificare dimensioni e compatibilità
urbanistica anche alla luce della disciplina di dettaglio regionale.
---------------
4. - Venendo al merito l’atto di motivi aggiunti, per la residua parte, è
fondato e merita accoglimento.
5. - Giova premettere in punto di fatto come la tettoia in questione,
realizzata senza alcun titolo abilitativo, abbia dimensioni pari a circa
5,50 x 2,8 mt. con altezza in gronda pari a 2,10 mt. e risulti aperta sui
lati e dotata di copertura di tipo precario, come da documentazione
fotografica allegata.
Quanto alla vasca ad uso piscina, di dimensioni 14,00 x 6,00 mt. corredata
da pavimentazione lungo i bordi, essa è stata autorizzata nel 2001 quale
vasca antincendio e per dimensioni leggermente inferiori (13,60 x 5,50 mt.)
con traslazione, rispetto al progetto autorizzato, dell’area di sedime di 11
mt. in direzione sud e 4 mt. in direzione est.
Entrambe le opere insistono su area non soggetta a vincoli paesaggistici,
come è pacifico.
...
6.6. - Occorre premettere che sia la piscina che la tettoia costituiscono
pertinenza urbanistica quali opere di modesta entità ed accessorie
all’edificio principale costituito, come detto, da una mostra di mobili da
arredamento.
Come noto per giurisprudenza consolidata la qualifica di pertinenza
urbanistica è meno ampia di quella civilistica ed è applicabile solo ad
opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, ma non
anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si
connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale
e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che ne risulti possibile una
diversa utilizzazione economica (ex multis TAR Campania, Napoli sez.
VII, 26.02.2018, n. 1228; Consiglio di Stato, sez. IV, 24.10.2017, n. 4887;
id. sez. VI , 14.01.2019, n. 323).
6.7. - Ciò premesso, secondo giurisprudenza anche dell’adito Tribunale una
tettoia, per caratteristiche morfologiche di realizzazione e destinazione
funzionale -in quanto struttura in ferro aperta sui lati, ricoperta da
onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni adeguate ad
assolvere le finalità produttive, senza incremento del carico urbanistico- è
riconducibile alla nozione di pertinenza urbanistica, ordinariamente
sottratta al regime del titolo edilizio concessorio (ex multis
Consiglio di Stato, sez. VI, 13.12.2017, n. 5867; TAR Umbria 29.01.2014, n.
82; TAR Sardegna sez. II, 16.01.2015, n. 183).
6.8. - Quanto alle piscine realizzate in un complesso immobiliare esistente,
parte della giurisprudenza invero ne nega la riconducibilità al regime delle
pertinenze urbanistiche in ragione della pretesa funzione autonoma rispetto
a quella propria dell’edificio al quale accede (ex multis Consiglio
di Stato sez. IV, 08.01.2016, n. 35) mentre secondo altra tesi costituiscono
opere pertinenziali soggette a DIA/SCIA non creando volumi ma solo superfici
(ex multis TAR Potenza 16.01.2016, n. 5; TAR Puglia, Lecce, sez. II,
14.01.2019, n. 40; vedi anche Consiglio di Stato sez. V, 16.04.2014, n.
1951).
Ritiene il Collegio come non possa ritenersi in via del tutto aprioristica
la necessità di autorizzazione edilizia per la realizzazione di ogni
piscina, dovendosi di volta in volta verificare dimensioni e compatibilità
urbanistica (Consiglio di Stato sez. V, 16.04.2014, n. 1951) anche alla luce
della disciplina di dettaglio regionale.
6.9. - Nel caso di specie la piscina, come la tettoia, risulta collocata
nella medesima particella catastale circostante l’edificio principale e
dunque nel lotto dell’insediamento produttivo, si da risultare priva di
autonoma rilevanza economica ed edilizia, quale opera strumentale
all’edificio mostra mobili di cui costituisce pertinenza. Inoltre giova
ancora evidenziare come la piscina in questione sia stata realizzata in
virtù di autorizzazione, sebbene ne sia contestata la realizzazione con
variazioni essenziali (TAR Umbria,
sentenza 09.04.2019 n. 193 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il decorso di un notevole lasso di tempo fra la repressione dell’abuso
edilizio e la commissione dello stesso non muta i termini della questione,
ossia la presenza di un abuso edilizio che, come tale, non può generare
alcun affidamento nei confronti del soggetto comproprietario, atteso che
l’ordinamento tutela unicamente l’affidamento incolpevole e che questo non è
accaduto nel caso in questione, dove la radicale mancanza di un precedente
provvedimento abilitativo da parte dell’Amministrazione Comunale è assodata,
tanto che la stessa ha -subito- agito nei confronti del marito dell’odierna
ricorrente, comproprietario ritenuto responsabile dell’abuso, ed ha lasciato
decorrere un notevole lasso di tempo per agire anche nei confronti
dell’odierna ricorrente solo perché non si era avveduta che la stessa era
comproprietaria dell’area su cui è stata realizzata la costruzione abusiva
di che trattasi.
