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aggiornamento al 30.09.2019

aggiornamento all'11.09.2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.09.2019

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Ennesima censura della Consulta, si profila all'orizzonte, per la Legge urbanistica Lombarda!!

ESPROPRIAZIONEAlla Corte costituzionale la legge lombarda che prevede il potere ablatorio sia esercitabile a tempo indeterminato in ragione dell’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche.
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Espropriazione per pubblica utilità – Lombardia – Potere ablatorio è esercitabile a tempo indeterminato – In ragione dell’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche – Art. 9, comma 12, l. reg. n. 12 del 2005 – Violazione artt. 42 e 117 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005, per violazione degli artt. 42 e 117 Cost., nella parte in cui prevede che il potere ablatorio è esercitabile a tempo indeterminato, in ragione dell’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né di motivazione né di indennizzo (1).
---------------
   (1) Ha chiarito il Tar che il legislatore lombardo ha derogato al principio fondamentale affermato nella sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999, secondo cui, alla scadenza del termine di efficacia quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio esso decade a meno che non ricorra una delle seguenti condizioni: a) il vincolo sia reiterato seguendo l’apposito procedimento a tal fine previsto dalla legge, con le conseguenti garanzie in termini di partecipazione al procedimento e di indennizzo del danno conseguente; b) la sua decadenza sia preclusa dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”.
Tale condizione è stata ravvisata dalla stessa sentenza in parola nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal legislatore del testo unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che comunque garantisce la partecipazione in chiave collaborativa al proprietario/espropriando e che rappresenta il primo atto di un procedimento (quello espropriativo) puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo l’esercizio del potere espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più breve termine espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba intervenire entro cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto efficace il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato emerge chiaramente come, nel corso del tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e oggi anche all’art. 1 del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento che si è chiarito come il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta europea dei diritti dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà legislativa dello Stato e a maggior ragione delle Regioni, la cui violazione genera questioni di legittimità costituzionale attratte nella competenza della Corte Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e in quanto risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta, a parere del Collegio, aver disatteso i limiti imposti alla propria competenza legislativa, violando l’art. 117 Cost., per aver, nell’esercizio di una competenza legislativa concorrente, eluso i principi fondamentali della materia, desumibili anche dall’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal legislatore statale nel T.U. delle espropriazioni, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che li ha estrapolati dall’art. 42 Cost..
Più precisamente, la Regione Lombardia ha violato i limiti posti dall’art. 117 Cost., perché, esorbitando dalla propria competenza concorrente in materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il vincolo preordinato all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si andranno a meglio evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio della procedura espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla Corte Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di pubblica utilità.
Il Tar ritiene, dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione” del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 Cost. che, riserva al legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui adozione equivale al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte Costituzionale ha indicato come condizione necessaria per ritenere rispettato il principio della temporaneità del potere espropriativo esercitabile su determinati beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi, nella fattispecie in esame, in contrasto con l’art. 42 Cost., da una corretta interpretazione del quale discende, come già anticipato, che il potere espropriativo può essere esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e, come evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale n. 575 del 1989, a condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della proprietà.
Ne discende che il vincolo preordinato all’esproprio, imposto mediante un apposito procedimento che garantisca la partecipazione dell’interessato, deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del periodo di efficacia deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità, la quale, a sua volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che garantisce la partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del decreto di esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione e comunque non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al comma 12 dell’art. 9, l.reg. Lombarda n. 12 del 2005, invece, il potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo indeterminato, in ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 14.08.2019 n. 740 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it - si legga anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 20.09.2019 n. 827).
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SENTENZA
1. Le società ricorrenti hanno impugnato l’atto recante la dichiarazione di pubblica utilità e i successivi provvedimenti adottati nell’ambito del procedimento espropriativo preordinato alla realizzazione della nuova strada di collegamento tra la via Cattaneo e la via per Torbiato nel Comune di Adro, la cui localizzazione è stata in parte prevista sulla proprietà della società Te.Mo., destinata dalla società Be. alla coltivazione dell’uva per la produzione di vino con denominazione “Franciacorta DOCG”.
Più precisamente, con il ricorso introduttivo, le società ricorrenti hanno censurato la legittimità della dichiarazione di pubblica utilità, mentre con il primo ricorso per motivi aggiunti hanno impugnato la successiva deliberazione di approvazione di alcune modifiche progettuali e con il secondo il decreto di esproprio.
Al fine di ottenere l’annullamento di detti provvedimenti, le ricorrenti hanno formulato una pluralità di censure, con le quali sono stati dedotti vizi procedurali (censure 1, 4 e 5 del ricorso introduttivo, 1, 2 e 3 del primo ricorso per motivi aggiunti e 2 del secondo ricorso per motivi aggiunti), oltre che la violazione dei principi posti a tutela del suolo agricolo e l’eccesso di potere connesso alla scelta di realizzare un’opera che, separata dalla più ampia opera di cui era originariamente parte (la circonvallazione dell’abitato), avrebbe una pubblica utilità limitata, recessiva rispetto alla conservazione della pregiata coltura in atto, nonché l’illegittimità costituzionale della norma in ragione della quale è stata ravvisata, nel 2018, la conformità urbanistica dell’opera prevista nel PGT del 2012.
2. Con sentenza non definitiva n. 736/2019, questo Tribunale ha ritenuto che le doglianze suddette fossero in parte inammissibili e in parte infondate, con la sola esclusione della censura n. 2 del ricorso introduttivo, riproposta anche nel primo ricorso per motivi aggiunti (e, in termini di invalidità derivata, anche nel secondo ricorso per motivi aggiunti), avente ad oggetto l’efficacia del presupposto essenziale del procedimento espropriativo, rappresentato dal vincolo preordinato all’esproprio: efficacia disciplinata dall’art. 9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005, sospettato di illegittimità costituzionale per contrasto con gli art. 3, 42, comma 2, e 117, comma 3, della Costituzione.
3.
Ad avviso del Collegio sussistono i presupposti per sollevare la questione avanti alla Corte Costituzionale.
3.1. Sulla rilevanza della questione di costituzionalità.
Come noto, l’art. 23 della legge n. 87 del 1953 prevede che il giudice debba sospendere il giudizio in corso e trasmettere gli atti alla Corte Costituzionale quando il giudizio non possa essere risolto indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale.
Tale condizione risulta ricorrere nella fattispecie, posto che, respinte tutte le altre censure, il ricorso revoca in dubbio la legittimità costituzionale della disposizione applicata nella fattispecie al fine di sostenere la efficacia del vincolo preordinato all’esproprio sulla scorta del quale è stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera in questione, così adottando il provvedimento che ha degradato il diritto di proprietà rendendolo aggredibile con la procedura espropriativa.
Se il dubbio sollevato da parte ricorrente fosse fondato, dunque, il vincolo espropriativo dovrebbe essere ritenuto decaduto, al momento dell’adozione della dichiarazione di pubblica utilità, che, per ciò stesso, dovrebbe essere dichiarata illegittima, perché priva del presupposto fondante l’esercizio del potere ablatorio (cfr. la lettera a) dell’art. 8 del DPR 327/2001, la quale afferma che il decreto di esproprio può essere emanato qualora “l’opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale o in un atto di natura ed efficacia equivalente e sul bene da espropriare sia stato apposto in vincolo preordinato all’esproprio”).
Infatti, nel caso in esame, il vincolo preordinato all’esproprio è divenuto efficace nel momento in cui ha acquistato efficacia il PGT del Comune di Adro approvato nel 2012 e cioè il giorno 21.11.2012. Il primo comma dell’art. 9 del DPR 327/2001 prevede espressamente che “Un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diventa efficace l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità”.
I successivi commi stabiliscono che “2. Il vincolo preordinato all’esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. 3. Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e trova applicazione la disciplina dettata dall’articolo 9 del testo unico in materia edilizia approvato con decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380. 4. Il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti al comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard.”.
In base alla disposizione ora citata il vincolo sarebbe, dunque, venuto meno il 21.11.2017, mentre la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera è intervenuta solo il 15.02.2018.
Secondo la tesi del Comune, però, la sussistenza della necessaria conformità urbanistica dell’opera rispetto allo strumento urbanistico sarebbe garantita, nella fattispecie, come espressamente attestato nella deliberazione del Consiglio comunale che ha approvato il progetto e dichiarato la pubblica utilità, dalla vigenza dell’art. 9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005, il quale recita: “I vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi hanno la durata di cinque anni, decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso. Detti vincoli decadono qualora, entro tale termine, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione.”.
Poiché, nella fattispecie, il piano triennale delle opere pubbliche 2017-2019 è stato approvato, prevedendo la realizzazione anche del collegamento tra le via Cattaneo e per Torbiato, in data 06.04.2017 (con deliberazione del consiglio comunale n. 12 del 2017) e, dunque, prima della scadenza del quinquennio di efficacia del vincolo espropriativo, quest’ultimo è stato dichiaratamente assunto quale presupposto della procedura espropriativa avversata: circostanza, questa, rilevante ai fini dell’ammissibilità sia della doglianza stessa, che della questione di legittimità costituzionale.
Infatti, è pur vero che, lo stesso giorno in cui è stata dichiarata la pubblica utilità, è stata anche adottata (con la deliberazione precedente, recante il numero 10 del 2018) una variante urbanistica, poi approvata solo con deliberazione del consiglio comunale n. 23 del 12.05.2018, con cui il Comune di Adro ha preso atto della “conferma” dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio in ragione dell’inclusione dell’opera nel Programma triennale delle opere pubbliche. Tale deliberazione ha un duplice contenuto: da un lato reitera i vincoli preordinati all’esproprio relativi ad alcune opere pubbliche per cui erano decaduti, dall’altro, per una pluralità di opere pubbliche, tra cui il collegamento tra le vie Cattaneo e per Torbiato in parola, dà atto dell’inserimento delle stesse nel Programma triennale delle opere pubbliche e del conseguente effetto “confermativo” dell’efficacia del vincolo, derivante dall’art. 9, comma 12, della LR 12/2005.
In tale seconda parte, il provvedimento risulta essere del tutto atipico (dal momento che l’effetto della norma richiamata è automatico) e, dunque, al più, sostanzialmente ricognitivo. L’assenza di contenuto dispositivo, innovativo dell’ordinamento, congiuntamente con la considerazione del fatto che la statuizione contenuta in tale atipica variante urbanistica è divenuta efficace ben dopo la dichiarazione di pubblica utilità, rende, contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, irrilevante la sua mancata impugnazione. Non appare, infatti, revocabile in dubbio il fatto che, nella fattispecie, la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta sulla base di un vincolo preordinato all’esproprio divenuto efficace più di cinque anni prima dell’approvazione del progetto, la cui efficacia risulta prorogata automaticamente per effetto dell’inclusione dell’opera nel Programma delle opere pubbliche triennale, a prescindere da ogni motivazione circa l’interesse pubblico alla reiterazione, da ogni garanzia partecipativa per il proprietario e dalla corresponsione di un adeguato indennizzo (così come, invece, previsto dall’art. 39 del T.U. DPR 327/2001), così come puntualmente rappresentato nella stessa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
A nulla rileva che di tale effetto si sia preso atto in un provvedimento successivo alla dichiarazione di pubblica utilità stessa, privo di capacità innovativa circa l’efficacia del vincolo, il quale, per ciò stesso, risulterebbe inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta il presupposto.
Considerato, dunque, che, data la sua formulazione, la disposizione non risulta suscettibile di un’interpretazione costituzionalmente orientata, rispettosa dei precetti costituzionali, così come enunciati nel ricordato articolo 9 del DPR 327/2001, il Collegio ravvisa la necessità, ai fini della risoluzione della controversia, di accertare se nell’approvare l’art. 9 della L.R della Lombardia n. 12/2005, la Regione abbia violato i principi fondamentali della materia espropriativa e, dunque, non solo l’art. 42 della Costituzione, ma anche l’art. 1 del Primo protocollo della CEDU, nonché i limiti della potestà legislativa regionale di cui all’art. 117 della Costituzione.
Solo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale consentirebbe, infatti, al Collegio di annullare i provvedimenti impugnati.
3.2. Sulla non manifesta infondatezza della questione.
Ritiene il Collegio che l’art. 9, comma 12, della legge regionale lombarda n. 12/2005 violi gli art. 117 e 42 della Costituzione, per le ragioni che si andranno ad esplicitare.
Con sentenza n. 575 del 1989, la Corte Costituzionale, pur rigettando la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla violazione dell’articolo 42 della Costituzione, affermò che l’indeterminatezza temporale del vincolo espropriativo (da non confondersi con il ben diverso vincolo conformativo) desse luogo a una situazione di incompatibilità con la garanzia della proprietà privata e, di fatto, a un’espropriazione di valore, con conseguente necessità della previsione di un indennizzo.
Più precisamente, il giudice delle leggi, ha affermato che “
è propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata in relazione alle effettive esigenze urbanistiche. Tale possibilità, tuttavia, darebbe luogo ad un sistema non conforme ai principi affermati nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo venga protratto a tempo indeterminato senza la previsione di indennizzo. Come si evince dalla stessa sentenza e come e stato ribadito più di recente (sent. n. 82 del 1982), i due requisiti della temporaneità e della indennizzabilità sono difatti tra loro alternativi, per cui l'indeterminatezza temporale dei vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli indefinitamente nel tempo anche se con diversa destinazione o con altri mezzi, é costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà secondo i principi affermati nelle sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968.
Sulla scorta di tale pronuncia, il legislatore, nel modificare l’articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, stabilì la durata quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio, subordinandone la reiterazione alla rappresentazione di una debita motivazione fondata sulla presenza di un elemento di novità che la giustificasse.
A seguito del dubbio di costituzionalità anche in relazione a tale disposizione (sollevato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con ordinanza n. 20/1996), con sentenza n. 179 del 20.05.1999, il giudice delle leggi dichiarò l’incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, primo comma, della legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150) “
nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità senza la previsione di indennizzo”.
In altri termini, si legge ancora nella sentenza “
una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico (avente le anzidette caratteristiche), se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all’espropriazione (o al serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi) dalla previsione di un indennizzo”.
Tempestivamente il legislatore del 2001 fece propri tali principi e introdusse, nel testo unico delle espropriazioni approvato con DPR 327/2001:
   a) la previsione della durata quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio;
   b) la possibilità della reiterazione del vincolo seguendo un procedimento che prevede la garanzia partecipativa per i proprietari interessati e si conclude con un provvedimento motivato che deve tenere conto, in particolar modo, delle esigenze di soddisfacimento degli standard;
   c) l’obbligo della corresponsione, nel caso di reiterazione, di un indennizzo, ancorché, come chiarito con sentenza dell’Adunanza plenaria n. 7/2007, per la legittimità della reiterazione non sia necessaria la puntuale definizione dell’indennizzo da parte dell’Amministrazione, subordinata alla prova, da parte del proprietario inciso, dell’effettivo danno subìto e alla sua esatta quantificazione.
Venendo alla previsione regionale sospetta di incostituzionalità, il legislatore lombardo ha, a parere del Collegio, derogato al principio fondamentale affermato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1999, secondo cui, alla scadenza del termine di efficacia quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio esso decade a meno che non ricorra una delle seguenti condizioni:
   A. il vincolo sia reiterato seguendo l’apposito procedimento a tal fine previsto dalla legge, con le conseguenti garanzie in termini di partecipazione al procedimento e di indennizzo del danno conseguente;
   B. la sua decadenza sia preclusa dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”. Tale condizione è stata ravvisata dalla stessa sentenza in parola nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal legislatore del testo unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che comunque garantisce la partecipazione in chiave collaborativa al proprietario/espropriando e che rappresenta il primo atto di un procedimento (quello espropriativo) puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo l’esercizio del potere espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più breve termine espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba intervenire entro cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto efficace il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato
emerge chiaramente come, nel corso del tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e oggi anche all’art. 1 del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento che si è chiarito come il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta europea dei diritti dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà legislativa dello Stato e a maggior ragione delle Regioni, la cui violazione genera questioni di legittimità costituzionale attratte nella competenza della Corte Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e in quanto risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta, a parere del Collegio, aver disatteso i limiti imposti alla propria competenza legislativa, violando l’art. 117 della Costituzione, per aver, nell’esercizio di una competenza legislativa concorrente, eluso i principi fondamentali della materia, desumibili anche dall’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal legislatore statale nel T.U. delle espropriazioni, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che li ha estrapolati dall’art. 42 della Costituzione.
Più precisamente,
la Regione Lombardia ha violato i limiti posti dall’art. 117 della Costituzione, perché, esorbitando dalla propria competenza concorrente in materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il vincolo preordinato all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si andranno a meglio evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio della procedura espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla Corte Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di pubblica utilità.
Il Collegio ritiene, dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione” del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 della Costituzione che, riserva al legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui adozione equivale al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte Costituzionale ha indicato come condizione necessaria per ritenere rispettato il principio della temporaneità del potere espropriativo esercitabile su determinati beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi, nella fattispecie in esame, in contrasto con l’art. 42 della Costituzione, da una corretta interpretazione del quale discende, come già anticipato, che il potere espropriativo può essere esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e, come evidenziato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 575/1989 già ricordata, a condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della proprietà.
Ne discende che
il vincolo preordinato all’esproprio, imposto mediante un apposito procedimento che garantisca la partecipazione dell’interessato, deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del periodo di efficacia deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità, la quale, a sua volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che garantisce la partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del decreto di esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione e comunque non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al comma 12 dell’art. 9 della Legge regionale lombarda n. 12/2005, invece, il potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo indeterminato, in ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo.
L’art. 21 del codice degli appalti, infatti, disciplina l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche senza particolari formalità che garantiscano la partecipazione al procedimento dei soggetti interessati dalla realizzazione delle opere in esso inserite, anche in considerazione della sua funzione prettamente programmatica, strettamente connessa alla programmazione finanziaria e di bilancio e alla sua natura organizzativa dell’attività dell’ente, individuando le opere da eseguirsi con priorità.
Tant’è che anche a seguito dell’entrata in vigore del D.M. 16.01.2018, n. 14, recante il regolamento relativo alle procedure e schemi tipo per la redazione e la pubblicazione del piano triennale dei lavori pubblici, pur essendo ribadita la necessità della pubblicazione del piano, la garanzia partecipativa risulta essere minima, dal momento che l’art. 5 prevede che l’amministrazione “possa” consentire la presentazione delle osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione, facendo ricorso a un subprocedimento che la norma definisce come “consultazioni”, che, quindi, è eventuale, rimesso alla scelta dell’ente e può concludersi senza che sul Comune gravi un preciso onere motivazionale, nel caso in cui le prospettazioni del privato vengano disattese.
Inoltre, nessuna disposizione normativa limita la possibilità di riproporre, negli aggiornamenti annuali, il mantenimento delle previsioni di realizzazione della stessa opera, che, dunque, potrebbe essere procrastinata all’infinito, di fatto svuotando completamente di contenuto il diritto di proprietà e, così, espropriando il suo titolare, cui è preclusa ogni utilizzazione che non sia quella per la coltivazione agricola, pur in assenza di alcun indennizzo.
In questo modo si finisce per eludere sia il principio della temporaneità del potere espropriativo, sia quello dell’indennizzabilità in caso di un potere che si consolidi nel tempo pur non essendo intervenuta l’espropriazione, espressamente indicati come alternativi dal giudice delle leggi nelle sentenze già più volte ricordate.
L’inserimento nel piano triennale delle opere pubbliche, infatti:
   - se da un lato non può essere qualificato come un serio inizio della procedura espropriativa, in quanto non offre alcuna garanzia circa il fatto che l’opera sia effettivamente realizzata, non comportando alcun impegno di spesa e non essendo previsto alcun termine di efficacia entro cui i lavori debbono essere conclusi;
   - dall’altro, viola anche il fondamentale presupposto, introdotto dal legislatore in recepimento del principio individuato dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 179/1999 e trasfuso nel primo comma dell’art. 39 del T.U. DPR 327/2001, secondo cui “nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità, commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto.”.
4. In conclusione
questo Tribunale ritiene che l’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005 sia costituzionalmente illegittimo laddove ricollega all’inserimento dell’opera pubblica nella programmazione triennale prevista dalla normativa in materia di lavori pubblici, l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo preordinato all’esproprio.
5. Ciò premesso,
questo Tribunale solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, nella parte in cui, in violazione dei limiti alla propria competenza legislativa concorrente definiti dall’art. 117 Cost. e comunque dei principi fondamentali relativi ai limiti del potere espropriativo discendenti dall’art. 42 Cost., attribuisce all’inserimento della previsione della realizzazione di un’opera pubblica nella programmazione triennale di cui all’art. 21 del d.lgs. 50/2016 l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo quinquennale preordinato all’esproprio per la sua esecuzione, secondo i profili e per le ragioni sopra indicate, con sospensione del giudizio fino alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana della decisione della Corte Costituzionale sulle questioni indicate, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 79 ed 80 del c.p.a. e art. 295 c.p.c..
Riserva al definitivo la decisione nel merito e sulle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda),
ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, per violazione degli artt. 42 e 117 della Costituzione, dispone la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 14.08.2019 n. 740 - link a www.giustizia-amministrartiva.it - si legga anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 20.09.2019 n. 827).

 

E' talmente ovvio ... ma, purtroppo, necessita ricordarlo a tanti "smemorati" (o "furbetti" che dir si voglia) e, soprattutto, ai segretari comunali che devono (sic!) controllare.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncaricati senza libertà d’orario. Non possono regolarlo in base alle esigenze degli uffici. Un contratto che riconosca prerogative dirigenziali alle posizioni organizzative sarebbe nullo.
Gli incaricati di posizione organizzativa non possono regolare la propria attività con orario di lavoro organizzato sulla base delle esigenze degli uffici, come le qualifiche dirigenziali.
Sono ancora molto frequenti i casi nei quali negli enti locali, e specialmente nelle forme associative, si verifichino violazioni palesi alle disposizioni contrattuali, laddove si consenta ai «quadri» un orario di lavoro non predeterminato.
Il tutto, nasce da un'interpretazione totalmente erronea dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000, ai sensi del quale «nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione».
Tale norma è posta a rimediare alla circostanza che nella gran parte degli enti locali mancano le qualifiche dirigenziali e, tuttavia, è comunque necessario applicare il principio di separazione delle funzioni politiche da quelle gestionali. L'articolo 109, comma 2, rimedia, consentendo di attribuire le funzioni dirigenziali ai funzionari apicali, abilitati, quindi ad esercitare dette funzioni dirigenziali. Ma, tale abilitazione non trasforma i funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative in qualifiche dirigenziali.
Si continua ad applicare sempre soltanto e solo, dunque, il Ccnl del comparto. Sull'orario di lavoro, il Ccnl 21.05.2018 non ha cambiato nulla rispetto alla contrattazione collettiva previgente.
Resta attuale, allora, l'indicazione fornita nel 2011 dall'Aran con il
parere 05.06.2011 n. RAL-613, ove si spiega che «il personale incaricato delle posizioni organizzative è tenuto ad effettuare prestazioni lavorative settimanali non inferiori a 36 ore (mentre, ai sensi dell'art. 10, comma 1, del Ccnl del 31.03.1999 e salvo quanto previsto dall'art. 39, comma 2, del Ccnl del 14.09.2000 e dall'art. 16 del Ccnl del 05.10.2001, non sono retribuite le eventuali prestazioni ulteriori che gli interessati potrebbero aver effettuato, senza diritto ad eventuali recuperi, in relazione all'incarico affidato e agli obiettivi da conseguire)».
Conseguentemente l'orario di lavoro va assoggettato «alla vigente disciplina relativa a tutto il personale dell'ente e agli ordinari controlli sulla relativa quantificazione». In particolare, spiega l'Aran, «il vigente Ccnl non attribuisce, in particolare, né al datore di lavoro né al dipendente il potere o il diritto all'autogestione dell'orario settimanale, consentita, invece, al solo personale con qualifica dirigenziale».
È da aggiungere che laddove i funzionari incaricati di posizione organizzativa non rispettassero le previsioni del Ccnl del comparto, incorrono nella responsabilità disciplinare connessa alla violazione dell'articolo 57, comma 3, lettera a), che impone di «collaborare con diligenza, osservando le norme del contratto collettivo nazionale, le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro»; l'articolo 59, comma 3, lettera a), del Ccnl, ancora, considera esplicitamente violazione disciplinare l'inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di assenze per malattia, nonché dell'orario di lavoro.
È opportuno ricordare che qualsiasi contratto collettivo decentrato o direttiva interna finalizzata a consentire alle posizioni organizzative di fruire dell'orario previsto solo per la dirigenza, sarebbe del tutto nulla e inapplicabile, per violazione di una disciplina riservata esclusivamente alla contrattazione nazionale collettiva.
Non solo: la tolleranza nei confronti di orari difformi, che, come visto sopra, implicano responsabilità disciplinare, determinerebbe nei confronti dei dirigenti a loro volta responsabilità disciplinare ai sensi dell'articolo 55-sexies, comma 3, del dlgs 165/2001, il quale dispone: «Il mancato esercizio o la decadenza dall'azione disciplinare, dovuti all'omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, inclusa la segnalazione di cui all'articolo 55-bis, comma 4, ovvero a valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza dell'illecito in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta, per i soggetti responsabili, l'applicazione della sospensione dal servizio fino a un massimo di tre mesi, salva la maggiore sanzione del licenziamento prevista nei casi di cui all'articolo 55-quater, comma 1, lettera f-ter) e comma 3-quinquies»
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2019).

 

Regolamento per la disciplina dell'«incentivo funzioni tecniche» (ma il principio vale per qualsiasi tipo di regolamento):
In ordine alla formulazione di un articolo regolamentare sostanzialmente ripetitivo di quanto dispone la legge, sono note le ragioni che militano da un lato avverso la riproduzione, in una fonte subordinata, delle disposizioni della fonte primaria e, dall’altro e in senso contrario, a favore della complessiva organicità e completezza dei regolamenti, ai fini della loro chiarezza e comprensibilità da parte dei destinatari della normativa.
Sicché,
andrebbero comunque espunte dal regolamento tutte quelle disposizioni che appaiono meramente ripetitive delle disposizioni di legge e che potrebbero essere sostituite da richiami alle medesime, senza comunque compromettere la sistematicità e leggibilità del regolamento stesso.

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Tripla incognita sugli incentivi tecnici. Il nuovo regolamento inciampa su corruzione, rotazione e fondo.
È «uno dei primi casi applicativi dell’articolo 113 del Codice dei contratti pubblici del 2016».
Così si è espresso il Consiglio di Stato (Sez. Consultiva per gli Atti Normativi, parere 09.09.2019 n. 2368) sulla bozza di regolamento degli incentivi per le funzioni tecniche predisposto dal Mit. Sono trascorsi tre anni dal Dlgs 50/2016 e un anno dall’accordo con i sindacati. Ma l’iter è tutt’altro che terminato.
I giudici rinviano il parere in quanto la bozza non è corredata di documenti indispensabili per la valutazione come la relazione tecnica, e il testo non è bollinato dalla Rgs. Eppure il Mef dovrebbe percepire come prioritaria una nuova disciplina di questi compensi: la precedente regolamentazione si riferiva al Dlgs 163/2006 col d.m. 17.03.2008 n. 84, con buona pace delle modifiche intervenute nel frattempo.
Tre sono i punti qualificanti del regolamento.
Il primo affronta il nodo della corruzione. Nella bozza si legge che va garantita l’equa ripartizione degli incarichi. Sulla carta sembra semplice, ma concretamente non ci sono previsioni sulle modalità attuative. Ancora, si deve assicurare il principio di rotazione, anche qui di difficile realizzazione considerato che gli incarichi possono interessare anche dipendenti di altre Pa. Più facile la verifica dell’assenza di condanne penali per reati di natura corruttiva.
Viene previsto però che non possono essere conferiti incarichi ai dipendenti condannati in base all’articolo 35-bis della legge 190/2012. Richiamo normativo fuori luogo considerato che quella legge ha due articoli. Infine, sembra rimessa ai sindacati la vigilanza. Si prevede che il dirigente responsabile della stazione appaltante comunichi semestralmente a loro gli incarichi per il monitoraggio sul «rispetto dei principi di trasparenza e rotazione».
Il secondo punto rilevante si preoccupa di garantire il conferimenti degli incarichi a soggetti qualificati. Nei requisiti vengono elencate le esperienze professionali e l’espletamento di attività simili con risultati positivi. In assenza di questi, l’incarico può essere affidato solo se sia stato frequentato un corso di qualificazione professionale o un affiancamento.
Un terzo aspetto riguarda la costituzione del fondo. Viene specificato che non può superare il 2% dell’importo a base di gara. La percentuale effettiva viene individuata con la costituzione del fondo nel momento in cui è determinata la previsione di spesa all’interno di ogni quadro economico. Si stabilisce che non formano base su cui quantificare l’incentivo le somme per accantonamenti, imprevisti, acquisizione ed espropri di immobili e l’Iva. L’80% del fondo che va ai dipendenti comprende gli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, ma nulla si dice sull’Irap, lasciando aperta la partita a ricorsi. Non sono a carico del fondo le spese per trasferte o missioni.
Poca attenzione sembra rilevarsi, sul rispetto dei tempi di realizzazione. Il regolamento impone, nell’atto di conferimento dell’incarico, l’individuazione dei termini entro i quali deve essere espletato, ma molto contenute sono le sanzioni per chi sfora: il compenso viene ridotto dell’1% per ogni settimana di ritardo, ma la riduzione non può andare oltre il 10%.
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I tre nodi irrisolti
1. ANTICORRUZIONE
Nella bozza di regolamento preparata dal Mit si prevede una serie di divieti al conferimento di incarichi, per esempio ai soggetti condannati in base all’articolo 35-bis della legge 190/2012. Ma l’articolo 35-bis non esiste
2. ROTAZIONE
Si chiede di garantire l’equa ripartizione degli incarichi, ma non si dice nulla su come attuare questo principio. La vigilanza viene affidata ai sindacati
3. IL FONDO
Nulla si dice sulla contabilizzazione dell’Irap (articolo Il Sole 24 Ore del 30.09.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici, arriva il regolamento del Mit.
È proprio il caso di dire: cantieri aperti in tema di regolamento dei compensi per le funzioni tecniche. Il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che, per sua natura, è molto interessato all'argomento, aggiorna la disciplina di questi incentivi, a tre anni di distanza dall'approvazione del codice degli appalti.
La bozza
La bozza di nuovo regolamento risulta dall'applicazione dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016 e, ovviamente, è attanagliato alle specificità di un ministero: detta norme sulla possibilità di ricorrere a dipendenti di altri ministeri o di altre amministrazioni in generale, disciplina i movimenti che devono attuarsi nella contabilità dello Stato per il pagamento ai dipendenti interessati e richiama i pareri del ministero dell'Economia e delle finanze e del Consiglio di Stato.
Alcune indicazioni, però, hanno valenza generale. I soggetti che svolgono le funzioni incentivate, ben specificate, devono essere individuati con formale provvedimento, che, nel caso, assume la veste di decreto direttoriale. Nello stesso atto sono indicati non solo i tecnici ma anche i dipendenti con funzioni amministrative ai quali deve essere riconosciuto il compenso.
Per l'individuazione di tali soggetti, il regolamento elenca una serie di criteri: l'integrazione tra diverse competenze professionali, le esperienze passate, l'autonomia e la responsabilità dimostrate, la capacità di collaborare con i colleghi. Ma prima di tutto deve essere garantita la rotazione e l'equa ripartizione degli incarichi. Sono, in ogni caso, esclusi i dipendenti con carichi pendenti di natura corruttiva.
Nelle modalità di ripartizione del fondo distingue i lavori, dove risultano maggiormente premiati il Rup e il direttore lavori, dai servizi e forniture, dove la parte del leone la fanno il Rup e il direttore dell'esecuzione, unitamente ai rispettivi collaboratori. Per la maggior parte degli stessi viene individuata una fascia, rimettendo alla contrattazione integrativa territoriale la fissazione della percentuale puntuale.
Il parere
Molto interessante il relativo parere 09.09.2019 n. 2368 del Consiglio di Stato. Tra l'altro si legge come la normativa, nelle finalità e nelle linee portanti, non risulti radicalmente mutata e, pertanto, sia opportuno un paragone fra il vecchio e il nuovo.
Da questo emerge un'interessante indicazione, vale a dire l'inversione nell'ordine dei lavori. In altre parole, mentre nel regime precedente, il regolamento era posteriore alla contrattazione decentrata, dovendone recepire i contenuti, nella nuova disciplina, il regolamento rappresenta il presupposto da cui devono prendere il via le relazioni sindacali.
Il Consiglio di Stato suggerisce di non riportare nei regolamenti quelle norme che non fanno altro che ripetere pedissequamente il dettato legislativo, sostituendolo con un richiamo allo stesso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.09.2019).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEIncentivi, non in ordine sparso. Serve un coordinamento per evitare difformità applicative. Parere del Cds sullo schema di regolamento per la ripartizione ai tecnici della p.a..
È necessario un incisivo coordinamento sull'attuazione delle norme sugli incentivi ai tecnici delle amministrazioni previsti dal codice appalti per evitare difformità applicative, oltre ad un attento confronto con la disciplina previgente; necessaria anche l'integrazione con l'analisi di impatto sulla regolazione e con la bollinatura.

È quanto ha precisato il Consiglio di stato nel parere 09.09.2019 n. 2368 della sezione consultiva per gli atti normativi emesso sullo schema di regolamento recante «Norme per la ripartizione dell'incentivo per le funzioni tecniche di cui all'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50», trasmesso dal ministero delle infrastrutture al Consiglio di stato il 05.07.2019.
Si tratta di uno dei primi casi applicativi dell'art. 113 del nuovo codice dei contratti pubblici del 2016, come modificato nel 2017 e poi integrato nel dalla legge di bilancio 2018. Lo schema è stato predisposto sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte dei conti e dal Mef, oltre che dalla contrattazione con i sindacati.
I giudici della sezione consultiva hanno premesso che si tratta di una bozza di provvedimento che «riveste indubbiamente un considerevole rilievo, in primo luogo per la specialissima importanza e il predominante peso che il Mit riveste nel campo dei lavori pubblici e inoltre perché esso dovrebbe costituire un essenziale parametro in vista della prossima adozione di analoghi atti da parte degli altri ministeri e delle altre amministrazioni aggiudicatrici».
In relazione al fatto che l'art. 113 del Codice determinerà l'emanazione di un numero prevedibilmente elevato di regolamenti da parte delle numerose amministrazioni pubbliche aggiudicatrici di lavori, servizi e forniture, il parere evidenzia in primo luogo «la necessità dell'esercizio di un incisivo ruolo di coordinamento di tali regolamenti da parte della presidenza del consiglio e in particolare del suo Dagl, onde evitare che le singole amministrazioni affrontino la tematica in esame, per così dire, in ordine sparso».
Nel merito dei contenuti i giudici hanno rilevato «la mancanza di relazione tecnica, ovvero di bollinatura da parte della Ragioneria generale dello Stato, ovvero della attestazione della mancanza di oneri derivanti dalla sua applicazione». E sì vero che vi è un parere espresso dall'Ufficio legislativo del ministero dell'economia e delle finanze, cui peraltro nella sostanza lo schema in esame si attiene, ma le mancanze «devono essere sanate». Questo, si legge nel parere, assume rilievo soprattutto per quanto riguarda la mancanza della relazione di Air: «l'analisi di impatto della regolazione avrebbe potuto fornire utili elementi ai fini della valutazione della congruità della disciplina sottoposta, tanto più ove fosse stato operato un opportuno confronto con gli effetti prodotti finora dalla disciplina che il testo in esame mira ad abrogare (
d.m. 17.03.2008, n. 84)». Visto che la materia è poco mutata, per i giudici «resta utile un attento raffronto tra il regime anteriore e quello che viene introdotto con il nuovo regolamento».
Non risulta poi conforme alla norma la procedura adottata per la redazione dello schema visto che, si legge, «dall'esame degli atti, pare doversi desumere che nel caso in esame la contrattazione abbia preceduto la predisposizione dello schema di regolamento, e che quest'ultimo si sia limitato a recepirne i contenuti». Di fatto si ricomincia da capo (articolo ItaliaOggi del 20.09.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEOggetto: Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Schema di decreto recante "Regolamento recante norme per la ripartizione dell'incentivo per le funzioni tecniche di cui all'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50" (Consiglio di Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, parere 09.09.2019 n. 2368 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
...
LA SEZIONE
Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n. 27096 in data 05/07/2019, con la quale il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Daniele Ravenna;
Premesso:
Con nota n. prot. n. 27096 del 05/07/2019 il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sullo schema di regolamento, indicato in oggetto, da adottarsi in attuazione dell’art. 113, comma 3, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, “Codice dei contratti pubblici” (di seguito, semplicemente “Codice”).
Nella relazione illustrativa il Ministero richiedente, richiamata la disciplina di cui al citato art. 113 del Codice, così come modificato dal decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, recante la previsione di un fondo da destinare ai dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici di lavori, servizi e forniture, espone di aver proceduto, in ottemperanza a quanto disposto dal legislatore, alla redazione dello schema di regolamento in cui sono disciplinate le modalità e i criteri di attribuzione dell’incentivo in questione, come concordato in sede di contrattazione decentrata integrativa in data 19/09/2018.
Il Ministero rappresenta altresì che lo schema è stato redatto sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte dei conti nella deliberazione 26.04.2018 n. 6, nonché tenendo conto delle osservazioni attinenti ai profili contabili formulate dal Ministero dell’economia e delle finanze con nota del 07/02/2019.
Il testo sottoposto si compone di 16 articoli.
L’art. 1 individua l’oggetto del regolamento, ossia la definizione delle modalità e dei criteri di riparto delle risorse del fondo per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti del Ministero, secondo quanto previsto dal ricordato art. 113 del Codice.
L’art. 2 ne definisce l’ambito di applicazione.
L’art. 3 individua i soggetti destinatari del fondo nei dipendenti del Ministero che svolgono direttamente le funzioni tecniche inerenti alle attività elencate all’art. 2, comma 1, nonché nei dipendenti, sia amministrativi che tecnici, che collaborano direttamente alle suddette attività, con esclusione del personale con qualifica dirigenziale.
L’art. 4 riporta quanto previsto dall’art. 113 del codice degli appalti in merito alla costituzione e al finanziamento del fondo per le funzioni tecniche. Per quanto attiene ai profili contabili, su suggerimento del Ministero dell’economia e delle finanze è stata introdotta la previsione in base alla quale la stazione appaltante provvede al versamento in entrata al bilancio dello Stato, su capitolo di nuova istituzione, delle risorse destinate alla costituzione del fondo e si è provveduto specificare la tempistica del suddetto versamento.
L’art. 5 disciplina i criteri di attribuzione degli incarichi.
L’art. 6 indica i termini entro i quali devono essere eseguite le prestazioni per ciascuna figura professionale.
L’art. 7 disciplina le modalità e i criteri di ripartizione del fondo: al riguardo il Ministero precisa che tali modalità e criteri sono stati oggetto di accordo sindacale. In particolare stati individuati dei range percentuali per ciascuna delle attività, distinte per “lavori” e “servizi e forniture”, ed è stata rimandata alla contrattazione integrativa di sede territoriale individuazione delle percentuali definitive da attribuire per la ripartizione dell’incentivo in funzione dei carichi di lavoro e della complessità dei singoli appalti.
L’art. 8 disciplina i criteri di liquidazione dei crediti del dipendente per incentivi, mentre l’art. 9 detta le modalità di pagamento degli stessi. Tale ultimo articolo è stato riformulato, su suggerimento del Ministero dell’economia e delle finanze, prevedendo la riassegnazione alla spesa delle risorse versate sul capitolo di nuova istituzione. Una volta riassegnate tali risorse, la Direzione generale del personale e degli affari generali provvede ad attribuirle alla stazione appaltante mediante apposito piano di riparto.
La procedura contabile ivi indicata deve essere seguita anche qualora gli incarichi siano attribuiti da altre pubbliche amministrazioni per effetto di accordi o convenzioni, ovvero l’incentivo per funzioni tecniche sia a carico di soggetti terzi, diversi dalle pubbliche amministrazioni.
Il Ministero ricorda che la Corte dei conti, dopo un’attenta disamina della novella legislativa introdotta dalla legge di bilancio per il 2018 (in effetti la legge di bilancio 2018, n. 205/2017, ha introdotto un comma 5-bis all’art. 113), ha ritenuto che l’impegno di spesa, ove si tratti di opere, vada assunto al titolo II della spesa, mentre nel caso di servizi e forniture debba essere iscritto al titolo I.
La Corte ha ritenuto altresì -riferisce il Ministero- che la finalità ultima della novella del 2018 sia esattamente quella di escludere che tali spese siano soggette al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici previsto dall’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75 del 2017.
Gli incentivi complessivamente corrisposti in un anno non possono superare l’importo del 50% del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo previsto per la qualifica e fascia economica rivestita. Il comma 8 dell’art. 9 destina eventuali eccedenze al finanziamento della cassa di previdenza e assistenza del Ministero. Sul punto il Ministero ha ritenuto di condividere parzialmente l’osservazione formulata al riguardo dal Ministero dell’economia e delle finanze.
L’art. 10 prevede la riduzione dei compensi per incrementi immotivati dei tempi previsti per l’espletamento degli incarichi, mentre l’art. 11 disciplina le ipotesi di esclusione del compenso.
L’art. 12 disciplina le ipotesi di ricorso a perizia di variante in corso d’opera.
Gli artt. 13 e 14 contemplano norme di salvaguardia e di rinvio.
L’art. 15 prevede la pubblicazione l’aggiornamento dei dati relativi agli incarichi sul sito istituzionale dell’amministrazione, nonché l’obbligo di informativa alle organizzazioni sindacali e alle RSU.
L’art. 16, infine disciplina il periodo transitorio, disponendo l’abrogazione dall’entrata in vigore del regolamento, del d.m. 17.03.2008, n. 84.
Lo schema sottoposto è corredato di:
   - relazione illustrativa;
   - copia della dichiarazione del Ministro di esenzione dall’AIR;
   - copia della deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Corte dei conti - Sezione delle autonomie, resa in esito all’adunanza del 10/04/2018;
   - nota del Ministero dell’economia e delle finanze - Ufficio legislativo economia prot. n. 5489 del 07/02/2019;
   - copia dell’accordo integrativo relativo ai criteri di ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche ex art. 113 d.lgs. n. 50 del 2016, sottoscritto in data 19/09/2018 dalle rappresentanze sindacali.
Non sono presenti la relazione tecnica, la relazione di AIR e la relazione di ATN e lo schema sottoposto non risulta “bollinato” dalla ragioneria generale dello Stato.
Considerato:
Il MIT sottopone al parere di questo Consiglio lo schema di regolamento diretto a disciplinare la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche ai sensi dell'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
Si tratta di uno dei primi casi applicativi dell’art. 113 del nuovo codice dei contratti pubblici del 2016, come modificato nel 2017 e poi –come sopra ricordato- integrato nel dalla legge di bilancio 2018. Constano, allo stato, quali precedenti:
   - il regolamento adottato dalla Regione siciliana recante “Norme per la ripartizione degli incentivi da corrispondere al personale dell'Amministrazione regionale ai sensi dell'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recepito nella Regione Siciliana con legge regionale 12.07.2011, n. 12, come modificata dall'art. 24 della legge regionale 17.05.2016, n. 8”, su cui il CGARS si è espresso con parere n. 121/2018 reso nell’adunanza del 13.03.2018, spedito in data 16.03.2018;
   - l’ordinanza n. 57 del 04.07.2018 del Commissario straordinario per la ricostruzione delle zone colpite dal sisma del 2016, pubblicato nella G.U. n. 172 del 26.07.2018, che poggia però su una diversa e autonoma base giuridica, costituita dall’art. 2-bis del decreto-legge n. 148 del 2017, convertito, con modificazioni, nella legge n. 172 del 2017;
   - lo schema di regolamento del Ministero della giustizia, sottoposto a questo Consiglio di Stato con nota prot. n. 7598 in data 06.09.2018, che non risulta a ancora emanato. Su tale schema questa Sezione si è espressa con un ampio e approfondito parere interlocutorio n. 2324/2018, in esito all’adunanza del 20/09/2018. Tale parere fornisce le essenziali coordinate valutative in materia e verrà quindi qui ampiamente richiamato.
Lo schema di regolamento in esame, dunque, riveste indubbiamente un considerevole rilievo, in primo luogo per la specialissima importanza e il predominante peso che il MIT riveste nel campo dei lavori pubblici e inoltre perché esso dovrebbe costituire un essenziale parametro in vista della prossima adozione di analoghi atti da parte degli altri Ministeri e delle altre amministrazioni aggiudicatrici.
Al riguardo, atteso che l’art. 113 del Codice postula la emanazione di un numero prevedibilmente elevato di regolamenti da parte delle numerose amministrazioni pubbliche aggiudicatrici di lavori, servizi e forniture, la Sezione non può non segnalare con forza la necessità dell’esercizio di un incisivo ruolo di coordinamento di tali regolamenti da parte della Presidenza del Consiglio e in particolare del suo DAGL, onde evitare che le singole Amministrazioni affrontino la tematica in esame, per così dire, in ordine sparso.
Quanto allo schema in esame, va rilevata la mancanza di relazione tecnica, ovvero di “bollinatura” da parte della Ragioneria generale dello Stato, ovvero della attestazione della mancanza di oneri derivanti dalla sua applicazione. Tale mancanza non sembra poter essere surrogata dal parere espresso dall’Ufficio legislativo del Ministero dell’economia e delle finanze, cui peraltro nella sostanza lo schema in esame si attiene, e pertanto andrebbe sanata.
Per quanto riguarda la mancanza della relazione di AIR, la dichiarazione del Ministro di esenzione da tale adempimento, allegata allo schema in esame, appare conforme a quanto previsto all’art. 7, comma 2, del d.P.C.M. 15.09.2017, n. 169 “Regolamento recante disciplina sull'analisi dell'impatto della regolamentazione, la verifica dell'impatto della regolamentazione e la consultazione”, in virtù del quale “I regolamenti da adottare ai sensi dell'art. 17, comma 3, della legge 23.08.1988, n. 400, possono essere esentati dall'AIR, in ragione del ridotto impatto dell'intervento, con dichiarazione a firma del Ministro, da allegare alla richiesta di parere al Consiglio di Stato ed alla comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988.
Non può celarsi tuttavia che, nel caso in esame, la analisi di impatto della regolazione avrebbe potuto fornire utili elementi ai fini della valutazione della congruità della disciplina sottoposta, tanto più ove fosse stato operato un opportuno confronto con gli effetti prodotti finora dalla disciplina che il testo in esame mira ad abrogare (d.m. 17.03.2008, n. 84, “Regolamento recante norme per la ripartizione dell'incentivo di cui all'art. 92, comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”).
Richiamando dunque quanto già osservato dalla Sezione nel citato parere n. 2324/2018, deve osservarsi che, pur nelle novità del nuovo quadro normativo, rispetto a quello del previgente codice di settore del 2006 (artt. 92, comma 5, e 93, commi 7 ss., del d.lgs. n. 163 del 2006), l’istituto della remunerazione incentivante del personale dipendente della stazione appaltante per le attività tecniche afferenti alla programmazione, alla progettazione, alla gestione delle procedure selettive e alla realizzazione e collaudo dell’opera, dei lavori e, nei casi previsti, anche degli appalti di servizi e di forniture, non risulta radicalmente mutato nelle sue linee portanti e nelle sue precipue finalità, sicché resta utile un attento raffronto con la normativa regolamentare previgente (nel caso del Ministero, il suddetto d.m. 17.03.2008, n. 84), rispetto alla quale sarebbe stato opportuno poter disporre di un’approfondita V.I.R. (valutazione dell’impatto della regolazione), così da poter trarre spunto dalle criticità pregresse incontrate nell’applicazione della normativa previgente per affinamenti, miglioramenti, indicazioni anche innovative da inserire nel nuovo testo regolamentare.
Poiché non si rinviene nella documentazione trasmessa (ove, come detto, mancano sia la relazione tecnica, sia quella di AIR, sia quella di ATN) un tale raffronto tra il regime anteriore e quello che viene introdotto con il nuovo regolamento, si ritiene opportuno che l’Amministrazione provveda a fornire, con relazione integrativa, almeno una essenziale informazione circa i suddetti profili.
La sezione rileva altresì la novità procedurale che sembra caratterizzare la norma del 2016 rispetto a quella del 2006 e consistente nell’apparente inversione del rapporto fra il regolamento e la fonte di contrattazione collettiva: quest’ultima, nel quadro normativo vigente, segue il regolamento come suo sviluppo specificativo di dettaglio anziché precederlo (il comma 3 dell’art. 113 prevede infatti che: “L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, [ …]con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”).
Viceversa, l’art. 9, comma 5, del previgente Codice prevedeva che: “Una somma non superiore al 2 per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, […] è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, […]”. Con tutta evidenza, cioè, mentre nel sistema precedente al regolamento spettava solo di recepire quanto determinato in sede di contrattazione, nel regime del nuovo codice il regolamento sembra dover rappresentare il presupposto –la “base”– da cui potrà muovere la contrattazione decentrata integrativa per determinare le modalità e i criteri per la ripartizione del fondo.
Non spetta a questa sede valutare la maggiore o minore congruità, praticità ed efficacia della soluzione procedimentale adottata dal legislatore del nuovo Codice. Comunque, dall’esame degli atti, pare doversi desumere che nel caso in esame la contrattazione abbia preceduto la predisposizione dello schema di regolamento, e che quest’ultimo si sia limitato a recepirne i contenuti -in sostanza conformandosi al modello procedurale previgente- dettando una disciplina puntuale e dettagliata, non richiedente ulteriori specificazioni.
E infatti fra i “visti” viene riportato: “visto l’Accordo con le OO. SS. Del 19.09.2018 sulle modalità e criteri di ripartizione del fondo di cui all’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”; inoltre l’art. 7 dello schema in esame, dedicato a “modalità e i criteri di ripartizione del fondo”, riproduce testualmente l’art. 4 dell’accordo integrativo sottoscritto dalle organizzazioni sindacali, recante, fra l’altro, due dettagliate tabelle con le indicazioni percentuali degli importi assegnabili alle singole figure professionali. La stessa relazione illustrativa, del resto, asserisce che lo schema in esame disciplina le modalità e i criteri di attribuzione dell’incentivo, come concordato in sede di contrattazione decentrata integrativa.
Sotto l’anzidetto profilo, la relazione di analisi tecnico-normativa (ATN), la cui predisposizione ai sensi della direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 10 settembre 2008 è comunque obbligatoria, non che risolversi in un mero adempimento formale, avrebbe potuto fornire utili indicazioni circa il percorso logico e procedimentale seguito dall’amministrazione per pervenire alla redazione dello schema sottoposto al parere. Occorrerà pertanto che il Ministero fornisca chiarimenti al riguardo.
Tanto premesso, con riferimento all’articolato, e senza pretesa alcuna di esaustività, si formulano in via preliminare le seguenti osservazioni.
In generale, si raccomanda, quanto ai profili redazionali, il puntuale rispetto della Circolare della Presidenza del Consiglio del 20.04.2001, recante “Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi” (ad esempio, all’art. 4, comma 6, si faccia riferimento ai commi e non ai “punti”).
All’art. 1, sembra preferibile sostituire “dell’ente” con “del Ministero”.
L’art. 2 appare sostanzialmente ripetitivo (sia pure in forma certamente più intelligibile) di quanto disposto dall’art. 113, comma 2, più volte citato.
Sono note le ragioni –ampiamente richiamate nel citato parere n. 2324/2018- che militano da un lato avverso la riproduzione, in una fonte subordinata, delle disposizioni della fonte primaria e, dall’altro e in senso contrario, a favore della complessiva organicità e completezza dei regolamenti, ai fini della loro chiarezza e comprensibilità da parte dei destinatari della normativa.
Andrebbero comunque espunte dallo schema tutte quelle disposizioni che appaiono meramente ripetitive delle disposizioni di legge e che potrebbero essere sostituite da richiami alle medesime, senza comunque compromettere la sistematicità e leggibilità dello schema stesso.

L’art. 14, recante “rinvio dinamico e revisione” appare nella sostanza superfluo, dal momento che i commi 1 e 2 affermano nella sostanza la (ovvia) prevalenza delle fonti primarie sul regolamento e il comma 3 introduce una clausola relativa al monitoraggio ed eventuale revisione del regolamento certamente opportuna ma da specificare. Analoga considerazione riguarda l’art. 15, comma 3.
Valuti quindi il Ministero se sottoporre, insieme agli elementi informativi sopra richiesti, una eventuale nuova redazione dello schema.
Alla luce delle predette osservazioni e in attesa degli adempimenti sopra indicati, occorre dunque rinviare l’espressione del parere.
P.Q.M.
Pronunciando in via interlocutoria,
rinvia l’espressione del parere in attesa degli elementi sopra specificati (Consiglio di Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, parere 09.09.2019 n. 2368 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALINel nuovo ordinamento delle autonomie locali (d.lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 50, fonte primaria), competente a conferire al difensore del comune la procura alle liti è solo il sindaco, sicché la delibera della giunta comunale, quand'anche prevista dalla normativa secondaria rappresentata dallo statuto, resta un atto meramente gestionale e tecnico, privo di valenza esterna.
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  Rilevato che
   - il primo motivo è in parte inammissibile, in parte infondato;
   - per un verso si tratterebbe, in tesi, di omessa pronuncia sull'eccezione, in senso lato, indicata come formulata, e non del dedotto omesso esame, il cui regime normativo fa diversamente riferimento a un fatto storico discusso in istruttoria;
   - per altro verso i ricorrenti indicano di aver proposto l'eccezione in una non meglio specificata memoria di replica, senza chiarire quindi se sia stato un atto meramente illustrativo facente parte della discussione scritta finale, ovvero di altro atto assertivo, con una violazione degli artt. 366, nn. 3 e 6, cod. proc. civ., che non permette di constatare se si tratti di questione nuova, e come tale in questa sede preclusa, essendo sotteso, al rilievo, possibile anche d'ufficio, un accertamento in fatto (la presenza o meno della delibera, in funzione della decisione sulla sussistenza di valida procura);
   - nel merito, infine, la questione sarebbe stata comunque infondata, poiché questa Corte ha chiarito che, nel nuovo ordinamento delle autonomie locali (d.lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 50, fonte primaria), competente a conferire al difensore del comune la procura alle liti è solo il sindaco, sicché la delibera della giunta comunale, quand'anche prevista dalla normativa secondaria rappresentata dallo statuto, resta un atto meramente gestionale e tecnico, privo di valenza esterna (Cass., 23/03/2016, n. 5802, pag. 3, Cass., 21/06/2018, n. 16459, pagg. 4-5) (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 10.09.2019 n. 22526).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALIPer il Comune, soggetto legittimato a stare in giudizio, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., è soltanto il Sindaco (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non la giunta comunale, cosicché tale ultimo organo, anche laddove abbia, per statuto, il potere di autorizzare il Sindaco alla proposizione di azioni in giudizio, è privo del potere di nomina del difensore, il quale, seppure designato mediante delibera di giunta, deve nuovamente essere nominato, con conferimento di apposita procura alle liti, dal Sindaco.
La delibera della Giunta, siccome priva di valenza esterna, ha natura meramente gestionale e tecnica.

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Costituisce orientamento consolidato di questo giudice di legittimità quello secondo il quale, alla luce dei principi generali in tema di procura alle liti (artt. 83 e 365 c.p.c.) e di mandato (art. 1716 c.c., disciplinante l'ipotesi di pluralità di mandatari), ove il mandato alle liti venga conferito a più difensori, si presume che esso sia conferito disgiuntamente a ciascuno di essi, salvo inequivoca manifestazione di volontà della parte in favore del carattere congiuntivo del mandato, con la conseguenza che ciascuno dei difensori, in difetto di un'espressa ed inequivoca volontà della parte circa il carattere congiuntivo, e non disgiuntivo, del mandato medesimo, ha pieni poteri di rappresentanza processuale (Cass. 1168/2004; Cass. 13252/2006).
Ne deriva che non integra gli estremi della fattispecie normativa di cui all'art. 301 cod. proc. civ. (interruzione del processo per morte del procuratore) il decesso di uno solo dei due difensori muniti di mandato dal quale non risulti, espressamente, l'obbligo di agire congiuntamente, tanto che è stata ritenuta (Cass. 8189/1997; Cass. 8931/2000; Cass. 15293/2002) irrilevante la mancanza, nell'atto predetto, della espressione "anche disgiuntamente", la cui assenza non consente di ritenere escluso il potere di rappresentanza disgiunta in capo a ciascuno dei procuratori della parte.
Nella specie, nella procura alle liti allegata a margine dell'atto di appello era pacificamente apposta la clausola "con poteri anche disgiunti".
Ora, a fronte di ciò, il ricorrente invoca una deliberazione della Giunta comunale, con la quale, sulla base di specifica disposizione statutaria, sarebbe stato autorizzato il Sindaco a resistere in giudizio ed a proporre appello, conferendo mandato congiunto ai difensori.
Tuttavia, questa Corte ha chiarito che, per il Comune, soggetto legittimato a stare in giudizio, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., è soltanto il Sindaco (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non la giunta comunale, cosicché tale ultimo organo, anche laddove abbia, per statuto, il potere di autorizzare il Sindaco alla proposizione di azioni in giudizio, è privo del potere di nomina del difensore, il quale, seppure designato mediante delibera di giunta, deve nuovamente essere nominato, con conferimento di apposita procura alle liti, dal Sindaco (Cass. 18062/2010).
La delibera della Giunta, siccome priva di valenza esterna, ha natura meramente gestionale e tecnica (Cass. 11516/2007; Cass. 5802/2016).
Ne consegue che assume rilievo la sola procura alle liti conferita dal Sindaco, a margine dell'atto di appello, con poteri disgiunti ai due difensori, Avv.ti Ma. ed As., non anche la delibera della Giunta del 2001, con la quale, secondo quanto ritrascritto in ricorso, venivano incaricati "in maniera congiunta" i due avvocati ad "opporsi alla sentenza" di primo grado (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 21.06.2018 n. 16459).

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AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulle misure che incombono sul proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento.
Il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento, “…. ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia"”.
Nell’esaminare la portata dell’art. 245, comma 2, del T.U. il G.A. ha statuito che “…. letta alla stregua del principio giurisprudenziale comunitario sopra richiamato, il Collegio condivide quanto sostenuto da parte ricorrente in ordine al fatto che in capo ai soggetti non responsabili del fatto causativo del potenziale inquinamento non possa essere addebitato alcun obbligo di intervento al di fuori dell’invio della comunicazione ex art. 245 e della implementazione di eventuali misure di prevenzione; agli stessi, nondimeno, è riconosciuta una mera facoltà di intervenire spontaneamente nel procedimento per evitare di perdere la proprietà/disponibilità dell’area a seguito dell’esercizio dell’onere reale da parte della P.a.: facoltà che, anche ove manifestata (per l’area in proprietà), tuttavia non può costituire il presupposto per l’emanazione di un obbligo per interventi urgenti e di ripristino anche nelle aree limitrofe”.
Il legislatore contempla dunque, a carico del proprietario incolpevole, l’obbligo di eseguire misure di prevenzione “secondo la procedura di cui all'articolo 242” (art. 245, comma 2). La disposizione evocata così recita al comma 1: “Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304, comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione”.
Dunque, le misure di prevenzione si connotano per la loro immediatezza rispetto alla scoperta dell’evento inquinante. Come ha messo in luce questa Sezione nella già evocata pronuncia n. 897/2018 <<E’ pur vero che le medesime sono dovute anche per evitare i “rischi di aggravamento” della situazione di contaminazione, i quali devono essere tuttavia dimostrati o quanto meno ipotizzati come verosimili o probabili>>.
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2. Quanto alla parte finale del III e al IV motivo (imposizione di obblighi incoerenti con la posizione di proprietario incolpevole), nella memoria di replica Sy. ha chiarito (pagina 1) che la correttezza dell’individuazione del soggetto responsabile della contaminazione –tenuto ad eseguire la bonifica– non costituisce l’oggetto delle impugnative (la questione è stata tra l’altro sottoposta a questo TAR in un separato contenzioso con la Provincia di Mantova e la Società Ed.).
Posta questa precisazione, sul punto di diritto questa Sezione si riporta alle riflessioni sviluppate nella propria precedente pronuncia 24/09/2018 n. 897, per cui il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento, “…. ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” (TAR Piemonte, sez. I – 12/09/2016 n. 1142, che risulta appellata; Consiglio di Stato, sez. VI – 5/10/2016 n. 4119)”.
E’ stato richiamato anche il TAR Palermo, sez. I – 11/05/2018 n. 1061, il quale nell’esaminare la portata dell’art. 245, comma 2, del T.U. ha statuito che “…. letta alla stregua del principio giurisprudenziale comunitario sopra richiamato, il Collegio condivide quanto sostenuto da parte ricorrente in ordine al fatto che in capo ai soggetti non responsabili del fatto causativo del potenziale inquinamento non possa essere addebitato alcun obbligo di intervento al di fuori dell’invio della comunicazione ex art. 245 e della implementazione di eventuali misure di prevenzione; agli stessi, nondimeno, è riconosciuta una mera facoltà di intervenire spontaneamente nel procedimento per evitare di perdere la proprietà/disponibilità dell’area a seguito dell’esercizio dell’onere reale da parte della P.a.: facoltà che, anche ove manifestata (per l’area in proprietà), tuttavia non può costituire il presupposto per l’emanazione di un obbligo per interventi urgenti e di ripristino anche nelle aree limitrofe”.
2.1 Il legislatore contempla dunque, a carico del proprietario incolpevole, l’obbligo di eseguire misure di prevenzionesecondo la procedura di cui all'articolo 242” (art. 245, comma 2). La disposizione evocata così recita al comma 1: “Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304, comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione”.
2.2 Dunque, le misure di prevenzione si connotano per la loro immediatezza rispetto alla scoperta dell’evento inquinante. Come ha messo in luce questa Sezione nella già evocata pronuncia n. 897/2018 <<E’ pur vero che le medesime sono dovute anche per evitare i “rischi di aggravamento” della situazione di contaminazione, i quali devono essere tuttavia dimostrati o quanto meno ipotizzati come verosimili o probabili>>.
Sulla base degli accertamenti ARPA, la nota impugnata individua ulteriori “misure di prevenzione”, con una qualificazione resa si rivela appropriata sulla base dell’oggettivo riscontro della presenza del prodotto inquinante. Se l’astratta classificazione della prescrizione si rivela corretta, permane l’obbligo giuridico di valutare l’efficacia delle misure, messa in discussione dalla ricorrente con deduzioni non adeguatamente approfondite dall’amministrazione (che non le ha contestate, neppure in giudizio) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.09.2019 n. 797 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAL’assunzione volontaria –da parte della ricorrente– degli obblighi di risanamento ambientale determinerebbe la conseguente impossibilità, per la stessa, di sottrarsi a tutti i connessi adempimenti, a prescindere dagli obblighi imposti ex lege, va evidenziato come la volontà di partecipare fattivamente alla prevenzione dei rischi provenienti dall’area non possa che trovare applicazione nei ragionevoli limiti delle attività naturalmente conseguenziali alla manifestazione di volontà di farsene carico.
Infatti “L'atto volontario di impegno all'intervento di messa in sicurezza implica l'assunzione di un sacrificio patrimoniale, da contenere però nei limiti della normalità, e cioè della prevedibilità. Il contenuto del giudizio (di prevedibilità) attiene in questo caso alla misura del proprio intervento come conseguenza probabile dell'iniziativa assunta. In altri termini non si può ritenere che mediante la comunicazione ex art. 17, comma 13-bis, del Dlgs. n. 22/1997 e 9 del Dm. 471/1999, il proprietario incolpevole si renda disponibile all'esecuzione di qualsiasi intervento, ma solo di quelli in quel momento prevedibili, secondo criteri di normalità.”
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Ai sensi del combinato disposto degli articoli 240, comma 1, lettera i) e 245, comma 2, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) il proprietario o gestore dei terreni, ancorché non responsabile dell’inquinamento, è tenuto a porre in essere adeguate misure di prevenzione, ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
Secondo i principi affermatisi in materia fin dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato 25.09.2013, n. 21 “dalle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 152/2006 (in particolare, nel Titolo V della Parte IV) possono ricavarsi le seguenti regole:
   1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. 1), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”;
   2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);
   3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dalla p.a. competente (art. 244, comma 4);
   4) le spese sostenute per effettuare tali interventi potranno essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo piuttosto in rivalsa verso il proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
   5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)”.
Il proprietario del terreno al quale non sia imputabile la situazione di contaminazione ha quindi l’obbligo di intervenire direttamente solo nel caso di minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, ovvero per le operazioni che devono essere eseguite nell’immediatezza e senza ritardo, anche a prescindere da ogni accertamento sui ruoli rivestiti e sulle responsabilità. Diversamente, per le attività successive non sono più configurabili obblighi di facere in capo al proprietario incolpevole, pur restando salva la sua responsabilità patrimoniale nei limiti del valore venale del bene all'esito degli interventi da compiere, conformemente a quanto dispone l’articolo 253 del Codice dell’ambiente.
Detto orientamento è stato ritenuto conforme all’ordinamento europeo dalla Corte di Giustizia secondo cui “la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale (…) la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi”.
Gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano quindi unicamente sul responsabile dell’inquinamento, secondo il principio eurounitario “chi inquina paga” di cui all’articolo 191 TFUE, sul quale è fondata la responsabilità ambientale, salva l’ipotesi di un intervento volontario del proprietario incolpevole ai sensi dell’articolo 9 del D.M. n. 471 del 1999 e dell’articolo 245, comma 2, ultimo periodo, del T.U. n. 152/2006.
Il Consiglio di Stato ha osservato, conformemente, che “Ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato)”.
Rientrano pertanto negli oneri a carico del responsabile incolpevole le misure di precauzione e non anche le indagini di caratterizzazione, identificabili ai sensi dell’Allegato 2 del Titolo V della Parte IV del TUA, con l’insieme delle attività che permettono di ricostruire i fenomeni di contaminazione a carico delle matrici ambientali, in modo da ottenere informazioni di base su cui prendere decisioni realizzabili e sostenibili per la messa in sicurezza e/o bonifica del sito.
Infatti se “vale nel nostro ordinamento il principio “chi inquina paga”, da intendersi, secondo l’orientamento costante della Corte di Giustizia, nel senso che colui che deve sostenere le spese (comprese quelle delle indagini) connesse alla messa in sicurezza e alla rimozione dell’inquinamento è colui che, con il proprio comportamento, abbia concretamente partecipato all’inquinamento o omesso di impedire il suo verificarsi, allora nemmeno il piano di caratterizzazione, che si presuppone debba essere redatto dal responsabile dell’inquinamento può essere imposto al curatore fallimentare, al quale non siano imputabili condotte causative dell’inquinamento”.
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2. Deve essere preliminarmente chiarito, in relazione alle difese spiegate da Ed. s.p.a., come la tematica della responsabilità di detta società per la contaminazione dei terreni dell’area di cui è questione esuli dall’oggetto del presente giudizio, diretto diversamente a censurare alcune prescrizioni imposte a Ve. dalle resistenti amministrazioni nell’ambito delle attività di prevenzione e messa in sicurezza del sito, sulla scorta del solo titolo proprietario e a prescindere all’individuazione dell’imputabilità dell’inquinamento e delle quali la Società ricorrente denuncia, conseguentemente, l’illegittimità sotto il profilo del travisamento dei fatti e dell’irragionevolezza, oltre che della carenza di istruttoria.
3. Ulteriormente, per quanto riguarda l’argomento illustrato dalla controinteressata, secondo cui l’assunzione volontaria –da parte della ricorrente– degli obblighi di risanamento ambientale determinerebbe la conseguente impossibilità, per la stessa, di sottrarsi a tutti i connessi adempimenti, a prescindere dagli obblighi imposti ex lege, va evidenziato come la volontà di partecipare fattivamente alla prevenzione dei rischi provenienti dall’area non possa che trovare applicazione nei ragionevoli limiti delle attività naturalmente conseguenziali alla manifestazione di volontà di farsene carico.
Infatti “L'atto volontario di impegno all'intervento di messa in sicurezza implica l'assunzione di un sacrificio patrimoniale, da contenere però nei limiti della normalità, e cioè della prevedibilità. Il contenuto del giudizio (di prevedibilità) attiene in questo caso alla misura del proprio intervento come conseguenza probabile dell'iniziativa assunta. In altri termini non si può ritenere che mediante la comunicazione ex art. 17, comma 13-bis, del Dlgs. n. 22/1997 e 9 del Dm. 471/1999, il proprietario incolpevole si renda disponibile all'esecuzione di qualsiasi intervento, ma solo di quelli in quel momento prevedibili, secondo criteri di normalità.” (TAR Marche, Ancona, Sez. I, 05.08.2009, n. 857; id. TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 16.03.2006, n. 291).
4. L’attivazione del procedimento di risanamento da parte del proprietario del sito non esonera quindi l’amministrazione dall’individuazione del responsabile della contaminazione.
5. Per quanto riguarda invece gli obblighi di risanamento ambientale imposti non su base volontaria ma per legge, con il primo motivo la società ricorrente denuncia l’illegittimità degli atti gravati in quanto l’integrazione della caratterizzazione ivi richiesta rientra nelle attività di bonifica e non fa parte delle misure di prevenzione la cui adozione può essere pretesa dal proprietario incolpevole.
6. Ai sensi del combinato disposto degli articoli 240, comma 1, lettera i) e 245, comma 2, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) il proprietario o gestore dei terreni, ancorché non responsabile dell’inquinamento, è tenuto a porre in essere adeguate misure di prevenzione, ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
7. Secondo i principi affermatisi in materia fin dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato 25.09.2013, n. 21 “dalle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 152/2006 (in particolare, nel Titolo V della Parte IV) possono ricavarsi le seguenti regole:
1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. 1), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”;
2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dalla p.a. competente (art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi potranno essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo piuttosto in rivalsa verso il proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)
” (Cons. Stato, sez. VI, 16.07.2015, n. 3544; id. ex multis TAR Lombardia, Brescia Sez. I, 31.07.2018, n. 766).
8. Il proprietario del terreno al quale non sia imputabile la situazione di contaminazione ha quindi l’obbligo di intervenire direttamente solo nel caso di minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, ovvero per le operazioni che devono essere eseguite nell’immediatezza e senza ritardo, anche a prescindere da ogni accertamento sui ruoli rivestiti e sulle responsabilità. Diversamente, per le attività successive non sono più configurabili obblighi di facere in capo al proprietario incolpevole, pur restando salva la sua responsabilità patrimoniale nei limiti del valore venale del bene all'esito degli interventi da compiere, conformemente a quanto dispone l’articolo 253 del Codice dell’ambiente (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 13.03.2017, n. 364).
9. Detto orientamento è stato ritenuto conforme all’ordinamento europeo dalla Corte di Giustizia secondo cui “la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale (…) la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi” (sentenza 04.03.2015 resa nella causa C-534/13).
10. Gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano quindi unicamente sul responsabile dell’inquinamento, secondo il principio eurounitario “chi inquina paga” di cui all’articolo 191 TFUE, sul quale è fondata la responsabilità ambientale, salva l’ipotesi di un intervento volontario del proprietario incolpevole ai sensi dell’articolo 9 del D.M. n. 471 del 1999 e dell’articolo 245, comma 2, ultimo periodo, del T.U. n. 152/2006.
11. La V sezione del Consiglio di Stato ha osservato, conformemente, che “Ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato)” (Cons. Stato, Sez. V, 14.04.2016, n. 1509).
12. Rientrano pertanto negli oneri a carico del responsabile incolpevole le misure di precauzione e non anche le indagini di caratterizzazione, identificabili ai sensi dell’Allegato 2 del Titolo V della Parte IV del TUA, con l’insieme delle attività che permettono di ricostruire i fenomeni di contaminazione a carico delle matrici ambientali, in modo da ottenere informazioni di base su cui prendere decisioni realizzabili e sostenibili per la messa in sicurezza e/o bonifica del sito.
13. Infatti se “vale nel nostro ordinamento il principio “chi inquina paga”, da intendersi, secondo l’orientamento costante della Corte di Giustizia, nel senso che colui che deve sostenere le spese (comprese quelle delle indagini) connesse alla messa in sicurezza e alla rimozione dell’inquinamento è colui che, con il proprio comportamento, abbia concretamente partecipato all’inquinamento o omesso di impedire il suo verificarsi, allora nemmeno il piano di caratterizzazione, che si presuppone debba essere redatto dal responsabile dell’inquinamento può essere imposto al curatore fallimentare, al quale non siano imputabili condotte causative dell’inquinamento” (Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 09.01.2017, n. 38) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 03.09.2019 n. 794 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Abbandono e responsabilità.
Mentre il comando di cui all'art. 14, comma 3 (ora art. 192, comma 3 d.lgs. 152/2006) è rivolto ai responsabili dell'abbandono di rifiuti e ai proprietari del terreno inquinato, il precetto dell'art. 50, comma 2 (ora art. 255, comma 3, d.lgs. 152/2006) è rivolto ai destinatari formali dell'ordinanza sindacale; di modo che spetta a costoro, per evitare di rendersi responsabili dell'inottemperanza, di ottenere l'annullamento dell'ordinanza sindacale per via amministrativa o per via giurisdizionale, o -al limite- di provare in sede penale di non essere proprietari del terreno né responsabili dell'abbandono, al fine di ottenere dal giudice penale la disapplicazione dell'ordinanza per illegittimità (cioè per mancanza dei presupposti soggettivi).
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La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, nel considerare i rapporti tra la disciplina generale dei rifiuti e quella contenuta in norme specifiche, la legge n. 257 del 1992 riguarda, in via principale, la cessazione dell'impiego dell'amianto e si occupa dei rifiuti di amianto per la realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica delle aree interessate dall'inquinamento di amianto, e contempla fra i "rifiuti di amianto" qualsiasi sostanza o qualsiasi oggetto che abbia perso la sua destinazione d'uso e che possa disperdere fibre di amianto nell'ambiente in determinate concentrazioni applicabili, e che in tali casi si deve avere riguardo alla legge n. 257 medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti.
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RITENUTO IN FATTO
1. Con l'impugnata sentenza, la Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima città con la quale Ge.Ez.Gi. era stato condannato, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in misura equivalente alla recidiva, alla pena di mesi quattro di arresto, in ordine al reato di cui all'art. 255, comma 3, del d.lvo n. 152 del 2006 (diversamente qualificata l'originaria imputazione di cui all'art. 452-terdecies cod. pen.), per avere, quale legale rappresentante della Im.No.Br. srl, non ottemperato all'ordinanza sindacale e relativa diffida, emanata dal Sindaco di Milano, ai sensi dell'art. 192, comma 3, del medesimo decreto, con la quale si intimava di rimuovere la copertura di amianto su un immobile di proprietà della medesima società. In Milano dal 20/05/2015 e tutt'ora permanente.
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l'imputato, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l'annullamento deducendo due motivi di ricorso.
   - Violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione all'erronea applicazione degli artt. 192 e 255, comma 3, del d.lvo n. 152 del 2006.
La corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto integrata la fattispecie penale sul mero dato dell'inottemperanza dell'ordinanza emessa ex art. 192 cit., senza verificare la legittimità di questa e senza verificare che l'omissione riguardasse un rifiuto ai sensi dell'art. 183 del medesimo decreto, e senza verificare la ricorrenza di una condotta di abbandono o deposito.
Non avrebbe poi considerato che il pignoramento immobiliare e la crisi economica in cui versava l'imputato gli avrebbero impedito qualunque intervento e dunque l'osservanza dell'ordinanza sindacale. Nel caso de quo non si potrebbe ravvisare il reato in assenza di abbandono del rifiuto, poiché si trattava di un tetto contenente amianto diventato potenzialmente pericoloso che non è stato dismesso per le ragioni evidenziate, sicché mancherebbe la volontà dismissiva di abbandono.
   - Vizio di motivazione in relazione alla manifesta illogicità e contraddittorietà e travisamento dell'esame dell'imputato con riguardo all'impossibilità di adempiere in ragione del pignoramento immobiliare e della crisi economica, circostanze che, ciascuna di esse, escludevano la volontà di non adempiere per oggettiva impossibilità.
3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è fondato nei limiti e per le ragioni di cui in motivazione.
5. Secondo quanto risulta dalle conformi sentenze di merito, insindacabile in questa sede in presenza di congrua motivazione, era stata accertata l'omessa rimozione della copertura in amianto di un tetto di un immobile di proprietà della società di cui il Ge. è il legale rappresentante, a seguito di diffida del Sindaco del comune di Milano in data 16/10/2013, e successiva ordinanza, emessa il 02/07/2014 (notificata al Ge. il 07/07/2014), ex art. 50 TU Enti Locali, rimasta ineseguita alla data dell'accertamento il 29/05/2015.
Sulla scorta di tali elementi di fatto, i giudici del merito, diversamente qualificata l'originaria imputazione di violazione dell'art. 452- terdecies cod. pen., hanno condannato il Ge. per la contravvenzione di cui all'art. 255, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, per l'inottemperanza all'ordinanza di rimozione dei rifiuti emessa ai sensi dell'art. 192, comma 3, del medesimo decreto.
6. Occorre muovere dall'esegesi dalle norme giuridiche che regolano la materia e segnatamente dall'art. 255, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, art. 192, comma 1 e 3, del medesimo decreto.
Gli elementi essenziali della fattispecie penale di cui all'art. 255, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, che punisce "chiunque non ottempera all'ordinanza del Sindaco, di cui all' articolo 192, comma 3, o non adempie all'obbligo di cui all'articolo 187, comma 3, è punito con la pena dell'arresto fino ad un anno", sono l'esistenza di un'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti, emessa ex art. 192 cit., e la condotta di inottemperanza da parte dei destinatari dell'ordinanza stessa.
Come chiarito dalle sentenze di Questa Terza Sezione della Corte di cassazione Grispo e Viti,
trattasi -nonostante l'apparenza contraria indotta dal riferimento lessicale a "chiunque"- di un reato proprio, che può essere commesso solo dai destinatari formali dell'ordinanza (Sez. 3, n. 24724 del 15/05/2007, Grispo, Rv. 236954 - 01; Sez. 3, n. 31003 del 10/07/2002, P.M. in proc. Viti M ed altro, Rv. 222421).
In particolare, la pronuncia Grispo mette in luce i diversi destinatari dei diversi obblighi, inizialmente dettati dagli artt. 14 e 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 (cd. Decreto Ronchi), la cui disciplina è stata poi trasfusa nell'attuale d.lgs. n. 152 del 2006 che regola il settore.
L'art. 14 del Decreto Ronchi individuava il soggetto obbligato alla rimozione ed al ripristino nella persona che ha violato il divieto di abbandono, al quale è affiancato in solido il proprietario del sito (o il titolare di diritti di godimento sulla area) solo se la violazione gli sia imputabile "a titolo di dolo o di colpa".
Accanto al generale divieto di abbandono dei rifiuti e al correlato obbligo di rimozione in capo a colui che ha proceduto all'abbandono (ed alla posizione del proprietario "incolpevole"), si colloca l'ordinanza sindacale di rimozione, smaltimento e ripristino dei luoghi, prevista dall'art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 22 del 1997, ora D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 192, comma 3. In tale ambito si era, in particolare chiarito, che l'ordinanza emessa ex art. 14, comma 3, ora art. 192, comma 3 cit., può essere emanata solo nei confronti dei soggetti che hanno abbandonato i rifiuti.

Sempre la pronuncia Grispo si riallaccia e ripete i principi fissati dalla precedente sentenza (Sez. 3, n. 31003 del 10/07/2002, P.M. in proc. Viti ed altro, Rv. 222421), che evidenziava come,
mentre il comando di cui all'art. 14, comma 3, è rivolto ai responsabili dell'abbandono di rifiuti e ai proprietari del terreno inquinato, il precetto dell'art. 50, comma 2, è rivolto ai destinatari formali dell'ordinanza sindacale; di modo che spetta a costoro, per evitare di rendersi responsabili dell'inottemperanza, di ottenere l'annullamento dell'ordinanza sindacale per via amministrativa o per via giurisdizionale, o -al limite- di provare in sede penale di non essere proprietari del terreno né responsabili dell'abbandono, al fine di ottenere dal giudice penale la disapplicazione dell'ordinanza per illegittimità (cioè per mancanza dei presupposti soggettivi).
Mentre onere dell'organo dell'accusa è solo quello di provare gli elementi essenziali del reato previsto dall'art. 50, comma 2, D.Lgs. 22/1997, oggi dall'art. 255, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, ossia, da una parte, l'esistenza dell'ordinanza sindacale, emessa ai sensi dell'art. 192 cit., assistita da presunzione di legittimità e, dall'altra, l'inottemperanza da parte dei suoi destinatari.
7. Ora, quanto al caso in scrutinio, la corte territoriale non ha adeguatamente chiarito se si trattava di un'ipotesi di abbandono costituente presupposto per l'adozione dell'ordinanza ex art. 193, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, ovvero di inottemperanza al dictum di un provvedimento amministrativo, legalmente dato ai sensi dell'art. 50, comma 5, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, da cui la rilevanza della questione di diritto posta dal ricorrente, di configurazione della violazione dell'art. 650 cod. pen. E ciò in quanto solo l'inottemperanza all'ordinanza sindacale emessa ai sensi dell'art. 193, comma 3, cit., è assistita dalla sanzione penale ex art. 255, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006.
In tale ambito, incidentalmente rileva, il Collegio, che
la giurisprudenza di legittimità ha, ancora di recente, chiarito che, nel considerare i rapporti tra la disciplina generale dei rifiuti e quella contenuta in norme specifiche, ha affermato che la legge n. 257 del 1992 riguarda, in via principale, la cessazione dell'impiego dell'amianto e si occupa dei rifiuti di amianto per la realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica delle aree interessate dall'inquinamento di amianto, e contempla fra i "rifiuti di amianto" qualsiasi sostanza o qualsiasi oggetto che abbia perso la sua destinazione d'uso e che possa disperdere fibre di amianto nell'ambiente in determinate concentrazioni applicabili, e che in tali casi si deve avere riguardo alla legge n. 257 medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti (Sez. 3, n. 31398 del 10/07/2018; Sez. 3, n. 31011 del 18/06/2002, Zatti, Rv. 222390, non massimata sul punto).
8. In accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza va annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte d'appello di Milano. Resta assorbito il secondo motivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2019 n. 31310).

IN EVIDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI – Rimozione della copertura di amianto – Inottemperanza all’ordinanza sindacale – Art. 50 TU Enti Locali – Abbandono – Responsabilità – Artt. 183, 192 e 255, c. 3, d.L.vo n. 152/2006 – art. 452-terdecies cod. pen.
Gli elementi essenziali della fattispecie penale di cui all’art. 255, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, che punisce “chiunque non ottempera all’ordinanza del Sindaco, di cui all’ articolo 192, comma 3, o non adempie all’obbligo di cui all’articolo 187, comma 3, è punito con la pena dell’arresto fino ad un anno”, sono l’esistenza di un’ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti, emessa ex art. 192 (codice dell’ambiente), e la condotta di inottemperanza da parte dei destinatari dell’ordinanza stessa.
Accanto al generale divieto di abbandono dei rifiuti e al correlato obbligo di rimozione in capo a colui che ha proceduto all’abbandono (ed alla posizione del proprietario “incolpevole”), si colloca l’ordinanza sindacale di rimozione, smaltimento e ripristino dei luoghi.
Tale ordinanza, emessa ex art. 192, comma 3, T.U.A., può essere emanata solo nei confronti dei soggetti che hanno abbandonato i rifiuti.
Rimanendo, comunque, ferma la possibilità di provare in sede penale di non essere proprietari del terreno né responsabili dell’abbandono, al fine di ottenere dal giudice penale la disapplicazione dell’ordinanza per illegittimità (cioè per mancanza dei presupposti soggettivi).

...
RIFIUTI – AMIANTO – Rapporti tra la disciplina generale dei rifiuti e quella contenuta in norme specifiche sull’amianto – L. n. 257/1992 – Applicazione – Giurisprudenza.
In tema di rapporti tra la disciplina generale dei rifiuti e quella contenuta in norme specifiche, la legge n. 257 del 1992 riguarda, in via principale, la cessazione dell’impiego dell’amianto e si occupa dei rifiuti di amianto per la realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica delle aree interessate dall’inquinamento di amianto, e contempla fra i “rifiuti di amianto” qualsiasi sostanza o qualsiasi oggetto che abbia perso la sua destinazione d’uso e che possa disperdere fibre di amianto nell’ambiente in determinate concentrazioni applicabili; in tali casi si deve avere riguardo alla legge n. 257 medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti (Sez. 3, n. 31398 del 10/07/2018; Sez. 3, n. 31011 del 18/06/2002, Zatti) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2019 n. 31310 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti contenenti amianto.
Con riferimento ai rifiuti contenenti amianto la disciplina generale dei rifiuti è applicabile in tutti i casi non disciplinati in modo specifico dalla legge.
La eterogeneità dei rifiuti e l'assenza di cautele volte ad impedire pericoli o lesioni dell'integrità dell'ambiente sono dati fattuali certamente indicativi della presenza di un deposito incontrollato.
L'applicazione di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti fa sì che l'onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge debba essere assolto da colui che ne richiede l'applicazione.