Pertanto, il Collegio ritiene di non doversi discostare
da quanto stabilito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2017
secondo cui “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al
ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede
motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle
inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino”.
---------------
In data 11.04.1978 la Squadra Edilizia del Comune di Lecce effettuava un
sopralluogo sul lotto di terreno sito in Lecce, località Torre Chianca, di
proprietà del signor Ca.Br. e, alla presenza del di lui padre Ca.Fr.,
verificava che erano in corso, in assenza di alcun titolo abilitativo,
lavori di realizzazione di un’unità immobiliare composta da piano terra e
primo piano.
Con ordinanza sindacale n. 1803 del 16.05.1978 veniva, dunque, ingiunta al
signor Ca.Br., in qualità di proprietario e responsabile dell’abuso
edilizio, la demolizione delle opere realizzate senza titolo, con
l’avvertimento che, in mancanza di spontaneo adempimento, si sarebbe
proceduto all’acquisizione delle aree al patrimonio pubblico.
Successivamente, a distanza di circa 33 anni, a seguito di visura catastale
il Comune di Lecce accertava che la particella di terreno su cui era stata
realizzata la predetta costruzione abusiva era di proprietà, in comunione,
del signor Ca.Br. e della moglie del medesimo, signora Or.Gi.,
odierna ricorrente, la quale, dunque, risultava proprietaria di metà della
particella di terreno su cui è stato costruito il complesso edilizio
abusivo.
Pertanto il Comune di Lecce, ravvisata la persistenza di un interesse
attuale alla demolizione delle opere abusive, non avendo il signor Ca.Br.
ottemperato spontaneamente all’ordine del 1978, con ordinanza dirigenziale
n. 985 del 19.07.2011 ha confermato l’ordine di demolizione al predetto
signor Ca.Br. e ha ingiunto la demolizione anche alla signora Orizzonte
Giovanna, sua consorte, quale comproprietaria dell’area.
...
2. Col primo motivo di gravame, parte ricorrente deduce
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata in quanto la stessa
sarebbe “illegittima per difetto di adeguata motivazione in relazione al
pubblico interesse in concreto tutelato”, in quanto, nel caso de quo, “è
incontestabile che il ragguardevole decorso del tempo rispetto alla remota
risalenza della commissione dell’abuso de quo accompagnato dal comportamento
inerte tenuto dall’Ente anche a seguito dell’emanazione della precedente
ordinanza di demolizione nei confronti dell’altro comproprietario abbiano
determinato un sicuro affidamento in capo all’odierna ricorrente in ordine
al consolidamento della situazione di fatto tale da imporre la necessità di
una specifica motivazione sulle ragioni di pubblico interesse da porre a
base dell’ordinanza di demolizione”.
2.1 Il motivo è infondato.
Il decorso di un notevole lasso di tempo fra la repressione dell’abuso
edilizio e la commissione dello stesso non muta i termini della questione,
ossia la presenza di un abuso edilizio che, come tale, non può generare
alcun affidamento nei confronti del soggetto comproprietario, atteso che
l’ordinamento tutela unicamente l’affidamento incolpevole e che questo non è
accaduto nel caso in questione, dove la radicale mancanza di un precedente
provvedimento abilitativo da parte dell’Amministrazione Comunale è assodata,
tanto che la stessa ha -subito- agito nei confronti del marito dell’odierna
ricorrente, comproprietario ritenuto responsabile dell’abuso, ed ha lasciato
decorrere un notevole lasso di tempo per agire anche nei confronti
dell’odierna ricorrente solo perché non si era avveduta che la stessa era
comproprietaria dell’area su cui è stata realizzata la costruzione abusiva
di che trattasi.
Pertanto, come già espresso in una recente pronuncia di questa Sezione (TAR
Puglia-Lecce, n. 1421/2018), il Collegio ritiene di non doversi discostare
da quanto stabilito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2017
secondo cui “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al
ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede
motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle
inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino”.
Né risultano convincenti, sul punto, le considerazioni espresse da parte
ricorrente nella memoria difensiva del 24.10.2018, in cui la stessa, pur
dando atto delle conclusioni raggiunte dall’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato n. 9/2017 sopra menzionata, ha asserito che “nel caso non viene
in considerazione una mera inerzia della P.A. nell’esercizio del proprio
potere-dovere di vigilanza sugli abusi edilizi, (inerzia) ritenuta ex se (a
differenza che in passato) non (più) idonea a fondare alcun legittimo
affidamento tutelato dal vigente ordinamento di settore, bensì una vera e
propria desistenza della stessa P.A. dall’adozione dei corrispondenti atti
repressivi a speculare contenuto favorevole per la ricorrente protratta per
un lunghissimo periodo (oltre 33 anni, ad oggi oltre 40 anni)
sufficientemente ampio per costituire e consolidare una corrispondente
posizione di affidamento (sostanziale e procedimentale) in capo alla stessa
interessata”.
Con tale argomentazione, parte ricorrente mira a valorizzare la successiva
inattività del Comune di Lecce nella demolizione del manufatto abusivo,
attribuendo a tale inerzia un valore giuridico idoneo a paralizzare altri
successivi atti repressivi, inibiti dal rilevante ritardo del Comune di
Lecce nella demolizione del manufatto abusivo oggetto del provvedimento
impugnato.
Tale ricostruzione risulta non condivisibile, atteso che da un atteggiamento
(asseritamente) inerte della P.A. resistente non è certo consentito trarre
altra conclusione se non una valutazione circa l’efficienza dell’azione
amministrativa posta in essere dall’Ente medesimo, senza che tale
considerazione, però, possa avere un qualche effetto sulla legittimità della
(doverosa) azione provvedimentale precedentemente posta in essere né su
quella successiva, atteso che, mutatis mutandis, la supposta
presenza, nel caso de quo, di una desistenza da parte del Comune di Lecce,
piuttosto che di una semplice temporanea inerzia, risulta essere un mero
artificio linguistico per reintrodurre la censura relativa agli effetti del
mero decorso del tempo sui provvedimenti repressivi edilizi successivamente
adottati, censura definitivamente bandita dall’Adunanza Plenaria n. 9/2017
sopra citata.
Infine, sul punto, va ricordato che (peraltro), nel caso di specie, non si è
in presenza di un intervento pubblico giustificato dal mero ripristino della
legalità in quanto, come ricordato dal Comune resistente, “l’abuso per
cui è causa consiste nella realizzazione di un manufatto di consistenti
dimensioni (circa mq. 342) destinato a residenza in area sottoposta a
vincolo paesaggistico e ricompresa nella fascia di tutela del parco
“Rauccio” e in ambito territoriale esteso di tipo C” e, pertanto,
vengono in considerazione anche interessi alla tutela del paesaggio,
completamente obliterati dall’odierna ricorrente nella sua ricostruzione
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.02.2019 n. 262 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giustificare l’ordine di demolizione
è necessaria e sufficiente la descrizione delle opere da demolire
(correttamente contenuta nel caso de quo nel verbale di sopralluogo e nel
provvedimento sanzionatorio) in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal
contenuto tipico del provvedimento. In particolare, non occorre anche la
descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime che
dovrebbe essere confiscata in caso di mancata, spontanea esecuzione;
elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza
di gratuita acquisizione al patrimonio comunale.
In altri termini, il Collegio ritiene che la precisa indicazione della
superficie da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale, in caso di
inottemperanza all’ordine di demolizione, non sia un elemento essenziale
dell’ingiunzione di demolizione, in quanto trattasi di mera indicazione di
un evento futuro ed incerto, (e, pertanto, non direttamente lesivo),
subordinato ad accadimenti nella esclusiva disponibilità della ricorrente
medesima (inottemperanza all’ordine di demolizione), e non incida, pertanto,
immediatamente sulla posizione giuridica soggettiva della stessa ricorrente,
ben potendo quest'ultima reagire nei confronti del successivo
(eventuale) provvedimento di acquisizione gratuita (che deve, invece,
individuare precisamente l’area che viene acquisita al patrimonio comunale)
nel caso in cui lo stesso contenga l’indicazione di un’area non
correttamente e motivatamente individuata.
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3. Col secondo motivo di ricorso, la signora Orizzonte deduce
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione n. 985 del 19.07.2011 di cui
in epigrafe in quanto la stessa reca l’indicazione che, in caso di mancata
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi da parte dell’odierna
ricorrente, saranno acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune di
Lecce l’area di sedime nonché la superficie di terreno di mq. 3.200 ma tale
precisa indicazione contrasterebbe con l’articolo 31 del D.P.R. n. 380/2001,
in quanto nell’atto impugnato non vi sarebbe la specifica quantificazione
della superficie utile delle opere abusive da assoggettare a demolizione né
del “criterio in concreto seguito per l’estensione della “confisca”
all’intera (notevole) superficie innanzi richiamata”.