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La giurisprudenza di questa Corte nel considerare i rapporti tra la disciplina generale dei rifiuti e quella contenuta in norme specifiche ha affermato, tra l'altro, che la legge n. 257 del 1992 riguarda, in via principale, la cessazione dell'impiego dell'amianto e si occupa dei rifiuti di amianto per la realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica delle aree interessate dall'inquinamento di amianto, cosicché contempla fra i "rifiuti di amianto" qualsiasi sostanza o qualsiasi oggetto che abbia perso la sua destinazione d'uso e che possa disperdere fibre di amianto nell'ambiente in determinate concentrazioni applicabili, però, alle attività disciplinate dalla legge n. 257 medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti.
Dunque nei casi in precedenza esaminati si tratta, come si è detto, di disposizioni speciali rispetto a quelle generali in materia di rifiuti, con la conseguenza che la disciplina generale sarà applicabile in tutti i casi non disciplinati in modo specifico.
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Nel nostro ordinamento, i presidi di sicurezza in materia di rifiuti pericolosi contenenti amianto sono specificamente previsti non solo dalla norma generale dell'art. 183 del D.Lgs. cit. ma anche dal D.M. 29.07.2004, n. 248 e da quelli del D.M. Sanità 06.09.1994, D.M. Sanità 26.10.1995 e D.M. Sanità 20.08.1999, sicché anche la mancanza di presidi di sicurezza, come adeguatamente accertato nel caso in esame dai Giudici del merito, determina l'abbandono dei rifiuti, escludendo la configurabilità del deposito temporaneo.
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RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di L'Aquila, con sentenza dell'08/07/2016 ha parzialmente riformato la sentenza in data 18/05/2015 il Tribunale di Chieti, dichiarando l'imputato non punibile in riferimento ai fatti di cui ai punti B) e C) dell'imputazione ai sensi dell'art. 649 cod. proc. pen. e rideterminando la pena relativamente alla residua condotta, contestata al punto A) della medesima imputazione a Ro.CA. e concernente la violazione dell'art. 256, comma 1, lett. b), d.lgs. 152/2006, per avere effettuato in un sito di sua proprietà, quale titolare di un ditta artigianale, un deposito incontrollato di rifiuti pericolosi costituiti da materiale cementizio tipo "eternit": vasche, onduline e raccordi di tubo contenenti fibre di amianto (fatto accertato in Guardiagrele, il 25/09/2012).
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge, affermando che la sentenza impugnata sarebbe fondata sull'erroneo presupposto che tutti i materiali contenenti amianto siano pericolosi, prescindendo da ogni accertamento tecnico, così configurandosi in ogni caso, con la mera detenzione o il deposito in un'area privata, un "deposito temporaneo di rifiuti pericolosi", soggetto alla relativa disciplina.
Aggiunge che la sentenza impugnata sarebbe stata assunta in violazione di plurime disposizioni di legge, poiché nessuna norma consentirebbe di qualificare, a priori, come pericoloso il materiale contenente amianto ed, inoltre, i dd.mm. 29/07/2004 n. 248, 26/10/1995 e 20/08/1999, sarebbero destinati agli operatori di settore e non anche ai privati, mentre la Corte di appello avrebbe dovuto considerare quanto disposto dal d.m. 06/09/1994.
Rileva che nella relazione dell'ARTA (allegata al ricorso) non vi sarebbe alcun riferimento alla esecuzione di prove destinate ad accertare il grado di conservazione dei materiali rinvenuti ed il coefficiente di dispersione delle fibra.
3. Con un secondo motivo di ricorso denuncia la violazione di legge, osservando che la Corte di appello avrebbe erroneamente qualificato il materiale rinvenuto come rifiuto, pur avendo egli contestato tale natura, ritenendone necessario lo smaltimento che, invece, in base a quanto disposto dall'art. 2 l. 257/1992 e dagli artt. 1 e 7 dell'Allegato 1 al d.m. 06/09/1994, sarebbe obbligatorio solo in caso di pericolo di dispersione delle relative fibre dovuto ad un cattivo stato di conservazione della sostanza o ad interventi di manutenzione.
Aggiunge che il materiale probatorio acquisito nel giudizio di merito non consentirebbe di supportare le conclusioni adottate dalla Corte di appello, non risultando eseguite le necessarie prove tecniche per attribuire al materiale rinvenuto la natura di rifiuto pericoloso.
4. Con un terzo motivo di ricorso lamenta il vizio di motivazione, rilevando che la sentenza avrebbe erroneamente qualificato l'area oggetto di accertamento come aperta al pubblico ed il deposito del materiale quale deposito incontrollato.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Nella sentenza impugnata viene data atto che, nell'appello, la difesa aveva dedotto, con riferimento ai beni contenenti amianto rinvenuti nell'area oggetto di controllo, che gli stessi, acquistati in precedenza dalla società dell'imputato "come beni in libera vendita", erano stati poi rinvenuti in locali originariamente destinati a magazzino e collocati all'esterno, su bancali di legno, in attesa che una società destinata al loro smaltimento ne curasse il ritiro.
Sulla base di tale premessa l'appellante osservava anche che, all'atto del controllo, non era ancora spirato il termine annuale di cui all'art. 183 d.lgs. 152/2006. 
2. Alla luce di tali premesse risulta, dunque, evidente che i materiali rinvenuti erano certamente rifiuti, emergendo, dalle affermazioni contenute nell'atto di appello, che il detentore aveva l'intenzione di disfarsene, tanto che li aveva destinati allo smaltimento rivolgendosi ad una società che avrebbe dovuto curarne il ritiro.
E' appena il caso di ricordare, infatti, che secondo quanto disposto dall'art. 183, comma 1, lettera a), d.lgs. 152/2006, nella sua attuale formulazione, deve ritenersi rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disti o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi».
3. E' altrettanto evidente che l'appellante, richiamando l'art. 183 e riferendosi ad un termine annuale, aveva inteso riferirsi all'istituto del deposito temporaneo, all'epoca dei fatti definito, nel medesimo art. 183, alla lettera bb), come il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti o, per gli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del codice civile, presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci.
Il deposito temporaneo, sempre secondo la richiamata disposizione nella formulazione vigente all'epoca dei fatti, era soggetto alle seguenti condizioni:
   - i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di cui al regolamento (CE) 850/2004, e successive modificazioni, devono essere depositati nel rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l'imballaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e gestiti conformemente al suddetto regolamento;
   - i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti:con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il predetto limite all'anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno;
   - il "deposito temporaneo" deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute;
   - devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura delle sostanze pericolose;
   - per alcune categorie di rifiuto, individuate con decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministero per lo sviluppo economico, sono fissate le modalità di gestione del deposito temporaneo.
4. A tali specifiche censure si è dunque riferita la Corte territoriale, la quale, seppure talvolta con termini non del tutto pertinenti alla materia trattata, ha chiaramente e motivatamente escluso la sussistenza dei presupposti per la sussistenza di un deposito temporaneo.
In particolare, i giudici del gravame hanno preso in considerazione il luogo ove i rifiuti erano depositati e le modalità di collocazione degli stessi e, affermando che i rifiuti erano in un'area aperta accessibile a tutti, in un posto che non era un "cantiere di lavoro", si riferiscono chiaramente al fatto che il raggruppamento era avvenuto in luogo diverso da quello di produzione del rifiuto e che le modalità di deposito non erano compatibili con quelle indicate dalla norma di riferimento, come meglio si intende successivamente, laddove si esclude espressamente la sussistenza dei presupposti per il deposito temporaneo, ritenendosi in definitiva configurabile, nella fattispecie, il deposito incontrollato di cui all'imputazione.
Invero,
la eterogeneità dei rifiuti e l'assenza di cautele volte ad impedire pericoli o lesioni dell'integrità dell'ambiente sono dati fattuali certamente indicativi della presenza di un deposito incontrollato.
Va peraltro osservato che, invocando l'applicazione, nel caso in esame, della disciplina del deposito temporaneo, l'imputato avrebbe dovuto dimostrare la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge, poiché, come più volte affermato da questa Corte,
l'applicazione di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti fa sì che l'onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge debba essere assolto da colui che ne richiede l'applicazione (v., con riferimento al deposito temporaneo Sez. 3, n. 15680 del 03/03/2010, Abbatino, non massimata; Sez. 3, n. 21587 del 17/03/2004, Marucci, non massimata; Sez. 3, n. 30647 del 15/06/2004, Dell'Angelo, non nnassimata).
5. Il ricorso, tuttavia, non prende in considerazione, se non in parte, gli argomenti sviluppati dalla Corte di appello e, continuando a negare la natura di rifiuto del materiale rinvenuto, natura che, però, come si è detto, nell'atto di appello aveva chiaramente riconosciuto, sposta l'attenzione sulla disciplina applicabile ai rifiuti contenenti amianto con le considerazioni sintetizzate in premessa e riferite al primo motivo di ricorso.
6. Va preliminarmente osservato, a tale proposito, che il Titolo Terzo della Parte Quarta del d.lgs. 152/2006 si occupa, come è noto, della gestione di categorie particolari di rifiuti. Ciò, come si legge nella relazione illustrativa, ha lo scopo di costituire un raccordo con la legislazione comunitaria e nazionale intervenuta dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 22/1997, di introdurre nuove fattispecie sulla scorta dell'esperienza maturata nella prassi operativa sotto la vigenza del "decreto Ronchi" e di adeguare ai criteri direttivi dei sistemi di gestione anche i preesistenti consorzi obbligatori.
Si è così ricavato un sistema di norme che riguarda il raccordo con le discipline speciali, attinenti, tra l'altro, anche al recupero di rifiuti e beni contenenti amianto.
In particolare, l'articolo 227 del d.lgs. 152/2006, nello stabilire che restano ferme le disposizioni speciali, nazionali e comunitarie relative alle altre tipologie di rifiuti, menziona in particolare, per quel che qui rileva, al comma 1, lett. d), il d.m. 29.07.2004, n. 248 con riferimento al recupero dei rifiuti dei beni e prodotti contenenti amianto.
Tale decreto contiene il regolamento relativo alla determinazione e disciplina delle attività di recupero dei prodotti e beni di amianto e contenenti amianto e adotta, ai sensi dell'articolo 6, comma 4, della legge 257/1992, i disciplinari tecnici sulle modalità per il trasporto ed il deposito dei rifiuti di amianto, nonché sul trattamento, sull'imballaggio e sulla ricopertura dei rifiuti medesimi nelle discariche (tra l'altro, nell'allegato A, al punto 3, relativo alla gestione dei rifiuti contenenti amianto, ai nn. 2 e 3 vi sono indicazioni specifiche per il loro deposito temporaneo).
La legge 27.03.1992, n. 257, recante "Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto" riguarda, tra l'altro, l'utilizzazione in genere e lo smaltimento, nel territorio nazionale, dell'amianto e dei prodotti che lo contengono, la cessazione della sua utilizzazione e la realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica delle aree interessate dall'inquinamento da amianto.
L'articolo 12, comma 6, precisa, inoltre, che i rifiuti di amianto sono classificati tra i rifiuti speciali, tossici e nocivi in base alle caratteristiche fisiche che ne determinano la pericolosità, come la friabilità e la densità. Quanto alla natura del rifiuto, va ricordato che la legge si riferisce all'allora vigente d.P.R. 915/1982 e che il richiamo ai rifiuti tossico-nocivi deve intendersi ora riferito a quelli pericolosi, ai sensi dell'articolo 265, comma 1, del d.lgs. 152/2006.
È nota, poi, l'estrema pericolosità di tale sostanza, che ha capacità di indurre gravissime patologie la cui insorgenza è stata strettamente correlata dalla comunità scientifica all'esposizione alle fibre di amianto. Ciò ha determinato l'emanazione di numerose disposizioni normative finalizzate a ridurre l'uso dell'amianto ed i rischi conseguenti all'esposizione tanto nell'ambiente di lavoro che nell'ambiente esterno.
7.
La giurisprudenza di questa Corte, in una risalente pronuncia, cui può tuttavia farsi ancora riferimento, nel considerare i rapporti tra la disciplina generale dei rifiuti e quella contenuta in norme specifiche ha affermato, tra l'altro, che la legge n. 257 del 1992 riguarda, in via principale, la cessazione dell'impiego dell'amianto e si occupa dei rifiuti di amianto per la realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica delle aree interessate dall'inquinamento di amianto, cosicché contempla fra i "rifiuti di amianto" qualsiasi sostanza o qualsiasi oggetto che abbia perso la sua destinazione d'uso e che possa disperdere fibre di amianto nell'ambiente in determinate concentrazioni applicabili, però, alle attività disciplinate dalla legge n. 257 medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti (Sez. 3, n. 31011 del 18/06/2002, Zatti, Rv. 222390, non massimata sul punto).
8. Dunque
nei casi in precedenza esaminati si tratta, come si è detto, di disposizioni speciali rispetto a quelle generali in materia di rifiuti, con la conseguenza che la disciplina generale sarà applicabile in tutti i casi non disciplinati in modo specifico.
9. Ciò posto, va rilevato che, nella sentenza impugnata, la Corte del merito non è incorsa in una errata lettura delle disposizioni richiamate in ricorso, che ha chiaramente citato, evidentemente a titolo esemplificativo, laddove si riferisce, in generale, ai "presidi di sicurezza in materia di rifiuti pericolosi contenenti amianto", specificando che degli stessi si occupano disposizioni diverse da quella generale contenuta nel d.lgs. 152/2006. Del resto, come osservato in ricorso, alcune disposizioni tra quelle richiamate riguardano materie del tutto estranee ai fatti per cui è processo.
Inoltre appare evidente che i giudici dell'appello, con il riferimento censurato, hanno testualmente richiamato quanto indicato in motivazione in un provvedimento in precedenza citato (Sez. 7, n. 17333 del 18/03/2016, Passarelli, Rv. 266911) ove, nel trattare un caso di abbandono di rifiuti contenenti amianto, si è appunto affermato che "
nel nostro ordinamento, i presidi di sicurezza in materia di rifiuti pericolosi contenenti amianto sono specificamente previsti non solo dalla norma generale dell'art. 183 del D.Lgs. cit. ma anche dal D.M. 29.07.2004, n. 248 e da quelli del D.M. Sanità 06.09.1994, D.M. Sanità 26.10.1995 e D.M. Sanità 20.08.1999, sicché anche la mancanza di presidi di sicurezza, come adeguatamente accertato nel caso in esame dai Giudici del merito, determina l'abbandono dei rifiuti, escludendo la configurabilità del deposito temporaneo."
Dunque quanto affermato in ricorso è privo di fondamento, poiché la Corte territoriale ha applicato, ai rifiuti di cui all'imputazione, la disciplina generale in base alla loro classificazione, limitandosi alla citazione di cui si è appena detto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2018 n. 31398).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 13.09.2019, "Sesto aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 10.09.2019 n. 12753).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 37 del 13.09.2019, "Aggiornamento dell’allegato 1 ai criteri ed indirizzi per la definizione della componente geologica, idrogeologica e sismica del piano di governo del territorio, in attuazione dell’art. 57 della l.r. 11.03.2005, n. 12 approvati con d.g.r. 30.11.2011, n. 2616" (deliberazione G.R. 09.09.2019 n. 2120).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 11.09.2019 n. 213 "Chiarimenti e linee guida in materia di collocamento obbligatorio delle categorie protette. Articoli 35 e 39 e seguenti del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 - Legge 12.03.1999, n. 68 - Legge 23.11.1998, n. 407 - Legge 11.03.2011, n. 25. (Direttiva n. 1/2019)" (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica, direttiva 24.06.2019 n. 1/2019).

APPALTI: G.U.U.E. 13.08.2019 n. C 271 "Linee guida sulla partecipazione di offerenti e beni di paesi terzi al mercato degli appalti dell'UE" (Commissione UE, comunicazione 2019/C 271/02).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: S. Usai, LE MODIFICHE APPORTATE ALL'ARTICOLO 80 DALLA LEGGE 55/2019 (SECONDA PARTE) (PublikaDaily n. 17 - 25.09.2019).

APPALTI: L. Marinoni, I COMPENSI PER GLI INCARICHI DI P.O. AD INTERIM - Partendo da un recente parere dell'ARAN, approfondiamo il meccanismo di quantificazione dei compensi da riconoscere in caso di incarichi di posizione organizzativa ad interim (PublikaDaily n. 17 - 25.09.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: L'irrefrenabile voglia dei sindaci di dirigenti apicali e di parafulmini da responsabilità (20.09.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTI: G. Giannì, Profili critici sull’applicabilità all’aggiudicazione definitiva di un appalto pubblico del termine di diciotto mesi per l’annullamento in autotutela (18.09.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Introduzione al tema. 2. Analisi della natura giuridica dei provvedimenti annullabili in autotutela. 3. L’annullamento d’ufficio: analisi del dato normativo e problemi di diritto intertemporale. 4. Conclusioni.

INCARICHI PROFESSIONALI: S. Colombari, Diritto di difesa della Pubblica Amministrazione e patrocinio legale (anche alla luce di una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea) (18.09.2019 - link a www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il diritto di difesa della Pubblica Amministrazione e il rispetto dei principi fondamentali dei Trattati europei: un rapporto ancora da definire. 2. L’affidamento degli incarichi difensivi prima delle direttive europee del 2014 e del nuovo Codice dei contratti pubblici. 3. L’affidamento degli incarichi difensivi dopo le direttive europee del 2014 e il nuovo Codice dei contratti pubblici secondo il Consiglio di Stato e l’ANAC. 4. La qualificazione dell’affidamento dell’incarico legale come contratto escluso sottoposto all’art. 4 del Codice dei contratti pubblici. 5. La sentenza della Corte di Giustizia dell’UE del 06.06.2019, n. C-264/18. 6. La difesa della Pubblica Amministrazione è connessa all’esercizio di pubblici poteri? 7. La sentenza della Corte di Giustizia e l’art. 4 del Codice dei contratti pubblici. 8. Considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Lipari, Il diritto di accesso e la sua frammentazione dalla legge n. 241/1990 all’accesso civico: il problema delle esclusioni e delle limitazioni oggettive (18.09.2019 - link a www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il percorso apparentemente inarrestabile della disciplina della trasparenza amministrativa: dalla vuota retorica dei principi astratti all’effettività della tutela sostanziale? Troppi nodi ancora irrisolti. - 2. La proliferazione degli accessi speciali, vecchi e nuovi, e le sue possibili spiegazioni. Settori e interessi realmente differenziati o mera disattenzione tecnica del legislatore? - 3. Il disegno originario della legge n. 241/1990. Il progetto governativo di un accesso generalizzato, sganciato dal requisito dell’interesse differenziato per la tutela di una situazione giuridica preesistente; il rapporto con l’accesso civico partecipativo nelle autonomie locali; la prudente individuazione dei casi di esclusione. - 4. La dimensione dei “segreti” amministrativi speciali e delle altre limitazioni oggettive alla trasparenza prevalenti sul diritto di accesso per ragioni di interesse pubblico: una clausola normativa aperta o un elenco tipizzato? - 5. Il diritto di accesso del cittadino nella normativa dedicata agli enti locali (l. n. 142/1990 e TUEL 267/2000). Un chiaro accesso civico ante litteram inspiegabilmente ridimensionato. La scelta parlamentare di limitare la legittimazione attiva all’accesso nel testo definitivo della legge n. 241/1990: il “tradimento” della Commissione Nigro. - 6. Il diritto di accesso e di informazione del cittadino nella riforma delle autonomie locali (legge n. 142/1990 e testo unico n. 267/2000). Una diversa filosofia: le istanze partecipative degli anni Ottanta e Novanta e la democrazia diretta amministrativa. - 7. Verso la tipizzazione dell’ambito oggettivo dell’accesso: Il regolamento governativo di cui al DPR n. 352/1992 e il suo singolare percorso di formazione. Il contenuto intrinsecamente incompleto: l’originaria idea della tipizzazione delle esclusioni indicate dall’art. 24 della legge n. 241/1990 e la scelta finale. Il sistema a più livelli delle esclusioni e la sua dubbia razionalità. - 8. L’attuazione giurisprudenziale della legge n. 241/1990 e del regolamento n. 352/1992. La riforma dell’accesso portata dalla legge n. 15/2005. Una discutibile riscrittura totale della normativa che risolve qualche dubbio e ne apre di nuovi. - 9. La portata della legge n. 15/2005: era davvero necessaria la riformulazione integrale del Capo V della legge n. 241/1990? Vecchi problemi ancora aperti e nuove questioni - 10. Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la disciplina speciale dell’accesso negli enti locali è ancora operante? Autonomia normativa e ruolo dell’accesso del cittadino. - 11. La legge n. 15/2005: l’espansione della trasparenza e l’illusione della eccezionalità delle limitazioni al diritto di accesso. La tipizzazione espressa delle esclusioni oggettive: un obiettivo irrealizzato. - 12. L’astratta enunciazione del principio di trasparenza totale e la sua concreta inattuazione. Le evidenti difficoltà di specificare analiticamente tutte le cause di esclusione dall’accesso in un regolamento governativo generale. - 13. Il diritto vivente delle esclusioni generali, secondo i prevalenti indirizzi della giurisprudenza: non occorre affatto un’elencazione tipizzata delle esclusioni, ma è sufficiente la riconduzione alle categorie generali di cui all’art. 24. - 14. Le esclusioni di cui all’art. 24 comma 6 della legge n. 241/1990 e il criterio del bilanciamento pubblico–privato stabilito dal comma 7. - 15. Le nuove norme speciali sull’accesso e la loro giustificazione. Disposizioni effettivamente settoriali e interventi trasversali incidenti sui principi generali della legge n. 241/1990. - 16. L’accesso ambientale e la sua regolamentazione speciale. La legittimazione civica attiva e la disciplina peculiare delle esclusioni. - 17. L’accesso civico generalizzato. Le ragioni della sua affermazione nell’ordinamento. Il ritorno alla idea di fondo della Commissione Nigro. La trasparenza come oggetto di un interesse giuridico autonomo. - 18. La collocazione sistematica dell’accesso civico generalizzato nel decreto n. 33/2013 e lo svuotamento della legge n. 241/1990. - 19. Il disallineamento delle regole riguardanti le limitazioni oggettive dell’accesso ai documenti. - 20. Il rapporto tra accesso e riservatezza: le irragionevoli differenze di disciplina tra la legge n. 241/1990 e il decreto n. 33/2013. L’incoerenza delle regole riguardanti la qualificazione del silenzio dell’amministrazione sulla richiesta di accesso. - 21. Conclusioni. La trasparenza ancora inattuata e le sue nuove frontiere. Dalla conoscenza formale dei documenti alla comprensione sostanziale delle funzioni e dei servizi pubblici.

APPALTI: S. Usai, LE MODIFICHE APPORTATE ALL’ARTICOLO 80 DALLA LEGGE 55/2019 (PRIMA PARTE) (PublikaDaily n. 16 - 11.09.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Sacchi, LA CIRCOLARE BONGIORNO SUL FOIA (PublikaDaily n. 16 - 11.09.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: C. Bartoletto, IL CONFERIMENTO DI INCARICO DI POSIZIONE ORGANIZZATIVA AL TERMINE DELLA CARRIERA LAVORATIVA: CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE PER L'UMBRIA, SENTENZA N. 21 DEL 03.04.2019 (PublikaDaily n. 16 - 11.09.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni Organizzative: la contrattazione è limitata. Erroneo il parere Aran 4781/2019 (10.09.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: M. Lucca, Illegittimo l’ordine di demolizione dopo decenni: nuove aperture giurisprudenziali (05.09.2019 - link a www.giustamm.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Lucca, Limiti all’accesso emulativo nel diritto di accesso documentale, civico e generalizzato (29.08.2019 - link a www.giustamm.it).

A.N.AC.

APPALTIFuori dalle gare d'appalto le imprese non in regola con i tributi locali.
Anche il mancato pagamento di tributi locali rileva per l'esclusione dalla gara secondo quanto stabilito dal comma 4 dell'articolo 80 del codice dei contratti pubblici.

L'Ufficio precontenzioso e pareri dell'Anac, con il parere 11.01.2019 n. 2211 di prot. ha chiarito la portata della norma.
L'articolo 80, comma 4, del Dlgs 50/2016 recita: «Un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d'appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti. Costituiscono gravi violazioni quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all'importo di cui all'articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602. Costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle contenute in sentenze o atti amministrativi non più soggetti ad impugnazione».
Per violazioni gravi si intendono i mancati pagamenti, definitivamente accertati, di importo superiore a 5.000 euro in quanto la legge 205/2017 ha ridotto, con decorrenza dal 01.03.2018, da 10.000 a 5.000 euro il limite minimo dell'importo per la verifica dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni prevista dall'articolo 48-bis del Dpr 602/1973 e per la verifica della regolarità fiscale prevista dall'articolo 80, comma 4, del Dlgs 50/2016.
Un periodo del comma 4 però, lasciava alcuni dubbi: «…pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti».
L'interpretazione dell'Ufficio precontenzioso e pareri dell'Anac ha chiarito che anche l'irregolarità fiscale accertata rispetto al mancato pagamento di tributi locali, rileva ai sensi e alle condizioni indicate dall'articolo 80, comma 4, del codice dei contratti pubblici.
Pertanto le imprese del luogo, che dovessero partecipare a gare di appalto per servizi, forniture e lavori (o per concessioni) indette dai Comuni, dovranno essere necessariamente in regola con il pagamento dei tributi locali, pena l'esclusione dalla partecipazione alla procedura, nel caso abbiano un debito definitivamente accertato per un valore superiore a 5.000 euro (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.09.2019).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATAIl permesso di costruire in sanatoria.
DOMANDA:
E' stata presentata una richiesta di permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate in difformità rispetto una concessione edilizia del 1985. La difformità consiste nell’allargamento planimetrico dell’abitazione pari a 50 cm. per tutta la lunghezza dell’edificio.
Su tale sanatoria però non sussiste il requisito della c.d. doppia conformità di cui all’art. 36 del DPR 380/2001 (sia al momento della realizzazione dello stesso che al momento della presentazione della domanda), in quanto non sono rispettati gli attuali indici parametrici del PRG (non sono rispettati né la superficie coperta massima e né il volume massimo) e pertanto la richiesta dovrebbe essere negata.
Essendo già presente nell'istanza una perizia giurata di un tecnico abilitato con la quale viene asseverato che la demolizione della parte “difforme” pregiudicherebbe la stabilità statica della parte conforme, le cui considerazioni sono più che veritiere, si dovrebbe applicare l’art. 34 del DPR 380/2001 con l’emissione della sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire.
Al fine di seguire un corretto iter procedimentale si chiede quanto segue:
   - alla luce della mancata “doppia conformità” la richiesta di permesso di costruire di sanatoria dovrebbe essere formalmente negata. Dopo aver negato il pdc, deve seguire l’emissione della sanzione pecuniaria sostitutiva alla sanzione demolitoria? Il procedimento si conclude con il versamento della sanzione pecuniaria da parte del richiedente? Necessitano ulteriori adempimenti da parte del comune? L’iter così come sopra prospettato risulta corretto?
RISPOSTA:
In ordine all'iter procedimentale da seguire qualora la richiesta di permesso di costruire in sanatoria debba essere negata per mancanza del requisito della “doppia conformità” e si possano valutare i presupposti di applicabilità, in luogo della demolizione conseguente al rigetto dell’istanza di sanatoria, della sanzione di cui all'art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 per impossibilità di eseguire la demolizione senza pregiudicare la parte eseguita in conformità, la giurisprudenza, richiamata anche nella recente sentenza del Tar Liguria-Genova, Sez. I, n. 470 del 22.05.2019, ha affermato che “con riguardo agli interventi e alle opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dall'art. 34, del D.P.R. n. 380 del 2001, deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione. In quella sede, le parti ben possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione del muro di contenimento del terrapieno” (C. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4169) ed ha altresì precisato che “l'eventuale impossibilità tecnica di demolire il manufatto, senza arrecare un grave pregiudizio per le parti legittime dell'edificio, non produce alcun effetto sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio, dunque la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (TAR Campania, sez. VIII, 31/07/2018, n. 5122; TAR Puglia, sez. dist. Lecce, sez. III, 27/02/2015, n. 717).
Pertanto, stando al suddetto indirizzo giurisprudenziale, il Comune generalmente, qualora in sede di esame di una richiesta di permesso di costruire in sanatoria ritenga che la stessa debba essere negata per mancanza del requisito della “doppia conformità”, dovrebbe emettere un provvedimento di diniego dell’istanza di sanatoria con contestuale ordine di demolizione, rimandando alla successiva fase esecutiva del predetto provvedimento la valutazione circa l'eventuale impossibilità tecnica di demolire il manufatto, senza arrecare un grave pregiudizio per le parti legittime dell'edificio e dunque circa l’applicabilità della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
Ciò in quanto, generalmente i presupposti di applicabilità della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 vengono invocati dalla parte interessata, normalmente mediante la presentazione di apposita e specifica istanza, proprio in fase esecutiva, successivamente alla notifica alla stessa dell’ordine di demolizione, la cui legittimità, stando alla giurisprudenza sopra citata, permane anche qualora emergano in fase esecutiva i presupposti di applicabilità della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001. Questo è l’iter che dovrebbe dunque essere normalmente seguito.
Tuttavia, nulla vieta alla parte istante di formulare, eventualmente in via subordinata, già nell’ambito dell’istanza di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001, la richiesta di applicazione della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 nell’ipotesi in cui la richiesta principale venisse rigettata dall’Amministrazione comunale per mancanza del requisito della doppia conformità urbanistica, adducendo e/o fornendo all’Amministrazione comunale, già in tale sede, elementi istruttori volti a far accertare la sussistenza dei presupposti di applicabilità della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
In tal caso, si ritiene che il Comune, esaminando entrambe le domande (quella principale e, in caso di suo rigetto, quella subordinata), potrebbe -anche in ossequio ai principi del divieto di aggravio del procedimento, dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità sanciti dalla L. n. 241/1990 e qualora reputi di avere già sufficienti e/o idonei elementi istruttori per compiere la valutazione richiesta dall’art. 34, comma 2 del D.P.R. n. 380/2001 ai fini dell’applicabilità della sanzione ivi prevista– valutare se pronunciarsi con un unico provvedimento su entrambe le istanze, rigettando la domanda principale di sanatoria per verificata mancanza del requisito della “doppia conformità” ed eventualmente, se sussistono -come pare evincersi dal quesito stesso- i presupposti (di cui occorrerebbe ovviamente dare atto nel provvedimento stesso), accogliendo la domanda subordinata di applicazione della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
Nel quesito posto non viene specificato se l’istante abbia o meno già formulato (anche eventualmente in via subordinata) l’istanza di applicazione della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 nell’ipotesi di rigetto della domanda principale di sanatoria, ma la circostanza -emergente dal quesito- che sia stata già prodotta dall’istante una perizia giurata di un tecnico abilitato con la quale viene asseverato che la demolizione della parte “difforme” pregiudicherebbe la stabilità statica della parte conforme, porta a ritenere che tale richiesta subordinata sia stata effettivamente già presentata o comunque potrebbe sottintenderla ed implicarla implicitamente.
Qualora il Comune avesse dubbi al riguardo, potrebbe acquisire chiarimenti in merito dalla parte interessata anche eventualmente a seguito di un preavviso di rigetto dell’istanza principale di sanatoria ai sensi dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990 o a seguito di una richiesta specifica di chiarimenti. Ai fini del perfezionamento dell’iter, si ritiene necessario il versamento della sanzione di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 da parte del richiedente (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PATRIMONIOCollocazione di dossi rallentatori.
Domanda
L’amministrazione comunale, al fine di moderare la velocità nell’attraversamento del centro abitato, è intenzionata ad installare dei rallentatori di velocità, tipo i classici dossi gialli.
Qual è la normativa e quali sono i limiti a riguardo?
Risposta
Il regolamento di esecuzione del Codice della strada (D.P.R. 495/1992) all’art. 179 dal titolo “rallentatori di velocità”, disciplina tipologia e modalità di tali strumenti atti a far rispettare appunto i limiti di velocità.
Ai sensi dell’art. 179 si possono distinguere due tipologie di rallentatori: le bande trasversali e i dossi artificiali.
Le bande trasversali possono essere ad effetto ottico, acustico o vibratorio e si possono adottare su tutte le strade. I commi 2 e 3 della norma indicano come devono essere realizzati i tre diversi sistemi.
I dossi artificiali, invece, possono essere posti esclusivamente su “strade residenziali”. Il codice della strada, all’art. 2, non contiene la classificazione di “strada residenziale”: è dunque necessario riferirsi alla definizione di “zona residenziale” di cui il punto 58 dell’art. 3 del Codice che definisce la zona residenziale come la “zona urbana in cui vigono particolari regole di circolazione a protezione dei pedoni e dell’ambiente, delimitata lungo le vie d’accesso dagli apposi segnali di inizio e fine”.
In tal senso la circolare del Ministero dell’Interno n. 300/A/45182/103 del 07.09.1999 chiarisce che, al fine di poter collocare i dossi rallentatori, è necessario delimitare l’area interessata e qualificarla come “residenziale” (1).
La seconda parte del comma 5, dell’art. 179 del Regolamento di attuazione, precisa inoltre che, per i dossi, “ne è vietato l’impiego sulle strade che costituiscono itinerari preferenziali dei veicoli normalmente impiegati per servizi di soccorso o di pronto intervento”.
In conclusione va sottolineato, alla luce di quanto sopra descritto, che i dossi subiscono molte limitazioni circa la loro collocazione. Inoltre, è stato verificato che spesso, chi ha ottenuto la collocazione dei dossi al fine di limitare la velocità dei veicoli che transitano vicino alla proprietà privata, successivamente chieda che vengano rimossi per i rumori e le vibrazioni prodotti dal passaggio di veicoli pesanti.
È consigliabile pertanto valutare attentamente l’eventuale collocazione di tali rallentatori.
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(1)“Attesa l’assenza nel Codice di una specifica definizione della normativa di strada residenziale, mentre per converso, com’è noto, la disposizione dell’art. 3, comma 1, n. 58, del Codice fornisce la definizione di zona residenziale, appare possibile identificare dette aree, solo sulla scorta della zonizzazione prevista dai singoli strumenti urbanistici generali (PP.RR.GG.) ed in particolare facendo riferimento alle zone territoriali omogenee (opportunamente identificate nelle apposite cartografie) nelle quali la definizione e le modalità di intervento fanno capo alle normative tecniche di attuazione dei medesimi strumenti urbanistici generali, in relazione alle disposizioni del Codice della Strada” (27.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOUfficio di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL) attribuendo un incarico gratuito ad un collaboratore del sindaco? Cambia qualcosa se il collaboratore fosse in pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del sindaco (o della giunta o dei singoli assessori) è necessario che la materia venga preventivamente disciplinata nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo attribuite –in questo caso– al sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria in un ente locale– può essere costituito da dipendenti dell’ente, che lasciano i propri incarichi e mansioni per dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato. Se questi collaboratori, sono dipendenti di altra amministrazione, vengono posti in aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a tempo determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella collaborazione dell’organo politico, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo, per cui sono escluse tutte le attività gestionali che restano in capo ai dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del comune, identificati nei dirigenti o posizioni organizzative negli enti senza la dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo 90, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese le ultime modifiche apportate, nel 2014 con il d.l. 90, possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di staff:
   • non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di prove selettive;
   • non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
   • non richiede specifica esperienza professionale;
   • non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o professionale;
   • non richiede che vi sia una verifica preventiva dell’assenza di professionalità nell’ambito dell’ente;
   • prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
   • non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i destinatari degli incarichi, i cui contratti possono, pertanto, classificarli dalla categoria A fino alla dirigenza, nell’ambito del CCNL del comparto Funzioni locali;
   • non pone alcun limite alla retribuzione;
   • non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta del destinatario;
   • è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media della spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci si muove, dando risposta al doppio quesito presentato è possibile scrivere quanto segue:
   a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90, del TUEL, non è possibile nominare un componente dell’ufficio di staff a titolo gratuito. Il collaboratore esterno deve essere titolare di un contratto di lavoro subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei dipendenti del comparto Funzioni locali, con le eventuali deroghe –previste nel comma 3– per ciò che concerne il trattamento economico accessorio;
   b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo attualmente in vigore:
Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione politica
   1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni.
   2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali.
   3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al comma 2 il trattamento economico accessorio previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale.
   3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale
(26.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIAvvalimento e soccorso istruttorio integrativo.
Domanda
Nell’espletamento di un procedimento d’appalto di servizi ci siamo imbattuti in una questione particolare: uno dei concorrenti ha dichiarato di voler utilizzare l’avvalimento (per alcuni requisiti) senza allegare nessuna documentazione.
Il RUP ha attivato il soccorso istruttorio integrativo richiedendo, tra gli altri, la produzione del contratto e le correlate dichiarazioni. In risposta, il concorrente ha presentato una dichiarazione da cui emerge il possesso dei requisiti richiesti in sede di bando.
Come dobbiamo considerare questa risposta? Dobbiamo procedere con l’esclusione oppure l’appaltatore deve essere ammesso alle fasi successive della procedura?
Risposta
In relazione al quesito, le prime considerazioni riguardano la fattispecie del soccorso istruttorio integrativo come disciplinato dall’articolo 83, comma 9, del codice dei contratti. Disposizione, sostanzialmente, ripresa dal pregresso codice.
La sostanza dell’istituto, che ammette l’integrazione –per limitati aspetti– della documentazione già prodotta successivamente alla scadenza del termine per presentare le offerte è quella di ovviare, senza l’adozione di provvedimenti di esclusione fondati su meri aspetti formali, ad errori commessi dall’appaltatore in fase di predisposizione della gara d’appalto. Errori, tra i casi ammissibili, che vanno dalla mancata dichiarazione sul possesso dei requisiti alla mancata allegazione di certi documenti non anche per sanare eventuali false dichiarazioni penali e/o per integrare le offerte tecnico/economiche.
Nel caso di specie, il difetto ha riguardato l’istituto dell’avvalimento: in un primo momento l’appaltatore ha dichiarato di non avere i requisiti “speciali” richiesti dalla stazione appaltante precisando che avrebbe compensato tale “carenza” attraverso il “prestito” degli stessi da altro soggetto (ausiliario) senza però allegare i documenti a corredo (art. 89).
Nel riscontro all’avviato soccorso istruttorio (a sommesso avviso esperito correttamente) l’appaltatore produce una “nuova” dichiarazione affermando di possedere i requisiti tecnico/economici richiesti dalla stazione appaltante.
La circostanza deve essere valutata proprio alla luce del significato/ratio del soccorso istruttorio integrativo: se questa fattispecie consente l’integrazione delle dichiarazioni sul possesso dei requisiti, l’appaltatore deve essere considerato come un concorrente che ha commesso un errore in tale dichiarazione.
Per intenderci, ha dichiarato prima un possesso “mediato” (e per questo ha manifestato l’intendimento di ricorrere all’avvalimento) poi successivamente, alla richiesta dell’integrazione, ha dichiarato (con la produzione dell’autocertificazione) di possedere direttamente i requisiti (rinunciando all’avvalimento).
La conclusione, a sommesso parere, è quella secondo cui il concorrente deve essere ammesso al procedimento salva la verifica –doverosa da parte del RUP– che il possesso dei requisiti richiesti sia antecedente alla data di scadenza del termine di presentazione dell’offerta. In difetto si procederà con l’esclusione (25.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIPervengono spesso a questa Regione richieste di controinteressati (singoli o associati) per l'attivazione della VIA (valutazione d'impatto ambientale) anche fuori dai casi espressamente previsti dalla normativa. Può questo Ente richiederne l'attivazione?
Il D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 definisce la "valutazione d'impatto ambientale" (VIA): "il processo che comprende, secondo le disposizioni di cui al Titolo III della parte seconda del presente decreto, l'elaborazione e la presentazione dello studio d'impatto ambientale da parte del proponente, lo svolgimento delle consultazioni, la valutazione dello studio d'impatto ambientale, delle eventuali informazioni supplementari fornite dal proponente e degli esiti delle consultazioni, l'adozione del provvedimento di VIA in merito agli impatti ambientali del progetto, l'integrazione del provvedimento di VIA nel provvedimento di approvazione o autorizzazione del progetto".
L'art. 6, comma 5, del Decreto prevede che la valutazione d'impatto ambientale si applichi ai progetti che possono avere impatti ambientali significativi e negativi, come definiti all'art. 5, comma 1, lett. c).
Ciò premesso la giurisprudenza si è posta il tema della applicabilità della VIA anche a casistiche particolari. Infatti l'Amministrazione, ove ritenga che un intervento possa determinare, in concreto, "impatti ambientali significativi e negativi", può sempre disporre l'attivazione della verifica di assoggettabilità a VIA anche al di fuori degli specifici casi prescritti dalla legge (art. 6, comma 6), adottando puntuale motivazione al fine di non costituire aggravio del procedimento.
Anche in relazione alla eventuale attivazione della "valutazione di incidenza sanitaria" si è precisato che è necessario procedervi quando le concrete evidenze istruttorie dimostrino la sussistenza di un serio pericolo per la salute pubblica, al di là dei casi specificamente indicati dal legislatore, pena conseguenze procedimentali quali il vizio di eccesso di potere sotto il profilo del mancato approfondimento istruttorio, sintomatico della disfunzione amministrativa.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 6
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. IV, 29.08.2019, n. 5972
Cons. Stato Sez. IV, 01.03.2019, n. 1423
Cons. Stato Sez. IV, 11.02.2019, n. 983
Cons. Stato Sez. V, 07.01.2019, n. 127
 (25.09.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALIPubblicazione dati organi politici cessati dalla carica.
Domanda
A seguito delle elezioni comunali, svoltesi il 26.05.2019, quali dati dobbiamo tenere ancora pubblicati, riferiti ai componenti degli organi politici scaduti?
Risposta
Per i titolari di incarichi politici (nei comuni: Sindaco, Consiglieri e Assessori) gli obblighi di pubblicità e trasparenza sono contenuti nell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e riguardano:
   a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo;
   b) il curriculum;
   c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;
   d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
   e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
   f) le dichiarazioni di cui all’art. 2, legge 441/1982, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli artt. 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni di cui all’art. 7.
È bene specificare che gli obblighi della precedente lettera f) –relativi alla situazione reddituale e patrimoniale– vanno adempiuti per gli amministratori e loro parenti (se ne danno il consenso) nei comuni con più di 15.000 abitanti, come previsto dalla delibera ANAC del 07.10.2014, n. 144, come integralmente sostituita dalla determinazione dell’Autorità datata 08.03.2017, n. 241, Paragrafo 2.1.
Una volta che i titolari di incarichi politici, invece, cessano dalla loro carica, occorre prestare attenzione al comma 2, del già citato articolo 14 che, testualmente, prevede:
2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati cui ai commi 1 e 1-bis entro tre mesi dalla elezione, dalla nomina o dal conferimento dell’incarico e per i tre anni successivi dalla cessazione del mandato o dell’incarico dei soggetti, salve le informazioni concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado, che vengono pubblicate fino alla cessazione dell’incarico o del mandato. Decorsi detti termini, i relativi dati e documenti sono accessibili ai sensi dell’articolo 5.
A seguito, dunque, della cessazione del mandato o dell’incarico, i dati di cui sopra, devono restare pubblicati per i tre anni successivi (sino al 25.05.2022, nel vostro caso), con la sola eccezione per le informazioni concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado (padre, madre, nonno/a, fratelli, sorelle figli), che devono essere pubblicate solamente fino alla cessazione dell’incarico o del mandato.
Trascorsi i previsti tre anni, i dati non più pubblicati nella sezione Amministrazione trasparente del sito web, restano conservati in archivio e su di loro è possibile prevedere l’accesso civico generalizzato (cd: FOIA), come disciplinato dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013.
Nella citata determinazione n. 241/2017, recante «Linee guida recanti indicazioni sull’attuazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016», nel Paragrafo 4, vengono fornite dettagliate indicazioni in merito agli Obblighi di trasparenza dei soggetti cessati dall’incarico.
Nella delibera è anche disponibile l’Allegato 2, contenente il Modello per la comunicazione e pubblicazione dei dati della variazione patrimoniale dei titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e dei titolari di incarichi dirigenziali cessati dalla carica o dall’incarico, sempre riferito ai comuni con più di 15.000 abitanti, che si riporta integralmente nel modello allegato.
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Publika – modello soggetti cessati dalla carica (24.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ricorsi, accesso illimitato. Niente paletti all’istanza del consigliere. La giurisprudenza esclude lesioni alla riservatezza del ricorrente.
Può l'amministrazione rifiutare l'accesso del consigliere comunale alla documentazione relativa a un ricorso, di cui sia venuto a conoscenza dalla consultazione del protocollo informatico, adducendo la necessità di acquisire l'autorizzazione da parte dell'interessato ricorrente?
L'esercizio del diritto di accesso, esercitabile dai consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, è definito dal Consiglio di stato (sentenza n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo sull'ente, nell'interesse della collettività (cfr. Cds V, 05/09/2014, n. 4525, cit. da Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 29.11.2018); si tratta, all'evidenza, di un diritto dai confini più ampi del diritto di accesso riconosciuto al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10 Tuel) o, più in generale, nei confronti della p.a., disciplinato dalla legge n. 241 del 1990 (cfr. parere della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 28.10.2014 e il richiamato del 29.11.2018).
Il diritto a ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere, a cui è ostensibile anche documentazione che per ragioni di riservatezza non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, è vincolato al segreto d'ufficio (Tar Lombardia, Milano, sent. n. 2363 del 23.09.2014 e citato Cds, sez. V, 05.09.2014, n. 4525).
Peraltro, in fattispecie simili alla presente, il Consiglio di stato, sez. V, con decisione 04/05/2004, n. 2716, riguardo alla normativa prevista dal dpcm n. 200 del 26.01.1996, recante il regolamento per la categoria di documenti dell'avvocatura dello stato sottratti al diritto di accesso, ha rilevato che le limitazioni ivi previste «non possono applicarsi, in via analogica, ai consiglieri comunali, i quali, nella loro veste di componenti del massimo organo di governo del comune, hanno titolo ad accedere anche agli atti concernenti le vertenze nelle quali il comune è coinvolto nonché ai pareri legali richiesti dall'amministrazione comunale, onde prenderne conoscenza e poter intervenire al riguardo».
Il predetto dpcm pone un limite solo agli atti defensionali, (art. 2, comma 2, lett. b) a cui comunque i consiglieri comunali potrebbero accedere essendo tenuti al segreto; nel caso in oggetto, trattandosi, invece, del testo di un ricorso già presentato all'organo competente, non pare peraltro sussistere alcuna lesione dell'interessato (che in relazione alla richiesta del consigliere comunale assume la veste di «controinteressato»).
Infatti, anche in virtù della definizione di cui all'art. 22, comma 1, lett. c), della legge n. 241/1990, dall'esercizio dell'accesso il ricorrente non vedrebbe compromesso il proprio diritto alla riservatezza dato che l'atto è già noto alla controparte (il comune) che può diffonderlo all'interno dei propri uffici anche al fine della preparazione delle memorie di parte.
In merito ai tempi di rilascio degli atti, ferma restando la necessità di una regolamentazione della materia dell'accesso, si ritiene che la stessa deve tendere a garantire l'esercizio del diritto, con la previsione di termini ragionevoli compatibili con le esigenze tecniche degli uffici addetti alla loro consegna
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2019).

PATRIMONIO - TRIBUTI: Pubblicità su rotatorie.
Domanda
È possibile utilizzare le rotatorie per collocare dei cartelli pubblicitari della ditta che si occupa della manutenzione della stessa; inoltre è possibile posizionare dei manifesti o striscioni al fine di pubblicizzare manifestazioni, eventi di varia natura o sagre paesane?
Risposta
Spesso le amministrazioni comunali optano per la collocazione nelle aiuole all’interno delle rotatorie stradali di supporti di vario genere che pubblicizzano aziende, generalmente florovivaistiche, le quali, in cambio di tale pubblicità, si fanno carico della manutenzione delle aiuole stesse.
Durante il periodo primaverile ed estivo è aperta anche la stagione delle manifestazioni locali.
La rotatoria diventa spazio per pubblicizzare gli eventi, spesso con striscioni o cartelli che, per forma, dimensioni e posizionamento, non garantiscono la sicurezza stradale.
Tecnicamente la rotonda è assimilabile ad un incrocio (intersezioni a raso): ai sensi dell’art. 23, comma 1 e dell’art. 51, commi 3 e 4, del Regolamento di esecuzione e attuazione del Codice della strada, l’installazione di cartelli, insegne d’esercizio e di altri mezzi pubblicitari è vietata, con sanzioni pecuniarie elevate, oltre alla rimozione, in caso di inosservanza.
L’ente proprietario potrà quindi essere chiamato a rispondere nel caso di eventuali sinistri: tali cartelli pubblicitari sono di per sé motivo di distrazione e reale pericolo per la sicurezza stradale.
Si rimanda, per completezza, alla circolare del Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti del 18.04.2012, n. 1699.
C’è da segnalare però, in conclusione, che, tra le modifiche al Codice della strada in discussione in queste settimane alla Camera dei Deputati, c’è una norma che consentirebbe la possibilità di derogare a tale divieto assoluto.
Il comma 7-bis dell’art. 23 del Codice della strada, che con ogni probabilità verrà inserito, avrà infatti il seguente tenore: “In deroga al comma 1, ultimo periodo, al centro delle rotatorie nelle quali vi sia un’area verde, la cui manutenzione è affidata a titolo gratuito a società private o ad altri enti, è consentita l’installazione di un’insegna di esercizio dell’impresa o ente affidatario, fissata al suolo. Per l’istallazione dell’insegna di cui al presente comma si applicano in ogni caso le disposizioni di cui al comma 4.” (20.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Graduatoria tempo determinato.
Domanda
Quali sono le regole oggi vigenti per le graduatorie a tempo determinato?
Risposta
Le attuali regole che disciplinano il ricorso a contratti a tempo determinato, per tutte le pubbliche amministrazioni, sono contenute nell’art. 36, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, in particolare, l’ultimo alinea, prevede che: “Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato.”
Con circolare n. 5/2013 il Dipartimento della Funzione Pubblica aveva ampiamente analizzato la fattispecie, che allora costituiva una novità legislativa
[1], specificando che: “Le amministrazioni che devono fare assunzioni a tempo determinato, ferme restando le esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, piuttosto che indire procedure concorsuali a tempo determinato, devono attingere, nel rispetto, ovviamente, dell’ordine di posizione, alle loro graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato.”
Aggiungeva, poi, una clausola di salvaguardia destinata alle selezioni già completate, puntualizzando che: “… pur mancando una disposizione di natura transitoria nel decreto-legge, per ovvie ragioni di tutela delle posizioni dei vincitori di concorso a tempo determinato, le relative graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore di tali vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli idonei.”
Fatta questa doverosa premessa, risulta evidente che le selezioni a tempo determinato non sono più neppure contemplate dalla normativa vigente, di conseguenza, non si ritiene che le graduatorie a tempo determinato possano formare oggetto di cessione ad altra pubblica amministrazione.
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[1] L’art. 36 è stato modificato dal D.L. n. 101/2013 per la parte che interessa il quesito (19.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIn sede di convalida degli eletti devo contestare una causa di incompatibilità per debito tributario verso l'ente. Ciò parrebbe comportare la diffusione di dati personali.
La seduta deve essere pubblica? Ricordo che l'opposizione di cause di incompatibilità può essere rilevata d'ufficio o da qualsiasi cittadino.

Il regolamento del parlamento europeo relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la Dir. n. 95/46/CE, vale a dire il Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, all'art. 4, sotto la rubrica "Definizioni", stabilisce che “s'intende per «dato personale» qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile («interessato»); si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all'ubicazione, un identificativo on-line o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale".
Pertanto, sicuramente la causa di incompatibilità per debito tributario verso l'ente dell'eletto è un dato personale. Tuttavia, l'art. 6, comma 1, del Reg. cit. sotto la rubrica "Liceità del trattamento" stabilisce che:
"Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni:
   a) l'interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità;
   b) il trattamento è necessario all'esecuzione di un contratto di cui l'interessato è parte o all'esecuzione di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso;
   c ) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento;
   d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell'interessato o di un'altra persona fisica;
   e) il trattamento è necessario per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento;
   f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell'interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l'interessato è un minore
.”
Si rileva, ancora, che il D.Lgs. 30.06.2003, n. 196, novellato dal D.Lgs. 10.08.2018, n. 101, che ha recepito il Regolamento suddetto, all'art. 2-ter, (Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri) ha stabilito che:
   — "La diffusione e la comunicazione di dati personali, trattati per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri, a soggetti che intendono trattarli per altre finalità sono ammesse unicamente se previste ai sensi del comma 1.” (comma 3);
   — "si intende per: a) "comunicazione", il dare conoscenza dei dati personali a uno o più soggetti determinati diversi dall'interessato, dal rappresentante del titolare nel territorio dell'Unione europea, dal responsabile o dal suo rappresentante nel territorio dell'Unione europea, dalle persone autorizzate, ai sensi dell'articolo 2-quaterdecies, al trattamento dei dati personali sotto l'autorità diretta del titolare o del responsabile, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione, consultazione o mediante interconnessione; b) "diffusione", il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione". (comma 4)
Il comma 1 del citato art. 2-ter, stabilisce inoltre che "La base giuridica prevista dall'art. 6, par. 3, lett. b) del regolamento, è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento".
Pertanto, essendo la causa di incompatibilità per debiti tributari espressamente prevista dalla legge -ossia dall'art. 63, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 che sotto la rubrica "Incompatibilità" stabilisce al comma 1 "Non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, consigliere metropolitano, provinciale o circoscrizionale ... 6) Colui che, avendo un debito liquido ed esigibile, rispettivamente, verso il comune o la provincia ovvero verso istituto od azienda da essi dipendenti è stato legalmente messo in mora ovvero, avendo un debito liquido ed esigibile per imposte, tasse e tributi nei riguardi di detti enti, abbia ricevuto invano notificazione dell'avviso di cui all'articolo 46 del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602"-, il trattamento del dato personale nelle sue forme della comunicazione e della diffusione è lecito.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 63
D.Lgs. 30.06.2003, n. 196
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 4
Reg. (CE) 27.04.2016, n. 2016/679/UE, art. 6
(18.09.2019 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTI: Acquisizione del CIG e gare telematiche – nuovi campi da compilare.
Domanda
L’ANAC nell’ambito del servizio on line per la richiesta di CIG attraverso il sistema SIMOG ha introdotto nuovi campi che attengono in particolare alle modalità di svolgimento delle procedure telematiche.
Nel caso di utilizzo della piattaforma Sintel, ovvero quel sistema di approvvigionamento messo a disposizione da Aria spa Regione Lombardia, quale procedura deve essere selezionata? In particolare il dubbio riguarda l’ipotesi di Affidamento diretto e Affidamento diretto previa richiesta di preventivi.
Risposta
Con riferimento ai servizi on line di ANAC, ed in particolare a quelli relativi alla richiesta del codice identificativo gara, l’Autorità è intervenuta modificando il sito sia in ordine all’acquisizione dello smart CIG, che alla richiesta del CIG tramite il sistema SIMOG, adeguandoli al nuovo dettato normativo.
Nello specifico per quanto attiene al campo “Strumenti per lo svolgimento delle procedure” ha previsto nel menù a tendina le seguenti ipotesi:
   • Procedura svolta in modalità tradizionale o “cartacea
   • Asta elettronica – Art. 56
   • Catalogo elettronico Art. 57: ordine diretto
   • Catalogo elettronico – Art. 57: richiesta di offerta
   • Procedure svolte attraverso piattaforme telematiche di negoziazione – Art. 58
Classificazione sicuramente di non facile comprensione soprattutto con riferimento al catalogo elettronico che nel codice viene richiamato nell’art. 57, quale particolare modalità di presentazione delle offerte (le offerte sono presentate sotto forma di catalogo elettronico o che le stesse includano un catalogo elettronico), che possono tradursi in una sorta di offerta pre-caricata dall’operatore, a cui è possibile aderire utilizzando uno “strumento di acquisto”, (ad esempio ODA su Mepa, o adesione a Convenzioni-quadro Consip o regionali), oppure il risultato di un confronto competitivo su cataloghi.
Per quanto attiene al quesito in premessa, in assenza al momento, di indicazioni specifiche o interpretative da parte di ANAC, è possibile ritenere che la tipologia di “affidamento diretto” e “affidamento diretto previa richiesta di preventivi” prevista sulla piattaforma Sintel di Regione Lombardia sia riconducibile alle “Procedure svolte attraverso piattaforme telematiche di negoziazione – art. 58 del codice".
Tali modalità di affidamento infatti possono definirsi come strumenti di negoziazione di cui all’art. 3, lett. dddd), del codice, ovvero quegli strumenti di acquisizione che richiedono apertura del confronto competitivo nei quali si determina una vera e propria negoziazione tra la Stazione appaltante e l’operatore economico.
È possibile far rientrare in quest’ultima ipotesi anche la RDO su Mepa o della Trattativa diretta su Mepa che sono, analogamente all’affidamento diretto su Sintel, strumenti di negoziazione, almeno nell’ipotesi in cui ai fini della presentazione dell’offerta non sia richiesto un catalogo elettronico strutturato a sistema (18.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Compatibilità tra RPCT e Ufficio Procedimenti Disciplinari.
Domanda
Nel nostro comune stiamo riscrivendo il Regolamento di Organizzazione Uffici e Servizi e dobbiamo individuare i componenti dell’UPD.
E’ possibile designare, in composizione monocratica, l’ufficio del Segretario comunale che è anche Responsabile Anticorruzione e Trasparenza?
Risposta
La questione se il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT) possa anche essere componente dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari –ex art. 55-bis, commi 2 e 3, d.lgs. 165/2001– è sempre stata motivo di riflessione e di vari orientamenti, non sempre univoci, dall’emanazione della Legge Severino (legge 190/2012) in poi.
Per poter rispondere compiutamente al quesito, in via preventiva, va ricostruito il perimetro normativo in cui si muove l’articolazione e organizzazione dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD). Riassuntivamente è possibile affermare che:
   a) la presenza di un UPD è obbligatoria in ogni pubblica amministrazione e gli enti vi provvedono secondo le loro peculiarità;
   b) nei comuni, la disciplina in materia di UPD deve trovare collocazione all’interno del ROUS (ex art. 89 TUEL). In tale disciplina deve trovare allocazione anche l’UPD dell’UPD: cioè vanno disciplinate le fattispecie in cui sia oggetto di procedimento disciplinare, il/un componente dell’UPD;
   c) è possibile la gestione in forma associata tra più enti, previa stipula di apposita convenzione;
   d) la composizione dell’UPD può essere monocratica o collegiale;
   e) è possibile prevedere –specie negli enti di maggiori dimensioni– una struttura di supporto per la definizione degli atti istruttori propedeutici;
   f) se la composizione è collegiale vanno definite le modalità di funzionamento, prevedendo quando è necessario che il collegio sia perfetto o quando può agire in assenza di alcuni componenti;
   g) l‘UPD deve anche curare l’aggiornamento del codice di comportamento di ente; esaminare le segnalazioni di violazione dei codici di comportamento; curare la raccolta delle condotte illecite accertate e sanzionate.
Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra queste due, imprescindibili, figure presenti nell’ordinamento comunale (UPD e RPCT), occorre rifarsi a:
   • articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190, nel testo sostituito dall’art. 41, del d.lgs. 97/2016;
   • articolo 43, commi 1 e 5, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33;
   • circolare n. 1/2013, a cura del Dipartimento della funzione pubblica;
   • intesa della Conferenza Unificata del 24 luglio 2013, per l’attuazione dell’art. 1, commi 60 e 61, della legge 190/2012;
   • FAQ n. 3.8 in materia di prevenzione della corruzione, consultabile nel sito web dell’ANAC;
   • orientamento ANAC n. 111 del 04.11.2014;
   • PNA 2016, approvato con delibera ANAC n. 831 del 03.08.2016, Paragrafo 5.2;
   • Delibera ANAC n. 700 del 23.07.2019.
Dall’esame dell’ultimo pronunciamento dell’Autorità Anticorruzione (delibera n. 700/2019) –che ha parzialmente rivisto e meglio precisato le sue precedenti indicazioni– è possibile concludere che:
   – in via generale, l’ANAC ritiene non sussistente, specie nel caso in cui l’Ufficio Procedimenti Disciplinari sia costituito come Organo Collegiale, una situazione di incompatibilità tra la funzione di RPCT e l’incarico di componente UPD, salvo i casi in cui oggetto dell’azione disciplinare sia un’infrazione commessa dallo stesso RPCT;
   – si raccomanda, come altamente auspicabile, laddove possibile, di distinguere le due figure, soprattutto nelle amministrazioni e negli enti di maggiori dimensioni e nel caso in cui l’UPD sia organo monocratico.
Dal momento che il comune interpellante ha una popolazione inferiore a 15.000 abitanti –quindi non può definirsi “ente di maggiori dimensioni”– si ritiene possibile prevedere che il Segretario comunale ricopra, contemporaneamente, il ruolo di RPCT e UPD. Resta comunque valida, inoltre, la possibilità di nominare l’UPD, in forma associata e, in tal senso, si consiglia di prevedere anche tale opzione all’interno del regolamento di organizzazione (17.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI: Le semplificazioni per i comuni che approvano il bilancio ed il rendiconto entro i termini ordinari previsti dal TUEL. Tipologie e decorrenza.
Domanda
Qualche mese fa ho letto che la legge di bilancio 2019 ha introdotto una serie di semplificazioni su alcuni adempimenti a carico dei comuni.
Di quali si tratta? Qual è la loro decorrenza?
Risposta
L’interessante quesito posto dal lettore fa riferimento a quanto previsto dal comma 905 dell’articolo unico della L. 145/2018, (Legge di bilancio 2019). Esso prevede che a decorrere dall’esercizio 2019, per i comuni e le loro forme associative che approvano il bilancio consuntivo entro il 30 aprile e il bilancio preventivo dell’esercizio di riferimento entro il 31 dicembre dell’anno precedente (ovvero entro i termini ordinari stabiliti dal TUEL, rispettivamente all’art. 227 e all’art. 151) non trova applicazione una serie di adempimenti. Trattasi in particolare dei seguenti:
   • obbligo di comunicazione al Garante delle telecomunicazioni delle spese pubblicitarie effettuate nel corso dell’anno precedente ai sensi dell’art. 5, commi 4 e 5 della legge n. 67/1987;
   • obbligo di adozione, ai fini del contenimento delle spese di funzionamento, di piani triennali per l’individuazione di misure finalizzate alla razionalizzazione dell’utilizzo delle dotazioni strumentali che corredano le stazioni di lavoro nell’automazione d’ufficio, delle autovetture di servizio, dei beni immobili ad uso abitativo o di servizio ai sensi dell’articolo 2, comma 594, della legge n. 244/2007;
   • obbligo di contenere le spese per missioni e le spese per acquisto, manutenzione e noleggio di autovetture ai sensi dell’articolo 6, commi 12 e 14, del decreto legge n. 78/2010 e dell’articolo 5, comma 2, del decreto legge n. 95/2012;
   • obbligo di attestare con idonea documentazione, da parte del responsabile del procedimento, che gli acquisti di immobili, ove effettuati, siano indispensabili e non dilazionabili ai sensi dell’articolo 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98/2011;
   • specifici obblighi finalizzati a ridurre, anche attraverso l’istituto del recesso contrattuale, le spese per locazione e manutenzione di immobili ai sensi dell’articolo 24 del decreto legge n. 66/2014.
Sulla decorrenza dell’esenzione dagli obblighi sopra elencati, la norma è piuttosto sibillina. Essa trova infatti applicazione "A decorrere dall’esercizio 2019 (…)”. Nulla questio sul bilancio di previsione 2019-2021: il termine ordinario per la sua approvazione (art. 151 del TUEL) era fissato al 31/12/2018. Diversamente per il rendiconto non è chiaro a quale esercizio si debba fare riferimento: all’esercizio 2018, il cui termine ordinario di approvazione (art. 227 del TUEL) era fissato allo scorso 30 aprile o, viceversa, all’esercizio 2019, il cui rendiconto deve essere approvato entro il termine ordinario del 30/04/2020?
A tale fine non soccorre neppure la nota di lettura della legge di bilancio 2019 redatta a cura del Senato che si limita a riportare il testo della norma.
Secondo un’interpretazione letterale della norma, si dovrebbe fare riferimento al rendiconto dell’esercizio 2019, con la conseguenza che le semplificazioni entrerebbero in vigore dall’anno prossimo, ad avvenuta approvazione del medesimo da parte del consiglio. Ciò tuttavia rinvierebbe di fatto al 2020 la sua efficacia. Viceversa, un’interpretazione più estensiva ed accomodante è quella per cui si debba fare riferimento all’anno solare 2019 e che quindi il rendiconto da considerare sia quello relativo all’esercizio 2018, già approvato nel corso di quest’anno. La questione non è di poco conto.
Il tema è di particolare attualità visto che il primo adempimento in elenco (comunicazione delle spese pubblicitarie sostenute nel corso del 2018) ha scadenza il 30 settembre prossimo. Pur ritenendo condivisibile l’interpretazione più accomodante, non è da escludere l’opportunità di valutare se accogliere l’interpretazione più letterale e dare prudentemente seguito all’obbligo di legge, anche in considerazione delle pesanti sanzioni previste nei confronti degli enti inadempienti (16.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comma 557 e anagrafe prestazioni.
Domanda
Un incarico conferito ai sensi dell’art. 1, comma 557, della l. 311/2004 deve essere comunicato in PERLAPA oppure configurandosi come tempo determinato non rientra negli incarichi ai dipendenti?
Risposta
A parere di chi scrive, non avendo in merito indicazioni specifiche da parte del DFP (Dipartimento della Funzione Pubblica), poiché la natura dell’istituto previsto dal comma 557, dell’art. 1, della legge n. 311/2004, è quella di rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato, in deroga al principio dell’esclusività del rapporto di pubblico impiego, come ripetutamente ricostruito dalla Corte dei Conti e dal Consiglio di Stato nelle loro pronunce in materia, esso non rientra tra quelli di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001.
A ulteriore supporto di tale lettura, la Corte dei Conti affianca ormai univocamente l’istituto in esame, definito “scavalco di eccedenza” e già assimilato anche, in altre pronunce giurisprudenziali, al comando o distacco, allo “scavalco condiviso” ex art 14 del CCNL 22/01/2004, ora assurto al rango di fonte legale con l’introduzione del comma 124 della legge di bilancio n. 145/2018, e certamente non rilevante per l’Anagrafe delle prestazioni.
L’istituto di cui al comma 557 citato, in sostanza, non ha la natura di incarico, sulla quale è incentrata la disposizione del TUPI, e giova rilevare che, in effetti, tale definizione non è contenuta neppure nella norma che lo ha istituito (12.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIL'ufficio lavori pubblici e contratti di questo Ministero chiede, dopo le recenti riforme, quale sia la procedura corretta per l'affidamento di un appalto di 250.000 euro (IVA esclusa).
Vi è obbligo di procedere con la procedura aperta?
In materia di "soglie del sottosoglia" si sono succeduti negli ultimi mesi provvedimenti normativi che hanno modificato limiti e procedure di affidamento. Dall'entrata in vigore del D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 l'affidamento di lavori di questa entità avveniva secondo la disposizione "per i lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 1.000.000 di euro, mediante la procedura negoziata di cui all'articolo 63 con consultazione di almeno dieci operatori economici, ove esistenti".
Il Decreto Sblocca cantieri (D.L. 18.04.2019, n. 32) ha abrogato tale disposizione, prevedendo il rinvio alle procedure ordinarie "per i lavori di importo pari o superiore a 200.000 euro e fino alle soglie di cui all'articolo 35 mediante ricorso alle procedure di cui all'articolo 60, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 97, comma 8"; la conversione in legge del decreto è nuovamente intervenuta sulla materia disponendo:
   - per affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all'art. 35 per le forniture e i servizi, mediante affidamento diretto previa valutazione di tre preventivi, ove esistenti, per i lavori, e, per i servizi e le forniture, di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti.
   - per affidamenti di lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 350.000 euro, mediante la procedura negoziata di cui all'art. 63 previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici. L'avviso sui risultati della procedura di affidamento contiene l'indicazione anche dei soggetti invitati.
Pertanto alla luce delle citate disposizioni, ferma la facoltà della stazione appaltante di applicare comunque le procedure aperte anche per questa fascia, vi è tuttavia la possibilità (che costituisce la regola) di procedere mediante negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara con invito di almeno 10 operatori.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L.gs. 18.04.2016, n. 50 art. 36
D.L.gs. 18.04.2016, n. 50 art. 60
D.Lgs. 19.04.2017, n. 56, art. 25
D.L. 18.04.2019, n. 32
(11.09.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALI: Interrogazione di alcuni consiglieri comunali. Diritto di accesso agli atti degli amministratori locali. Limiti.
I consiglieri comunali hanno l’incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti in possesso dell’Amministrazione che possano essere d’utilità all’espletamento del mandato al fine di permettere loro di valutare –con piena cognizione– la correttezza e l’efficacia dell’operato del Comune, nonché per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio comunale, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Diverso discorso è invece da farsi relativamente agli atti di indagine penale che rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329 c.p.p. e rispetto ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme consentite dalla partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito all’ambito di esercizio dei diritti spettanti ai consiglieri comunali ai sensi dell’articolo 43 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 e in particolare, all’istituto dell’interrogazione e del diritto di accesso agli atti.
A tal fine riferisce dell’avvenuta presentazione di un’interrogazione da parte di alcuni consiglieri comunali con la quale veniva chiesto al sindaco di riferire sui contenuti di un’indagine giudiziaria in corso che interessa l’amministrazione comunale. Trattandosi di operazioni di indagine sottoposte al segreto d’ufficio l’Ente desidera sapere quali limitazioni sussistano al riguardo anche sotto il profilo dell’eventuale sussistenza del diritto di accesso agli atti spettante agli amministratori locali.
L’articolo 43 del D.Lgs. 267/2000, al comma 1, prevede che i consiglieri comunali abbiano diritto di presentare interrogazioni e mozioni mentre il successivo comma 3 stabilisce che il sindaco o l’assessore da esso delegato risponde, “entro 30 giorni, alle interrogazioni e ad ogni istanza di sindacato ispettivo presentata dai consiglieri. Le modalità della presentazione di tali atti e delle relative risposte sono disciplinate dallo statuto e dal regolamento consiliare”.
Il regolamento dell’Ente disciplina l’istituto delle interrogazioni e delle istanze di sindacato ispettivo all’articolo 34 precisando, al comma 1, che l’interrogazione “è definita come la domanda, singola o collettiva, che i Consiglieri possono rivolgere al Sindaco o alla Giunta, nel rispetto delle singole competenze, per avere notizia sulla veridicità di qualche fatto ed informazione, su eventuali provvedimenti adottati o che si presumono siano da adottare. Non può eccedere i cinque minuti”.
Si tratta di un istituto il cui utilizzo è garantito ai consiglieri comunali al fine di poter esercitare il proprio munus publicum. La facoltà di presentare interrogazioni, interpellanze e ordini del giorno rientra tra le funzioni di sindacato ispettivo attribuite dalla legge agli amministratori locali. Si tratta di istituti finalizzati a garantire la funzione propria del consigliere comunale che è quella di verificare che il sindaco e la giunta esercitino correttamente la loro attività di governo.
Analoga ratio sorregge l’istituto del diritto di accesso spettante agli amministratori locali il quale trova la sua fonte normativa di riferimento nell’articolo 43, comma 2, TUEL il quale recita: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
La giurisprudenza ha, infatti, costantemente sottolineato che le informazioni acquisibili devono considerare l’esercizio, in tutte le sue potenziali esplicazioni, del munus di cui ciascun consigliere comunale è individualmente investito, in quanto membro del consiglio. Ne deriva che tale munus comprende la possibilità per ogni consigliere di compiere, attraverso la visione dei provvedimenti adottati e l’acquisizione di informazioni, una compiuta valutazione della correttezza e dell’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche per promuovere, nell’ambito del consiglio stesso, le varie iniziative consentite dall’ordinamento ai membri di quel collegio
[1].
Premesso quanto sopra necessita ora soffermarsi sui limiti cui soggiacciono i diritti di cui sopra e, in particolare, per ciò che rileva in questa sede, sull’obbligo al segreto istruttorio che impedisce l’ostensione dei documenti coperti dal segreto e, in parallelo, altresì, la diffusione di ogni informazione concernente le indagini giudiziarie in corso e per le quali sussiste l’obbligo alla segretezza.
Come affermato dalla dottrina
[2] «la giurisprudenza ha chiarito che l’innovazione legislativa introdotta con il T.U.E.L. non poteva travolgere le diverse ipotesi di segreto previste dall’ordinamento, anche in presenza di documenti formati o detenuti dall’amministrazione.
L’esistenza di ipotesi speciali di segreto è stata esplicitata dall’art. 24, comma 1, lett. a), della legge 241/1990 che esclude il diritto di accesso “(…) nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge (…)”, riferendosi a casi in cui l’esigenza di segretezza è volta alla protezione di “interessi di natura e consistenza diversa da quelli genericamente amministrativi”
[3].
Si è così affermato che il diritto non è esercitabile nei confronti di alcuni tipi di atti […] da ritenersi segreti e non sufficientemente protetti dal semplice obbligo di non divulgazione delle notizie ivi riportate.
[4]
Se così non fosse, l’accesso del consigliere ai documenti coperti da segreto “assumerebbe una portata oggettiva più ampia di quella riconosciuta ai cittadini ed ai titolari di posizioni giuridiche differenziate (pure comprensive di situazioni protette a livello costituzionale)”
[5].
Le esigenze connesse all’espletamento del mandato non potrebbero, pertanto, autorizzare un privilegio incondizionato a scapito di altri soggetti interessati e a sacrificio degli interessi tutelati dalla normativa sul segreto
».
Tra i casi di segreto previsti dall’ordinamento a preclusione del diritto di accesso rientra quello istruttorio in sede penale, delineato dall’art. 329 c.p.p. a tenore del quale “Gli atti d'indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari
[6].
In questo senso si è espressa la giurisprudenza la quale ha affermato che: “I consiglieri hanno l’incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento del loro mandato, al fine di permettere loro di valutare – con piena cognizione – la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio comunale, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. […] diverso discorso è invece da farsi relativamente agli ulteriori atti di indagine penale, eventualmente delegata, che rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329 c.p.p. e rispetto ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme consentite dalla partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono
[7].
Nello stesso senso si è espresso anche il Ministero dell’Interno[8] il quale, nel fare proprie due pronunce del Consiglio di Stato
[9] ha osservato che: «L'Alto Consesso ha ritenuto che la posizione dei consiglieri comunali non possa essere talmente privilegiata da consentire loro l'accesso a tutti i documenti, anche segreti, dell'amministrazione, assumendo solo l'obbligo di non divulgare le relative notizie. […] Se ne deduce, così, che il diritto di accesso del consigliere comunale, da esercitarsi riguardo ai dati effettivamente utili all'esercizio del mandato ed ai soli fini di questo, deve essere coordinato con altre norme vigenti, come quelle che tutelano il segreto delle indagini penali o la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni […]».
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[1] Si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 29.08.2011, n. 4829.
[2] R. Cicatelli, “Il diritto di accesso del consigliere comunale agli atti della magistratura della Corte dei Conti. Nota alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 02.01.2019, n. 12”, in “Il Piemonte delle Autonomie”, 2019.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.04.2001, n. 1893.
[4] Si riportano le parole del Consiglio di Stato espresse nella sentenza 1893/2001: “Con riguardo alla posizione specifica dei consiglieri comunali, occorre chiarire la portata della espressione normativa "essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge" (articolo 43, comma 2, del T.U. 18.08.2000 n. 267). La norma, per la sua collocazione sistematica e per il suo significato letterale, intende ribadire la regola secondo cui, lecitamente acquisite e le informazioni e le notizie utili all'espletamento del mandato, il consigliere, di regola, è autorizzato a divulgarle. Un divieto di comunicazione a terzi deve derivare da apposita disposizione normativa.
In tale prospettiva si spiega, coerentemente, il rapporto tra la disciplina sulla protezione dei dati personali e la pretesa all'accesso del consigliere comunale. Questi è legittimato ad acquisire le notizie ed i documenti concernenti dati personali, anche sensibili, poiché, di norma, tale attività costituisce "trattamento" autorizzato da specifica disposizione legislativa (legge n. 675/1996; decreto legislativo n. 135/1999), secondo le regole integrative fissate dalle determinazioni ed autorizzazioni generali del Garante e dagli atti organizzativi delle singole amministrazioni.
Ma il consigliere comunale non può comunicare a terzi i dati personali (in particolare quelli sensibili) se non ricorrono le condizioni indicate dalla normativa in materia di tutela della riservatezza.
Questi principi sono alla base della decisione n. 940/2000 della Sezione, la quale ammette l'accesso del consigliere comunale anche nei casi in cui esso incide sulla riservatezza dei terzi, senza affrontare la diversa questione dell'accesso ai documenti coperti dal segreto, per la tutela di diversi interessi.
Non è plausibile, invece, la tesi secondo cui il consigliere comunale, in tale veste, potrebbe accedere a tutti i documenti, anche segreti, dell'amministrazione, assumendo solo l'obbligo di non divulgare le relative notizie.
In tal modo, l'accesso ai documenti del consigliere comunale, ritenuto prevalente anche sul segreto professionale, assumerebbe una portata oggettiva più ampia di quella riconosciuta ai cittadini ed ai titolari di posizioni giuridiche differenziate (pure comprensive di situazioni protette a livello costituzionale). Il mandato politico-amministrativo affidato al consigliere esprime certamente il principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività, ma, nell'attuale contesto normativo, non può autorizzare un privilegio così marcato, a scapito degli altri soggetti interessati alla conoscenza dei documenti amministrativi e con sacrificio degli interessi tutelati dalla normativa sul segreto.”
[5] Consiglio di Stato, sentenza n. 1893/2001, citata in nota 3.
[6] Per completezza espositiva si segnala che il testo dell’articolo come sopra riportato è stato così modificato dal decreto legislativo 29.12.2017, n. 216, il quale all’articolo 2, comma 1, lett. f), ha inserito all'articolo 329, comma 1, dopo le parole: «e dalla polizia giudiziaria» le seguenti: «, le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste».
Il successivo articolo 9, al comma 1 (così modificato dall’art. 2, comma 1, del D.L. 25.07.2018, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 21.09.2018, n. 108, dall’art. 1, comma 1139, lett. a), n. 1), della legge 30.12.2018, n. 145, a decorrere dal 01.01.2019, e, successivamente, dall’art. 9, comma 2, lett. a), D.L. 14.06.2019, n. 53) ha, peraltro, stabilito che la disposizione di cui all’articolo 2 si applica alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 31.12.2019.
[7] TAR Trento, sez. I, sentenza del 07.05.2009, n. 143. Nello stesso senso si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.10.2016, n. 4537; TAR Sicilia, Catania, sentenza del 25.07.2017, n. 1943; TAR Potenza, sentenza del 14.12.2005, n. 1028.
[8] Ministero dell’Interno, parere del 13.02.2004.
[9] Rispettivamente Consiglio di Stato, sentenza 1893/2001, già citata in nota 3, e Consiglio di Stato, sentenza del 26.09.2000, n. 5105
(02.08.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