3.1 La censura è infondata.
Come correttamente dedotto dal Comune di Lecce nella memoria difensiva
finale del 17.05.2018, difatti, “per giustificare l’ordine di demolizione
è necessaria e sufficiente la descrizione delle opere da demolire
(correttamente contenuta nel caso de quo nel verbale di sopralluogo e nel
provvedimento sanzionatorio) in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal
contenuto tipico del provvedimento. In particolare, non occorre anche la
descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime che
dovrebbe essere confiscata in caso di mancata, spontanea esecuzione;
elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza
di gratuita acquisizione al patrimonio comunale (tra le tante TAR Napoli,
(Campania), sez. VII, 28/12/2017, n. 61172)”.
In altri termini, il Collegio ritiene che la precisa indicazione della
superficie da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale, in caso di
inottemperanza all’ordine di demolizione, non sia un elemento essenziale
dell’ingiunzione di demolizione, in quanto trattasi di mera indicazione di
un evento futuro ed incerto, (e, pertanto, non direttamente lesivo),
subordinato ad accadimenti nella esclusiva disponibilità della ricorrente
medesima (inottemperanza all’ordine di demolizione), e non incida, pertanto,
immediatamente sulla posizione giuridica soggettiva della stessa ricorrente,
ben potendo la signora Or. reagire nei confronti del successivo (eventuale)
provvedimento di acquisizione gratuita (che deve, invece, individuare
precisamente l’area che viene acquisita al patrimonio comunale) nel caso in
cui lo stesso contenga l’indicazione di un’area non correttamente e
motivatamente individuata
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.02.2019 n. 262 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
traslazione identifica lo spostamento del fabbricato rispetto alla
dislocazione prevista nell’originario progetto, mentre la modifica della
sagoma riguarda la diversità della forma della costruzione.
Traslazione e modifica della sagoma sono concettualmente
distinte tra loro, con la conseguenza che non è dato desumere dalla prima
l’esistenza della seconda, tanto più che nel caso di specie si è trattato di
traslazione parziale, ovvero di spostamento in avanti di circa un metro,
talché la superficie fondiaria occupata dal corpo di fabbrica secondo
l’originario progetto continua ad esserlo in gran parte.
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3. Priva di pregio è la tesi propugnata dalla difesa del Comune, secondo cui
sarebbe insita nella traslazione dell’edificio la modifica della sagoma,
talché osterebbe alla qualificazione come variante in corso d’opera l’art.
143, comma 1, lett. b), della L.R. n. 65/2014 (ai sensi del quale la
modifica della sagoma dell’edificio è inconciliabile, in determinate zone,
con le caratteristiche proprie della variante in corso d’opera).
Il Collegio osserva che la traslazione identifica lo spostamento del
fabbricato rispetto alla dislocazione prevista nell’originario progetto,
mentre la modifica della sagoma riguarda la diversità della forma
della costruzione (Cons. Stato, V, 02.04.2001, n. 1898): traslazione
e modifica della sagoma sono concettualmente distinte tra loro, con
la conseguenza che non è dato desumere dalla prima l’esistenza della
seconda, tanto più che nel caso di specie si è trattato di traslazione
parziale, ovvero di spostamento in avanti di circa un metro, talché la
superficie fondiaria occupata dal corpo di fabbrica secondo l’originario
progetto continua ad esserlo in gran parte
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 22.02.2019 n. 281 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: La
convenzione avente a oggetto l’urbanizzazione di un’area di espansione nel
contesto di una lottizzazione per un intervento di edilizia agevolata ha
normalmente natura di convenzione di lottizzazione ed è in quanto
tale idonea a configurare l’obbligazione di trasferimento dei beni a favore
del comune.
Essa necessita di un successivo atto negoziale di trasferimento i cui
effetti possono essere conseguiti, nell’ipotesi di inadempimento del
promittente, attraverso una sentenza esecutiva dell’obbligo a contrarre.
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Motivi della decisione
I. - Col primo motivo il comune denunzia la violazione dell'art.
11 della l. n. 10 del 1977 e degli artt. 1364, 1365 e 1369 cod. civ.,
assumendo che l'obbligo di trasferimento delle opere era da ritenere
implicito ed essenziale allo scopo perseguito, e dunque compreso nella prima
proposizione letterale della norma speciale, relativa alla realizzazione
diretta delle opere di urbanizzazione da parte del privato.
Col secondo motivo il comune denunzia la violazione e falsa
applicazione degli artt. 28 della l. n. 1150 del 1942 e 1339 cod. civ. non
avendo la corte d'appello considerato che, nella specie, veniva in rilievo
non l'edificabilità legale (secondo la destinazione d'uso del p.r.g.) ma
l'effettiva e attuale possibilità di edificare la lottizzazione de qua in
base alla convenzione del 1980 stipulata con la società Ic., dal fallimento
della quale la Gl. aveva acquistato le aree.