GIURISPRUDENZA

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva – Attività che comporti il pericolo di un’urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata – Integrazione del reato – Differenza tra lottizzazione abusiva e mero abuso edilizio – Illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del territorio – Artt. 30 e 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
Il reato di lottizzazione abusiva è integrato non soltanto dalla trasformazione effettiva del territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di un’urbanizzazione non prevista, o diversa da quella programmata, in generale va ricordato che, per integrare il reato di lottizzazione abusiva, diversamente dal mero abuso edilizio, è necessaria una illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del territorio, di consistenza tale da incidere in modo rilevante sull’assetto urbanistico della zona; ne consegue che il giudice deve verificare, nei singoli casi, se le opere ritenute abusive abbiano una valenza autonomamente punibile ai sensi dell’art. 44, lett. a) e b), d.P.R. n. 380 del 2001, ovvero se esse siano idonee a conferire all’area un diverso assetto territoriale, con conseguente necessità di predisporre nuove opere di urbanizzazione o di potenziare quelle già esistenti, in tal modo sottraendo le relative scelte di pianificazione urbanistica agli organi competenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.09.2019 n. 39332 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIPer consolidata giurisprudenza:
   - il procedimento di verifica dell'anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto, e che pertanto la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo;
   - il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta è finalizzato all’accertamento dell’attendibilità e della serietà della stessa e dell’effettiva possibilità dell’impresa di eseguire correttamente l’appalto alle condizioni proposte; la relativa valutazione della stazione appaltante ha natura globale e sintetica e costituisce espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che la manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell’operato renda palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta.
Il relativo procedimento non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando invece ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto. La verifica mira, quindi, in generale, “a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere”;
   - il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza e adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione.
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2.5. Chiarito, come sopra, che il primo giudice ha reso il giudizio di carenza di istruttoria e di motivazione della verifica di congruità senza tener conto di tutte le giustificazioni esaminate dall’Amministrazione comunale, va rammentato che, per consolidata giurisprudenza:
   - il procedimento di verifica dell'anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto, e che pertanto la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo (tra tante, III, 29.01.2019, n. 726; V, 23.01.2018, n. 430; 30.10.2017, n. 4978);
   - il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta è finalizzato all’accertamento dell’attendibilità e della serietà della stessa e dell’effettiva possibilità dell’impresa di eseguire correttamente l’appalto alle condizioni proposte; la relativa valutazione della stazione appaltante ha natura globale e sintetica e costituisce espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che la manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell’operato renda palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta (ex multis, Cons. Stato, V, 17.05.2018 n. 2953; 24.08.2018 n. 5047; III, 18.09.2018 n. 5444; V, 23.01.2018, n. 230).
Il relativo procedimento non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando invece ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto. La verifica mira, quindi, in generale, “a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere” (C. Stato, V, n. 230 del 2018, cit.);
   - il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza e adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione (ex multis, Cons. Stato, V, 22.12.2014, n. 6231; 18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 11.05.2012, n. 2732) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.09.2019 n. 6419 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIDecorrenza del termine per impugnare gli atti di gara.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Impugnazione – Termine ex art. 120 c.p.a. – Dies a quo – Individuazione
Ai sensi dell’art. 120 c.p.a., ai fini della decorrenza del termine per impugnare gli atti di gara la stazione appaltante non è più obbligata, nella comunicazione d’ufficio dell’avvenuta aggiudicazione, ad esporre le ragioni di preferenza dell’offerta aggiudicata, ovvero, in alternativa, ad allegare i verbali della procedura; la comunicazione è invece necessaria e non può essere surrogata da altre forme di pubblicità legali, quali la pubblicazione all’albo pretorio del Comune ovvero sul profilo della committente e neppure la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europee (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che non è possibile desumere la c.d. piena conoscenza dell’avvenuta aggiudicazione da un elemento indiziario, quale l’interruzione del rapporto di lavoro con gli autisti e la dismissione degli automezzi, cui la ricorrente, nella sua veste di gestore uscente, era stata costretta.
Precisato che il termine di impugnazione decorre dall’intervenuta c.d. piena conoscenza di cui all’art. 41, comma 2, c.p.a. solo se l’interessato sia in grado di percepire i profili di lesività per la propria sfera giuridica dell’atto amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2018, n. 3843; id. 04.12.2017, n. 5675) e che, con riguardo al provvedimento di aggiudicazione di una procedura di gara, ciò vuol dire che il concorrente deve aver acquisito piena contezza del nominativo dell’aggiudicatario e del carattere definitivo dell’aggiudicazione (Cons. Stato, sez. III, 29.03.2019, n. 2079; id., sez. V, 08.02.2019, n. 947), può ritenersi che tale conoscenza non consentiva né l’intervenuta interruzione del rapporto di lavoro con gli autisti e la dismissione degli automezzi – circostanza in sé idonea a dimostrare solo la chiusura del precedente contratto di appalto, ma non certo l’acquisita conoscenza dell’esistenza di una nuova aggiudicazione
Ha chiarito la Sezione che nel caso sottoposto al proprio esame si potrebbe constatare come la richiesta di accedere agli atti di gara della ricorrente giunge mesi dopo il periodo in cui la procedura di gara si avviava a presumibile conclusione e per questo dubitare della diligenza della ricorrente, ma il legislatore, imponendo la comunicazione dell’aggiudicazione anche d’ufficio ipotizzano sempre l’accesso ai documenti successivo alla conoscenza dell’aggiudicazione secondo una sequenza (comunicazione dell’aggiudicazione-accesso ai documenti) che va preservata per il carattere defatigante che potrebbero assumere istanze di accesso “al buio” formulate dai concorrenti al solo fine di conoscere lo stato della procedura ove si affermasse il diverso principio per cui è onere del concorrente attivarsi per sapere se l’amministrazione ha adottato l’aggiudicazione definitiva e con quale contenuto.
La Sezione, in termini più generali, ha ricordato che l’art. 120, comma 5, c.p.a. prevede che “Salvo quanto previsto dal comma 6bis, per l’impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale, e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti dalla comunicazione di cui all’art. 79 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”.
La giurisprudenza ritiene che il rinvio all’art. 79, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, in virtù dell’intervenuta abrogazione ad opera del nuovo codice dei contratti pubblici, è da intendersi ora riferito all’art. 76, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (Cons. Stato, sez. V, 27.11.2018, n. 6725).
L’art. 76 cit. prevede due diverse modalità di comunicazione ai concorrenti delle informazioni relative alle procedure di gara e, per quanto d’interesse, quelle attinenti all’aggiudicazione:
   a) al comma 2, su istanza di parte formulata per iscritto, l’amministrazione aggiudicatrice comunica “immediatamente e comunque entro quindici giorni dalla ricezione della richiesta” all’offerente che abbia presentato un’offerta ammessa in gare e valutata, “le caratteristiche e i vantaggi dell’offerta selezionata e il nome dell’offerente cui è stato aggiudicato l’appalto o delle parti dell’accordo quadro”;
   b) al comma 5, d’ufficio, “immediatamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni” l’amministrazione aggiudicatrice comunica all’aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un’offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l’esclusione o sono in termini per presentare l’impugnazione, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se tali impugnazioni non siano state respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva.
La disposizione attualmente vigente non precisa più –se non, dunque, nel suo secondo comma in relazione alla comunicazione che avvenga su richiesta scritta dell’interessato– come, invece, il comma 5-bis del previgente art. 79, d.lgs. n. 163 del 2016, che “La comunicazione è accompagnata dal provvedimento e dalla relativa motivazione contenente almeno gli elementi di cui al comma 2, lettera c) e fatta salva l’applicazione del comma 4; l’onere può essere assolto nei casi di cui al comma 5, lettere a), b) e b-bis), mediante l’invio dei verbali di gara, e, nel caso di cui al comma 5, lettera b-ter), mediante richiamo alla motivazione relativa al provvedimento di aggiudicazione definitiva, se già inviato”.
Si può, quindi, ritenere che ora la stazione appaltante non sia più obbligata, nella comunicazione d’ufficio dell’avvenuta aggiudicazione, ad esporre le ragioni di preferenza dell’offerta aggiudicata, ovvero, in alternativa, ad allegare i verbali della procedura.
A maggior ragione, però, restano validi i seguenti principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa nella vigenza del vecchio codice dei contratti pubblici (Cons. Stato, sez. V, 13.08.2019, n. 5717):
   a) in caso di comunicazione dell’aggiudicazione che non specifichi le ragioni di preferenza dell’offerta dell’aggiudicataria (o non sia accompagnata dall’allegazione dei verbali di gara), e comunque, in ogni caso in cui si renda indispensabile conoscere gli elementi tecnici dell’offerta dell’aggiudicatario per aver chiare le ragioni di preferenza, l’impresa concorrente può richiedere di accedere agli atti della procedura;
   b) alla luce dell’insegnamento della Corte di Giustizia dell’Unione europea (specialmente con la sentenza 08.05.2014 nella causa C-161/13 Idrodinamica Spurgo secondo cui "ricorsi efficaci contro le violazioni delle disposizioni applicabili in materia di aggiudicazione di appalti pubblici possono essere garantiti soltanto se i termini imposti per proporre tali ricorsi comincino a decorrere solo dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione di dette disposizioni" (punto 37) e "una possibilità, come quella prevista dall' articolo 43 del decreto legislativo n. 104/2010 , di sollevare "motivi aggiunti" nell'ambito di un ricorso iniziale proposto nei termini contro la decisione di aggiudicazione dell'appalto non costituisce sempre un'alternativa valida di tutela giurisdizionale effettiva. Infatti, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, gli offerenti sarebbero costretti a impugnare in abstracto la decisione di aggiudicazione dell'appalto, senza conoscere, in quel momento, i motivi che giustificano tale ricorso" (punto 40) il termine di trenta giorni per l'impugnativa del provvedimento di aggiudicazione non decorre sempre dal momento della comunicazione ma può essere incrementato di un numero di giorni pari a quello necessario affinché il soggetto (che si ritenga) leso dall'aggiudicazione possa avere piena conoscenza del contenuto dell'atto e dei relativi profili di illegittimità ove questi non siano oggettivamente evincibili dalla richiamata comunicazione (Cons. Stato, sez. V, 02.09.2019, n. 6064; id., sez. V, 13.02.2017, n. 592);
   c) la dilazione temporale, che prima era fissata nei dieci giorni previsti per l’accesso informale ai documenti di gara dall’art. 79, comma 5–quater, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, decorrenti dalla comunicazione del provvedimento, può ora ragionevolmente essere fissata nei quindici giorni previsti dal richiamato comma 2 dell’art. 76, d.lgs. n. 50 per la comunicazione delle ragioni dell’aggiudicazione su istanza dell’interessato;
   d) qualora la stazione appaltante rifiuti illegittimamente l’accesso, o tenga comportamenti dilatori che non consentano l’immediata conoscenza degli atti di gara, il termine non inizia a decorrere e il potere di impugnare dall’interessato pregiudicato da tale condotta amministrativa non si “consuma”; in questo caso il termine di impugnazione comincia a decorrere solo a partire dal momento in cui l’interessato abbia avuto cognizione degli atti della procedura (Cons. Stato, sez. III, 06.03.2019, n. 1540);
   e) la comunicazione dell’avvenuta aggiudicazione imposta dall’art. 76, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, non è surrogabile da altre forme di pubblicità legali, quali, in particolare, la pubblicazione del provvedimento all’albo pretorio della stazione appaltante per l’espresso riferimento dell’art. 120, comma 5, c.p.a., alla “ricezione della comunicazione”, ovvero ad una precisa modalità informativa del concorrente (Cons. Stato, sez. V, 25.07.2019, n. 5257; id., sez. V, 23.07.2018, n. 4442);
   f) anche indipendentemente dal formale inoltro della comunicazione dell’art. 76, comma 5, d.lgs. n. 50 cit., per la regola generale di cui all’art. 41, comma 2, Cod. proc. amm., il termine decorre dal momento in cui il concorrente abbia acquisito “piena conoscenza” dell’aggiudicazione, del suo concreto contenuto dispositivo e della sua effettiva lesività, pur se non si accompagnata dall’acquisizione di tutti gli atti del procedimento (Cons. Stato, sez. V, 23.08.2019, n. 5813) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.09.2019 n. 6251- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIContratti della Pubblica amministrazione – Commissione di gara – riconvocazione per nuovo esame delle offerte - Su ordine del giudice - Diversa composizione – Possibilità.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Commissione di gara – riconvocazione per nuovo esame delle offerte - Su ordine del giudice - Diversa composizione – Possibilità.
Il giudice, qualora disponga il rinnovo della valutazione delle offerte di gara può ordinare che tale attività sia compiuta da una Commissione in diversa composizione, non trovando applicazione il comma 11 dell’art. 77, d.lgs., n. 50 del 2016 che si riferisce ai casi in cui la Commissione deve essere riconvocata a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione (1).
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   (1) Ha chiarito il C.g.a. che la sussistenza di una precisa istanza della parte volta ad ottenere che il giudizio fosse devoluto ad una diversa commissione di valutazione appare sostanzialmente irrilevante.
E ciò perché nel processo amministrativo, il “principio dispositivo” vale senz’altro per quanto attiene alla domanda giudiziale (nel senso che al Giudice è inibito giudicare ultra petita), nonché, parzialmente, anche per il meccanismo probatorio (che, com’è noto, è solamente in parte nella disponibilità delle parti, ben potendo essere disposte d’ufficio sia l’acquisizione di documenti, informazioni e/o chiarimenti, sia la consulenza tecnica e la verificazione), mentre non opera in relazione alle ‘specifiche modalità’ di assunzione e/o di acquisizione delle prove (o dei documentati chiarimenti volti ad assumere la consistenza di prove), né in relazione alle ‘modalità di attuazione’ delle ‘operazioni’ strumentali alla formazione della prova.
Tali “modalità operative” sono -di regola e per lo più- disciplinate dalla legge (come nel caso della “c.t.u.”, per la quale la legge stabilisce le regole volte ad assicurare il contraddittorio e l’imparzialità; o nel caso della “prova testimoniale”, per la quale la legge stabilisce le regole di assunzione, etc.,). Ma è evidente che la concreta organizzazione di tutte le attività processuali ed operazioni che non sono espressamente (e meticolosamente) disciplinate dalla legge processuale, non può che essere devoluta e riservata alla competenza del Giudice, concretandosi in un’attività intimamente connessa alla sua funzione, e nella quale si manifesta la sua abilità ed il suo intuito nel perseguimento della ricerca della verità (e della giustizia).
Ha aggiunto il C.g.a. di non ignorare che l’art. 77, comma 11, del nuovo codice dei contratti pubblici che sancisce il principio secondo cui “In caso di rinnovo del procedimento di gara, a seguito di annullamento dell’aggiudicazione o di annullamento dell’esclusione di taluno dei concorrenti, è riconvocata la medesima commissione, fatto salvo il caso in cui l’annullamento sia derivato da un vizio nella composizione della commissione”.
Ma non può non rilevarsi che la norma richiamata mal si attaglia al caso in cui l’aggiudicazione non è stata “annullata”, essendo ancora in itinere il procedimento di valutazione volto a verificare quale debba essere la ditta alla quale aggiudicare l’appalto; né è stata annullata l’esclusione di un concorrente.
Tale norma in esame si applica, dunque, allorquando venga in rilievo un vizio che abbia inficiato l’aggiudicazione, e non anche nel caso in cui la necessità di modificare la composizione della commissione di gara è sorta nell’ambito del processo amministrativo, in conseguenza di una decisione giudiziaria rimasta ineseguita, ed al fine di consentirne la corretta attuazione (CGARS, sentenza 18.09.2019 n. 823 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di via pubblica – Strada aperta al pubblico passaggio – Vie di comunicazione tra fondi liberamente percorribili – Inclusione.
Per via pubblica deve intendersi ogni strada che sia aperta al pubblico passaggio, comprese le vie di comunicazione tra fondi (dette vie vicinali), se possano essere liberamente percorse.
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4.1.2. In proposito, infatti, quanto all’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 703 cit., da un lato per via pubblica deve intendersi ogni strada che sia aperta al pubblico passaggio, comprese le vie di comunicazione tra fondi (dette vie vicinali), se possano essere liberamente percorse.
Al riguardo, risulta accertato in fatto che la strada dove è avvenuto il fatto era aperta al pubblico transito, era censita nello stradario comunale, ed ancorché non asfaltata ed in zona agreste fungeva da collegamento tra altre strade parallele di maggior traffico.
Né sono state evidenziate restrizioni di accesso al riguardo. Una strada rientra infatti nella categoria delle vie vicinali pubbliche se sussistono i requisiti del passaggio esercitato jure servitubs publicae da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunità territoriale, della concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse, anche per il collegamento con la pubblica via, e dell’esistenza di un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico (che può identificarsi anche nella protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile) (Cass. Civ. Sez. 2, n. 16864 del 05/07/2013; Cass. Civ. Sez. 1, n. 10932 del 02/11/1998) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2019 n. 38470 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: 1.- Beni pubblici e privati – espropriazione per p.u. – retrocessione – esproprio realizzato nell’ambito della riforma agraria – retrocessione – è esclusa.
L’istituto della retrocessione –sia totale sia parziale– non è applicabile nei casi in cui l’utilizzazione dell’immobile ablato consegua alla semplice espropriazione dell’area, considerata in sé e per sé ed indipendentemente dalla sua specifica destinazione.
Vi rientra (come nella specie) un’ipotesi di attuazione della riforma fondiaria di cui alle leggi nn. 230 del 1950 e 841 del 1950: infatti, l’espropriazione prevista dalla riforma agraria del secondo dopoguerra realizza sempre e automaticamente almeno il ridimensionamento dei latifondi, che rappresenta una delle finalità del legislatore (oltre alla trasformazione e colonizzazione agraria), sicché la mancata utilizzazione dei beni non può fondare alcuna retrocessione
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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8. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e diritto.
9. Con riferimento al primo motivo di gravame, si rileva che del tutto correttamente il Tar ha affermato che l’istituto della retrocessione –sia totale sia parziale– non è applicabile nelle ipotesi in cui l’utilizzazione dell’immobile ablato consegua alla semplice espropriazione dell’area, considerata in sé e per sé ed indipendentemente dalla sua specifica destinazione. Tra queste ipotesi rientra certamente il caso di specie, dove vi è stata un’attuazione della riforma fondiaria di cui alle leggi nn. 230 del 1950 e 841 del 1950.
In sostanza, il collegio di primo grado ha ben chiarito che l’espropriazione prevista dalla riforma agraria del secondo dopoguerra realizza sempre e automaticamente almeno il ridimensionamento dei latifondi, che rappresenta una delle finalità del legislatore (oltre alla trasformazione e colonizzazione agraria), sicché la mancata utilizzazione dei beni non può fondare alcuna retrocessione.
In tal senso si è espressa la Corte suprema di cassazione, con la sentenza delle Sezioni unite, del 02.02.1963, n. 183, e in proposito non si è mai successivamente prospettata in giurisprudenza una diversa lettura ermeneutica.
Non rilevano nel caso de quo i richiami formulati dagli appellanti alla successiva giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia espropriativa nonché ai principi codificati dal D.P.R. n. 327 del 2001, atteso che l’ablazione è avvenuta in un quadro di legalità formale e sostanziale e che non è oggetto del presente giudizio la quantificazione delle pretese indennitarie.
10. Circa il secondo motivo d’impugnazione, il Collegio considera legittima la precisazione svolta dal Tar per cui la circostanza che sull’area oggetto di causa sia stata attivata una nuova procedura ablatoria da parte del Comune di Eboli (non preclusa dalle precedenti determinazioni e, pertanto, non automaticamente illegittima) rende improcedibile il ricorso, posto che l’ipotetico diritto di retrocessione si convertirebbe in un diritto all’indennità.
Ad ogni modo, la valutazione svolta dal collegio di primo grado, nel secondo paragrafo della parte motiva in diritto della pronuncia impugnata, sull’improcedibilità del ricorso ha il valore di una motivazione addizionale non determinante l’esito della lite, in quanto il ricorso non è stato dichiarato improcedibile, bensì stato respinto nel merito, sulla base delle considerazioni presenti nel paragrafo primo della medesima parte motiva, cosicché una sua riforma non potrebbe incidere da sola sulla decisione di rigetto.
11. In relazione ai motivi contenuti nel ricorso di primo grado e ai successivi motivi aggiunti, si osserva che loro mera trascrizione, effettuata con espresso riferimento sia ad una maggiore esplicitazione dei motivi d’appello sia all’art. 346 c.p.c., allora regolante le decadenze in appello nel processo amministrativo, non è di per sé sufficiente ad integrare una rituale riproposizione delle contestazioni formulate in primo grado, come più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, sezione IV, sentenze 05.03.2015, 1115, 20.04.2006, n. 2233, 16.04.2010, n. 2178; Cons. Stato, sez. VI, sentenze 10.04.2012, n. 2060 e 07.02.2014, n. 590), trattandosi di una generica modalità di reiterazione dei motivi, la quale fuoriesce dalla critica alla sentenza impugnata, che costituisce il proprium dell’appello.
In ogni caso, le cennate censure non sono accoglibili, recando, in sostanza, doglianze analoghe a quelle proposte con i due motivi d’impugnazione, che sono stati valutati infondati. È, invece, meritevole di vaglio autonomo –seppur non necessario– soltanto il terzo motivo del ricorso di primo grado, non esaminato dal Tar, con cui si è lamentata la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, per non aver l’amministrazione comunicato agli interessati il preavviso di rigetto dell’istanza di retrocessione parziale del fondo.
Al riguardo giova evidenziare che la giurisprudenza amministrativa interpreta il citato art. 10-bis, così come le altre norme in materia di partecipazione procedimentale, non in senso formalistico, bensì avendo riguardo all’effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza abbia causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione. Ne deriva che l’omissione del preavviso di rigetto non cagiona l’automatica illegittimità del provvedimento finale qualora possa trova applicazione l’art. 21-octies della stessa legge, secondo cui non è annullabile il provvedimento per vizi formali non incidenti sulla sua legittimità sostanziale e il cui contenuto non avrebbe potuto essere differente da quello in concreto adottato, poiché detto art. 21-octies, attraverso la dequotazione dei vizi formali dell’atto, mira a garantire una maggiore efficienza all’azione amministrativa, risparmiando antieconomiche ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non potrebbe comunque portare all’attribuzione del bene della vita richiesto dall’interessato (cfr. Cons. Stato, sezione III, sentenza 19.02.2019, n. 1156; Cons. Stato, sezione IV, sentenze 11.01.2019, n. 256 e 27.09.2018, n. 5562).
Tanto chiarito, il Collegio ritiene che nel caso di specie un contraddittorio sull’istanza dei privati non avrebbe potuto condurre ad un diverso esito dell’azione amministrativa, poiché non sono emersi elementi tali da far ritenere che il provvedimento regionale contestato avrebbe potuto avere un contenuto differente qualora le odierne appellanti avessero presentato ulteriori considerazioni, atteso, che –come già sopra analizzato– le decisione dell’amministrazione è legittima ed è stata adottata su una completa conoscenza della situazione di fatto, che era già stata precedentemente scandagliata in altri procedimenti, anche giudiziari.
12. In conclusione l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 17.09.2019 n. 6209 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Sussistenza di un unico centro decisionale nelle gare d’appalto.
Il TAR Milano, in sede di interpretazione dell’art. 80, comma 5, lett. m), del D.Lgs. 50/2016, ove si prevede che le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, qualora: “m) l'operatore economico si trovi rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”, ricorda che la giurisprudenza, condivisa dal Tribunale, ha precisato che:
   - l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura selettiva, non essendo necessario verificare che la comunanza a livello strutturale delle imprese partecipanti alla gara abbia concretamente influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara, determinando la presentazione di offerte riconducibili ad un unico centro decisionale;
   - ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo, rappresentato dall’esistenza di un collegamento sostanziale tra le imprese, con la necessaria precisazione che lo stesso debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e concordanti;
   - tale interpretazione garantisce la giusta tutela ai principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle gare pubbliche nonché della parità di trattamento delle imprese concorrenti, principi che verrebbero irrimediabilmente violati qualora si ritenesse di correlare l’esclusione dalla gara di imprese in collegamento sostanziale ad una posteriore valutazione sul contenuto delle offerte;
   - è ravvisabile un centro decisionale unitario laddove tra imprese concorrenti vi sia intreccio parentale tra organi rappresentativi o tra soci o direttori tecnici, vi sia contiguità di sede, vi siano utenze in comune (indici soggettivi), oppure, anche in aggiunta, vi siano identiche modalità formali di redazione delle offerte, vi siano strette relazioni temporali e locali nelle modalità di spedizione dei plichi, vi siano significative vicinanze cronologiche tra gli attestati SOA o tra le polizze assicurative a garanzia delle offerte; la ricorrenza di questi indici, in numero sufficiente e legati da nesso oggettivo di gravità, precisione e concordanza tale da giustificare la correttezza dello strumento presuntivo, è sufficiente a giustificare l’esclusione dalla gara dei concorrenti che si trovino in questa situazione;
   - il semplice collegamento può quindi dar luogo all’esclusione da una gara d’appalto solo all’esito di puntuali verifiche compiute con riferimento al caso concreto da parte dell’Amministrazione che deve accertare se la situazione rappresenta anche solo un pericolo che le condizioni di gara vengano alterate
(TAR Lombardia-Milano, Sez I, sentenza 16.09.2019 n. 1981 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.1) Preliminarmente, va precisato il quadro normativo e interpretativo di riferimento.
L’esclusione si basa sull’applicazione dell’art. 80, comma 5, lett. m), del D.Lgs. 50/2016, ove si prevede che le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, qualora: “m) l'operatore economico si trovi rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”.
In sede di interpretazione della norma, la giurisprudenza, condivisa dal Tribunale (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. I, n. 1918/2018; Tar Lombardia Milano, sez. I, n. 2248/2016; Consiglio di Stato, sez. V, n. 1265/2010), ha precisato che:
   - l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura selettiva, non essendo necessario verificare che la comunanza a livello strutturale delle imprese partecipanti alla gara abbia concretamente influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara, determinando la presentazione di offerte riconducibili ad un unico centro decisionale;
   - ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo, rappresentato dall’esistenza di un collegamento sostanziale tra le imprese, con la necessaria precisazione che lo stesso debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e concordanti (C.d.S., Sez. V, n. 1265/2010);
   - tale interpretazione garantisce la giusta tutela ai principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle gare pubbliche nonché della parità di trattamento delle imprese concorrenti, principi che verrebbero irrimediabilmente violati qualora si ritenesse di correlare l’esclusione dalla gara di imprese in collegamento sostanziale ad una posteriore valutazione sul contenuto delle offerte (TAR Lombardia, I sezione, n. 2248/2016);
   - è ravvisabile un centro decisionale unitario laddove tra imprese concorrenti vi sia intreccio parentale tra organi rappresentativi o tra soci o direttori tecnici, vi sia contiguità di sede, vi siano utenze in comune (indici soggettivi), oppure, anche in aggiunta, vi siano identiche modalità formali di redazione delle offerte, vi siano strette relazioni temporali e locali nelle modalità di spedizione dei plichi, vi siano significative vicinanze cronologiche tra gli attestati SOA o tra le polizze assicurative a garanzia delle offerte. La ricorrenza di questi indici, in numero sufficiente e legati da nesso oggettivo di gravità, precisione e concordanza tale da giustificare la correttezza dello strumento presuntivo, è sufficiente a giustificare l’esclusione dalla gara dei concorrenti che si trovino in questa situazione;
   - il semplice collegamento può quindi dar luogo all’esclusione da una gara d’appalto solo all’esito di puntuali verifiche compiute con riferimento al caso concreto da parte dell’Amministrazione che deve accertare se la situazione rappresenta anche solo un pericolo che le condizioni di gara vengano alterate (TAR Sardegna, n. 163/2018).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Rotazione, il Tar annulla il contratto riaggiudicato al gestore uscente: l'invito non motivato viola la concorrenza.
Nelle procedure negoziate sottosoglia bisogna evitare di creare «posizioni di rendita anticoncorrenziali in capo al contraente uscente».
Viola il principio di rotazione, che tutela l'assegnazione dei piccoli appalti, il Comune che torna ad aggiudicare lo stesso contratto al gestore uscente. La conseguenza è la cancellazione dell'aggiudicazione e l'assegnazione del contratto al secondo classificato, che aveva presentato ricorso al Tar contestando proprio la violazione della norma del codice degli appalti (articolo 36, del Dlgs 50/2016) posta a garanzia della concorrenza nel mercato presidiato dalle piccole e piccolissime imprese.
Il caso nasce a Pordenone dove il Comune ha rimesso in gara il servizio di manutenzione degli ascensori in funzione negli edifici dell'ente per due anni al massimo ribasso. Ad aggiudicarsi l'appalto, sottosoglia, era stato il vecchio gestore (grazie a un maxisconto del 65% sulla base d'asta). Scatta così il ricorso del secondo classificato (ribasso del 42,8%) che contesta l'invito alla procedura negoziata del gestore uscente.
Il TAR Friuli Venezia Giulia (sentenza 16.09.2019 n. 376) accoglie il ricorso ribadendo i paletti previsti dall'obbligo di rotazione degli inviti nei piccoli appalti, ricordati anche dal Consiglio di Stato (sentenza n. 3831/2019). «Il principio di rotazione -si legge nella sentenza- si riferisce propriamente non solo agli affidamenti ma anche agli inviti». Perché rappresenta una sorta di «contropartita al carattere "fiduciario" della scelta del contraente allo scopo di evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo».
In caso contrario la decisione di invitare anche l'appaltatore uscente deve essere motivata puntualmente «facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento». Cosa non avvenuta in questo caso.
Di più il Tar, revocando l'aggiudicazione e disponendo il subentro del secondo classificato, ha accolto anche il secondo motivo di ricorso secondo cui l'offerta dell'appaltatore uscente era carente di una delle prestazione richieste. Carenza motivata dall'impresa con il fatto che la prestazione era già stata resa nel corso del precedente appalto.
Motivo in più, osserva il Tar, per evidenziare le «vischiosità» e le «incrostazioni» che si creano con la ripetizione degli appalti senza cambiare gestori e che «convince sull'opportunità del principio legislativo di rotazione volto ad evitare posizioni consuetudinarie e dominanti nei rapporti degli operatori economici con le amministrazioni» (articolo Edilizia e Territorio del 23.09.2019).
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Quanto al primo motivo, il caso all’esame appare sovrapponibile a quello, deciso con la condivisibile pronuncia del Consiglio di Stato, sez. V, n. 3831 del 2019.
Giova anzitutto richiamare la norma di cui all'art. 36 del D.Lgs. n. 50 del 2016, secondo la quale "l'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese".
Ebbene, nella citata pronuncia del Consiglio di Stato si osserva che “il principio ivi affermato mira ad evitare il crearsi di posizioni di rendita anticoncorrenziali in capo al contraente uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il precedente affidamento) e di rapporti esclusivi con determinati operatori economici, favorendo, per converso, l'apertura al mercato più ampia possibile sì da riequilibrarne (e implementarne) le dinamiche competitive”.
Conseguentemente “il principio di rotazione si riferisce propriamente non solo agli affidamenti ma anche agli inviti, orientando le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da interpellare e da invitare per presentare le offerte ed assumendo quindi nelle procedure negoziate il valore di una sorta di contropartita al carattere "fiduciario" della scelta del contraente allo scopo di evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo.”
Inoltre, “risultano condivisibili i rilievi mossi all'operato dell'Amministrazione comunale, nella misura in cui non ha palesato le ragioni che l'hanno indotta a derogare a tale principio: ciò in linea con i principi giurisprudenziali per cui, ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all'invito di quest'ultimo (il gestore uscente), dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (ex multis: Cons. Stato, Sez. V, 13.12.2017, n. 5854; id., Sez. V, 03.04.2018, n. 2079; id., Sez. VI, 31.08.2017, n. 4125)”.

EDILIZIA PRIVATALa qualità di proprietario è idonea di per sé per affermare la responsabilità per le opere abusive.
Il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di demolizione non è, infatti, l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario, che il responsabile dell'abuso sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi.
Il soggetto passivo dell'ordine di demolizione viene, quindi, individuato nel soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta. Pertanto, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordine di demolizione, non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità.
Il perseguimento dell'interesse pubblico urbanistico è, invero, interesse pubblico di carattere preminente e, dunque, l'ordinamento vuole che la legalità violata sia ripristinata anche dal proprietario. Tanto discende anche dalla natura "reale" dell'illecito e della sanzione urbanistica, i quali sono riferibili alla res abusiva e, dunque, il ripristino dell'equilibrio urbanistico violato viene a fare carico anche sul proprietario (Cons. Stato Sez. VI, 10.07.2017, n. 3391, che peraltro si riferisce espressamente anche all’usufruttuario).
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L’appello è infondato.
Con il primo motivo si sostiene la illegittimità del provvedimento comunale, in quanto l’abuso sarebbe stato realizzato dal precedente proprietario, come risulterebbe dalla descrizione dell’immobile contenuta nel contratto di locazione stipulato nel 1970.
A sostegno di tale affermazione sono state depositate nel giudizio di primo grado, oltre al contratto di locazione due perizie tecniche che avrebbero confermato tale ricostruzione. Ne deriverebbe, inoltre, secondo la ricostruzione difensiva che il certificato di agibilità rilasciato il 06.02.1974 avrebbe verificato la legittimità edilizia di tali opere già realizzate.
Ritiene il Collegio di non condividere la ricostruzione in fatto sostenuta dalla parte appellante.
Il provvedimento comunale è basato, infatti, su elementi di fatto e documentali da cui risulta l’epoca di realizzazione dell’abuso in epoca anteriore al 1981 (rilievi aerofotogrammetrici del 1981) e successiva al 1974, in relazione al deposito della planimetria all’ufficio tecnico erariale e al rilascio del certificato di agibilità, che fa riferimento all’ispezione del 05.02.1974 e, in tale sede, alla verifica di conformità al progetto approvato il 09.03.1966.
Rispetto alle circostanze oggetto dell’accertamento del certificato di agibilità circa la conformità al progetto approvato nel 1966, appare del tutto irrilevante la descrizione delle opere contenuta nel contratto di locazione, che non si riferisce ad alcuna planimetria o progetto, ma contiene una mera descrizione dello stato dei luoghi e del numero dei vani oggetto del contratto, mentre le perizie depositate in giudizio esprimono una valutazione ex post della possibile corrispondenza tra le descrizioni contenute nel contratto di locazione e lo stato dei manufatti esistente al momento delle perizie del 1997 (perizia del 18.02.1997 dell’ing. Pe., depositata nel giudizio di primo grado, fa riferimento in alcune parti alla “possibile" in altre alla “probabile” corrispondenza tra i vani e la planimetria; perizia del 20.03.1997 dell’Ing. Ca. afferma maggiore certezza).
In ogni caso, l’accertamento circa la epoca di realizzazione dell’abuso è anche irrilevante rispetto alla responsabilità del signor Ar. e delle sue eredi, attuali proprietarie dell’immobile, in relazione al costante orientamento giurisprudenziale per cui la qualità di proprietario è idonea di per sé per affermare la responsabilità per le opere abusive (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12.10.2018, n. 5891; id. 30.01.2019, n. 734).
Il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di demolizione non è, infatti, l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario, che il responsabile dell'abuso sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi (Cons. Stato Sez. VI, 11.12.2018, n. 6983).
Il soggetto passivo dell'ordine di demolizione viene, quindi, individuato nel soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta. Pertanto, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordine di demolizione, non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28.07.2017, n. 3789; sez. IV, 19.10.2017 n. 4837; id 19.04.2018, n. 2364).
Il perseguimento dell'interesse pubblico urbanistico è, invero, interesse pubblico di carattere preminente e, dunque, l'ordinamento vuole che la legalità violata sia ripristinata anche dal proprietario. Tanto discende anche dalla natura "reale" dell'illecito e della sanzione urbanistica, i quali sono riferibili alla res abusiva e, dunque, il ripristino dell'equilibrio urbanistico violato viene a fare carico anche sul proprietario (Cons. Stato Sez. VI, 10.07.2017, n. 3391, che peraltro si riferisce espressamente anche all’usufruttuario, quale era, con riferimento al caso di specie, il sig. Ar. al momento di adozione del provvedimento impugnato) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 12.09.2019 n. 6147  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza è costante nel ritenere la natura permanente dell’illecito edilizio con la conseguente applicazione del regime sanzionatorio sopravvenuto.
Per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, infatti, la natura permanente dell’illecito edilizio comporta che quando il Comune eserciti il potere repressivo a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, la disciplina sanzionatoria applicabile sia quella vigente al momento dell'esercizio del potere sanzionatorio.
In forza della natura permanente dell'illecito edilizio, infatti, colui che ha realizzato l'abuso mantiene inalterato nel tempo l'obbligo di eliminare l'opera illecita, per cui il potere di repressione può essere esercitato retroattivamente, anche per fatti verificatisi prima dell'entrata in vigore della norma che disciplina tale potere.
Il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, dunque, in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento della sanzione, non già quello in vigore all'epoca di realizzazione dell'abuso e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l'ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività.
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Con il secondo motivo di appello si contesta la legittimità del provvedimento impugnato e la erroneità della sentenza di primo grado sul punto, in quanto il provvedimento comunale avrebbe fatto applicazione della disciplina della legge n. 47 del 1985 sopravvenuta alla realizzazione dell’abuso.
Anche tale motivo è infondato.
In primo luogo il potere di irrogare la demolizione per le opere realizzate senza licenza edilizia derivava già dall’art. 13 della legge 06.08.1967, n. 765, mentre l’art. 10 della medesima legge prevedeva l’obbligo della licenza per le nuove costruzioni, gli ampliamenti e le modifiche delle costruzioni esistenti.
In ogni caso, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, la giurisprudenza è costante nel ritenere la natura permanente dell’illecito edilizio con la conseguente applicazione del regime sanzionatorio sopravvenuto.
Per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, infatti, la natura permanente dell’illecito edilizio comporta che quando il Comune eserciti il potere repressivo a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, la disciplina sanzionatoria applicabile sia quella vigente al momento dell'esercizio del potere sanzionatorio.
In forza della natura permanente dell'illecito edilizio, infatti, colui che ha realizzato l'abuso mantiene inalterato nel tempo l'obbligo di eliminare l'opera illecita, per cui il potere di repressione può essere esercitato retroattivamente, anche per fatti verificatisi prima dell'entrata in vigore della norma che disciplina tale potere; il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, dunque, in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento della sanzione, non già quello in vigore all'epoca di realizzazione dell'abuso e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l'ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività (Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892; sez. IV, 24.11.2016, n. 4943) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 12.09.2019 n. 6147  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di ordinare la demolizione delle opere edilizie abusive non deve essere oggetto di ponderazione con altri interessi in relazione al decorso del tempo, trattandosi di potere vincolato in funzione dell’ordinato assetto del territorio.
Pertanto, il provvedimento con cui viene ingiunta, anche tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino della legalità violata, che impongono la rimozione dell'abuso, nonostante sia decorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione dell'abuso.
Deve, dunque, escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso o al suo avente causa nonostante il decorso del tempo dal commesso abuso o la comparazione dell’interesse pubblico con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare.

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Con ulteriore motivo di appello, si lamenta il difetto di motivazione del provvedimento impugnato circa l’interesse pubblico attuale alla demolizione in relazione al tempo comunque trascorso dalla realizzazione dell’abuso, in ogni caso precedente al 1981.
Al riguardo il Collegio ritiene di dovere richiamare l’orientamento espresso dall’Adunanza Plenaria, per cui il potere di ordinare la demolizione delle opere edilizie abusive non deve essere oggetto di ponderazione con altri interessi in relazione al decorso del tempo, trattandosi di potere vincolato in funzione dell’ordinato assetto del territorio.
Pertanto, il provvedimento con cui viene ingiunta, anche tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino della legalità violata, che impongono la rimozione dell'abuso, nonostante sia decorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione dell'abuso.
Deve, dunque, escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso o al suo avente causa nonostante il decorso del tempo dal commesso abuso o la comparazione dell’interesse pubblico con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9 del 2017; Sez. VI, 06.07.2018, n. 4135; id. 04.06.2018, n. 3351; di recente Sez. IV, 30.01.2019, n. 734) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 12.09.2019 n. 6147  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 12 della legge 47 del 28.01.1985, disposizione poi confluita nell’art. 34 del d.P.R., 06.06.2001, n. 380 “le opere eseguite in parziale difformità dalla concessione sono demolite a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo, e comunque non oltre centoventi giorni, fissato dalla relativa ordinanza del sindaco. Dopo tale termine sono demolite a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il sindaco applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura dell'ufficio tecnico erariale, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”.
Da tale disciplina, come dalla analoga norma dell’art. 34 del D.P.R. 380 del 2001, deriva in primo luogo in linea generale che anche gli interventi edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire soggiacciano alla sanzione demolitoria, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, si debba applicare la sanzione pecuniaria).
Inoltre, la consolidata giurisprudenza interpreta tali disposizioni nel senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria posta da tale normativa debba essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione, fase esecutiva nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria.
Peraltro, la costante giurisprudenza ritiene altresì che la norma abbia valore eccezionale e derogatorio, e di conseguenza non sia l’amministrazione a dover valutare, prima di emettere l'ordine di demolizione dell'abuso, se essa possa essere applicata, ma è il privato interessato a dover dimostrare, in modo rigoroso, nella fase esecutiva, l’obiettiva impossibilità di ottemperare all'ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme.
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Con ulteriore motivo di appello si sostiene la erronea applicazione dell’art. 7 della legge 47 del 1985, in quanto, secondo la ricostruzione difensiva, si tratterebbe di una ipotesi di difformità dal titolo edilizio, a cui sarebbe stato applicabile l’art. 12 della legge 47 del 1985.
Anche tale motivo di appello è infondato.
Ai sensi dell’art. 12 della legge 47 del 28.01.1985, disposizione poi confluita nell’art. 34 del d.P.R., 06.06.2001, n. 380 “le opere eseguite in parziale difformità dalla concessione sono demolite a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo, e comunque non oltre centoventi giorni, fissato dalla relativa ordinanza del sindaco. Dopo tale termine sono demolite a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il sindaco applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura dell'ufficio tecnico erariale, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”.
Da tale disciplina, come dalla analoga norma dell’art. 34 del D.P.R. 380 del 2001, deriva in primo luogo in linea generale che anche gli interventi edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire soggiacciano alla sanzione demolitoria, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, si debba applicare la sanzione pecuniaria (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 04.06.2018, n. 3371; id. 21.05.2019, n. 3280).
Inoltre, la consolidata giurisprudenza interpreta tali disposizioni nel senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria posta da tale normativa debba essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione, fase esecutiva nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 09.07.2018, n. 4169; id. 29.11.2017, n. 5585; id. 12.04.2013, n. 2001).
Peraltro, la costante giurisprudenza ritiene altresì che la norma abbia valore eccezionale e derogatorio, e di conseguenza non sia l’amministrazione a dover valutare, prima di emettere l'ordine di demolizione dell'abuso, se essa possa essere applicata, ma è il privato interessato a dover dimostrare, in modo rigoroso, nella fase esecutiva, l’obiettiva impossibilità di ottemperare all'ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme (Cons. Stato sez. V 05.09.2011 n. 4982, in fattispecie regolata dall'art. 12 L. n. 47 del 1985, e con riferimento al T.U. 380 del 2001 Cons. Stato Sez. VI, 19.11.2018, n. 6497) .
Ritiene dunque il Collegio in conformità a tali consolidati orientamenti che, nel caso di specie, il Comune non potesse che ordinare la demolizione delle opere abusivamente realizzate, salva la facoltà per le appellanti di dedurre, al momento della concreta esecuzione del provvedimento di demolizione, in ordine all’eventuale situazione di pericolo di stabilità del fabbricato derivante dall'esecuzione della demolizione delle opere abusive (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 12.09.2019 n. 6147  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Art. 77, c. 4, d.lgs. n. 50/2016 – Commissione – Incompatibilità tra chi ha predisposto l’avviso pubblico e chi ha verificato la documentazione di gara – Non sussiste.
L’incompatibilità di cui all’art. 77, c. 4, d.lgs. n. 50/2016 deve essere comprovata, sul piano concreto e di volta in volta, sotto il profilo dell’interferenza sulle rispettive funzioni assegnate al dirigente ed alla Commissione.
Del resto, il fondamento ultimo di razionalità della citata disposizione è quello per cui chi ha redatto la lex specialis non può essere componente della Commissione, costituendo il principio della separazione tra chi predisponga il regolamento di gara e chi è chiamato a concretamente applicarlo una regola generale posta a tutela della trasparenza della procedura, e dunque a garanzia del diritto delle parti ad una decisione adottata da un organo terzo ed imparziale mediante valutazioni il più possibile oggettive, e cioè non influenzate dalle scelte che l’hanno preceduta. Una siffatta incompatibilità per motivi di interferenza e di condizionamento non può sussistere tra chi ha predisposto l’avviso pubblico e chi ha verificato la documentazione di gara.

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Art. 77, c. 4 d.lgs. n. 50/2016 – Commissione – Incompatibilità ad un incarico anteriore derivante dall’assunzione di un incarico posteriore – Non sussiste.
Non e’ possibile riferire le ragioni di incompatibilità ad un incarico anteriore nel tempo alle preclusioni che deriveranno solamente dall’assunzione di un incarico posteriore; si intende dire che, anche a seguire un’interpretazione rigorosa dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016, potrebbe al più determinarsi l’incompatibilità all’approvazione degli atti di gara, ma non certo la preclusione ad assumere le funzioni di commissario da parte di chi svolgerà solamente in una fase successiva ulteriori funzioni (in termini Cons. Stato, V, 04.02.2019, n. 819).
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Commissione – Requisito delle competenze nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto – Riferimento a tematiche omogenee.
Il requisito delle competenze nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto che i componenti della Commissione di gara debbono possedere va interpretato nel senso che la competenza ed esperienza richieste ai commissari debbono essere riferite ad aree tematiche omogenee, e non anche alle singole e specifiche attività oggetto del contratto (Cons. Stato, V, 18.07.2019, n. 5058) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.09.2019 n. 6135 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAE' fondata la censura di violazione, da parte del permesso di costruire che ha assistito la realizzazione del chiosco per cui è causa, dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444 recante limiti di distanza tra i fabbricati.
La giurisprudenza afferma al riguardo che:
   - l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente dall’altezza degli edifici antistanti e dall’andamento parallelo delle loro pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento.
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi.
La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile;
   - l’art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima.
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria, costituisce un principio assoluto e inderogabile, che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata, sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti.
   - la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano. Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra;
   - è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra;
   - ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute” ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce).
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La giurisprudenza ha evidenziato che un chiosco o gazebo, ancorché realizzato non con strutture murarie, ma con materiali amovibili, riveste il carattere di costruzione non precaria quando sia destinato a soddisfare esigenze permanenti, che, nel caso di specie, sono certamente ravvisabili, dato che il chiosco per cui è causa ha rappresentato per un consistente periodo temporale (che il ricorrente ragguaglia a sei anni) la sede dell’attività commerciale della controinteressata.
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 5. Alla luce di quanto obiettivamente emergente dalla verificazione, anche la domanda rescissoria del ricorso per revocazione in esame si rivela fondata.
In particolare, è fondata la censura, di valore assorbente, di violazione, da parte del permesso di costruire che ha assistito la realizzazione del chiosco per cui è causa, dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, recante limiti di distanza tra i fabbricati.
6. La giurisprudenza afferma al riguardo che:
   - l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (Cass. civ., II, 26.01.2001, n. 1108; Cons. Stato, V, 19.10.1999, n. 1565; Cass. civ., II, ordinanza 03.10.2018, n. 24076).
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente dall’altezza degli edifici antistanti e dall’andamento parallelo delle loro pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento (Cass., n. 24076/2017, cit.).
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi (Cass. civ., II, 16.08.1993, n. 8725).
La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile (Cass. civ., II, 07.06.1993, n. 6360; 09.05.1987, n. 4285;
   - l’art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima (Cass. civ., II, 29.05.2006, n. 12741).
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria, costituisce un principio assoluto e inderogabile (Cass. civ., II, 26.07.2002, n. 11013), che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Cost., sentenza n. 232 del 2005), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata (Cass. civ., II, 31.10.2006, n. 23495), sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti (Cons. Stato, IV, 12.06.2007, n. 3094).
   - la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (Cons. Stato, V, 16.02.1979, n. 89). Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Cass., II, 30.03.2001, n. 4715), indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (Cass., II, 03.08.1999, n. 8383; Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; 02.11.2010, n. 7731);
   - è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; Cass. Civ., II, 20.06.2011, n. 13547; 28.09.2007, n. 20574);
   - ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute” ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce).
7. In applicazione delle predette coordinate ermeneutiche, non può condividersi la conclusione del verificatore che, dato atto che “la distanza minima tra il chiosco e la facciata anteriore dell’abitazione (in parte cieca ed in parte porticata) è di 72 cm”, ha riferito che “la proiezione della parete effettivamente finestrata verso la facciata del chiosco non genera intersezione tra le due facciate; la proiezione del chiosco verso la parete finestrata dell’abitazione incontra il muro cieco: la distanza ‘virtuale’ rispetto alla facciata finestrata sarebbe di 637 cm”.
Infatti, nel calcolo delle distanze rilevanti nella fattispecie, come correttamente rappresentato dalla parte ricorrente nelle memorie prodotte successivamente al deposito della relazione di verificazione, va contemplato anche il fronte del piano superiore dell’abitazione, munito di pareti finestrate e balconata, nonché il porticato posto al piano terra, costituito da pilastri allineati alla facciata della casa e da grandi aperture ad arco che si affacciano sui giardinetti, la cui proiezione, considerata nella lunghezza comprensiva anche del “muro cieco”, incontra, come sopra, il chiosco.
Quanto al “muro cieco”, non rileva la sua presenza: non può infatti dirsi che per il suo tramite non si siano realizzate quelle intercapedini dannose, insalubri o pericolose che la inderogabile norma pubblicistica di cui trattasi ha lo scopo di evitare, in quanto esso non costituisce altro, come emerge dagli esiti della verificazione (pag. 19), che il prolungamento del porticato, in accompagnamento della prima rampa della scala esterna che lo collega con la terrazza posta al livello superiore, con conseguente presenza di tutte le esigenze di tutela di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
Infine, non possono essere valorizzate le difese svolte dal Comune di Castro, tendenti a sottolineare che la struttura in parola è stata assentita solo precariamente, far fronte a una fase emergenziale, la cui chiusura ne ha determinato lo smontaggio, con conseguente restituzione dell’area alla originaria destinazione di giardinetto pubblico.
Al riguardo, va tenuto conto della rilevanza dei beni protetti dalle relative previsioni normative siccome individuati dalla giurisprudenza dianzi rassegnata, e della conseguente insuscettibilità di queste di tollerare eccezioni, cosa che, del resto, nella fattispecie, è attestata dalla clausola di salvezza dei diritti di terzi contenuta nel titolo edilizio che ha assentito il chiosco.
Inoltre, la giurisprudenza ha evidenziato che un chiosco o gazebo, ancorché realizzato non con strutture murarie, ma con materiali amovibili, riveste il carattere di costruzione non precaria quando sia destinato a soddisfare esigenze permanenti (Cons. Stato, VI, 10.05.2017, n. 2152; 03.06.2014, n. 2842), che, nel caso di specie, sono certamente ravvisabili, dato che il chiosco per cui è causa ha rappresentato per un consistente periodo temporale (che il ricorrente ragguaglia a sei anni) la sede dell’attività commerciale della controinteressata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.09.2019 n. 6136 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL'onere di provare tanto l'epoca di realizzazione di un’opera edilizia quanto la sua ubicazione al di fuori del perimetro urbano incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione: in simili ipotesi, spetta, cioè, al soggetto ricorrente, in omaggio ai principi dell’onere e della vicinanza della prova, fornire dimostrazione piena e inconfutabile in relazione a circostanze rientranti nella sua disponibilità.
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Deve privilegiarsi l’opinione maggioritaria che, negando la possibilità di riconoscere all'art. 31, comma 1, della l. n. 1150/1942 una portata abrogante o disapplicativa della previgente normativa edilizia, ha predicato l'assoggettamento alla sanzione demolitoria per le costruzioni realizzate in assenza del titolo edilizio, anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione, ove l'obbligo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali previgenti all’emanazione della disposizione legislativa citata.
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2. Venendo ora a scrutinare il merito delle due cause, infondati si rivelano gli ordini di doglianze riportati retro, in narrativa, sub n. 3.a e n. 6.a-b, incentrati sull’assunto di insussistenza dell’obbligo di licenza edilizia, costituente presupposto delle abusività riscontrate, nonché scrutinabili congiuntamente, stante la loro interrelazione e sovrapponibilità reciproche.
2.1. A ripudio dell’assunto attoreo, giova, in primis, rammentare che l'onere di provare tanto l'epoca di realizzazione di un’opera edilizia quanto la sua ubicazione al di fuori del perimetro urbano incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione: in simili ipotesi, spetta, cioè, al soggetto ricorrente, in omaggio ai principi dell’onere e della vicinanza della prova, fornire dimostrazione piena e inconfutabile in relazione a circostanze rientranti nella sua disponibilità (cfr., ex multis, TAR Campania, sez. III, n. 290/2013; sez. VI, n. 1908/2014; n. 3043/2014; n. 6321/2014).
Ebbene, nel caso in esame, una simile prova piena e inconfutabile circa l’ubicazione dell’edificio controverso al di fuori del centro abitato di Scafati, non risulta fornita da parte ricorrente.
I germani Si. si sono, infatti, limitati a contestare la rilevanza dell’art. 65 del REC di Scafati del 1931 ai fini dell’individuazione del perimetro urbano, senza, però, contrapporvi alcuna altra fonte documentale idonea ad attestare una differente delimitazione valevole ratione temporis, rispetto alla quale l’immobile in loro proprietà risultasse collocato esternamente.
La foto satellitare allegata all’esibita relazione tecnica di parte dell’08.05.2019 ritrae, anzi, il completo inglobamento dell’immobile de quo nell’agglomerato edificatorio urbano.
D’altronde, la circostanza stessa che il fabbricato ubicato in Scafati, via ..., n. 20, e censito in catasto al foglio 25, particella 873, sia stato assentito con apposita licenza edilizia n. 83 del 09.06.1964 finisce per corroborare ulteriormente la tesi dell’amministrazione resistente: se, infatti, il titolo abilitativo in parola non fosse stato necessario, non si intende perché i soggetti interessati se ne fossero procurati il rilascio preventivamente all’edificazione.
2.2. In rapporto, poi, al rilievo dell’inclusione del fabbricato medesimo all’interno del centro abitato ad opera dell’art. 65 del REC di Scafati del 1931, risultano essere del tutto inconferenti le proposizioni attoree in punto di inefficacia dell’imposizione regolamentare dell’obbligo di licenza edilizia al di fuori del perimetro urbano, siccome implicitamente abrogata dall’art. 31, comma 1, della l. n. 1150/1942.
Nel gravato provvedimento declinatorio del 06.10.2017, prot. n. 46802, non si rinviene, infatti, traccia alcuna del richiamo ad una simile prescrizione.
2.3. Ciò, non senza soggiungere, in via meramente incidentale, che la tesi propugnata da parte ricorrente corrisponde ad un’opinione nettamente minoritaria (cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. III, n. 899/2014) e che deve privilegiarsi l’opinione maggioritaria che, negando la possibilità di riconoscere all'art. 31, comma 1, della l. n. 1150/1942 una portata abrogante o disapplicativa della previgente normativa edilizia, ha predicato l'assoggettamento alla sanzione demolitoria per le costruzioni realizzate in assenza del titolo edilizio, anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione, ove l'obbligo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali previgenti all’emanazione della disposizione legislativa citata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5141/2008; sez. VI, n. 3899/2015; TAR Campania, Napoli, sez. IV, n. 6879/2009; n. 2051/2010; n. 11362/2010; n. 5912;/2011 n. 5419/2013; n. 5853/2013; n. 1216/2014; n. 3245/2014; n. 1823/2016; n. 3588/2016; n. 3669/2017; TAR Emilia Romagna, Parma, n. 5/2010; TAR Marche, Ancona, n. 634/2011; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 11196/2014; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 37/2017).
2.4. A fronte dei superiori approdi prova, infine, troppo la deduzione in base alla quale l’ammontare delle imposte versate per i materiali di costruzione dimostrerebbe che l’edificio controverso sarebbe stato ab origine realizzato nella sua attuale conformazione e consistenza.
Ed invero, una simile dimostrazione, ove pure raggiunta, non eliderebbe il rilievo della difformità della costruzione rispetto al progetto assentito con la licenza edilizia n. 83 del 09.06.1964, e, quindi, la sua abusività, stante l’acclarata natura (non già facoltativa, bensì) obbligatoria di tale titolo abilitativo (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.09.2019 n. 1548 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive.
Tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.

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La misura repressivo-ripristinatoria è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive, nonché l’individuazione della violazione accertata (costruzione eseguita in difformità dal rilasciato titolo edilizio).
Inoltre, l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da reputarsi affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore.

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6. Ancora, non è accreditabile la censura di omessa comunicazione del procedimento definito con l’emissione dell’ordinanza di demolizione n. 2221 del 27.11.2017 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 6.c).
In argomento, rammenta il Collegio che l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, n. 6071/2012; sez. VI, n. 2873/2013; n. 4075/2013; sez. V, n. 3438/2014; sez. III, n. 2411/2015; sez. VI, n. 3620/2016; TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 107/2015; Salerno, sez. II, n. 69/2015; Napoli, sez. IV, n. 685/2015; sez. II, n. 1534/2015; Salerno, sez. II, n. 664/2015; n. 1036/2015; Napoli, sez. III, n. 4392/2015; n. 4968/2015; sez. VIII, n. 1767/2016; sez. IV, n. 4495/2016; n. 4574/2016; sez. III, n. 121/2017; n. 677/2017; sez. VI, n. 995/2017; sez. IV, n. 2320/2017; sez. VIII, n. 4122/2017; sez. III, n. 5967/2017; Salerno, sez. II, n. 24/2018; Napoli, sez. III, n. 898/2018; n. 1093/2018; sez. IV, n. 1434/2018; n. 1719/2018; n. 2241/2018; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 2098/2015; n. 10829/2015; n. 10957/2015; n. 2588/2016; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1708/2016; n. 1552/2017).
7. Neppure accreditabile è la censura di deficit motivazionale della medesima ordinanza di demolizione n. 2221 del 27.11.2017 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 6.d).
Al riguardo, occorre, in primis, rimarcare che la misura repressivo-ripristinatoria è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto, nella specie– sia rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive (cfr. retro, in narrativa, sub n. 5), nonché l’individuazione della violazione accertata (costruzione eseguita in difformità dal rilasciato titolo edilizio) (cfr., ex multis, Cons. Stato sez. IV, n. 2441/2007; n. 2705/2008; sez. V, n. 4926/2014; TAR Campania, Napoli, sez. IV, n. 367/2008; sez. VI, n. 49/2008; sez. IV, n. 57/2008; sez. VIII, n. 4556/2008; sez. III, n. 5255/2008; sez. IV, n. 7798/2008; sez. VI, n. 8761/2008; sez. IV, n. 9720/2008; sez. II, n. 13456/2008; sez. IV, n. 11820/2008; sez. VI, n. 18243/2008; sez. III, n. 19257/2008; sez. IV, n. 20564/2008; n. 20794/2008; sez. VI, n. 21346/2008; n. 1032/2009; n. 1100/2009; sez. IV, n. 1304/2009; n. 1597/2009; n. 3368/2009; sez. VI, n. 5672/2014; sez. III, n. 1770/2015; n. 677/2017; Salerno, sez. II, n. 397/2017; Napoli, sez. III, n. 1303/2017; sez. IV, n. 1434/2017; sez. VIII, n. 2870/2017; sez. VII, n. 3447/2017; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 57/2008; n. 1318/2009; n. 1768/2009; TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 475/2008; Palermo, sez. II, n. 866/2015; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 8117/2008; n. 2358/2009; TAR Liguria, Genova, sez. I, n. 781/2009; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1601/2016; TAR Basilicata, Potenza, n. 951/2016; TAR Piemonte, Torino, sez. I, n. 1435/2016).
Inoltre, l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da reputarsi affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore (cfr., ex multis, Cons. Stato, ad. plen., n. 9/2017; sez. IV, n. 3955/2010; sez. V, n. 79/2011; sez. IV, n. 2592/2012; sez. V, n. 2696/2014; sez. VI, n. 3210/2017; TAR Campania, sez. VI, n. 17306/2010; sez. VII, n. 22291/2010; sez. VIII, n. 4/2011; n. 1945/2011; sez. III, n. 4624/2016; n. 5973/2016; sez. VI, n. 2368/2017; sez. VIII, n. 2870/2017; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1962/2010; n. 2631/2010; TAR Piemonte, Torino, sez. I, n. 4164/2010; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 35404/2010; TAR Liguria, Genova, sez. I, n. 432/2011) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.09.2019 n. 1548 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’ipotesi di interventi edilizi eseguiti in parziale difformità, la valutazione circa la possibilità o meno di dar corso alla misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra la demolizione d'ufficio e l'irrogazione della sanzione pecuniaria costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva successiva alla disposta ingiunzione.
In tale ipotesi, l'ingiunzione di demolizione costituisce, cioè, la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria, disciplinato dall’art. 34, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, viene effettuato soltanto in un secondo momento (successivo ed autonomo rispetto all'atto di diffida), ossia quando il soggetto privato non abbia ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (stavolta non indirizzato all'autore dell'abuso edilizio, ma agli uffici e relativi dipendenti dell’amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di demolizione in danno delle opere edili costruite in parziale difformità dal permesso di costruire.
Conseguentemente, soltanto nella predetta seconda fase può, in linea teorica, non ritenersi legittimo l’ordine di demolire, sprovvisto di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi ed alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dall’art. 34, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001; valutazione che deve essere effettuata mediante apposito accertamento da parte dell’amministrazione, d'ufficio o su richiesta del soggetto interessato.
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8. I germani Si. non possono, poi, fondatamente dolersi della carenza istruttoria e motivazionale circa l’applicabilità della sanzione alternativa pecuniaria in luogo di quella demolitoria (cfr. retro, in narrativa, sub n. 6.f).
Tale censura si infrange conto una serie di obiezioni insuperabili.
8.1. Innanzitutto, dalla puntuale descrizione degli abusi accertati, così come compiuta nell’ordinanza di demolizione n. 2221 del 27.11.2017 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 5) emerge in termini perspicui come essi, per la relativa incidenza planovolumetrica, morfologica e funzionale, integrino non già gli estremi della difformità parziale, sanzionabile ai sensi dell’art. 34 del d.p.r. n. 380/2001, bensì gli estremi dell’organismo edilizio totalmente difforme o, comunque, della variazione essenziale rispetto al fabbricato assentito con la licenza edilizia n. 83 del 09.06.1964, sanzionabile ai sensi del precedente art. 31.
8.2. In ogni caso, poi, nell’ipotesi –qui non ravvisabile– di interventi edilizi eseguiti in parziale difformità, la valutazione circa la possibilità o meno di dar corso alla misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra la demolizione d'ufficio e l'irrogazione della sanzione pecuniaria costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva successiva alla disposta ingiunzione (cfr. TAR Basilicata, Potenza, n. 921/2008; TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 5244/2008; sez. VI, n. 3044/2014).
In tale ipotesi, l'ingiunzione di demolizione costituisce, cioè, la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria, disciplinato dall’art. 34, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, viene effettuato soltanto in un secondo momento (successivo ed autonomo rispetto all'atto di diffida), ossia quando il soggetto privato non abbia ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (stavolta non indirizzato all'autore dell'abuso edilizio, ma agli uffici e relativi dipendenti dell’amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di demolizione in danno delle opere edili costruite in parziale difformità dal permesso di costruire.
Conseguentemente, soltanto nella predetta seconda fase può, in linea teorica, non ritenersi legittimo l’ordine di demolire, sprovvisto di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi ed alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dall’art. 34, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001; valutazione che deve essere effettuata mediante apposito accertamento da parte dell’amministrazione, d'ufficio o su richiesta del soggetto interessato.
8.3. Infine, è appena il caso di soggiungere che l’adombrata fiscalizzazione dell’abuso ai sensi dell’art. 34 del d.p.r. n. 380/2001 non trova giustificazione nell’ipotetica impossibilità di eseguire la demolizione senza pregiudizio dell’edificio assentito con la licenza edilizia n. 83 del 09.06.1964: nessuna prova adeguata è, infatti, fornita dai ricorrenti, ai sensi e per gli effetti dell’art. 64, comma 1, cod. proc. amm., circa il pregiudizio derivante a detto edificio dalla eliminazione delle opere contestate con l’ordinanza di demolizione n. 2221 del 27.11.2017 (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.09.2019 n. 1548 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistici – Permesso di costruire – Legittimità/illegittimità dell’atto amministrativo – Poteri del giudice penale – Tutela sostanziale del territorio – Parametro di legalità – Artt. 12 e 13, d.P.R. 380/2001.
In materia urbanistica, il giudice penale può conoscere della legittimità dell’atto amministrativo che costituisca oggetto della fattispecie incriminatrice se tale potere trova fondamento e giustificazione nell’ambito della interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora la legittimità/illegittimità dell’atto si presenti come elemento essenziale della fattispecie criminosa (cfr. Sez. U., n. 3 del 31/01/1987, Giordano), ciò che certamente avviene nel caso del reato urbanistico in esame, che ha di mira la tutela sostanziale del territorio, il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente (Cass. Sez. U., n. 11635 del 12/11/1993, Borgia).
Posto, dunque, che il permesso di costruire deve essere rilasciato «in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente» (art. 12, comma 1, d.P.R. 380/2001, ribadito dal successivo art. 13, comma 1, d.P.R. 380/2001), laddove il provvedimento amministrativo, pur formalmente rilasciato, sia irrimediabilmente viziato per contrasto con il modello legale, tale da risolversi in una mera apparenza, ai fini dell’applicazione della disposizione penale lo stesso dev’essere considerato mancante e questa valutazione non viola il principio di legalità vigente in materia penale, né, fatta salva la necessità di accertare l’elemento soggettivo, quello di colpevolezza.

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Abusi edilizi – Permesso di costruire illegittimo per contrasto con diverse disposizioni del Piano Territoriale Paesistico – Presupposti per la configurabilità del reato urbanistico – Esecuzione di lavori “sine titulo” – Sanzioni penali – Giurisprudenza.
La macroscopica illegittimità del permesso di costruire non costituisce una condizione essenziale per l’oggettiva configurabilità del reato, ma rileva soltanto con riguardo alla sussistenza dell’elemento soggettivo di fattispecie, rappresentando un significativo indice sintomatico della sussistenza della colpa richiesta per l’integrazione del reato.
Pertanto, ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non possono ritenersi realizzate in “assenza” di permesso di costruire le opere eseguite sulla base di un provvedimento abilitativo meramente illegittimo, ma non illecito o viziato da illegittimità macrocospica tale da potersi ritenere sostanzialmente mancante.
Tale soluzione esclude sia una irragionevole equiparazione interpretativa “in malam partem” tra mancanza “ab origine” dell’atto concessorio e illegittimità dello stesso accertata “ex post”, sia la violazione del principio della responsabilità penale per fatto proprio colpevole
(Cass. Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, dep. 2015, Cervino e aa.).
Sicché, la contravvenzione di esecuzione di lavori “sine titulo” sussiste anche nel caso in cui il permesso di costruire, pur apparentemente formato, sia illegittimo per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia di fonte normativa o risultante dalla pianificazione (Sez. 3, n. 56678 del 21/09/2018, Iodice; Sez. 3, n. 49687 del 07/06/2018, Bruno e a.; v. anche Sez. 3, n. 12389 del 21/02/2017, Minosi)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.09.2019 n. 37475 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Gestione illecita di rifiuti – Presa in consegna di veicoli fuori uso – Natura di rifiuto pericoloso delle autovetture e delle parti di autovetture.
In tema di gestione di rifiuti, la natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori uso non necessita di particolari accertamenti, quando risulti, anche soltanto per le modalità di raccolta e deposito, che lo stesso non è stato sottoposto ad alcuna operazione finalizzata alla rimozione dei liquidi o delle altre componenti pericolose.
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RIFIUTI – Gestione di rifiuti – Attività di mera «presa in consegna» – Attività di autorottamazione – Soggetto non autorizzato – Configurabilità del reato – Art. 256 d.lgs. n. 152/2006 – Deposito temporaneo – Esclusione.
In materia di gestione di rifiuti, anche un’attività di mera «presa in consegna» a carattere temporaneo di autoveicoli, da avviare in un secondo momento, a rottamazione e ciò esclusivamente ai fini dello smontaggio dei pezzi di autovettura da vendere come pezzi di ricambio usati, con successivo conferimento a ditte abilitate alla rottamazione, nonché a ditte abilitate alla raccolta, recupero e smaltimento dei materiali non utilizzabili come pezzi di ricambio, posta in essere da un soggetto non autorizzato integra il reato di cui all’art. 256, co.1, D.L.vo 152/2006.
In alcun modo, inoltre, può ipotizzarsi un deposito temporaneo, posto che il ricorrente non è il produttore dei rifiuti.
Fattispecie: attività di raccolta di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi, senza alcuna autorizzazione, stoccati in maniera promiscua e senza alcun accorgimento tecnico, direttamente sul suolo, nel terreno agricolo di proprietà
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.09.2019 n. 37358 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Tutela delle acque dall’inquinamento – Svolgimento dell’attività economica in assenza dell’autorizzazione – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – P.A. inadempiente o abbia mantenuto un silenzio ingiustificato – Effetti.
In tema di tutela delle acque dall’inquinamento, in assenza dell’autorizzazione l’attività che richiede l’autorizzazione non può proseguire, pur se la P.A. risulti inadempiente o abbia mantenuto un silenzio ingiustificato.
Infatti, per lo svolgimento dell’attività economica del ricorrente occorrono una serie di passaggi amministrativi che sono previsti dalla legge nell’interesse della collettività alla tutela dell’ambiente; si tratta di interessi del tutto prevalenti rispetto al diritto del singolo di svolgere l’attività economica
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.09.2019 n. 37358 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATACirca la c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’, secondo l’ormai consolidato orientamento del Consiglio Stato, tale istituto deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio, essendo il permesso in sanatoria ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa, e non trovando pertanto l’istituto all’esame fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa, tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione.
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5.3. Premesso che da quanto sopra discende, altresì, l’infondatezza dei vizi di illegittimità derivata dedotti avverso l’ordinanza di demolizione, in reiezione dell’appello proposto avverso la statuizione reiettiva dei motivi per vizi propri proposti avverso tale atto occorre rilevare che:
   - correttamente è stata disattesa la censura di violazione della garanzia partecipativa ex art. 7 l. n. 241/1990, trattandosi di atto di natura vincolata ed essendo palese che il relativo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, con la conseguente operatività della sanatoria ex art. 21-octies l. n. 241/1990 ed esclusione dell’annullabilità dell’atto;
   - altrettanto correttamente, nell’impugnata sentenza, è stato richiamato l’arresto n. 9/2017 dell’Adunanza Plenaria, per cui il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso, con la conseguente manifesta infondatezza della censura di carenza di motivazione;
   - destituita di fondamento è, infine, la riproposta censura con cui sostanzialmente si invoca l’applicazione dell’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’, in quanto, secondo l’ormai consolidato orientamento del Consiglio Stato (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 24.04.2018, n. 2496, e 20.02.2018, n. 1087, con ulteriori richiami, comprensivi di arresti della Corte costituzionale), pienamente condiviso da questo Collegio, tale istituto deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio, essendo il permesso in sanatoria ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa, e non trovando pertanto l’istituto all’esame fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa, tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.09.2019 n. 6107 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICAAi fini della verifica delle conseguenze della scadenza del termine decennale di efficacia dei piani di lottizzazione, non rileva se la mancata attuazione del piano dipenda dal privato ovvero dalla pubblica amministrazione, rilevando esclusivamente, alla luce dell'art. 17 l. n. 1150/1942, il dato oggettivo della mancata attuazione del piano.
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In linea generale, va evidenziato che il Consiglio di Stato, in materia di efficacia del piano di attuazione, ha indicato i seguenti principi come discendenti da una corretta interpretazione dell’art. 17 delle legge n. 1150 del 1942:
   “a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 c.c.);
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha efficacia ultrattiva”.
In particolare, quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica -secondo cui l’efficacia dei piani particolareggiati, come sopra visto, ha un termine entro il quale le opere debbono essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-, la giurisprudenza ha chiarito che ”l’imposizione del termine suddetto va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione".
Peraltro, per quanto qui in particolare rileva, è stato, altresì, precisato che “Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi”.
Dunque, gli effetti della intervenuta inefficacia del Piano riguardano la (e sono limitati alla sola) disciplina urbanistica, ma non possono incidere sulla validità e sull’efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi previsti nel Piano medesimo.
Se, invero, gli impegni previsti da una convenzione urbanistica gravano sulla proprietà privata come oneri reali, in quanto sono il naturale contrappeso dei diritti edificatori, non si vede il motivo per cui ove tali impegni siano stati posti a carico dell’Amministrazione, nell’ambito delle previsioni del Piano, essa se ne possa sottrarre, pur a fronte dell’adempimento dei corrispettivi obblighi (cessioni di aree e anticipazione quota parte del costo delle opere di urbanizzazione) gravanti sui singoli compartisti.
Del resto, non appare dubbio che l’edificazione dei privati può essere eseguita e mantenuta solo in quanto si inserisca in un’area che sia resa conforme alle prescrizioni urbanistiche e, dunque, dotata delle infrastrutture e degli standard urbanistici stabiliti dall’Amministrazione medesima.

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Nelle premesse di tale deliberazione, il Comune prende atto che il Piano Particolareggiato è decaduto in data 20.08.2016, risultando decorsi dieci anni dalla sua approvazione, ai sensi degli artt. 16 e 17 della legge n. 11590/1942, così come gli ulteriori tre anni di proroga, secondo quanto disposto dal D.L. n. 69/2013.
Il Comma 5 dell’art. 16 della legge n. 1150/1992 prevede che l’atto di approvazione dei piani particolareggiati fissa il tempo, non maggiore di anni 10, entro cui il piano deve essere attuato ed i termini entro cui dovranno essere compiute le relative espropriazioni; il successivo art. 17 –rubricato “validità dei piani particolareggiati”- dispone che “Decorso il termine stabilito per la esecuzione del piano particolareggiato questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
Ebbene, non è in discussione tra le parti che il termine di efficacia massimo fissato dalle succitate previsioni normative sia stato superato, per cui il Piano (decaduto) è divenuto inefficace e le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico non possono essere attuate, giusta la scadenza del suddetto termine, a seguito della quale l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate.
Ad un tanto, consegue che la presa d’atto di cui alla deliberazione impugnata relativa alla intervenuta decadenza del Piano Particolareggiato appare immune dai vizi dedotti.
Invero, non è fondata la censura (di cui al primo motivo) relativa alla asserita violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, atteso che –a prescindere da ogni altra considerazione– la presa d’atto dell’Amministrazione è scevra da ogni forma di valutazione discrezionale, costituendo, a ben vedere, accertamento vincolato, connesso unicamente alla verifica della scadenza del termine massimo di validità del Piano fissato per legge.
Parimenti infondata è la denunciata violazione (di cui al secondo motivo) dei principi di trasparenza, buona fede, correttezza e affidamento, atteso che, da un lato, nessun affidamento legittimo può sussistere in ordine alla ultra attività di un Piano Particolareggiato la cui inefficacia consegue alla scadenza della sua validità fissata per legge; dall’altro, le (valorizzate) dichiarazioni del Sindaco esprimono l’intendimento dell’Amministrazione di individuare una soluzione alle complesse problematiche che indubbiamente investono la Zona D, ma non sono certamente idonee a concretizzare la violazione dei principi invocati in ricorso, riverberandosi sulla legittimità di una deliberazione consiliare che, nel recepire l’atto di impegno presentato da un compartista unitamente alla domanda di rilascio di titolo edilizio, prende atto della intervenuta decadenza del P.P. per decorrenza del termine di dieci anni dalla sua approvazione; nemmeno può aver determinato un legittimo affidamento il rilascio di un titolo edilizio, pur a Piano decaduto, atteso che tale possibilità appare ammessa dallo stesso art. 17 L.U., il quale dispone che, decorso il termine per la esecuzione del piano, rimane “soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso“; quanto al rilievo secondo il quale la decadenza sarebbe da addebitare interamente all’Amministrazione, si osserva che tale aspetto, ove risultante effettivamente fondato, potrebbe tutt'al più rilevare quale elemento concorrente a radicare una responsabilità in capo all’ente comunale, ma non potrebbe incidere sul dato fattuale della decorrenza del termine massimo di validità del Piano: è stato, invero, rilevato che "ai fini della verifica delle conseguenze della scadenza del termine decennale di efficacia dei piani di lottizzazione, non rileva se la mancata attuazione del piano dipenda dal privato ovvero dalla pubblica amministrazione, rilevando esclusivamente, alla luce dell'art. 17 l. n. 1150/1942, il dato oggettivo della mancata attuazione del piano" (TAR Sardegna, sez. II, 17.07.2013, n. 553).
Infondato risulta, altresì, il denunciato difetto istruttorio e di motivazione (terzo motivo), atteso che, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, è proprio il mero decorso del termine massimo di validità a determinare l’inefficacia del Piano, per la parte in cui non abbia avuto attuazione, come stabilito dalla normativa sopra richiamata.
Infine, infondata è anche la denunciata violazione (quarto motivo) degli artt. 16, 17 e 28 L.U, in relazione al rilievo secondo il quale il P.P. sarebbe stato attuato nelle previsioni relative agli espropri (tramite gli atti d’obbligo unilaterali), atteso che il Piano può considerarsi attuano non solo quando sono stati effettuati gli espropri previsti, ma quando sono state realizzate le necessarie opere di urbanizzazione e infrastrutturali ivi contemplate e necessarie ai fini dell’edificazione, circostanza che –stante lo stesso oggetto sostanziale del ricorso –non si è (del tutto) verificata nel caso in discussione.
Dunque, in definitiva, è indiscutibile che il Piano Particolareggiato in questione è decaduto per decorrenza del termine di cui all’art. 17 della L.U. Altra cosa, però, sono gli effetti dell’intervenuta decadenza del medesimo Piano.
Sotto tale, distinto, profilo, risultano fondate, nei termini di seguito precisati, le doglianze articolate dalla ricorrente nel secondo ordine di motivi.
In linea generale, va evidenziato che il Consiglio di Stato (sez. IV, 26.08.2014, n. 4278; id., sez. V, 30.04.2009, n. 2768; Id., sez. IV, 27.10.2009, n. 6572), in materia di efficacia del piano di attuazione, ha indicato i seguenti principi come discendenti da una corretta interpretazione dell’art. 17 delle legge n. 1150 del 1942:
   “a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 c.c.);
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha efficacia ultrattiva
”.
In particolare, quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica -secondo cui l’efficacia dei piani particolareggiati, come sopra visto, ha un termine entro il quale le opere debbono essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-, la giurisprudenza ha chiarito che ”l’imposizione del termine suddetto va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione" (Consiglio di Stato, sez. IV, 19.02.2007, n. 851, richiamato da Consiglio di Stato n. 4278/2014 cit.).
Peraltro, per quanto qui in particolare rileva, è stato, altresì, precisato (Consiglio di Stato n. 4278/2014 cit.) che “Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20.07.2012, n. 28)”.
Dunque, gli effetti della intervenuta inefficacia del Piano riguardano la (e sono limitati alla sola) disciplina urbanistica, ma non possono incidere sulla validità e sull’efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi previsti nel Piano medesimo.
Se, invero, gli impegni previsti da una convenzione urbanistica gravano sulla proprietà privata come oneri reali, in quanto sono il naturale contrappeso dei diritti edificatori (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.08.2017, id. Brescia, sez. I, 18.07.2017, n. 933), non si vede il motivo per cui ove tali impegni siano stati posti a carico dell’Amministrazione, nell’ambito delle previsioni del Piano, essa se ne possa sottrarre, pur a fronte dell’adempimento dei corrispettivi obblighi (cessioni di aree e anticipazione quota parte del costo delle opere di urbanizzazione) gravanti sui singoli compartisti.
Del resto, non appare dubbio che l’edificazione dei privati può essere eseguita e mantenuta solo in quanto si inserisca in un’area che sia resa conforme alle prescrizioni urbanistiche e, dunque, dotata delle infrastrutture e degli standard urbanistici stabiliti dall’Amministrazione medesima.
Nel caso in esame, è incontestato tra le parti che la ricorrente (così come gli atri compartisti) ha adempiuto alle proprie obbligazioni mettendo a disposizione dell’Amministrazione le aree e versando, tramite compensazione con il credito vantato per i maggiori standard ceduti –come sostenuto dalla ricorrente e non contestato dall’Amministrazione Comunale-, la propria quota degli oneri di urbanizzazione.
Sotto tale profilo, dunque, è fondata e va accolta la domanda con cui la ricorrente chiede la condanna dell’Amministrazione comunale all’adempimento della prestazione posta a suo carico relativamente alla ripresa e conclusione dei lavori di urbanizzazione.
L’Amministrazione, a tal fine, dovrà porre in essere tutte le attività amministrative ed esecutive necessarie alla ripresa e conclusione dei lavori di urbanizzazione, sulla base delle previsioni progettuali originarie o di quelle di variante se, medio tempore, approvata, ovvero, se necessario, sulla base di quelle di cui al nuovo Piano Particolareggiato (TAR Lombardiua-Brescia, Sez. II, sentenza 05.09.2019 n. 795 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa "piena conoscenza" del provvedimento impugnabile non deve essere intesa quale "conoscenza piena ed integrale" del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso.
Va, infatti, chiarito che, mentre la consapevolezza dell'esistenza del provvedimento e della sua lesività concreta ed attuale integra la sussistenza di una condizione dell'azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all'impugnazione dell'atto (così determinando quella "piena conoscenza" indicata dalla norma), la conoscenza "integrale" del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
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Ai fini della verifica della tempestività del ricorso, occorre richiamare i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa in ordine alla questione della verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del termine decadenziale per proporre l'azione di annullamento:
   a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni;
   b) l'inizio dei lavori segna il dies a quo ai fini della tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l'an dell'edificazione;
   c) il completamento dei lavori (o, comunque, il momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell'intervento) segna il dies a quo per l’impugnazione del permesso di costruire laddove si contesti il quomodo dell’edificazione (distanze, consistenza, volumetria, ecc.);
   d) la richiesta di accesso agli atti, invero, non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali;
   e) l'apposizione del prescritto cartello di cantiere ha la funzione di esporre al pubblico i titoli edilizi rilasciati e i nominativi dei responsabili dell'attività edilizia in corso, onde consentire a eventuali controinteressati di far valere in sede amministrativa e/o giurisdizionale le proprie posizioni giuridiche soggettive eventualmente lese dall'attività edilizia (e rendere agevolmente individuabili i soggetti responsabili qualora durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni nel confronti di terzi), sicché è onere del ricorrente di attivarsi immediatamente e senza indugio presso i competenti uffici comunali per prendere visione del progetto.
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2.- In via preliminare, il Collegio deve esaminare l'eccezione di tardività del ricorso.
2.1.- Occorre premettere che la "piena conoscenza" del provvedimento impugnabile non deve essere intesa quale "conoscenza piena ed integrale" del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso.
Va, infatti, chiarito che, mentre la consapevolezza dell'esistenza del provvedimento e della sua lesività concreta ed attuale integra la sussistenza di una condizione dell'azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all'impugnazione dell'atto (così determinando quella "piena conoscenza" indicata dalla norma), la conoscenza "integrale" del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
2.2.- Tanto chiarito, ai fini della verifica della tempestività del ricorso, occorre richiamare i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa (ex multis, Cons. Stato, n. 5675 del 2017; Cons. Stato, n. 1135 e n. 4701 del 2016) in ordine alla questione della verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del termine decadenziale per proporre l'azione di annullamento:
   a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni (Consiglio di Stato , sez. IV, 28/10/2015 , n. 4909);
   b) l'inizio dei lavori segna il dies a quo ai fini della tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l'an dell'edificazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 04/12/2017, n. 5675);
   c) il completamento dei lavori (o, comunque, il momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell'intervento) segna il dies a quo per l’impugnazione del permesso di costruire laddove si contesti il quomodo dell’edificazione (distanze, consistenza, volumetria, ecc.);
   d) la richiesta di accesso agli atti, invero, non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali;
   e) l'apposizione del prescritto cartello di cantiere ha la funzione di esporre al pubblico i titoli edilizi rilasciati e i nominativi dei responsabili dell'attività edilizia in corso, onde consentire a eventuali controinteressati di far valere in sede amministrativa e/o giurisdizionale le proprie posizioni giuridiche soggettive eventualmente lese dall'attività edilizia (e rendere agevolmente individuabili i soggetti responsabili qualora durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni nel confronti di terzi), sicché è onere del ricorrente di attivarsi immediatamente e senza indugio presso i competenti uffici comunali per prendere visione del progetto
(TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 05.09.2019 n. 450 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 15 DPR 380/2001 al comma 2 dispone che: “il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari".
La ratio complessiva della disciplina dell'art. 15 D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) sta nell'obiettivo di mantenere il controllo sull'attività di edificazione, ovviamente per sua natura non istantanea, non solo al momento del rilascio del titolo abilitativo ma, anche, successivamente al momento della realizzazione, garantendo solo entro limiti temporali ragionevoli il compimento dell'opera iniziata.
L'effetto decadenziale ha carattere automatico ed è ricollegato al verificarsi dei presupposti previsti dalla legge, tanto è vero che la giurisprudenza qualifica il provvedimento recante la declaratoria di decadenza del permesso di costruire come un provvedimento di natura ricognitiva di effetti già verificatisi ex lege, con l'infruttuoso decorso del termine fissato.
La decadenza automatica del titolo comporta che, per la realizzazione dei lavori non eseguiti o non iniziati tempestivamente è richiesto il rilascio di nuovo permesso di costruire.
E’ stato quindi condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza che il mero rilascio di un permesso in variante all'originario permesso per costruire non fa decorrere un nuovo termine di avvio e di conclusione dei lavori, il quale va sempre determinato con riferimento al titolo edilizio originario.

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3.- Nel merito il ricorso è fondato in relazione al primo assorbente motivo di ricorso, con il quale il ricorrente deduce la violazione dell’art. 15 D.P.R. n. 380 del 2001.
3.1.- L’art. 15 cit., al comma 2, dispone che: “il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari".
La ratio complessiva della disciplina dell'art. 15 D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) sta nell'obiettivo di mantenere il controllo sull'attività di edificazione, ovviamente per sua natura non istantanea, non solo al momento del rilascio del titolo abilitativo ma, anche, successivamente al momento della realizzazione, garantendo solo entro limiti temporali ragionevoli il compimento dell'opera iniziata.
L'effetto decadenziale ha carattere automatico ed è ricollegato al verificarsi dei presupposti previsti dalla legge, tanto è vero che la giurisprudenza qualifica il provvedimento recante la declaratoria di decadenza del permesso di costruire come un provvedimento di natura ricognitiva di effetti già verificatisi ex lege, con l'infruttuoso decorso del termine fissato (ex multis: Consiglio di Stato, sez. III, 04/04/2013 , n. 1870).
La decadenza automatica del titolo comporta che, per la realizzazione dei lavori non eseguiti o non iniziati tempestivamente è richiesto il rilascio di nuovo permesso di costruire (Cons. Stato Sez. VI, 06/02/2019, n. 891).
E’ stato quindi condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza che il mero rilascio di un permesso in variante all'originario permesso per costruire non fa decorrere un nuovo termine di avvio e di conclusione dei lavori, il quale va sempre determinato con riferimento al titolo edilizio originario (Cons. Stato Sez. IV Sent., 11/10/2017, n. 4704).
Nella specie, emerge che l’originario permesso di costruire è stato rilasciato in data 11.10.2013 e risulta comprovato, come risulta dalla foto della tabella di cantiere (doc. 24 del fascicolo di parte ricorrente), che i lavori sono iniziati nel Dicembre 2014, allorquando il titolo edilizio era già decaduto per l’effetto del decorso del termine di un anno dal rilascio del titolo ed in assenza di un provvedimento di proroga da parte del Comune.
Né si condivide la tesi del Comune resistente secondo il quale la decadenza dell’originario permesso di costruire, per poter esplicare i propri effetti, avrebbe dovuto essere formalizzata con un provvedimento amministrativo ad hoc, posto che lo stesso provvedimento n. 25/2013 subordinava il rilascio del titolo all’inizio dei lavori “entro dodici mesi dalla data del rilascio del presente permesso di costruire, pena la decadenza”.
Non risulta, pertanto, pertinente, nella specie, il richiamo a quell’orientamento giurisprudenziale (Consiglio di Stato, sez. IV, 22/10/2015, n. 4823), che richiede l’adozione di un provvedimento espresso di decadenza, sulla base dell'esigenza di assicurare il contraddittorio con il privato in ordine all'esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che giustificano la pronuncia stessa. Esigenza che, nel caso di specie, non sussisteva, posto che il Comune, all’atto del rilascio del titolo edilizio aveva preannunciato la decadenza in caso di mancato inizio dei lavori nel termine di un anno.
Applicando in suesposti principi al caso di specie, emerge l’illegittimità dell’operato del Comune resistente che, in violazione dell’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, in assenza di un’istanza di proroga proposta anteriormente alla scadenza del titolo, anziché adottare un provvedimento vincolato recante la ricognizione dell’intervenuta decadenza del permesso di costruire originario n. 25/2013, rilasciava un permesso di costruire in variante (n. 16/2017) ad un titolo ormai decaduto.
Né il permesso di costruire n. 16/2017 è qualificabile, così come affermato nella memoria del Comune, quale nuovo e autonomo titolo edilizio sostitutivo del precedente. Al contrario, dall’analisi del provvedimento stesso e della relazione tecnica acquisita in giudizio, il Comune si limita a rilasciare una vera e propria “variante di completamento dei lavori di ristrutturazione edilizia con ampliamento parziale ai sensi della L.R. 16/2009” assentiti con l’originario permesso di costruire
(TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 05.09.2019 n. 450 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Domanda di sanatoria – Doppia conformità – Verifica di conformità delle opere abusive agli strumenti urbanistici – Rilascio del permesso in sanatoria – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Attività vincolata della P.A. – Necessità di motivazione del pubblico funzionario – Art. 36 D.P.R. 380/2001 – Giurisprudenza.
L’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un’attività vincolata della P.A., consistente nell’applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all’Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
Pertanto, costituendo la verifica della “doppia conformità” il fulcro di tale potere in ordine all’atto adottato ex art. 36 DPR 380/01, consegue che del relativo accertamento deve darsi conto in motivazione come dimostrazione della avvenuta effettuazione della funzione affidata al pubblico funzionario e quale strumento di controllo del corretto esercizio della medesima.

...
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità” – Verifica affidata al giudice penale – Responsabile del procedimento amministrativo – Motivazione dell’atto scrutinato – Effetti.
In materia urbanistica, la verifica affidata al giudice penale, diretta a stabilire la sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità”, passa per il previo accertamento di una motivazione che dia conto dell’avvenuto, positivo esercizio della funzione di sanatoria dell’atto adottato ex art. 36 DPR 380/2001, incentrata sulla verifica di conformità delle opere abusive agli strumenti urbanistici vigenti al momento della loro realizzazione e della presentazione della richiesta di sanatoria.
Cosicché, l’eventuale esito negativo della verifica, sul piano motivazionale dell’atto scrutinato, dell’avvenuto espletamento di tale attività, portando all’esclusione del controllo “tipico” dell’atto di sanatoria ex art. 36 DPR 380/01, consente al giudice penale già di escludere qualsivoglia estinzione sopravvenuta del reato edilizio.
Di converso invece, in caso di verifica positiva del profilo motivazionale dell’atto di sanatoria nei termini anzidetti, non può escludersi che il giudice penale approfondisca ulteriormente, ove ritenuto opportuno, il tema della sussistenza del requisito della “doppia conformità” attraverso una verifica “in concreto” dell’avvenuto rispetto degli strumenti urbanistici nel predetto intervallo temporale, in grado in tal modo di confermare o meno la correttezza del giudizio di doppia conformità sostenuto in motivazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.09.2019 n. 37050 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della realizzazione sia di opere di sbancamento sia di muri di contenimento di dimensioni significative è necessario munirsi del permesso di costruire:
   - in particolare, per ius receptum, le attività di movimento di terra, di sbancamento e di livellamento del terreno per usi diversi da quelli agricoli, laddove modifichino stabilmente la precedente conformazione naturale di un’area, in vista di un impiego non già meramente contingente, bensì prolungato nel tempo, concretano una trasformazione del territorio rilevante dal punto di vista urbanistico-edilizio, subordinata, come tale, al previo rilascio di apposito permesso di costruire sulla base della definizione generale di cui all'art. 3, comma 1, lett. e), del d.p.r. n. 380/2001;
   - nel contempo, per giurisprudenza altrettanto consolidata, i muri di contenimento costituiscono opere suscettibili di incidere sull’assetto urbanistico-edilizio del territorio, siccome dotate di consistenza e stabilità, e riconducibili, quindi, al novero degli interventi di nuova costruzione di cui al citato art. 3, comma 1, lett. e), del d.p.r. n. 380/2001, le quali necessitano, per la loro realizzazione, del previo rilascio del permesso di costruire.
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Da un lato, la necessità di preventiva autorizzazione paesaggistica riguarda ogni attività comportante una modificazione dell'assetto territoriale, ivi compresa la conformazione dei luoghi, e secondo cui, d’altro lato, non sono ravvisabili gli estremi dell’abuso ‘minore’ nelle opere di sbancamento del terreno finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, atteso che esse incidono sullo stesso tessuto urbanistico del territorio e ne alterano la morfologia.
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Considerato, poi, che:
   - ai fini della realizzazione sia di opere di sbancamento sia di muri di contenimento di dimensioni significative è necessario munirsi del permesso di costruire (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 2044/2012);
   - in particolare, per ius receptum, le attività di movimento di terra, di sbancamento e di livellamento del terreno per usi diversi da quelli agricoli, laddove modifichino stabilmente la precedente conformazione naturale di un’area, in vista di un impiego non già meramente contingente, bensì prolungato nel tempo, concretano una trasformazione del territorio rilevante dal punto di vista urbanistico-edilizio, subordinata, come tale, al previo rilascio di apposito permesso di costruire sulla base della definizione generale di cui all'art. 3, comma 1, lett. e), del d.p.r. n. 380/2001 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2915/2016; TAR Liguria, Genova, sez. I, n. 876/2014; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n. 2520/2018; TAR Umbria, Perugia, n. 469/2018; Cass. pen., sez. III, n. 4916/2014; n. 48990/2014; n. 1308/2016)
   - nel contempo, per giurisprudenza altrettanto consolidata, i muri di contenimento costituiscono opere suscettibili di incidere sull’assetto urbanistico-edilizio del territorio, siccome dotate di consistenza e stabilità, e riconducibili, quindi, al novero degli interventi di nuova costruzione di cui al citato art. 3, comma 1, lett. e), del d.p.r. n. 380/2001, le quali necessitano, per la loro realizzazione, del previo rilascio del permesso di costruire (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 4169/2018; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 10729/2014; TAR Lombardia, Brescia, sez. II, n. 1728/2015; TAR Campania, Napoli, sez. II, n. 3996/2016; TAR Molise, Campobasso, n. 317/2017; TAR Piemonte, Torino, sez. II, n. 160/2018; TAR Veneto, Venezia, sez. II, n. 663/2018);
   - alla stregua della descrizione contenuta nella gravata ordinanza di demolizione n. 13 del 13.02.2019, e in mancanza di sufficienti prove contrarie da parte dei ricorrenti (non potendosi considerare dirimente la documentazione a corredo della relazione tecnica asseverata da essi esibita), l’intervento controverso presenta, all’evidenza, i caratteri propri delle su indicate tipologie di attività di trasformazione del territorio;
   - pertanto, esso necessitava del previo rilascio del permesso di costruire, in mancanza del quale legittimamente è stata applicata la misura ripristinatoria;
   - così come necessitava pure del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, non essendo riconducibile al perimetro di esenzione definito dall’art. 149, lett. b), del d.lgs. n. 42/2004 (a norma del quale non sono subordinati ad autorizzazione paesaggistica «gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio»), ed era, quindi, anche sotto questo profilo, esposto alla sanzione demolitoria di cui al comma 1 dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non essendo annoverabile tra i c.d. abusi minori di cui al successivo comma 4;
   - a tale ultimo riguardo, giova richiamare il condivisibile arresto sancito da TAR Campania, Salerno, sez. I, n. 59/2015, secondo cui, da un lato, la necessità di preventiva autorizzazione paesaggistica riguarda ogni attività comportante una modificazione dell'assetto territoriale, ivi compresa la conformazione dei luoghi, e secondo cui, d’altro lato, non sono ravvisabili gli estremi dell’abuso ‘minore’ nelle opere di sbancamento del terreno finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, atteso che esse incidono sullo stesso tessuto urbanistico del territorio e ne alterano la morfologia (cfr. anche TAR Liguria, Genova, sez. I, n. 876/2014; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 10729/2014) (TAR Calabria-Salerno, Sez. II, sentenza 04.09.2019 n. 1491 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: 1.- Appalti Pubblici – gara – RUP – Commissione Giudicatrice – attività – differenze.
2.- Appalti Pubblici – gara – varianti e mere migliorie – identificazione e distinzioni – discrezionalità valutativa – sussiste.
  
1. Nell’ambito della ordinaria attività di vigilanza sulla regolarità della procedura di gara il RUP è tenuto a rappresentare alla Commissione Giudicatrice le proprie perplessità su eventuali aspetti controversi della procedura e delle offerte dei concorrenti laddove presentino aspetti di criticità con le previsioni della lex specialis.
Gli ambiti e i ruoli della Commissione e del RUP però sono diversi: la Commissione è deputata a giudicare le offerte tecniche ed economiche e il RUP ha essenzialmente la funzione di gestione del procedimento di gara e il ruolo di fornire alla stazione appaltante gli elementi idonei per una corretta e consapevole formazione della volontà contrattuale dell’Amministrazione.
   2. Nell’attività di valutazione e qualificazione delle proposte progettuali ai fini della loro riconduzione nell’ambito delle varianti o delle mere migliorie, vi è un ampio margine di discrezionalità tecnica della Commissione giudicatrice, censurabile dal giudice amministrativo ove sia trasmodata in una irragionevolezza o illogicità della valutazione, vizi riguardo ai quali è ammissibile il sindacato processuale di legittimità, sul presupposto, peraltro, che nessuna disposizione normativa definisce il concetto di miglioria e/o di variante progettuale in fase di gara, sicché le distinzioni della specie sono appunto offerte dall’orientamento giurisprudenziale
(massima free tratta da www.giustamm.it).
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La ricorrente richiama a supporto della censurata violazione della lex specialis la nota inviata dal RUP alla Commissione giudicatrice (prot. n. 33933) in avvio della attività di verifica della congruità delle offerte, ma le valutazioni espresse dal RUP non possono sostituire quelle della Commissione giudicatrice la quale, nelle gare pubbliche di appalto, per la cui aggiudicazione è prescelto il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, come nella specie, ha competenza esclusiva riguardo all’attività valutativa delle offerte tecniche dei concorrenti.
Ed infatti nell’ambito della ordinaria attività di vigilanza sulla regolarità della procedura di gara il RUP è tenuto a rappresentare alla Commissione Giudicatrice le proprie perplessità su eventuali aspetti controversi della procedura e delle offerte dei concorrenti laddove presentino aspetti di criticità con le previsioni della lex specialis.
Gli ambiti e i ruoli della Commissione e del RUP però sono diversi: la Commissione è deputata a giudicare le offerte tecniche ed economiche e il RUP ha essenzialmente la funzione di gestione del procedimento di gara e il ruolo di fornire alla stazione appaltante gli elementi idonei per una corretta e consapevole formazione della volontà contrattuale dell’Amministrazione (cfr. in tal senso, Cons. Stato, sez.V, 18.12.2017, n. 5934; Tar Lazio, sez. II, 09.07.2018, n. 7630).
Nella specie la Commissione Giudicatrice competente alla valutazione delle offerte tecniche, nel riscontrare la nota di osservazioni del RUP, riferisce di aver “riscontrato in tutte le singole proposte progettuali gli estremi della loro non riconducibilità al genus della variante ma a quello delle proposte migliorative”, affermazione che conferma l’ammissibilità delle offerte valutate.
Ed invero nell’attività di valutazione e qualificazione delle proposte progettuali ai fini della loro riconduzione nell’ambito delle varianti o delle mere migliorie, vi è un ampio margine di discrezionalità tecnica della Commissione giudicatrice riguardo la quale il Collegio non rinviene elementi sintomatici di manifesta inattendibilità del giudizio in relazione alla contestata qualificazione degli elementi migliorativi della proposta progettuale in questione; tale valutazione non è trasmodata in una irragionevolezza o illogicità della valutazione, vizi riguardo ai quali è ammissibile il sindacato di legittimità (cfr., ex multis, Cons.Stato sez. V, 17.01.2018, n. 269; id. 10.01.2017, n. 42; Tar Sicilia, Palermo, sez. III, 05.09.2018, n. 1898) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 29.08.2019 n. 10671 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi afferenti alla valutazione dell’offerta.
Principio generale regolatore delle gare pubbliche è quello che vieta la commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi afferenti alla valutazione dell’offerta ai fini dell’aggiudicazione; detto principio si correla all’esigenza di aprire il mercato, premiando le offerte più competitive ove presentate da imprese comunque affidabili, unitamente al canone di par condicio, che osta ad asimmetrie pregiudiziali di tipo meramente soggettivo.
La composizione dei due principi trova supporto logico e giuridico proprio nella necessaria distinzione tra i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara, che attengono all’operatore, e i criteri di valutazione, che invece attengono all’offerta e all’aggiudicazione; non solo, il principio si pone anche a tutela delle capacità competitive delle piccole e medie imprese che presentano un profilo esperienziale meno marcato ed è la stessa esigenza cui tende il legislatore laddove prevede –nell’art. 95, comma 6, del d.lgs. n. 50/2016- tra i criteri di selezione utilizzabili, “l’organizzazione, le qualifiche e l’esperienza del personale effettivamente utilizzato nell’appalto, qualora la qualità del personale incaricato possa avere un’influenza significativa sul livello di esecuzione dell’appalto.
Il problema della commistione tra i due parametri sorge perché la distinzione tra canone oggettivo di valutazione dell’offerta e requisito soggettivo del competitore, seppure chiara sul piano teorico, può diventare ardua sul piano concreto, stante la potenziale idoneità dei profili di organizzazione soggettiva a riverberarsi sull’affidabilità e sull’efficienza dell’offerta, ossia sulle modalità di esecuzione della prestazione contrattualmente dovuta.
Al riguardo, la giurisprudenza precisa che il divieto di commistione fra criteri soggettivi e oggettivi, afferenti alla valutazione dell’offerta, non è eluso solo quando gli aspetti organizzativi o le professionalità risultanti dal curriculum dell’operatore sono destinati ad essere apprezzati quale garanzia della migliore esecuzione della specifica prestazione richiesta, sicché integrano dei parametri afferenti alle caratteristiche oggettive dell'offerta.
Il parametro cui ancorare la valutazione della sussistenza di tale diretto riflesso di un requisito soggettivo sul contenuto della prestazione è l’oggetto del contratto da aggiudicare, proprio perché la norma di riferimento individua quali validi criteri di valutazione dell’offerta solo quelli pertinenti alla natura, all’oggetto e alle caratteristiche del contratto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 28.08.2019 n. 1928 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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La censura è fondata.
Come è noto, l’art. 95, comma 6, del d.l.vo 2016 n. 50 precisa che i documenti di gara stabiliscono i criteri di aggiudicazione dell’offerta, pertinenti alla natura, all’oggetto e alle caratteristiche del contratto. In particolare, l’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, è valutata sulla base di criteri oggettivi, quali gli aspetti qualitativi, ambientali o sociali, connessi all’oggetto dell'appalto; segue un’elencazione non tassativa dei profili che possono assurgere a contenuto dei criteri valutazione.
La norma –come già accadeva durante la vigenza del d.l.vo 2006 n. 163– ribadisce, a più riprese, la necessaria correlazione tra i criteri di aggiudicazione e la natura, l’oggetto e le caratteristiche del contratto: i criteri devono riguardare il particolare oggetto del contratto da affidare.
Alla stregua di una consolidata giurisprudenza, comunitaria e nazionale, condivisa dal Tribunale, costituisce principio generale regolatore delle gare pubbliche quello che vieta la commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi afferenti alla valutazione dell’offerta ai fini dell’aggiudicazione.
Detto principio si correla all’esigenza di aprire il mercato, premiando le offerte più competitive ove presentate da imprese comunque affidabili, unitamente al canone di par condicio, che osta ad asimmetrie pregiudiziali di tipo meramente soggettivo; la composizione dei due principi trova supporto logico e giuridico proprio nella necessaria distinzione tra i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara, che attengono all’operatore e i criteri di valutazione, che invece attengono all’offerta e all’aggiudicazione (cfr., ex plurimis, Consiglio Stato, sez. V, 14.10.2008, n. 4971; Consiglio di Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4191; Consiglio di Stato, sez. V, 12.11.2015, n. 5181; TAR Lazio 20.01.2016, n. 19; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 06.03.2017, n. 1293).
Non solo, il principio si pone anche a tutela delle capacità competitive delle piccole e medie imprese, che presentano un profilo esperienziale meno marcato ed è la stessa esigenza cui tende il legislatore laddove prevede –sempre nel citato art. 95, comma 6, del d.l.vo 2016 n. 50- tra i criteri di selezione utilizzabili, “l’organizzazione, le qualifiche e l’esperienza del personale effettivamente utilizzato nell’appalto, qualora la qualità del personale incaricato possa avere un’influenza significativa sul livello di esecuzione dell’appalto”.
Il problema della commistione tra i due parametri sorge perché la distinzione tra canone oggettivo di valutazione dell’offerta e requisito soggettivo del competitore, seppure chiara sul piano teorico, può diventare ardua sul piano concreto, stante la potenziale idoneità dei profili di organizzazione soggettiva a riverberarsi sull’affidabilità e sull’efficienza dell’offerta, ossia sulle modalità di esecuzione della prestazione contrattualmente dovuta.
La giurisprudenza precisa che il divieto di commistione fra criteri soggettivi e oggettivi, afferenti alla valutazione dell’offerta, non è eluso solo quando gli aspetti organizzativi o le professionalità risultanti dal curriculum dell’operatore sono destinati ad essere apprezzati quale garanzia della migliore esecuzione della specifica prestazione richiesta, sicché integrano dei parametri afferenti alle caratteristiche oggettive dell'offerta (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 15.12.2010, n. 8933; Consiglio di Stato, sez. V, 25.06.2010, n. 4086; ).
Il parametro cui ancorare la valutazione della sussistenza di tale diretto riflesso di un requisito soggettivo sul contenuto della prestazione è l’oggetto del contratto da aggiudicare, proprio perché la norma di riferimento individua quali validi criteri di valutazione dell’offerta solo quelli pertinenti “alla natura, all’oggetto e alle caratteristiche del contratto” (cfr. anche di recente, Consiglio di Stato, sez. V, 17.01.2018, n. 279).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Discarica abusiva – Nozione di gestione abusiva dei rifiuti – Condotte iniziale di trasformazione di un sito – Condotte conseguenziali idonee ad integrare il reato – Contributo sia attivo che passivo – configura – Art. 256 d.lgs. n. 152/2006 – Giurisprudenza.
In tema di gestione dei rifiuti, integra il reato di realizzazione di discarica abusiva la condotta di accumulo di rifiuti che, per le loro caratteristiche, non risultino raccolti per ricevere nei tempi previsti una o più destinazioni conformi alla legge e comportino il degrado dell’area su cui insistono.
Quanto alle condotte idonee ad integrare in via generale la nozione di gestione di una discarica abusiva, il reato, già previsto dall’art. 25 d.P.R. 10.09.1982, n. 915 e successivamente recepito dall’art. 256, comma terzo, del d.lgs. n. 152 del 2006 e, da ultimo, dall’art. 6, comma primo, lett. e), del D.L. 06.11.2008, n. 172, convertito in l. 30.11.2008, n. 210, deve essere inteso in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave stato del fatto-reato, strutturalmente permanente.
Di conseguenza, devono ritenersi sanzionate non solo le condotte di iniziale trasformazione di un sito a luogo adibito a discarica, ma anche tutte quelle che contribuiscano a mantenere tali, nel corso del tempo, le condizioni del sito stesso
(Cass. Sez. 3, n. 12159 del 15/12/2016 – dep. 14/03/2017)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.08.2019 n. 36456 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati paesaggistici – Accertamento delle condizioni e dei presupposti di operatività della causa di non punibilità – Onere di allegazione – Poteri del giudice – Inerzia dell’interessato – Artt. 167, 181 d.lgs. n. 42/2004.
In materia di tutela paesaggistica, grava sull’imputato l’onere di allegare gli elementi necessari all’accertamento delle condizioni e dei presupposti di operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 181-ter del d.lgs. n. 42 del 2004, non essendo tenuto il giudice del merito a esercitare d’ufficio i propri poteri istruttori per surrogarsi all’inerzia dell’interessato.
In altri termini, il principio dispositivo –per cui la ricerca del materiale probatorio necessario per la decisione è riservata alle parti tra le quali si distribuisce in base all’onere della prova– è temperato dai poteri istruttori del giudice del merito, il quale, ove la documentazione prodotta si rilevi insufficiente, ben può procedere ad integrarla anche di ufficio, senza tuttavia surrogarsi all’inerzia ed agli oneri di prospettazione, di impulso probatorio o –come nel caso di specie– di allegazione della parte che ha interesse a fornire al giudice le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore.
Ne discende, dunque, che il mancato esercizio dei poteri istruttori officiosi del giudice di merito non è sindacabile in sede di legittimità (fattispecie nella quale la carente allegazione difensiva non consentiva di stabilire con certezza quali opere fossero comprese nell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla sovrintendenza competente).

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Limitato impatto ambientale – Accertamento della compatibilità paesaggistica – Applicazione della causa di particolare tenuità del fatto – Causa di non punibilità di cui all’art. 181, comma 1-ter, d.lgs. n. 42/2004 – Presupposti di fatto e di diritto legittimanti la sanatoria paesaggistica – Verifica.
In tema di reati paesaggistici, ai fini della concessione della causa di particolare tenuità del fatto, è necessario non solo un accertamento della compatibilità paesaggistica che deve essere rilasciato dalla sovrintendenza, ma anche un accertamento da parte del giudice dell’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto per la concessione della sanatoria.
Infatti, il rilascio della valutazione di compatibilità paesaggistica, all’esito della procedura prescritta dall’art. 181 del Digs. 22.01.2004, n. 42, non determina automaticamente la non punibilità del reato paesaggistico, in quanto è obbligo del giudice accertare la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti la sanatoria paesaggistica
(Sez. 3, sentenza n. 889 del 29/11/2011).

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati paesaggistici – Autorizzazione paesaggistica può essere rilasciata in sanatoria – Causa di estinzione che estingue la punibilità in astratto – Rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso- GIURISPRUDENZA.
La causa di estinzione del reato che estingue la punibilità in astratto, rappresentata dall’art. 181, comma 1-quinquies, d.lgs. n. 42 del 2004, non può operare nel caso di condanna anche non irrevocabile ed invero la sua applicazione è subordinata al fatto che la rimessione in pristino da parte dell’autore dell’abuso sia spontanea e non eseguita coattivamente su impulso dell’autorità amministrativa (Cass. Sez. 3, n. 35412 del 14/04/2016; Sez. 3, n. 37140 del 10/04/2013; Sez. 3, n. 3064 del 05/12/2007).
Nel caso di specie, i giudici di merito, hanno ritenuto non operante la causa di estinzione del reato, perché la demolizione non è intervenuta prima della ordinanza amministrativa che aveva disposto la demolizione né prima della condanna.
Per inciso, a seguito della legge n. 308/2004 l’autorizzazione paesaggistica può essere rilasciata in sanatoria dopo la realizzazione anche parziale degli interventi in caso di interventi minori che non determinano la creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento degli stessi o di interventi di mera manutenzione: infatti, è stata prevista la possibilità di una valutazione postuma all’esito della quale non si applica il reato contravvenzionale, dal momento che gli interventi non incidono o non sono idonei ad incidere sull’integrità del bene ambiente
(Cass., Sez. III, n. 7216/2011)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.08.2019 n. 36454 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Pianificazione urbanistica – Convenzione di lottizzazione – Rilascio permessi di costruire – Lottizzazione abusiva c.d. “cartolare” o negoziale – Configurabilità – Artt. 30, 44 D.P.R. n. 380/2001.
In materia di pianificazione urbanistica, oltre, laddove manchi la necessaria autorizzazione, il reato di lottizzazione abusiva non è escluso dal rilascio dei permessi di costruire, posto che la convenzione di lottizzazione prevede anche l’accollo di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria – nemmeno l’impegno del privato ad eseguire le opere di urbanizzazione primaria nel contesto del rilascio di un titolo edilizio può surrogare la mancanza di un piano di lottizzazione, poiché l’urbanizzazione dei terreni deve essere programmata per zona e non avvenire in occasione dell’edificazione dei singoli lotti, sicché costituisce lottizzazione abusiva anche la nuova utilizzazione del terreno a scopo di insediamento residenziale pur se sia richiesto il permesso di costruire ovvero siano rilasciati una pluralità di permessi nella zona interessata dal nuovo insediamento, tanto più che il permesso di costruire non ha la funzione di pianificare l’uso del territorio.
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Lottizzazione abusiva “mista” – Natura della contravvenzione – Reato a forma libera e progressivo nell’evento – Atti di frazionamento o esecuzione delle opere – Riserva autorità amministrativa dell’assetto urbanistico – T.U.E.- Integrazione del reato anche a titolo di sola colpa.
La contravvenzione di lottizzazione abusiva è reato a forma libera e progressivo nell’evento, che sussiste anche quando l’attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o all’esecuzione delle opere, posto che tali iniziali attività non esauriscono l”iter” criminoso, che si protrae attraverso gli ulteriori interventi che incidono sull’assetto urbanistico, con ulteriore compromissione delle scelte di destinazione ed uso del territorio riservate all’autorità amministrativa competente (Sez. 3, n. 14053 del 20/02/2018, Ammaturo e a.).
Per significare che, in siffatti casi, alla lottizzazione negoziale segue quella materiale si parla comunemente di lottizzazione “mista”. Inoltre, il reato di lottizzazione abusiva può essere integrato anche a titolo di sola colpa (Sez. 3, n. 38799 del 16/09/2015; De Paola; Sez. 3, n. 17865 del 17/03/2009, Quarta e aa. Sez. 3, n. 36940 del 11/05/2005, Stiffi e a.).

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Lottizzazione abusiva c.d. “mista” – Momento consumativo del reato – Calcolo dei termine di prescrizione inizio e decorrenza – Disciplina del reato permanente – Applicazione.
In presenza di lottizzazione abusiva c.d. “mista”, il momento consumativo del reato si individua, per tutti coloro che concorrono o cooperano nel reato, nel compimento dell’ultimo atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione di atti di trasferimento, nell’esecuzione di opere di urbanizzazione o nell’ultimazione dei manufatti che compongono l’insediamento; ne consegue che, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione, per il concorrente non è rilevante il momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione, ma quello di consumazione del reato, che può intervenire anche a notevole distanza di tempo (Sez. 3, n. 48346 del 20/09/2017, Bortone e aa.).
Dovendosi, applicare la disciplina del reato permanente, il termine di prescrizione inizia a decorrere solo dopo l’ultimazione sia dell’attività negoziale, sia dell’attività di edificazione, e cioè, in quest’ultima ipotesi, dopo il completamento dei manufatti realizzati sui singoli lotti oggetto del frazionamento
(Sez. 3, ord. n. 24985 del 20/05/2015, Diturco e a.; Sez. 3, n. 35968 del 14/07/2010, Rusani e a.).
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Lottizzazione abusiva c.d. cartolare o negoziale – Natura di contravvenzione a consumazione anticipata – Condotta – Reato a consumazione alternativa.
Il reato di lottizzazione abusiva c.d. cartolare o negoziale, ha natura di contravvenzione a consumazione anticipata, nel senso che il reato è integrato non solo dalla trasformazione effettiva del territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata (Sez. 3, n. 37383 del 16/07/2013, Desimine e aa.) rispetto ad opere che, per caratteristiche o dimensioni, siano idonee a pregiudicare la riserva pubblica di programmazione territoriale (Sez. 3, n. 15404 del 21/01/2016, Bagliani e a.).
Il reato di lottizzazione abusiva è dunque configurabile con riferimento a zone di nuova espansione o scarsamente urbanizzate relativamente alle quali sussiste un’esigenza di raccordo con il preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione (Sez. 3, n. 6629 del 07/01/2014, Giannattasio e aa.), sicché, se da un lato deve escludersi con riferimento a zone completamente urbanizzate, d’altro lato è invece configurabile sia con riferimento a zone assolutamente inedificate, sia con riferimento a zone parzialmente urbanizzate in cui sussista un’esigenza di raccordo con il preesistente aggregato abitativo (Sez. 3, n. 37472 del 26/06/2008, Belloi e a.).
Quanto alla condotta, la contravvenzione di lottizzazione abusiva si configura come reato a consumazione alternativa, potendo realizzarsi sia quando manchi un provvedimento di autorizzazione, sia quando quest’ultimo sussista ma contrasti con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, in quanto grava sui soggetti che predispongono un piano di lottizzazione, sui titolari di concessione, sui committenti e costruttori l’obbligo di controllare la conformità dell’intera lottizzazione e delle singole opere alla normativa urbanistica e alle previsioni di pianificazione
(Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Salvini; Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi e aa.).
...
Lottizzazione abusiva – Configurabilità – Elementi indiziari – Trasformazione urbanistica od edilizia del territorio.
Ai fini della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva negoziale o cartolare, l’elencazione degli elementi indiziari di cui all’art. 30, comma primo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non è tassativa né tali elementi devono sussistere contemporaneamente, in quanto è sufficiente per l’integrazione del reato anche la presenza di uno solo di essi, purché risulti inequivocamente la destinazione a scopo edificatorio del terreno.
Peraltro, ai fini della integrazione del reato, il frazionamento di un terreno non deve necessariamente avvenire mediante apposita operazione catastale che preceda le vendite o gli atti di disposizione, ma può realizzarsi con ogni altra forma di suddivisione fattuale dello stesso; l’espressione in questione, infatti, da intendersi in modo atecnico, si riferisce a qualsiasi attività giuridica che abbia per effetto la suddivisione in lotti di un’area di più ampia estensione, comunque predisposta od attuata, attribuendone la disponibilità a terzi al fine di realizzare una non consentita trasformazione urbanistica od edilizia del territorio.
Ciò che conta, è che il contesto indiziario sia idoneo a rivelare in modo non equivoco la finalità edificatoria, che costituisce l’elemento comune alle varie forme (materiale, negoziale, mista) in cui l’illecito può essere realizzato.

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Assenza di piano particolareggiato di esecuzione – Stipula di convenzioni – Effetti – L. n. 1150/1942.
In assenza di piano particolareggiato di esecuzione, l’autorizzazione prevista dall’art. 28 della legge urbanistica fondamentale (l. 17.08.1942, n. 1150), vale a dire il provvedimento del Comune che approva il progetto di lottizzazione presentato dai privati oppure disposto d’ufficio e che dev’essere indefettibilmente subordinato alla stipula di una convenzione volta a prevedere, tra l’altro, la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria e l’assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi (art. 28, quinto comma, I. 1150 del 1942) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.08.2019 n. 36397 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistici – Misure cautelari – Rilevanza del sequestro – Calcolo della prescrizione.
In materia di misure cautelari, la rilevanza del sequestro ai fini del decorso del termine di prescrizione nei reati urbanistici nulla ha a che vedere con il giudizio sulla legittimità o meno della misura, venendo invece in rilievo per il solo, oggettivo, fatto che lo spossessamento che la stessa comporta determina la forzosa interruzione dell’attività illecita.
Per questa ragione, in un caso analogo, si è ad es. affermato che la permanenza del reato di edificazione abusiva cessa a seguito dell’interruzione dei lavori conseguente all’ordine di sospensione emanato dall’autorità comunale, anche ove tale ordine sia divenuto successivamente inefficace perché non seguito, nel termine previsto dalla normativa, dal sequestro amministrativo dell’opera abusiva
(Sez. 3, n. 49990 del 04/11/2015, Quartieri e aa.), dovendosi, anzi, osservare che l’eventuale dissequestro potrebbe eventualmente consentire lo spostamento del dies a quo per il calcolo della prescrizione qualora ne conseguisse la prosecuzione dei lavori illeciti (cfr. Sez. 3, n. 11646 del 16/10/2014, dep. 2015, Barbuzzi e aa.; Sez. 3, n. 5480 del 12/12/2013, dep. 2014, Manzo)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.08.2019 n. 36397 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimazione a impugnare un permesso di costruire residenziale da parte di operatore commerciale.
E' inammissibile un ricorso di un operatore commerciale contro un permesso di costruire in sanatoria rilasciato a terzi con oggetto un intervento residenziale, in quanto nel caso di specie il confronto è tra interessi disomogenei e la lesione dell’interesse commerciale della ricorrente è puramente teorico, proprio in considerazione dell’astratta possibilità di scontro tra l’interesse economico e quello residenziale dipendente dal paventato rischio di contenziosi promossi dal vicino in conseguenza delle immissioni acustiche o di altra natura provenienti dal fondo in cui viene svolta l’attività economica, conflitto che ha carattere del tutto eventuale e ipotetico (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.08.2019 n. 1914 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. I ricorso sono inammissibili per carenza di interesse a ricorrere.
Appartiene ad una giurisprudenza pressoché consolidata il principio secondo cui
l’impugnazione dei titoli edilizi è consentita in capo a chiunque si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione assentita, a prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di uno specifico interesse, essendo sufficiente la “vicinitas” quale elemento che distingue la posizione giuridica di un soggetto da quella della generalità dei consociati (Cons. St. IV sez. 18/04/2014 n. 1995; Cons. St. V sez. 21/05/2013 n. 2757; TAR Molise 26/05/2014 n. 346; TAR Campania–Salerno I sez. 01/10/2012 n. 1750).
In tema di interesse e legittimazione all’impugnativa di titoli edilizi la giurisprudenza si è da tempo attestata sul concetto di vicinitas idonea a circoscrivere la generalizzata legittimazione prevista dalla legge. Tale vicinitas presuppone in estrema sintesi un nesso tra l’intervento edilizio o urbanistico e la sfera giuridica del soggetto che tale iniziativa censura in via giurisdizionale di talché l’intervento sia in grado di incidere in maniera oggettivamente apprezzabile sulla sfera del ricorrente.
Secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale, “
se in linea generale, l’interesse a ricorrere nel processo amministrativo è caratterizzato dagli stessi requisiti che qualificano l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., in materia edilizia la giurisprudenza più recente [specifica] che la cd. vicinitas, cioè una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, è sufficiente a radicare la legittimazione del confinante e che non è necessario accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione, in quanto la realizzazione di interventi che comportano un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio che è pregiudizievole in re ipsa in quanto consegue necessariamente dalla maggiore antropizzazione, dalla minore qualità panoramica, ambientale, paesaggistica e dalla possibile diminuzione del valore dell’immobile; ciò esime, di norma, il giudice da qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o non un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione” (Consiglio di Stato, sez. VI, 07.06.2018, n. 3460).
Secondo la tesi esposta da parte della giurisprudenza,
risulta, quindi, sufficiente la sussistenza della condizione di vicinitas che “non deve essere verificata in base al solo dato “fisico” della distanza, poiché tale elemento deve essere in concreto valutato dal Giudice in relazione alla entità ed alla destinazione dell’immobile […] (dovendosi, al contrario, considerare anche le modificazioni di carico urbanistico e le conseguenze sul diritto alla salute e sulle ordinarie esigenze di vita che la nuova costruzione potrà apportare sui soggetti che hanno uno stabile collegamento con la zona interessata) (Consiglio di Stato, sezione IV, 26.04.2018, n. 2529; cfr., nella giurisprudenza del Giudice d’appello, Consiglio di Stato, sez. IV, 03.05.2019, n. 2891; Id., sez. VI, 29.03.2019, n. 2100).
Un diverso orientamento si è invece formato nel caso in cui la vicinitas sia accompagnata non da un interesse urbanistico/edilizio ma da un interesse prettamente commerciale, cioè quando il titolo edilizio influisce sulle posizioni di mercato di un operatore economico.
Si tratta all’evidenza di interessi diversi, facendo il primo riferimento all’interesse edilizio/urbanistico e all’idoneità dell’intervento ad incidere in maniera oggettivamente apprezzabile sulla sfera di altro soggetto, il secondo all’interesse commerciale al regolare svolgimento della concorrenza e alla posizione di un operatore del settore potenzialmente in grado di subire un influsso negativo sulla propria posizione di mercato (in questo senso TAR Liguria I sez. 26/11/2012 n. 1507).
In linea generale un operatore commerciale o produttivo non ha, di norma, alcun interesse a censurare un titolo edilizio rilasciato a terzi per ragioni strettamente edilizie o urbanistiche. Salvo casi eccezionali e privi di rilevanza statistica (si pensi al caso di un intervento che peggiori notevolmente la viabilità di accesso ad un esercizio commerciale e simili), l’operatore commerciale o produttivo è del tutto indifferente all’esercizio dell’attività edilizia.
Anche l’interesse urbanistico è flebile. Il principio di separazione funzionale delle destinazioni urbanistiche, in base al quale il territorio comunale è diviso in zone omogenee (c.d. zonizzazione), ha assunto forme flessibili (in tal senso ad es. TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 23.04.2015 n. 651), perché ormai si riconosce che la vivibilità della città è connessa ad un sapiente mix delle varie funzioni, per cui difficilmente gli ambiti produttivi sono del tutto privi di settori destinati alla residenza. Né la ricorrente ha dato alcuna prova dei caratteri propri dell’area in questione, ma solo della destinazione dei propri immobili e di quello vicino di via Salomone 67, dimostrando che non ha alcun interesse specifico al mantenimento dei caratteri della zona in cui è inserita.
Proprio per tali ragioni un diverso orientamento, muovendosi sul solco dei concetti elaborati dalla giurisprudenza (cfr., Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 23.02.2014 n. 9), nell’allargare l’ambito di applicazione del criterio della vicinitas, afferma che
la vicinitas non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, in assenza di prove in ordine ai pregiudizi derivanti dal rilascio del titolo edilizio a terzi” (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV, 27.01.2002, n. 420).
Infatti,
la nozione di vicinitas consente “in astratto, di censurare i titoli abilitativi rilasciati per la realizzazione di una nuova attività economica al titolare di analoghe attività nella zona che si trovi in situazione di stabile collegamento con la stessa”, purché, tuttavia, “vi sia un reale pregiudizio che venga a derivare dalla realizzazione dell'intervento assentito, specificando con riferimento alla situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale misura il provvedimento impugnato incida la posizione sostanziale dedotta in causa, determinandone una lesione concreta, immediata e di carattere attuale (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 22.12.2017, n. 5442) (in tal senso TAR Lombardia, Milano, sez. II 22/05/2019 n. 1147).
Il concetto di vicinitas si allarga quindi alla tutela di interessi commerciali a condizione che si tratti di contrasto tra interessi commerciali o produttivi omogenei, finalizzata alla tutela della concorrenza, e che sia dimostrata la lesione immediata e diretta di tale interesse. Anche le dimensioni spaziali della vicinitas si modificano rispetto a quella edilizia, in quanto viene valutata l’esistenza di una concorrenza tra gli operatori economici.
Nel caso di specie, invece, il confronto è tra interessi disomogenei e la lesione dell’interesse commerciale della ricorrente è puramente teorico, proprio in considerazione dell’astratta possibilità di scontro tra l’interesse economico e quello residenziale dipendente dal paventato rischio di contenziosi promossi dal vicino in conseguenza delle immissioni acustiche o di altra natura provenienti dal fondo in cui viene svolta l’attività economica, conflitto che ha carattere del tutto eventuale e ipotetico (in tal senso TAR Lombardia, Milano, sez. II 22/05/2019 n. 1147).
Del resto, per principio generale,
la lesione che radica l’interesse –e, dunque, l’onere ad una tempestiva impugnazione– deve essere attuale e non può discendere da un pregiudizio solo futuro ed eventuale. L’interesse a ricorrere, invero, deve essere, oltre che personale e diretto, anche attuale e concreto, ossia deve essere tale che in caso di accoglimento del gravame il ricorrente consegua il vantaggio di vedere rimosso il pregiudizio diretto e immediato che gli deriva dal provvedimento amministrativo, non ravvisandosi tale situazione in coloro i quali possono astrattamente subire tale lesione da comportamenti successivi ed incerti, ricollegabili solo in via ipotetica alla condotta altrui.
In definitiva quindi i ricorsi vanno dichiarati inammissibili.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: 1.- Edilizia ed Urbanistica – lavori edili – fabbricato condominiale – previo consenso del condominio – è necessario.
Per i lavori edili che riguardino un fabbricato condominiale occorre il consenso dei condomini, (ex art. 1102 cod.) espresso in sede assembleare, non rilevando l’asserita mancata incidenza sulla facciata del fabbricato ed essendo invece dirimente che tali lavori incidano sulla cosa comune (massima free tratta da www.giustamm.it).
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4.- L’appello non è fondato, per le ragioni di seguito indicate secondo un ordine differente da quello di prospettazione delle singole censure sopra riportate.
In relazione alla censure relativa alla non necessità del consenso, l’art. 1102 cod. civ. dispone che «ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto». Nella specie costituisce dato certo che i lavori in esame incidono sulla destinazione della cosa comune, senza che rilevi l’asserita mancata incidenza sulla facciata del fabbricato. Era, pertanto, necessario il consenso di tutti i condomini per l’effettuazione dei lavori.
In relazione alla censura relativa alla mancata ricezione della richiesta del verbale, la questione è superata dall’ordine istruttorio di deposito del verbale stesso, disposto da questo Collegio. Dall’analisi del suo contenuto emerge la mancanza della sottoscrizione del presidente e del segretario e, soprattutto, la mancanza di una attuale autorizzazione allo svolgimento dei lavori.
Risulta, infatti, che l’assemblea dei condomini ha chiesto alla sig.ra To. di redigere un progetto, contenente un accertamento in ordine alla tenuta del manufatto e del palazzo, subordinando espressamente al rispetto di tale condizione il voto favorevole. Ne deriva che manca il necessario consenso dei condomini per l’effettuazione dei lavori.
In relazione alla mancanza dei requisiti che devono sussistere ai fini dell’esercizio di poteri di annullamento d’ufficio (art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990), gli stessi, invero, sono presenti. In particolare, l’intervento edilizio non avrebbe potuto essere realizzato per le ragioni indicate e l’interesse pubblico concreto ed attuale deriva dalla stessa segnalazione di pericolo proveniente dai vigili del fuoco, a prescindere dalla relazione causale tra il pericolo e la condotta dell’appellante.
5.- Per le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere rigettato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.08.2019 n. 5767 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanzione pecuniaria per mancata ottemperanza all’ordine di demolizione.
La sanzione pecuniaria contenuta nel comma 4-bis dell’art. 31 del DPR 380/2001 (introdotta con la legge n. 164 del 2014) è finalizzata a sanzionare la mancata rimozione dell’abuso –il presupposto è rappresentato dalla constatata inottemperanza all’ordine di demolizione– e non la sua realizzazione, trattandosi di una misura avente natura anche indirettamente ripristinatoria, oltre che sanzionatoria, e perciò diretta a indurre i soggetti, che pure potrebbero non avere responsabilità nella realizzazione dell’abuso, a rimuovere lo stesso, laddove ne abbiano la possibilità materiale e giuridica.
Ne deriva che la mancata esecuzione dell’ordinanza di demolizione, proseguita dopo l’entrata in vigore della menzionato comma 4-bis, impone l’applicazione della sanzione da quest’ultimo prevista, senza che ciò implichi violazione del principio di irretroattività delle norme che introducono misure sanzionatorie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.08.2019 n. 1909 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.
2. Con il primo e il terzo motivo di ricorso, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connessi, si assume l’inapplicabilità della sanzione pecuniaria alla ricorrente, giacché al momento della scadenza del termine di 90 giorni assegnato per la demolizione dall’ordinanza n. 39a/08 –quale atto presupposto all’impugnata ingiunzione pecuniaria– non era ancora entrata in vigore la norma sanzionatoria di cui al citato comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, sopravvenuta solo nel 2014 (con la legge n. 164 del 2014); inoltre la ricorrente non sarebbe l’autrice dell’abuso, ma sarebbe totalmente estranea alla realizzazione dello stesso.
2.1. Le doglianze sono infondate.
Secondo una pacifica giurisprudenza, gli abusi edilizi hanno natura di illeciti permanenti, in quanto la lesione dell’interesse pubblico all’ordinato e programmato assetto urbanistico del territorio si protrae nel tempo sino al ripristino della legittimità violata (Consiglio di Stato, VI, 03.01.2019, n. 85; 04.06.2018, n. 3351).
La norma contenuta nel comma 4-bis dell’art. 31 è finalizzata a sanzionare la mancata rimozione dell’abuso –il presupposto è rappresentato dalla constatata inottemperanza all’ordine di demolizione– e non la sua realizzazione, trattandosi di una misura avente natura anche indirettamente ripristinatoria, oltre che sanzionatoria, e perciò diretta a indurre i soggetti, che pure potrebbero non avere responsabilità nella realizzazione dell’abuso, a rimuovere lo stesso, laddove ne abbiano la possibilità materiale e giuridica (Consiglio di Stato, VI, 24.07.2019, n. 5242).
Ne deriva che la mancata esecuzione dell’ordinanza n. 39a/08, proseguita dopo l’entrata in vigore della menzionato comma 4-bis, “imponeva l’applicazione della sanzione da quest’ultimo prevista, senza che ciò implicasse violazione dell’invocato principio di irretroattività delle norme che introducono misure sanzionatorie” (Consiglio di Stato, VI, 16.04.2019, n. 2484; altresì 24.07.2019, n. 5242).
Va poi precisato che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 345 del 15.07.1991, ha affermato il principio secondo cui l’acquisizione dell’area di sedime al patrimonio indisponibile del Comune ha natura di vera e propria sanzione autonoma, che non può colpire il proprietario che incolpevolmente non abbia potuto dare esecuzione all’ordine di demolizione dell’immobile abusivamente realizzato sulla sua area, con l’implicito corollario che ben può rispondere di tale omissione il proprietario non autore dell’abuso che sia tuttavia in condizione di dare corso alla demolizione (sulla natura di sanzione autonoma dell’atto di acquisizione rispetto al presupposto ordine di ripristino, cfr. da ultimo TAR Lombardia, Milano, II, 04.04.2019, n. 746; più diffusamente, TAR Campania, Napoli, IV, 26.02.2019, n. 1084), anche incorrendo quindi nell’irrogazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001.
La giurisprudenza ha chiarito che la sanzione pecuniaria non può trovare applicazione nei confronti del proprietario non responsabile dell’abuso e che non abbia il possesso del bene per poter procedere alla demolizione, mentre la responsabilità del proprietario sorge nel caso in cui egli sia responsabile dell’abuso ovvero quando, avendo la disponibilità ed il possesso del bene o avendoli successivamente acquisiti, non abbia provveduto alla demolizione (cfr. Consiglio di Stato, VI, 10.07.2017, n. 3391). Dal che la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla ricorrente.
2.2. Ciò determina il rigetto delle predette doglianze.

EDILIZIA PRIVATA: Termine per l’annullamento in via di autotutela.
Il TAR Milano, con riguardo al lasso di tempo trascorso tra la presentazione dei titoli edilizi e l’intervento comunale in autotutela, ritiene di aderire all’orientamento secondo cui le nuove disposizioni introdotte dalla legge n. 124 del 2015 all’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 trovano applicazione solo ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch’essi, successivi all’entrata in vigore della nuova disposizione.
Al riguardo, il TAR considera che la nuova disposizione ancora l’esercizio del potere al momento di emanazione del primo atto ponendo, quindi, una limitazione temporale calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di secondo grado rimuove; la generalizzata applicazione del termine dalla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015 muta il presupposto fondante su cui poggia la previsione imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela –per i provvedimenti già emessi prima del 28.08.2015– necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data; in tal modo, però, si altera la ratio della norma nella sua applicazione nella dinamica intertemporale, trasformando la stessa in un termine generale di definizione di tutti i provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già adottati prima della novella.
Sempre secondo il TAR, aderendo al diverso orientamento la P.A. risulterebbe, in sostanza, onerata di una verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi entro un generale termine di 18 mesi onde non vedersi precludere la possibilità di successiva rimozione; in tal modo, però, per gli atti adottati prima della novella il termine di decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi sulla data di emanazione del singolo atto ma, al contrario, sulla data di entrata in vigore della legge; si perviene, così, al risultato di negare la ratio della previsione che intende calibrare temporalmente l’atto di esercizio del potere sul provvedimento da rimuovere
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.08.2019 n. 1907 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Con ricorso introduttivo, notificato in data 30.03.2018 e depositato il 13 aprile successivo, il ricorrente ha impugnato il provvedimento conclusivo prot. generale n. 1551 del 01.02.2018, con il quale il Comune di Inverigo, «ritenuto prevalente l’interesse pubblico al rispristino della legalità violata ...», ha disposto «l’annullamento della SCIA depositata in data 02.11.2011 (SCIA 152/2011), in variante alla SCIA del 24.05.2011 (SCIA 71/2011), in uno con l’integrazione depositata in data 19.12.2011 attraverso DIA “in variante alla SCIA presentata in data 24.05.2011 – modifiche della sagoma del box rispetto al progetto iniziale realizzato sul terreno di proprietà”».
Il ricorrente, in data 24.05.2011, ha depositato presso il Comune di Inverigo una s.c.i.a. finalizzata alla “apertura di nuovo cancellino pedonale su Via Lambro – realizzazione di box auto su terreno di proprietà” da realizzarsi in Via ... n. 26, al mappale 2109 del Foglio 2 del Censuario di Romanò Brianza (s.c.i.a. n. 71/2011); dopo alcune richieste di integrazione documentale, in data 08.09.2011 è stato eseguito un sopralluogo da parte dei tecnici comunali, attraverso il quale sono state accertate alcune difformità in ordine alla realizzazione del box (distanza di m 4,20 anziché 5,00 dal fabbricato principale e altezza fuori terra lorda, misurata verso la proprietà di terzi, di m 2,69/2,92, anziché m 2,50).
In data 18.10.2011, l’Ufficio tecnico comunale ha avviato il procedimento per l’applicazione di misure sanzionatorie di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001 e, il successivo 2 novembre, il ricorrente ha presentato una s.c.i.a. in variante, prevedendo la modifica del posizionamento del box. A conclusione del procedimento è stata emanata l’ordinanza n. 11 del 13.02.2012, con cui è stata ordinata la demolizione del box/autorimessa, in quanto realizzato in difformità dalla s.c.i.a del 24.05.2011; il sig. La Te. ha impugnato davanti a questo Tribunale l’ordinanza di demolizione, che è stata annullata con la sentenza del 01.06.2012 n. 1515, per mancato annullamento in autotutela ex art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 della s.c.i.a. n. 71/2011.
Riavviato il procedimento in data 02.07.2012, lo stesso è stato concluso con la nota del 22.10.2012, che ha dato atto dell’insussistenza delle ragioni di interesse pubblico all’annullamento d’ufficio. L’atto tuttavia è stato impugnato in sede giurisdizionale dai signori Antonio e Roberto Riva, proprietari del fondo confinante con quello su cui sorge il box, e con la sentenza n. 1277 del 07.06.2017 di questa Sezione lo stesso è stato annullato, disponendosi la rinnovazione del procedimento di autotutela “alla luce delle statuizioni contenute nella decisione”.
In ragione di quanto contenuto nella sentenza, il Comune ha riavviato il procedimento di autotutela e in data 01.02.2018 ha disposto l’annullamento sia della s.c.i.a. depositata in data 02.11.2011 (n. 152/2011), che dell’integrazione depositata in data 19.12.2011 attraverso d.i.a., annunciando altresì l’emanazione della sanzione ripristinatoria.
Assumendo l’illegittimità del predetto atto di annullamento, il ricorrente lo ha impugnato, eccependo, in primo luogo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, la violazione del principio di proporzionalità, l’eccesso di poter per difetto assoluto di motivazione e la carenza dei presupposti di fatto e di diritto.
...
2. Con le prime due censure, aventi identico tenore sia nel ricorso introduttivo che in quello per motivi aggiunti e da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume l’illegittimità del provvedimento di autotutela, in quanto lo stesso sarebbe fondato esclusivamente sulla necessità di ripristinare la legalità, senza alcuna ulteriore specificazione in ordine all’interesse pubblico sotteso alla sua rimozione e in assenza di comparazione dei contrapposti interessi pubblico e della parte privata; inoltre non sarebbe stato rispettato il termine ragionevole per l’esercizio dell’autotutela, essendo trascorsi circa sette anni tra la presentazione del titolo e l’intervento inibitorio.
2.1. Le doglianze sono infondate.
Il Comune ha utilizzato i propri poteri di autotutela ex art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 per privare di effetti –sebbene impropriamente definito atto di annullamento– la s.c.i.a. n. 152/2011 del 02.11.2011 e la d.i.a. del 19.12.2011, presentate dal ricorrente in variante alla originaria s.c.i.a. n. 71/2011 del 24.05.2011. L’intervento in autotutela è stato motivato, riassuntivamente, con il prevalente interesse pubblico al ripristino della legalità violata, sebbene da un complessivo esame dell’atto impugnato si possono ricavare le ulteriori (e sostanziali) ragioni che hanno determinato il predetto intervento sanzionatorio.
Difatti, è stato evidenziato che nella fattispecie –secondo gli Uffici comunali non soggetta, ratione temporis, all’applicazione della novella recata con la legge n. 124 del 2015 (c.d. legge Madia)– risulta conclamata la violazione della normativa locale in tema di distanze e di altezze ai sensi dell’art. 13 delle N.T.A. del P.R.G. all’epoca vigente (riprodotte nell’art. 23 delle N.T.A. del P.G.T. attualmente in vigore), manifestandosi, quindi, prevalente l’interesse pubblico rispetto a quello del privato al mantenimento di un’opera abusiva.
Del resto, gli Uffici comunali, dopo aver dettagliatamente esposto la cronologia degli avvenimenti e degli atti succedutisi nel tempo –evidenziando, tra l’altro, che la s.c.i.a. in variante (n. 152/2011 del 02.11.2011) è stata presentata dopo il sopralluogo comunale dell’08.09.2011, che aveva accertato l’avvenuta effettuazione di lavori in difformità rispetto alla s.c.i.a. iniziale e in contrasto con la normativa edilizia vigente–, hanno da ultimo richiamato la sentenza di questa Sezione n. 1277/2017, con cui è stato imposto loro di rinnovare il procedimento relativo alla regolarità del titolo edilizio, verificando espressamente il rispetto, sia in fase di presentazione del titolo che di esecuzione dei lavori, della disciplina contenuta nell’art. 13 delle N.T.A. del P.R.G. in tema di distanze e di altezze dei manufatti edilizi.
Ne deriva che, correttamente, si è provveduto all’esercizio dei poteri di autotutela, attesa la portata conformativa del giudicato e l’inderogabilità delle distanze tra costruzioni, trattandosi di difformità non trascurabili (comprese tra 20 e 80 cm). Nessun affidamento tutelato quindi può essere riconosciuto in capo al ricorrente, tenuto conto dei vari contenziosi insorti tra le parti, anche controinteressate, le quali hanno assunto iniziative sia in sede amministrativa che giurisdizionale.
Del resto,
la commissione di un abuso –sussistente in caso di realizzazione di un manufatto difforme rispetto a quanto dichiarato in sede di segnalazione certificata– impone, quale attività vincolata, l’adozione di un ordine di demolizione, che non richiede una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare il suo legittimo affidamento (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2018, n. 267).
2.2. Quanto al lasso di tempo trascorso tra la presentazione dei titoli edilizi e l’intervento comunale in autotutela, va sottolineato come la fattispecie de qua è sorta sotto il vigore della disciplina antecedente all’introduzione della legge n. 124 del 2015 e quindi alla stessa non risulta applicabile il novellato testo dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, a mente del quale “
Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
Difatti,
il Collegio ritiene di aderire all’orientamento secondo cui le nuove disposizioni trovano applicazione “solo ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch’essi, successivi all’entrata in vigore della nuova disposizione (TAR Lazio, Roma, I-bis, 02.07.2018, n. 7272).
Va, d’altronde, considerato che
la nuova disposizione ancora l’esercizio del potere al momento di emanazione del primo atto ponendo, quindi, una limitazione temporale calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di secondo grado rimuove. La generalizzata applicazione del termine dalla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015 muta il presupposto fondante su cui poggia la previsione imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela –per i provvedimenti già emessi prima del 28.08.2015– necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data. In tal modo, però, si altera la ratio della norma nella sua applicazione nella dinamica intertemporale, trasformando la stessa in un termine generale di definizione di tutti i provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già adottati prima della novella.
Aderendo alla tesi pur autorevolmente patrocinata da parte della giurisprudenza, l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza, onerata di una verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi entro un generale termine di 18 mesi onde non vedersi precludere la possibilità di successiva rimozione. In tal modo, però, per gli atti adottati prima della novella il termine di decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi sulla data di emanazione del singolo atto –come espressamente disposto dalla norma– ma, al contrario, sulla data di entrata in vigore della legge. Si perviene, così, al risultato di negare la ratio della previsione che, come detto, intende calibrare temporalmente l’atto di esercizio del potere sul provvedimento da rimuovere.
L’interpretazione che appare, pertanto, maggiormente acconcia al dato letterale e alla specifica ratio legis è quella che ancora le nuove disposizioni all’esercizio del potere su atti emanati dopo l’entrata in vigore della nuova legge. Conclusione che, del resto, appare confermata dalla circostanza che il legislatore non ha voluto approntare una disciplina di diritto transitorio, l’unica che, in tale quadro, avrebbe potuto medio tempore derogare al rigido parametro temporale di riferimento ora previsto dall’ordinamento (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) [TAR Lombardia, Milano, II, 15.07.2919, n. 1628; 21.01.2019, n. 118; 03.10.2018, n. 2200; si veda anche Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 8].

EDILIZIA PRIVATA: In ambito edilizio, manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dall’edificio precedente/principale, ovvero quando sia realizzata una qualsiasi opera che ne alteri la sagoma.
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Ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, “mentre si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera. Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione pecuniaria”.
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L’onere con cui si eccepisce l’impossibilità della riduzione in pristino, oppure il grave pregiudizio che potrebbe derivare alle parti legittime dell’immobile, grava sulla parte privata, visto che, laddove sia accertato un abuso edilizio, deve essere motivato il ricorso alla sanzione alternativa pecuniaria e non anche l’adozione dell’ordine ripristinatorio di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001.
D’altra parte, l’eventualità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria può essere apprezzata dalla sola P.A. nella fase esecutiva del procedimento sanzionatorio, che è successiva e autonoma sia rispetto al diniego di sanatoria che all’ordine di demolizione.
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4. Con il quarto motivo, contenuto soltanto nel ricorso per motivi aggiunti, si assume l’illegittimità della sanzione demolitoria, giacché a fronte della realizzazione di opere di modesta consistenza e costituenti una difformità soltanto parziale dovrebbe farsi applicazione esclusivamente di una sanzione di natura pecuniaria.
4.1. La doglianza è infondata.
Le difformità riscontrate in sede di esecuzione del manufatto edilizio, affatto irrilevanti, oltre ad essere in contrasto con il titolo originariamente presentato –s.c.i.a. n. 71/2011 del 24.05.2011–, hanno dato vita ad un organismo edilizio non rispettoso nemmeno delle prescrizioni edilizie vigenti (anche attualmente) a livello locale, tanto da rendere inapplicabile una sanatoria (cfr. Consiglio di Stato, VI, 27.02.2018, n. 1200).
Quanto alla possibile pertinenzialità del manufatto va sottolineato come, in ambito edilizio, manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dall’edificio precedente/principale, ovvero quando sia realizzata una qualsiasi opera che ne alteri la sagoma (Consiglio di Stato, II, 04.07.2019, n. 4586; TAR Lombardia, Milano, II, 17.10.2017, n. 1987).
Da quanto riportato in precedenza, si presenta come dovuta l’adozione della misura ripristinatoria, poiché, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, “mentre si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera. Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione pecuniaria” (Consiglio di Stato, VI, 30.03.2017, n. 1484; TAR Lombardia, Milano, II, 08.07.2019, n. 1572; 11.06.2019, n. 1320).
Oltretutto, va ribadito che l’onere con cui si eccepisce l’impossibilità della riduzione in pristino, oppure il grave pregiudizio che potrebbe derivare alle parti legittime dell’immobile, grava sulla parte privata, visto che, laddove sia accertato un abuso edilizio, deve essere motivato il ricorso alla sanzione alternativa pecuniaria e non anche l’adozione dell’ordine ripristinatorio di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001 (cfr., ex multis, TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2017, n. 1170); d’altra parte, l’eventualità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria può essere apprezzata dalla sola P.A. nella fase esecutiva del procedimento sanzionatorio, che è successiva e autonoma sia rispetto al diniego di sanatoria che all’ordine di demolizione (Consiglio di Stato, VI, 04.06.2018, n. 3371; TAR Lombardia, Milano, II, 18.01.2019, n. 106; 06.08.2018, n. 1946).
4.2. Anche la scrutinata censura deve perciò essere respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.08.2019 n. 1907 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Osservazioni al PGT accorpate per gruppi omogenei.
L'assenza di un dovere di confutazione analitica e puntuale delle singole osservazioni consente all’Amministrazione di procedere, discrezionalmente, al loro accorpamento per gruppi omogenei (non tuttavia in un unico blocco), in modo da agevolare il lavoro degli Uffici e di razionalizzare l’iter di approvazione dello strumento pianificatorio, soprattutto laddove ci si trovi al cospetto di un rilevante numero di osservazioni e le stesse siano estremamente parcellizzate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.08.2019 n. 1897 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2. Con la prima, la seconda e la sesta censura del ricorso introduttivo e le prime due del ricorso per motivi aggiunti, da trattare congiuntamente in quanto perfettamente sovrapponibili, si assume, oltre al difetto di motivazione della scelta pianificatoria, l’illegittimo accorpamento delle osservazioni per “gruppi omogenei” in sede di votazione delle stesse, stante l’assenza di qualsivoglia indicazione in ordine ai criteri giustificativi della loro attinenza e del grado di connessione, in tal modo impedendosi un esame specifico e individuale delle singole deduzioni, aventi ciascuna un contenuto molto diversificato.
2.1. Le doglianze sono infondate.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, condiviso dalla Sezione, «
le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse …» (TAR Lombardia, Milano, II, 06.05.2019, n. 1022; 08.01.2019, n. 38; 06.08.2018, n. 1945).
L’assenza di un dovere di confutazione analitica e puntuale delle singole osservazioni consente all’Amministrazione di procedere, discrezionalmente, al loro accorpamento per gruppi omogenei (non tuttavia in un unico blocco: cfr. sul punto la sentenza, citata dalla parte ricorrente, TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2007, n. 5813), in modo da agevolare il lavoro degli Uffici e di razionalizzare l’iter di approvazione dello strumento pianificatorio, soprattutto laddove ci si trovi al cospetto di un rilevante numero di osservazioni e le stesse siano estremamente parcellizzate (cfr. TAR Lazio, Latina, 12.02.2016, n. 90, che segnala anche la finalità di evitare disparità di trattamento tra situazioni omogenee).
In ogni caso, nella fattispecie de qua, i criteri posti alla base del raggruppamento delle osservazioni in gruppi omogenei risultano sia dal codice identificativo del gruppo (es: ER= errori/imprecisioni), sia dalla descrizione del contenuto del gruppo che, nel caso della variante, si riferiscono alle “modifiche strutturali e/o significative che comporterebbero l’aggiornamento dei contenuti strategici del documento di piano –e conseguentemente degli esiti del processo di valutazione ambientale strategica– o di accordi di programma precedentemente sottoscritti, oppure richiederebbe un’impropria classificazione in considerazione dello stato dei luoghi. E’ inoltre presente la casistica di osservazione non pertinente” (cfr. all. 7 al ricorso).
Del resto, ciò appare coerente con la circostanza che «
le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato dei privati ad una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti» (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 08.01.2019, n. 38; 10.12.2018, n. 2761).
2.2. Ciò determina il rigetto delle suesposte doglianze.
5. Con la quinta censura del ricorso introduttivo e la quarta del ricorso per motivi aggiunti, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume l’illegittima classificazione dell’immobile inserito nel Piano dei servizi come avente un interesse pubblico.
5.1. Le doglianze sono infondate.
Va premesso che la classificazione dell’immobile oggetto del presente contenzioso ha tenuto conto della circostanza che lo stesso fosse stato in passato una chiesa e un convento, e comunque avesse una vocazione culturale, come dimostrato anche dalle attività promosse nello stesso dal dante causa della ricorrente (inizio pag. 3 del ricorso introduttivo). Quindi nessun travisamento dello stato di fatto risulta essersi verificato in sede di individuazione della destinazione dell’immobile de quo.
In ogni caso,
va sottolineato come in ambito urbanistico non operi il divieto di reformatio in peius –nelle specie nemmeno rinvenibile, considerato che già il P.R.G. del 2001 classificava l’immobile come struttura di interesse pubblico–, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 06.05.2019, n. 1022; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
5.2. Quindi, anche le predette doglianze vanno respinte.

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso civico, vietato intralciare la PA.
L’accesso civico generalizzato non può intralciare l’azione amministrativa dell’ente ostensore, perciò è giusto negarlo nei casi di richieste massive e/o se questo diritto è adoperato in modo distorto. Il c.d. dialogo collaborativo col richiedente accesso non è un onere, ma una facoltà della P.A..
La disciplina dell’accesso civico è ontologicamente differente da quella procedimentale, rispondente all’interesse pubblico alla trasparenza della attività amministrativa e non all’interesse del singolo per meri scopi difensionali. Pertanto occorre farne un corretto uso e non deve essere sovrapposta in aggiunta alla stessa disciplina procedimentale, al fine di evitare un “bis in idem”.
Sicché, deve essere applicata secondo buona fede e senza aggravare l’operato della P.A. ed entro il rispetto del limite della tutela dell’ interesse alla riservatezza dei dati personali. Quest’ultimo, come hanno anche affermato la giurisprudenza costituzionale e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenze 20.05.2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e altri, e 09.11.2010, nelle cause riunite C-92/09 e 93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert), rappresenta un valore non suscettibile di essere degradato e che deve essere contemperato, in un proporzionato bilanciamento di interessi, con il valore della trasparenza amministrativa
(massima tratta da www.altalex.com).
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Considerato in diritto, preliminarmente, che:
   – all’udienza camerale del 30.07.2019, nessuno costituito per le parti ritualmente intimate, il ricorso in epigrafe, sussistendone i presupposti ex art. 60 c.p.a., è assunto in decisione dal Collegio per esser deciso nelle forme di cui al successivo art. 74, essendo l’appello manifestamente fondato;
   – l’occasio, da cui il presente contenzioso in materia di accesso civico ex art. 5 del D.lgs. 33/2013 prende le mosse, è la sentenza n. 3100 del 28.05.2018, con cui il TAR Napoli ha respinto due ricorsi del sig. Or.Ar. (appellato) contro altrettanti provvedimenti del Comune di Serrara Fontana, aventi ad oggetto, l’uno, l’improcedibilità della richiesta per l’agibilità provvisoria d’un edificio soggetto a condono edilizio non esitato (e dove il sig. Ar. aveva posto un esercizio commerciale di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande) e, l’altro, la consequenziale sospensionedi tal attività (in assenza di agibilità);
   – la vicenda sottostante all’accesso è incentrata sull’interpretazione dell’art. 35, XX co. della l. 47/1995 («a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene… rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica»);
   – su tal norma da tempo, s’è formato l’indirizzo (già da Cons. St., V, 28.05.2009 n. 3262) per cui, alla luce dell'art. 3, co. 7, della l. 25.08.1991 n. 287 —poiché le attività di somministrazione di alimenti e bevande devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d'uso dei locali e degli edifici—, ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni che la P.A. deve verificare non solo la presenza dei presupposti e requisiti in materia di attività commerciale, ma anche la conformità dei locali, da utilizzare per l'autorizzanda attività, alle norme predette sotto il profilo sia edilizio-urbanistico che igienico-sanitario;
   – pertanto, non può esser mantenuto il titolo inerente a tal attività di somministrazione, ove svolta in un locale non conforme alla disciplina edilizia e urbanistica né ricondotto a conformità per effetto dell'accoglimento dell'istanza di condono presentata ma non ancora definita e che non può esser neppure oggetto di una certificazione provvisoria di agibilità, non prevista dall'ordinamento e che, al più, può riguardare solo manufatti conformi alla disciplina edilizia ed urbanistica;
   – essendosi il TAR Napoli espresso in questi stessi termini con la sentenza n. 3100/2018, è di tutta evidenza che tal controversia, per la quale il sig. Ar. assume d’aver interposto appello, pone solo una questione di diritto, tutta incentrata sul significato della norma di sanatoria in rapporto con le tuttora vigenti regole per la somministrazione di alimenti e bevande;
   – sulla scorta di tali brevi dati, può allora il Collegio pervenire già ad una prima conclusione nei riguardi dell’istanza d’accesso proposta dal sig. Ar., al contempo difensionale ex art. 24, co. 7, della l. 241/1990 e civico ex art. 5 del D.lgs. 33/2013 per spenderne i dati nel promovendo giudizio d’appello, nel senso di poter affermare l’inutilità, anzi il carattere soltanto emulativo della richiesta massiva di dati su atti, provvedimenti e rapporti del Comune con un numero indefinibile di soggetti terzi, tutti coinvolti e potenziali controinteressati e, soprattutto, titolari di interessi di difesa i più disparati e non omogenei (quindi, con diversi livelli di opponibilità all’accesso);
   – invero, non sfugge al Collegio il dato testuale dell’art. 24, co. 7, I per. della l. 241/1990, secondo cui «deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici», ma da questo ben s’inferisce, segnatamente quando l’accesso difensivo sia esercitato in modo espresso per ragioni di difesa giudiziale, l’evidente differenza tra cura e difesa dei propri interessi —onde quest’ultima non è ricompresa, né è specificazione di quella—, nonché in particolare, come già da tempo afferma la Sezione (cfr. Cons. St., sez. VI, 07.02.2014 n. 600), il principio in virtù del quale tal accesso non sia in grado di prevalere su ogni ipotesi di esclusione ai sensi dei precedenti commi dello stesso art. 24 (e non solo per i casi strettamente contemplati nel solo co. 7, II per.);
   – ancora da ultimo (cfr. Cons. St., V, 21.08.2017 n. 4043) la giurisprudenza non solo esclude che le esigenze di cura e difesa di interessi giuridici ex art. art. 24, co. 7, siano tutelabili fino al punto d’ammettere istanze d’accesso di contenuto del tutto indeterminato o riferite a rapporti estranei alla sfera giuridica del richiedente —poiché ciò rende impossibile l’adempimento dell’obbligo, indicato dalla norma citata, per cui tal accesso va sempre garantito), come d’altronde (p. es., cfr. id., VI, 29.04.2019 n. 2737) il diritto all'accesso difensionale postula sempre un accertamento concreto dell'esistenza di un interesse differenziato della parte che richiede i documenti e tal accesso è solo strumentale per verificare i presupposti di fatto all'esercizio di un'azione in giudizio (o alla diversa cura della stessa), mai per la ricerca generale di lacune o di manchevolezze nell'operato della P.A., che darebbe luogo ad una richiesta ostensiva meramente esplorativa;
Considerato altresì che:
   – tali elementi sono utilizzabili dall’interprete, stante il gioco di similitudini e differenze che lega la disciplina dell’accesso civico a quella ex l. 241/1990, quantunque i due tipi di accesso siano tra loro paralleli e diversi, non sovrapponibili, ossia come se da entrambi si potesse ritrarre la medesima utilità giuridica, indifferentemente agendo uti cives o con l’accesso ordinario perché si prospetta la titolarità di una data situazione soggettiva;
   – se non sfugge l’uso pratico dell’accesso civico perlopiù per aggirare i limiti posti dall’art. 24 della l. 241/1990, a ben vedere il rapporto tra tali due tipi di accesso è non già di continenza, ma di scopo e, quindi, di diversa utilità ritraibile, visto che l’accesso procedimentale, fin dalla stesura originale dell’art. 22, co. 1, della l. 241/1990, è preordinato a soddisfare un interesse specifico ma strumentale di chi lo fa valere per ottenere un qualcos’altro che sta dietro alla (e si serve della) conoscenza incorporata nei dati o nei documenti accessibili, donde il forte accento che le norme pongono sulla legittimazione e sui limiti connessi;
   – per contro, l’accesso civico generalizzato soddisfa un’esigenza di cittadinanza attiva, incentrata sui doveri inderogabili di solidarietà democratica, di controllo sul funzionamento dei pubblici poteri e di fedeltà alla Repubblica e non su libertà singolari, onde tal accesso non può mai essere egoistico, poiché qui l’accento cade sul “diritto” non agli open data, che ne sono il mero strumento, bensì al controllo e la verifica democratica della gestione del potere pubblico (o dei concessionari pubblici), e ciò anche oltre la mera finalità anticorruttiva, che pur essendo stata la matrice dell’accesso civico, non ne esaurisce le ragioni;
   – pertanto, l’accesso civico, che concerne anche e soprattutto gli atti e documenti non pubblicati o che la PA non ha inteso pubblicare, non è tuttavia utilizzabile come surrogato dell’altro, qualora si perdano o non vi siano i presupposti di quest’ultimo, perché serve ad un fine distinto, talvolta cumulabile, ma sempre inconfondibile;
   – in base all’art. 1 del D.lgs. 33/2013, l’accesso civico ha pur sempre la sua ratio esclusiva nella dichiarata finalità di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni d’istituto e sull'utilizzo delle risorse pubbliche, nonché nella promozione della partecipazione al libero dibattito pubblico, onde esso non è utilizzabile in modo disfunzionale rispetto alla predetta finalità ed essere trasformato in una causa di intralcio al buon funzionamento della P.A. e va usato secondo buona fede, sicché la valutazione del suo uso va svolta caso per caso e con prudente apprezzamento, al fine di garantire, secondo un delicato ma giusto bilanciamento che non obliteri l'applicazione di tal istituto, che non se ne faccia un uso malizioso e, per quel che concerne nella specie, non si crei una sorta di effetto "boomerang" sulla P.A. destinataria;
   – non ha errato, dunque, il Comune appellante nel delibare il contenuto proprio dell’accesso civico spiegato dal sig. Ar., perché la sentenza del TAR Napoli n. 3100/2018 non s’è pronunciata in via diretta sulle agibilità provvisorie o sulla “continuità d’uso” delle attività commerciali in immobili sanandi ma ancora non condonati, dichiarando inammissibile l’uso dell’accesso civico per creare, mediante una richiesta “massiva” di dati per fini esclusivamente privati, un intralcio all’attività della P.A., al più per soddisfare un interesse di natura solo privata, individuale ed egoistica, incongruente con lo scopo pubblicistico dell’istituto;
– pertanto rettamente il Comune contesta d’aver ben distinto (2° motivo d’appello), nel respingere l’istanza del sig. Ar., le ragioni del rigetto di quella parte relativa all’accesso civico —stante sia il difetto di congrua rappresentazione del relativo interesse, sia l’uso disfunzionale e contra legem di tal accesso—, rispetto a quello procedimentale;
   – giova rammentare al riguardo come, pur secondo la più liberale interpretazione dell’art. 5-bis del D.lgs. 33/2013 —in virtù della quale si predica che, dopo l’entrata in funzione dell’accesso civico, l’accesso difensionale di regola prevale se serve a soddisfare un bisogno di tutela d’una situazione giuridica soggettiva e recede solo se sia impedito da un contrapposto interesse di “pari rango” espressamente contemplato da una fonte primaria (si pensi ai casi di contrapposti interessi sensibili o giudiziari), in base ad un trattamento direttamente regolato dall’art. 24, co. 7, e senza più alcun apprezzamento discrezionale della P.A.—, la differenza di regime dell’accesso civico imponga e non suggerisca alla P.A. stessa, in mancanza d’una norma che replichi tal quale il regime dell’art. 24, co. 7, e stante invece il rigoroso sistema di tutele delle riservatezze, di delibare con altrettanto rigore l’istanza d’accesso civico ai sensi sia dell’art. 5-bis, co. 2, del decreto n. 33 (se siano implicati interessi riservati di terzi), sia del successivo co. 3, prima parte (ove siano implicati, in forza del combinato disposto dell’art. 21, co. 3, e dell’art. 24, co. 3, della l. 241/1990, atti per altri motivi inaccessibili);
   – proprio sulla tutela delle riservatezze è da ultimo intervenuto il Giudice delle leggi (cfr. C. cost., 21.02.2019 n. 20), il quale afferma sì la diretta riferibilità dei principi di pubblicità e trasparenza a tutti gli aspetti rilevanti della vita pubblica e istituzionale (art. 1 Cost.) ed allo stesso buon funzionamento della P.A. (art. 97 Cost.: quindi, anche ai dati che essa possiede e controlla) ed afferma pure come tali principi tendano ormai a manifestarsi, nella loro declinazione soggettiva, nella forma di un diritto dei cittadini ad accedere ai dati in possesso della P.A. in base all’art. 1 del D.lgs. 33/2013 (tant’è che il diritto di accesso a tali dati e documenti è principio generale del diritto UE), ma rammenta pure, alla luce della giurisprudenza della CGUE, come le esigenze di controllo democratico non possano travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche e vada sempre rispettato il principio di proporzionalità, qual metodo equilibratore tra le esigenze di conoscibilità del contenuto dell’azione amministrativa e la protezione dei dati personali, onde limiti e deroghe devono operare nei limiti dello stretto necessario;
   – nella stessa decisione, la Corte precisa l’estraneità, alla ratio dell’accesso civico, della conoscenza di dati ulteriori e personali di per sé non congruenti con gli scopi indicati dall’art. 1 del decreto n. 33, onde l’accesso civico è condizionato dalla valutazione dell’effettiva utilità della conoscenza per il perseguimento di scopi anticorruttivi o, comunque, dalla delibazione degli specifici scopi sottesi a tal accesso (donde la necessaria indicazione specifica degli atti cui accedere e del relativo scopo)
   – siffatta delibazione, peraltro realmente compiuta dal Comune (donde la fondatezza pure del primo motivo d’appello), concerne sia l’appartenenza, o meno, degli atti richiesti alla categoria di quelli non soggetti a pubblicazione obbligatoria ai sensi dell’art. 23 del D.lgs. 33/2013 —sicché essi vanno intesi come quei dati o documenti ulteriormente rifiutabili ai sensi e per gli effetti del citato art. 5, co. 2, a far tempo (23.06.2016) dall’intervenuta abrogazione in parte qua del medesimo art. 23 ad opera della novella recata dall’art. 22, co. 1, lett. a), del D.lgs. n. 97/2016—, sia il rispetto, o meno, di quel minimo onere di diligenza ex art. 5, co. 3, II per. circa l’esatta identificazione di atti e documenti cui il sig. Ar. aveva desiderato di accedere, onere, questo, imprescindibile per ben chiare ragione di leale collaborazione con la P.A. a fronte d’un diritto d’accesso che non sconta più limiti di legittimazione soggettiva;
Considerato infine che:
   – parimenti da accogliere è il terzo motivo d’appello, poiché l’istanza d’accesso civico in questione è ictu oculimassiva” (all’uopo bastando scorrerne l’articolazione) quand’anche non la si volesse ritenere emulativa, giacché il rigetto dell’istanza stessa va letta in una con il contenuto di questa, il quale assomma all’ampiezza degli atti cui accedere la totale assenza, al di là della loro partizione in macro-categoria, d’ogni specificità;
   – invero, il sig. Ar. ha chiesto d’accedere e d’ottenere copia di: «… tutte le licenze commerciali di qualunque natura rilasciate nel comune di Serrara Fontana; - dei certificati di agibilità di dette attività commerciali (alberghi, ristoranti, negozi, ecc.); - delle domande di condono non ancora evase ovvero a cui non è stata ancora concessa la sanatoria in relazione ad immobili in cui vengono esercitate attività commerciali per le quali è stata rilasciata licenza di commercio; - di tutte le continuità d’uso rilasciate per immobili sottoposti a pratica di condono non ancora esaminata e concessa…»;
   – l’indeterminatezza della richiesta, dopo il testé citato richiamo al contenuto dell’istanza, è di così palmare evidenza, sol che si pensi alla copia di tutte le licenze commerciali (dunque, di tutti i titoli in varia guisa emanati o formatisi in ogni tempo, o almeno dall’entrata in vigore del condono edilizio ex l. 47/1985 in poi, per l’esercizio dell’attività commerciale), di tutti i certificati di agibilità per tali attività (quindi, per tutto il predetto tempo e per tutt’e tre le procedure di condono), delle domande di condono edilizio relative a tali immobili e non ancora esitate e di tutte le continuità d’uso rilasciate per gli immobili soggetti a procedura di sanatoria;
   – quantunque siano notorie le contenute dimensioni del territorio e della popolazione di Se.Fo., tali circostanze, unite al fatto che si tratta d’un Comune sparso, non elidono, ma invece enfatizzano il peso che grava sull’Amministrazione municipale, le cui forze, proporzionate a dette dimensioni, sono messe con ogni evidenza a prova dall’istanza del sig. Ar., affaticando così la organizzazione e l’attività degli uffici, soprattutto ove si volesse seguire il suggerimento di oscurare i dati personali di tutti i soggetti terzi coinvolti, foss’anche al fine d’evitare o limitare al massimo le posizioni di controinteresse;
   – è solo da soggiungere come tal affaticamento si verificherebbe lo stesso, pur se il Comune volesse pervenire ad una preliminare scrematura dei dati e dei documenti richiesti per aggregarli o pure per oscurarli, in quanto occorrerebbe comunque il tempo per reperire i dati, organizzarli e, se del caso, oscurarne il contenuto eventualmente sensibile, senza con ciò evitare a priori l’opposizione dei terzi (che vanno sempre avvertiti, ai sensi dell’art. 5, co. 5, del D.lgs. 33/2013 affinché esercitino tal loro facoltà, peraltro in un breve termine di decadenza) e, con essa, il frazionamento delle varie posizioni e l’obbligo del Comune di valutarle ciascuna alla volta;
   – del pari fondato è il quarto mezzo d’appello con riguardo al vizio d’ultrapetizione che affligge la sentenza impugnata, giacché il dialogo cooperativo tra il Comune ed il sig. Ar., di cui essa parla qual formula per giungere ad una soluzione concordata stragiudiziale sul perimetro concreto di tale accesso civico, è una mera facoltà del Comune e non si rinviene a guisa d’obbligo nell’art. 5 e ss. del D.lgs. 33/2013;
   – a tutto concedere, quindi, avrebbe dovuto il ricorrente denunciare l’eventuale omissione e non il Giudice accertarla d’ufficio e, certo, non per realizzare una sorta d’ortopedia dell’istanza d’accesso, che, peraltro, di per sé non incappa in decadenze ed è correggibile e riproponibile a cura del sig. Ar. finché in capo a lui ne permanga l’interesse;
   – deve il Collegio osservare comunque che la soluzione prospettata dalla sentenza s’appalesa, come rettamente osserva l’appellante, una sorta di contraddizione, giacché, se si predica la specificità e la natura non “massiva” dell’istanza, il dialogo cooperativo sarebbe superfluo e viceversa, l’eventuale dialogo, oltre a non elidere la delibazione sull’ammissibilità dell’istanza, implicherebbe l’esistenza delle manchevolezze che l’inficiano;
   – in definitiva, l’appello va accolto nei sensi fin qui esaminati, ma la novità e la complessità della questione suggerisce l’irripetibilità delle spese del presente grado di giudizio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.08.2019 n. 5702 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Sui distinguo fra le due fattispecie di lottizzazione e cioè la lottizzazione "materiale" o "sostanziale" e la lottizzazione "negoziale" o "cartolare".
Risulta integrata la lottizzazione materiale in ragione della trasformazione urbanistica ed edilizia dell’area e la lottizzazione cartolare mediante il frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita dei lotti da essa risultanti.
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L’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001 preve che si abbia “lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
In base ai consolidati orientamenti giurisprudenziali, da tale norma derivano due fattispecie di lottizzazione cioè una lottizzazione “
materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici; e una lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest'ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori.
In particolare, siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell’ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard apprestabili.
L’illecito lottizzatorio può assumere anche le sembianze della cd. lottizzazione cartolare, “quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Con riferimento specifico alla predetta lottizzazione c.d. “
cartolare” la fattispecie è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo è predisposta mediante il frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti- del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o l'eventuale previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti.
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva “
cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l'acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. Detto altrimenti, l'attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali certe e univoche, che confermino che l'attività posta in essere è propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo a fini edificatori.
In ogni caso, l’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico.
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Quanto alla “colpevolezza” del proprietario del terreno, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale già espresso di recente dalla Sezione, per cui per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l'illecito si fonda sul dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri danti causa.
Sotto tale profilo, con riferimento al caso di specie, ritiene il Collegio che non possa rilevare a sostegno della buona fede dell’appellante la circostanza dell’essere stata acquirente dei suoli successivamente al frazionamento dell'area e quindi non autrice dell’originario disegno lottizzatorio. In primo luogo, infatti, il Collegio ritiene di richiamare quanto già affermato da questo Consiglio, che, sulla base dalla natura oggettiva della lottizzazione abusiva e indipendente dall'
animus dei proprietari interessati, ha già escluso la rilevanza di tale circostanza con riferimento al medesimo provvedimento comunale impugnato.
Inoltre, anche la giurisprudenza penale, argomentando dal carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possano invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei all'illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell'adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita utilizzazione del territorio.
In tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell'omessa individuazione dell'elemento psicologico dell'illecito contestato possono al più utilizzare l'argomento al mero fine dell'applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall'art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001 (reputata comunque compatibile con l'art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti dell'uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828), nel mentre l'argomento medesimo non è utilmente invocabile al fine dell'irrogazione della sanzione ammnistrativa dell'acquisizione coattiva dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune, contemplata dall'art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato.
La giurisprudenza è, altresì, consolidata nel ritenere la natura permanente dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie.
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L’appello è infondato.
Con riferimento al primo motivo di appello con cui si contesta l’avvenuta lottizzazione ad opere dell’appellante, ritiene il Collegio di evidenziare, come rilevato dal giudice di primo grado, che l’area in questione è stata interessata da una lottizzazione c.d. mista, in quanto, alla originaria suddivisione del suolo mediante il frazionamento catastale e gli atti di vendita si è aggiunta, nel tempo, la successiva attività di trasformazione edilizia dei singoli fondi attraverso la esecuzione di opere, peraltro in una area con destinazione agricola ed edificabilità limitata ad opere necessarie alla conduzione del fondo.
Risultano, quindi, integrate sia la lottizzazione materiale in ragione della trasformazione urbanistica ed edilizia dell’area in contrasto con le norme vigenti sia la lottizzazione cartolare, posta in essere mediante il frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita dei lotti da essa risultanti. La lottizzazione contestata, infatti, è stata attuata nel tempo, prima attraverso vari atti di frazionamento e conseguenti vendite di singoli lotti e poi attraverso la esecuzione di opere di urbanizzazione e la trasformazione edilizia degli stessi.
L’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del quale è stata adottata l’ordinanza impugnata, riproduce integralmente le disposizioni già contenute nell’art. 18 della legge 28.02.1985 n. 47; tali norme prevedono che si abbia “lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
In base ai consolidati orientamenti giurisprudenziali, da tale norma derivano due fattispecie di lottizzazione cioè una lottizzazione “materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici; e una lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest'ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori.
In particolare, come evidenziato da questo Consiglio, siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell’ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard apprestabili (Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416; id. 09.01.2018, n. 5805, inerente peraltro il medesimo provvedimento oggetto dell’odierno contenzioso).
L’illecito lottizzatorio può assumere anche le sembianze della cd. lottizzazione cartolare, “quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio” (Cons. Stato Sez. II, Sent., 20.05.2019, n. 3215).
Con riferimento specifico alla predetta lottizzazione c.d. “cartolare” la fattispecie è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo è predisposta mediante il frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti- del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o l'eventuale previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.08.2012, n. 4429; Sez. IV, 13.05.2011, n. 2937).
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva “cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l'acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. Detto altrimenti, l'attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali certe e univoche, che confermino che l'attività posta in essere è propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo a fini edificatori (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108; Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
In ogni caso, l’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico (Cons. Stato Sez. II, Sent., 20.05.2019, n. 3215).
Quanto alla “colpevolezza” del proprietario del terreno, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale già espresso di recente dalla Sezione, per cui per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l'illecito si fonda sul dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri danti causa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2016 n. 26 del 2016; Cons. Stato Sez. II, 20.05.2019, n. 3215; id Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
Sotto tale profilo, con riferimento al caso di specie, ritiene il Collegio che non possa rilevare a sostegno della buona fede dell’appellante la circostanza dell’essere stata acquirente dei suoli successivamente al frazionamento dell'area e quindi non autrice dell’originario disegno lottizzatorio. In primo luogo, infatti, il Collegio ritiene di richiamare quanto già affermato da questo Consiglio, che, sulla base dalla natura oggettiva della lottizzazione abusiva e indipendente dall'
animus dei proprietari interessati, ha già escluso la rilevanza di tale circostanza con riferimento al medesimo provvedimento comunale impugnato (cfr. Sez VI 09.10.2018 n. 5805).
Inoltre, anche la giurisprudenza penale, argomentando dal carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possano invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei all'illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell'adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita utilizzazione del territorio (cfr. Cass. pen., Sez. III, 13.02.2014, n. 2646; id., 03.12.2013, n. 51710; id., 27.04.2011, n. 21853).
In tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell'omessa individuazione dell'elemento psicologico dell'illecito contestato possono al più utilizzare l'argomento al mero fine dell'applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall'art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001 (reputata comunque compatibile con l'art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti dell'uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828) , nel mentre l'argomento medesimo non è utilmente invocabile al fine dell'irrogazione della sanzione ammnistrativa dell'acquisizione coattiva dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune, contemplata dall'art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. VI, 23.03.2018, n. 1878; Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
La giurisprudenza è, altresì, consolidata nel ritenere la natura permanente dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie (Cons. Stato Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie, deve ritenersi integrata la fattispecie della lottizzazione abusiva in relazione alle circostanze di fatto, peraltro incontestate, desumibili da tutti gli accertamenti effettuati: i lotti appartenenti all’appellante risultano dal frazionamento di un’unica area molto più vasta, a destinazione agricola; la contestualità temporale di tutte le vendite originarie, attraverso le quali si realizzò il frazionamento; la realizzazione sui suoli risultanti dal frazionamento di molteplici interventi edilizi abusivi, incompatibili con la detta destinazione agricola delle aree; la carenza in capo all’appellante o comunque la mancata deduzione in proposito della qualifica di imprenditore agricolo; la necessaria realizzazione di opere di urbanizzazione, in assenza delle quali un insediamento residenziale non avrebbe avuto le necessarie condizioni di abitabilità.
Agli effetti della configurazione della fattispecie, inoltre, ciò che rileva non è l’epoca di realizzazione delle opere edilizie abusive, quanto il loro discendere dall’iniziale frazionamento dell’area, ciò che deve ritenersi sufficiente a dimostrarne la coerenza con l’originario intento lottizzatorio.
Peraltro, nel caso di specie, la destinazione agricola dei terreni risultante anche espressamente dagli atti di acquisto dei terreni rendeva conoscibile alla parte odierna appellante la radicale trasformazione dell’area in assenza di qualsiasi attività pianificatoria comunale (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: L’obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non viene inteso in senso formalistico, ma risponde all'esigenza di acquisire l’apporto collaborativo da parte dell'interessato, con la conseguenza che tale obbligo viene meno qualora nessuna effettiva influenza potrebbe avere la partecipazione del privato rispetto alla portata del provvedimento finale.
In particolare, l’esclusione dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento è stata già affermata da questo Consiglio anche nel caso della lottizzazione abusiva quando, come nel caso di specie, risultino la “finalità certamente edificatoria della lottizzazione ed il suo carattere non autorizzato ed abusivo”.
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Con il secondo motivo di appello si lamenta la violazione del principio di partecipazione al procedimento.
Il motivo è infondato.
L’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge 07.08.1990 n. 241, per cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, conduce infatti ad un giudizio di infondatezza della censura, in quanto il provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere contenuto diverso né l’eventuale partecipazione procedimentale avrebbe potuto incidere sui presupposti del provvedimento impugnato, in relazione alla sussistenza della lottizzazione abusiva, basata sull’indubbio accertamento del frazionamento di una più vasta proprietà in diversi lotti ai fini edilizi e sulla materiale trasformazione degli stessi suoli.
L’art. 21-octies si riferisce, infatti, anche al provvedimento che abbia natura in concreto vincolata con la conseguenza che l’avviso di inizio del procedimento non sia comunque dovuto quando in concreto si rilevi la sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento impugnato.
Deve essere in proposito richiamata la consolidata giurisprudenza, per cui l’obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non viene inteso in senso formalistico, ma risponde all'esigenza di acquisire l’apporto collaborativo da parte dell'interessato, con la conseguenza che tale obbligo viene meno qualora nessuna effettiva influenza potrebbe avere la partecipazione del privato rispetto alla portata del provvedimento finale (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.03.2017, n. 1407; Sez. VI, 18.05.2015, n. 2509).
In particolare, l’esclusione dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento è stata già affermata da questo Consiglio anche nel caso della lottizzazione abusiva quando, come nel caso di specie, risultino la “finalità certamente edificatoria della lottizzazione ed il suo carattere non autorizzato ed abusivo” (Consiglio di Stato, sezione IV 09.10.2017 n. 4668) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Anche le varianti per il recupero dei nuclei edilizi abusivi rientrano nell’ampia discrezionalità del potere pianificatorio urbanistico comunale.
Nessun obbligo di redazione di varianti per il recupero degli insediamenti abusivi discende, infatti, dall’art. 29 della legge n. 47 del 1985, mentre la perimetrazione dei nuclei abusivi, così come la successiva approvazione della variante sono attività rientranti in pieno nel potere pianificatorio discrezionale del Consiglio comunale, che esercita in tal caso la discrezionalità in funzione del recupero di una situazione creatasi in via di fatto, ma che tenga conto, oltre alla esigenza di recupero dei nuclei abusivi, delle generali esigenze di pianificazione del territorio comunale.
La ratio di tali norme non è, infatti, quella di imporre alle amministrazioni comunali l’obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a fini del recupero, bensì quella di affiancare una speciale tipologia di variante a quelle già contemplate dall'ordinamento urbanistico; pertanto, le amministrazioni interessate hanno una mera facoltà e non l'obbligo di contemplare all'interno delle varianti generali gli insediamenti abusivi.
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L’appellante sostiene poi la violazione dell’art. 29 della legge n. 47 del 1985 e dell’art. 23 della legge regionale della Campania n. 16 del 2004, in quanto l’Amministrazione comunale non avrebbe valutato il recupero urbanistico degli insediamenti abusivi, tramite l’approvazione di una variante urbanistica.
Anche tale motivo di appello è infondato.
Ai sensi dell’art. 29 della legge n. 47 del 1985, “entro novanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge le regioni disciplinano con proprie leggi la formazione, adozione e approvazione delle varianti agli strumenti urbanistici generali finalizzati al recupero urbanistico degli insediamenti abusivi, esistenti al 01.10.1983, entro un quadro di convenienza economica e sociale”.
In base all’art. 23, commi 3 e seguenti, della legge regionale 22.12.2004, n. 16, il Piano urbanistico comunale “individua la perimetrazione degli insediamenti abusivi esistenti al 31.12.1993 e oggetto di sanatoria ai sensi della legge 28.02.1985, n. 47, capi IV e V, e ai sensi della legge 23.12.1994, n. 724, articolo 39, al fine di: a) realizzare un'adeguata urbanizzazione primaria e secondaria; b) rispettare gli interessi di carattere storico, artistico, archeologico, paesaggistico-ambientale ed idrogeologico; c) realizzare un razionale inserimento territoriale ed urbano degli insediamenti.
4. Le risorse finanziarie derivanti dalle oblazioni e dagli oneri concessori e sanzionatori dovuti per il rilascio dei titoli abilitativi in sanatoria sono utilizzate prioritariamente per l'attuazione degli interventi di recupero degli insediamenti di cui al comma 3.
5. Il Puc può subordinare l'attuazione degli interventi di recupero urbanistico ed edilizio degli insediamenti abusivi, perimetrati ai sensi del comma 3, alla redazione di appositi Pua, denominati piani di recupero degli insediamenti abusivi, il cui procedimento di formazione segue la disciplina prevista dal regolamento di attuazione previsto dall'articolo 43-bis.
6. Restano esclusi dalla perimetrazione di cui al comma 3 gli immobili non suscettibili di sanatoria ai sensi dello stesso comma 3
”.
Ritiene il Collegio sul punto di richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale per cui anche le varianti per il recupero dei nuclei edilizi abusivi rientrano nell’ampia discrezionalità del potere pianificatorio urbanistico comunale. Nessun obbligo di redazione di varianti per il recupero degli insediamenti abusivi discende, infatti, dall’art. 29 della legge n. 47 del 1985, mentre la perimetrazione dei nuclei abusivi, così come la successiva approvazione della variante sono attività rientranti in pieno nel potere pianificatorio discrezionale del Consiglio comunale, che esercita in tal caso la discrezionalità in funzione del recupero di una situazione creatasi in via di fatto, ma che tenga conto, oltre alla esigenza di recupero dei nuclei abusivi, delle generali esigenze di pianificazione del territorio comunale.
La ratio di tali norme non è, infatti, quella di imporre alle amministrazioni comunali l’obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a fini del recupero, bensì quella di affiancare una speciale tipologia di variante a quelle già contemplate dall'ordinamento urbanistico; pertanto, le amministrazioni interessate hanno una mera facoltà e non l'obbligo di contemplare all'interno delle varianti generali gli insediamenti abusivi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 25.07.2001, n. 4078; 03.10.2001, n. 5207; Sez. VI, 05.04.2012, n. 2038; Sez. IV, 07.06.2012, n. 3381; TAR Lazio Roma Sez. II-quater, 28.03.2018, n. 3423).
Nel caso di specie, il Comune di Giugliano non ha approvato alcuna variante per il recupero del nucleo abusivo né aveva alcun un obbligo in tal senso (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia costituiscono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Infatti la sanzione repressiva in materia edilizia costituisce atto dovuto della pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso -che è in re ipsa- con l'interesse del privato proprietario del manufatto e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso.
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La fattispecie della lottizzazione abusiva, riguardando la sottrazione al Comune del potere pianificatorio, prescinde dalle singole opere abusive realizzate senza titolo e dalla presentazione per questa di una eventuale domanda di sanatoria o dal rilascio per le stesse di un titolo edilizio.
L’accertamento della lottizzazione abusiva, fattispecie posta a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del territorio, è un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio; pertanto alcun rilievo sanante sull'abuso può rivestire il rilascio di un eventuale titolo edilizio, sia ex ante, in presenza di titoli anche già rilasciati, sia di titoli rilasciati in sanatoria.
L’autonomia dei due procedimenti comporta che anche la pendenza della domanda di sanatoria non possa avere comunque avere alcun rilievo sugli atti adottati ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. 380 del 2001, non potendo essere comunque rilasciato il titolo in sanatoria.
Infatti, per la costante giurisprudenza, nell’ambito di una lottizzazione abusiva, non è possibile comunque sanare alcun illecito, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso.
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Con ulteriore motivo di appello si lamenta l’erroneità delle affermazioni del giudice di primo grado circa il difetto di motivazione del provvedimento comunale sull’interesse pubblico alla repressione dell’attività abusiva, nonché una sua mancata comparazione con l’interesse privato sacrificato, considerato anche il tempo trascorso dall’epoca della lottizzazione abusiva.
Anche tale motivo è infondato in relazione al costante orientamento giurisprudenziale per cui i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia costituiscono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Infatti la sanzione repressiva in materia edilizia costituisce atto dovuto della pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso -che è in re ipsa- con l'interesse del privato proprietario del manufatto e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso ( Consiglio di Stato, sez. VI 09.04.2019, n. 2329; sez. IV, 31.08.2016 n. 3750 con espresso riferimento ad una ipotesi di lottizzazione abusiva).
Sotto tale profilo, non può avere alcun rilievo l’invio al Comune degli atti di vendita, che peraltro avevano ad oggetto un terreno a destinazione agricola.
Infine, l’appellante ha dedotto di avere presentato domande di sanatoria per i manufatti abusivi, che avrebbero dovuto essere considerate dal Comune così come il Comune avrebbe dovuto valutare l’approvazione di un piano di lottizzazione attraverso il meccanismo previsto agli artt. 25 e 35 della legge 47 del 1985.
Anche tale motivo di appello è infondato, in relazione al costante orientamento giurisprudenziale per cui la fattispecie della lottizzazione abusiva, riguardando la sottrazione al Comune del potere pianificatorio, prescinde dalle singole opere abusive realizzate senza titolo e dalla presentazione per questa di una eventuale domanda di sanatoria o dal rilascio per le stesse di un titolo edilizio.
L’accertamento della lottizzazione abusiva, fattispecie posta a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del territorio, è un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio; pertanto alcun rilievo sanante sull'abuso può rivestire il rilascio di un eventuale titolo edilizio, sia ex ante, in presenza di titoli anche già rilasciati, sia di titoli rilasciati in sanatoria. L’autonomia dei due procedimenti comporta che anche la pendenza della domanda di sanatoria non possa avere comunque avere alcun rilievo sugli atti adottati ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. 380 del 2001, non potendo essere comunque rilasciato il titolo in sanatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115).
Infatti, per la costante giurisprudenza, nell’ambito di una lottizzazione abusiva, non è possibile comunque sanare alcun illecito, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3381).
Quanto all’approvazione del piano di lottizzazione, ritiene il Collegio di richiamare quanto già sopra evidenziato circa l’ampia discrezionalità del potere pianificatorio del Comune rispetto al recupero urbanistico dei nuclei abusivi.
Conclusivamente, pertanto, l’appello è da ritenersi infondato e deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ESPROPRIAZIONETorna alla Adunanza plenaria l’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropriazione in relazione all’istituto della c.d. rinuncia abdicativa.
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Espropriazione per pubblico interesse – Acquisizione sanante – Rinuncia abdicativa – Configurabilità – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Vanno deferite all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, le seguenti questioni:
   a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
   b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42-bis;
   c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42 bis, il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42-bis;
   d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la disciplina di cui all’art. 42-bis e, eventualmente, nominando un Commissario ad acta già in sede di cognizione;
   e) se, nella specie, l’atto di acquisizione emesso da Roma Capitale in data 23.11.2018 vada considerato giuridicamente rilevante (ciò che dovrebbe ammettersi, qualora si dovesse ritenere che l’Amministrazione solo con l’emanazione dell’atto di data 23.11.2018 ha fatto venire meno l’illecito permanente conseguente alla occupazione sine titulo). (1)