Col terzo motivo, e in subordine, il comune deduce la violazione
degli artt. 28 della l. n. 1150 del 1942 e 1364, 1365 e 1369 cod. civ.
essendosi la corte d'appello basata su una mera interpretazione letterale
della convenzione del 1980, senza tener conto dell'avere quella convenzione
rivestito la funzione di disciplina dell'intervento di edilizia agevolata ai
sensi degli artt. 7 e 8 della l. n. 10 del 1977, e con scomputo di oneri ai
sensi del successivo art. 10, nell'ottica della convenzione di
lottizzazione; per cui in tal senso ne erano conseguite le obbligazioni di
cui all'art. 28 sopra citato.
Giova premettere che il ricorso è stato dichiaratamente proposto dal comune
contro il capo della sentenza d'appello che ha respinto la domanda di
accertamento del diritto al trasferimento gratuito delle opere di
urbanizzazione e delle annesse aree di sedime, realizzate in esecuzione
della convenzione urbanistica.
A tal proposito è inconsistente la questione di giurisdizione sollevata
dalla società in questa sede, nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ.. Non
risultando la stessa anteriormente prospettata, devesi ritenere già formato
sul punto un giudicato implicito preclusivo, rinveniente dalla statuizione
di merito (v. Sez. un. n. 24883/2008; 26019/2008).
III. - Deve poi osservarsi che l'impugnata sentenza, pur mentovando sia la
convenzione del 1980 intercorsa tra il comune e la società lottizzante Ic.,
sia la convenzione del 1990, interamente recettiva della prima, intercorsa
con la società Gl., ha omesso di stabilirne la concreta natura giuridica: se
cioè quella di convenzione di lottizzazione (come sostenuto dal
comune e come ben vero sembrerebbe possibile dedurre dall'avere la sentenza
riferito alla convenzione del 1980 l'assunto obbligo di esecuzione diretta
di opere di urbanizzazione a scomputo di contributi concessori) ovvero
quella di semplice convenzione urbanistica.
La differenza si coglie in ciò: che la convenzione di
lottizzazione rileva come strumento urbanistico (sebbene di rango
inferiore e appunto convenzionale), volto a suddividere il terreno in lotti
fabbricabili e ad assicurare la conciliazione dell'interesse dei singoli
privati lottizzanti con quello più generale di un corretto assetto
urbanistico del territorio; sicché nel contenuto indefettibile di essa -da
distinguersi dal contenuto eventuale e propriamente pattizio- viene
normalmente annoverata proprio la cessione gratuita delle aree necessarie
per opere di urbanizzazione primaria e secondaria relative ai lotti (art. 28
l. urb.); viceversa, la convenzione urbanistica è un mero contratto a
oggetto pubblico, in cui la p.a., in cambio dell'autorizzazione a realizzare
un progetto proposto dal privato, richiede la realizzazione di opere che,
secondo usuale prassi urbanistica, non sarebbero di sua competenza.
IV. - La corte d'appello, rinunciando a definire la natura giuridica della
convenzione de qua, posta dal comune a fondamento della propria
pretesa, e soffermandosi invece sul fatto che nella convenzione non era
prevista esplicitamente la cessione gratuita al comune delle opere di
urbanizzazione eseguite dall'impresa lottizzante (e delle aree di sedime),
ha mostrato di non aver compreso affatto i termini del problema agitato in
causa.
La realizzazione di opere di urbanizzazione primaria è
difatti inscindibilmente correlata all'esercizio
dell'attività edilizia. Ciò fin dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, la
quale all'art. 31 ha stabilito che la (ivi definita) licenza sia comunque
subordinata alla esistenza delle opere di urbanizzazione primarie o alla
previsione da parte dei comuni dell'attuazione delle stesse nel successivo
triennio, ovvero, ancora, all'impegno dei privati di procedere
all'attuazione delle medesime contemporaneamente alle costruzioni oggetto di
licenza.
Nell'ottica della convenzione di lottizzazione,
doveva quindi venire in rilievo l'art. 28 della citata l. urbanistica, che
ha previsto, da un lato, il divieto di procedere a lottizzazione di
terreni a scopo edilizio prima dell'approvazione del piano regolatore
generale o del programma di fabbricazione e, dall'altro, che, in
presenza di programma di fabbricazione e di piano regolatore generale, fino
all'approvazione del piano particolareggiato di esecuzione, la lottizzazione
di terreno a scopo edilizio può essere autorizzata dal comune
subordinatamente "alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura
del proprietario, che preveda: 1) la cessione gratuita entro termini
prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria,
precisate dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la cessione
gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei
limiti di cui al successivo n. 2;
2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere
di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che
siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi, determinata in
proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle
lottizzazioni".