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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna (che segue due analoghe ordinanze di rimessione, la n. 5399 e la n. 5391 in pari data) la Quarta sezione del Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria la questione della ammissibilità della rinuncia abdicativa nei giudizi dinanzi al giudice amministrativo, sollecitando una rimeditazione dei principi affermati in tema dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 2 del 2016 (in Foro it., 2016, III, 185 con note di TRAVI, BARILA’ e PARDOLESI ).
In primo grado il Tar escludeva la configurabilità di una “rinunzia abdicativa” e riteneva applicabile l’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, con conseguente legittimità del provvedimento poi effettivamente adottato da Roma capitale resistente in primo grado.
Tale capo della sentenza veniva appellato dagli interessati i quali prospettavano di non essere più proprietari da tempo, in conseguenza di una loro “rinunzia abdicativa”.
La Quarta sezione, evidenziava la possibile inefficacia dell’atto di acquisizione sanante in conseguenza dell’intervenuto acquisto della proprietà da parte di Roma Capitale in forza della allegata rinuncia abdicativa da parte degli originari proprietari che avrebbe determinato il venir meno dell’oggetto del provvedimento di acquisizione; pertanto riteneva di deferire alla Adunanza plenaria la questione se l’atto di acquisizione, emesso da Roma Capitale, dovesse essere considerato autoritativo ed efficace (con la conseguente improcedibilità dei ricorsi di primo grado, quanto meno parziale) oppure inefficace, o perché non seguito dal pagamento di quanto dovuto entro i successivi trenta giorni, o perché emesso quando l’Amministrazione era da considerarsi già proprietaria, potendosi ipotizzare in tal caso l’applicazione dell’art. 21-septies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, avendo l’atto di acquisizione per oggetto un bene di cui l’Autorità risultava già proprietaria in forza della intervenuta rinuncia abdicativa.
La rimessione veniva prospettata sulla scorta delle seguenti considerazioni tese ad escludere la configurabilità di una rinunzia abdicativa, sia nel caso di specie che in via generale:
      a) negli anni susseguenti all’entrata in vigore del testo unico, il Consiglio di Stato non ha affrontato funditus la questione se la volontà del proprietario possa comportare la perdita del suo diritto e una sua pretesa di ottenere il controvalore del bene;
      b) tale possibilità è stata ammessa dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. civ., sez. un., 19.01.2015, n. 735 in Foro it., 2015, I, 436, n. PARDOLESI R., in Corriere giur., 2015, 314, con nota di CONTI; in Nuova giur. civ., 2015, I, 632, con nota di IMBRENDA; in Urbanistica e appalti, 2015, 413, con nota di BARILÀ; in Riv. neldiritto, 2015, 220 (m), con nota di IANNONE; in Nuove autonomie, 2015, 187 (m), con nota di RUSSO), per i casi devoluti alla giurisdizione del giudice civile, nei giudizi instaurati prima della entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, che ha previsto la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia espropriativa. A tale giurisprudenza ha poi fatto richiamo il § 5.3. della sentenza della Adunanza plenaria n. 2 del 2016;
      c) il principio affermato dalle sezioni unite –che hanno annoverato la “rinuncia abdicativa” tra i modi con i quali viene meno l’occupazione sine titulo- è applicabile per le controversie devolute al giudice civile (quelle sorte prima della entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, che ha previsto la giurisdizione esclusiva in materia espropriativa, nonché quelle sorte successivamente in tema di “sconfinamento”, qualora si ritenga irrilevante la giurisdizione esclusiva);
      d) la stessa sentenza delle sezioni unite ha dato atto dei dubbi interpretativi sulla applicabilità dapprima dell’art. 43 e poi dell’art. 42-bis per le occupazioni senza titolo poste in essere prima della loro entrata in vigore, poste all’esame del giudice civile;
      e) la sentenza n. 735 del 2015 non si è quindi occupata dei casi in cui sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva, né delle implicazioni sistematiche che discendono dalla applicazione dell’art. 42-bis del testo unico espropriazione, ritenuto non applicabile al caso al suo esame;
      f) di conseguenza, tenuto conto dei principi affermati dalle sezioni unite (per le controversie devolute al giudice civile) e delle disposizioni del testo unico espropriazione (applicabili per le controversie proposte in sede di giurisdizione esclusiva), si potrebbe escludere che la “rinuncia abdicativa” possa avere giuridica rilevanza innanzi al giudice amministrativo;
      g) infatti, per i casi di occupazione sine titulo di un fondo da parte della Autorità (devoluti alla cognizione del giudice amministrativo), è in vigore la specifica disciplina prevista dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, che ha in dettaglio individuato i poteri e i doveri della medesima Autorità, nonché i poteri del giudice amministrativo;
      h) in particolare l’art. 42-bis:
         h1) prevede che l’Autorità che utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico debba valutare, con un procedimento d’ufficio (che può essere sollecitato dalla parte in caso di inerzia), “gli interessi in conflitto”, adottando un provvedimento conclusivo con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, per adeguare la situazione di diritto a quella di fatto; in altri termini, vincola l’Amministrazione occupante all’esercizio del potere ed attribuisce alla stessa un potere discrezionale in ordine alla scelta finale, all’esito della comparazione e della valutazione degli interessi;
         h2) comporta che nel caso di occupazione sine titulo l’Autorità commette un illecito di carattere permanente;
         h3) esclude che il giudice decida la “sorte” del bene nel giudizio di cognizione instaurato dal proprietario;
         h4) a maggior ragione, non può che escludere che la “sorte” del bene sia decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene, sol perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o di volere il controvalore del bene;
         h5) l’art. 42-bis ha esaurito la disciplina della fattispecie, con una normativa “autosufficiente”, rispetto alla quale non dovrebbero rilevare “prassi” ulteriori, limitative dell’applicazione della legge;
      i) per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis vi dovrebbe essere una rigorosa applicazione del principio di legalità, in materia affermato dall’art. 42 della Costituzione e rimarcato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di assenza della base legale delle prassi sulla “espropriazione indiretta”: nessuna norma ha indicato i requisiti formali necessari per la validità della “rinuncia abdicativa”, né ha precisato quali effetti si producano;
      j) nel diritto privato, è discusso se l’art. 827 del codice civile sia la base legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge;
      k) è molto dubbio che le sue disposizioni prevalgano su quelle dell’art. 42-bis, che attribuisce all’Autorità e non al proprietario la possibilità di decidere quale sia il regime del bene: nel vigore dell’art. 42-bis, non vi è alcuna lacuna normativa da colmare;
      l) per l’art. 42-bis l’Autorità può acquisire il bene con un atto discrezionale, in assenza del quale vi sono gli ordinari rimedi di tutela, anche quello della restituzione;
      m) la scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va effettuata esclusivamente dall’Autorità (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 del c.p.a.): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’Autorità individuata dall’art. 42-bis;
      n) l’art. 827 c.c. si riferisce alla titolarità del bene da parte dello Stato, sicché esso non è neanche in astratto rilevante quando l’illecito sia stato commesso da una Autorità non statale;
      o) il comma 1 dell’art. 42-bis ha attribuito al proprietario un peculiare interesse legittimo a che l’Amministrazione adegui la situazione di diritto a quella di fatto -acquisendo essa stessa la titolarità del bene illecitamente occupato e corrispondendo le relative somme nelle misure previste dalla legge, ovvero restituendo il bene al legittimo proprietario- che può essere azionato per costringere anche in tempi rapidi l’Autorità a provvedere attraverso il ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117 c.p.a.;
      p) nel tutelare tale interesse legittimo, il comma 1 “paralizza temporaneamente” l’accoglibilità della domanda del proprietario di ottenere senz’altro il risarcimento o la restituzione del suo bene, poiché:
         p1) se l’Autorità –d’ufficio o su sollecitazione di parte– dispone l’acquisizione, all’ex proprietario spetta l’indennizzo per la cui quantificazione, in caso di contestazione, sussiste la giurisdizione del giudice civile;
         p2) se l’Autorità invece decide di non acquisire il bene, solo allora il giudice amministrativo può applicare le disposizioni del codice civile;
         p3) il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i poteri di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione;
      q) qualora sia invocata solo la tutela (restitutoria e risarcitoria) prevista dal codice civile e non si richiami l’art. 42-bis il giudice, qualificata l’azione come proposta avverso il silenzio, si potrebbe pronunciare ai sensi dell’art. 117 c.p.a.;
      r) in definitiva:
         r1) per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e disciplinate dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
         r2) la “rinuncia abdicativa”, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42-bis.
   II. – Per completezza sull’argomento si segnala:
      s) la rassegna monotematica di giurisprudenza, sia civile che amministrativa, a cura dell’Ufficio Studi, massimario e formazione dal titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della pubblica amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per ogni approfondimento anche di dottrina; ivi si mette in luce la maggiore efficienza economica sottesa alla scelta del privato di rinunciare alla proprietà del bene occupato nonché l’abbattimento del contenzioso invece incrementato dalla attivazione del procedimento di cui all’art. 42-bis specie se promosso a seguito di un giudicato che accerti il silenzio inadempimento dell’Amministrazione; cfr. in particolare i paragrafi § 11 e da 14 a 21) e la News US n. 100 del 10.09.2019 relativa a Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 15.07.2019, n. 4950 sull’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropriazione in presenza di un giudicato restitutorio del g.o.;
      t) tra le più recenti pronunce in tema si segnalano:
         t1) Cass. civ., sez. un., n. 3517 del 2019 (in Foro it., 2019, I, 1644, con nota di BARILÀ dal titolo “La partecipazione del privato al procedimento di acquisizione sanante”), resa in materia di impugnazione di un atto di asservimento coattivo in sanatoria ex art. 42-bis T.U. espropriazione, la quale, ribadendo principi consolidati ed in dichiarata adesione a quanto espresso dalla Adunanza plenaria n. 2 del 2016, afferma che “L'atto di acquisizione sanante è, dunque, volto a ripristinare la legalità amministrativa con effetto non retroattivo, attraverso «una sorta di procedimento espropriativo semplificato», di carattere eccezionale, innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub iudice”;
         t2) sul tema della ammissibilità della rinuncia abdicativa cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.05.2018, n. 3105 (favorevole); Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2018, n. 2396 (favorevole); Tar per il Piemonte; sez., I, 28.03.2018, n. 368 (contraria, con ampia motivazione) tutte in Foro it., 2018, III, 403 con nota redazionale di C. BONA contenente una puntuale rassegna delle posizioni dottrinali sul tema. Favorevoli alla rinuncia abdicativa sono anche Cass. civ., sez. I, 24.05.2018, n. 12961 in Foro it., 2018, I, 2363, nonché Cass. civ., sez. I, 07.03.2017, n. 5686 in Foro it., 2017, I, 1992 con approfondita nota redazionale di E Barilà; nello stesso senso si veda Corte appello Genova 27.11.2018 (che ammette la trascrivibilità dell'atto di rinuncia abdicativo) e Tribunale civile Genova 01.03.2018, in Foro it., 2019, I, 308, con nota di richiami;
      u) sui limiti alla conversione d’ufficio della domanda risarcitoria in azione contro il silenzio per l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis, si vedano i principi in materia di conversione dell’azione di annullamento in azione risarcitoria affermati da Cons. Stato, Ad. plen., 13.04.2015, n. 4 (in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; in Urbanistica e appalti, 2015, 917, con nota di MANGANARO, MAZZA LABOCCETTA; in Giur. it., 2015, 1693 (m), con nota di COMPORTI; in Guida al dir., 2015, fasc. 20, 92, con nota di MASARACCHIA; in Foro amm., 2015, 2206 (m), con nota di SILVESTRI; in Corriere giur., 2015, 1596, con nota di SCOCA; in Dir. proc. amm., 2016, 173, con nota di TURRONI) secondo cui posto che il processo amministrativo è soggetto al principio della domanda, il giudice amministrativo non può emettere d'ufficio una pronuncia di risarcimento del danno, in presenza di una domanda di annullamento della parte ricorrente; si veda altresì Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; in Urbanistica e appalti, 2015, 1177, con nota di VAIANO; in Riv. neldiritto, 2015, 2084, con nota di COLASCILLA NARDUCCI; in Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; in Giur. it., 2015, 2192 (m), con nota di FOLLIERI; in Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di PERFETTI, TROPEA; in Dir. proc. amm., 2016, 830 (m), con nota di BERTONAZZI;
      v) nel senso della improcedibilità della domanda di risarcimento del danno (per equivalente) o di restituzione se sopravviene nel corso del giudizio il provvedimento ex art. 42-bis, è unanime la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3148 del 2018; sez. IV, n. 2765 del 2018; Cass. civ., sez. I, n. 5686 del 2017; sez. I, n. 11258 del 2016; sul punto si rinvia al § 9 della citata rassegna monotematica);
      w) per quanto concerne la ipotetica nullità del provvedimento emanato ex art. 42-bis, perché privo di oggetto secondo una certa lettura della norma sancita dall’art. 21-septies l. n. 241 del 1990 (secondo questa ricostruzione, infatti, l’immobile, a seguito di rinuncia abdicativa, sarebbe già transitato nel patrimonio dell’ente occupante, da qui l’impossibilità giuridica di farne il presupposto per l’esercizio del potere di acquisizione ex post) si segnala l’opinione contraria espressa, in linea generale, dalla giurisprudenza:
         w1) per Cass. civ., sez. un., 05.03.2018, n. 5097 (in Riv. giur. edilizia, 2018, I, 636, nonché oggetto della News US 14.03.2018 cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza ivi compresa quella amministrativa), solo il difetto assoluto di attribuzione (ovvero l’assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo) radica la nullità ex art. 21-septies, l comma 1, l. n. 241 del 1990);
         w2) nella stessa direzione appare muoversi Corte cost. 02.05.2019, n. 106 (in Foro it., 2019, I, 1829 nonché oggetto della News US n. 57 del 14.05.2019 cui si rinvia per ogni approfondimento), secondo cui sarebbe impossibile configurare la nullità del provvedimento ex art. 21-septies cit., sempre e comunque a seguito della declaratoria di incostituzionalità della norma sottoposta al sindacato del giudice delle leggi, dovendosi ravvisare il più radicale dei vizi dell’atto solo quando la norma illegittima attenga al fondamento del potere e non alle sue modalità di esercizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 30.07.2019 n. 5400 - tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Recinzione di un fondo rustico con opere edilizie permanenti – Materiale tipicamente edilizio – Interventi di nuova costruzione – Permesso di costruire – Necessità – Verifica caso per caso – Art. 44, lett. b), d.P.R. D.P.R. n. 380/2001- L.R. Sicilia art. 3 n. 16/2016.
In tema di recinzione di fondi rustici, occorre andare, di volta in volta a verificare l’estensione dell’area e se tale recinzione risulti realizzata con opere edilizie permanenti.
Pertanto, per la realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire in casi, in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all’estensione dell’area relativa, lo stesso sia tale da modificare l’assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli “interventi di nuova costruzione” di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett. e).
In estrema sintesi, la recinzione di un fondo rustico non necessita di concessione solo nel caso in cui la stessa venga attuata con opere non permanenti; il provvedimento autorizzativo è, invece, richiesto quando venga realizzata con materiale tipicamente edilizio tra cui rientra la zoccolatura di calcestruzzo.
Nella specie, la qualificazione dell’intervento come nuova costruzione dal primo giudice e confermata dalla Corte territoriale, trattandosi di opere di recinzione con materiale tipicamente edilizio, durevole nel tempo, e di dimensioni certamente significative, da cui anche l’esclusione della natura pertinenziale delle opere.

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Regione Sicilia – Recinzione di fondi rustici – Potestà legislativa regionale esclusiva in materia urbanistica – Interpretazione legislativa.
Pur tenendo a conto della potestà legislativa regionale esclusiva in tale materia urbanistica, la legge regionale siciliana n. 16 del 2015 (“Recepimento del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”), esclude dal novero degli interventi soggetti a permesso a costruire, “la recinzione di fondi rustici”, senza ulteriore specificazione, dovendosi interpretare tale previsione in coerenza con il principio della necessità di titolo autorizzativo per opere che comportano trasformazione del territorio e che, dunque, sono realizzate con materiali tipicamente edilizi, non avendo il legislatore regionale diversamente stabilito (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.07.2019 n. 31617 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela dell’interesse storico ed artistico del bene – Interventi su cose mobili pertinenza di un immobile vincolato – Esecuzione senza autorizzazione – Natura di reato formale di pericolo – Configurabilità senza il preventivo controllo amministrativo – Art. 169 d.lgs. 422004 – Non punibilità attesa la particolare tenuità dei fatti.
In tema di beni culturali, integra il reato di cui all’art. 169, comma 1, lett. a), d.lgs. 22.01.2004, n. 42. anche la condotta di chi esegue senza autorizzazione interventi su cose mobili che, costituendo pertinenza di un immobile vincolato, contribuiscono a salvaguardare l’interesse storico ed artistico del bene (Sez. 3, n. 45149 del 08/10/2015, Pisu e altro).
Inoltre, il reato d’abusivo intervento su beni culturali, previsto dall’art. 169 d.lgs n. 42/2004, è un reato formale di pericolo, integrato dal compimento dei lavori e delle opere senza il preventivo controllo amministrativo, diretto ad evitare possibili pericoli e danni, che si consuma anche se non si produce una concreta lesione del valore storico-artistico della res, sempre che, secondo una valutazione ex ante, non si tratti di interventi talmente trascurabili, marginali e minimi da escludere anche il solo pericolo astratto di lesione dell’interesse protetto (Sez. 3, n. 47258 del 21/07/2016, Tripi e altro).
Fattispecie: il parroco di una Chiesa parrocchiale veniva dichiarato non punibile attesa la particolare tenuità dei fatti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2019 n. 31337 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli – Intervento di nuova costruzione – Permesso di costruire – Necessità – Trasformazione edilizia o urbanistica del territorio – Artt. 3, 10, 44, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 380/2001.
La trasformazione edilizia o urbanistica del territorio, costituisce “intervento di nuova costruzione” soggetto a permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto degli artt. 10, comma 1, lett. a), e 3, comma 1, lett. e), d.P.R. 380 del 2001, è quella che determina la permanente modifica del suolo, come ad esempio le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto, creano una modifica permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio e incidendo pesantemente sul tessuto urbanistico del territorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2019 n. 31287 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esecuzione delle opere edilizie – Abusi – Direttore dei lavori – Assenza dal cantiere – Responsabilità – Onere di vigilanza.
L’assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l’onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all’incarico (Sez. 3, n. 7406 del 15/01/2015, Crescenzi; Sez. 3, n. 34602 del 17/06/2010, Ponzio).
Nella specie è stata ritenuta sufficiente la missiva sottoscritta dal committente e dal direttore dei lavori trasmessa al Corpo Forestale dello Stato, in cui comunicavano l’inizio delle opere di movimentazione di terra di cui al progetto assentito per la realizzazione di un garage; con tale atto il tecnico aveva dunque formalmente assunto il ruolo di direttore dei lavori ed era pertanto onerato di vigilare affinché gli stessi si svolgessero in conformità al progetto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2019 n. 31287 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Scavi in area paesaggisticamente vincolata – Eseguiti in assenza della prescritta autorizzazione o in difformità – Artt. 146, 181, d.lgs. n. 42/2004 – Configurabilità – Giurisprudenza.
In tema di reati urbanistici, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio. Ove tali lavori ricadano in area paesaggisticamente vincolata occorra altresì l’autorizzazione di cui all’art. 146 d.lgs. 42 del 2004.
Sicché, il reato di cui all’art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, giusta la chiara formulazione del precetto contenuta nel primo comma della disposizione, si configura rispetto a lavori di qualsiasi genere eseguiti sui beni muniti di tutela paesaggistica, in assenza della prescritta autorizzazione o in difformità da essa, senza che assuma rilievo la distinzione tra le ipotesi di difformità parziale e totale rilevante invece nella disciplina urbanistica.
Laddove poi –come nel caso di specie– l’autorizzazione rilasciata abbia ad oggetto lavori completamente diversi da quelli eseguiti, sì che quanto realizzato sia addirittura configurabile quale aliud pro alio, non v’è alcun dubbio sulla sussistenza del reato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2019 n. 31287 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE Torna alla Adunanza plenaria l’interpretazione dell’art. 42-bis del T.U. espropri in presenza di un giudicato restitutorio del g.o..
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Espropriazione per pubblico interesse – Acquisizione sanante – Applicabilità alla costituzione di una servitù pubblica in presenza di giudicato civile restitutorio – Deferimento all’Adunanza plenaria
Vanno deferite all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, le seguenti questioni:
   a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare;
   b) se la formazione del giudicato interno -sulla statuizione del TAR per cui il giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario procedimento espropriativo– imponga nella specie di affermare che sussiste anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42-bis, comma 6;
   c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto;
   d) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione ai giudicati formatisi dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 2 del 2016, ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in precedenza (1).

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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la quarta sezione del Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria alcune questioni relative alla interpretazione dell’art. 42-bis del t.u. espropri, con particolare riferimento alla possibilità di adottare un decreto di acquisizione sanante per la costituzione, in favore di un Comune, di una servitù pubblica di passaggio per l’accesso ad un parco pubblico, in presenza di un giudicato civile di restituzione del terreno, conseguente non ad una procedura espropriativa illegittima ma alla declaratoria di nullità di un contratto di compravendita con immissione immediata nel possesso in favore del Comune resistente dinanzi al Tar.
In primo grado il Tar per le Marche ha accolto il ricorso proposto dai proprietari del terreno, gravato dalla servitù pubblica, in dichiarata applicazione dei principi espressi dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 2 del 2016 (in Foro it., 2016, III, 185) che ha escluso la possibilità, in presenza di un giudicato civile restitutorio conseguente a procedura espropriativa illegittima, di adottare il decreto di acquisizione sanante.
La quarta sezione, adita dalla contro interessata che beneficiava della servitù pubblica di passaggio, ha ritenuto di deferire nuovamente alla Adunanza plenaria la questione del rapporto tra giudicato civile restitutorio e decreto di acquisizione sanante, sulla scorta delle seguenti considerazioni:
      a) è opinabile, rispetto a quanto osservato dal Tar, che nella specie si ravvisi una vicenda di mero rilievo privatistico, su cui non potrebbe ‘interferire’ il potere pubblicistico;
      b) l’art. 42-bis t.u. espropri si applica infatti testualmente ad ogni caso in cui –per qualsiasi ragione– un bene immobile altrui sia utilizzato dall’Amministrazione per scopi di interesse pubblico, senza che abbiano rilievo le circostanze che hanno condotto alla occupazione sine titulo e alla riconducibilità di tali circostanze a vicende di natura privatistica o pubblicistica;
      c) in particolare la parola ‘anche’ evidenzia la natura meramente esemplificativa dei casi indicati dal comma 2 dell’art. 42-bis (annullamento dell’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, dell’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o del decreto di esproprio);
      d) peraltro, nel caso di specie, per escludere un mero rilievo ‘privatistico’ della vicenda, la sezione sottolinea come l’Amministrazione –con la stipula del contratto poi dichiarato nullo– ha invero attuato le previsioni dell’allora vigente programma di fabbricazione, sicché il medesimo contratto avrebbe sostanzialmente la natura di accordo di cessione del bene espropriando, attuativo dello strumento urbanistico;
      e) quanto al limite del giudicato restitutorio, enunciato da Corte cost., 30.04.2015, n. 71 (in Foro it., 2015, I, 2629 con nota di R. PARDOLESI “Acquisizione sanante: ansia di riscatto e violenza latente”) e ribadito da Cons. Stato, Ad. plen., 09.02.2016, n. 2 cit., si tratta di principio affermato con specifico riferimento alla emanazione dell’atto di acquisizione “in proprietà” mentre nel caso di specie il Comune si è limitato a costituire una servitù di passaggio, ai sensi dell’art. 42-bis, comma 6, sicché il suddetto principio non dovrebbe ritenersi ostativo;
      f) la costituzione di una servitù, in luogo della acquisizione della proprietà, sarebbe decisiva per differenziare la presente fattispecie dal principio affermato dalla Corte costituzionale e dalla Adunanza plenaria in quanto il Comune ha mantenuto ferma (ed ha riconosciuto) la titolarità del diritto di proprietà in capo agli appellati e –nel contemperare gli interessi in conflitto– ha imposto la servitù per una parte delimitata dell’area, in ragione dello specifico interesse pubblico, riferito alla migliore utilizzabilità del ‘fondo dominante’ (costituito dal vicino parco pubblico), oltre che alla razionalità dell’assetto viario;
      g) inoltre la formazione del giudicato interno sulla statuizione del Tar per cui il giudicato restitutorio consente comunque l’attivazione di un ordinario procedimento espropriativo volto all’acquisto della proprietà, dovrebbe indurre a concludere nel senso che sussiste anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42-bis, comma 6;
      h) la sezione pone altresì la questione se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la sentenza del giudice civile non abbia espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto; la sussistenza del ‘giudicato restitutorio’ potrebbe essere affermata solo quando la relativa sentenza abbia ritenuto di escludere l’applicabilità della normativa pubblicistica, introdotta dal legislatore proprio per consentire l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto; non v’è dubbio infatti che proprio a seguito dell’annullamento degli atti del procedimento ablatorio da parte del g.a. si possano esercitare i poteri previsti dall’art. 42-bis: allo stesso modo, il giudice civile –nell’emettere unicamente le statuizioni prettamente civilistiche conseguenti alla declaratoria della nullità del contratto- non va ad incidere sull’ambito di applicabilità del medesimo articolo;
      i) occorre dunque chiarire se il principio enunciato dalla Adunanza plenaria n. 2 del 2016 sia applicabile ai soli casi in cui il ‘giudicato restitutorio’ sia caratterizzato dalla espressa statuizione sulla inapplicabilità dell’art. 42-bis, ovvero anche ai casi in cui l’ordine di restituzione sia stato emesso –come nella specie, dal giudice civile- senza alcun richiamo alla normativa pubblicistica applicabile in materia;
      j) per l’ipotesi in cui si ritenga che la sentenza del giudice civile sia tale da comportare un ‘giudicato restitutorio preclusivo’ con conseguente inapplicabilità dell’art. 42-bis, la sezione chiede alla plenaria di modulare la portata temporale della regola affermata dalla precedente sentenza n. 2 del 2016 ritenendola applicabile solo ai giudicati formatisi successivamente, evidenziando che il ‘giudicato restitutorio’ –disposto dalla sentenza della Corte d’appello di Ancona nel 2014– si è formato prima della enunciazione del principio di diritto da parte dell’Adunanza plenaria, e dunque quando il Comune –anche per l’assenza di una statuizione del giudice civile sulla impossibilità di esercitare i poteri pubblicistici– non poteva percepire la gravità delle conseguenze che sarebbero derivate dal suo passaggio in giudicato;
      k) diversamente, come osservato dalla Adunanza plenaria con sentenza 22.12.2017, n. 13 (in Foro it., 2018, III, 145 con nota critica di M. CONDORELLI “Il nuovo prospective overruling, «dimenticando» l'adunanza plenaria n. 4 del 2015” oggetto della News US del 08.01.2018, con ampi richiami di dottrina e di giurisprudenza), vi sarebbe una ‘notevole compromissione’ degli interessi pubblici coinvolti –oltre che una lesione del legittimo affidamento dell’Amministrazione- se si dovesse ritenere che ai giudicati restitutori ‘antecedenti’ alle statuizioni della Adunanza plenaria vada attribuito un rilievo assolutamente preclusivo dell’esercizio del potere previsto dall’art. 42-bis, col conseguente obbligo dell’Amministrazione di restituire ineluttabilmente le aree, previa la loro restitutio in integrum;
      l) rileva al riguardo anche il principio di certezza del diritto, per il quale, sempre secondo la richiamata pronuncia n. 13 del 2017, si può limitare “la possibilità per gli interessati di far valere la norma giuridica come interpretata, se vi è il rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa, sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni”;
m) in materia di occupazione sine titulo solo la citata sentenza della Corte costituzionale ha fugato i dubbi interpretativi sulla legittimità costituzionale dell’art. 42-bis ed ha sottolineato il rilievo ostativo del ‘giudicato restitutorio’, al quale ha operato il suo richiamo l’Adunanza plenaria;
      n) è pertanto comprensibile che prima di tali pronunce le Amministrazioni –per lo più indotte a non emettere il provvedimento di acquisizione dal timore di non incorrere in responsabilità e dalla scarsità delle risorse economiche- non abbiano avuto nemmeno adeguata contezza dell’impatto innovativo delle ‘nuove’ disposizioni e delle preclusioni che sarebbero state desunte in sede interpretativa.
II. – Per completezza sull’argomento si segnala:
      o) la rassegna monotematica di giurisprudenza, sia civile che amministrativa, a cura dell’Ufficio studi, massimario e formazione dal titolo “L’occupazione abusiva di immobili da parte della pubblica amministrazione” (aggiornata al 02.09.2019, cui si rinvia per ogni approfondimento anche di dottrina in relazione all’istituto della rinuncia abdicativa);
      p) tra le più recenti pronunce in tema si vedano:
         p1) Cass. civ., sez. un., n. 3517 del 2019 (in Foro it., 2019, I, 1644, con nota di BARILÀ dal titolo “La partecipazione del privato al procedimento di acquisizione sanante”), resa in materia di impugnazione di un atto di asservimento coattivo in sanatoria ex art. 42-bis t.u. espropri, la quale, ribadendo principi consolidati ed in dichiarata adesione a quanto espresso dalla Adunanza plenaria n. 2 del 2016, afferma che “L'atto di acquisizione sanante è, dunque, volto a ripristinare la legalità amministrativa con effetto non retroattivo, attraverso «una sorta di procedimento espropriativo semplificato», di carattere eccezionale, innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub iudice”;
         p2) sul tema connesso della ammissibilità della rinuncia abdicativa cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.05.2018, n. 3105 (favorevole); Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2018, n. 2396 (favorevole); Tar per il Piemonte; sez, I; 28.03.2018, n. 368 (contraria, con ampia motivazione) tutte in Foro it., 2018, III, 403 con nota redazionale di C. BONA contente una puntuale rassegna delle posizioni dottrinali sul tema. Favorevoli alla rinuncia abdicativa sono anche Cass. civ., sez. I, 24.05.2018, n. 12961 in Foro it., 2018, I, 2363 nonché Cass. civ., sez. I, 07.03.2017, n. 5686 in Foro it., 2017, I, 1992 con approfondita nota redazionale di BARILÀ; nello stesso senso si veda Corte appello Genova 27.11.2018 (che ammette la trascrivibilità dell'atto di rinuncia abdicativo) e Tribunale civile Genova 01.03.2018, in Foro it., 2019, I, 308 con nota di richiami;
      q) sul tema dell’overruling processuale e sostanziale si veda:
         q1) Cass. civ., sez. un., n. 4135 del 2019, in Foro it., 2019, I, 1623 con nota di CAPASSO la quale ha ribadito che il prospective overruling è limitato alle norme di carattere processuale e serve a tutelare “la parte che vedrebbe frustrato il proprio legittimo affidamento nell'interpretazione resa dalla Suprema corte nel momento in cui ha tenuto la condotta processuale, qualora fosse esposta agli effetti processuali pregiudizievoli (nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità) derivanti dal successivo revirement giurisprudenziale, ma pur sempre riconducibili alle disposizioni processuali vincolanti per tutti i giudici, soggetti solo alla legge (art. 101, 2° comma, Cost.)”.
Ha inoltre ribadito che un orientamento del giudice della nomofilachia cessa di essere retroattivo, come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, e può quindi parlarsi di prospective overruling, a condizione che ricorrano cumulativamente i seguenti presupposti:
   che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo, non anche su disposizioni di natura sostanziale;
   che tale mutamento sia stato imprevedibile o quantomeno inatteso e privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, in ragione del carattere consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso, ipotesi non ravvisabile in presenza di preesistenti contrasti interpretativi o di incertezza interpretativa delle norme processuali ad opera della Corte di cassazione in assenza di un orientamento consolidato della stessa Corte o nel caso in cui la parte abbia confidato nell'orientamento che non è prevalso;
   che l'overruling sia causa diretta ed esclusiva di un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte, ponendosi esso quale causa di sopravvenuta inammissibilità, improcedibilità, decadenze o preclusioni, in ragione della diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso, che abbia reso impossibile una decisione sul merito della pretesa azionata in giudizio;
         q2) Corte cost., 25.06.2019, n. 160 (oggetto della News US n. 79 del 08.07.2019) secondo cui solo la legge può modulare gli effetti della tutela costitutiva d’annullamento.
Se è infatti indiscutibile che i principi fondamentali del nostro sistema costituzionale espressi dagli artt. 24 e 113 Cost. devono trovare applicazione rigorosa a garanzia delle posizioni giuridiche dei soggetti che ne sono titolari, “ciò non significa che l’art. 113 Cost., correttamente interpretato sia diretto ad assicurare in ogni caso e incondizionatamente una tutela giurisdizionale illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo, spettando invece al legislatore ordinario un certo spazio di valutazione nel regolarne modi ed efficacia”; il “secondo comma dell’art. 113 non può essere interpretato senza collegarlo col comma che lo segue immediatamente e che contiene la norma, secondo la quale la legge può determinare quali organi di giurisdizione possano annullare gli atti della pubblica Amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge medesima. Il che sta a significare che codesta potestà di annullamento non è riconosciuta a tutti indistintamente gli organi di giurisdizione, né è ammessa in tutti i casi, e non produce in tutti i casi i medesimi effetti”; nella stessa direzione si muovono anche le considerazioni sviluppate da Corte di giustizia dell’UE, 29.07.2019, C-411/17, ASBL (Newsletter n. 32 del 02.09.2019), secondo cui, in buona sostanza, in presenza della violazione del diritto europeo da parte di misure amministrative:
   gli Stati membri (inclusi gli apparati giudiziari) sono tenuti, in linea generale e tendenzialmente inderogabile, a rimuovere le conseguenze dell’illecito europeo ex tunc, sospendendo ovvero annullando il relativo provvedimento;
   solo la Corte di giustizia può acconsentire, a determinate condizioni, che i giudici nazionali (incluse le Corti costituzionali), per esigenze imperative ed in via del tutto eccezionale, modulino gli effetti nel tempo della declaratoria di illegittimità della disposizione sottoposta a controllo, in presenza di una previsione nazionale espressa;
   per tale via sarebbe possibile applicare la disposizione nazionale che consente espressamente di mantenere determinati effetti di un atto nazionale annullato;
         q3) Cons. Stato, Ad. plen., 23.02.2018, n. 1 (
oggetto della News US del 27.02.2018  nonché in Foro it., 2018, III, 193), la quale ha escluso che il principio di diritto affermato (concernente il divieto di cumulo tra risarcimento del danno ed emolumenti di carattere indennitario erogati da enti pubblici) possa ritenersi applicabile soltanto a rapporti futuri e non anche a quelli in corso, avendo gli enunciati giurisprudenziali natura formalmente dichiarativa.
Rammenta al riguardo che la diversa opinione «finisce per attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione» (Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9 in Foro it., 2016, III, 65; Riv. neldiritto, 2016, 93; Riv. neldiritto, 2016, 285, con nota di BRICI; Foro amm., 2015, 2747; Contratti Stato e enti pubbl., 2015, fasc. 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti, 2016, 167, con nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm., 2016, 365 (m), con nota di GALLI, CAVINA; Riv. giur. edilizia, 2015, I, 1138; Nuovo dir. amm., 2016, fasc. 3, 53, con nota di NARDOCCI);
         q4) di segno opposto è invece Cons. Stato, Ad. plen., 22.12.2017, n. 13 cit., richiamata dalla ordinanza in rassegna, in materia di ultrattività delle proposte di vincolo paesaggistico, che ha ritenuto ammissibile l’istituto dell’overruling anche su questione di diritto sostanziale, su cui si veda: ANTONIO VACCA, Adunanza Plenaria, ius dicere e creazione del diritto (commento a Cons. Stato, Ad. Plenaria, sent. 22.12.2017 n. 13) in Lexitalia, 05.01.2018, secondo il quale la limitazione pro futuro degli effetti della sentenza interpretativa dell’Adunanza plenaria equivarrebbe alla creazione di una norma transitoria, in funzione para normativa, e può integrare un’ipotesi di diniego di giurisdizione in danno della parte ricorrente, suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.; D. PAGANO, L'Adunanza Plenaria n. 13/20017: summum jus, summa iniura?, ibidem, 22.02.2018. Ampi approfondimenti sul tema sono contenuti anche nella News US in data 08.01.2018 cit. cui si rinvia (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 15.07.2019 n. 4950 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla trasformazione della copertura inclinata (o lastrico solare) in terrazzo praticabile e calpestabile.
L'esame della giurisprudenza amministrativa, formatasi relativamente ad opere abusive, consistite nella trasformazione di lastrici solari in terrazzi, consegna un quadro caratterizzato dall'affermazione della necessità del permesso a costruire, per opere siffatte.
In particolare, si è affermato: "La sola posa di una pavimentazione su un lastrico solare già precedentemente accessibile (senza peraltro che possa rilevarsi l'apposizione di ringhiere, parapetti o altre strutture), non può essere considerato un intervento di trasformazione da lastrico solare a terrazzo, non mutando la sua destinazione di utilizzo, stante l'inesistenza di altri manufatti che ne evidenzino la destinazione all'utilizzo per la presenza stabile di persone e considerato che il lastrico solare in questione era già pienamente accessibile tramite le scale condominiali. La semplice posa in opera di pavimentazione è da qualificarsi come intervento di manutenzione straordinaria assentibile all'epoca con d.i.a., di tal che il provvedimento impositivo di una sanzione pecuniaria appare pienamente giustificato".

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Il Collegio riconosce l'esistenza di una differenza, in termini di disciplina urbanistica, tra un lastrico solare e un terrazzo.
Il primo è una parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un tetto, o quanto meno una copertura di ambienti sottostanti, mentre la terrazza è intesa come ripiano anch'esso di copertura, ma che nasce già delimitato all'intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti.
Il Collegio ritiene, altresì, che, nel caso si realizzi un cambio di destinazione d'uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi edilizi, sia necessario il cambio il permesso di costruire.
L'indirizzo in questione, d'altro canto, è corroborato da ulteriori pronunce, tutte nel senso dell'imprescindibilità, in casi siffatti, del permesso a costruire:
   - "La sostituzione della preesistente copertura inclinata con un terrazzo calpestabile che, in quanto destinato ad offrire un affaccio e ulteriori utilità ai locali abitativi cui è stato collegato mediante l'apertura di una porta - finestra, forma parte funzionalmente integrante dei locali medesimi, comporta un evidente incremento della superficie dello stabile: tale modifica configura un intervento di ristrutturazione edilizia";
   -  "La trasformazione di un tetto di copertura in terrazzo calpestabile modifica gli elementi tipologici formali e strutturali dell'organismo preesistente -risolvendosi in ultima analisi in una alterazione di prospetto e sagoma dell'immobile- e, quindi, non rientra nella categoria del restauro e risanamento conservativo, bensì in quella della ristrutturazione edilizia";
   - "Il mutamento di destinazione d'uso della terrazza e il complesso delle opere connesse (rivestimento dell'area di calpestio, apposizione di fioriere prefabbricate e di incannucciamento ancorato alla ringhiera, scala di accesso interna in muratura a ridosso del piano finestra) necessita del permesso di costruire, tenuto conto che esse realizzano un aumento del carico urbanistico nonché, almeno in parte, una modifica del prospetto dell'edificio".
Insomma, ne risulta confermato che "Nel caso si realizzi un cambio di destinazione d'uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi edilizi, è necessario il permesso di costruire, non essendo realizzabile detta trasformazione tramite semplice s.c.i.a. né tramite comunicazione di inizio lavori ex art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001".
E anche quando s'afferma, in giurisprudenza, che: "La realizzazione di una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l'accesso ad un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire; infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico", ci si riferisce, evidentemente, ad opere (come una ringhiera protettiva e una scala in ferro) accessive ad un organismo edilizio già qualificabile in termini di terrazzo, laddove nella specie s'è invece in presenza, lo si ribadisce, della trasformazione, in terrazzini, di preesistenti meri lastrici solari.

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Rientra nella nozione di opera edilizia subordinata a permesso di costruire la trasformazione di un lastrico di copertura in terrazzo praticabile, configurandosi una variazione essenziale.
In tal senso, infatti, deve ritenersi che la modifica della copertura in terrazza aumenti la superficie utile dell’immobile in quanto idonea a trasformare la natura prevalentemente di protezione del fabbricato, propria del lastrico, destinandola ordinariamente e durevolmente alla fruizione umana, per affaccio e sosta.

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Orbene, tal essendo l’ambito oggettivo degli abusi, realizzati dal ricorrente ed accertati dal Comune di Amalfi, osserva il Collegio come le prime due doglianze dell’atto introduttivo del giudizio (le quali, per comodità d’esposizione, possono essere trattate insieme), nella misura in cui pretendono che i lavori abusivi de quibus siano legittimi, grazie al riferimento alla d.i.a. del 2003, depositata in vista del risanamento della struttura dall’amianto, e nella misura in cui pretendono, in radice, d’escludere, per le opere in questione, la necessità del p.d.c. (bastando per l’appunto la d.i.a. in argomento, ovvero –al più– “un’ulteriore d.i.a.”), e ciò sia per il terrazzo, di cui al punto 1), sia per le opere pertinenziali, di cui ai successivi punti 2), 3) e 4) dell’ordinanza gravata, sono del tutto prive di pregio.
In particolare, per quanto riguarda la trasformazione “della preesistente copertura inclinata di porzione della veranda insistente al primo piano, in copertura piana, previo livellamento del massetto in cls., sovrastante la struttura portante costituita da elementi in ferro e lamiera grecata”, detta opera, letta congiuntamente alla “installazione di ringhiera in ferro, lungo il perimetro della stessa, per complessivi ml. 15, avente altezza pari a mt. 1,05, cementata al suolo” e alla “realizzazione, sul ricavato terrazzo, di uno scalino in muratura, nonché taglio della preesistente ringhiera della sala da pranzo, in cui è stato ricavato un cancelletto a due ante, di circa mt. 1,50 per mt. 1, il tutto finalizzato a mettere in comunicazione il ricavato terrazzo con la sala ristorante”, configura, all’evidenza, la modifica della destinazione d’uso di un preesistente lastrico solare (o della copertura, come s’esprime l’ordinanza) in terrazzo praticabile e calpestabile, all’evidente fine, testimoniato proprio dalla predisposizione del collegamento tra lo stesso terrazzo, così ricavato, e la sala ristorante, di un ampliamento della superficie dell’esercizio pubblico di ristorazione, di cui è titolare il ricorrente.
Ma tanto non è consentito, trattandosi senz’altro d’intervento, per il quale è richiesto il p.d.c., come la Sezione ha di recente affermato nella sentenza n. 24 del 03.01.2018, nella cui parte motiva, sul punto, è dato leggere: “(…) L'esame della giurisprudenza amministrativa, formatasi relativamente ad opere abusive, consistite nella trasformazione di lastrici solari in terrazzi, consegna un quadro caratterizzato dall'affermazione della necessità del permesso a costruire, per opere siffatte.
In particolare, nella massima ricavata dalla sentenza del TAR Campania-Napoli, Sez. IV, del 06/03/2013, n. 1247, si legge: "La sola posa di una pavimentazione su un lastrico solare già precedentemente accessibile (senza peraltro che possa rilevarsi l'apposizione di ringhiere, parapetti o altre strutture), non può essere considerato un intervento di trasformazione da lastrico solare a terrazzo, non mutando la sua destinazione di utilizzo, stante l'inesistenza di altri manufatti che ne evidenzino la destinazione all'utilizzo per la presenza stabile di persone e considerato che il lastrico solare in questione era già pienamente accessibile tramite le scale condominiali. La semplice posa in opera di pavimentazione è da qualificarsi come intervento di manutenzione straordinaria assentibile all'epoca con d.i.a., di tal che il provvedimento impositivo di una sanzione pecuniaria appare pienamente giustificato
".
In essa, la possibilità di prescindere dal rilascio del permesso a costruire, e la conseguente sanzionabilità dell'abuso in termini pecuniari, si collega, infatti, alle caratteristiche precipue dell'intervento, tenuto presente nella specie, caratterizzato dalla sola pavimentazione del lastrico solare e dalla mancata apposizione di ringhiere, parapetti o altre strutture, tale da escludere "la destinazione all'utilizzo per la presenza stabile di persone", laddove in parte motiva la stessa decisione precisa, inequivocabilmente, che: "(...) Il Collegio riconosce l'esistenza di una differenza, in termini di disciplina urbanistica, tra un lastrico solare e un terrazzo.
Il primo è una parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un tetto, o quanto meno una copertura di ambienti sottostanti, mentre la terrazza è intesa come ripiano anch'esso di copertura, ma che nasce già delimitato all'intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti.
Il Collegio ritiene, altresì, che, nel caso si realizzi un cambio di destinazione d'uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi edilizi, sia necessario il cambio il permesso di costruire (TAR Lazio-Roma, Sez. II, 22.03.2004, n. 2676; TAR Campania, Sez. VII, 01.07.2010, n. 16540) (...)
".
Tal è il caso che viene in rilievo nella specie, essendosi per l'appunto in presenza della trasformazione, in più punti, del lastrico solare di copertura in terrazzo, destinato alla fruizione da parte del ricorrente, che, per l'appunto, "ha pavimentato tre terrazzi e/o lastrici solari e vi ha apposto le ringhiere di protezione (punti 2, 4 e 8 dell'ordinanza di demolizione)" (…).
L'indirizzo in questione, d'altro canto, è corroborato da ulteriori pronunce, tutte nel senso dell'imprescindibilità, in casi siffatti, del permesso a costruire: "La sostituzione della preesistente copertura inclinata con un terrazzo calpestabile che, in quanto destinato ad offrire un affaccio e ulteriori utilità ai locali abitativi cui è stato collegato mediante l'apertura di una porta - finestra, forma parte funzionalmente integrante dei locali medesimi, comporta un evidente incremento della superficie dello stabile: tale modifica configura un intervento di ristrutturazione edilizia" (TAR Liguria, Sez. I, 01/12/2016, n. 1177); "La trasformazione di un tetto di copertura in terrazzo calpestabile modifica gli elementi tipologici formali e strutturali dell'organismo preesistente -risolvendosi in ultima analisi in una alterazione di prospetto e sagoma dell'immobile- e, quindi, non rientra nella categoria del restauro e risanamento conservativo, bensì in quella della ristrutturazione edilizia" (TAR Lazio-Latina, Sez. I, 24/12/2015, n. 870); "Il mutamento di destinazione d'uso della terrazza e il complesso delle opere connesse (rivestimento dell'area di calpestio, apposizione di fioriere prefabbricate e di incannucciamento ancorato alla ringhiera, scala di accesso interna in muratura a ridosso del piano finestra) necessita del permesso di costruire, tenuto conto che esse realizzano un aumento del carico urbanistico nonché, almeno in parte, una modifica del prospetto dell'edificio" (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, 01/07/2010, n. 16540).
Insomma, ne risulta confermato che, secondo quanto sancito dalla succitata sentenza del TAR Campania-Napoli, n. 1247/2013: "Nel caso si realizzi un cambio di destinazione d'uso trasformando un solaio di copertura, per cui non è prevista la praticabilità, in terrazzo, mediante specifici interventi edilizi, è necessario il permesso di costruire, non essendo realizzabile detta trasformazione tramite semplice s.c.i.a. né tramite comunicazione di inizio lavori ex art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001".
E anche quando s'afferma, in giurisprudenza, che: "La realizzazione di una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l'accesso ad un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire; infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico" (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, 01/04/2016, n. 846; conforme: TAR Liguria, Sez. I, 11/07/2011, n. 1088), ci si riferisce, evidentemente, ad opere (come una ringhiera protettiva e una scala in ferro) accessive ad un organismo edilizio già qualificabile in termini di terrazzo, laddove nella specie s'è invece in presenza, lo si ribadisce, della trasformazione, in terrazzini, di preesistenti meri lastrici solari.
Stabilito, dunque, che l’opera abusiva, per così dire principale, consistita nell’evidente trasformazione del preesistente lastrico di copertura in un terrazzo praticabile, al fine d’ampliare la superficie del locale adibito a ristorante, è senz’altro illegittima, per difetto del necessario titolo abilitativo, legittimante tale genere d’intervento (a nulla valendo, ai fini del necessario atto d’assenso urbanistico–edilizio, la d.i.a. del 2003, che, come correttamente osservato dalla difesa dell’ente, nella memoria in atti, riguardava “la rimozione delle lastre di eternit a copertura della veranda insistente al primo piano e la realizzazione del nuovo manto di copertura con lamiere in acciaio coibentato e soprastante battuto di malta, il tutto senza alcuna trasformazione dello stato dei luoghi e dell’aspetto esterno del manufatto”), rileva ulteriormente il Collegio come, del resto, anche le stesse opere, di cui ai punti 2) e 4) dell’ordinanza gravata (evidentemente avvinte da un nesso di inestricabile strumentalità, rispetto alla divisata realizzazione di un terrazzo calpestabile), ove in sé e per sé considerate, sia in ogni caso le opere, di cui al punto 3) della stessa ordinanza (“installazione, sull’intera area ricavata, di un pergolato in ferro costituito da n. 5 elementi verticali e 6 orizzontali, saldato alla ringhiera, di cui al punto precedente”), non possono assolutamente dirsi opere pertinenziali, di scarso impatto urbanistico, come tali (autonomamente) sottratte alla necessità del p.d.c.; ciò in quanto anch’esse, nel contesto della complessiva attività d’edificazione abusiva posta in essere dal ricorrente, rivolte ad attuare quella rilevante “trasformazione fisica del territorio” giustamente sanzionata, dalla P.A., con la più grave misura della demolizione, ex art. 31 d.P.R. 380/2001 (restando conseguentemente esclusa la possibilità, per la stessa P.A., di sanzionarle in via esclusivamente pecuniaria).
In ogni caso, e conclusivamente sul punto, deve rimarcarsi come le predette opere, quand’anche –astrattamente e singolarmente considerate– fossero riferibili a un regime giuridico, diverso da quello del p.d.c., in ogni caso –afferendo ad un immobile senz’altro abusivo (quello sub 1), in quanto comportante incremento superficiario e necessitante del permesso di costruire, giusta quanto sopra rilevato (trattandosi di trasformazione di lastrico solare in terrazzo a livello)– non possono evidentemente che seguirne le sorti, in termini della necessità della loro demolizione (“Simul stabunt, simul cadent”).
...
Il quinto motivo di ricorso, che pretenderebbe di far discendere la legittimità delle opere de quibus dalla loro asserita natura di “variazione non essenziale” (evidentemente, rispetto alla d.i.a. del 2003, unico titolo che il ricorrente potrebbe astrattamente vantare) rispetto al “progetto approvato”, in quanto non implicanti un aumento in termini di cubatura, si risolve, a ben vedere, in un’evidente petizione di principio: giova richiamare, al riguardo, quanto sopra rilevato, a confutazione delle prime due censure, circa la necessità del p.d.c. per lavori abusivi, del genere di quelli posti in essere nella specie, sicché la circostanza che non si sia realizzato alcun “aumento di cubatura” è del tutto irrilevante, in presenza, comunque, di una rilevante attività di trasformazione urbanistico–edilizia del territorio, comportante la necessità del titolo abilitativo maggiore, nonché, in ogni caso, un incremento superficiario (ottenuto, mercé la modifica della destinazione d’uso del lastrico di copertura in terrazzo fruibile), come puntualmente confermato, d’altronde, dall’analisi della giurisprudenza: “Rientra nella nozione di opera edilizia subordinata a permesso di costruire la trasformazione di un lastrico di copertura in terrazzo praticabile, configurandosi una variazione essenziale. In tal senso, infatti, deve ritenersi che la modifica della copertura in terrazza aumenti la superficie utile dell’immobile in quanto idonea a trasformare la natura prevalentemente di protezione del fabbricato, propria del lastrico, destinandola ordinariamente e durevolmente alla fruizione umana, per affaccio e sosta” (TAR Sicilia–Catania, Sez. I, 10/11/2008, n. 2068) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1184 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: In pendenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione.
Ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica.

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Tanto in disparte che, come pure dettagliatamente precisato, nel testo dell’ordinanza gravata, difettavano –per tutte le opere de quibus– i necessari assensi paesaggistici.
Va applicato, in definitiva, relativamente a tali opere, apparentemente “accessorie”, l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, espresso in massime, del genere della seguente: “In pendenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica” – TAR Campania–Napoli, Sez. VI, 04/07/2013, n. 3487) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1184 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste un obbligo per la Pubblica amministrazione, prima dell’adozione dell’ordinanza di demolizione dell’opera illegittimamente realizzata, di dare avviso della possibilità di presentare istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Tale facoltà discende direttamente dalla legge, sicché spetta al destinatario dell’ordine di demolizione la scelta di avvalersi della stessa, senza che incomba sul Comune alcun onere di avviso preventivo.
Tale onere non può neppure essere giustificato richiamando alcuni principi generali sull’attività amministrativa, in quanto ciò si risolverebbe in un inutile appesantimento dell’azione dell’Amministrazione, in contrasto con le esigenze di celerità ed efficacia dell’azione stessa.

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I provvedimenti amministrativi che rappresentano una manifestazione di attività doverosa dell’Amministrazione, fra i quali rientra anche l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo, essendo atti vincolati, non necessitano per la loro adozione dell’invio della comunicazione di avvio del procedimento.
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Nella motivazione dell'ordine di demolizione, è necessaria e sufficiente l'analitica definizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza alla predetta ingiunzione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento della medesima inottemperanza.
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Quanto, poi, alla terza doglianza espressa in ricorso, secondo cui l’Amministrazione avrebbe dovuto verificare, prima d’emettere l’ordine ripristinatorio gravato, la possibilità che l’abuso fosse sanabile, è contrastata da una giurisprudenza fermissima, la quale osserva come: “Non sussiste un obbligo per la Pubblica amministrazione, prima dell’adozione dell’ordinanza di demolizione dell’opera illegittimamente realizzata, di dare avviso della possibilità di presentare istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380; tale facoltà discende direttamente dalla legge, sicché spetta al destinatario dell’ordine di demolizione la scelta di avvalersi della stessa, senza che incomba sul Comune alcun onere di avviso preventivo; tale onere non può neppure essere giustificato richiamando alcuni principi generali sull’attività amministrativa, in quanto ciò si risolverebbe in un inutile appesantimento dell’azione dell’Amministrazione, in contrasto con le esigenze di celerità ed efficacia dell’azione stessa” (TAR Puglia–Lecce, Sez. III, 05/10/2017, n. 1572).
Lo stesso dicasi per la quarta censura, impingente nella dedotta efficacia invalidante dell’omessa comunicazione d’avvio del procedimento, culminato nell’adozione del provvedimento impugnato, la quale è, del pari, smentita dalla granitica giurisprudenza contraria, per la quale cfr., ex plurimis, TAR Campania–Napoli, Sez. III, 08/04/2019, n. 1917: “I provvedimenti amministrativi che rappresentano una manifestazione di attività doverosa dell’Amministrazione, fra i quali rientra anche l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo, essendo atti vincolati, non necessitano per la loro adozione dell’invio della comunicazione di avvio del procedimento”.
...
Lo stesso dicasi, del resto, per ciò che concerne la settima e ultima doglianza, anch’essa adeguatamente superata dalla costante giurisprudenza del G.A., del pari condivisa dalla Sezione, ricavabile da massime, del genere della seguente: “Nella motivazione dell'ordine di demolizione, è necessaria e sufficiente l'analitica definizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza alla predetta ingiunzione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento della medesima inottemperanza” (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 04/12/2018, n. 6966) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1184 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di verificazione di un pregiudizio per la parte legittimamente edificata, nel caso di esecuzione dell'ordine demolitorio, non incide sulla legittimità dell'ordine di demolizione stesso e, semmai, può rilevare, solo nella fase successiva e su impulso di parte, sempre che la demolizione sia ordinata ai sensi dell'art. 33 o dell'art. 34 d.P.R. n. 380 del 2001, essendo comunque da escludere l'applicazione di un mera sanzione pecuniaria quando la demolizione è ingiunta ai sensi dell'art. 31.
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Relativamente alla sesta censura, in disparte anche quanto rilevato dalla difesa dell’ente al riguardo (“La demolizione dell’opera abusivamente realizzata non arreca alcun pregiudizio alla restante parte del fabbricato”), osserva il Tribunale come la stessa sia in contrasto con altro orientamento, invalso nella giurisprudenza e costantemente seguito anche dalla Sezione, secondo il quale: “La possibilità di verificazione di un pregiudizio per la parte legittimamente edificata, nel caso di esecuzione dell'ordine demolitorio, non incide sulla legittimità dell'ordine di demolizione stesso e, semmai, può rilevare, solo nella fase successiva e su impulso di parte, sempre che la demolizione sia ordinata ai sensi dell'art. 33 o dell'art. 34 d.P.R. n. 380 del 2001, essendo comunque da escludere l'applicazione di un mera sanzione pecuniaria quando la demolizione è ingiunta ai sensi dell'art. 31” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 06/03/2017, n. 1304) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1184 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICAE' stato ribadito come le scelte di pianificazione urbanistica costituiscano esercizio di ampia discrezionalità da parte dell’Amministrazione; e che le stesse, nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (nei sensi precisati dalla giurisprudenza), onde evitare un indebito “sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”.
Sempre sul piano generale, si è sottolineato che “il potere di pianificazione urbanistica del territorio –la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse; al contrario,tale potere di pianificazione dovendo essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica … non … limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati”.
Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, si è, inoltre, precisato che l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”.
In particolare, è stato affermato che “le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del P.R.G., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”.
È pacifico in giurisprudenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione, in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità; e che, in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie, precedenti previsioni urbanistiche), valutando gli interessi in gioco e il fine pubblico (non incombendo, su di essa, l’onere di corredare con specifica ostensione motivazionale le singole scelte urbanistiche.
In tal senso, la scelta compiuta in un P.R.G. (o in una variante) di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni.
Le evenienze generatrici di affidamento “qualificato", sulla scia della giurisprudenza ormai consolidata, sono ravvisabili nell'esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione.
In difetto di tali presupposti, non è configurabile un'aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo un'aspettativa, generica ed analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile, avente carattere di cedevolezza rispetto alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione: sicché non può essere invocato il difetto di motivazione, in quanto si porrebbe in contrasto con la natura generale dell'atto e i criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione dello stesso.
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2. La giurisprudenza (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 05.09.2016 n. 3806 e 11.10.2017 n. 4707) ha, come è noto, elaborato generali principi interpretativi in materia di pianificazione urbanistica (e connessa espansione del sindacato giurisdizionale di legittimità), ben suscettibili di trovare applicazione (e conferma) in sede di decisione della presente controversia.
Su un piano generale, e relativamente ai poteri del giudice, è stato ribadito come le scelte di pianificazione urbanistica costituiscano esercizio di ampia discrezionalità da parte dell’Amministrazione; e che le stesse, nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione (nei sensi precisati dalla giurisprudenza), onde evitare un indebito “sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”.
Sempre sul piano generale, si è sottolineato che “il potere di pianificazione urbanistica del territorio –la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune– non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse; al contrario,tale potere di pianificazione dovendo essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica … non … limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati” (Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012 n. 2710).
Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, si è, inoltre, precisato che l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478).
In particolare, è stato affermato (Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2016 n. 2221; id, 08.06.2011 n. 3497), che “le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del P.R.G., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”.
È pacifico in giurisprudenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione, in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 22.12.1999 n. 24; sez. IV, 20.06.2012 n. 3571); e che, in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie, precedenti previsioni urbanistiche), valutando gli interessi in gioco e il fine pubblico (non incombendo, su di essa, l’onere di corredare con specifica ostensione motivazionale le singole scelte urbanistiche: cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 13.09.2012 n. 4867).
In tal senso, la scelta compiuta in un P.R.G. (o in una variante) di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 17.02.2012 n. 854).
Le evenienze generatrici di affidamento “qualificato", sulla scia della giurisprudenza ormai consolidata, sono ravvisabili nell'esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione.
In difetto di tali presupposti, non è configurabile un'aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo un'aspettativa, generica ed analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile, avente carattere di cedevolezza rispetto alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione: sicché non può essere invocato il difetto di motivazione, in quanto si porrebbe in contrasto con la natura generale dell'atto e i criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione dello stesso (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 17.02.2012 n. 854 e sez. IV, 04.04.2011 n. 2104).
In ogni caso, in materia di pianificazione urbanistica occorre tener conto della congruenza delle scelte con le linee di sviluppo del territorio illustrate nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.12.2018 n. 1220 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AGGIORNAMENTO ALL'11.09.2019

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LAVORI SOMMA URGENZA, TRANSAZIONI e DEBITI FUORI BILANCIO:
c'è sempre da "stare sul chi va là"... se non si vuol pagare col proprio portafoglio!!