V. - E' adesso da ricordare che con la l. n. 10 del 1977 il rilascio della
concessione edilizia è stato a sua volta subordinato al pagamento di un
contributo proporzionato al vantaggio patrimoniale acquisito dal
concessionario e determinato in base all'ammontare delle spese di
urbanizzazione e dei costi di costruzione, stante il rilievo che ogni
attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio
comunale debba partecipare agli oneri relativi.
In questo contesto viene in considerazione, nella presente causa ratione
temporis, la regola generale dell'onerosità della concessione edilizia,
rispetto alla quale peraltro l'art. 11 della l. n. 10 del 1977 ha attribuito
al titolare della concessione l'alternativa fra il versare il contributo
dovuto per gli oneri di urbanizzazione ovvero l'obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione stesse, sia pure con le modalità e
le garanzie stabilite dall'amministrazione comunale interessata.
La norma, dalla quale l'impugnata sentenza ha preso abbrivio, contiene in sé
il principio per cui le opere di urbanizzazione, comunque
realizzate, anche cioè a scomputo totale o parziale degli oneri, hanno
sempre natura di opera pubblica.
Tale dato è oggi assolutamente pacifico, e lo era anche al momento della
sentenza d'appello, non foss'altro perché la corte di giustizia, nell'ambito
di un'interpretazione della direttiva n. 93-37/CE (v. ora direttiva
04-18/CE) volta a coordinare le procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici in rapporto a normativa nazionale in materia urbanistica,
previdente, da parte del titolare di concessione edilizia o di piano di
lottizzazione, la realizzazione diretta di opere a scomputo del contributo
dovuto per il rilascio della concessione, ha chiarito che le opere di
urbanizzazione sono da ritenere pubbliche sin dalla loro origine.
E' così irrilevante che le opere suddette siano state eseguite su proprietà
privata e siano, per questo, formalmente di proprietà privata prima del
passaggio al patrimonio pubblico (cfr. c. giust. 12-7-2001, causa C-399/98,
cd. sent. "Bicocca").
Fermo che ogni questione al riguardo è oggi da considerare superata dal
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 16, nell'esplicito riferimento alla
conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile
del comune, quanto appena evidenziato serve a dire che, diversamente dalla
tesi del giudice a quo, non poteva comunque negarsi, in vigenza della
legislazione urbanistica, il diritto dell'ente pubblico al trasferimento
delle opere di urbanizzazione eseguite dal privato lottizzante.
Il diritto dell'amministrazione alla cessione delle aree
sulle quali il privato avesse eseguito direttamente le opere di
urbanizzazione primaria supponeva sì, prima del 2001, l'esistenza di uno
specifico atto a ciò funzionale, ma tale atto andava identificato nella
convenzione di lottizzazione.
La convenzione di lottizzazione determina invero di
per sé (non direttamente la cessione quanto appunto) l'insorgere
dell'obbligo a carico del lottizzante di trasferire le opere suddette.
Nell'aver trascurato tutto quanto esposto è l'errore di diritto
dell'impugnata sentenza, la quale, senza neppure definirne la natura, ha
superficialmente sottolineato che la convenzione del 1980, come pure quella
successiva del 1990, non aveva previsto la cessione gratuita al comune delle
opere di urbanizzazione e delle aree sulle quali esse insistevano. Mentre
una tale esplicita previsione non era necessaria dal momento che con l'art.
3 della convenzione -il cui testo è riportato nel ricorso senza avverse
contestazioni- l'impresa si era "impegnata a realizzare direttamente le
opere di urbanizzazione primaria".
La corte d'appello avrebbe dovuto esaminare la questione della conformità di
simile impegno a quanto stabilito dall'art. 11 della l. n. 10 del 1977,
tenendo conto sia del tipo di convenzione esistente, sia e soprattutto del
principio per cui, assunto l'impegno, è sempre implicito
l'obbligo di trasferimento al comune delle realizzande opere di
urbanizzazione, trattandosi di condizione coessenziale al loro fine
precipuo, giacché le opere medesime, una volta fatte, non tollerano di
rimanere in proprietà privata. Il
che rende priva di costrutto l'obiezione della società Gl. incentrata
sull'avere perfezionato l'acquisto delle opere di urbanizzazione in sede
fallimentare, in modo da imporre al comune di far valere il diritto al
trasferimento solo in quella sede.
VI. - La sentenza ha anche affermato che le quote dovute per gli oneri di
urbanizzazione e il costo di costruzione erano state applicate senza
agevolazione; circostanza posta a fondamento dell'inferenza che era da
escludere che vi fosse stata la cessione gratuita quale corrispettivo
dell'esenzione del pagamento dei contributi.