LAVORI PUBBLICI: M. Terzi, LAVORI DI SOMMA URGENZA: LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE DI BILANCIO 2019 ED IL RECENTE ORIENTAMENTO DELLA CORTE DEI CONTI (PublikaDaily n. 15 - 31.07.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Debiti fuori bilancio: anche in caso di dissesto, non si può prescindere dal formale riconoscimento da parte dell’Organo consiliare.
Circa la questione "se la gestione della massa passiva e attiva nella ipotesi di Ente in dissesto è ad esclusiva competenza dell'organo straordinario di liquidazione, o sono previste deroghe istruttorie diverse dal dettato normativo", la Sezione, sulla base della giurisprudenza di legittimità stratificatasi nel tempo sulla materia dei debiti fuori bilancio disciplinati dall'art. 194 TUEL, è dell'avviso che il momento genetico dell'obbligazione contrattuale per l'ente locale è l'esito dell'esternazione di una volontà esplicita dell'organo rappresentativo a mezzo del tipizzato atto deliberativo, in quanto competente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative compiute nei documenti di programmazione a carattere autorizzatorio.
Alla luce dell'ordinamento positivo, considerata l¿estraneità del debito fuori bilancio non riconosciuto rispetto alla sfera patrimoniale dell'ente, anche in fase di dissesto il momento costitutivo dell'obbligazione di pagamento non può prescindere dal formale riconoscimento del debito da parte dell'organo consiliare, senza che tale espressione di volontà, non testualmente indicata all'interno dell'art. 254 TUEL, possa essere interpretata quale "deroga istruttoria".
La delibera consiliare costituisce in ogni caso elemento costitutivo della fattispecie normativa tipizzata dall'art. 194 TUEL che individua in un determinato atto di volontà promanante dall'organo istituzionale la genesi della responsabilità patrimoniale dell'ente per le obbligazioni maturate al di fuori del sistema autorizzatorio di bilancio.
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1. Il Sindaco del Comune di Vizzini (CT), ente in stato di dissesto a seguito della deliberazione del Consiglio Comunale n. 13 del 09.05.2018, premette che, successivamente all’insediamento dell’organo straordinario di liquidazione (OSL) in data 05.09.2018, sono sorti dubbi interpretativi in ordine alla competenza circa il formale riconoscimento dei debiti fuori bilancio correlati ad atti e fatti di gestione verificatasi entro il 31.12.2016.
In particolare, il Consiglio comunale, a fronte della proposta dell’OSL di adottare la deliberazione di riconoscimento di un debito fuori bilancio, avrebbe deciso di non determinarsi sul punto, richiedendo un approfondimento giuridico al Segretario dell’ente.
Mentre quest’ultimo ha espresso l’opinione della carenza di competenza dell’organo consiliare, l’OSL, a sua volta, ha declinato la propria competenza in materia, argomentando in ordine alla posizione assunta dalla Sezione regionale di controllo per la Campania nel parere adottato con la deliberazione n. 66 del 09.05.2018.
In ragione del principio enunciato in quest’ultima deliberazione, pertanto, il Sindaco formula la richiesta di parere nei termini che seguono: se “la gestione della massa passiva e attiva nella ipotesi di Ente in dissesto è ad esclusiva competenza dell’organo straordinario di liquidazione, o sono previste deroghe istruttorie diverse dal dettato normativo.
...
4. Occorre ripercorrere nelle sue linee essenziali la disciplina della procedura di dissesto finanziario e, segnatamente, analizzare il riparto legislativo delle competenze tra gli organi ordinari e straordinari dell’ente locale, alla luce delle disposizioni contenute nel capo II e III del titolo VIII del TUEL (artt. 244-258).
Come già illustrato da questa Sezione di controllo nell’esercizio della sua funzione consultiva (deliberazione n. 176/2016, cit.), la dichiarazione di dissesto produce, fondamentalmente, l’effetto di separare la c.d. gestione ordinaria, di competenza degli organi istituzionali dell’ente locale, dalla gestione straordinaria, c.d. dissestata, specificamente attribuita all’organo straordinario di liquidazione (art. 245 TUEL).
Agli organi istituzionali dell’ente, infatti, competono le opportune manovre correttive tendenti ad assicurare condizioni stabili di equilibrio della gestione finanziaria, rimuovendo le cause strutturali che hanno determinato il dissesto; al secondo, invece, la tacitazione delle pretese creditorie e la risoluzione di eventuali pendenze, ripianando l’indebitamento pregresso con i mezzi consentiti dalla legge.
Nel separare le gestioni, la disciplina in esame mira a garantire, secondo un percorso procedurale improntato a esigenze di celerità, da un lato, la fuoriuscita dell’ente locale dalle condizioni di dissesto funzionale, per condurlo al ripristino dell’erogazione di funzioni e servizi essenziali con lo strumento del bilancio stabilmente riequilibrato; dall’altro, la soddisfazione dei creditori sulla massa attiva dell’ente in condizioni di par condicio, ossia secondo un ordine di priorità ispirato a criteri costituzionali di imparzialità, ragionevolezza e non discriminazione, nel rispetto delle cause legittime di prelazione (Sezione regionale di controllo per la Campania, deliberazione n. 128 del 12.12.2018).
4.1 In particolare, l’organo straordinario di liquidazione ha una competenza temporalmente limitata, circoscritta a tutti gli atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato (art. 252 TUEL), dovendo provvedere: a) alla rilevazione della massa passiva (art. 254 TUEL); b) all’acquisizione e gestione dei mezzi finanziari disponibili ai fini del risanamento, anche mediante alienazione dei beni patrimoniali (art. 255 TUEL); c) alla liquidazione e pagamento della massa passiva, secondo la procedura ordinaria (art. 256 TUEL) o, ove possibile, secondo la modalità semplificata (art. 258 TUEL).
Ai fini di un approfondimento sulla corretta interpretazione della locuzione normativa “atti e fatti di gestione”, il Collegio ritiene di poter operare un mero rinvio alla completa disamina recentemente svolta dalla Sezione regionale di controllo per la Campania nella deliberazione n. 132 del 28.11.2018, in quanto questione non specificamente ricadente nel perimetro del quesito sollevato.
4.2 Ai fini della redazione del piano di rilevazione della massa passiva dell’ente locale, l’art. 254, comma 3, TUEL, elenca in maniera puntuale le diverse tipologie di debito che l’OSL deve considerare. In particolare, trattasi di: a) debiti di bilancio e fuori bilancio di cui all’art. 194 TUEL, verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato; 2) debiti derivanti dalle procedure esecutive estinte ai sensi dell’art. 248, comma 2, TUEL; 3) debiti originati dalle transazioni compiute dall’OSL ai sensi del comma 7 dello stesso art. 254 TUEL.
Le disposizioni in esame devono essere applicate in conformità alla norma d’interpretazione autentica introdotta con l’art. 5, comma 2, del decreto-legge 29.03.2004, n. 80, convertito dalla legge 28.05.2004, n. 140, per la quale “[a]i fini dell'applicazione degli articoli 252, comma 4, e 254, comma 3, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, si intendono compresi nelle fattispecie ivi previste tutti i debiti correlati ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello dell'ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data ma, comunque, non oltre quella di approvazione del rendiconto della gestione di cui all'articolo 256, comma 11, del medesimo testo unico”.
4.3 L’OSL provvede, altresì, all’accertamento della massa attiva (art. 255 TUEL) con cui procedere, successivamente, alla liquidazione e al pagamento delle passività inserite nel piano di rilevazione, secondo la procedura cadenzata dal legislatore (art. 256 TUEL).
A tali fini, come compiutamente illustrato dalla Sezione delle autonomie (deliberazione n. 3/SEZAUT/2017/QMIG dell’08.02.2017), l’organo straordinario dovrà individuare, innanzitutto, le poste attive dell’ente rappresentate da: 1) i residui non riscossi, comprensivi dei ruoli non ancora totalmente o parzialmente riscossi, ma anche delle entrate tributarie per le quali non siano stati predisposti i relativi ruoli e per le quali sia stata omessa la predisposizione del relativo titolo di entrata, opportunamente sottoposti al riaccertamento straordinario; 2) i ratei di mutuo disponibili, in quanto non ancora utilizzati dall’ente; 3) i proventi derivanti da eventuali alienazioni di beni patrimoniali disponibili, all’individuazione dei quali l’OSL procede ai sensi dell’art. 255, comma 9, TUEL.
Relativamente al perimetro delle eccezioni disciplinate dall’art. 255, comma 10, a norma del quale “[n]on compete all'organo straordinario di liquidazione l'amministrazione delle anticipazioni di tesoreria di cui all'articolo 222 e dei residui attivi e passivi relativi ai fondi a gestione vincolata, ai mutui passivi già attivati per investimenti, ivi compreso il pagamento delle relative spese, nonché l'amministrazione dei debiti assistiti dalla garanzia della delegazione di pagamento di cui all'articolo 206”, la disposizione in esame deve essere coordinata con le novelle normative successivamente intervenute.
In particolare, l'art. 2-bis, comma 1, del decreto-legge 24.06.2016, n. 113, convertito con modificazioni dalla legge 07.08.2016, n. 160, ha disposto: “In deroga a quanto previsto dall'articolo 255, comma 10, del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per le amministrazioni provinciali in stato di dissesto, l'amministrazione dei residui attivi e passivi relativi ai fondi a gestione vincolata compete all'organo straordinario di liquidazione”.
Successivamente, l'art. 1, comma 457, della legge 11.12.2016, n. 232, ha previsto: “In deroga a quanto previsto dall'articolo 255, comma 10, del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per i comuni in stato di dissesto, l'amministrazione dei residui attivi e passivi relativi ai fondi a gestione vincolata compete all'organo straordinario di liquidazione”.
Infine, a modifica delle citate disposizioni, l'art. 36, comma 2, del decreto-legge 24.04.2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla legge 21.06.2017, n. 96, ha conseguentemente disposto: “1. In deroga a quanto previsto dall'articolo 255, comma 10, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per i comuni e per le province in stato di dissesto finanziario l'amministrazione dei residui attivi e passivi relativi ai fondi a gestione vincolata compete all'organo straordinario della liquidazione. 2. L'amministrazione dei residui attivi e passivi di cui al comma 1 è gestita separatamente, nell'ambito della gestione straordinaria di liquidazione. Resta ferma la facoltà dell'organo straordinario della liquidazione di definire anche in via transattiva le partite debitorie, sentiti i creditori”.
In ordine alle predette deroghe, la Sezione delle autonomie (deliberazione n. 3/2017, cit.), nel pronunciarsi sulla questione di massima posta dalla Sezione di controllo per la Regione siciliana con la deliberazione n. 176/2016, ha ritenuto che, a far data dal momento dell’entrata in vigore dell’art. 2-bis del d.l. n. 113/2016, sia venuto meno il principale riferimento normativo in ragione del quale parte della giurisprudenza ha giustificato l’esclusione dei debiti fuori bilancio riferiti a gestioni vincolate dalla c.d. gestione dissestata dell’organo straordinario di liquidazione, in analogia a quanto previsto per i residui attivi e passivi, cosicché “rientrano nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione degli enti in stato di dissesto i debiti fuori bilancio che, pur attenendo al servizio indispensabile per il quale la legge prevede una gestione vincolata, non siano stati ricompresi nell’ambito di quest’ultima o non abbiano trovato adeguata copertura”.
L’interpretazione dell’art. 255, comma 10, TUEL è completata dal recente parere pronunciato dalla Sezione regionale di controllo per la Campania che, con la deliberazione n. 99 del 18.04.2019, ha precisato che “[a] seguito delle modifiche intervenute, i residui considerati dalla deroga riguardano solo quelli relativi ai fondi a gestione vincolata. Tutti gli altri residui, considerati nel comma 10 dell’art. 255 TUEL, pertanto, restano soggetti all’amministrazione dell’Ente, ivi compresi quelli relativi ai debiti assistiti dalla garanzia della delegazione di pagamento di cui all’art. 206.”
4.4 Dall’esposto quadro normativo è dato, pertanto, enucleare il principio generale che la creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, continui a rappresentare l’asse portante dell’intera disciplina del dissesto, nonostante le modifiche intervenute nel tempo su taluni aspetti della procedura.
5. All’interno di tale contesto ordinamentale, dunque, si innesta il dubbio interpretativo prospettato dal Comune richiedente il parere in esame, il quale domanda di conoscere se possano sussistere “deroghe istruttorie” nella gestione della massa passiva e attiva, ossia –secondo il significato attribuito da questo Collegio– se, con riferimento alla gestione “dissestata”, possano essere ascritte agli organi istituzionali dell’ente competenze ulteriori da quelle testualmente indicate dal legislatore nella disciplina della procedura di risanamento.
Come illustrato nelle premesse, la questione concerne, in particolare, la materia dei debiti fuori bilancio per fatti e atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi riequilibrato.
5.1 Il Collegio osserva, in proposito, che i profili di incertezza attengono al solo caso in cui, successivamente al dissesto, l’OSL individui, in fase di rilevazione della massa passiva e sulla base della documentazione messa a disposizione dai responsabili dei servizi, debiti fuori bilancio mai oggetto di riconoscimento dell’organo consiliare, riferibili a fatti e atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi riequilibrato.
Diversamente, sulla base del delineato quadro normativo, appaiono certi i comportamenti da adottare nelle seguenti circostanze: 1) l’OSL deve includere nel piano di rilevazione della massa passiva i debiti fuori bilancio maturati entro il 31 dicembre dell’anno precedente quello cui si riferisce l’ipotesi di bilancio riequilibrato, che abbiano già formato oggetto di esplicito e formale riconoscimento da parte dell’ente a norma dell’art. 194 TUEL, in quanto la delibera del Consiglio implica accertamento dell’utilità e del conseguito arricchimento da parte dell’ente; 2) quanto ai debiti fuori bilancio concernenti atti e fatti verificatisi successivamente al 31 dicembre dell’anno precedente quello cui si riferisce l’ipotesi di bilancio riequilibrato, il relativo riconoscimento compete agli organi istituzionali dell’ente nell’ambito della gestione ordinaria.
5.2 Lo specifico argomento è stato trattato dalla Sezione regionale di controllo per la Campania in un recente parere (delibera n. 66/2018, cit.) pronunciato in ordine all’interpretazione dell’art. 254, comma 3, lett. a), TUEL, su richiesta di un Comune in dissesto tendente a conoscere se i debiti fuori bilancio, verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, possano essere inclusi nel piano di rilevazione della massa passiva in conseguenza di un provvedimento di riconoscimento adottato direttamente dall’OSL oppure se quest’ultimo debba richiedere al Consiglio comunale di deliberare a norma dell’art. 194 TUEL.
Dal complessivo tenore del quesito sottoposto dall’ente sembra potersi ragionevolmente dedurre che il dubbio prospettato riguardasse unicamente quei debiti fuori bilancio non oggetto di formale riconoscimento da parte dell’organo consiliare anteriormente al dissesto.
La Sezione regionale di controllo per la Campania, nel prendere posizione in merito al quesito, manifesta l’opinione che l’OSL “nella richiamata logica della separazione tra gestione passata e quella corrente, pur avendo ampi poteri organizzatori per un rapido assolvimento dei propri compiti di liquidazione della massa passiva pregressa e di garanzia della par condicio creditorum, non risulta dotato di un autonomo potere deliberativo di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, che resta una prerogativa esclusiva del Consiglio comunale. È suo onere, peraltro, accertare avvalendosi della collaborazione dei responsabili competenti per materia, la sussistenza delle altre condizioni di cui al comma 4 dell’art. 254, ossia che la prestazione è stata effettivamente resa; che la stessa rientra nell’ambito delle funzioni e dei servizi di competenza dell’ente; che il debito non è stato pagato, anche solo parzialmente; che lo stesso non è prescritto”.
Nel motivare la soluzione in questione, la Sezione sofferma l’attenzione –in linea con il costante orientamento di questa Corte- sull’ampio apprezzamento discrezionale esercitato dall’organo consiliare nelle fattispecie delineate dall’art. 194 TUEL, specialmente, riguardo alle obbligazioni passive riconducibili alla lett. e), in punto di accertamento dell'utilità di una prestazione contrattuale richiesta in violazione delle ordinarie procedure di spesa e dell’arricchimento conseguito dall’ente.
La Sezione, inoltre, pur riconoscendo la sostanziale diversità delle obbligazioni giuridiche passive originate dalle sentenze esecutive rispetto alle altre ipotesi descritte dalla norma -in quanto la valutazione dell’an e del quantum dell’obbligazione verso il terzo è cristallizzata nella statuizione contenuta nel provvedimento dell'autorità giudiziaria senza ulteriori margini di apprezzamento da parte del Consiglio comunale– rimarca, in continuità con la consolidata giurisprudenza della Corte dei conti (Sezioni Riunite in sede giurisdizionale, sentenza 27.12.2007 n. 12/2007/QM), che, in mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le sentenze esecutive, non sia consentito discostarsi dalla stretta interpretazione dell'art. 194 TUEL, ai sensi del quale il riconoscimento del debito avviene, prima del pagamento, con atto del Consiglio comunale (nei medesimi termini, Sezione di controllo per la Regione siciliana, parere 13.05.2015 n. 177).
In definitiva, la spendita di un potere implicante esercizio di discrezionalità amministrativa demarcherebbe le rispettive competenze tra il Consiglio comunale e l’OSL nella fase dell’inclusione dei debiti fuori bilancio nel piano di rilevazione della massa passiva, cosicché mentre il primo avrebbe esclusiva prerogativa nel deliberarne il riconoscimento, specialmente in punto di utilità e di arricchimento per l’ente, il secondo avrebbe solo l’onere di accertare, avvalendosi della collaborazione dei responsabili competenti, che ricorrano tutte le altre condizioni di cui all’art. 254, comma 4, TUEL, ossia: che la prestazione sia stata effettivamente resa; che la stessa rientri nell’ambito delle funzioni e dei servizi di competenza dell’ente; che il debito non sia stato pagato, anche solo parzialmente; che lo stesso non sia prescritto.
La medesima Sezione, nella successiva deliberazione n. 132/2018, ribadisce la necessità che i debiti fuori bilancio, originati da atti e fatti di gestione antecedenti alla data del 31 dicembre anteriore all’ipotesi di bilancio riequilibrato e accertati entro la data di presentazione del rendiconto della gestione liquidatoria (art. 256, comma 11, TUEL), siano riconosciuti dall’ente e non dall’OSL2.
E ciò –aggiunge la Sezione– in quanto “espressione di un orientamento da ritenere ormai consolidato, tenuto conto dei precedenti di questa Corte” 3.
6. Il Collegio esprime condivisione per tale impostazione concettuale per le ragioni che seguono.
La tesi della spendita di un potere discrezionale ascrivibile unicamente al Consiglio comunale è corroborata dalla giurisprudenza di legittimità stratificatasi, nel tempo, sulla materia dei debiti fuori bilancio disciplinati dall’art. 194 TUEL.
In particolare, la Corte di Cassazione, nel soffermarsi sulla circostanza che la disciplina normativa imputi distintamente alla diretta responsabilità patrimoniale del funzionario le obbligazioni scaturenti dall’effettuazione di spese in violazione dell’ordinamento giuscontabile (art. 191, comma 4, TUEL), ha costantemente sostenuto che la pretesa del pagamento del terzo contraente non possa trovare soddisfacimento a prescindere dall’espresso riconoscimento del debito da parte dell’ente locale, con conseguente esclusione dell’azione di arricchimento senza causa (ex multis, ordinanza 19.05.2017, n. 12608, seguita dalla successiva ordinanza 21.11.2018, n. 30109).
L’ordinamento positivo muove, pertanto, nella chiara direzione di precludere che, in presenza dell’ordinazione di servizi o di forniture di beni al di fuori dello schema procedimentale delineato dalle norme imperative sull’assunzione di impegni, il mero dato fattuale dell’utilizzazione della prestazione, con appropriazione del correlato risultato utile da parte dell’Amministrazione, possa produrre ex se l’effetto giuridico di uno spostamento della responsabilità contrattuale dalla sfera patrimoniale del funzionario a quella dell’ente.
In tale contesto normativo, dunque, il momento genetico dell’obbligazione contrattuale per l’ente locale è l’esito dell’esternazione di una volontà esplicita dell’organo rappresentativo a mezzo del tipizzato atto deliberativo, in quanto competente “ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative” compiute nei documenti di programmazione a carattere autorizzatorio (ordinanza 19.05.2017, n. 12608, cit.).
Alla luce dell’ordinamento positivo e della citata giurisprudenza, il Collegio ritiene che, considerata l’estraneità del debito fuori bilancio non riconosciuto rispetto alla sfera patrimoniale dell’ente, anche in fase di dissesto il momento costitutivo dell’obbligazione di pagamento non possa prescindere dal formale riconoscimento del debito da parte dell’organo consiliare, senza che tale espressione di volontà, non testualmente indicata all’interno dell’art. 254 TUEL, possa essere interpretata quale “deroga istruttoria” (secondo la terminologia utilizzata dal Comune richiedente il parere), trattandosi piuttosto dell’esercizio di un potere discrezionale ricavabile dalla logica del sistema.
Se, infatti, fosse consentito all’OSL di includere il debito fuori bilancio all’interno della massa passiva, sulla base della mera istanza del creditore e della semplice ricognizione della documentazione acquisita dai responsabili dell’ente, idonea a dimostrare che la prestazione è stata effettivamente resa nell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza dell’ente locale, si consentirebbe, invero, di utilizzare le risorse finanziarie e i beni propri dell’ente (la massa attiva) per l’estinzione di obbligazioni ascrivibili alla responsabilità patrimoniale altrui, anche qualora esse abbiano trovato origine nella violazione degli indirizzi espressi in precedenza dall’organo consiliare nella programmazione della gestione economico-finanziaria dell'ente.
In disparte ogni considerazione sulla circostanza che, in una situazione di grave patologia finanziaria dell’ente, sia consentito agli stessi funzionari –cui siano eventualmente imputabili le obbligazioni contratte in violazione dell’ordinamento giuscontabile– far gravare sull’ente la propria diretta responsabilità patrimoniale con la mera esibizione all’OSL della documentazione disciplinata dall’art. 254, comma 4, TUEL, deve essere considerato che il riconoscimento del debito fuori bilancio involge un apprezzamento discrezionale estraneo alle funzioni dell’organo straordinario.
Sotto tale profilo deve essere ricordato, infatti, il principio richiamato da questa Sezione di controllo nella citata deliberazione n. 176/2016 in riferimento ad una pronuncia del giudice amministrativo che, nel risolvere una questione di riparto di giurisdizione, ha affermato: “[L]'organo straordinario di liquidazione non effettua mai valutazioni caratterizzate da discrezionalità amministrativa […] ma compie accertamenti o, tutt'al più, valutazioni di ordine tecnico […]” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.10.2012, n. 5170).
In definitiva,
è da escludere che il coinvolgimento del Consiglio comunale nella fase di ammissione alla massa passiva dei debiti fuori bilancio possa essere inteso quale inutile “incombente istruttorio” gravante sulla procedura descritta dall’art. 254 TUEL, non potendo dare luogo alla mera replica della valutazione spettante all’OSL in punto di pertinenza della prestazione all'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza dell'ente locale.
La delibera consiliare costituisce, piuttosto, elemento costitutivo della fattispecie normativa tipizzata dall’art. 194 TUEL che individua in un determinato atto di volontà promanante dall’organo istituzionale la genesi della responsabilità patrimoniale dell’ente per le obbligazioni maturate al di fuori del sistema autorizzatorio di bilancio (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 17.06.2019 n. 124).

LAVORI PUBBLICISomma urgenza, la violazione dei termini taglia l'utile d'impresa.
È necessario procedere sempre al riconoscimento consiliare dei lavori di somma urgenza. Non solo: occorre rispettare i termini temporali previsti dalla legge, pena l'impossibilità di riconoscere l'utile d'impresa.

Con il parere 11.06.2019 n. 121 la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Sicilia ha chiarito la portata applicativa delle novità della manovra 2019 in materia di lavori di somma urgenza e il collegamento alle modalità previste per il riconoscimento dei debiti fuori bilancio (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 19 giugno).
I lavori di somma urgenza
In circostanze di somma urgenza, il responsabile dell'ufficio tecnico che si reca prima sul luogo, può disporre, contemporaneamente alla redazione del verbale (che indica lo stato di urgenza, le cause che lo hanno provocato e le opere necessarie per rimuoverlo), l'immediata esecuzione dei lavori (articolo 163 del Dlgs 50/2016). Le attività necessarie per la regolarizzazione della spesa decorrono dall'ordine di esecuzione dei lavori fatto a terzi. Entro dieci giorni il responsabile del procedimento (o il tecnico) compila la perizia giustificativa dei lavori e la trasmette, insieme al verbale di somma urgenza, per la copertura della spesa e l'approvazione dei lavori.
Novità della manovra 2019
Il comma 901 dell'articolo 1 della legge 145/2018 ha abrogato, dal comma 3 dell'articolo 191 del Tuel, il riferimento all'insufficienza delle risorse finanziarie per giustificare l'avvio delle procedure di riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti dai lavori pubblici di somma urgenza, causati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile. Pertanto, secondo la nuova versione della norma, è sempre obbligatorio riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma urgenza per i quali non risulta possibile rispettare l'iter ordinario del procedimento di spesa, e non già solo quando sull'apposito capitolo vi è insufficienza di fondi.
La procedura contabile
Sono però previsti termini rigidi entro i quali la giunta deve sottoporre, su proposta del responsabile del procedimento, il riconoscimento del debito al consiglio: entro venti giorni (sempre dall'ordine). Le modalità sono quelle disciplinate dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel, prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità (comma 3 dell'articolo 191 del Tuel). Il quantum da riconoscere non può eccedere dunque i termini della accertata necessità per la rimozione dello stato di pericolo, al fine di evitare che il ricorso alle procedure di somma urgenza si trasformi da strumento eccezionale a mezzo per effettuare interventi eccedenti la necessità contingente.
Il provvedimento di riconoscimento va adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso, se a quella data il termine non sia scaduto. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
L'utile d'impresa
Laddove l'iter procedurale per il riconoscimento della spesa si sia svolto nell'ambito dei ristretti termini temporali previsti dalla legge, l'utilitas per l'amministrazione coincide con la spesa sostenuta come risultante dalla perizia tecnica e dal corrispettivo concordato consensualmente; non vi è dunque ragione per giustificare la decurtazione dell'utile d'impresa. La violazione di termini procedurali determina, invece, l'applicazione della disciplina sostanziale stabilita dall'articolo 194, lettera e), del Tuel, senza possibilità di riconoscere l'utile d'impresa, come da costante giurisprudenza della Corte dei conti. Per questa parte, concludono i giudici contabili, il rapporto obbligatorio intercorrerà tra il privato fornitore e l'amministratore che ha disposto la fornitura (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.07.2019).
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PARERE
Con la nota in epigrafe, il sindaco del comune di Roccalumera ha chiesto un parere in ordine all’interpretazione dell’art. 191, comma 3, del D.lgs. n. 267 del 2000 (TUEL) a seguito della modifica recata dall’art. 1, comma 901, della legge finanziaria n. 145 del 2018, in materia di lavori di somma urgenza.
In particolare, il Sindaco chiede di precisare se, pur in presenza di regolare copertura finanziaria della spesa, si configuri un debito fuori bilancio, atteso che l’art. 191, comma 3, del TUEL, fa riferimento al riconoscimento di detta spesa secondo le modalità previste dall’art. 194, comma 1, lett. e), che riguardano i debiti fuori bilancio.
...
Ciò detto, occorre innanzitutto riassumere le principali disposizioni normative cui il quesito fa riferimento.
L’art. 163 del decreto legislativo n. 50 del 18.04.2016, recante il Codice dei contratti pubblici, disciplina le procedure per gli interventi di somma urgenza e di protezione civile; il comma 4, riferito alle procedure adottate dagli enti locali, recita: “4. Il responsabile del procedimento o il tecnico dell'amministrazione competente compila entro dieci giorni dall'ordine di esecuzione dei lavori una perizia giustificativa degli stessi e la trasmette, unitamente al verbale di somma urgenza, alla stazione appaltante che provvede alla copertura della spesa e alla approvazione dei lavori. Qualora l'amministrazione competente sia un ente locale, la copertura della spesa viene assicurata con le modalità previste dall'articolo 191, comma 3, e 194 comma 1, lettera e), del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267 e successive modificazioni e integrazioni”.
Il richiamato art. 191 del decreto legislativo n. 267 del 2000, come modificato dall’art. 1, comma 901, della legge n. 145 del 2018, ai commi 3 e 4, recita: ”3. Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso, se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare. 
4. Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni
”.
Infine, l’art. 194, comma 1, del TUEL dispone: “1. Con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da: ( omissis) e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”.
Con l'introduzione dell'articolo 1, comma 901, della legge finanziaria n. 145 del 2018 viene abrogato, all'interno del terzo comma dell'articolo 191 del TUEL, il riferimento all'insufficienza delle risorse finanziarie per giustificare l'avvio delle procedure di riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti dai lavori pubblici di somma urgenza, causati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile.
Pertanto, secondo la nuova versione della norma, è sempre obbligatorio riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma urgenza, per i quali non risulta possibile rispettare l'iter ordinario del procedimento di spesa e non già solo quando sull’apposito capitolo vi è insufficienza di fondi. La modifica in questione determina un cambiamento di rotta nell'interpretazione del terzo comma dell'articolo 191 del Tuel. Già con il parere 18.03.2013 n. 12 ed il parere 10.05.2013 n. 22, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Liguria aveva espresso il proprio parere in merito, specificando come il riferimento alla carenza dei fondi in bilancio costituisse una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di “autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in presenza di situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
Con la novella del 2018, invero, il regime derogatorio rispetto all’ordinaria procedura contabile è stato esteso all’intera materia dei lavori di somma urgenza e di protezione civile: la giunta è tenuta a sottoporre al consiglio dell'ente, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del TUEL, a prescindere dalla circostanza che il capitolo di spesa presenti o meno disponibilità finanziaria.
In altre parole, sarà necessario procedere sempre al riconoscimento consiliare delle spese derivanti per i lavori di somma urgenza apprestando la relativa copertura finanziaria, tuttavia solamente nei limiti delle necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento deve essere adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte dell'organo esecutivo e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
Laddove, tuttavia, si verifichi la violazione dei commi 1,2 e, per quanto di interesse ai fini del presente parere, del comma 3 (ovvero dei termini entro i quali la Giunta deve provvedere alla sottoposizione al Consiglio del provvedimento di riconoscimento del debito) si applica il successivo comma 4 e il riconoscimento potrà essere adottato, ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e) “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l’ente”.
La vigente versione dell'articolo 191, terzo comma, del TUEL, pertanto, prevede sempre -in presenza di lavori di somma urgenza- una deroga alla procedura ordinaria, da circoscrivere, tuttavia, al rispetto dei termini di cui all’art. 191, terzo comma, al di fuori dei quali si è comunque in presenza di “acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3” e il riconoscimento non può che operare nei limiti dell’art. 2041 cod. civ., senza possibilità di riconoscere l’utile d’impresa, come da costante giurisprudenza della Corte dei conti.
L’art. 191 del TUEL novellato, infatti, privato dell’inciso “qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti”, ha inteso introdurre una disciplina derogatoria per tutti i lavori di somma urgenza e di protezione civile; tuttavia, l’esigenza di celerità e di preminente tutela della pubblica incolumità che giustifica l’affidamento diretto e la determinazione consensuale del corrispettivo con l’affidatario prima che venga assunto l’impegno contabile, risulta controbilanciata dalla rigida previsione di termini entro i quali la Giunta deve sottoporre la proposta di riconoscimento di debito al Consiglio, al fine di ricondurre la spesa nell’alveo del bilancio; il quantum da riconoscere, inoltre, non può eccedere i termini della accertata necessità per la rimozione dello stato di pericolo, al precipuo fine di evitare che il ricorso alle procedure di somma urgenza si trasformi da strumento eccezionale in occasione per provvedere, contestualmente, ad interventi eccedenti la necessità contingente.
In ordine al quesito, pertanto,
il Collegio ritiene che il rinvio alle modalità previste dall’art. 194, lett. e), per il riconoscimento di detti debiti fuori bilancio non abbia valenza esclusivamente procedimentale ma anche sostanziale: tuttavia, laddove l’iter procedurale seguito dall’amministrazione si sia svolto nell’ambito dei ristretti termini previsti dalla legge, il riferimento alle “modalità” di cui all’art. 194 lett. e), è da intendersi nel senso che è sempre necessaria l’adozione della delibera consiliare con la quale riconoscere la spesa sostenuta per lavori di somma urgenza, purché strettamente attinenti alla rimozione dello stato di pericolo: in tal caso l’utilitas per l’amministrazione coincide con la spesa sostenuta come risultante dalla perizia tecnica e dal corrispettivo concordato consensualmente: ciò in quanto tale modalità procedurale, sia pure derogatoria rispetto all’ordinaria gestione contabile, è stata estesa dal legislatore, con la novella del 2018, all’intera materia dei lavori di somma urgenza e di protezione civile; pertanto, laddove l’attività gestionale sia mantenuta entro l’alveo temporale segnato dalla legge non v’è ragione che giustifichi la decurtazione dell’utile d’impresa.
La violazione di detti termini procedurali, invece, determina l’applicazione della disciplina sostanziale di cui all’art. 194, lett. e), come da consolidata giurisprudenza del giudice contabile: in tal caso il riconoscimento opererà esclusivamente nei limiti dell’utilità ricevuta dall’amministrazione mentre per la parte non riconoscibile (l’utile d’impresa) il rapporto obbligatorio intercorrerà tra il privato fornitore e l’amministratore che ha disposto la fornitura.

LAVORI PUBBLICI: E’ sempre necessaria la delibera di riconoscimento di debito per i lavori di somma urgenza.
E' sempre obbligatorio riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma urgenza, per i quali non risulta possibile rispettare l'iter ordinario del procedimento di spesa e non già solo quando sull’apposito capitolo vi è insufficienza di fondi.
La giunta è tenuta a sottoporre al consiglio dell'ente, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del TUEL.
In altre parole, sarà necessario procedere sempre al riconoscimento consiliare delle spese derivanti per i lavori di somma urgenza apprestando la relativa copertura finanziaria, tuttavia solamente nei limiti delle necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento deve essere adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte dell'organo esecutivo e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
Laddove, tuttavia, si verifichi la violazione dei commi 1, 2 e, per quanto di interesse ai fini del presente parere, del comma 3 (ovvero dei termini entro i quali la Giunta deve provvedere alla sottoposizione al Consiglio del provvedimento di riconoscimento del debito) si applica il successivo comma 4 e il riconoscimento potrà essere adottato, ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l’ente”.
La vigente versione dell'articolo 191, terzo comma, del TUEL, pertanto, prevede sempre -in presenza di lavori di somma urgenza- una deroga alla procedura ordinaria, da circoscrivere, tuttavia, al rispetto dei termini di cui all’art. 191, terzo comma, al di fuori dei quali si è comunque in presenza di “acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3” e il riconoscimento non può che operare nei limiti dell’art. 2041 cod. civ., senza possibilità di riconoscere l’utile d’impresa, come da costante giurisprudenza della Corte dei conti.

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In ordine al primo quesito, pertanto, il Collegio ritiene che
il rinvio alle modalità previste dall’art. 194, lett. e) per il riconoscimento di detti debiti fuori bilancio non abbia valenza esclusivamente procedimentale ma anche sostanziale: tuttavia, laddove l’iter procedurale seguito dall’amministrazione si sia svolto nell’ambito dei ristretti termini previsti dalla legge, il riferimento alle “modalità” di cui all’art. 194, lett. e), è da intendersi nel senso che è sempre necessaria l’adozione della delibera consiliare con la quale riconoscere la spesa sostenuta per lavori di somma urgenza, purché strettamente attinenti alla rimozione dello stato di pericolo: in tal caso l’utilitas per l’amministrazione coincide con la spesa sostenuta come risultante dalla perizia tecnica e dal corrispettivo concordato consensualmente: ciò in quanto tale modalità procedurale, sia pure derogatoria rispetto all’ordinaria gestione contabile, è stata estesa dal legislatore, con la novella del 2018, all’intera materia dei lavori di somma urgenza e di protezione civile; pertanto, laddove l’attività gestionale sia mantenuta entro l’alveo temporale segnato dalla legge non v’è ragione che giustifichi la decurtazione dell’utile d’impresa.
La violazione di detti termini procedurali, invece, determina l’applicazione della disciplina sostanziale di cui all’art. 194, lett. e), come da consolidata giurisprudenza del giudice contabile,
senza che possano rilevare le motivate ragioni del ritardo: in tal caso il riconoscimento opererà esclusivamente nei limiti dell’utilità ricevuta dall’amministrazione mentre per la parte non riconoscibile (l’utile d’impresa) il rapporto obbligatorio intercorrerà tra il privato fornitore e l’amministratore che ha disposto la fornitura.
La ratio della disposizione si rinviene, proprio, nella circostanza che viene assoggettato al regime speciale derogatorio l’intero settore dei lavori di somma urgenza (e non già come in precedenza solamente nei casi di insufficienza di fondi) e, pertanto, anche la cadenza temporale entro la quale ricondurre a bilancio le spese sostenute è fissata dal legislatore in termini precisi, sottratti alle valutazioni discrezionali dell’organo di gestione.

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Con la nota in epigrafe, il sindaco del comune di Palermo ha chiesto un parere in ordine all’interpretazione dell’art. 191, comma 3, del D.lgs. n. 267 del 2000 (TUEL) a seguito della modifica recata dall’art. 1, comma 901, della legge finanziaria n. 145 del 2018.
In particolare, il Sindaco, con un
primo quesito chiede di conoscere se il riferimento operato dall’art. 191 novellato alla lettera e) dell’art. 194 del TUEL attenga semplicemente all’individuazione dell’iter procedurale da adottare (apposita delibera del Consiglio) ovvero anche ai profili di diritto sostanziale richiamati al successivo comma 4, in forza del quale il riconoscimento opera nei termini dell’art. 2041 del codice civile laddove l’acquisizione di beni e servizi sia avvenuta in violazione delle norme giuscontabili.
Con il
secondo quesito chiede di precisare se, in caso di mancato rispetto da parte della Giunta dei termini previsti per la sottoposizione al Consiglio della proposta di riconoscimento di debito fuori bilancio derivante da lavori di somma urgenza, ancorché determinato da motivate ragioni, debba applicarsi comunque la decurtazione dell’utile d’impresa, come da consolidata giurisprudenza della Corte dei conti.
...
La Sezione, preliminarmente, ritiene la richiesta di parere ammissibile sotto il profilo soggettivo -in quanto proveniente dal legale rappresentante del comune– nonché sotto il profilo oggettivo, atteso che la tematica del riconoscimento dei debiti fuori bilancio è indubbiamente attinente alla materia della contabilità pubblica.
La richiesta, inoltre, presenta profili di carattere generale e non interferisce con le competenze degli altri organi giurisdizionali.
Ciò detto, occorre innanzitutto riassumere le principali disposizioni normative cui il quesito fa riferimento.
L’art. 163 del decreto legislativo n. 50 del 18.04.2016, recante il Codice dei contratti pubblici, disciplina le procedure per gli interventi di somma urgenza e di protezione civile; il comma 4, riferito alle procedure adottate dagli enti locali, recita: “4. Il responsabile del procedimento o il tecnico dell'amministrazione competente compila entro dieci giorni dall'ordine di esecuzione dei lavori una perizia giustificativa degli stessi e la trasmette, unitamente al verbale di somma urgenza, alla stazione appaltante che provvede alla copertura della spesa e alla approvazione dei lavori. Qualora l'amministrazione competente sia un ente locale, la copertura della spesa viene assicurata con le modalità previste dall'articolo 191, comma 3, e 194, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267 e successive modificazioni e integrazioni”.
Il richiamato art. 191 del decreto legislativo n. 267 del 2000, come modificato dall’art. 1, comma 901, della legge n. 145 del 2018, ai commi 3 e 4, recita: ”3. Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso, se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
4. Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni
”.
Infine, l’art. 194, comma 1, del TUEL dispone: “1. Con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da: (omissis)
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza
”.
Con l'introduzione dell'articolo 1, comma 901, della legge finanziaria n. 145 del 2018 viene abrogato, all'interno del terzo comma dell'articolo 191 del TUEL, il riferimento all'insufficienza delle risorse finanziarie per giustificare l'avvio delle procedure di riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti dai lavori pubblici di somma urgenza, causati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile.
Pertanto, secondo la nuova versione della norma,
è sempre obbligatorio riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma urgenza, per i quali non risulta possibile rispettare l'iter ordinario del procedimento di spesa e non già solo quando sull’apposito capitolo vi è insufficienza di fondi.
La giunta è tenuta a sottoporre al consiglio dell'ente, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del TUEL.
In altre parole, sarà necessario procedere sempre al riconoscimento consiliare delle spese derivanti per i lavori di somma urgenza apprestando la relativa copertura finanziaria, tuttavia solamente nei limiti delle necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento deve essere adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte dell'organo esecutivo e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
Laddove, tuttavia, si verifichi la violazione dei commi 1, 2 e, per quanto di interesse ai fini del presente parere, del comma 3 (ovvero dei termini entro i quali la Giunta deve provvedere alla sottoposizione al Consiglio del provvedimento di riconoscimento del debito) si applica il successivo comma 4 e il riconoscimento potrà essere adottato, ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l’ente”.
La vigente versione dell'articolo 191, terzo comma, del TUEL, pertanto, prevede sempre -in presenza di lavori di somma urgenza- una deroga alla procedura ordinaria, da circoscrivere, tuttavia, al rispetto dei termini di cui all’art. 191, terzo comma, al di fuori dei quali si è comunque in presenza di “acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3” e il riconoscimento non può che operare nei limiti dell’art. 2041 cod. civ., senza possibilità di riconoscere l’utile d’impresa, come da costante giurisprudenza della Corte dei conti.

L’art. 191 del TUEL novellato, infatti, privato dell’inciso “qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti”, ha inteso introdurre una disciplina derogatoria per tutti i lavori di somma urgenza e di protezione civile; tuttavia, l’esigenza di celerità e di preminente tutela della pubblica incolumità che giustifica l’affidamento diretto e la determinazione consensuale del corrispettivo con l’affidatario prima che venga assunto l’impegno contabile, risulta controbilanciata dalla rigida previsione di termini entro i quali la Giunta deve sottoporre la proposta di riconoscimento di debito al Consiglio, al fine di ricondurre la spesa nell’alveo del bilancio; il quantum da riconoscere, inoltre, non può eccedere i termini della accertata necessità per la rimozione dello stato di pericolo, al precipuo fine di evitare che il ricorso alle procedure di somma urgenza si trasformi da strumento eccezionale in occasione per provvedere, contestualmente, ad interventi eccedenti la necessità contingente.
In ordine al primo quesito, pertanto, il Collegio ritiene che
il rinvio alle modalità previste dall’art. 194, lett. e) per il riconoscimento di detti debiti fuori bilancio non abbia valenza esclusivamente procedimentale ma anche sostanziale: tuttavia, laddove l’iter procedurale seguito dall’amministrazione si sia svolto nell’ambito dei ristretti termini previsti dalla legge, il riferimento alle “modalità” di cui all’art. 194, lett. e), è da intendersi nel senso che è sempre necessaria l’adozione della delibera consiliare con la quale riconoscere la spesa sostenuta per lavori di somma urgenza, purché strettamente attinenti alla rimozione dello stato di pericolo: in tal caso l’utilitas per l’amministrazione coincide con la spesa sostenuta come risultante dalla perizia tecnica e dal corrispettivo concordato consensualmente: ciò in quanto tale modalità procedurale, sia pure derogatoria rispetto all’ordinaria gestione contabile, è stata estesa dal legislatore, con la novella del 2018, all’intera materia dei lavori di somma urgenza e di protezione civile; pertanto, laddove l’attività gestionale sia mantenuta entro l’alveo temporale segnato dalla legge non v’è ragione che giustifichi la decurtazione dell’utile d’impresa.
La violazione di detti termini procedurali, invece, determina l’applicazione della disciplina sostanziale di cui all’art. 194, lett. e), come da consolidata giurisprudenza del giudice contabile, senza che possano rilevare le motivate ragioni del ritardo: in tal caso il riconoscimento opererà esclusivamente nei limiti dell’utilità ricevuta dall’amministrazione mentre per la parte non riconoscibile (l’utile d’impresa) il rapporto obbligatorio intercorrerà tra il privato fornitore e l’amministratore che ha disposto la fornitura.
La ratio della disposizione si rinviene, proprio, nella circostanza che viene assoggettato al regime speciale derogatorio l’intero settore dei lavori di somma urgenza (e non già come in precedenza solamente nei casi di insufficienza di fondi) e, pertanto, anche la cadenza temporale entro la quale ricondurre a bilancio le spese sostenute è fissata dal legislatore in termini precisi, sottratti alle valutazioni discrezionali dell’organo di gestione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 04.06.2019 n. 118).

APPALTIIl debito fuori bilancio reiterato mette a rischio il pareggio.
Se nella pubblica amministrazione il debito fuori bilancio ha assunto dimensioni rilevanti e reiterate in più esercizi finanziari, è presumibile che il fenomeno sia indice dell'incapacità di perseguire una corretta politica di programmazione e gestione finanziaria delle risorse e delle spese (per la sottostima degli stanziamenti di bilancio rispetto alle effettive necessità di spesa), con un inevitabile pregiudizio per i vincoli del pareggio e gli equilibri interni.

La Corte dei conti, del Veneto, con la deliberazione 07.05.2019 n. 103 ha analizzato con rigore la situazione finanziaria di un Comune alla luce del rendiconto per l'esercizio finanziario 2016, da cui sono emersi debiti fuori bilancio che, sommati a quelli già registrati nell'esercizio del 2014, hanno raggiunto l'importo di 150 mila euro.
Una cifra enorme, specie in rapporto alle esigue dimensioni dell'ente, che ha portato il collegio a trasmettere senza indugio gli atti alla procura della sezione regionale, nonché a soffermarsi sulla natura del debito fuori bilancio e sui rimedi approntati dall'ordinamento per farvi fronte.
Il debito fuori bilancio, hanno scritto i giudici, è «un'obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro, assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano il procedimento finanziario della spesa degli enti locali».
La strada del risanamento
Premesso che questa evenienza non può assumere un carattere ricorrente, il collegio rammenta che per ricondurre nell'alveo della regolarità contabile una siffatta obbligazione l'unica via possibile è quella indicata dall'articolo 194 del Tuel (Riconoscimento di legittimità dei debiti fuori bilancio).
Trattandosi di una norma per la disciplina di un istituto avente carattere eccezionale, è fuor di dubbio che la casistica delle ipotesi ivi prescritta va presa alla lettera, essendo tassativa e inderogabile.
L'applicazione dell'articolo 194 è peraltro «subordinata all'accertamento sia dell'utilità pubblica del bene acquisito in relazione alle funzioni e ai servizi di competenza dell'ente, sia dell'arricchimento dell'ente stesso».
Nel contesto descritto, la delibera consiliare ha dunque il compito di:
   • riscontrare e dimostrare che il debito rientra in una delle fattispecie tipizzate dall'articolo 194 del Tuel;
   • accertare e documentare puntualmente se e in che misura sussistano i presupposti dell'utilità e dell'arricchimento;
   • accertare, conseguentemente, se vi sia una parte del debito non sorretta da entrambi questi presupposti, e dunque non riconoscibile (per la quale, ai sensi dell'articolo 191, comma 4, del Tuel, il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la prestazione in favore dell'ente);
   • ricondurre l'obbligazione all'interno della contabilità e del sistema di bilancio dell'ente;
   • individuare le risorse per il finanziamento;
   • accertare le cause che hanno originato l'obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità.
Si ribadisce che l'istituto rappresenta un'eccezione al principio che postula la necessità del previo impegno formale e della copertura finanziaria, fatto questo che giustifica facilmente la previsione dell'invio della delibera consiliare in parola alla Procura regionale della Corte dei conti.
Posto che la formazione di debiti fuori bilancio costituisce un evidente fattore di rischio per gli equilibri di bilancio, ben si comprende la preoccupazione espressa dai giudici per le dimensioni rilevanti e reiterate del fenomeno riscontrato nella gestione finanziaria del Comune. Di qui la censura senza mezzi termini della Sezione veneta e la contestuale raccomandazione di segnalare con tempestività l'insorgenza di questi debiti e del loro riconoscimento, allo scopo di evitare la formazione di ulteriori passività a carico dell'ente, quali ad esempio gli oneri per interessi di mora o spese legali (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.05.2019).
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MASSIMA
Tuttavia, si vuole qui rammentare, innanzitutto, che
il debito fuori bilancio è un'obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro, assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano il procedimento finanziario della spesa degli enti locali.
L'istituto, che ha carattere eccezionale, è disciplinato dall'art. 194 del D.Lgs. n. 267/2000, che prevede, tra l'altro, che tale adempimento vada posto in essere in occasione della ricognizione dello stato di attuazione dei programmi e dell'accertamento degli equilibri generali di bilancio (art. 193, comma 2, del TUEL), nonché nelle altre cadenze periodiche previste dal regolamento di contabilità.
L'elencazione prevista dalla norma contempla una serie di ipotesi, tassative in quanto derogatorie rispetto all'ordinario procedimento di spesa, in cui è possibile procedere al riconoscimento, e tra queste (art. 194, comma 1, lett. e) rientra anche l'acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
L'operatività di quest'ultima norma è dunque subordinata all'accertamento sia dell'utilità pubblica del bene acquisito in relazione alle funzioni ed ai servizi di competenza dell'ente, sia dell'arricchimento dell'ente (che corrisponde al depauperamento patrimoniale sofferto senza giusta causa dal privato contraente ai sensi dell'art. 2041 cc.). L'accertamento della sussistenza di entrambi questi presupposti
, come già più volte ricordato da questa Sezione (cfr. deliberazione 11.09.2009 n. 156 e deliberazione 19.06.2009 n. 107), è obbligatorio e non può essere automaticamente ed implicitamente ricondotto alla semplice adozione della deliberazione di riconoscimento, in quanto vi può essere una parte del debito non riconoscibile ai sensi dell'art. 191, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000.
In questo contesto,
la delibera consiliare ha dunque il compito di:
   - riscontrare e dimostrare che il debito rientra in una delle fattispecie tipizzate dall'art. 194 del TUEL;
   - accertare e documentare puntualmente se ed in che misura sussistano i presupposti dell'utilità e dell'arricchimento;
   - accertare, conseguentemente, se vi sia una parte del debito non sorretta da entrambi questi presupposti, e dunque non riconoscibile (per la quale, ai sensi dell'art. 191, comma 4, del TUEL, il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la prestazione in favore dell'ente);
   - ricondurre l'obbligazione all'interno della contabilità e del sistema di bilancio dell'ente;
   - individuare le risorse per il finanziamento;
   - accertare le cause che hanno originato l'obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità.

In altri termini,
l’art. 194, primo comma, TUEL rappresenta un’eccezione ai principi riguardanti la necessità del preventivo impegno formale e della copertura finanziaria; onde per riportare le ipotesi previste nell’ambito del principio di copertura finanziaria è richiesta la delibera consiliare con la quale viene ripristinata la fisiologia della fase della spesa e i debiti de quibus vengono ricondotti a sistema (cfr. ex multis Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, 6/1c/2005 e sez. contr. Campania parere 23.05.2013 n. 213) mediante l’adozione dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario.
Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è quindi, come detto, l’accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. 289/2002) delle delibere di riconoscimento di debito fuori bilancio. Nella delineata prospettiva interpretativa, la delibera consiliare svolge una duplice funzione, per un verso, tipicamente giuscontabilistica, finalizzata ad assicurare la salvaguardia degli equilibri di bilancio; per l’altro, garantista, ai fini dell’accertamento dell’eventuale responsabilità amministrativo-contabile (cfr. ex multis: Corte dei conti, Sezione Regionale per la Puglia deliberazione 23.10.2014 n. 180 e deliberazione 03.06.2016 n. 122).
Va ricordato, inoltre, che il riferimento ad opera dell'art. 194, comma 1, del TUEL ad adempimenti periodici e temporalmente cadenzati testimonia come l'adempimento in questione, in presenza dei presupposti di legge, costituisca un atto dovuto e vincolato per l'ente, in quanto consente di far emergere eventuali passività insorte nel corso dell'esercizio, in applicazione dei principi di veridicità, trasparenza e pareggio di bilancio, nonché di adottare le misure necessarie al ripristino dell'equilibrio della gestione finanziaria.
La tempestività della segnalazione dell'insorgenza di tali debiti e del loro riconoscimento consente di evitare l'insorgere di ulteriori passività a carico dell'ente, quali, ad esempio, eventuali interessi o spese di giustizia.
Come si è sottolineato in precedenza, la formazione di debiti fuori bilancio costituisce un fattore di rischio per gli equilibri e per la stabilità degli esercizi successivi causa di partite debitorie riferite a quelli precedenti. Nel caso di specie, la spesa riconosciuta per l’esercizio oggetto di scrutinio ammonta a Euro 96.687,19, oltre a quegli € 668,16 di cui ha dato evidenza l’Organo di revisione.
Va da sé, tuttavia, che
quando il fenomeno assume dimensioni rilevanti e reiterate in più esercizi finanziari, è presumibile che gran parte dei debiti fuori bilancio sia riconducibile alla incapacità di porre in essere una corretta politica di programmazione e gestione finanziaria delle risorse e delle spese, alla possibile sottostima degli stanziamenti di bilancio rispetto alle effettive necessità di spesa, ovvero al fine di garantire i vincoli del pareggio e degli equilibri interni.
Per il finanziamento di tali spese, il legislatore pone precisi limiti (art. 193 e 194 del D.Lgs. n. 267/2000). La formazione di debiti fuori bilancio costituisce infatti indice della difficoltà dell’Ente nel governare correttamente i procedimenti di spesa attraverso il rispetto delle norme previste dal TUEL. La necessità di una modifica delle priorità nelle previsioni di spesa è, altresì, dimostrata dalla disposizione di cui all’art. 191, comma 5, TUEL, che vieta, per l’appunto, agli enti che non hanno validamente adottato i provvedimenti di salvaguardia degli equilibri e di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, di assumere impegni e di pagare spese per servizi che non siano obbligatori per legge.

ATTI AMMINISTRATIVIDebiti fuori bilancio da sentenze esecutive, necessario l'intervento della Sezione Autonomie.
Le divergenze dei giudici contabili sulla obbligatorietà o meno del riconoscimento preventivo da parte del consiglio comunale dei debiti fuori bilancio che derivano da sentenze esecutive ovvero la possibilità di poter disciplinare con il proprio regolamento di contabilità casi specifici di pagamento anticipato da parte di altri organi (dirigenti o giunta comunale) ha spinto la Corte dei conti pugliese (deliberazione 15.04.2019 n. 44) a richiedere un intervento della Sezione delle Autonomie.
La richiesta del Comune
Il sindaco di un Comune ha chiesto alla propria sezione regionale della Corte dei conti di poter disciplinare in via autonoma, con il proprio regolamento di contabilità, il pagamento anticipato delle sentenze esecutive prima della delibera consiliare.
Il caso posto all'attenzione riguarda le sentenze esecutive del giudice di pace che, in considerazione degli importi modesti da corrispondere, avrebbe il vantaggio di ridurre le spese rispetto alla procedura prevista dall'articolo 194 del testo unico degli enti locali. Fermo restando, in ogni caso, l'obbligo della trasmissione dei pagamenti al consiglio comunale ai fini del rispetto delle procedure previste dalla normativa.
L'obbligatorio passaggio in consiglio comunale
Una parte della giurisprudenza contabile ha negato che possa essere utilizzata una procedura diversa da quella stabilita dalle disposizioni del testo unico degli enti locali che ha intestato il riconoscimento del debito fuori bilancio alla approvazione preventiva da parte del consiglio, anche se si tratti di sentenze esecutive che, a differenza delle altre ipotesi -lettere b), c), d) ed e) del comma 1 dell'articolo 194 del Tuel– non lasciano alcun margine di discrezionalità da parte del consiglio di poterne riconoscere l'utilità.
È stato, infatti, sostenuto come il valore della deliberazione consiliare non è quello di riconoscere la legittimità del debito, già verificata in sede giudiziale, bensì, da un lato, di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria maturato all'esterno e, dall'altro, di accertare le cause che hanno generato l'obbligo, con le conseguenti eventuali responsabilità (anche mediante l'obbligatorio invio alla procura contabile).
Va, infine, rilevato come la stessa Sezione delle Autonomie (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Ps del 23.04.2018) abbia indicato come il riconoscimento e la copertura finanziaria del debito fuori bilancio spetti, in via esclusiva e non delegabile, alla sola massima assise comunale.
L'apertura sul pagamento prima del consiglio
Altra parte della giurisprudenza contabile (si veda il Quotidiano degli e della Pa del 31.01.2018) ha, invece, consentito la possibilità di adempiere prima della deliberazione del consiglio comunale, motivando sull'assenza di discrezionalità dell'organo di indirizzo politico di valutare l'an e il quantum del debito, poiché l'entità del pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal provvedimento dell'autorità giudiziaria, rappresentando il riconoscimento del debito un atto dovuto. Ma ancora più incisiva appare la posizione della Corte dei conti ligure (parere 22.03.2018 n. 73) che distingue due ipotesi.
La prima si presenta nel caso in cui sussista un pertinente e capiente stanziamento nel bilancio in corso di gestione, in questo caso non si sarebbe in presenza di alcuna situazione patologica tipica del debito fuori bilancio. La seconda ipotesi riguarda, invece, il caso in cui nel bilancio non sussista uno stanziamento corrispondente al tipo di spesa derivante dal provvedimento giurisdizionale o lo stesso non offra la necessaria capienza, con la conseguenza che si è in presenza di una situazione patologica del bilancio. Tuttavia, in quest'ultimo caso, nulla vieterebbe al dirigente o alla giunta comunale di poter procedere attraverso l'esercizio dei poteri di variazione del bilancio al pagamento del debito.
In ogni caso, precisa la Sezione ligure, resta impregiudicato l'obbligo della pronta attivazione e celere definizione del procedimento previsto dall'articolo 194 del Tuel, nonché quello di includere la determinazione relativa al pagamento anticipato nella documentazione da trasmettere alla Procura della Corte dei conti competente.
In considerazione della divisione tra le Sezioni territoriali della Corte, la Sezione pugliese ha rimesso la decisione alla Sezione Autonomie, al fine di chiarire, in via definitiva, l'obbligo del consiglio comunale del previo riconoscimento del debito fuori bilancio da sentenze esecutiva prima del suo pagamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2019).

ATTI AMMINISTRATIVIDebiti fuori bilancio da sentenze esecutive, necessario l'intervento della Sezione Autonomie.
La Sezione regionale di controllo per la Puglia sottopone al Presidente della Corte dei conti la valutazione sull’opportunità di deferire alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni Riunite in sede di controllo la seguente questione: «se, con riferimento al procedimento per il riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. a) TUEL, sia possibile effettuare il pagamento prima della prevista delibera del Consiglio comunale ovvero se quest’utima debba sempre precedere l’attività solutoria».
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Con nota del 13.03.2019 il Sindaco del Comune di Taranto ha formulato una richiesta di parere ex art. 7, comma 8 della l. 05.06.2003, n. 131 in materia di riconoscimento di debiti fuori bilancio. In particolare, premesso che:
   · la Sezione regionale di controllo per la Campania ha ritenuto che «
è stato correttamente affermato (cfr. Corte dei conti - SS.RR. per la Regione Sicilia, parere 11.03.2005 n. 2) che nel caso di debiti derivanti a carico dell’Ente locale da sentenza esecutiva, l’Ente medesimo può procedere al pagamento ancor prima della deliberazione consiliare di riconoscimento, atteso che, in ogni caso, “non potrebbe in alcun modo impedire l’avvio della procedura esecutiva per l’adempimento coattivo del debito” e che, anzi, la prassi seguita dagli enti locali di attendere per il pagamento di quanto dovuto il preventivo riconoscimento della legittimità del debito da parte del consiglio comunale comporta il lievitare degli oneri patrimoniali per interessi legali ed eventuale rivalutazione monetaria, cui vanno aggiunte le spese giudiziali derivanti dalle procedure esecutive, nel caso in cui la predetta detta deliberazione non intervenga in tempi ragionevoli» (parere 10.01.2018 n. 2);
   · anche la Sezione regionale di controllo per la Liguria ha affermato che «
in coerenza con i principi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa e con l’interesse pubblico volto ad evitare inutili sprechi di danaro pubblico, sia possibile per i competenti organi dell’ente locale, nelle ipotesi e con le modalità precisate nel presente pronunciamento, procedere al pagamento dell’obbligazione derivante da un provvedimento giurisdizionale esecutivo anche prima della deliberazione consiliare di riconoscimento. Restano comunque salvi l’obbligo della pronta attivazione e celere definizione del procedimento di cui all’art. 194 TUEL, nonché quello di includere la determinazione relativa al pagamento anticipato nella documentazione da trasmettere alla competente Procura della Corte dei conti ai sensi dell’art. 23 della legge n. 289 del 2002» ((parere 22.03.2018 n. 73);
   · più di recente la Sezione regionale di controllo per la Lombardia ha sostenuto che «
E’ utile, sebbene non sia oggetto del quesito, ma soltanto per completezza espositiva, richiamare il parere 22.03.2018 n. 73 la Sezione della Corte dei Conti per la Liguria con cui ha espresso un orientamento, condiviso da questa Sezione, che ritiene legittimo, anche prima del riconoscimento da parte del Consiglio del debito determinato dalla sentenza, comunque necessario, provvedere al pagamento della somma in alcuni casi espressamente indicati nel parere appena ricordato, al fine di evitare l’aggravarsi della posizione debitoria in capo all’Ente» (parere 20.12.2018 n. 368);
   · l’art. 152 TUEL consente agli enti locali di approvare i regolamenti di contabilità nel rispetto delle norme della parte seconda del TUEL, «da considerarsi come principi generali con valore di limite inderogabile» (comma 4), con l’eccezione di alcune disposizioni (fra cui non figura l’art. 194 TUEL) destinate a non trovare applicazione qualora il regolamento di contabilità dell’ente rechi una differente disciplina;
ha reso nota l’intenzione di disciplinare, a livello di regolamento di contabilità, l’iter di riconoscimento dei debiti fuori bilancio ex art. 194, comma 1, lett. a) TUEL, contemplando il pagamento anticipato, rispetto alla delibera consiliare di riconoscimento, di quelli derivanti da sentenze del giudice di pace.
In particolare, il Comune ha prospettato di prevedere nel citato regolamento –alternativamente e per il caso in cui la prima formulazione «non sia ritenuta legittima»– che:
   a) «le sentenze rientranti nella competenza per valore del Giudice di Pace siano pagate dalla direzione competente prima della scadenza del termine di cui all’art. 14 del d.l. 31.12.1996, n. 669, convertito nella legge 28.02.1997, n. 30, fermo restando da parte del Consiglio comunale, a cui la determinazione di pagamento sarà trasmessa tempestivamente, l’obbligatorio riconoscimento del debito a norma dell’art. 194, comma 1, lett. A), TUEL da deliberare entro l’esercizio finanziario di riferimento dell’avvenuto pagamento»;
   b) «le sentenze rientranti nella competenza per valore del Giudice di Pace siano pagate dalla direzione competente prima della scadenza del termine di cui all’art. 14 del d.l. 31.12.1996, n. 669, convertito nella legge 28.02.1997, n. 30, fermo restando da parte del Consiglio comunale, a cui la determinazione di pagamento sarà trasmessa tempestivamente, l’obbligatorio riconoscimento del debito a norma dell’art. 194, comma 1, lett. A), TUEL da deliberare nel rispetto del predetto termine di legge».
In relazione alle suddette ipotesi regolamentari il Comune ha chiesto il parere della Sezione.
...
2. Passando al merito, è opportuna una sintetica ricostruzione del pertinente quadro normativo e della lettura offertane dal Giudice contabile.
2.1 Viene in primo luogo in rilievo l’art. 194 TUEL (rubricato «Riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio»), il quale, per quanto di interesse in questa sede, prevede (comma 1) che con deliberazione consiliare ex art. 193, comma 2, TUEL o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da: sentenze esecutive (lett. a); copertura di disavanzi di consorzi, aziende speciali e istituzioni, nei limiti ivi specificati (lett. b); ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previsti dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali (lett. c); procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere di pubblica utilità (lett. d); acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 191 TUEL, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza (lett. e).
A sua volta, l’art. 193 TUEL («Salvaguardia degli equilibri di bilancio»), dopo aver sancito l’obbligo per gli enti locali di rispettare durante la gestione e nelle variazioni di bilancio il pareggio finanziario e tutti gli equilibri stabiliti in bilancio per la copertura delle spese correnti e per il finanziamento degli investimenti (comma 1), prevede che, con periodicità stabilita dal regolamento di contabilità e comunque almeno una volta entro il 31 luglio di ciascun anno, l’organo consiliare provvede con delibera a dare atto del permanere degli equilibri generali di bilancio o, in caso di accertamento negativo, ad adottare, contestualmente le misure correttive ivi previste, tra cui «i provvedimenti per il ripiano degli eventuali debiti di cui all’art. 194» (comma 2, lett. b).
Infine, occorre richiamare l’art. 14 del d.l. 31.12.1996, n. 669 (convertito, con modificazioni, nella l. 28.02.1997, n. 30), in base al quale «Le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici non economici e l’ente Agenzia delle entrate - Riscossione completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto» (comma 1).
3. Nell’esercizio della sua funzione consultiva
il giudice contabile ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni sulla tematica del riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, giungendo a conclusioni tra loro non conformi.
3.1
Secondo un primo indirizzo, di cui sono espressione le pronunce richiamate dal Comune istante, nel caso di debiti derivanti da sentenza esecutiva la delibera consiliare varrebbe non già a riconoscere la legittimità del debito, di per sé esistente in virtù della statuizione del giudice, bensì quale strumento attraverso cui il debito viene ricondotto al «sistema di bilancio», con la precipua funzione di salvaguardarne gli equilibri.
A differenza delle ipotesi sub lett. b), c), d) ed e) del comma 1 dell’art. 194 TUEL, per le quali il debito fuori bilancio è oggetto di valutazioni discrezionali più o meno ampie da parte del Consiglio,
di fronte ad un titolo esecutivo l’organo assembleare dell’ente locale non dovrebbe compiere alcuna valutazione, non potendo, in ogni caso, impedire il pagamento del relativo debito.
Di conseguenza,
l’interpretazione logica-sistematica delle norme imporrebbe di «distinguere i debiti derivanti da sentenze esecutive dalle altre ipotesi, consentendo di affermare che per i primi il riconoscimento da parte del Consiglio Comunale svolge una mera funzione ricognitiva, di presa d’atto finalizzata al mantenimento degli equilibri di bilancio, ben potendo gli organi amministrativi, accertata la sussistenza del provvedimento giurisdizionale esecutivo, procedere al relativo pagamento anche prima della deliberazione consiliare di riconoscimento» (Sezioni Riunite per la Regione Siciliana, parere 11.03.2005 n. 2).
Inoltre, «
la prassi seguita dagli enti locali di attendere per il pagamento di quanto dovuto il preventivo riconoscimento della legittimità del debito da parte del consiglio comunale comporta il lievitare degli oneri patrimoniali per interessi legali ed eventuale rivalutazione monetaria, cui vanno aggiunte le spese giudiziali derivanti dalle procedure esecutive, nel caso in cui la predetta detta deliberazione non intervenga in tempi ragionevoli» (Sezione regionale di controllo per la Campania, parere 10.01.2018 n. 2).
Nella stessa prospettiva si colloca
il parere della Sezione regionale di controllo per la Liguria (parere 22.03.2018 n. 73), che distingue l’ipotesi in cui, in relazione all’obbligazione cui si riferisce la statuizione giurisdizionale, sussista un pertinente e capiente stanziamento nel bilancio in corso di gestione da quella in cui tale stanziamento sia assente o incapiente.
Nel primo caso, «
(…) premesso che le obbligazioni giuridiche derivanti da provvedimenti giudiziari esecutivi si presentano come obbligazioni che si perfezionano senza il concorso della volontà dell’amministrazione, occorre notare che in fattispecie di questo genere non si è in presenza di alcuna situazione patologica né nel sistema di bilancio esistente, visto che già di per sé reca la copertura finanziaria per la nuova spesa, né nell’impegno contabile.
Sotto questo secondo profilo si osserva, infatti, che,
come è stato tradotto in diritto positivo nel nuovo ordinamento contabile, la registrazione di un impegno di spesa può avvenire soltanto dal momento in cui l’obbligazione a carico dell’ente è giuridicamente perfezionata (cfr. punto 5.1 del già menzionato principio applicato della contabilità finanziaria di cui all’allegato 4/2). Perciò non può rilevarsi un’anomalia nell’assunzione dell’impegno a seguito dell’obbligazione giuridica che sorge e si perfeziona per effetto del provvedimento del giudice (…)
(…) anche in tali circostanze, il procedimento che culmina con la deliberazione consiliare di riconoscimento del debito continua a rappresentare la via ordinaria da seguire, che il legislatore ha evidentemente scelto di prescrivere con il richiamo anche alle sentenze esecutive, in considerazione della possibile, anche se non necessaria, presenza di elementi di irregolarità o di anomalie negli atti o fatti sottesi alla controversia giudiziale.
Ove, però, tale strada si riveli non tempestivamente e utilmente praticabile, gli amministratori o funzionari competenti potranno comunque, al verificarsi delle condizioni descritte, ugualmente attivarsi per il pagamento del debito, salvo l’obbligo per i medesimi di adoperarsi contemporaneamente per la definizione della deliberazione consiliare di riconoscimento.
Negare tale possibilità, nei casi in cui costituisce l’unico rimedio per evitare maggiori aggravi di spesa per l’ente, condurrebbe questa Sezione a privilegiare un formalismo giuridico che si appalesa all’evidenza non giustificato. (…) infatti, la sottoposizione della fattispecie di spesa da provvedimento giurisdizionale esecutivo all’esame del Consiglio comunale in un momento successivo al pagamento del debito, lascia inalterati i poteri e i margini di valutazione che competono all’organo nell’ambito della deliberazione di riconoscimento e che potrà esercitare con uguali modalità e, soprattutto, con pari efficacia e rilevanza
».
Nella seconda ipotesi, ovvero quella in cui nel bilancio non sussista uno stanziamento corrispondente al tipo di spesa derivante dal provvedimento giurisdizionale o lo stesso non offra la necessaria capienza,
si è in presenza di una situazione patologica del bilancio; ciononostante, sempre sul presupposto della non avvenuta tempestiva convocazione dell’organo consiliare, le disponibilità finanziarie, necessarie per procedere al pagamento del debito ed evitare aggravi di spesa, potrebbero essere individuate attraverso l’esercizio dei poteri di variazione del bilancio spettanti in via ordinaria agli altri organi dell’ente.
Per la Sezione ligure «
Tale soluzione, d’altronde, si rivela pienamente in linea con l’attuale conformazione degli schemi contabili armonizzati degli enti locali, in cui si può distinguere, anche concettualmente, un bilancio cd. “decisionale”, corrispondente al bilancio di previsione per missioni e programmi sottoposto all’approvazione del Consiglio comunale (l’unità di voto è il programma), e un bilancio cd. “gestionale”, ovvero il Piano esecutivo di gestione (PEG) elaborato dalla Giunta, nel quale le previsioni del primo documento vengono ulteriormente articolate».
In definitiva, in coerenza con i principi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, la Sezione ligure ritiene «possibile per i competenti organi dell’ente locale, nelle ipotesi e con le modalità precisate nel presente pronunciamento, procedere al pagamento dell’obbligazione derivante da un provvedimento giurisdizionale esecutivo anche prima della deliberazione consiliare di riconoscimento. Restano comunque salvi l’obbligo della pronta attivazione e celere definizione del procedimento di cui all’art. 194 TUEL, nonché quello di includere la determinazione relativa al pagamento anticipato nella documentazione da trasmettere alla competente Procura della Corte dei conti ai sensi dell’art. 23 della legge n. 289 del 2002».
3.2
Un secondo indirizzo è stato espresso anche di recente da questa Sezione (parere 22.02.2018 n. 29). In dettaglio, è stato osservato che:
   · in mancanza di una disciplina specifica per le sentenze esecutive, non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 193, comma 2, lett. b), TUEL, ai sensi del quale «i provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art. 194» sono assunti dall’organo consiliare contestualmente all’accertamento negativo del permanere degli equilibri di bilancio;
   · il valore della deliberazione consiliare non è quello di riconoscere la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì, da un lato, di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria maturato all’esterno e, dall’altro, di accertare le cause che hanno generato l’obbligo, con le conseguenti eventuali responsabilità; a tale funzione di accertamento è connessa la previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti delle delibere di riconoscimento di debito fuori bilancio (art. 23, comma 5, l. 27.12.2002, n. 289);
   · la necessità del riconoscimento consiliare della legittimità del debito fuori bilancio appare rafforzata dalla disposizione del d.lgs. 23.06.2011, n. 118 (art. 73) che, con formulazione analoga a quella dell’art. 194, comma 1, TUEL, disciplina il riconoscimento, mediante legge, dei debiti fuori bilancio delle regioni;
   · la previsione legislativa del riconoscimento ad opera dell’organo consiliare trova ulteriore specificazione nella misura di carattere sanzionatorio dell’art. 188, comma 1-quater, TUEL, ai sensi del quale agli enti locali che presentino, nell’ultimo rendiconto deliberato, debiti fuori bilancio, ancorché da riconoscere, nelle more della variazione di bilancio che dispone il riconoscimento e il finanziamento del debito fuori bilancio, è fatto divieto di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge;
   · pertanto, «
nel caso di sentenze esecutive e di pignoramenti, sussiste, l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio comunale per il riconoscimento del debito, in modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali (Sezione Regionale per la Puglia, deliberazione 03.06.2016 n. 122, parere 15.09.2016 n. 152.
A conclusioni analoghe è pervenuto il parere 09.05.2018 n. 66 della Sezione regionale di controllo per la Campania, secondo cui «
in mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le "sentenze esecutive", non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 194 Tuel ai sensi del quale il "riconoscimento" del debito avviene, prima del pagamento, con atto del Consiglio comunale. Bisogna infatti constatare che in tutte le ipotesi previste dall'art. 194 Tuel la delibera del Consiglio serve per riportare all’interno del sistema del bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato al di fuori delle normali procedure di programmazione e di gestione delle spese (cfr.
parere 29.04.2009 n. 22 di questa Sezione)».
In precedenza, nello stesso senso si era espressa la Sezione di controllo per la Regione Siciliana (parere 29.04.2014 n. 55, parere 30.10.2014 n. 189 e parere 03.02.2015 n. 80). In particolare, il parere 03.02.2015 n. 80 ha affermato che:
   · sussiste «la necessità, per tutte le ipotesi contemplate dall’art. 194 del Tuel, della preventiva e tempestiva deliberazione consiliare finalizzata a ricondurre l’obbligazione all’interno della contabilità dell’ente, ad individuare le risorse per farvi fronte, ad accertare la sussumibilità del debito all’interno di una delle fattispecie tipizzate dalla norma, ed, infine, ad individuare le cause che hanno originato l’obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità»;
   · il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’organo consiliare risulta necessario anche nell’ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte che, accertando il diritto di credito del terzo, rende agevole la riconduzione al sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza finanziaria maturato all’esterno di esso: «Anche in questi casi, infatti, l’avvio del procedimento di spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque, già sul piano logico, una positiva valutazione dell’Organo consiliare sulla sussistenza dei presupposti di riconoscibilità, sulle cause ed eventuali responsabilità connesse, nonché sulle misure correttive tese ad evitare il reiterarsi delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale»;
   · le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del Consiglio comunale non sono circoscritte alle scelte discrezionale, ma si estendono anche ad attività e procedimenti di spesa di natura obbligatoria, che transitano necessariamente attraverso l’atto programmatorio generale e di natura autorizzatoria rappresentato dal bilancio di previsione;

   · «Rispetto a tale complesso di autorizzazioni di spesa, l’attività gestionale, affidata dalla legge ai dirigenti, rappresenta espressione di un momento necessariamente successivo e, quindi, inevitabilmente conseguenziale rispetto alla decisione dell’Organo cui è intestata la responsabilità politica dell’azione amministrativa. La fase gestionale, di natura prevalentemente esecutiva, non potrebbe dunque validamente allocarsi in un segmento temporale anteriore rispetto all’attività decisionale del Consiglio, senza che ne risulti sovvertita la fondamentale distinzione tra attività di indirizzo politico ed attività gestionale. L’eventuale previsione in bilancio di uno specifico stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e quant'altro non elimina perciò la necessità che il Consiglio deliberi anche sulla riconoscibilità dei singoli debiti formatisi al di fuori delle norme giuscontabili (pr. cont. 1-105; Sezione controllo per la Basilicata, parere 27.03.2007 n. 6). In conclusione, anche in tale fattispecie, l’eventuale pretermissione o postergazione della procedura consiliare vanificherebbe la disciplina di garanzia prevista dall’ordinamento e la correlata fase di controllo politico amministrativo, nonché la correlata verifica da parte della Procura regionale della Corte dei conti ex art. 23, comma 5, della L. n. 289 del 2002»;
   · quanto al rischio di azioni esecutive, il termine di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo, previsto dall’art. 14, del d.l. n. 669/1996 per la conclusione delle procedure di esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro, è sufficientemente ampio per provvedere agli adempimenti di cui all'art. 194 TUEL, alla luce del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.
4. Merita, inoltre, ricordare che di recente la Sezione delle Autonomie –pronunciandosi su una richiesta di parere riguardante le modalità di copertura finanziaria dei debiti fuori bilancio e, in particolare, di imputazione contabile della relativa spesa in funzione della scadenza dell’obbligazione giuridica- ha affermato, tra gli altri, il seguente principio di diritto: «
Ai fini di una corretta gestione finanziaria, l’emersione di un debito non previsto nel bilancio di previsione deve essere portata tempestivamente al Consiglio dell’ente per l’adozione dei necessari provvedimenti, quali la valutazione della riconoscibilità, ai sensi dell’art. 194, comma 1, del TUEL ed il reperimento delle necessarie coperture secondo quanto previsto dall’art. 193, comma 3, e 194, commi 2 e 3, del medesimo testo unico» (deliberazione 23.10.2018 n. 21).
5. Questa Sezione, in considerazione della rilevanza della questione trattata e del contrasto fra le soluzioni prospettate dalle Sezioni regionali di controllo, ritiene opportuno che la stessa sia sottoposta all’esame del Presidente della Corte dei conti per la valutazione sull’opportunità di deferirla alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni Riunite in sede di controllo, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 07.12.2012, n. 213.
La connessione del quesito posto alla Sezione rispetto alla questione in esame impone la sospensione della pronuncia sul medesimo.
P.Q.M.
la Sezione regionale di controllo per la Puglia sottopone al Presidente della Corte dei conti la valutazione sull’opportunità di deferire alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni Riunite in sede di controllo, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, la seguente questione: «se, con riferimento al procedimento per il riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. a) TUEL, sia possibile effettuare il pagamento prima della prevista delibera del Consiglio comunale ovvero se quest’utima debba sempre precedere l’attività solutoria».
La Sezione sospende la pronuncia sul quesito formulato dal Sindaco del Comune di Taranto in attesa della pronuncia di orientamento sopra richiesta (Corte dei Conti, sez. controllo Puglia, deliberazione 15.04.2019 n. 44).

ATTI AMMINISTRATIVINel caso di omessa creazione del fondo contenzioso, ciò che rileva ai fini della determinazione delle iniziative da assumere per la copertura delle spese derivanti da una sentenza di condanna è l’emissione di tale pronuncia, dal momento che l’esistenza di una sentenza esecutiva determina in capo all’Ente l’obbligo di attivare la procedura di riconoscimento di un debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. a) del T.U.E.L..
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Nel periodo antecedente all’emissione della sentenza, il principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria (cfr. allegato 4/2, punto 5.2 lett. h), del D.Lgs. n. 118/2011), in presenza di contenzioso di importo particolarmente rilevante, consente di ripartire l'accantonamento annuale, in quote uguali, tra gli esercizi considerati nel bilancio di previsione o a prudente valutazione dell'Ente.
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Il termine di 120 previsto dall’art. 14 del D.L. n. 669 del 1996 preclude al creditore la sola notifica dell’atto di precetto per avviare un’azione esecutiva nei confronti dell’Ente inadempiente, per cui, dal momento della notifica della sentenza munita di formula esecutiva sorge comunque in capo al debitore l’obbligo di avviare la procedura di riconoscimento del relativo debito fuori bilancio nel cui ambito l’Ente deve individuare le risorse necessarie alla copertura della spesa, senza poter ricorrere alla dismissione di un immobile dal momento che i proventi da alienazione di beni patrimoniali disponibili non possono avere destinazione diversa da quelle indicate negli artt. 1, comma 443, della legge di stabilità 2013 e 193, comma 3, del TUEL, come modificato dall'art. 1, comma 444, della legge di stabilità 2013, salvo i casi contemplati dal TUEL in materia di dissesto (art. 255) e di accesso al fondo di rotazione di cui all'art. 243-ter e per le finalità di cui all'art. 243-bis del TUEL, casi nei quali detti proventi concorrono a finanziare l'intera massa passiva.
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Il Sindaco del Comune di Borgofranco d’Ivrea (TO), dopo aver premesso che, in occasione di verifiche propedeutiche all’elaborazione del bilancio di previsione 2019/2021, è emersa per l’Ente la necessità di accantonare una cifra significativa al fondo contenzioso con riferimento ad un giudizio instaurato contro lo stesso Comune nell’anno 2016, chiede:
   - se è possibile stanziare un congruo accantonamento nel redigendo bilancio di previsione in più esercizi (2019-2021), nonché
   - se è possibile vendere un immobile e accantonare l’entrata a fondo contenzioso e, infine,
   - se, nel caso la sentenza esecutiva di condanna fosse pronunciata nel periodo ottobre-dicembre 2019, avendo 120 giorni di tempo per pagare, un fondo contenzioso con un accantonamento di risorse di bilancio delle annualità 2019 e 2020 sarebbe considerato congruo.
...
Ciò posto, si rappresenta che il D.Lgs. n. 118 del 2011, nel disciplinare l’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli Enti locali e dei loro organismi, per quel che rileva ai fini dell’esame del quesito proposto, all’allegato n. 4/2, avente ad oggetto “Principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria”, prevede al punto 5.2, lettera h: “
nel caso in cui l'ente, a seguito di contenzioso in cui ha significative probabilità di soccombere, o di sentenza non definitiva e non esecutiva, sia condannato al pagamento di spese, in attesa degli esiti del giudizio, si è in presenza di una obbligazione passiva condizionata al verificarsi di un evento (l'esito del giudizio o del ricorso), con riferimento al quale non è possibile impegnare alcuna spesa. In tale situazione l'ente è tenuto ad accantonare le risorse necessarie per il pagamento degli oneri previsti dalla sentenza, stanziando nell'esercizio le relative spese che, a fine esercizio, incrementeranno il risultato di amministrazione che dovrà essere vincolato alla copertura delle eventuali spese derivanti dalla sentenza definitiva. A tal fine si ritiene necessaria la costituzione di un apposito fondo rischi […omissis…]. In presenza di contenzioso di importo particolarmente rilevante, l'accantonamento annuale può essere ripartito, in quote uguali, tra gli esercizi considerati nel bilancio di previsione o a prudente valutazione dell'ente. Gli stanziamenti riguardanti il fondo rischi spese legali accantonato nella spesa degli esercizi successivi al primo, sono destinati ad essere incrementati in occasione dell'approvazione del bilancio di previsione successivo, per tenere conto del nuovo contenzioso formatosi alla data dell'approvazione del bilancio. […omissis…]. L'organo di revisione dell'ente provvede a verificare la congruità degli accantonamenti”.
Dal predetto principio, citato in parte dallo stesso Comune istante, emerge come l’accantonamento di risorse per il pagamento degli oneri previsti da una sentenza di condanna sia necessario al fine di preservare gli equilibri di bilancio atteso che “una delle cause del rischio di squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario è rappresentata da sentenze che determinano per l’ente l’insorgere di oneri di rilevante entità finanziaria e che il bilancio non riesce ad affrontare con risorse disponibili nell’anno o nel triennio di riferimento del bilancio (art. 193 TUEL)” (cfr. parere 27.09.2017 n. 238 della Sezione regionale di controllo per la Campania).
Da tale punto di vista, la Sezione regionale di controllo per la Liguria, con deliberazione 20.06.2018 n. 103 (citata dallo stesso Ente richiedente), ha evidenziato che, in presenza di contenziosi di ingente valore, l’ente deve valutare il grado di possibilità/probabilità/quasi certezza dei medesimi, ai fini di procedere ai necessari accantonamenti per evitare che gli importi derivanti dalle relative sentenze di condanna siano tali da minare gli equilibri di bilancio. Tali accantonamenti devono, necessariamente, essere già posti in essere nel corso del giudizio di primo grado e, soprattutto, prima della sentenza di condanna la quale, essendo de iure esecutiva, non rientra più tra le fonti delle c.d. passività potenziali, ma tra quelle dei debiti da riconoscere fuori bilancio, in assenza di una specifica copertura finanziaria.
Ed è questa la fattispecie oggetto della richiesta di parere formulata dal Comune di Borgofranco d’Ivrea, ovvero viene prospettata la condizione di un Ente che prevede di essere destinatario a breve di una sentenza di condanna di ingente importo rispetto alla capacità finanziaria dell’Ente stesso, con riferimento ad un contenzioso iniziato in anni pregressi e per il quale non sono state accantonate risorse da impegnare in caso di soccombenza.
Fermo restando quanto sancito dal predetto principio indicato al punto 5.2., lett. h), dell’allegato 4/2 del D.Lgs. n. 118 del 2011 in ordine alla necessità di creare (o incrementare) il “fondo rischi spese legali” (di seguito anche: fondo contenzioso) già al momento del verificarsi di un nuovo contenzioso, nel caso in esame ciò che rileva ai fini della determinazione delle iniziative da assumere per la copertura delle spese derivanti da una sentenza di condanna è proprio il momento di emissione di tale pronuncia, dato che l’esistenza di una sentenza esecutiva determina in capo all’Ente l’obbligo di attivare la procedura di riconoscimento di un debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. a), del T.U.E.L.
Tale aspetto assume valore dirimente per la formulazione del parere richiesto dal Comune di Borgofranco d’Ivrea che, per la situazione ipotizzata, chiede se è possibile stanziare un congruo accantonamento nel redigendo bilancio di previsione in più esercizi (2019-2021), nonché se è possibile vendere un immobile e accantonare l’entrata a fondo contenzioso e, infine, se, nel caso la sentenza esecutiva di condanna fosse pronunciata nel periodo ottobre-dicembre 2019, avendo 120 giorni di tempo per pagare, un fondo contenzioso con un accantonamento di risorse di bilancio delle annualità 2019 e 2020 sarebbe considerato congruo.
Ebbene, fino all’emissione della sentenza esecutiva l’Ente, al fine di preservare anche in prospettiva gli equilibri di bilancio, è tenuto ad accantonare le risorse necessarie per sostenere le spese derivanti dalla condanna. Sul punto, la Sezione delle autonomie, con deliberazione 23.06.2017 n. 14, ha affermato che “
particolare attenzione deve essere riservata alla quantificazione degli altri accantonamenti a fondi, ad iniziare dal Fondo contenzioso, legato a rischi di soccombenza su procedure giudiziarie in corso. Risulta essenziale procedere ad una costante ricognizione e all’aggiornamento del contenzioso formatosi per attestare la congruità degli accantonamenti, che deve essere verificata dall’Organo di revisione. Anche in questo caso, la somma accantonata non darà luogo ad alcun impegno di spesa e confluirà nel risultato di amministrazione per la copertura delle eventuali spese derivanti da sentenza definitiva, a tutela degli equilibri di competenza nell’anno in cui si verificherà l’eventuale soccombenza”.
In ordine alla possibilità di stanziare un congruo accantonamento nel redigendo bilancio di previsione in più esercizi, il menzionato principio (punto 5.2., lett. h) dell’allegato 4/2 del D.Lgs. n. 118) prevede espressamente che: “In presenza di contenzioso di importo particolarmente rilevante, l'accantonamento annuale può essere ripartito, in quote uguali, tra gli esercizi considerati nel bilancio di previsione o a prudente valutazione dell'ente”, per cui l’Ente ha la possibilità di stanziare le risorse necessarie a sostenere le spese derivanti da una probabile condanna di rilevante importo ripartendo gli accantonamenti negli anni oggetto del bilancio di previsione.
Qualora, tuttavia, la sentenza esecutiva dovesse essere emessa prima che l’Ente effettui l’accantonamento totale delle risorse, subentra l’obbligo di avviare le procedure di riconoscimento del debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194 del T.U.E.L. con il conseguente obbligo di adottare i provvedimenti per il ripiano del debito fuori bilancio secondo le modalità indicate dagli artt. 193 e 194 del T.U.E.L.
Sul punto, la Sezione delle autonomie, con deliberazione 23.10.2018 n. 21 ha precisato che “
Ai fini di una corretta gestione finanziaria, l’emersione di un debito non previsto nel bilancio di previsione deve essere portata tempestivamente al Consiglio dell’ente per l’adozione dei necessari provvedimenti, quali la valutazione della riconoscibilità, ai sensi dell’art. 194 comma 1, del TUEL ed il reperimento delle necessarie coperture secondo quanto previsto dall’art. 193 comma 3, e 194, commi 2 e 3, del medesimo testo unico. Gli impegni di spesa per il pagamento dei debiti fuori bilancio riconosciuti e già scaduti devono essere imputati all’esercizio nel quale viene deliberato il riconoscimento. Per esigenze di sostenibilità finanziaria, con l’accordo dei creditori interessati, è possibile rateizzare il pagamento dei debiti riconosciuti in tre anni finanziari compreso quello in corso, ai sensi dell’art. 194, comma 2, del TUEL, a condizione che le relative coperture, richieste dall’art. 193, comma 3, siano puntualmente individuate nella delibera di riconoscimento, con conseguente iscrizione, in ciascuna annualità del bilancio, della relativa quota di competenza secondo gli accordi del piano di rateizzazione convenuto con i creditori. Nel caso in cui manchi un accordo con i creditori sulla dilazione di pagamento, la spesa dovrà essere impegnata ed imputata tutta nell’esercizio finanziario in cui il debito scaduto è stato riconosciuto, con l’adozione delle conseguenti misure di ripiano”.
Queste sono, pertanto, le disposizioni che l’Ente deve applicare nel momento in cui viene emessa a suo carico una sentenza esecutiva, per cui deve tempestivamente adoperarsi per individuare le risorse per assicurare adeguata copertura delle relative spese, che potrà reperire da fondi già accantonati, ovvero tramite i rimedi previsti dai predetti articoli 193 e 194 del T.U.E.L., ferma restando la necessità di assicurare forme di copertura credibili, sufficientemente sicure, non arbitrarie o irrazionali.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha ripetutamente evidenziato la sostanziale diversità esistente tra la fattispecie di debito derivante da sentenze esecutive e le altre previste dall’art. 194 TUEL, osservando come, mentre nel caso di sentenza esecutive di condanna il Consiglio comunale non ha alcun margine di discrezionalità nel valutare l’an e il quantum del debito, poiché l’entità del pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli altri casi descritti dall’art. 194 del T.U.E.L. l’organo consiliare esercita un ampio apprezzamento discrezionale (cfr. ex multis, SS.RR. sentenza 27.12.2007 n. 12/2007/QM).
A fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo, il valore della delibera consiliare non è quello di riconoscere la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso.
Nel contempo, si evidenzia che
la procedura di riconoscimento consiliare ex art. 194 del T.U.E.L. del debito fuori bilancio derivante da una sentenza esecutiva è comunque necessaria anche qualora il pagamento del debito avvenisse utilizzando uno specifico fondo presente in bilancio al fine di non vanificare la disciplina di garanzia prevista dall’ordinamento, impendendo sia il controllo previsto dalla norma citata da parte del Consiglio comunale che la verifica da parte della Procura della Corte dei conti ex art 23, comma 5, della legge n. 289 del 2002 (cfr. Sezione regionale di controllo per la Campania, parere 08.11.2017 n. 249).
In ordine, poi, alla prospettata ipotesi di poter sostenere le spese di condanna utilizzando un fondo contenzioso realizzato con un accantonamento di risorse di bilancio delle annualità 2019 e 2020 qualora la sentenza esecutiva di condanna fosse pronunciata nel periodo ottobre-dicembre 2019 sulla base della considerazione che l’Ente avrebbe 120 giorni di tempo per pagare, questa Sezione ritiene non corretta la soluzione prospettata in quanto fondata sull’erroneo presupposto di considerare il predetto termine di 120 giorni un termine che dilazionerebbe la scadenza dell'obbligazione derivante dalla sentenza di condanna.
Si premette che l’art. 14 del decreto legge 31.12.1996 n. 669, convertito con modificazioni dalla legge 28.02.1997 n. 30, prevede che “
Le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici non economici e l'ente Agenzia delle entrate - Riscossione completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto”.
Su tale norma si è pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 142 del 1998 con la quale, nell’affermare l’infondatezza di una questione di legittimità costituzionale del disposto normativo in esame, ha affermato che “la disposizione denunciata, accordando alle Amministrazioni statali e agli enti pubblici non economici, attraverso il differimento dell'esecuzione, uno "spatium adimplendi" per l'approntamento dei mezzi finanziari occorrenti al pagamento dei crediti azionati, persegue lo scopo di evitare il blocco dell'attività amministrativa derivante dai ripetuti pignoramenti di fondi, contemperando in tal modo l'interesse del singolo alla realizzazione del suo diritto con quello, generale, ad una ordinata gestione delle risorse finanziarie pubbliche”.
Dal testo della norma e dall’interpretazione formulata dalla Corte Costituzionale emerge come il termine in discussione precluda al creditore la sola notifica dell’atto di precetto per avviare un’azione esecutiva nei confronti dell’Ente inadempiente, per cui, dal momento della notifica della sentenza munita di formula esecutiva sorge comunque in capo al debitore l’obbligo di pagare, con il conseguente onere di avviare la procedura di riconoscimento del relativo debito fuori bilancio nel cui ambito l’Ente deve individuare le risorse necessarie alla copertura della spesa nei termini prima enunciati.
Con riguardo, infine, alla prospettata possibilità di vendere un immobile per accantonare l’entrata a fondo contenzioso, si evidenzia che l’art. 1, comma 443, della Legge 24.12.2012 n. 228 (legge di stabilità per il 2013) prevede che “in applicazione del secondo periodo del comma 6 dell'articolo 162 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, i proventi da alienazioni di beni patrimoniali disponibili possono essere destinati esclusivamente alla copertura di spese di investimento ovvero, in assenza di queste o per la parte eccedente, per la riduzione del debito”.
Il comma 444 dell’art. 1 della medesima legge ha poi integrato il testo del comma 3 dell’art. 193 del T.U.E.L. che, nell’attuale formulazione, prevede che “ai fini del comma 2 [ovvero l’onere dell’organo consiliare, in caso di accertamento negativo del permanere degli equilibri generali di bilancio, di provvedere ad adottare, tra gli altri, i provvedimenti per il ripiano dei debiti fuori bilancio di cui all’art. 194 del T.U.E.L.], fermo restando quanto stabilito dall'art. 194, comma 2, possono essere utilizzate per l'anno in corso e per i due successivi le possibili economie di spesa e tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle con specifico vincolo di destinazione, nonché i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento a squilibri di parte capitale”.
Sul tema è intervenuta la Sezione delle autonomie che, con deliberazione 20.05.2013 n. 14, ha affermato che “
I proventi da alienazione di beni patrimoniali disponibili non possono avere destinazione diversa da quelle indicate negli artt. 1, comma 443, della legge di stabilità 2013 e 193, comma 3, del TUEL, come modificato dall'art. 1, comma 444 della legge di stabilità 2013, salvo i casi contemplati dal TUEL in materia di dissesto (art. 255) e di accesso al fondo di rotazione di cui all'art. 243-ter e per le finalità di cui all'art. 243-bis del TUEL, casi nei quali detti proventi concorrono a finanziare l'intera massa passiva”.
Conclusivamente, pertanto,
deve escludersi la possibilità di utilizzare risorse derivanti dalla dismissione di beni patrimoniali disponibili al di fuori delle ipotesi indicate dalla Sezione delle autonomie con la predetta deliberazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 06.02.2019 n. 8).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non appare legittimo che il regolamento di contabilità possa contenere una disposizione che consenta di riconoscere debiti fuori bilancio determinati da una sentenza del giudice di pace, anche se di modestissimo importo, in assenza di una norma di legge che permetta al regolamento di contabilità di introdurre una disciplina che deroghi rispetto a quanto previsto dall'art 194, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 267/2000.
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Il Sindaco del Comune di Pavia con la nota sopraindicata ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto la disciplina relativa al riconoscimento dei debiti fuori bilancio in conseguenza di una sentenza di condanna emessa dal giudica di pace che ha annullato un verbale di accertamento contenente sanzioni al cds.
In particolare il Sindaco chiede: “in conseguenza di condanne alla rifusione delle spese legali ed alla restituzione di quanto già pagato dal contravventore, disposte con sentenze (esecutive) del giudice di pace, a seguito dell'impugnazione di sanzioni comminate per violazioni al codice della strada, questo Ente ha finora fatto ricorso alla procedura di cui all'articolo 194" del D.Lgs. n. 267/2000 per il riconoscimento di debiti fuori bilancio.
Si tratta, nella quasi totalità dei casi, di somme molto modeste, anche dell'ordine di poche decine di euro.
E' evidente che, anche in questi casi, almeno in linea di principio, le emergenti obbligazioni non erano previste né quantificabili in precedenza e che occorre, pertanto, ricondurle al complessivo sistema del bilancio pubblico. E' evidente che resta sempre ferma resta la problematica relativa all'accertamento di eventuali profili di responsabilità. E' altrettanto evidente, però, che tali situazioni non comportano di per sé il recupero degli equilibri di bilancio in senso sostanziale né la destinazione di speciali risorse.
Nondimeno la trattazione da parte del Consiglio comunale delle relative fattispecie bagatellari appare oltremodo incongruente ed asimmetrica rispetto al sistema complessivo, fosse anche in base ad un elementare principio di economicità dell'attività amministrativa e di buona amministrazione.
Si chiede pertanto di sapere se e, in caso di risposta positiva, con quali cautele possano ricondursi tali fattispecie in altro ambito, tenuto conto che l'accantonamento nel fondo rischi contenzioso di per sé non consente di impegnare e pagare spese di sorta. Si potrebbe, per esempio, prevedere, attraverso specifica disposizione del regolamento di contabilità, una informativa periodica al Consiglio comunale ed anche alla stessa Corte dei Conti sulle determinazioni di rimborso adottate, in modo da non pregiudicare, in ogni caso, l'eventuale esercizio dell'azione di responsabilità.
In sintesi l’Istante chiede se sia possibile, non fosse che per ragioni di economia procedimentale, eliminare il passaggio consiliare per il riconoscimento del debito fuori bilancio allorquando si tratta di somme modeste e le stesse possano essere soddisfatte attingendo al fondo rischi per il contenzioso, prevedendo tuttavia una regolamentazione che informi il Consiglio Comunale e venga informata la Corte dei Conti per l’accertamento di eventuali responsabilità.
...
La Sezione comprende le osservazioni critiche del Sindaco in ordine alla competenza del consiglio comunale per il riconoscimento di un debito derivante da una sentenza di condanna alla restituzione di poche centinaia di euro a causa dell’annullamento di verbali di accertamento per violazioni al c.d.s. Tale procedura non pare ,a giudizio dell’Istante rispettosa del principio di economia procedimentale .
Il tenore letterale della norma, tuttavia, non consente un’interpretazione diversa da quella già espressa con orientamento costante dalle diverse sezioni della Corte. L’art. 194 del D.Lgs. n. 267/2000 individua, in modo tassativo, l’ambito e le procedure per riconoscere la legittimità dei debiti fuori bilancio.
L’ente in presenza di una sentenza esecutiva (o altro provvedimento esecutivo) è tenuto comunque procedere al tempestivo riconoscimento del debito, ricorrendone evidentemente i presupposti di legge ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. a), e consentire, pertanto, alla Procura regionale della Corte dei conti di verificare la sussistenza di una possibile ipotesi di responsabilità erariale.
Secondo consolidata giurisprudenza della Corte dei conti,
il valore della delibera del Consiglio non è quello di riconoscere la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì di ricondurre “al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso. In tale prospettiva l’art. 194, comma 1, del TUEL rappresenta un’eccezione ai principi riguardanti la necessità del preventivo impegno formale e della copertura finanziaria; onde per riportare le ipotesi previste nell’ambito del principio di copertura finanziaria è, dunque, richiesta la delibera consiliare con la quale viene ripristinata la fisiologia della fase della spesa ed i debiti de quibus vengono ricondotti al sistema (in tal senso Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, 6/1c/2005, cit.) con l’adozione dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario.
Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è l’accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. 289/2002) delle delibere di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Nella prospettiva interpretativa delineata,
la Giurisprudenza unanime della Corte ha sancito che la delibera consiliare svolge una duplice funzione, per un verso giuscontabilistica, finalizzata ad assicurare la salvaguardia degli equilibri di bilancio; e per l’altro garantista, ai fini dell’accertamento dell’eventuale responsabilità amministrativo-contabile.
In base alle considerazioni esposte,
sussiste, nel caso di sentenze esecutive l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio per il riconoscimento del debito, in modo da impedire il maturare d’interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali. La correttezza di tale condotta è confermata dal punto 103 del principio contabile n. 2.
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali dell’art. 194 TUEL. che garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale, né procedere al pagamento di tale tipologia di debiti prima dell’adozione della delibera consiliare; tale impostazione non muta neanche qualora vi sia già una disponibilità finanziaria sui pertinenti capitoli di bilancio.