Sennonché anche siffatta precisazione non serve a sostenere l'inesistenza di
un obbligo di trasferimento, tenuto conto che, come dalla stessa sentenza si
evince, la lottizzazione era stata autorizzata su area
destinata per la prima volta a urbanizzazione.
Si palesano allora falsamente applicate le norme di riferimento costituite
dagli artt. 9 e seg. della l. n. 10 del 1977 e dall'art. 28 della l.
urbanistica, dovendosi ulteriormente sottolineare la grave contraddizione
che si annida nel percorso argomentativo della corte territoriale.
Difatti la circostanza del versamento del contributo dovuto per gli oneri di
urbanizzazione, che la sentenza lascia intendere, contrasta l'ipotizzata
realizzazione diretta delle opere medesime da parte dell'impresa
lottizzante; realizzazione diretta che pure la sentenza ha adombrato a petto
della valutazione dell'esito della prova testimoniale, asseritamente incerto
a riguardo dell'essere state le opere eseguite dal comune medesimo.
VII. - In definitiva, l'impugnata sentenza va cassata con rinvio alla
medesima corte d'appello di Ancona, diversa sezione, la quale rinnoverà
l'esame degli atti prendendo in specifica considerazione il tipo di
convenzione stipulata e uniformandosi ai principi di diritto sopra indicati.
All'uopo essa considererà che la convenzione avente a oggetto
l'urbanizzazione di un'area di espansione nel contesto di una lottizzazione
per un intervento di edilizia agevolata ha normalmente natura di convenzione
di lottizzazione ed è in quanto tale idonea a configurare l'obbligazione, di
trasferimento dei beni a favore del comune. Essa necessita di un successivo
atto negoziale di trasferimento i cui effetti possono essere conseguiti,
nell'ipotesi di inadempimento del promittente, attraverso una sentenza
esecutiva dell'obbligo a contrarre (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 25.07.2016 n. 15340). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il
compenso incentivante di che trattasi ha natura retributiva e quindi su di
esso vanno operate le ordinarie ritenute previdenziali e fiscali, cosicché
la quota prevista dalla normativa è da corrispondere al lordo di tali oneri,
con la conseguenza che, stante appunto la natura retributiva di tale
trattamento incentivante, su tale compenso il percettore deve -come per
l'ordinario trattamento retributivo- corrispondere la quota contributiva (e
quella fiscale) con il meccanismo della ritenuta operata
dall'Amministrazione datrice di lavoro.
Invero, non si rinviene alcuna normativa derogatoria che
consenta di ritenere che tale particolare trattamento retributivo accessorio
sia da calcolare come netto rispetto ad un altro maggior valore che inglobi
gli oneri previdenziali (e fiscali) suddetti e che la differenza debba
essere posta a carico dell'Amministrazione erogante.
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Con il secondo motivo denuncia violazione dell'articolo 11 delle
preleggi, dell'articolo 18, comma 1, della legge n. 109 del 1994, degli
articoli 1, comma 2, 2, comma 2, 3, comma 24, della legge n. 350 del 2003
(legge finanziaria) secondo cui si intendono al lordo) anche in relazione
all'articolo 12 della legge 153 del 1969 (o 65) e successive modifiche
(disciplina del salario accessorio determinato al netto); violazione
dell'articolo 1, comma 207, della legge 266 del 2005 (finanziaria 2006), e
dell'articolo 3 della costituzione nonché dell'articolo 6 della convenzione
CEDU.
Censura l'affermazione della natura interpretativa della norma in esame e ne
afferma la natura innovativa in quanto propone un contenuto completamente
nuovo che deve valere solo per l'avvenire.
La questione sollevata con tale motivo di ricorso è già stata affrontata
dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., Cass., n. 17536/2010), che l'ha
risolta nel senso che la L. 23.12.2005, n. 266, art. 1,
comma 207 -secondo il quale la L. 11.02.1994, n. 109, art. 18, comma 1, e
successive modificazioni, deve interpretarsi nel senso che la quota
percentuale di ripartizione della incentivazione per la progettazione di
opere pubbliche, "è comprensiva anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione"- è norma di interpretazione
autentica, con efficacia retroattiva, che è enunciabile nello specifico
ambito, senza che rilevi la circostanza che il legislatore sia già
intervenuto sulla norma con la L. n. 350 de 2003, art. 3, comma 29,
trattandosi, quest'ultima, di disposizione diretta a disciplinare la
ripartizione dei compensi per i soli enti locali, senza rinnovare il testo
dell'art. 18, comma 1 citato; né in senso contrario è invocabile il
successivo disposto della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 223, secondo il
quale il comma 207 costituisce norma non derogabile dai contratti o accordi
collettivi, giacché, riguardando la interpretazione autentica anche le
vicende verificatesi anteriormente, lo stesso comma 223 va letto in
collegamento con il principio di derogabilità della legge ad opera della
contrattazione collettiva, stabilito dall'allora vigente D.Lgs. 30.03.2001,
n. 165, art. 2, comma 2.