E’ utile, sebbene non sia oggetto del quesito, ma soltanto per completezza espositiva, richiamare il parere 22.03.2018 n. 73 la Sezione della Corte dei Conti per la Liguria con cui ha espresso un orientamento, condiviso da questa Sezione, che ritiene legittimo, anche prima del riconoscimento da parte del Consiglio del debito determinato dalla sentenza, comunque necessario, provvedere al pagamento della somma in alcuni casi espressamente indicati nel parere appena ricordato, al fine di evitare l’aggravarsi della posizione debitoria in capo all’Ente.
In caso di contenzioso giudiziario, l’ente ha l’onere di accantonare le risorse necessarie per tutelarsi, quantomeno sotto il profilo finanziario, da una probabile soccombenza ed evitare o neutralizzare gli effetti sfavorevoli che ne potrebbero derivare; tuttavia, anche la sussistenza di uno specifico fondo non consentirebbe, comunque, all’ente di omettere la delibera di riconoscimento, in quanto in tal modo si vanificherebbe la disciplina di garanzia predisposta dall’ordinamento.
Non appare, quindi, legittimo che il regolamento di contabilità possa contenere una disposizione che consenta di riconoscere debiti fuori bilancio determinati da una sentenza del giudice di pace anche se di modestissimo importo, in assenza di una norma di legge che permetta al regolamento di contabilità di introdurre una disciplina che deroghi rispetto a quanto previsto dall’art. 194, primo comma, lettera a), del decreto legislativo 267/2000 (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 20.12.2018 n. 368).

LAVORI PUBBLICILavori di somma urgenza, è sempre obbligatorio il riconoscimento come debiti fuori bilancio.
Sempre obbligatorio riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma urgenza per i quali non è stato rispettato l'iter del procedimento di spesa.

Con l'introduzione dell'articolo 65-bis al disegno di legge di bilancio 2019 viene abrogato, all'interno del terzo comma dell'articolo 191 del Tuel, il riferimento all'insufficienza delle risorse finanziarie per giustificare l'avvio delle procedure di riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti dai lavori pubblici di somma urgenza, causati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile.
La giunta, secondo la nuova versione della norma, sarà pertanto tenuta a sottoporre al consiglio dell'ente, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel.
Il provvedimento di riconoscimento
In altre parole, sarà necessario precedere al riconoscimento consiliare delle spese derivanti dalla acquisizione di beni e servizi, effettuate in violazione degli obblighi dell'articolo 191 del Tuel, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
Contestualmente, deve essere prevista la relativa copertura finanziaria nei limiti delle necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento deve essere adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte dell'organo esecutivo, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
Le indicazioni dei giudici contabili
La modifica in questione determina un cambiamento di rotta nell'interpretazione del terzo comma dell'articolo 191 del Tuel. Già con il parere 18.03.2013 n. 12 ed il parere 10.05.2013 n. 22, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Liguria aveva espresso il proprio parere in merito, specificando come il riferimento alla carenza dei fondi a bilancio costituisse una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di “autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in presenza di situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
A parere dei magistrati liguri, la vigente versione dell'articolo 191, terzo comma, del Tuel consentirebbe di interpretare chiaramente la volontà del legislatore, che sarebbe quella di consentire una deroga alla procedura ordinaria non solo in presenza di lavori di somma urgenza ma anche quando i fondi a questo fine stanziati non risultino sufficienti. La carenza di fondi, difatti, rende impossibile l'assunzione dell'impegno di spesa sul competente capitolo o intervento di bilancio.
Diversamente, la presenza di fondi destinati o, in altre parole, quando l'ente può attivare l'ordinaria procedura d'impegno, non risulta necessario ricorrere alla disciplina derogatoria e attivare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.12.2018).

APPALTII debiti fuori bilancio a rate fanno litigare contabilità finanziaria ed economico-patrimoniale.
La deliberazione 23.10.2018 n. 21 della Sezione delle autonomie della Corte dei conti (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 7 novembre), che sancisce definitivamente la possibilità di rateizzare contabilmente un debito fuori bilancio a determinate condizioni, rappresenta l'ennesimo caso di disallineamento tra la contabilità finanziaria e quella economico-patrimoniale.
Il contenuto della delibera
Un debito fuori bilancio è un'obbligazione scaduta che va inserita tra le spese dell'ente previo formale riconoscimento da parte dell'organo consiliare, il quale deve provvedere anche a reperire le necessarie risorse per finanziarlo.
L'iter amministrativo previsto dalla legge discende dalla necessità di rispettare due regole fondamentali della contabilità finanziaria (che ricordiamo è deputata a misurare l'effettivo impiego delle risorse prelevate dai cittadini) e cioè:
   1) predittività: le spese (e quindi i debiti) devono essere contabilizzate a carico di stanziamenti di bilancio previsti nel bilancio di previsione o in successive variazioni;
   2) autorizzatorietà: gli stanziamenti approvati dal consiglio comunale costituiscono il limite invalicabile per poter assumere impegni di spesa.
Da questi principi discende la regola, interpretata dalla Corte dei conti con la delibera, secondo la quale il debito fuori bilancio andrebbe imputato interamente a carico dell'esercizio in cui avviene il formale riconoscimento dello stesso da parte dell'organo consiliare. Ciò in quanto la regolare registrazione dell'impegno di spesa che ne deriva può essere effettuata solo previa costituzione del necessario stanziamento di spesa autorizzato dall'organo consiliare.
La normativa però, per facilitare la tenuta degli equilibri finanziari degli enti, ha introdotto una deroga alla regola generale, sopravvissuta anche alla riforma contabile, e cioè la possibilità di finanziare il debito su tre annualità, compresa quella in corso, previo accordo scritto con i creditori (articolo 193, comma 2, e articolo 194, comma 2, del Tuel). Quali comportamenti dovranno tenere, quindi, gli enti per registrare e imputare il debito fuori bilancio rateizzato?
Le regole di contabilizzazione
Le due caratteristiche sopra illustrate condizionano le regole di contabilizzazione del debito fuori bilancio che, se rateizzato, presenta una sorta di esigibilità rinegoziata, facendo sorgere un disallineamento tra la contabilità finanziaria e quella economico-patrimoniale.
Nel caso preso in esame, in contabilità finanziaria l'impegno di spesa sarà spalmato su tre anni, compreso quello in corso all'atto del riconoscimento, con conseguente possibilità di iscrizione, in ciascuna annualità del bilancio, della relativa quota di competenza secondo gli accordi del piano di rateizzazione convenuto con i creditori, a condizione che le relative coperture, richieste dall'articolo 193, comma 3, siano puntualmente individuate nella delibera di riconoscimento.
In contabilità economico-patrimoniale, invece, il debito dovrà essere interamente registrato a carico dell'esercizio senza rilevare, in termini economici, l'eventuale rateizzazione concordata con il creditore. Di conseguenza si rende necessario tenere memoria di tale registrazione negli esercizi successivi, quando la matrice di correlazione contabilizzerà a costo, in economico-patrimoniale, l'impegno di spesa rateizzato su tre annualità in contabilità finanziaria.
Il fondo rischi
Nel caso in cui l'ente abbia provveduto, negli anni precedenti, alla formazione di uno specifico fondo rischi, potrà ridurlo ed utilizzare quindi tali accantonamenti.
In contabilità finanziaria dovrà essere assunto l'impegno di spesa, sulla base degli accordi di rateizzazione, che sarà finanziato, in entrata, dalle quote di avanzo di amministrazione accantonato.
A fine esercizio però, dovranno essere prodotte le necessarie scritture di rettifica in contabilità economico-patrimoniale, in quanto l'impegno di spesa avrà prodotto la registrazione di un costo di esercizio, così come previsto dalla matrice di correlazione. Dovrà quindi essere effettuata una scrittura di rettifica, in cui l'utilizzo del Fondo rischi da registrarsi in Dare sostituirà, di fatto, la registrazione del costo avvenuta a seguito della rilevazione dell'impegno (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.11.2018).

APPALTII debiti fuori bilancio con ripiano pluriennale vanno iscritti nel passivo dello stato patrimoniale.
Indicazioni puntuali per il ripiano ultrannuale dei debiti fuori bilancio, che devono essere anche iscritti nel passivo dello stato patrimoniale.

Con la deliberazione 23.10.2018 n. 21 la Sezione Autonomie della Corte dei conti (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 25 ottobre), nel dirimere positivamente la questione della imputazione in più annualità, torna sull'urgenza del coinvolgimento dell'organo consiliare e chiarisce che la spesa può essere impegnata nell'anno in corso e nei due successivi solo per esigenze di sostenibilità finanziaria e previo accordo con i creditori.
Spetta al consiglio dell'ente la valutazione della riconoscibilità, secondo l'articolo 194, comma 1, del Tuel e il reperimento delle necessarie coperture finanziarie secondo quanto previsto dall'articolo 193, comma 3, e 194, commi 2 e 3 del medesimo testo unico.
Rate e alternative
La rateizzazione, che non può avere scopo solo dilatorio, dovrà comunque rispettare tutti i criteri in materia di programmazione e di effettiva copertura delle quote di spesa previste per le varie annualità. Diversamente, si ricadrebbe in una situazione non dissimile a quella del ritardato riconoscimento, con violazione dei principi di copertura delle spese, di salvaguardia degli equilibri di bilancio e di veridicità dei documenti contabili. In mancanza di un preventivo accordo con i creditori sulla dilazione di pagamento, la spesa dovrà essere impegnata ed imputata tutta nell'esercizio finanziario in cui il debito scaduto è stato riconosciuto, con l'adozione delle conseguenti misure di ripiano.
In estrema sintesi, secondo la Corte, dal riconoscimento del debito possono conseguire tre alternative:
   a) l'ente ha risorse, imputa e paga nell'esercizio;
   b) l'ente non ha risorse sufficienti a finanziare ed estinguere nel solo esercizio di riconoscimento tutto il debito, ma deve dare copertura con risorse esigibili nel triennio compreso nel bilancio, dunque ricorrere ad un piano di rientro da convenire con i creditori;
   c) l'ente non ha risorse ed accerta il disavanzo applicando le disposizioni relative al suo ripiano.
La copertura finanziaria
L'individuazione delle necessarie coperture finanziarie deve prioritariamente tenere conto delle possibili economie di spesa dell'esercizio in corso o chiuso, ma anche delle risorse ancora da accertare o che saranno accertate a conclusione di procedimenti che richiedono tempo, come, ad esempio, l'alienazione dei beni patrimoniali disponibili.
La copertura finanziaria deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, ed in equilibrato rapporto con la spesa che si intende effettuare in esercizi futuri. La quota di spesa per debiti fuori bilancio relativa ad ogni annualità del piano rateale dovrà pertanto trovare copertura in entrate che siano ragionevolmente e seriamente realizzabili, dunque esigibili nell'esercizio di scadenza della rata, nonché utilizzabili per questo specifico fine coerentemente con quanto dettato dai principi contabili, ulteriormente enunciati e precisati dalla giurisprudenza costituzionale, con riferimento a qualsivoglia tipologia di spesa. In questa circostanza, all'accordo con i creditori potrà riconoscersi una validità sostanziale.
Se, viceversa, nella delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio non sono puntualmente individuate le risorse specificamente destinate alla copertura di tali spese -risorse la cui esigibilità dovrebbe realizzarsi negli esercizi successivi- manca il presupposto giuridico per dare valore ed efficacia all'accordo con i creditori ed il debito scaduto dovrà essere imputato all'esercizio di riconoscimento con tutte le conseguenze sul piano della situazione di equilibrio e dei rimedi da assumere secondo l'ordinamento contabile.
Nel caso in cui, infine, il creditore acconsenta alla stipula di un piano di rateizzazione, il debito deve essere iscritto per intero nello stato patrimoniale, anche se per la copertura si dovrà tenere conto della scadenza delle singole rate secondo quanto concordato nel piano (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.11.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Enti locali - Debiti fuori bilancio - Artt. 193 e 194 Tuel - Allegato 4/2 d.lgs. n. 118/2011 - Scadenza dell'obbligazione e copertura debiti fuori bilancio.
Copertura finanziaria dei debiti fuori bilancio ed imputazione della relativa spesa in funzione della scadenza dell'obbligazione giuridica.
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   1. “Ai fini di una corretta gestione finanziaria, l’emersione di un debito non previsto nel bilancio di previsione deve essere portata tempestivamente al Consiglio dell’ente per l’adozione dei necessari provvedimenti, quali la valutazione della riconoscibilità, ai sensi dell’art. 194, comma 1, del TUEL ed il reperimento delle necessarie coperture secondo quanto previsto dall’art. 193, comma 3, e 194, commi 2 e 3, del medesimo testo unico.
   2. Gli impegni di spesa per il pagamento dei debiti fuori bilancio riconosciuti e già scaduti devono essere imputati all’esercizio nel quale viene deliberato il riconoscimento. Per esigenze di sostenibilità finanziaria, con l’accordo dei creditori interessati, è possibile rateizzare il pagamento dei debiti riconosciuti in tre anni finanziari compreso quello in corso, ai sensi dell’art. 194, comma 2, del TUEL, a condizione che le relative coperture, richieste dall’art. 193, comma 3, siano puntualmente individuate nella delibera di riconoscimento, con conseguente iscrizione, in ciascuna annualità del bilancio, della relativa quota di competenza secondo gli accordi del piano di rateizzazione convenuto con i creditori.
   3. Nel caso in cui manchi un accordo con i creditori sulla dilazione di pagamento, la spesa dovrà essere impegnata ed imputata tutta nell’esercizio finanziario in cui il debito scaduto è stato riconosciuto, con l’adozione delle conseguenti misure di ripiano.”

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L’art. 10-bis del d.l. 24.06.2016, n. 113, convertito in l. 07.08.2016, n. 160, ha modificato l'articolo 7, comma 8, della legge n. 131/2003, ampliando la platea dei soggetti abilitati ad azionare la funzione consultiva della Corte dei conti. È stato previsto, infatti, che le richieste di parere in materia di contabilità pubblica “possono essere rivolte direttamente alla Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti: per le Regioni, dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province Autonome; per i Comuni, le Province e le Città Metropolitane, dalle rispettive componenti rappresentative nell'ambito della Conferenza unificata”. Con la deliberazione n. 32/2016 la Sezione delle autonomie ha fornito linee di indirizzo interpretative e applicative sulla novella legislativa.
Sulla scorta della richiamata disposizione, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani – ANCI, ha rivolto al Presidente della Corte dei conti, con nota n. 51/SG/DGA/AD/dc-18 del 26.07.2018, una richiesta di parere riguardante le modalità di copertura finanziaria dei debiti fuori bilancio e, in particolare, come debba essere imputata contabilmente la relativa spesa in funzione della scadenza dell’obbligazione giuridica, tenuto conto delle nuove regole dettate dall’armonizzazione contabile.
L’Associazione istante, tra le innovazioni introdotte dal nuovo ordinamento contabile degli enti territoriali e dei loro enti e organismi strumentali (d.lgs. n. 118/2011), richiama, in particolare, le regole che sovrintendono alla gestione dell’impegno delle spese (punto 5 dell’allegato 4/2 al medesimo decreto legislativo), con precipuo riferimento a quelle sull’esigibilità della spesa stessa, correlata alla scadenza dell’obbligazione giuridica sottostante.
Il paragrafo 5.1 prevede infatti che “L’impegno si perfeziona mediante l’atto gestionale, che verifica ed attesta gli elementi anzidetti e la copertura finanziaria, e con il quale si dà atto, altresì, degli effetti di spesa in relazione a ciascun esercizio finanziario contemplato dal bilancio di previsione. Pur se il provvedimento di impegno deve annotare l’intero importo della spesa, la registrazione dell’impegno che ne consegue, a valere sulla competenza avviene nel momento in cui l’impegno è giuridicamente perfezionato, con imputazione agli esercizi finanziari in cui le singole obbligazioni passive risultano esigibili. Non possono essere riferite ad un determinato esercizio finanziario le spese per le quali non sia venuta a scadere, nello stesso esercizio finanziario, la relativa obbligazione giuridica”.
Un nodo da sciogliere sarebbe, quindi, la definizione di “scadenza dell’obbligazione”.
Sempre secondo i principi contabili (all. 4/2, punto 2, ultimi periodi), “la scadenza dell’obbligazione è il momento in cui l’obbligazione diventa esigibile. La consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione definisce come esigibile un credito per il quale non vi siano ostacoli alla sua riscossione ed è consentito, quindi, pretendere l’adempimento. Non si dubita, quindi, della coincidenza tra esigibilità e possibilità di esercitare il diritto di credito”. Con riferimento alle entrate il paragrafo 3.5, prevede che: “Nel caso di rateizzazione di entrate proprie l’accertamento dell’entrata è effettuato ed imputato all’esercizio in cui l’obbligazione nasce a condizione che la scadenza dell’ultima rata non sia fissata oltre i 12 mesi successivi. L’accertamento di entrate rateizzate oltre tale termine è effettuato nell’esercizio in cui l’obbligazione sorge con imputazione agli esercizi in cui scadono le rate. (...)”.
L’ANCI rileva che, per quanto riguarda alcune tipologie di spesa e, in particolare, la spesa derivante dal riconoscimento dei debiti fuori bilancio, il momento della scadenza (e della conseguente imputazione contabile) non risulterebbe di immediata individuazione.
Circa la disciplina contabile dei debiti fuori bilancio, vengono richiamati la circolare del Ministero dell’Interno F.L. n. 21/1993, che definisce il debito fuori bilancio “un’obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro che grava sull’ente (…) assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano i procedimenti di spesa degli enti locali”, e gli artt. 193 e 194 del d.lgs. n. 267 del 2000 (TUEL).
L’art. 194 del TUEL prevede, come atto propedeutico all’inserimento del debito fuori bilancio nell’ambito della contabilità dell’ente locale, il riconoscimento della legittimità dello stesso, da effettuarsi “Con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità”.
L’art. 193 del TUEL, rubricato “Salvaguardia degli equilibri di bilancio”, al comma 2 sancisce che “Con periodicità stabilita dal regolamento di contabilità dell'ente locale, e comunque almeno una volta entro il 31 luglio di ciascun anno, l'organo consiliare provvede con delibera a dare atto del permanere degli equilibri generali di bilancio o, in caso di accertamento negativo, ad adottare, contestualmente: (…) b) i provvedimenti per il ripiano degli eventuali debiti di cui all'articolo 194; (...)”. Il comma 3 del medesimo articolo prevede inoltre che, a tali fini, possano essere “utilizzate per l'anno in corso e per i due successivi le possibili economie di spesa e tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle con specifico vincolo di destinazione, nonché i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento a squilibri di parte capitale”, “fermo restando quanto stabilito dall'articolo 194, comma 2”. Quest’ultima disposizione stabilisce che “Per il pagamento [dei debiti fuori bilancio] l'ente può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione, della durata di tre anni finanziari compreso quello in corso, convenuto con i creditori”.
L’istante rileva che le norme sopra riportate –preesistenti al d.lgs. n. 118/2011– devono essere interpretate in conformità ai principi del nuovo sistema contabile, con riferimento al nuovo paradigma di esigibilità della spesa connesso alla scadenza dell’obbligazione.
In proposito, viene richiamata la sentenza 29.03.2018 n. 11 delle Sezioni Riunite in speciale composizione, che, secondo la prospettazione rappresentata nella richiesta di parere «definitivamente pronunciandosi rispetto alla possibilità di imputare la spesa connessa ai debiti oggetto di accordi con i creditori in funzione dei tempi di pagamento concordati, chiarisce che “tali accordi riguardano i soli tempi di pagamento ed hanno effetto esclusivamente sulla cassa”. Le Sezioni Riunite giungono a tale conclusione richiamando il punto 9.1 dell’allegato 4/2 al d.lgs. n. 118/2011, nella parte in cui dispone testualmente che “L’emersione di debiti assunti dall’ente e non registrati quando l’obbligazione è sorta comporta la necessità di attivare la procedura amministrativa di riconoscimento del debito fuori bilancio, prima di impegnare le spese con imputazione all’esercizio in cui le relative obbligazioni sono esigibili. Nel caso in cui il riconoscimento intervenga successivamente alla scadenza dell’obbligazione, la spesa è impegnata nell’esercizio in cui il debito fuori bilancio è riconosciuto” e definendo i debiti fuori bilancio quali “obbligazioni perfezionate e scadute, ma non registrate in bilancio tempestivamente ai sensi dell’art. 183 TUEL”».
Sulla scorta di quanto premesso, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani chiede se: «quanto affermato dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti nella
sentenza 29.03.2018 n. 11, che qualifica i debiti fuori bilancio quali obbligazioni già scadute, si applica quando, in sede di rilevazione dei risultati di gestione, o comunque successivamente al termine ultimo per disporre variazioni di bilancio a salvaguardia degli equilibri (30 novembre), si rilevino debiti fuori bilancio non riconosciuti, mentre, di converso, resta impregiudicata la facoltà per l’ente locale di prevedere, in corso di gestione, la copertura di debiti fuori bilancio su più anni del bilancio di previsione, a valere sugli stanziamenti contemplati nel bilancio di previsione, previa dimostrazione dell’avvenuto raggiungimento dell’accordo con il creditore per il pagamento del debito su più annualità ed avendo cura di imputare le spese, nelle annualità del bilancio, conformemente all’accordo di rateizzazione.
Ciò in quanto non v’è dubbio che la norma di cui all’articolo 193 TUEL, comma 3, si riferisca alla copertura e non al pagamento della spesa derivante dai debiti fuori bilancio riconosciuti dall’ente. L’inciso “fermo restando quanto stabilito dall'articolo 194, comma 2” ha un significato ben preciso, in quanto è riferito al presupposto indefettibile affinché l’ente locale possa esercitare la facoltà di “utilizzare”, per l’anno in corso e i due successivi, “le possibili economie di spesa e tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle con specifico vincolo di destinazione (...)”, ossia la sussistenza del previo accordo con il creditore in ordine ai tempi di pagamento, che devono anch’essi articolarsi sul triennio del bilancio di previsione. In altre parole, tale facoltà è preclusa in assenza di una precisa manifestazione di volontà del soggetto terzo di percepire le somme in maniera frazionata.
La conferma a tale conclusione è fornita dallo stesso articolo 194 TUEL, il cui comma 3 parla espressamente di “finanziamento” delle spese in questione, per le quali, “ove non possa documentalmente provvedersi a norma dell'articolo 193, comma 3”, è previsto il ricorso a mutui (facoltà oggi da ritenersi limitata esclusivamente ai debiti fuori bilancio riferiti a spese di investimento, tenuto conto di quanto stabilito dall’articolo 119 della Costituzione).
Tuttavia, il fatto che l’espressa manifestazione di volontà del creditore ad accettare il pagamento frazionato debba avvenire prima del momento in cui il debito fuori bilancio viene riconosciuto, si ricollega in maniera coerente con il concetto di scadenza/esigibilità della spesa. La sottoscrizione di un accordo tra le parti interviene infatti proprio sulla scadenza della spesa correlata al debito fuori bilancio, determinandone l’esigibilità non più per intero sull’anno nel quale è effettuato il riconoscimento del debito, bensì in ragione della scansione dei pagamenti oggetto di accordo.
Tale lettura appare corroborata dal fatto che le stesse Sezioni Riunite richiamino uno stralcio del paragrafo 9.1 dei principi contabili, rubricato “La gestione dei residui”. In questo caso, non potendo più attivare la “leva” costituita dagli accordi con i creditori, essendo ovviamente preclusa qualsivoglia manovra di salvaguardia degli equilibri, non risulta più possibile variare la scadenza/esigibilità della spesa connessa al debito fuori bilancio oggetto di riconoscimento. Ne consegue che, in tal caso, allorquando le spese derivanti dai debiti fuori bilancio risultano, come evidenziato dalle Sezioni Riunite, “non registrate in bilancio tempestivamente ai sensi dell’art. 183 TUEL”, la copertura deve essere necessariamente assicurata nell’anno in cui avviene il riconoscimento, per cui eventuali accordi con i creditori conservano valenza solo ed esclusivamente dal punto di vista della cassa
».
...
2. Tanto precisato, per quanto concerne la richiamata sentenza 29.03.2018 n. 11 delle Sezioni Riunite può soltanto osservarsi che detta decisione riguardava il giudizio su un caso concreto, articolato in molteplici questioni.
Il punto specifico dal quale sono state estrapolate le affermazioni riportate nella richiesta di parere ineriva alla valutazione di un comportamento elusivo degli obblighi relativi al rispetto dei saldi di finanza pubblica: comportamento sostanziantesi nel ritardato riconoscimento di debiti emersi in esercizi precedenti a quello in cui si era proceduto al formale riconoscimento degli stessi; successivamente era anche intervenuto un accordo con i creditori per una dilazione dei pagamenti. Di conseguenza, negli esercizi di riferimento, non era stata considerata la voce passiva relativa al debito emerso. Evidentemente un posteriore accordo per la dilazione dei pagamenti non poteva essere preso in considerazione ai fini della positiva valutazione del rispetto dei saldi di finanza pubblica.
2.1. È opportuno rammentare, infatti, che, secondo il combinato disposto dell’art. 194, comma 1, con l’art. 193, comma 2, del TUEL, con deliberazione consiliare da adottarsi con periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità e comunque almeno una volta entro il 31 luglio di ciascun anno, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio. Da ciò scaturisce una prima considerazione: in una corretta gestione finanziaria l’emersione di un debito non previsto nel bilancio di previsione deve essere portata tempestivamente al Consiglio dell’ente per l’adozione dei necessari provvedimenti, quali la valutazione della riconoscibilità, ai sensi dell’art. 194, comma 1, e il reperimento delle necessarie coperture secondo quanto previsto dall’art. 193, comma 3, e 194, commi 2 e 3. Il ritardo nel riconoscimento, con rinvio ad esercizi successivi a quello in cui il debito è emerso, comporta una non corretta rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria dell’ente.
3. Andando ad esaminare, invece, i profili di una gestione eseguita nel rispetto della tempistica sopra indicata, la questione può essere risolta nei termini che seguono.
3.1 Il comma 1 dell’art. 194 TUEL individua le fattispecie in cui il debito fuori bilancio è riconoscibile. Il riconoscimento da parte del Consiglio, per costante giurisprudenza della Cassazione (cfr., ex multis, Cass. Civ., Sez. II, sentenza 11.06.2018 n. 15050) è costitutivo dell’obbligazione. Se il riconoscimento riguarda obbligazioni “scadute”, nel senso che il creditore può esigere immediatamente il pagamento in quanto la prestazione è già stata interamente eseguita, la spesa è impegnata nell’esercizio in cui il debito fuori bilancio è riconosciuto, secondo quanto precisato dal punto 9.1 del principio contabile di cui all’all. 4/2 del d.lgs. n. 118/2011. Se il riconoscimento riguarda prestazioni che ancora non sono state completamente effettuate, e quindi il pagamento del prezzo non è esigibile o lo è solo parzialmente, potrà essere imputato all’esercizio in corso solo la quota esigibile, mentre la restante parte sarà imputata alle scadenze previste.
3.2. Il comma 2 dell’art. 194 TUEL, peraltro, prevede la possibilità di un pagamento rateizzato in un arco temporale massimo di tre anni, compreso quello in cui è effettuato il riconoscimento. Il piano di rateizzazione deve essere concordato con i creditori. La disposizione, infatti, testualmente recita “Per il pagamento [dei debiti fuori bilancio] l'ente può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione, della durata di tre anni finanziari compreso quello in corso, convenuto con i creditori”. Il termine “convenuto” non può avere altro significato se non di un accordo negoziale tra amministrazione e creditori avente come contenuto la temporizzazione del pagamento del debito.
3.3. Trattandosi di un accordo, che richiede il consenso di entrambe le parti, se il creditore non intende accedere ad un’ipotesi di rateizzazione, l’ente che abbia riconosciuto il debito dovrà necessariamente registrarlo ed impegnarlo integralmente nello stesso esercizio. Conseguentemente dovrà, con idonea variazione di bilancio, reperire le risorse a copertura e quindi procedere al pagamento.
Potrà ricorrere, se del caso, agli strumenti previsti dall’art. 193, comma 3 (Salvaguardia degli equilibri di bilancio), in base al quale: “Ai fini del comma 2, fermo restando quanto stabilito dall'art. 194, comma 2, possono essere utilizzate per l'anno in corso e per i due successivi le possibili economie di spesa e tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle con specifico vincolo di destinazione, nonché i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento a squilibri di parte capitale. Ove non possa provvedersi con le modalità sopra indicate è possibile impiegare la quota libera del risultato di amministrazione. Per il ripristino degli equilibri di bilancio e in deroga all'art. 1, comma 169, della legge 27.12.2006, n. 296, l'ente può modificare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di propria competenza entro la data di cui al comma 2)”, o ricorrere a mutui (ma solo nel caso in cui la spesa sia qualificabile come investimento), ai sensi dell’art. 194, comma 3: “Per il finanziamento delle spese suddette, ove non possa documentalmente provvedersi a norma dell'articolo 193, comma 3, l'ente locale può far ricorso a mutui ai sensi degli articoli 202 e seguenti. Nella relativa deliberazione consiliare viene dettagliatamente motivata l'impossibilità di utilizzare altre risorse”.
4. Nel caso in cui il creditore acconsenta alla stipula di un piano di rateizzazione, il debito deve essere registrato per intero e per intero essere iscritto nello stato patrimoniale, ma per la copertura si dovrà tenere conto della scadenza delle singole rate secondo quanto concordato nel piano.
In altre parole, l’ipotesi della rateizzazione non è espressamente prevista dal punto 9.1 del principio contabile, ma poiché la rateizzazione incide sull’esigibilità, da riferirsi ora alle singole rate, si torna all’applicazione del criterio generale espresso nel punto 5.1 del principio stesso: il paragrafo 5.1 prevede infatti che “L’impegno si perfeziona mediante l’atto gestionale, che verifica ed attesta gli elementi anzidetti e la copertura finanziaria, e con il quale si dà atto, altresì, degli effetti di spesa in relazione a ciascun esercizio finanziario contemplato dal bilancio di previsione. Pur se il provvedimento di impegno deve annotare l’intero importo della spesa, la registrazione dell’impegno che ne consegue, a valere sulla competenza avviene nel momento in cui l’impegno è giuridicamente perfezionato, con imputazione agli esercizi finanziari in cui le singole obbligazioni passive risultano esigibili. Non possono essere riferite ad un determinato esercizio finanziario le spese per le quali non sia venuta a scadere, nello stesso esercizio finanziario, la relativa obbligazione giuridica”.
5.
La questione, in estrema sintesi, va valutata in relazione a due ipotesi:
   a) riconoscimento di obbligazione scaduta (in quanto la prestazione è già stata interamente eseguita) senza accordo con i creditori, che comporta l’impegno dell’intera somma subito e riporto a residuo passivo, se non si riesce a pagare tutto;
   b) riconoscimento di obbligazione scaduta con accordo di rateizzazione, che comporta registrazione dell’intero importo con impegno a valere sull’esercizio in cui la singola rata è a scadenza.

6. Tanto premesso, va peraltro chiarito che l’accordo con i creditori non può avere una mera finalità dilatoria, ma la rateizzazione dovrà comunque rispettare tutti i criteri in materia di programmazione e di effettiva copertura delle quote di spesa previste per le varie annualità. Diversamente, si ricadrebbe in una situazione non dissimile a quella del ritardato riconoscimento, con violazione dei principi di copertura delle spese, di salvaguardia degli equilibri di bilancio e di veridicità dei documenti contabili.
Il rispetto del criterio di imputazione enunciato al punto 9.1 del principio contabile applicato 4/2, insomma, non è derogabile con il semplice accordo con i creditori a prescindere da ogni altra condizione. In particolare, il riconoscimento del debito scaduto costituisce atto di gestione che deve necessariamente misurarsi con i principi fondamentali della gestione del bilancio, trattandosi, comunque, di una spesa riconosciuta dall’ente per le sue finalità istituzionali.
In effetti, dal riconoscimento possono conseguire le seguenti situazioni:
   a) l’Ente ha risorse, imputa e paga nell’esercizio;
   b) l’Ente non ha risorse sufficienti a finanziare ed estinguere nel solo esercizio di riconoscimento tutto il debito ma deve dare copertura con risorse esigibili nel triennio compreso nel bilancio, ricorre ad un piano di rientro secondo i criteri di cui all’art. 193, comma 3, TUEL (“possono essere utilizzate per l'anno in corso e per i due successivi le possibili economie di spesa e tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle con specifico vincolo di destinazione, nonché i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento a squilibri di parte capitale. Ove non possa provvedersi con le modalità sopra indicate è possibile impiegare la quota libera del risultato di amministrazione”); ai sensi dell’art. 194, comma 2, può convenire con i creditori la tempistica dei pagamenti, nei limiti di tre anni finanziari compreso quello in corso;
   c) non ha risorse nei termini di cui ai punti a) e b), accerta il disavanzo ed applica le disposizioni relative al ripiano del disavanzo.
7. Il comma 3 dell’art. 193, infatti, certamente si riferisce all’aspetto delle coperture, ma bisogna considerare che, nell’individuare le medesime, la norma tiene conto di quelle immediatamente disponibili, quali le possibili economie di spesa che non possono che attenere all’esercizio in corso o chiuso, ma anche delle risorse ancora da accertare o che saranno accertate a conclusione di procedimenti che richiedono tempo, come, ad esempio, l’alienazione dei beni patrimoniali disponibili. È questo possibile gap temporale che costituisce la ratio della disposizione che contempla l’accordo con i creditori e cioè la necessità di allineare disponibilità di risorse e obbligo di pagamento. Bisogna considerare in proposito che il principio di copertura delle spese contenuto nell’art. 81 Cost., richiede la contestualità tanto dei presupposti che giustificano le previsioni di spesa quanto di quelli posti a fondamento delle previsioni di entrata necessarie per la copertura finanziaria delle prime (C. Cost. sent. n. 6/2017). Così come occorre tenere presente che la copertura delle spese deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, ed in equilibrato rapporto con la spesa che si intende effettuare in esercizi futuri (C. Cost. sent. n. 192/2012).
Per cui la quota di spesa per debiti fuori bilancio relativa ad ogni annualità del piano rateale dovrà trovare copertura in entrate che siano ragionevolmente e seriamente realizzabili (in altre parole, “esigibili” nell’esercizio di scadenza della rata) nonché utilizzabili per questo specifico fine coerentemente con quanto dettato dai principi contabili, ulteriormente enunciati e precisati dalla giurisprudenza costituzionale, con riferimento a qualsivoglia tipologia di spesa. In questa circostanza, all’accordo con i creditori potrà riconoscersi una validità sostanziale. Se, viceversa, nella delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio non sono puntualmente individuate le risorse specificamente destinate alla copertura di tali spese -risorse la cui esigibilità dovrebbe realizzarsi negli esercizi successivi- manca il presupposto giuridico per dare valore ed efficacia all’accordo con i creditori ed il debito scaduto dovrà essere imputato all’esercizio di riconoscimento con tutte le conseguenze sul piano della situazione di equilibrio e dei rimedi da assumere secondo l’ordinamento contabile.
8. Il quadro normativo e procedurale sopra ricostruito appare coerente con il complessivo sistema delle misure ordinarie di risanamento del bilancio: disavanzo ex art. 188 TUEL, salvaguardia degli equilibri ex art. 193 TUEL, riecheggiate anche nel sistema delle misure straordinarie di risanamento, piani di riequilibrio e dissesti che riflettono tutti la stessa struttura, e cioè accertamento delle passività e pianificazione della estinzione delle stesse. Ipotizzare che l’accordo con i creditori, sganciato dai principi che regolano le spese secondo i criteri della competenza finanziaria potenziata, possa tout court stabilire una diversa esigibilità del debito fuori bilancio scaduto e riconosciuto significherebbe introdurre in maniera asistematica una facoltà di gestione delle posizioni fuori bilancio secondo criteri che esporrebbero le gestioni stesse al pericolo di comportamenti opportunistici, non potendosi escludere che la prospettiva di poter spalmare, comunque in più anni, un debito, potrebbe alimentare un maggior livello di approssimazione nella programmazione delle spese.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla richiesta di parere presentata dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, enuncia i seguenti principi di diritto:
  
1. “Ai fini di una corretta gestione finanziaria, l’emersione di un debito non previsto nel bilancio di previsione deve essere portata tempestivamente al Consiglio dell’ente per l’adozione dei necessari provvedimenti, quali la valutazione della riconoscibilità, ai sensi dell’art. 194 comma 1, del TUEL ed il reperimento delle necessarie coperture secondo quanto previsto dall’art. 193, comma 3, e 194, commi 2 e 3, del medesimo testo unico.
   2. Gli impegni di spesa per il pagamento dei debiti fuori bilancio riconosciuti e già scaduti devono essere imputati all’esercizio nel quale viene deliberato il riconoscimento. Per esigenze di sostenibilità finanziaria, con l’accordo dei creditori interessati, è possibile rateizzare il pagamento dei debiti riconosciuti in tre anni finanziari compreso quello in corso, ai sensi dell’art. 194, comma 2, del TUEL, a condizione che le relative coperture, richieste dall’art. 193, comma 3, siano puntualmente individuate nella delibera di riconoscimento, con conseguente iscrizione, in ciascuna annualità del bilancio, della relativa quota di competenza secondo gli accordi del piano di rateizzazione convenuto con i creditori.
   3. Nel caso in cui manchi un accordo con i creditori sulla dilazione di pagamento, la spesa dovrà essere impegnata ed imputata tutta nell’esercizio finanziario in cui il debito scaduto è stato riconosciuto, con l’adozione delle conseguenti misure di ripiano.”
  (Corte dei Conti, Sez. autonomie, deliberazione 23.10.2018 n. 21).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Debiti fuori bilancio: sentenze esecutive e transazioni. Le corrette regole indicate dai giudici contabili.
Il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’Organo consiliare risulta comunque necessario anche nell’ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte, posto che le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del Consiglio comunale o provinciale non sono circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si estendono anche ad attività o procedimenti di spesa di natura vincolante ed obbligatoria.
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e 194 del Tuel che garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale.
Inoltre, il tempestivo riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo (previsto dall’art. 14, del D.L. 31/12/1996, n. 669 convertito in legge 28/02/1997, n. 30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23/12/2000, n. 288), comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei confronti della pubblica amministrazione
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Gli enunciati principi valgono, a maggior ragione, in caso di debiti fuori bilancio di cui alla lett. e) derivanti dall’acquisizione di beni e servizi senza preventivo impegno di spesa, ove sussiste la discrezionalità dell’Ente nel riconoscimento dell’utilità dell’acquisizione.
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La formazione di debiti fuori bilancio costituisce indice della difficoltà dell’Ente di governare correttamente i procedimenti di spesa attraverso il rispetto delle norme previste dal TUEL.
L’esatta individuazione e quantificazione dei debiti fuori bilancio nel corso dell’esercizio finanziario costituisce, pertanto, un preciso dovere dell’organo consiliare, il quale è stato investito dal legislatore dell’obbligo di dare atto del permanere degli equilibri di bilancio (almeno una volta all’anno e comunque entro il 30 settembre) e, in quella sede, di verificare se la sussistenza di debiti f.b. possa, in qualche modo, incidere negativamente sulla situazione finanziaria o alterare i risultati di competenza
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Quanto alle transazioni oggetto di delibera di Giunta comunale, nel ribadire quanto sopra affermato con riferimento alla necessaria tempestività della definizione della debitoria fuori bilancio, questa Sezione ha precisato come, quando ricorrano ipotesi transattive che comportino il finanziamento di operazioni contrattuali in più esercizi finanziari, “non può essere messa in dubbio la competenza a provvedere in capo al Consiglio comunale ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i), del TUEL“.
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Pur prendendo atto di quanto riferito, il Collegio non può che censurare il ritardo nel riconoscimento e nella definizione dei debiti fuori bilancio. La circostanza che si tratti di debiti derivanti dalle gestioni pregresse non assurge a fattore scriminante, atteso che l’esame della Sezione è, in questa sede, limitato -in una dimensione puramente oggettiva- alla situazione contabile e finanziaria dell’ente, a prescindere dall’imputazione soggettiva di eventuali responsabilità.
Si sottolinea la necessità che la gestione contabile sia conforme alle regole per l’assunzione di impegni e per l’effettuazione delle spese di cui all’art. 191 TUEL, atteso che le fattispecie di debiti fuori bilancio rivestono carattere assolutamente eccezionale. Si ribadisce, inoltre, l’imprescindibile priorità della fase di riconoscimento rispetto a quella di pagamento.
In particolare, si richiama quanto ripetutamente statuito da questa Corte in tema di tempestivo riconoscimento dei debiti fuori bilancio, anche se derivanti da sentenze esecutive. Questa Sezione ha, infatti, sottolineato che “il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’Organo consiliare risulta comunque necessario anche nell’ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte, posto che le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del Consiglio comunale o provinciale non sono circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si estendono anche ad attività o procedimenti di spesa di natura vincolante ed obbligatoria. Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e 194 del Tuel che garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale. Inoltre, il tempestivo riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo (previsto dall’art. 14, del D.L. 31/12/1996, n. 669 convertito in legge 28/02/1997, n. 30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23/12/2000, n. 288), comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei confronti della pubblica amministrazione“ (parere 22.02.2018 n. 29).
Gli enunciati principi valgono, a maggior ragione, in caso di debiti fuori bilancio di cui alla lett. e) derivanti dall’acquisizione di beni e servizi senza preventivo impegno di spesa, ove sussiste la discrezionalità dell’Ente nel riconoscimento dell’utilità dell’acquisizione.
Questa Sezione ha, inoltre, osservato che “La formazione di debiti fuori bilancio costituisce indice della difficoltà dell’Ente di governare correttamente i procedimenti di spesa attraverso il rispetto delle norme previste dal TUEL. L’esatta individuazione e quantificazione dei debiti fuori bilancio nel corso dell’esercizio finanziario costituisce, pertanto, un preciso dovere dell’organo consiliare, il quale è stato investito dal legislatore dell’obbligo di dare atto del permanere degli equilibri di bilancio (almeno una volta all’anno e comunque entro il 30 settembre) e, in quella sede, di verificare se la sussistenza di debiti f.b. possa, in qualche modo, incidere negativamente sulla situazione finanziaria o alterare i risultati di competenza” (deliberazione 03.06.2016 n. 122).
Quanto alle transazioni oggetto di delibera di Giunta comunale, nel ribadire quanto sopra affermato con riferimento alla necessaria tempestività della definizione della debitoria fuori bilancio, questa Sezione ha precisato come, quando ricorrano ipotesi transattive che comportino, come nel caso di specie, il finanziamento di operazioni contrattuali in più esercizi finanziari, “non può essere messa in dubbio la competenza a provvedere in capo al Consiglio comunale ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i), del TUEL“ (
parere 25.05.2017 n. n. 80).
Infine, in relazione ai debiti fuori bilancio derivanti dal conferimento di incarichi professionali, si richiama quanto attualmente previsto da punto 5, lett. g), dell’allegato 4/2 in relazione agli impegni derivanti dal conferimento di incarico a legali esterni (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, deliberazione 13.07.2018 n. 109
).

LAVORI PUBBLICISomme urgenze, sempre necessario il riconoscimento nei limiti delle necessità accertate.
Dopo la modifica della Legge di Bilancio 2019, è sempre necessario attivare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio per le spese di somma urgenza, non essendo più previsto il presupposto dell'insufficienza delle risorse.

È quanto ha stabilito la Corte dei Conti della Sicilia con la deliberazione 21.05.2018 n. 121 (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 19 giugno).
L'iter di riconoscimento
Pertanto, è sempre necessario avviare l'iter di riconoscimento come debito fuori bilancio dei lavori di somma urgenza, per i quali non risulta possibile rispettare l'iter ordinario del procedimento di spesa e non già solo quando sull'apposito capitolo vi è insufficienza di fondi. Di conseguenza, la giunta è tenuta a sottoporre al Consiglio dell'ente, entro 20 giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa, con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel, a prescindere, appunto, dalla circostanza che il capitolo di spesa presenti (o meno) sufficiente disponibilità finanziaria.
Il riconoscimento, nondimeno, deve avvenire (trattandosi di somme urgenze) –individuando la relativa copertura finanziaria– nei limiti delle necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità.
Il provvedimento consiliare, poi, deve essere adottato nei 30 giorni successivi all'approvazione della proposta da parte della giunta e comunque entro il 31 dicembre, se non ancora scaduto il termine, con la contestuale comunicazione dei riferimenti al terzo interessato.
Se non si rispettano i termini
Giustamente la pronuncia sottolinea che, qualora l'iter non sia rispettato (anche in relazione ai termini per la proposta da parte della giunta), è destinata a operare la previsione in forza della quale il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura, ovviamente fatta salva la parte riconoscibile (articolo 194, comma 1, lettera e), nei limiti (però) «degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l'ente».
In quest'ultimo caso, tra l'altro, la pronuncia –riprendendo un consolidato orientamento della Corte dei conti– sottolinea che il riconoscimento deve operare nei limiti stabiliti dall'articolo 2041 del codice civile, con l'effetto che non risulta possibile computare l'utile d'impresa (che sarà a carico dell'amministratore o funzionario che ha disposto o consentito la fornitura).
La delibera consiliare
Laddove, invece, lo stesso iter si sia svolto nell'ambito dei termini previsti dalla legge, il riferimento alle modalità è da intendersi nel senso che è sempre necessaria l'adozione della delibera consiliare con la quale riconoscere la spesa sostenuta per i lavori di somma urgenza, purché strettamente attinenti alla rimozione dello stato di pericolo. In questo caso, l'utilità ricavata dall'amministrazione coincide con la spesa sostenuta, come risulta dalla perizia tecnica e dal corrispettivo concordato consensualmente, dal momento che qualora l'attività gestionale sia mantenuta entro l'alveo temporale segnato dalla legge non sussiste alcuna motivazione per la decurtazione dell'utile d'impresa.
Attraverso il percorso descritto, sottolinea infine la Corte, è quindi realizzato un congruo bilanciamento tra, da una parte, l'esigenza di celerità e di preminente tutela della pubblica incolumità che giustifica l'affidamento diretto prima che venga assunto l'impegno contabile con, dall'altra parte, la rigida previsione dei termini entro i quali la giunta deve sottoporre la proposta di riconoscimento di debito al consiglio, nella prospettiva di ricondurre la spesa all'alveo del bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.06.2019).

ATTI AMMINISTRATIVIIl debito rateizzato non sposta l’impegno.
L’eventuale intesa con i creditori sul frazionamento di un debito fuori bilancio in più anni non permette al Comune di spalmare in più esercizi anche l’imputazione contabile, perché secondo i nuovi principi contabili la mossa eluderebbe il pareggio in caso di incapienza dell’obiettivo di saldo nell’anno di riferimento.

Lo spiega la Corte dei conti a Sezioni riunite, in sede giurisdizionale in speciale composizione, con la sentenza 29.03.2018 n. 11.
Questo principio importante si incontra nell’analisi sulla violazione del Patto da parte del Comune di Napoli.
Sul punto, la Corte ha confutato il ragionamento del Comune che da un lato ha accettato un peggioramento del risultato dell’anno 2016 per dare copertura ai debiti fuori bilancio, ma dall’altro ha ritenuto escluso che sullo stesso peggioramento potesse essere disposta anche un’elusione del pareggio di bilancio.
Per i magistrati, invece, l’elusione dei saldi di finanza pubblica si riferisce a una diversa analisi rispetto al peggioramento del risultato accertato, in quanto il ritardato riconoscimento dei debiti fuori bilancio da parte del Consiglio comunale viola l’articolo 194 del Tuel. Una volta accertato il mancato riconoscimento dei debiti fuori bilancio, resta da chiarire se un eventuale accordo sulla ripartizione su più esercizi del pagamento verso i debitori possa generare una posta rettificativa del debito totale che avrebbe dovuto essere iscritto in bilancio per il rispetto dei vincoli di finanza pubblica.
Secondo i principi della contabilità armonizzata, l’impegno deve essere inserito al momento in cui l’obbligazione giuridica si è perfezionata (articolo 183, comma 5, del Tuel), mentre il principio della contabilità finanziaria punto 9.1 dell’allegato A/2 del Dlgs 118/2011 dispone che «nel caso in cui il riconoscimento intervenga successivamente alla scadenza dell’obbligazione, la spesa è impegnata nell’esercizio in cui il debito fuori bilancio è riconosciuto».
Secondo le Sezioni Riunite, pertanto, va esclusa la possibilità da parte dell’ente locale di detrarre dall’ammontare del debito la somma oggetto di accordi di rateizzazione, perché questi accordi riguardano i soli tempi di pagamento e hanno effetto esclusivamente sulla cassa. Effettuando le rettifiche, ossia inserendo l’intero importo del debito fuori bilancio, l’ente ha violato i saldi di finanza pubblica per un importo pari a circa 85,5 milioni di euro, a cui segue la sanzione di pari importo nell’anno successivo alla violazione riscontrata (articolo Il Sole 24 Ore del 09.04.2018).

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MASSIMA
Occorre premettere che la nuova formulazione dell’articolo 183 TUEL, al comma 5, dispone che l’impegno deve essere registrato in bilancio “...quando l’obbligazione è perfezionata con imputazione all’esercizio in cui viene a scadenza...”.
In relazione ai debiti fuori bilancio, che costituiscono obbligazioni perfezionate e scadute, ma non registrate in bilancio tempestivamente ai sensi dell’art. 183 TUEL, il principio della contabilità finanziaria 9.1 dell’allegato A/2 del d.lgs. n. 118/2011 dispone testualmente che “L’emersione di debiti assunti dall’ente e non registrati quando l’obbligazione è sorta comporta la necessità di attivare la procedura amministrativa di riconoscimento del debito fuori bilancio, prima di impegnare le spese con imputazione all’esercizio in cui le relative obbligazioni sono esigibili. Nel caso in cui il riconoscimento intervenga successivamente alla scadenza dell’obbligazione, la spesa è impegnata nell’esercizio in cui il debito fuori bilancio è riconosciuto”.
Deve, conseguentemente, escludersi la possibilità di detrarre l’ammontare di quanto oggetto di accordi di rateizzazione, in quanto tali accordi riguardano i soli tempi di pagamento ed hanno effetto esclusivamente sulla cassa.

APPALTI: Gli accordi transattivi non possono ricomprendersi nell'istituto del "debito fuori bilancio".
Le fattispecie di debito fuori bilancio, analiticamente indicate nell’art. 194, comma 1, del D.Lgs. n. 267/2000, devono considerarsi tassative e non suscettibili di estensione ad altre tipologie di spesa, in considerazione della “…natura eccezionale di detta previsione normativa finalizzata a limitare il ricorso ad impegni non derivanti dalla normale procedura di bilancio…”. Ferma restando, tuttavia, la possibilità del legislatore di disciplinare ulteriori ipotesi di debito fuori bilancio, così come è avvenuto con la modifica apportata all’art. 191, comma 3, del D.Lgs. n. 267/2000, a seguito dell’entrata in vigore dell'art. 3, comma 1, lett. i), D.L. 10.10.2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla L. 07.12.2012, n. 213, con riferimento alla procedura di riconoscimento del debito derivante da lavori di somma urgenza.
Di conseguenza,
nell’ambito delle fattispecie normative di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, non può considerarsi incluso l’istituto contrattuale della transazione.
Invero,
si ravvisa l’impossibilità di ricondurre la fattispecie degli accordi transattivi al concetto di sopravvenienza passiva e, dunque, alla nozione di debito fuori bilancio. Infatti, a differenza dei debiti fuori bilancio (chiaramente riconducibili al concetto di sopravvenienza passiva in quanto, in assenza di una specifica previsione nel bilancio di esercizio in cui i debiti si manifestano, esse prescindono necessariamente da un previo impegno di spesa), gli accordi transattivi presuppongono, invece, la decisione dell’Ente di pervenire ad un accordo con la controparte, per cui è possibile prevedere, da parte del Comune, tanto il sorgere dell’obbligazione quanto i tempi per l’adempimento.
Ne deriva che l’ente locale, in tali casi, si trova nelle condizioni (ed ha l’obbligo) di attivare le normali procedure contabili di spesa (stanziamento, impegno, liquidazione e pagamento) previste dall’art. 191 del TUEL e di correlare ad esse l’assunzione delle obbligazioni derivanti dagli accordi transattivi.

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Con riguardo all’individuazione dell’Organo deputato a pronunciarsi sugli atti transattivi che s’intendono stipulare, il Collegio ritiene opportuno richiamare il dettato dell’art. 42, comma 2 lett. i), del TUEL, che espressamente riserva al Consiglio comunale l’adozione di qualsiasi atto che comporti l’assunzione, da parte del Comune, di “…spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi, escluse quelle relative alle locazioni di immobili ed alla somministrazione e fornitura di beni e servizi a carattere continuativo…”
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Pertanto,
quando ricorrono ipotesi transattive che comportino il finanziamento di operazioni contrattuali in più esercizi finanziari, non può essere messa in dubbio la competenza a provvedere in capo al Consiglio comunale.
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Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di Lizzanello (LE) ha presentato una richiesta di parere in merito alla qualificazione giuridico-contabile del contratto di transazione, con possibile identificazione nella fattispecie di debito fuori bilancio, ovvero, in caso di risposta negativa, alla competenza dell’organo consiliare ad autorizzare la spesa pluriennale, anche in sede di approvazione del bilancio di previsione.
Preliminarmente il Sindaco ha rappresentato che:
   “…- il Comune di Lizzanello, Ente sottoposto a Piano di riequilibrio Pluriennale approvato in data 19/02/2016, - con deliberazione n. 203 dello 01/12/2016, la G.C. approvava una Transazione con la Ditta Mo. Srl, finalizzata a definire il contenzioso in essere per la corretta applicazione dell’art. 8 del contratto di igiene urbana e relativa al periodo 21.09.2006-28.02.2014 anche in esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato n. 4013/2016 (anni 2006/2010), prevedendo la corresponsione delle relative somme, senza aggravio di interessi e rivalutazione, in cinque annualità;
   - con deliberazione della G.C. n. 220 del 19/12/2016 approvava una transazione con la ditta SFL–Se.Fa.Lo. soc. coop. a r.l., finalizzata alla conclusione della controversia pendente innanzi al Tribunale di Lecce, prevedendo la corresponsione delle relative somme, senza aggravio di interessi, in quattro annualità;
   - con deliberazione del C.C., n. 12 del 13.03.2017, esecutiva, veniva approvato il Bilancio di Previsione 2017/2019, contenente la previsione di spesa relativa alle predette transazioni (…).
Tutto ciò premesso, al fine di non incorrere inconsapevolmente in erronee applicazioni della legge, il Sindaco ha formulato la seguente istanza di parere: “…Se la transazione si ponga come una fattispecie di riconoscimento di debito fuori bilancio ex art. 194 del TUEL e, in caso di risposta negativa al predetto quesito, se la competenza del Consiglio comunale si limiterebbe alla mera autorizzazione alla spesa pluriennale (ex art. 42, comma 2, lett. i del TUEL) e quindi potrebbe essere prevista direttamente in sede di approvazione del bilancio di previsione, oppure si estenderebbe anche al merito della transazione necessitando quindi di un provvedimento ad hoc…”.
...
Preliminarmente, si rende necessario precisare che la giurisprudenza della Corte dei conti ha avuto già occasione di pronunciarsi in merito all’individuazione della normativa di riferimento per analoghe fattispecie, sia in sede consultiva, che in occasione dei controlli sulla gestione finanziaria degli enti locali, prevista dall’art. 1, comma 166 e ss. della legge n. 266/2005 (Finanziaria per il 2006) e dall’art. 148-bis del Tuel.
Può, infatti, definirsi consolidato ed accolto pienamente da questa Sezione, l’orientamento, secondo il quale
le fattispecie di debito fuori bilancio, analiticamente indicate nell’art. 194, comma 1, del D.Lgs. n. 267/2000, devono considerarsi tassative e non suscettibili di estensione ad altre tipologie di spesa, in considerazione della “…natura eccezionale di detta previsione normativa finalizzata a limitare il ricorso ad impegni non derivanti dalla normale procedura di bilancio… (v. ex multis, Sez. Piemonte,
parere 11.05.2007 n. 4; Sez. Basilicata, del. n. 16/2007; Sez. Puglia, del. n. 106/2009). Ferma restando, tuttavia, la possibilità del legislatore di disciplinare ulteriori ipotesi di debito fuori bilancio, così come è avvenuto con la modifica apportata all’art. 191, comma 3, del D.Lgs. n. 267/2000, a seguito dell’entrata in vigore dell'art. 3, comma 1, lett. i), D.L. 10.10.2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla L. 07.12.2012, n. 213 (cfr. Sez. Puglia deliberazione 14.05.2014 n. 93 e deliberazione 03.06.2016 n. 122), con riferimento alla procedura di riconoscimento del debito derivante da lavori di somma urgenza.
Di conseguenza,
nell’ambito delle fattispecie normative di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, non può considerarsi incluso l’istituto contrattuale della transazione.
Tale opzione ermeneutica risulta, inoltre, confermata da ulteriori considerazioni elaborate in sede consultiva (cfr. Sezione Piemonte,
parere 11.05.2007 n. 4, cit. e Sezione Umbria parere 24.09.2015 n. 123), secondo le quali si ravviserebbe l’impossibilità di ricondurre la fattispecie degli accordi transattivi al concetto di sopravvenienza passiva e, dunque, alla nozione di debito fuori bilancio. Infatti, a differenza dei debiti fuori bilancio (chiaramente riconducibili al concetto di sopravvenienza passiva in quanto, in assenza di una specifica previsione nel bilancio di esercizio in cui i debiti si manifestano, esse prescindono necessariamente da un previo impegno di spesa), gli accordi transattivi presuppongono, invece, la decisione dell’Ente di pervenire ad un accordo con la controparte, per cui è possibile prevedere, da parte del Comune, tanto il sorgere dell’obbligazione quanto i tempi per l’adempimento.
Ne deriva che l’ente locale, in tali casi, si trova nelle condizioni (ed ha l’obbligo) di attivare le normali procedure contabili di spesa (stanziamento, impegno, liquidazione e pagamento) previste dall’art. 191 del TUEL e di correlare ad esse l’assunzione delle obbligazioni derivanti dagli accordi transattivi.

L’ente, inoltre, ha chiesto, in caso di risposta negativa al primo quesito, se la competenza del Consiglio comunale debba intendersi limitata alla mera autorizzazione alla spesa pluriennale (ex art. 42, co. 2, lett. i del TUEL), oppure possa considerarsi estesa anche alle questioni di merito inerenti i contenuti ed i termini della transazione.
Così come anticipato in punto di ammissibilità della richiesta di parere, questa Sezione non può certo pronunciarsi sulle fattispecie concrete di transazioni, approvate dal comune e riportate in elenco nella parte in fatto. La pronuncia deve, quindi, limitarsi ad individuare i limiti generali di applicabilità della transazione agli Enti pubblici, al fine di escludere qualsiasi commistione con le scelte gestionali di esclusiva competenza e responsabilità degli organi dell’Ente; né può considerarsi rientrante nell’alveo della funzione consultiva, ed in particolare della contabilità pubblica, l’interpretazione della normativa che disciplina l’ambito di operatività delle competenze specifiche ascritte dal legislatore all’organo consiliare (cfr. art. 42 del TUEL, rubricato: Attribuzioni dei consigli).
Preliminarmente, si evidenzia che
con riguardo all’individuazione dell’Organo deputato a pronunciarsi sugli atti transattivi che s’intendono stipulare, il Collegio ritiene opportuno richiamare il dettato dell’art. 42, comma 2 lett. i), del TUEL, che espressamente riserva al Consiglio comunale l’adozione di qualsiasi atto che comporti l’assunzione, da parte del Comune, di “…spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi, escluse quelle relative alle locazioni di immobili ed alla somministrazione e fornitura di beni e servizi a carattere continuativo… (cfr. Sez. Piemonte parere 26.09.2013 n. 345 e Sez. Puglia parere 28.11.2013 n. 181).
Pertanto,
quando ricorrono ipotesi transattive che comportino, come nel caso di specie, il finanziamento di operazioni contrattuali in più esercizi finanziari, non può essere messa in dubbio la competenza a provvedere in capo al Consiglio comunale.
Per quel che concerne le modalità di applicazione dell’istituto della transazione (a prescindere dagli specifici contenuti nei quali tale contratto può essere declinato) e l’individuazione dei principi giuridico-contabili ai quali gli Enti pubblici contraenti devono conformarsi, si rappresenta che si è formata una consolidata giurisprudenza delle Sezioni di controllo alla quale, in considerazione della piena condivisione degli orientamenti espressi, questo Collegio si riporta integralmente.
A titolo meramente esemplificativo si segnala che la Sezione regionale di controllo per l’Umbria, con parere 24.09.2015 n. 123 cit., ha indicato in modo esaustivo alcuni dei principi applicabili alle pubbliche amministrazioni che intendono stipulare contratti di transazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 25.05.2017 n. n. 80).

APPALTIL'elencazione delle fattispecie di riconoscimento dei debiti fuori bilancio contenuta nell''art. 194 del TUEL è da considerarsi tassativa e non può estendersi alle transazioni, in considerazione della natura eccezionale di detta previsione normativa finalizzata a limitare il ricorso ad impegni non derivanti dalla normale procedura di bilancio.
Inoltre, non può essere messa in dubbio la competenza a provvedere in capo al Consiglio comunale, trattandosi di una ipotesi di transazione in relazione alla quale l'Ente intende finanziare la presumibile spesa in modo rateizzato, mediante imputazione delle singole rate annuali nei bilanci di previsione dei prossimi dieci anni.
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Con la nota indicata in premessa il Sindaco del Comune di Terni, dopo avere premesso che:
   - la richiesta di parere attiene all'attività di verifica della situazione debitoria/creditoria di detto Comune con una società partecipata;
   - dall'esito della verifica emerge un credito a favore della società, che l'Amministrazione intenderebbe finanziare in modo rateizzato, mediante imputazione delle singole rate annuali nei bilanci di previsione dei prossimi dieci anni;
   - la mancata risoluzione di detta situazione rischierebbe di produrre un contenzioso dall'esito molto incerto e che potrebbe esporre l'Ente ad oneri economici rilevanti, magari anche superiori all'entità del credito vantato dalla società, a causa del maturare di interessi;
   - per evitare il suddetto rischio è intenzione dell'Amministrazione comunale procedere ad una soluzione transattiva con la società partecipata, riconoscendo una parte del credito vantato, previa attenta verifica e valutazione che la transazione presenti tutti i requisiti sostanziali previsti dalle regole di sana gestione finanziaria: elevata aleatorietà dell'esito di un eventuale e molto probabile contenzioso, congruità delle prestazioni corrispettive dei transigenti e convenienza economica per l'Ente,
chiede a questa Sezione:
   -  se la transazione si ponga come una fattispecie di riconoscimento di debito fuori bilancio ex art. 194 del TUEL e, in caso di risposta negativa al predetto quesito,
   - se la competenza del Consiglio Comunale si limiterebbe alla mera autorizzazione alla spesa pluriennale (ex art. 42, co. 2, lett. i), del TUEL) oppure si estenderebbe anche al merito della transazione.
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Con il primo quesito il Comune di Terni chiede l’avviso della Sezione sulla riconducibilità della transazione all’alveo delle fattispecie di riconoscimento di debito fuori bilancio disciplinate dall’art. 194 del TUEL.
La risposta al quesito richiede un breve richiamo della disciplina normativa di riferimento, ed in particolare dei principi o postulati contabili emanati dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli Enti locali presso il Ministero dell’Interno costituito a norma dell’art. 154 del TUEL.
Il principio contabile n. 2, lett. f), adottato dal predetto Osservatorio in data 12.03.2008, prevede, al punto 104, che “gli accordi transattivi non sono previsti tra le ipotesi tassative elencate all’articolo 194 del TUEL e non sono equiparabili alle sentenze esecutive di cui alla lettera a) del comma 1 del citato articolo”. Precisa, inoltre, il punto 104 che la fattispecie degli accordi transattivi non può essere ricondotta al concetto di debito fuori bilancio e che gli accordi transattivi presuppongono la decisione dell’Ente di pervenire ad un accordo con la controparte, per cui è possibile per l’Ente “definire tanto il sorgere dell’obbligazione quanto i tempi dell’adempimento. In ogni caso tale decisione è assunta sulla base di una motivata analisi di convenienza per l’ente di addivenire alla conclusione dell’accordo”.
Le Sezioni di controllo di questa Corte dei conti, che si sono già occupate di detta questione, hanno maturato l’orientamento, che può pertanto definirsi consolidato e dal quale questa Sezione non ha motivo di discostarsi, secondo la quale
l’elencazione delle fattispecie di riconoscimento dei debiti fuori bilancio contenuta nell’art. 194 del TUEL “è da considerarsi tassativa” e non può estendersi alle transazioni, in considerazione della “natura eccezionale di detta previsione normativa finalizzata a limitare il ricorso ad impegni non derivanti dalla normale procedura di bilancio (v. ex multis, Sez. Piemonte,
parere 11.05.2007 n. 4; Sez. Basilicata, del. n. 16/2007; Sez. Puglia, del. n. 106/2009).
A sostegno di tale opzione ermeneutica è stata peraltro addotta (v. Sezione Piemonte,
parere 11.05.2007 n. 4, cit.) l’impossibilità di ricondurre la fattispecie degli accordi transattivi al concetto di sopravvenienza passiva e dunque alla nozione di debito fuori bilancio, precisando che, a differenza dei debiti derivanti da sentenze esecutive (chiaramente riconducibili al concetto di sopravvenienza passiva in quanto, in assenza di una specifica previsione nel bilancio di esercizio in cui i debiti si manifestano, esse prescindono necessariamente da un previo impegno di spesa), gli accordi transattivi presuppongono, invece, la decisione dell’Ente di pervenire ad un accordo con la controparte, per cui è possibile prevedere, da parte del Comune, tanto il sorgere dell’obbligazione quanto i tempi per l’adempimento. Ne discende che l’Amministrazione in tali casi si trova nelle condizioni (ed ha l’obbligo) di attivare le normali procedure contabili di spesa (stanziamento, impegno, liquidazione e pagamento) previste dall’art. 191 del TUEL e di rapportare ad esse l’assunzione delle obbligazioni derivanti dagli accordi transattivi.
Con il secondo quesito l’Ente interpellante chiede a questa Sezione se, in caso di risposta negativa al primo quesito, la competenza del Consiglio comunale debba intendersi limitata alla mera autorizzazione alla spesa pluriennale (ex art. 42, co. 2, lett. i), del TUEL) oppure estendersi anche al merito della transazione.
Come già precisato in punto di ammissibilità della richiesta di parere, questa Sezione non può certo pronunciarsi sulla opportunità dello strumento (accordo transattivo) prescelto dall’Amministrazione per risolvere in via bonaria un possibile contenzioso con una sua società partecipata, che vanta un credito nei confronti dell’Ente in dipendenza del servizio pubblico dalla stessa svolto. La pronuncia deve, quindi, limitarsi ad individuare i limiti generali di applicabilità della transazione agli Enti pubblici, al fine di escludere qualsiasi commistione con le scelte gestionali di esclusiva competenza e responsabilità degli organi dell’Ente.
Quanto alla competenza in ordine alla transazione del Consiglio comunale, il Collegio ritiene opportuno richiamare il dettato dell’art. 42, comma 2, lett. i), del TUEL, che espressamente riserva a detto organo consiliare l’adozione di qualsiasi atto che comporti l’assunzione, da parte del Comune, di “spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi, escluse quelle relative alle locazioni di immobili ed alla somministrazione e fornitura di beni e servizi a carattere continuativo”.
Va, peraltro, richiamato l’orientamento di alcune Sezioni regionali di controllo che si sono occupate della questione (da ultimo, Sezione Liguria, deliberazione 5/2014) secondo cui la materia delle transazioni è riconducibile di regola alla competenza dirigenziale, potendo la stessa rientrare nell’ambito di attribuzione della Giunta o del Consiglio solo in situazioni particolari e cioè qualora la transazione involga atti di disposizione che implicano valutazioni esulanti dalla mera gestione.
Nel caso di specie non può essere messa in dubbio la competenza a provvedere in capo al Consiglio comunale, trattandosi di una ipotesi di transazione in relazione alla quale l’Ente intende finanziare la presumibile spesa “in modo rateizzato, mediante imputazione delle singole rate annuali nei bilanci di previsione dei prossimi dieci anni”.
Quanto all’applicabilità della transazione agli Enti pubblici, altre Sezioni regionali di controllo che si sono occupate della questione (v. ex multis, Sez. Lombardia,
parere 05.05.2008 n. 26 e parere 18.12.2009 n. 1116; Sez. Piemonte, del. 15/2007 e parere 28.02.2012 n. 20) hanno affermato i seguenti principi, che questo Collegio condivide:
   - anche gli Enti pubblici possono di norma transigere le controversie delle quali siano parte ex art 1965 c.c.;
   - i limiti del ricorso alla transazione da parte degli Enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto dell’ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione soggettiva e la disponibilità dell’oggetto, e quelli specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto tra privati e pubblica Amministrazione. Sotto quest’ultimo profilo va ricordato che, nell’esercizio dei propri poteri pubblicistici, l’attività degli Enti territoriali è finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell’interesse intestato all’Ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l’esercizio del potere dell’Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell’interesse concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell’azione amministrativa;
   - la scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta delimitazione dell’oggetto della stessa spetta all’Amministrazione nell’ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l’azione amministrativa. Uno degli elementi che l’Ente deve considerare è sicuramente la convenienza economica della transazione in relazione all’incertezza del giudizio, intesa quest’ultima in senso relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad eventuali orientamenti giurisprudenziali;
   - ai fini dell’ammissibilità della transazione è necessaria l’esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata. Di conseguenza il contrasto tra l’affermazione di due posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto serve per individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione all’oggetto della controversia. Si tratta di un elemento che caratterizza la transazione rispetto ad altri modi di definizione della lite;
   - la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art 1966, co. 2 c.c.) e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E’ nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge;
   - requisito essenziale dell’accordo transattivo disciplinato dal codice civile (artt. 1965 e ss. c.c.) è, in forza dell’art. 1321 dello stesso codice, la patrimonialità del rapporto giuridico;

   - inoltre, come affermato dalla giurisprudenza civile (cfr., ex multis, Cass. 06.05.2003 n. 6861), costituisce transazione solo quell’accordo che cade su un rapporto che, oltre a presentare, almeno nell'opinione delle parti, carattere di incertezza, è contrassegnato dalla reciprocità delle concessioni. Oggetto della transazione, quindi, non è il rapporto o la situazione giuridica cui si riferisce la discorde valutazione delle parti, ma la lite cui questa ha dato luogo o possa dar luogo e che le parti stesse intendono eliminare mediante reciproche concessioni. Quanto ai termini (soggetto e oggetto) del contratto di transazione va ancora rammentato che i soggetti devono essere dotati non solo di capacità giuridica ma devono avere anche la legittimazione intesa come potere di agire in ordine ai rapporti sui quali incide la transazione. Sotto questo profilo vengono in rilievo per gli enti pubblici le procedure che prevedono le modalità di formazione ed espressione della volontà amministrativa. Per gli Enti territoriali non è previsto un particolare iter procedimentale per gli atti di transazione, ma, ove il medesimo sia dotato di una propria avvocatura, sarebbe opportuno che questa fosse investita della questione in analogia a quanto prevede per le Amministrazioni dello Stato l’art. 14 del R.D. n. 2440/1923 (legge di contabilità generale) (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 24.09.2015 n. 123).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non risulta possibile procedere al riconoscimento dei debiti fuori bilancio nel corso dell’esercizio provvisorio di bilancio. E ciò per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, la delibera di riconoscimento può essere adottata solo in occasione di precise scansioni temporali, in particolare in sede di approvazione del bilancio di previsione ovvero in occasione della delibera di salvaguardia degli equilibri di bilancio ex art 193, comma 2, del TUEL. Si tratta, non a caso, dei momenti in cui gli equilibri di bilancio vengono valutati in maniera approfondita e complessiva. Di conseguenza, ipotizzare che si possa provvedere al riconoscimento dei debiti fuori bilancio proprio durante la “vacanza” di bilancio, costituirebbe un’evidente aporia logica.
In secondo luogo, il principio di tipicità e tassatività delle spese consentite nel corso dell’esercizio provvisorio esclude che si possa procedere all’adempimento di obbligazioni che non rientrano nei casi contemplati e, ancor di più, di carattere eccezionale (come quelle aventi a oggetto debiti fuori bilancio)
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Il Comune di Vita (TP) chiede di conoscere se sia possibile procedere al riconoscimento di debiti fuori bilancio (nel caso concreto, di un debito derivante da sentenza provvisoriamente esecutiva di condanna al risarcimento del danno) durante l’esercizio provvisorio di bilancio, nell’ipotesi in cui risulti idoneo e capiente stanziamento per la copertura della spesa.
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I debiti fuori bilancio sono obbligazioni verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro, assunte in violazione delle norme giuscontabili che regolano il processo finanziario della spesa e, in particolare, in mancanza del dovuto atto contabile d’impegno.
La corretta programmazione e gestione finanziaria dell’Ente locale impone, infatti, che tutte le spese siano anticipatamente previste nel documento di bilancio approvato dal Consiglio Comunale e che le decisioni di spesa siano assunte nel rispetto delle norme giuscontabili che ne disciplinano la procedura (artt. 151 e 191 TUEL).
Tutto ciò costituisce la diretta conseguenza della funzione autorizzatoria del bilancio di previsione degli enti locali, i quali possono effettuare le sole spese autorizzate dal Consiglio Comunale.
Quest’ultimo, attraverso l’approvazione del bilancio annuale e pluriennale, esercita le sue prerogative di organo di indirizzo dell’attività politico-amministrativa dell’Ente, vincolando, al contempo, i poteri di spesa degli organi amministrativi.
L’art. 194 del TUEL ne disciplina l’ambito di applicazione e le procedure, ed individua tassativamente i presupposti per poter ricondurre tali obbligazioni al sistema di bilancio dell’ente, ossia: a) sentenze esecutive; b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi; c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali; d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilità; e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
In ciascuna delle sopra elencate tipologie, il debito viene ad esistenza al di fuori ed indipendentemente dalle ordinarie procedure che disciplinano la formazione della volontà dell’ente, e la deliberazione consiliare, che riconduce l’obbligazione all’interno della contabilità dell’ente ed individua le risorse per farvi fronte, deve essere tesa ad accertare la riconducibilità del debito ad una delle fattispecie tipizzate dalla norma, nonché le cause che hanno originato l’obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità.
Superando il precedente orientamento (Sezioni Riunite per la Regione siciliana in sede consultiva, parere 11.03.2005 n. 2), la più recente giurisprudenza contabile (da ultimo, Sezione di controllo per la Regione siciliana, deliberazione 15.03.2013 n. 21, deliberazione 03.05.2013 n. 74, deliberazione 30.11.2011 n. 270/2011/GEST), in coerenza con i principi contabili dell’Osservatorio sulla finanza locale (pr. n. 2-101/103), ha posto particolare attenzione sull’imprescindibile attività valutativa da parte dell’organo consiliare, che, essendo ascrivibile alla funzione di indirizzo e controllo politico-amministrativo, non ammette alcuna possibilità di interposizione, sia pur in via d’urgenza, da parte di altri organi.
La caratteristica funzione “autorizzatoria” del bilancio preventivo, nella contabilità finanziaria degli enti locali, impone la corretta programmazione e conseguente assunzione, nel rispetto di tutte le norme giuscontabili, delle decisioni di spesa.
Nel quadro appena delineato, non risulta possibile procedere al riconoscimento dei debiti fuori bilancio nel corso dell’esercizio provvisorio di bilancio. E ciò per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, la delibera di riconoscimento può essere adottata solo in occasione di precise scansioni temporali, in particolare in sede di approvazione del bilancio di previsione ovvero in occasione della delibera di salvaguardia degli equilibri di bilancio ex art 193, comma 2, del TUEL. Si tratta, non a caso, dei momenti in cui gli equilibri di bilancio vengono valutati in maniera approfondita e complessiva. Di conseguenza, ipotizzare che si possa provvedere al riconoscimento dei debiti fuori bilancio proprio durante la “vacanza” di bilancio, costituirebbe un’evidente aporia logica.
In secondo luogo, il principio di tipicità e tassatività delle spese consentite nel corso dell’esercizio provvisorio esclude che si possa procedere all’adempimento di obbligazioni che non rientrano nei casi contemplati e, ancor di più, di carattere eccezionale (come quelle aventi a oggetto debiti fuori bilancio) (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 30.10.2014 n. 189).