Al riguardo è stato evidenziato da questa Corte il carattere certamente
interpretativo dell'intervento legislativo di cui al ridetto art. 1, comma
297, L. 23.12.2005, n. 266, dove il legislatore, evidentemente al fine di
fare chiarezza ed escludere incertezze, ha assunto ad oggetto della norma la
precedente disposizione nella sua interezza e, senza apportare ad essa
alcuna modifica, ha qualificato in maniera incontrovertibile il suo
intervento come diretto solo a fissarne l'interpretazione; né tale
conclusione poteva ritenersi messa in forse dal fatto che il legislatore si
trovasse di fronte ad un testo su quale era intervenuto nel 2003, visto che,
secondo l'intenzione, sebbene forse non compiutamente realizzata, tale
intervento non mirava a modificare, ma solo ad interpretare, mentre il
successivo intervento del 2005 ha fatto diretto riferimento al testo della
L. n. 109 del 1994, art. 18 e successive modifiche.
Tali considerazioni, che il Collegio condivide, non sono inficiate dalla
circostanza che la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 207, sia stato
successivamente abrogata dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 256, posto che: la
disposizione successivamente abrogata, proprio perché di interpretazione
autentica di una precedente normativa, aveva già esplicato i propri effetti
volti a chiarire l'effettiva valenza della norma interpretata; il D.Lgs. n.
163 del 2006, art. 92, comma 5, ha riformulato la disciplina in materia,
prevedendo espressamente, per quanto qui specificamente rileva, che tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori, è ripartita una somma non superiore al due per
cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, "comprensiva
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione", riproducendo, quindi, quanto già previsto dalla
L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 207 ("La l. 11.02.1994, n. 109, art.
18, comma 1, e successive modificazioni, che prevede la possibilità di
ripartire una quota percentuale dell'importo posto a base di gara tra il
responsabile unico del progetto e gli incaricati della redazione del
progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i Ioni collaboratori, si interpreta nel senso che tale
quota percentuale è comprensiva anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione").
Fermo il carattere assorbente delle considerazioni che precedono, deve
altresì osservarsi, per completezza di motivazione, che questa Corte, con
ulteriore pronuncia (cfr., Cass.,
sentenza 12.04.2011 n. 8344),
ha rilevato che il compenso incentivante di che trattasi ha
natura retributiva e che quindi su di esso vanno operate le ordinarie
ritenute previdenziali e fiscali, cosicché la quota prevista dalla normativa
era da corrispondere al lordo di tali oneri, con la conseguenza che, stante
appunto la natura retributiva di tale trattamento incentivante, su tale
compenso il percettore deve -come per l'ordinario trattamento retributivo-
corrispondere la quota contributiva (e quella fiscale) con il meccanismo
della ritenuta operata dall'Amministrazione datrice di lavoro.
Come è stato osservato nell'anzidetta decisione, non si
rinviene infatti alcuna normativa derogatoria che consenta di ritenere che
tale particolare trattamento retributivo accessorio sia da calcolare come
netto rispetto ad un altro maggior valore che inglobi gli oneri
previdenziali (e fiscali) suddetti e che la differenza debba essere posta a
carico dell'Amministrazione erogante, nel mentre la ricordata
interpretazione ha trovato conferma nella L. n. 350 del 2003, art. 3, comma
29, e nella L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 207, riprodotto nel D.Lgs. n.
163 del 2006, art. 92, comma 5.
Il ricorrente ha, poi, rilevato che, ove si attribuisca all'art. 1 , comma
207, citato natura interpretativa e retroattiva esso sarebbe in contrasto
con l'art. 6 della CEDU che esclude l'ingerenza del potere legislativo in
quello giudiziario allorché è volto a risolvere un contenzioso nei confronti
della pubblica amministrazione in senso favore a quest'ultima.
Anche tale censura è infondata.
La norma ha fornito un'interpretazione sulla quale non si era formato uno
specifico e vasto contenzioso ed anzi i precedenti erano in senso
sfavorevole alla tesi di parte ricorrente il quale, pertanto, non poteva
fare affidamento sull'accoglimento della tesi sostenuta.
Del resto l'interpretazione accolta dalla norma si manifestava già chiara
dall'origine atteso che il compenso incentivante di che
trattasi ha natura retributiva e che quindi su di esso vanno operate le
ordinarie ritenute previdenziali e fiscali al pari di qualsiasi altro
trattamento retributivo (Corte di
cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 27.04.2015 n. 8522). |
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