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI: I debiti fuori bilancio sono obbligazioni verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro, assunte in violazione delle norme giuscontabili che regolano il procedimento finanziario di spesa.
La corretta programmazione e gestione finanziaria dell’ente locale impone, infatti, che tutte le spese siano anticipatamente previste nel documento di bilancio approvato dal Consiglio comunale e che le decisioni di spesa siano assunte nel rispetto delle relative procedure (artt. 151 e 191 TUEL).

Il debito viene ad esistenza al di fuori ed indipendentemente dalle ordinarie procedure che disciplinano la formazione della volontà dell’ente, e la deliberazione consiliare, che riconduce l’obbligazione all’interno della contabilità dell’ente ed individua le risorse per farvi fronte, deve accertare la sussumibilità del debito all’interno di una delle fattispecie tipizzate dalla norma, nonché le cause che hanno originato l’obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità.
La più recente giurisprudenza di questa Sezione formatasi in materia ha posto particolare attenzione sull’imprescindibile attività valutativa da parte dell’organo consiliare, ascrivibile alla funzione di indirizzo e controllo politico-amministrativo, che non ammette alcuna possibilità di interposizione, sia pur in via d’urgenza, da parte di altri organi.
Nel quadro appena delineato,
i responsabili dei servizi hanno l’obbligo di effettuare periodiche ricognizioni (art. 193 del TUEL) ai fini di un controllo concomitante e costante della situazione gestionale, teso alla tempestiva segnalazione delle passività all’organo consiliare.
Per quest’ultimo,
una volta accertata la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 194 del TUEL, il riconoscimento della legittimità costituisce atto dovuto e vincolato, da espletare senza indugio, al fine di evitare indebito aggravio di spesa per maturazione di oneri accessori (interessi moratori, spese legali, ecc.).
Le sottese esigenze di celerità, che trovano ragione nell’esigenza di impedire la maturazione di oneri ulteriori, e di adottare le conseguenti misure di riequilibrio devono essere, infatti, soddisfatte attraverso la celere convocazione dell’organo consiliare, unico intestatario della funzione.
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Seppur in presenza di apposito stanziamento nel bilancio, nelle more del perfezionamento del riconoscimento ex art. 194, lett. a) o lett. e), non è possibile assumere impegno di spesa con apposita determinazione dirigenziale, rinviandone in ogni caso il pagamento ad un momento successivo al riconoscimento.

Nell’ipotesi di acquisizione di beni e servizi in violazione delle procedure di spesa di cui all’art. 191, commi 1, 2 e 3, del Tuel, l’organo consiliare, pur in presenza di idonea copertura della spesa, è chiamato ad una valutazione discrezionale –e al conseguente obbligo di motivazione- sulla sussistenza dei seguenti requisiti imprescindibili:
   - l’utilità, ricavata dalla prestazione di beni e servizi del terzo creditore, in termini anche di obiettivo riscontro della congruità dei prezzi;
   - l’arricchimento, da intendersi non necessariamente come accrescimento patrimoniale, bensì come risparmio di spesa, che include solo la quota corrispondente al valore materiale della prestazione effettivamente ricevuta, con esclusione della quota di utile d’impresa e di voci accessorie quali interessi, rivalutazione, spese legali, ecc. ;
   - la propedeuticità all’espletamento di funzioni e servizi di competenza, ossia la stretta coerenza con l’attività istituzionale dell’ente.

Dall’eventuale carenza –totale o parziale- dei predetti presupposti discende addirittura l’interruzione del rapporto di immedesimazione organica e l’estraneità dell’ente rispetto al rapporto obbligatorio, che per la parte non riconoscibile intercorre, ai fini della controprestazione, tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura.
Nel quadro appena tratteggiato,
è evidente che l’eventuale adozione interinale dell’impegno di spesa, pur in assenza di pagamento, darebbe comunque luogo ad un’inversione procedimentale lesiva delle attribuzioni dell’organo consiliare.
Nelle ipotesi contemplate dall’art. 194, comma 1, lett. e), del Tuel, il preliminare riconoscimento della legittimità del debito appare strumentale alla complessiva regolarizzazione contabile della spesa.
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A conclusioni non difformi, il Collegio perviene anche nell’ipotesi di riconoscimento di un debito da sentenza esecutiva, caratterizzato da assenza di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte che, accertando il diritto di credito del terzo, rende agevole la riconduzione al sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza finanziaria maturato all’esterno di esso
(pr. cont. 2.101).
Anche in questo caso, l’avvio del procedimento di spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque, già sul piano logico, una positiva valutazione dell’organo consiliare sulla sussistenza dei presupposti di riconoscibilità, sulle cause ed eventuali responsabilità connesse, nonché sulle misure correttive tese ad evitare il reiterarsi delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale.
L’eventuale previsione in bilancio di uno specifico stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e quant’altro non elimina la necessità che il Consiglio deliberi anche sulla riconoscibilità dei singoli debiti formatisi al di fuori delle norme giuscontabili (pr. cont. 1-105).
Anche in tale fattispecie, l’eventuale pretermissione o postergazione della procedura consiliare vanificherebbe la disciplina di garanzia prevista dall’ordinamento e la correlata fase di controllo politico amministrativo, nonché la correlata verifica da parte della Procura regionale della Corte dei conti ex art. 23, comma 5, della legge n. 289/2002.
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Al fine di evitare possibili prassi elusive del patto di stabilità interno, in presenza di riconoscimento del debito ex art. 194, c. 1, e), e di idoneo stanziamento, a cui non sia seguito entro l’esercizio finanziario il relativo impegno di spesa, non è possibile considerare impegnate le somme dovute sullo stanziamento, dandone atto nel rendiconto di gestione. 

Invero, la soluzione contraria postulerebbe una modifica al regolamento di contabilità che, nella fattispecie, trova ostacolo nell’inderogabilità della disciplina degli “impegni di spesa automatici” (art. 183, commi 2, 3, 5 del Tuel), sancita dall’art. 152, comma 4, del Tuel.
In prossimità della scadenza dell’esercizio finanziario, la tempestiva formalizzazione dell’impegno di spesa conseguente alla deliberazione consiliare ex art. 194 del Tuel costituirebbe un obiettivo prioritario per l’ente, proprio al fine di scongiurare i rischi di elusione paventati dall’ente, che esporrebbero il dirigente competente alle possibili conseguenze sanzionatorie per l’indebito miglioramento dei saldi rilevanti ai fini del patto di stabilità interno connesso al suo ritardo.
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Qualora l’ente sia a conoscenza di un debito fuori bilancio da sentenza esecutiva al termine dell’esercizio, abbia il dovere di convocare con la massima celerità il consiglio comunale ai fini della tempestiva adozione dei provvedimenti di riconoscimento e delle contestuali misure tese a riportare in equilibrio la gestione (art. 193, comma 3, e 194 del Tuel) modificando, se necessario, le priorità in ordine alle spese già deliberate per assicurare la copertura delle passività insorte.

La consolidata giurisprudenza di questa Sezione ha più volte evidenziato come
il rinvio di oneri finanziari ad esercizi successivi rispetto a quello in cui maturano i presupposti del riconoscimento può costituire una prassi elusiva del patto di stabilità interno, e dunque illecita, nella misura in cui finisca per rinviare artificiosamente ad esercizi futuri oneri finanziari di cui l’ente è -formalmente o sostanzialmente- a conoscenza entro il termine utile per la variazione di assestamento generale di bilancio.
Nel caso particolare in cui la passività da soccombenza giudiziaria emerga oltre il termine per la variazione di assestamento generale di bilancio (circostanza, quest’ultima, comprovabile dalla data di comunicazione via PEC del deposito del provvedimento), si ritiene che l’amministrazione, in assenza di strumenti per assicurare la copertura finanziaria della spesa, abbia l’obbligo di approvare il nuovo bilancio di previsione nel più breve termine possibile, ai fini del celere riconoscimento della passività insorta.

In merito al rischio di azioni esecutive, la Sezione riconosce che
il termine di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo previsto (art. 14, del D.L. 31.12.1996, n. 669 convertito in L. n. 30/1997 e s.m.i.) per l’avvio di procedure esecutive nei confronti della P.A. sia “sufficientemente ampio per provvedere agli adempimenti di cui all'art. 194 del TUEL”, alla luce del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost..
Tale termine, ad avviso della Sezione,
è da ritenersi “ragionevole” anche per consentire all’ente di approvare celermente il nuovo bilancio di previsione.
Condivisibili, a riguardo, appaiono le conclusioni ermeneutiche cui approda la Sezione regionale di controllo per la Campania circa
l’impossibilità, durante il periodo di esercizio provvisorio, di provvedere al riconoscimento dei debiti fuori bilancio per via dell’eccezionalità della fattispecie di cui all’art. 194 del Tuel rispetto alle ipotesi previste dall’art. 163, comma 3, del Tuel, ma soprattutto per la mancanza del bilancio d’esercizio, cui ricondurre le passività emerse.
L’esigenza di urgente ripristino degli equilibri di bilancio -recentemente assurti a rango costituzionale– impone la necessità di abbreviare al massimo, nella fattispecie, la durata dell’esercizio provvisorio, che di per sé costituisce una fase eccezionale e transitoria.
Giova ricordare, peraltro, che
l’art. 191, comma 5, del Tuel introduce forti limitazioni per gli enti locali che presentino, nell’ultimo rendiconto deliberato, disavanzo di amministrazione o che indichino debiti fuori bilancio per i quali non sono stati validamente adottati i provvedimenti di cui all’art. 193 del Tuel, vietando agli stessi di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge, salve le spese da sostenere a fronte di impegni già assunti in esercizi precedenti.
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I debiti riconoscibili ex art. 194, comma 1, lett. a), del Tuel, sono quelli strettamente riconducibili alla sentenza o al provvedimento giudiziario esecutivo.

In tale ambito,
si ritiene possano rientrare anche le spese di registrazione della sentenza, che chi ha assolto l’onere fiscale può ripetere dalla controparte secondo le regole dell’azione di regresso tra condebitori solidali, in coerenza con la statuizione del giudice in punto di spese.
Sono da ritenere parimenti riconoscibili gli oneri per il contributo unificato (costituenti spese di giustizia, e dovuti in ogni caso dalla parte soccombente nell’ipotesi di cui all’art. 13, comma 6-bis, del DPR n. 115/2002), nonché le spese legali della parte vincitrice, entrambe di norma liquidate dal giudice con il dispositivo in seno alle spese di giudizio, secondo i criteri di cui all’art. 91 e ss. del c.p.c..
Non rientrano, invece, nella fattispecie, le eventuali altre spese collegate non al dispositivo della sentenza, bensì ad autonome iniziative dell’ente (ad esempio, incarichi di consulente tecnico di parte, ecc.), semmai riconducibili, in presenza dei relativi presupposti, alla fattispecie di cui all’art. 194, c. 1, lett. e), del Tuel.
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Tra le spese riconoscibili ex lett. a) possono rientrare anche gli oneri legati al consulente tecnico d’ufficio
, la cui parcella è liquidata con decreto dal giudice che ne pone provvisoriamente l’onere del pagamento a carico di una o più parti della causa, salva statuizione in sentenza circa la parte definitivamente onerata a riguardo.
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Con la nota in epigrafe, il sindaco del comune di Trapani formula una richiesta di parere in materia di debiti fuori bilancio.
In particolare, dopo aver richiamato i principi contabili dell’Osservatorio per la finanza locale n. 2.96, 2.97, 2.101, 2.105, 3.65, formula i seguenti quesiti:
   1. se, in presenza di apposito stanziamento nel bilancio, nelle more del perfezionamento del riconoscimento ex art. 194, comma 1, lett. a) ed e), sia possibile assumere impegno di spesa con apposita determinazione dirigenziale, rinviandone in ogni caso il pagamento ad un momento successivo al riconoscimento;
   2. se, al fine di evitare possibili prassi elusive del patto di stabilità interno, in presenza di riconoscimento del debito ex art. 194, c. 1, lett. e), e di idoneo stanziamento, a cui non sia seguito entro l’esercizio finanziario il relativo impegno di spesa, sia possibile considerare impegnate le somme dovute sullo stanziamento, dandone atto nel rendiconto di gestione;
   3. se, nell’ipotesi di conoscenza di un debito fuori bilancio da sentenza esecutiva notificata oltre il termine utile per la variazione di assestamento generale e in assenza di copertura finanziaria, l’ente, pur avendo la possibilità in sede di rendiconto di riservare quota parte dell’avanzo, incorra nel divieto, fino all’adozione dei provvedimenti consiliari di riconoscimento e finanziamento, di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge ex art. 191, c. 5, del Tuel;
   4. se nell’ambito delle spese da sentenza esecutiva rientrino anche la tassa di registro, le spese del contributo unificato e le spese legali di soccombenza;
   5. se le spese di nomina del CTU siano da considerare debiti fuori bilancio o se lo siano solo se l’impegno di spesa non avvenga nell’esercizio di conferimento dell’incarico.
...
Nel merito, ricorda il Collegio che
i debiti fuori bilancio sono obbligazioni verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro, assunte in violazione delle norme giuscontabili che regolano il procedimento finanziario di spesa.
La corretta programmazione e gestione finanziaria dell’ente locale impone, infatti, che tutte le spese siano anticipatamente previste nel documento di bilancio approvato dal Consiglio comunale e che le decisioni di spesa siano assunte nel rispetto delle relative procedure (artt. 151 e 191 TUEL).

Ciò costituisce la diretta conseguenza della funzione autorizzatoria del bilancio di previsione, con il quale l’organo consiliare esercita le sue prerogative di indirizzo dell’attività politico-amministrativa dell’ente, vincolando, al contempo, i poteri di spesa degli organi amministrativi.
L’art. 194 del TUEL fornisce un elenco tassativo delle tipologie di obbligazioni riconoscibili, riconducibili a: a) sentenze esecutive; b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi; c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali; d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilità; e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, e nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
In ciascuna delle sopra elencate tipologie,
il debito viene ad esistenza al di fuori ed indipendentemente dalle ordinarie procedure che disciplinano la formazione della volontà dell’ente, e la deliberazione consiliare, che riconduce l’obbligazione all’interno della contabilità dell’ente ed individua le risorse per farvi fronte, deve accertare la sussumibilità del debito all’interno di una delle fattispecie tipizzate dalla norma, nonché le cause che hanno originato l’obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità.
Superando il precedente orientamento (Sezioni Riunite per la Regione siciliana in sede consultiva, parere 11.03.2005 n. 2),
la più recente giurisprudenza di questa Sezione (da ultimo, cfr. deliberazione 15.03.2013 n. 21, deliberazione 03.05.2013 n. 74, deliberazione 30.11.2011 n. 270/2011/GEST) formatasi in materia ha posto particolare attenzione sull’imprescindibile attività valutativa da parte dell’organo consiliare, ascrivibile alla funzione di indirizzo e controllo politico-amministrativo, che non ammette alcuna possibilità di interposizione, sia pur in via d’urgenza, da parte di altri organi.
Nel quadro appena delineato,
i responsabili dei servizi hanno l’obbligo di effettuare periodiche ricognizioni (art. 193 del TUEL) ai fini di un controllo concomitante e costante della situazione gestionale, teso alla tempestiva segnalazione delle passività all’organo consiliare.
Per quest’ultimo,
una volta accertata la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 194 del TUEL, il riconoscimento della legittimità costituisce atto dovuto e vincolato, da espletare senza indugio, al fine di evitare indebito aggravio di spesa per maturazione di oneri accessori (interessi moratori, spese legali, ecc.).
Le sottese esigenze di celerità, che trovano ragione nell’esigenza di impedire la maturazione di oneri ulteriori, e di adottare le conseguenti misure di riequilibrio devono essere, infatti, soddisfatte attraverso la celere convocazione dell’organo consiliare, unico intestatario della funzione.
Effettuato questo breve excursus di carattere generale, può darsi risposta ai quesiti dell’ente.
Con il primo, il comune chiede se, in presenza di apposito stanziamento nel bilancio, nelle more del perfezionamento del riconoscimento ex art. 194, lett. a) o lett. e), sia possibile assumere impegno di spesa con apposita determinazione dirigenziale, rinviandone in ogni caso il pagamento ad un momento successivo al riconoscimento.
Alla luce della superiore premessa, la risposta al quesito è sicuramente negativa.
Nell’ipotesi di acquisizione di beni e servizi in violazione delle procedure di spesa di cui all’art. 191, commi 1, 2 e 3, del Tuel, l’organo consiliare, pur in presenza di idonea copertura della spesa, è chiamato ad una valutazione discrezionale –e al conseguente obbligo di motivazione- sulla sussistenza dei seguenti requisiti imprescindibili:
   - l’utilità, ricavata dalla prestazione di beni e servizi del terzo creditore, in termini anche di obiettivo riscontro della congruità dei prezzi;
   - l’arricchimento, da intendersi non necessariamente come accrescimento patrimoniale, bensì come risparmio di spesa, che include solo la quota corrispondente al valore materiale della prestazione effettivamente ricevuta, con esclusione della quota di utile d’impresa e di voci accessorie quali interessi, rivalutazione, spese legali, ecc. ;
   - la propedeuticità all’espletamento di funzioni e servizi di competenza, ossia la stretta coerenza con l’attività istituzionale dell’ente.

Dall’eventuale carenza –totale o parziale- dei predetti presupposti discende addirittura l’interruzione del rapporto di immedesimazione organica e l’estraneità dell’ente rispetto al rapporto obbligatorio, che per la parte non riconoscibile intercorre, ai fini della controprestazione, tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura.
Nel caso di esecuzioni reiterate o continuative, questo effetto potrà essere esteso a coloro che -colpevolmente- hanno reso possibili le singole prestazioni.
Nel quadro appena tratteggiato,
è evidente che l’eventuale adozione interinale dell’impegno di spesa, pur in assenza di pagamento, darebbe comunque luogo ad un’inversione procedimentale lesiva delle attribuzioni dell’organo consiliare.
Come testualmente ricordato dall’ente,
nelle ipotesi contemplate dall’art. 194, comma 1, lett. e), del Tuel, il preliminare riconoscimento della legittimità del debito appare strumentale alla complessiva regolarizzazione contabile della spesa.
A conclusioni non difformi, il Collegio perviene anche nell’ipotesi di riconoscimento di un debito da sentenza esecutiva, caratterizzato da assenza di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte che, accertando il diritto di credito del terzo, rende agevole la riconduzione al sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza finanziaria maturato all’esterno di esso (pr. cont. 2.101).
Anche in questo caso, l’avvio del procedimento di spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque, già sul piano logico, una positiva valutazione dell’organo consiliare sulla sussistenza dei presupposti di riconoscibilità, sulle cause ed eventuali responsabilità connesse, nonché sulle misure correttive tese ad evitare il reiterarsi delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale.
L’eventuale previsione in bilancio di uno specifico stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e quant’altro non elimina la necessità che il Consiglio deliberi anche sulla riconoscibilità dei singoli debiti formatisi al di fuori delle norme giuscontabili (pr. cont. 1-105; in termini Sezione controllo per la Basilicata,
parere 27.03.2007 n. 6).
Anche in tale fattispecie, l’eventuale pretermissione o postergazione della procedura consiliare vanificherebbe la disciplina di garanzia prevista dall’ordinamento e la correlata fase di controllo politico amministrativo, nonché la correlata verifica da parte della Procura regionale della Corte dei conti ex art. 23, comma 5, della legge n. 289/2002.
La soluzione appena prospettata risulta anche coerente con i nuovi parametri di deficitarietà strutturale (DM Interno 18.02.2013), che, non prendendo più a riferimento la consistenza dei debiti “formatisi” nel corso dell’esercizio di riferimento, bensì quella dei debiti “riconosciuti” (cfr. parametro n. 8), valorizzano al massimo livello l’importanza del momento formale di riconduzione della passività al sistema di bilancio, nonché del rispetto della scansione procedimentale delineata dal legislatore.
Con il secondo quesito
l’ente chiede se, al fine di evitare possibili prassi elusive del patto di stabilità interno, in presenza di riconoscimento del debito ex art. 194, c. 1, e), e di idoneo stanziamento, a cui non sia seguito entro l’esercizio finanziario il relativo impegno di spesa, sia possibile considerare impegnate le somme dovute sullo stanziamento, dandone atto nel rendiconto di gestione.
Anche in questo caso, la risposta al quesito è negativa.

La soluzione prospettata dall’ente, infatti, postulerebbe una modifica al regolamento di contabilità che, nella fattispecie, trova ostacolo nell’inderogabilità della disciplina degli “impegni di spesa automatici” (art. 183, commi 2, 3, 5 del Tuel), sancita dall’art. 152, comma 4, del Tuel.
In prossimità della scadenza dell’esercizio finanziario, la tempestiva formalizzazione dell’impegno di spesa conseguente alla deliberazione consiliare ex art. 194 del Tuel costituirebbe un obiettivo prioritario per l’ente, proprio al fine di scongiurare i rischi di elusione paventati dall’ente, che esporrebbero il dirigente competente alle possibili conseguenze sanzionatorie per l’indebito miglioramento dei saldi rilevanti ai fini del patto di stabilità interno connesso al suo ritardo.

Venendo al terzo quesito, osserva il Collegio che
qualora l’ente sia a conoscenza di un debito fuori bilancio da sentenza esecutiva al termine dell’esercizio, abbia il dovere di convocare con la massima celerità il consiglio comunale ai fini della tempestiva adozione dei provvedimenti di riconoscimento e delle contestuali misure tese a riportare in equilibrio la gestione (art. 193, comma 3, e 194 del Tuel) modificando, se necessario, le priorità in ordine alle spese già deliberate per assicurare la copertura delle passività insorte.
La consolidata giurisprudenza di questa Sezione ha più volte evidenziato (cfr., ex multis, delibera n. 44/2013/PRSP e deliberazione 15.03.2013 n. 21; in termini, cfr. Ragioneria generale dello Stato, circolare 07.02.2013 n. 5/2013) come
il rinvio di oneri finanziari ad esercizi successivi rispetto a quello in cui maturano i presupposti del riconoscimento può costituire una prassi elusiva del patto di stabilità interno, e dunque illecita, nella misura in cui finisca per rinviare artificiosamente ad esercizi futuri oneri finanziari di cui l’ente è -formalmente o sostanzialmente- a conoscenza entro il termine utile per la variazione di assestamento generale di bilancio.
Nel caso particolare prospettato dall’ente, in cui la passività da soccombenza giudiziaria emerga oltre il termine per la variazione di assestamento generale di bilancio (circostanza, quest’ultima, comprovabile dalla data di comunicazione via PEC del deposito del provvedimento), si ritiene che
l’amministrazione, in assenza di strumenti per assicurare la copertura finanziaria della spesa, abbia l’obbligo di approvare il nuovo bilancio di previsione nel più breve termine possibile, ai fini del celere riconoscimento della passività insorta.
In merito al rischio di azioni esecutive, la Sezione riconosce che
il termine di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo previsto (art. 14, del D.L. 31.12.1996, n. 669 convertito in L. n. 30/1997 e s.m.i.) per l’avvio di procedure esecutive nei confronti della P.A. sia “sufficientemente ampio per provvedere agli adempimenti di cui all'art. 194 del TUEL”, alla luce del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. (cfr. Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Puglia, par. 9/2012, Sezione regionale di controllo per la Campania, parere 23.05.2013 n. 213).
Tale termine, ad avviso della Sezione, è da ritenersi “ragionevole” anche per consentire all’ente di approvare celermente il nuovo bilancio di previsione.
Condivisibili, a riguardo, appaiono le conclusioni ermeneutiche cui approda la Sezione regionale di controllo per la Campania (cfr. parere 23.05.2013 n. 213, cit.), circa
l’impossibilità, durante il periodo di esercizio provvisorio, di provvedere al riconoscimento dei debiti fuori bilancio per via dell’eccezionalità della fattispecie di cui all’art. 194 del Tuel rispetto alle ipotesi previste dall’art. 163, comma 3, del Tuel, ma soprattutto per la mancanza del bilancio d’esercizio, cui ricondurre le passività emerse.
L’esigenza di urgente ripristino degli equilibri di bilancio -recentemente assurti a rango costituzionale– impone la necessità di abbreviare al massimo, nella fattispecie, la durata dell’esercizio provvisorio, che di per sé costituisce una fase eccezionale e transitoria (cfr., sul punto, Sezione delle Autonomie, delibera n. 23/SEZAUT/2013/INPR).
Giova ricordare, peraltro, che
l’art. 191, comma 5, del Tuel introduce forti limitazioni per gli enti locali che presentino, nell’ultimo rendiconto deliberato, disavanzo di amministrazione o che indichino debiti fuori bilancio per i quali non sono stati validamente adottati i provvedimenti di cui all’art. 193 del Tuel, vietando agli stessi di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge, salve le spese da sostenere a fronte di impegni già assunti in esercizi precedenti.
Con il quarto quesito, l’ente chiede se tra le spese riconoscibili rientrino anche quelle relative all’imposta di registro della sentenza, al contributo unificato e alle spese legali.
A riguardo, il Collegio osserva che, al fine di consentire un controllo del costo complessivo della soccombenza da parte dell’organo consiliare (sì da potere valutare anche le responsabilità ivi annesse),
i debiti riconoscibili ex art. 194, comma 1, lett. a), del Tuel, sono quelli strettamente riconducibili alla sentenza o al provvedimento giudiziario esecutivo.
In tale ambito,
si ritiene possano rientrare anche le spese di registrazione della sentenza (cfr., in termini, Sezione regionale di controllo per la Sardegna,
parere 21.01.2009 n. 2), che chi ha assolto l’onere fiscale può ripetere dalla controparte secondo le regole dell’azione di regresso tra condebitori solidali, in coerenza con la statuizione del giudice in punto di spese.
Sono da ritenere parimenti riconoscibili gli oneri per il contributo unificato (costituenti spese di giustizia, e dovuti in ogni caso dalla parte soccombente nell’ipotesi di cui all’art. 13, comma 6-bis, del DPR n. 115/2002), nonché le spese legali della parte vincitrice, entrambe di norma liquidate dal giudice con il dispositivo in seno alle spese di giudizio, secondo i criteri di cui all’art. 91 e ss. del c.p.c..
Non rientrano, invece, nella fattispecie, le eventuali altre spese collegate non al dispositivo della sentenza, bensì ad autonome iniziative dell’ente (ad esempio, incarichi di consulente tecnico di parte, ecc.), semmai riconducibili, in presenza dei relativi presupposti, alla fattispecie di cui all’art. 194, c. 1, lett. e), del Tuel.
Si richiamano, a riguardo, i principi di programmazione della spesa e di prudenza e veridicità nella contabilizzazione, più volte affermati dalla giurisprudenza contabile.
Alla stregua di quanto detto,
la Sezione ritiene che tra le spese riconoscibili ex lett. a) possano rientrare anche gli oneri legati al consulente tecnico d’ufficio (cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
parere 18.09.2012 n. 401), la cui parcella è liquidata con decreto dal giudice che ne pone provvisoriamente l’onere del pagamento a carico di una o più parti della causa, salva statuizione in sentenza circa la parte definitivamente onerata a riguardo (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 29.04.2014 n. 55).

IN EVIDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIAUna volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica Amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell’inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
Quindi, è necessario un rigoroso accertamento al fine di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile all’effetto consistente nella contaminazione, accertamento che presuppone un’adeguata istruttoria non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità.
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L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha specificato che:
   1) il proprietario… è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione … ovvero le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia;
   2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento …;
   3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato) gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall’amministrazione competente;
   4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi;
   5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare”.

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Il
Consiglio di Stato evidenzia, inoltre, che “l’obbligo in capo al proprietario di procedere alla messa in sicurezza e alla bonifica dell’area non potrebbe essere desunto neanche dai principi civilistici in materia di responsabilità aquiliana e, in particolare, da quello di cui all’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode). Tale criterio, infatti, da un lato, richiederebbe, comunque, l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento dell’inquinamento …e, dall’altro, sembra comunque porsi in contraddizione con i precisi obblighi di imputazione di messa in sicurezza e di bonifica previsti dalle norme in materia di tutela ambientale che dettano una disciplina esaustiva della materia, non integrabile dalla sovrapposizione di una normativa (quella del codice civile, appunto) ispirata a ben diverse esigenze. Né vale invocare l’evoluzione subita dal sistema di responsabilità civile verso la direzione del progressivo abbandono dei criteri di imputazione fondati sulla sola colpa. Nel sistema di responsabilità civile, rimane centrale, infatti, anche nelle fattispecie che prescindono dall’elemento soggettivo, l’esigenza di accertare comunque il rapporto di causalità tra la condotta e il danno, non potendo rispondere a titolo di illecito civile colui al quale non sia imputabile neppure sotto il profilo oggettivo l’evento lesivo”.
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il proprietario incolpevole (o il possessore incolpevole), a prescindere da qualunque esame in ordine al nesso eziologico fra la condotta e l’evento dannoso, non potrebbe essere chiamato a rispondere a titolo di oggettiva responsabilità imprenditoriale, gravante su di esso in ragione del mero dato dominicale.
Sul punto vale richiamare ancora le puntuali argomentazioni rese dalla già citata ordinanza dell’Adunanza Plenaria n. 21 del 2013, la quale ha chiarito:
   - che sia nelle ipotesi di danno ambientale disciplinate dalle previsioni della direttiva 2004/35/CE, sia in quelle che restano regolate dalle sole previsioni del Codice dell’Ambiente, non sono configurabili ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale nella determinazione del danno;
   - che il sub-sistema normativo di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006 reca un preciso criterio di imputazione della responsabilità da inquinamento (il quale si innesta sulla più volte richiamata necessità del nesso eziologico), non ammettendo ulteriori, diversi e più sfavorevoli criteri di imputazione;
   - che, in particolare, il vigente quadro normativo nazionale non ammette un criterio di imputazione basato su di una sorta di responsabilità di posizione del proprietario incolpevole (secondo un modello che implicherebbe la responsabilità patrimoniale di quest’ultimo non solo in assenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, ma anche in assenza dell’elemento oggettivo della mera riferibilità sul piano eziologico).

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Alla luce degli atti di causa devono essere, invece, accolte le doglianze di insufficienza dell’istruttoria e della motivazione in relazione all’imposizione alla ricorrente di interventi di messa in sicurezza di emergenza della falda superficiale e profonda.
La consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V, 30.07.2015, n. 3756, Cons. Stato, Sez. VI, 05.10.2016 n. 4099) ha avuto modo di chiarire che “una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica Amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell’inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità affermando, altresì, che è, quindi, necessario un rigoroso accertamento al fine di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile all’effetto consistente nella contaminazione, accertamento che presuppone un’adeguata istruttoria non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità”.
Nella vicenda in esame difetta il necessario e preventivo accertamento della qualità di soggetto responsabile dell’inquinamento in capo alla ricorrente, con la conseguenza che gli obblighi imposti risultano derivare dalla mera qualifica di proprietario e possessore dell’area e, dunque, dal mero collegamento materiale con essa, a prescindere dalla preliminare e necessaria verifica della qualità della Fi.Au. s.p.a. quale soggetto responsabile dell’inquinamento.
Gli obblighi in tal modo imposti risultano, pertanto, illegittimi.
Tale lettura è conforme agli approdi interpretativi cui è giunta l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella ordinanza n. 21 del 25.09.2013 che ha specificato che, dal quadro normativo dell’epoca, come anche precisato dalle successive disposizioni adottate dal legislatore, “emergono le seguenti regole: 1) il proprietario… è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione … ovvero le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia;
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento …;
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato) gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall’amministrazione competente;
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi;
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare
”.
Nella citata ordinanza del Consiglio di Stato si evidenzia che “l’obbligo in capo al proprietario di procedere alla messa in sicurezza e alla bonifica dell’area non potrebbe essere desunto neanche dai principi civilistici in materia di responsabilità aquiliana e, in particolare, da quello di cui all’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode). Tale criterio, infatti, da un lato, richiederebbe, comunque, l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento dell’inquinamento …e, dall’altro, sembra comunque porsi in contraddizione con i precisi obblighi di imputazione di messa in sicurezza e di bonifica previsti dalle norme in materia di tutela ambientale che dettano una disciplina esaustiva della materia, non integrabile dalla sovrapposizione di una normativa (quella del codice civile, appunto) ispirata a ben diverse esigenze. Né vale invocare l’evoluzione subita dal sistema di responsabilità civile verso la direzione del progressivo abbandono dei criteri di imputazione fondati sulla sola colpa. Nel sistema di responsabilità civile, rimane centrale, infatti, anche nelle fattispecie che prescindono dall’elemento soggettivo, l’esigenza di accertare comunque il rapporto di causalità tra la condotta e il danno, non potendo rispondere a titolo di illecito civile colui al quale non sia imputabile neppure sotto il profilo oggettivo l’evento lesivo”.
Nel caso in questione, nel quale, dai dati disponibili, la contaminazione della falda appare provenire dalla zona a monte idrogeologico del sito e, dunque, da aree esterne allo stabilimento di Fi.Au., nonché da sostanze diverse da quelle ivi utilizzate, non risulta, in sostanza, accertata la responsabilità della ricorrente nell’inquinamento del sito, neppure sotto il profilo del nesso di causalità tra l’attività dalla stessa svolta e la predetta situazione di inquinamento, onde, allo stato, la posizione della società non può essere assimilata a quella dell’operatore “responsabile dell’inquinamento”.
Sulla scorta della giurisprudenza amministrativa ormai maggioritaria non può neppure sostenersi che il carattere eminentemente cautelare (e non anche latu sensu sanzionatorio) delle prescrizioni impartite non contrasterebbe con (ma anzi risulterebbe imposta dal) l’applicazione del principio “chi inquina paga” in forza del principio di precauzione.
Va in proposito osservato che la direttiva 2004/35/CE (la quale declina in puntuali statuizioni i richiamati principi comunitari e fornisce indici ermeneutici di grande rilievo sistematico) non opera alcuna distinzione, per quanto riguarda la necessaria sussistenza del nesso eziologico in punto di causazione del danno, fra le misure di prevenzione e le misure di riparazione di cui all’articolo 2, punti 10 e 11.
Al contrario, in entrambi i casi l’insussistenza di un nesso eziologico fra la condotta dell’operatore e l’evento dannoso vale ad escludere qualsiasi conseguenza a suo carico, sia per ciò che riguarda le misure di prevenzione, sia per quanto riguarda le misure di riparazione in senso proprio.
Allo stesso modo, il proprietario incolpevole (o il possessore incolpevole), a prescindere da qualunque esame in ordine al nesso eziologico fra la condotta e l’evento dannoso, non potrebbe essere chiamato a rispondere a titolo di oggettiva responsabilità imprenditoriale, gravante su di esso in ragione del mero dato dominicale.
Sul punto vale richiamare ancora le puntuali argomentazioni rese dalla già citata ordinanza dell’Adunanza Plenaria n. 21 del 2013, la quale ha chiarito:
   - che sia nelle ipotesi di danno ambientale disciplinate dalle previsioni della direttiva 2004/35/CE, sia in quelle che restano regolate dalle sole previsioni del Codice dell’Ambiente, non sono configurabili ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale nella determinazione del danno;
   - che il sub-sistema normativo di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006 reca un preciso criterio di imputazione della responsabilità da inquinamento (il quale si innesta sulla più volte richiamata necessità del nesso eziologico), non ammettendo ulteriori, diversi e più sfavorevoli criteri di imputazione;
   - che, in particolare, il vigente quadro normativo nazionale non ammette un criterio di imputazione basato su di una sorta di responsabilità di posizione del proprietario incolpevole (secondo un modello che implicherebbe la responsabilità patrimoniale di quest’ultimo non solo in assenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, ma anche in assenza dell’elemento oggettivo della mera riferibilità sul piano eziologico).
Non è, inoltre, condivisibile la tesi ministeriale secondo cui il principio “chi inquina paga” dovrebbe essere inteso nel senso che la locuzione “chi” vada riferita anche a colui che, con la propria condotta omissiva o negligente, nulla faccia al fine di ridurre o eliminare l’inquinamento.
Sul punto l’Adunanza Plenaria ha chiarito che il più volte richiamato criterio di imputazione induce a riferire correttamente la condotta foriera di inquinamento (e i conseguenti profili di responsabilità) all’attività di un operatore economico e non già a quella del proprietario incolpevole che non abbia adottato misure adeguate a fronte dell’inquinamento “causato” (secondo una locuzione peraltro impropria) dal terreno di sua proprietà.
Né risulta fondata l’argomentazione secondo cui, laddove non si esigesse dal proprietario del sito una diligenza particolarmente qualificata in relazione a possibili e pregressi fenomeni di inquinamento, il modello normativo si presterebbe ad applicazioni formalistiche e ad escamotages di carattere elusivo.
Si rinvia, in proposito, agli argomenti ed alle considerazioni svolte dall’Adunanza Plenaria nell’esame del sistema di responsabilità delineato dal Codice dell’Ambiente, il quale esclude, come già evidenziato, la responsabilità del proprietario per tali fattispecie.
Poiché, dunque, gli interventi di messa in sicurezza di emergenza consistono, a norma dell’art. 2 del DM Ambiente n. 471/1999, nella rimozione delle fonti inquinanti e l’esecuzione delle opere di ripristino e presidio, secondo quanto prescritto dall’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997, deve essere posta a carico del soggetto che inquina, i provvedimenti impugnati –nella parte in cui ingiungono tali adempimenti a Fi.Au. s.p.a.- devono essere annullati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.09.2019 n. 10757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn forza dell’espresso disposto dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, il proprietario risponde della bonifica del suolo di sua proprietà non a titolo di responsabilità oggettiva ma soltanto ove responsabile quanto meno a titolo di colpa, anche omissiva, per non aver approntato l’adozione delle cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà e preservarla dall’abusivo abbandono dei rifiuti.
Per accertare la rimproverabilità della condotta occorre che gli organi preposti al controllo svolgano approfonditi accertamenti in contraddittorio con i soggetti interessati, di talché, in mancanza, non possono porsi incombenti a carico dei proprietari delle aree.
Peraltro, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, estesa alle ore notturne, tale da impedire ad estranei di invadere l’area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall’art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006 di abbandonarvi rifiuti, posto che la richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa.
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Sussiste la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei luoghi, dovendosi consentire al soggetto nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti, sulla base di elementi precisi e circostanziati, a verificare l’entità e le modalità concrete con cui gli sversamenti si sono svolti nel tempo e più in generale lo stato di incuria e di protratto abbandono dei luoghi.
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... per l'annullamento dell'ordinanza sindacale n. 17 del 26.04.2018, notificata in data 09.05.2018, ad oggetto la rimozione e smaltimento dei rifiuti e bonifica del terreno circostante la Masseria del Cardinale–Qualiano – art. 192 D.lgs. 152 del 03.04.2006;
...
4. Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
5. Deve anzitutto osservarsi che l’ordinanza gravata è riconducibile, conformemente al contenuto ed al fine cui è diretta, all’ordinario potere d’intervento attribuito al Sindaco dall’art. 192 del Codice dell’Ambiente, in caso di accertato abbandono o deposito incontrollato di rifiuti.
5.1 In forza dell’espresso disposto dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, il proprietario risponde della bonifica del suolo di sua proprietà non a titolo di responsabilità oggettiva ma soltanto ove responsabile quanto meno a titolo di colpa, anche omissiva, per non aver approntato l’adozione delle cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà e preservarla dall’abusivo abbandono dei rifiuti. Per accertare la rimproverabilità della condotta occorre che gli organi preposti al controllo svolgano approfonditi accertamenti in contraddittorio con i soggetti interessati, di talché, in mancanza, non possono porsi incombenti a carico dei proprietari delle aree (ex multis, C.d.S. sez. V, 17.07.2014, n. 3786; TAR Campania, Napoli, sez. V, 03.10.2018, n. 5783; TAR Puglia, Bari, sez. I, 24.03.2017, n. 287 e 30.08.2016, n. 1089).
Peraltro, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, estesa alle ore notturne, tale da impedire ad estranei di invadere l’area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall’art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006 di abbandonarvi rifiuti, posto che la richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa (cfr., ex plurimis: C. di Stato, Sez. V, 08.03.2005, n. 935; TAR Campania, sez. V, 03.03.2014, n. 1294 e 05.08.2008, n. 9795);
5.2 Così qualificata l’ordinanza de qua e individuati i presupposti per la sua adozione, va rimarcato che, nel caso di specie, la stessa non è stata preceduta da adeguata istruttoria, di talché non può dirsi accertato l’elemento soggettivo della responsabilità.
Invero, è mancato lo svolgimento di specifici accertamenti in contraddittorio con gli interessati da parte dei soggetti preposti al controllo prima di imporre l’obbligo di rimozione, smaltimento o avvio al recupero dei rifiuti, che, in subiecta materia, si aggiunge all’onere di comunicazione di avvio del procedimento, ponendosi quale specifico dovere dell'Amministrazione e presupposto per l’adozione della relativa ordinanza, in funzione dell’accertamento dell’elemento psicologico del dolo o quantomeno della colpa, che, come visto, deve sorreggere la condotta omissiva secondo l’interpretazione fornita dalla richiamata giurisprudenza.
Sussiste la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei luoghi, dovendosi consentire al soggetto nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti, sulla base di elementi precisi e circostanziati, a verificare l’entità e le modalità concrete con cui gli sversamenti si sono svolti nel tempo e più in generale lo stato di incuria e di protratto abbandono dei luoghi.
Del resto, eventuali profili di colpa non possono essere desunti dalle generiche affermazioni di principio contenute nella motivazione dell’ordinanza e tali da risultare, addirittura, slegati dagli accertamenti condotti dagli organi di polizia giudiziaria che, sia pure sotto il profilo penale, hanno escluso ogni coinvolgimento in ordine al furtivo sversamento.
Peraltro, nemmeno risulta adeguatamente valutata dall’amministrazione la circostanza che sin dal 2004 è stata apposta dai proprietari dei fondi un’apposita recinzione con rete metallica lungo il perimetro dell'area de qua per impedirne l’accesso e che la stessa risulta abusivamente divelta ad opera di ignoti ed oltrepassata furtivamente, presumibilmente al momento dello sversamento, come rimarcato dai ricorrenti e anche in assenza di elementi che possano consentire di ritenere accertato il contrario.
5.3 Da ciò il difetto di istruttoria e di motivazione in ordine ai presupposti per l’imputabilità soggettiva dello sversamento dei rifiuti ai ricorrenti.
6. In conclusione il ricorso è accolto nei termini di cui in motivazione, con conseguente annullamento dell’ordinanza sindacale gravata (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 03.09.2019 n. 4448 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa pubblica amministrazione non può imporre al proprietario di un'area contaminata, che non sia (anche) l'autore dell'inquinamento, l'obbligo di attuare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica di cui all'art. 240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. 03.04.2006, n. 152, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall'art. 253 del medesimo decreto in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare.
Invero, “Da una piana lettura degli articoli 240, lettere i), m) ed n), 242 e 245, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006, alla luce del principio “chi inquina paga” espresso dall’art. 191, par. 2, del TFUE e ribadito dall’art. 239, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 152/2006, emerge infatti che il solo soggetto responsabile dell’inquinamento è tenuto, ai sensi del citato 242, ad eseguire (oltre alle misure di prevenzione, la cui definizione è contenuta nella lettera i) del citato articolo 240) anche le misure di messa in sicurezza di emergenza e le opere di bonifica. Il proprietario dell’area che non sia responsabile dell’inquinamento deve invece provvedere, ai sensi del menzionato comma 2 dell’art. 245, a dare comunicazione dell’inquinamento alla Regione, alla Provincia ed al Comune territorialmente competente, nonché ad attuare unicamente le “misure di prevenzione”, con esclusione delle più gravose misure costituite dalla messa in sicurezza d’emergenza e dalla bonifica (il cui obbligo di attuazione grava, in entrambi i casi, solamente sul soggetto responsabile dell’inquinamento)”.
Altresì, nell’esaminare la portata dell’art. 245, comma 2, del T.U., la giurisprudenza ha statuito che “…. letta alla stregua del principio giurisprudenziale comunitario sopra richiamato, il Collegio condivide quanto sostenuto da parte ricorrente in ordine al fatto che in capo ai soggetti non responsabili del fatto causativo del potenziale inquinamento non possa essere addebitato alcun obbligo di intervento al di fuori dell’invio della comunicazione ex art. 245 e della implementazione di eventuali misure di prevenzione; agli stessi, nondimeno, è riconosciuta una mera facoltà di intervenire spontaneamente nel procedimento per evitare di perdere la proprietà/disponibilità dell’area a seguito dell’esercizio dell’onere reale da parte della P.a.: facoltà che, anche ove manifestata (per l’area in proprietà), tuttavia non può costituire il presupposto per l’emanazione di un obbligo per interventi urgenti e di ripristino anche nelle aree limitrofe”.
INsomma, il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento, “…. ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.

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6.1 Ad ogni modo, sul punto di diritto questa Sezione si riporta alle riflessioni sviluppate nella propria precedente pronuncia 24/09/2018 n. 897, per cui <<la pubblica amministrazione non può imporre al proprietario di un'area contaminata, che non sia (anche) l'autore dell'inquinamento, l'obbligo di attuare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica di cui all'art. 240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. 03.04.2006, n. 152, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall'art. 253 del medesimo decreto in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare (cfr. TAR Toscana, sez. II – 19/06/2018 n. 882 e la giurisprudenza richiamata).
Come evidenziato da TAR Veneto, sez. III – 22/03/2018 n. 333, “Da una piana lettura degli articoli 240, lettere i), m) ed n), 242 e 245, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006, alla luce del principio “chi inquina paga” espresso dall’art. 191, par. 2, del TFUE e ribadito dall’art. 239, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 152/2006, emerge infatti che il solo soggetto responsabile dell’inquinamento è tenuto, ai sensi del citato 242, ad eseguire (oltre alle misure di prevenzione, la cui definizione è contenuta nella lettera i) del citato articolo 240) anche le misure di messa in sicurezza di emergenza e le opere di bonifica. Il proprietario dell’area che non sia responsabile dell’inquinamento deve invece provvedere, ai sensi del menzionato comma 2 dell’art. 245, a dare comunicazione dell’inquinamento alla Regione, alla Provincia ed al Comune territorialmente competente, nonché ad attuare unicamente le “misure di prevenzione”, con esclusione delle più gravose misure costituite dalla messa in sicurezza d’emergenza e dalla bonifica (il cui obbligo di attuazione grava, in entrambi i casi, solamente sul soggetto responsabile dell’inquinamento)”.
Anche il TAR Palermo, sez. I – 11/05/2018 n. 1061, nell’esaminare la portata dell’art. 245, comma 2, del T.U. ha statuito che “…. letta alla stregua del principio giurisprudenziale comunitario sopra richiamato, il Collegio condivide quanto sostenuto da parte ricorrente in ordine al fatto che in capo ai soggetti non responsabili del fatto causativo del potenziale inquinamento non possa essere addebitato alcun obbligo di intervento al di fuori dell’invio della comunicazione ex art. 245 e della implementazione di eventuali misure di prevenzione; agli stessi, nondimeno, è riconosciuta una mera facoltà di intervenire spontaneamente nel procedimento per evitare di perdere la proprietà/disponibilità dell’area a seguito dell’esercizio dell’onere reale da parte della P.a.: facoltà che, anche ove manifestata (per l’area in proprietà), tuttavia non può costituire il presupposto per l’emanazione di un obbligo per interventi urgenti e di ripristino anche nelle aree limitrofe”
>>.
Il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento, “…. ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” (TAR Piemonte, sez. I – 12/09/2016 n. 1142, che risulta appellata; Consiglio di Stato, sez. VI – 05/10/2016 n. 4119)”.
6.2 Nello specifico, non risulta che l’amministrazione procedente abbia effettuato approfondimenti sul tema illustrato (in particolare, sulla concreta riconduzione degli interventi imposti nell’alveo delle “misure di prevenzione”), e detta omissione integra un ulteriore deficit istruttorio nell’ambito del procedimento intrapreso (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 30.08.2019 n. 790 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento ed eventuali responsabilità della curatela fallimentare.
In sede di applicazione dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza dell'individuazione di una univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso sull'abbandono dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell'impresa fallita.
Si è pertanto evidenziato, in applicazione di tale orientamento giurisprudenziale, che "il curatore fallimentare non è correttamente individuato come soggetto passivo dei sopra indicati obblighi di facere dal momento che a tale organo della procedura fallimentare sono solo attribuiti poteri di disporre dei beni fallimentari in vista delle finalità proprie della procedura concorsuale, senza che ciò comporti l'attribuzione allo stesso del dovere di adottare comportamenti attivi come richiesti dall'ordinanza impugnata, poiché il curatore fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito, salvo quanto può essere più specificamente connesso all'eventuale esercizio provvisorio dell'impresa”.
Ciò in quanto la curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze dirette alla bonifica di siti, per effetto del precedente comportamento (omissivo o commissivo) dell'impresa fallita, posto che, tra l’altro, il curatore, nell’espletamento del munus publicum, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l'art. 72 R.D. n. 267 del 1942), in via generale «non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926)» (...), avendo il fallimento finalità meramente liquidatorie.
Ed invero, per un verso, la
«soluzione opposta «determinerebbe un sovvertimento del principio "chi inquina paga" scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con l'inquinamento» (...). Correlativamente, il fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura (...). Su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale. La curatela fallimentare, pertanto, non subentra «negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione passiva dell'ordine di bonifica».
Alla luce di tali principi si è pertanto ritenuto che l’eccezione al difetto di legittimazione passiva della Curatela potrebbe aversi nell’ipotesi di autorizzazione da parte del competente Tribunale fallimentare all’esercizio provvisorio, ai sensi dell'art. 90 l.fall., atteso che solo in tale ipotesi la curatela non avrebbe esclusivamente finalità liquidatorie della massa fallimentare.
Detti principi sono stati invero sostenuti dalla giurisprudenza di questa Sezione e sono stati ribaditi anche dalla giurisprudenza recente secondo cui “È illegittima l'ordinanza con cui il Sindaco ordina al curatore fallimentare di procedere alla messa in sicurezza e allo smaltimento dei sali di cianuro presenti presso l'insediamento produttivo sul quale l'azienda fallita aveva svolto la propria attività d'impresa, atteso che fatta salva l'eventualità di un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare in punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando la medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti”.

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La giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni che, in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento", accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta.
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o a verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile (anche) a responsabilità della Curatela ricorrente una presunta culpa in vigilando di quest'ultima (comunque non evidenziata nel gravato provvedimento) non sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode, sarebbe inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ. il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato).
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Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192 D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
   a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente in motivazione;
   b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.
Per la costante giurisprudenza in materia vi è infatti la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato all’istruttoria amministrativa.
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato, deve ritenersi la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei luoghi.

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10. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente richiama un costante orientamento giurisprudenziale, noto alla Sezione, che peraltro non appare pertinente rispetto al caso di specie, fondandosi esso sul difetto di legittimazione passiva della Curatela in relazione alle attività di inquinamento e di sversamento dei rifiuti ricollegabili all’impresa in bonis, in quanto verificatesi in data anteriore al fallimento.
10.1. Ed invero, in base a tale giurisprudenza, "in sede di applicazione dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza dell'individuazione di una univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso sull'abbandono dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell'impresa fallita” (TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 08.02.2016 n. 1804; TRGA Trentino Alto Adige, Trento, Sez. Unica, 24.11.2017, n. 309).
Si è pertanto evidenziato, in applicazione di tale orientamento giurisprudenziale, che "il curatore fallimentare non è correttamente individuato come soggetto passivo dei sopra indicati obblighi di facere dal momento che a tale organo della procedura fallimentare sono solo attribuiti poteri di disporre dei beni fallimentari in vista delle finalità proprie della procedura concorsuale, senza che ciò comporti l'attribuzione allo stesso del dovere di adottare comportamenti attivi come richiesti dall'ordinanza impugnata, poiché il curatore fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito, salvo quanto può essere più specificamente connesso all'eventuale esercizio provvisorio dell'impresa” (TAR Toscana, Firenze, sez. III, 27.10.2015 n. 1457; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 05.01.2016, n. 1).
Ciò in quanto la curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze dirette alla bonifica di siti, per effetto del precedente comportamento (omissivo o commissivo) dell'impresa fallita, posto che, tra l’altro, il curatore, nell’espletamento del munus publicum, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l'art. 72 R.D. n. 267 del 1942), in via generale «non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926)» (...), avendo il fallimento finalità meramente liquidatorie.
Ed invero, per un verso, la
«soluzione opposta «determinerebbe un sovvertimento del principio "chi inquina paga" scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con l'inquinamento» (...). Correlativamente, il fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura (...). Su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale. La curatela fallimentare, pertanto, non subentra «negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione passiva dell'ordine di bonifica» (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 11.05.2017 n. 746).
Alla luce di tali principi si è pertanto ritenuto che l’eccezione al difetto di legittimazione passiva della Curatela potrebbe aversi nell’ipotesi di autorizzazione da parte del competente Tribunale fallimentare all’esercizio provvisorio, ai sensi dell'art. 90 l.fall., atteso che solo in tale ipotesi la curatela non avrebbe esclusivamente finalità liquidatorie della massa fallimentare (TAR Puglia, Lecce, I, 19.02.2014 n. 504; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 09.01.2017 n. 38).
Detti principi sono stati invero sostenuti dalla giurisprudenza di questa Sezione (cfr. la sentenza 829/2018 del 08.02.2018) e sono stati ribaditi anche dalla giurisprudenza recente (cfr. ex multis TAR Puglia Lecce Sez. II, 16/04/2019, n. 611 secondo cui “È illegittima l'ordinanza con cui il Sindaco ordina al curatore fallimentare di procedere alla messa in sicurezza e allo smaltimento dei sali di cianuro presenti presso l'insediamento produttivo sul quale l'azienda fallita aveva svolto la propria attività d'impresa, atteso che fatta salva l'eventualità di un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare in punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando la medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti”).
10.2. Detto motivo di ricorso peraltro, come innanzi accennato, non è meritevole di accoglimento, postulando la richiamata giurisprudenza la circostanza che lo sversamento dei rifiuti si sia verificato in data anteriore al fallimento –tanto è vero che l’eccezione a tali principi è data dalla circostanza che vi sia stata autorizzazione da parte del competente Tribunale fallimentare all’esercizio provvisorio, ai sensi dell'art. 90 l.fall.– mentre nell’ipotesi di specie dalle stesse deduzioni di parte ricorrente e dagli atti istruttori richiamati nell’ordinanza gravata risulta che lo sversamento dei rifiuti, sub specie di discarica abusiva, era imputabile alla società cui era stato sublocato l’immobile; da ciò si desume che dopo la dichiarazione di fallimento fosse ancora in essere il contratto di locazione fra la Curatela del Fallimento -OMISSIS- e la -OMISSIS- , la quale poi nel settembre del 2012 –ovvero dopo la dichiarazione di fallimento– provvedeva a sublocare l’immobile di proprietà della ricorrente alla società -OMISSIS-, che ivi operava l’illecito sversamento dei rifiuti.
11. Per contro fondato è il secondo motivo di ricorso, con cui parte ricorrente deduce l’insussistenza del presupposto dell’imputabilità dello sversamento dei rifiuti, dato dalla sussistenza di una corresponsabilità, quanto meno colposa, e il difetto della relativa istruttoria e motivazione.
11.1 Ciò in considerazione del rilievo che nell’ordinanza gravata, da qualificarsi, come chiaramente evincibile dall’obbligo imposto, come ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti, ai sensi dell’art. 192 D.lgs. 152/2006, manca qualsiasi indicazione in ordine alla responsabilità per colpa della Curatela, in qualità di soggetto proprietario.
11.2. Ed invero la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni (ex multis, Cfr.: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004), che, in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino (Cfr.: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento", accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa (Cfr.: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR Umbria 10.03.2000, n. 253).
11.3. Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta (Cfr. C. di S., V, 19.3.2009, n. 1612, 25.08.2008, n. 4061).
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo (TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
11.4. Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o a verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile (anche) a responsabilità della Curatela ricorrente, una presunta culpa in vigilando di quest'ultima (comunque non evidenziata nel gravato provvedimento) non sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode, sarebbe inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ. il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato).
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192 D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
   a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente in motivazione;
   b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo (Cons. Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar Campania Napoli Sez. V, n. 12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016; 945/2016; Tar Sardegna, Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n. 1068/2016).
11.5. Per la costante giurisprudenza in materia vi è infatti la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo (Cons. Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar Campania Napoli Sez. V, n. 12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016; 945/2016; Tar Sardegna, Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n. 1068/2016).
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato all’istruttoria amministrativa (ex multis TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato (ordinanza, sez. IV, n. 2000 del 12.05.2017), deve ritenersi la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei luoghi.
11.6. Da ciò il difetto di istruttoria e di motivazione in ordine ai presupposti per l’imputabilità soggettiva dello sversamento dei rifiuti alla Curatela (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 29.08.2019 n. 4423 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa giurisprudenza si è espressa in materia di ordinanze sindacali per rimozione/smaltimento rifiuti e obblighi di bonifica ravvisando, essenzialmente, un principio di “non identità” tra gli obblighi dell’impresa fallita e quelli spettanti (e suscettibili di ordine) alla curatela fallimentare.
Al riguardo, è stato statuito quanto segue (difetto di legittimazione passiva, per insussistenza di <obblighi> suscettibili di essere posti a carico del Fallimento, a danno dei creditori):
   * <<La curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze sindacali dirette alla bonifica dei siti inquinanti, sia in quanto non sussiste alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti, sia perché la legittimazione passiva della curatela fallimentare in tema di ordinanze sindacali di bonifica determinerebbe un sovvertimento del principio " chi inquina paga ", scaricando i costi sui creditori che non hanno alcun collegamento con l'inquinamento>>;
   * <<Non può essere richiesto al curatore un intervento che abbia lo scopo di bonificare il sito dell'attività produttiva dell'impresa fallita dopo la cessazione dell'attività di quest'ultima; in merito agli obblighi dei curatori, fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare sull'abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può infatti essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti; invero, la società dichiarata fallita conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio: solo ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento e, d'altra parte, il fallimento non acquista la titolarità dei beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, la quale riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura>>;
   * <<Il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia un successore, dell'impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio. Solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento. Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest'ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura. Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito, in via generale, non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge. Nei confronti del Fallimento non è pertanto ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall'art. 194, comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006, della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l'articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa>>;
   *<<È illegittima l'ordinanza con cui il Sindaco ordina al curatore fallimentare di procedere alla messa in sicurezza di sostanze  (un sacco rotto contenente cianuro di sodio e allo smaltimento dei sali di cianuro) presenti presso l'insediamento produttivo sul quale l'azienda fallita aveva svolto la propria attività d'impresa, atteso che fatta salva l'eventualità di un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare in punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando la medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti>>;
   * <<In tema di inquinamento, il potere del curatore di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura. concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti e perciò la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione passiva dell'ordine di bonifica>>.
In sostanza non può essere richiesto al Fallimento della società (in persona del curatore) l’adozione di comportamenti “attivi”, con oneri di intervento, in concreto, di bonifica del sito ove operava l’attività produttiva (riferita all’impresa fallita).
La curatela fallimentare non può essere, dunque, destinataria, a titolo di “responsabilità di posizione”, di provvedimenti diretti al ripristino/bonifica dei territori, non subentrando essa negli obblighi correlati all’eventuale responsabilità del fallito .
Posto che il Fallimento non acquista la titolarità dei beni ed il curatore è solo un Amministratore, con potere di disporne, ma senza la vera e propria “titolarità” dei relativi diritti. La sua legittimazione straordinaria trae forza dal “munus publicum”, che caratterizza il ruolo del curatore, quale organo di una procedura giudiziaria diretta alla tutela dei creditori.
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La giurisprudenza si è espressa in materia (ordinanze sindacali rimozione/smaltimento rifiuti e obblighi di bonifica), ravvisando, essenzialmente, un principio di “non identità” tra gli obblighi dell’impresa fallita e quelli spettanti (e suscettibili di ordine) alla curatela fallimentare.
Per economia processuale si richiamano le seguenti pronunzie che delineano tale orientamento (difetto di legittimazione passiva, per insussistenza di <obblighi> suscettibili di essere posti a carico del Fallimento, a danno dei creditori):
   * <<La curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze sindacali dirette alla bonifica dei siti inquinanti, sia in quanto non sussiste alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti, sia perché la legittimazione passiva della curatela fallimentare in tema di ordinanze sindacali di bonifica determinerebbe un sovvertimento del principio " chi inquina paga ", scaricando i costi sui creditori che non hanno alcun collegamento con l'inquinamento>> (TAR Catania, sez. I, 05/09/2018 n. 1764);
   * <<Non può essere richiesto al curatore un intervento che abbia lo scopo di bonificare il sito dell'attività produttiva dell'impresa fallita dopo la cessazione dell'attività di quest'ultima; in merito agli obblighi dei curatori, fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare sull'abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può infatti essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti; invero, la società dichiarata fallita conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio: solo ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento e, d'altra parte, il fallimento non acquista la titolarità dei beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, la quale riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura>> (TAR Emilia Romagna, sez. II, 03/10/2017 n. 644);
   * <<Il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia un successore, dell'impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio. Solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento. Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest'ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura. Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito, in via generale, non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge. Nei confronti del Fallimento non è pertanto ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall'art. 194, comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006, della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l'articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa>> (TAR Lombardia, Milano, sez. III, 03/03/2017 n. 520);
   *<<È illegittima l'ordinanza con cui il Sindaco ordina al curatore fallimentare di procedere alla messa in sicurezza di sostanze  (un sacco rotto contenente cianuro di sodio e allo smaltimento dei sali di cianuro) presenti presso l'insediamento produttivo sul quale l'azienda fallita aveva svolto la propria attività d'impresa, atteso che fatta salva l'eventualità di un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare in punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando la medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti>> (TAR Lombardia, Milano, sez. III, 03/03/2017 n. 520);
   * <<In tema di inquinamento, il potere del curatore di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura. concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti e perciò la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione passiva dell'ordine di bonifica>> (Consiglio di Stato, sez. V, 16/06/2009 n. 3885).
In sostanza non può essere richiesto al Fallimento della società (in persona del curatore) l’adozione di comportamenti “attivi”, con oneri di intervento, in concreto, di bonifica del sito ove operava l’attività produttiva (riferita all’impresa fallita).
La curatela fallimentare non può essere, dunque, destinataria, a titolo di “responsabilità di posizione”, di provvedimenti diretti al ripristino/bonifica dei territori, non subentrando essa negli obblighi correlati all’eventuale responsabilità del fallito .
Posto che il Fallimento non acquista la titolarità dei beni ed il curatore è solo un Amministratore, con potere di disporne, ma senza la vera e propria “titolarità” dei relativi diritti. La sua legittimazione straordinaria trae forza dal “munus publicum”, che caratterizza il ruolo del curatore, quale organo di una procedura giudiziaria diretta alla tutela dei creditori.
In conclusione, per questo primo aspetto (A), il ricorso va accolto per carenza di legittimazione passiva del Fallimento quale soggetto responsabile e obbligato “in proprio”, non avendo questo proseguito l’attività e non avendo assunto alcun ruolo o veste operativa.
Con conseguente impossibile attribuzione di diretta ed autonoma responsabilità per le azioni che sono state individuate dalla Provincia come cause dell’inquinamento riscontrato nelle aree indicate sub “b” del provvedimento (in solido con Sy. e Sa.) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 27.08.2019 n. 722 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: L’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla cui base è stata adottata l’ordinanza in questione, prevede espressamente, al comma 3, che spetti al Sindaco l'adozione dell'ordinanza con cui dispone le operazioni necessarie alla rimozione, all'avvio a recupero e allo smaltimento dei rifiuti e al ripristino dello stato dei luoghi, fissando altresì il termine entro cui provvedere, decorso il quale si procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati e al recupero delle somme anticipate; e la giurisprudenza, anche del Consiglio di Stato, ha ribadito in diverse pronunce tale indicazione di competenza.
Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, il suddetto art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, che attribuisce espressamente al Sindaco la competenza ad emanare ordinanze in materia di rimozione dei rifiuti, prevale sulla norma generale di cui all’art. 107, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000, in quanto disposizione speciale sopravvenuta.
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata è stata adottata dal Responsabile dell'Area Tecnica del Comune invece che dal Sindaco, per cui la stessa è da ritenersi viziata per incompetenza.

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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 11 prot. 3459 del 12.6.2013 del Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di Trevenzuolo, notificata il 20.06.2013, con cui si è ordinato al Consorzio di Bonifica Veronese -ed in caso di inottemperanza di quest'ultimo ai proprietari dei terreni- la rimozione e smaltimento dei rifiuti solidi e dei limi nella fascia di competenza identificata al foglio 28, mappali 23, 106, 24, 25 del Comune di Trevenzuolo e il ripristino dello stato dei luoghi entro trenta giorni dal ricevimento dell'atto, con invio all'Area Tecnica di copia della regolare documentazione di avvenuto smaltimento nonché degli esiti del campionamento delle matrici ambientali;
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Con ordinanza n. 11, prot. n. 3459, del 12.06.2013 (doc. n. 2 in atti primo deposito ricorrente), il Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di Trevenzuolo ha ordinato al Consorzio di Bonifica Veronese la rimozione e smaltimento dei rifiuti solidi e dei limi nella fascia di competenza identificata al foglio 28, mappali 23, 106, 24, 25 del Comune di Trevenzuolo e il ripristino dello stato dei luoghi, entro trenta giorni dal ricevimento dell’atto, con invio all'Area Tecnica di copia della regolare documentazione di avvenuto smaltimento nonché degli esiti del campionamento delle matrici ambientali.
Nell’ordinanza si disponeva inoltre che, in caso di inottemperanza da parte del Consorzio di Bonifica, all'esecuzione del provvedimento avrebbero dovuto dare corso, nei successivi trenta giorni dalla notifica di apposita comunicazione del Comune, i proprietari dell’area, e si avvisava che, in caso di inottemperanza, il Comune avrebbe proceduto all'esecuzione degli interventi in danno del soggetto obbligato, con recupero delle spese e fatta salva l'applicazione delle sanzioni conseguenti alla violazione.
L’ordinanza è stata adottata sulla base delle segnalazioni dell’ARPAV che, a seguito di un sopralluogo eseguito il 07.04.2011 lungo un tratto del fossato del corso d’acqua Gamandone, in cui erano stati effettuati dei lavori di escavazione di limo in data 10.03.2011 da parte del Consorzio di Bonifica, aveva comunicato che nel materiale estratto e depositato lungo l'argine risultavano presenti rifiuti mescolati al sedimento e concentrazioni di cobalto e stagno superiori ai limiti di legge (come da analisi effettuate), che impedivano il riutilizzo in loco del sedimento stesso.
Il superamento dei limiti di concentrazione era stato confermato anche dalle analisi del 06.02.2013, commissionate dal Comune alla ditta Galileo Servizi.
Il 23.04.2013, si era tenuta, quindi, una riunione di coordinamento promossa dal Comune di Trevenzuolo (presenti anche i rappresentanti di ARPAV, della Provincia di Verona Settore Ambiente e del Consorzio di Bonifica), nelle cui conclusioni si prevedeva che “il Comune di Trevenzuolo e/o il Consorzio, anche di comune accordo, procederanno alla rimozione ed avvio a recupero/smaltimento (il Consorzio parteciperà alla sola rimozione) dei sedimenti e degli altri rifiuti presenti nell'area in questione, depositati sul suolo e nel suolo, sulla base di un Programma di smaltimento approvato dal Comune, ai sensi della DGRV 3560/1999” (verbale Conferenza di servizi trasmesso dalla Provincia di Verona, doc. n. 6 in atti primo deposito ricorrente), salva l'effettuazione di verifiche di fondo scavo del canale Gamandone per accertare la potenziale contaminazione della matrice ambientale, anche in relazione agli scarichi della ditta Anodall, indicata come possibile responsabile della predetta contaminazione (come riferito nel verbale della riunione di coordinamento e nella comunicazione 08.05.2013 a firma del Responsabile del Settore Area Tecnica del Comune di Trevenzuolo).
Successivamente, il Comune, con una “nota integrativa alla riunione del 23.04.2013” dell'08.05.2013, comunicava al Consorzio e agli altri partecipanti alla riunione che “il Comune di Trevenzuolo non intende accollarsi responsabilità imputabili ad altri soggetti e sostenerne le relative spese. Inoltre, essendo la procedura in ambito art. 192 del D. Lgs. 152/2006, indipendentemente da quanto stabilito in sede di riunione di coordinamento, rimane di esclusiva competenza comunale…”, e precisava che “il deposito dei sedimenti scavati dal fosso Gamandone, realizzato sull'argine del fossato stesso è da considerarsi come deposito/abbandono incontrollato di rifiuti ai sensi dell'art. 192 del D.Lgs. 152/2006 da parte del Consorzio di Bonifica Veronese. Pertanto il Comune di Trevenzuolo provvederà immediatamente a comunicare avvio di procedimento ai sensi art. 7-8-9-10 Legge 241/1990 al Consorzio di Bonifica Veronese ed ai proprietari dei terreni, che rispondono in solido, affinché provveda entro il termine indicato ad eseguire quanto indicato in tema di smaltimento e verifiche analitiche sullo sfondo dello scavo accordate in sede di riunione di coordinamento…” (doc. n. 12 in atti primo deposito ricorrente).
Il Comune ha, quindi, comunicato l’avviso di avvio del procedimento (nota del 10.05.2013, prot. n. 2743, doc. n. 3 in atti primo deposito ricorrente) finalizzato all’adozione dell’ordinanza per abbandono e deposito incontrollato di rifiuti ex art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006 e ha adottato l'ordinanza impugnata in questa sede, confermando poi, in riscontro a quanto comunicato dal Consorzio con nota del 19.06.2013, le proprie prese di posizione con lettera del 25.06.2013 (doc. n. 13 in atti primo deposito ricorrente).
Il Consorzio, al solo fine di garantire la tutela dell'ambiente e in particolare del suolo e del sottosuolo dei terreni in cui sono stati depositati i materiali prelevati nel fossato Gamandone, tenendo altresì conto della paventata comminatoria delle sanzioni, anche penali, derivanti dalla mancata esecuzione dell'ordinanza, e riservandosi ogni iniziativa volta all'accertamento dell’illegittimità degli atti posti in essere dal Comune, nonché al recupero delle spese ed al risarcimento dei danni (vedi nota prot. 12665 del 26.07.2014, doc. 14 in atti primo deposito ricorrente), ha proceduto alla rimozione e smaltimento del materiale depositato lungo il fossato, previa approvazione del piano di smaltimento da parte del Comune.
Il Consorzio, con il presente ricorso, impugna l’ordinanza comunale e i relativi atti presupposti e connessi, lamentandone l’illegittimità per i seguenti motivi di ricorso: ...
...
Il ricorso è fondato e va accolto con riferimento all’assorbente vizio di incompetenza dedotto dal ricorrente Consorzio con il primo motivo di ricorso.
L’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla cui base è stata adottata l’ordinanza in questione, prevede, infatti, espressamente, al comma 3, che spetti al Sindaco l'adozione dell'ordinanza con cui dispone le operazioni necessarie alla rimozione, all'avvio a recupero e allo smaltimento dei rifiuti e al ripristino dello stato dei luoghi, fissando altresì il termine entro cui provvedere, decorso il quale si procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati e al recupero delle somme anticipate; e la giurisprudenza, anche del Consiglio di Stato, ha ribadito in diverse pronunce tale indicazione di competenza.
Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, il suddetto art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, che attribuisce espressamente al Sindaco la competenza ad emanare ordinanze in materia di rimozione dei rifiuti, prevale sulla norma generale di cui all’art. 107, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000, in quanto disposizione speciale sopravvenuta (Cons. Stato, sez. V, n. 1684 del 2019; id., n. 4230 del 2017; id., n. 58 del 2016; id., n. 4635 del 2012; id., n. 3765 del 2009; TAR Campania Napoli, n. 1409 del 2018 e n. 3533 del 2017; TAR Puglia Bari n. 1232 del 2018; TAR Lombardia Brescia, n. 18 del 2019; Tar Veneto, n. 313 del 2019; TAR Campania, Salerno, n. 1644 del 2012; TAR Emilia Romagna, Bologna, n. 61 del 2011).
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata è stata adottata dal Responsabile dell'Area Tecnica del Comune invece che dal Sindaco, per cui la stessa è da ritenersi viziata per incompetenza, con conseguente accoglimento del primo motivo di ricorso ed assorbimento delle restanti censure, in coerenza con le statuizioni di cui a Cons. Stato Ad. Plen. n. 5/2015 (in particolare par. 8.3.1), considerato che il giudice amministrativo non può esprimersi su poteri amministrativi non ancora esercitati dall’organo competente.
L'accoglimento della domanda di annullamento per vizio di incompetenza, con il conseguente necessario riesercizio del potere, esclude allo stato la sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno (cfr., da ultimo, Cons. Stato, n. 6320 del 2108, secondo cui l'annullamento del provvedimento per vizi formali “…in quanto non contiene alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto nel provvedimento impugnato, non consente di accogliere la domanda finalizzata al perseguimento della pretesa sostanziale (come il risarcimento del danno)…omissis…prima del riesercizio dell'azione amministrativa, è impossibile enucleare la configurabilità di un collegamento causale tra il danno lamentato ed il comportamento procedimentale dell'Amministrazione”; Cons. Stato n. 318 del 2014; vedi anche, tra le altre, Tar Catania, n. 966 del 2019) (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 26.08.2019 n. 943 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sull'ordinanza sindacale di rimozione rifiuti abbandonati.
Per la costante giurisprudenza in materia vi è la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato all’istruttoria amministrativa.
Pertanto, deve ritenersi la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei luoghi.
Ciò posto irrilevante si palesa la circostanza che alla ricorrente, prima dell’adozione dell’ordinanza sindacale sia stata inviata in precedenza la diffida del pari oggetto di gravame, in primo luogo in quanto dal contenuto della stessa non si poteva desumere la sua natura di atto endoprocedimentale, volto a favorire in primo luogo la partecipazione procedimentale -non essendovi tra l’altro nella stessa alcun riferimento alla possibilità di presentare memorie e o documenti ex art. 10 l. 241/1990- ed in secondo luogo in quanto, come detto, nella specifica materia ambientale non è sufficiente la mera comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 l. 241/1990, ma è necessario quel quid pluris dato dagli accertamenti in contraddittorio, per cui deve essere data la possibilità alla parte destinataria dell’ordinanza di partecipare all’istruttoria procedimentale ed in particolare ai sopralluoghi.
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In caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento", accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta.
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
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Il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo, non può arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall'art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 22 del 1997 (ora art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode, è inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ. il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato).
Ciò senza mancare di rilevare che in base ad un condivisibile orientamento giurisprudenziale l'obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato; in tale ottica la mancata recinzione del fondo, con effetto contenitivo dubitabile, atteso che non sempre la presenza di una recinzione è di ostacolo allo sversamento dei rifiuti, non può comunque costituire di per sé prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando la recinzione una facoltà e non un obbligo.
Come osservato dalla giurisprudenza “L’obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato. Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta manutenzione e di pulizia le opere gestite dal rimuovere gli effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti commessi da terzi ignoti”.
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192 D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
   a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente in motivazione;
   b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.
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11. Ciò posto, qualificata l’ordinanza de qua come ordinanza di rimozione dei rifiuti adottata dal Sindaco nell’esercizio degli ordinari poteri di cui all’art. 192 del T.U.A., il ricorso deve essere accolto per l’assorbente profilo della fondatezza del primo motivo di ricorso, nella parte in cui si lamenta l’assenza del necessario contraddittorio procedimentale, da estendersi anche alla fase degli accertamenti istruttori –accertamento tanto più necessario nell’ipotesi di specie avendo la ricorrente contestato anche la circostanza che i rifiuti rinvenuti insistessero nella sua proprietà– nonché nella parte riferita all’assenza di motivazione e di istruttoria in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo e/o della colpa.
11.1. Per la costante giurisprudenza in materia vi è infatti la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo (Cons. Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar Campania Napoli Sez. V, n. 12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016; 945/2016; Tar Sardegna, Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n. 1068/2016).
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato all’istruttoria amministrativa (ex multis TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato (ordinanza, sez. IV, n. 2000 del 12.05.2017), deve ritenersi la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei luoghi.
Ciò posto irrilevante si palesa la circostanza che alla ricorrente, prima dell’adozione dell’ordinanza sindacale sia stata inviata in precedenza la diffida del pari oggetto di gravame, in primo luogo in quanto dal contenuto della stessa non si poteva desumere la sua natura di atto endoprocedimentale, volto a favorire in primo luogo la partecipazione procedimentale -non essendovi tra l’altro nella stessa alcun riferimento alla possibilità di presentare memorie e o documenti ex art. 10 l. 241/1990- ed in secondo luogo in quanto, come detto, nella specifica materia ambientale non è sufficiente la mera comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 l. 241/1990, ma è necessario quel quid pluris dato dagli accertamenti in contraddittorio, per cui deve essere data la possibilità alla parte destinataria dell’ordinanza di partecipare all’istruttoria procedimentale ed in particolare ai sopralluoghi.
11.2. Parimenti illegittima deve ritenersi l’ordinanza sotto il profilo della mancanza di adeguata istruttoria e motivazione in ordine all’imputabilità soggettiva dello sversamento dei rifiuti a parte ricorrente.
Infatti la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni (ex multis, Cfr.: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004), che, in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino (Cfr.: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento", accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa (Cfr.: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR Umbria 10.03.2000, n. 253).
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta (Cfr. C. di S., V, 19.03.2009, n. 1612, 25.08.2008, n. 4061).
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo (TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o a verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile (anche) a responsabilità della ricorrente, una presunta culpa in vigilando di quest'ultima (comunque non evidenziata nel gravato provvedimento) non sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Infatti, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo, non può arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall'art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 22 del 1997 (ora art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa, (Cfr., ex plurimis: C. di S., Sez. V, 08.03.2005, n. 935; TAR Campania, Sez. V, 05.08.2008, n. 9795; TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294 cit.).
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode, è inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ. il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato).
Ciò senza mancare di rilevare che in base ad un condivisibile orientamento giurisprudenziale (tra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 28.09.2015, n. 4504, TAR Bari-Puglia, sez. I, 24.03.2017, n. 287; da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV 15/12/2017 n. 05911) l'obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato; in tale ottica la mancata recinzione del fondo, con effetto contenitivo dubitabile, atteso che non sempre la presenza di una recinzione è di ostacolo allo sversamento dei rifiuti, non può comunque costituire di per sé prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando la recinzione una facoltà e non un obbligo.
Come osservato dalla giurisprudenza (TAR Bari, sez. I, 24/03/2017, n. 287 cit.) “L’obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato.
Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta manutenzione e di pulizia le opere gestite dal rimuovere gli effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti commessi da terzi ignoti (Cons. Stato n. 705/2016)
”.
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192 D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
   a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente in motivazione;
   b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo (Cons. Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar Campania Napoli Sez. V, n. 12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016; 945/2016; Tar Sardegna, Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n. 1068/2016).
12. Il ricorso va pertanto accolto, con conseguente annullamento degli atti impugnati, stante l’assorbenza del primo motivo di ricorso, comportante l’illegittimità in toto dell’ordinanza sindacale, rispetto al quarto motivo di ricorso, che, in quanto volto a contestare solo la brevità del termine assegnato per provvedere alla rimozione dei rifiuti, non può che intendersi formulato in via sussidiaria (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 21.08.2019 n. 4377 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn materia di responsabilità ambientale connessa all’obbligo di bonifica è principio ormai largamente consolidato quello chiaramente espresso dagli artt. 242 e 244 del D.Lgs. n. 152/2006 secondo cui “l’obbligo di bonifica è in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative hanno l’onere di individuare e ricercare”; tale principio è stato costantemente ribadito dal Giudice Amministrativo.
Anche la giurisprudenza comunitaria si è costantemente orientata nei termini che precedono, ritenendo che l’addebito dei costi dello smaltimento dei rifiuti a soggetti che non li hanno prodotti risulta essere incompatibile con il principio “chi inquina paga”.
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In tale quadro non sono solo i soggetti privati a venire gravati di precisi obblighi di intervento; esistono infatti chiari doveri della Pubblica Amministrazione posti a garanzia del funzionamento del sistema di tutela ambientale delineato dal legislatore, il cui rispetto è una precondizione dello stesso.
Come noto, già l’art. 17 del D.Lgs. 22/1997 e l’art. 8 del D.M. 25/10/1999 n. 471 prevedevano che i soggetti e gli organi pubblici che nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali avessero individuato siti nei quali i livelli di inquinamento fossero risultati superiori ai limiti normativamente previsti, ne dovessero dare comunicazione al Comune, che doveva diffidare il responsabile dell’inquinamento a provvedere agli interventi di bonifica, nonché alla Provincia ed alla Regione.
La normativa vigente, a sua volta, impone all’Amministrazione il preciso obbligo giuridico di individuazione del soggetto responsabile dell’inquinamento rilevato e l’emanazione del conseguente provvedimento di diffida.
Tuttavia, in mancanza della individuazione di un soggetto a ciò obbligato, l’obbligo di procedere, ai sensi dell’art. 250 del D.Lgs. n. 152/2006, grava “de residuo” sul Comune, in quanto territorialmente competente sul luogo del rinvenimento medesimo.
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Il provvedimento adottato dal Comune, ove qualificato come ordine di bonifica del sito inquinato ex art. 244 del D.Lgs. n. 152/2006, risulta essere stato palesemente emanato da autorità amministrativa priva della relativa competenza.
Come è noto, tale provvedimento è invero di competenza della Provincia e non del Comune, come testualmente disposto dall'art. 250 del D.Lgs. 152/2006, in base al quale “le pubbliche amministrazioni che nell'esercizio delle proprie funzioni (...) accertino che i livelli di contaminazione sono superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno comunicazione alla regione, alla provincia e al comune competenti. La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere (...)” (cfr. commi 1 e 2).
Non solo, l'ordine comunale di bonifica risulta del tutto privo di un’adeguata istruttoria finalizzata alla individuazione del responsabile dell’inquinamento, in tal modo ponendosi anche sul piano della sua formazione procedimentale in violazione del già citato principio comunitario secondo il quale “chi inquina paga”.
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In materia di responsabilità ambientale connessa all’obbligo di bonifica è principio ormai largamente consolidato quello chiaramente espresso dagli artt. 242 e 244 del D.Lgs. n. 152/2006 secondo cui “l’obbligo di bonifica è in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative hanno l’onere di individuare e ricercare”; tale principio è stato costantemente ribadito dal Giudice Amministrativo (cfr. fra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 09/01/2013, n. 56).
Anche la giurisprudenza comunitaria si è costantemente orientata nei termini che precedono, ritenendo che l’addebito dei costi dello smaltimento dei rifiuti a soggetti che non li hanno prodotti risulta essere incompatibile con il principio “chi inquina paga” (cfr. fra le tante, Corte di Giustizia, Grande Sezione, 24.06.2008, n. 188).
In tale quadro non sono solo i soggetti privati a venire gravati di precisi obblighi di intervento; esistono infatti chiari doveri della Pubblica Amministrazione posti a garanzia del funzionamento del sistema di tutela ambientale delineato dal legislatore, il cui rispetto è una precondizione dello stesso.
Come noto, già l’art. 17 del D.Lgs. 22/1997 e l’art. 8 del D.M. 25/10/1999 n. 471 prevedevano che i soggetti e gli organi pubblici che nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali avessero individuato siti nei quali i livelli di inquinamento fossero risultati superiori ai limiti normativamente previsti, ne dovessero dare comunicazione al Comune, che doveva diffidare il responsabile dell’inquinamento a provvedere agli interventi di bonifica, nonché alla Provincia ed alla Regione.
La normativa vigente, a sua volta, impone all’Amministrazione il preciso obbligo giuridico di individuazione del soggetto responsabile dell’inquinamento rilevato e l’emanazione del conseguente provvedimento di diffida.
È bene sottolineare, nel caso di specie, come tale obbligo non sia venuto meno per il solo fatto che Ac.Pu. S.p.A. abbia deciso di attivare volontariamente la procedura di bonifica (per non perdere il finanziamento concesso) prevista dall’art. 242 e seguenti del D.Lgs. n. 152/2006, come la normativa consente di fare al proprietario incolpevole, o ad altro soggetto interessato, a fronte della necessità di liberare il sito dagli oneri reali e dalle connesse limitazioni d’uso che gravavano sullo stesso a causa della presenza di inquinamento.
È infatti opportuno ricordare che tali soggetti hanno la facoltà, ma non l’obbligo di procedere alla bonifica.
Ebbene, è chiaro che in questo caso, in mancanza della individuazione di un soggetto a ciò obbligato, l’obbligo di procedere, ai sensi dell’art. 250 del D.Lgs. n. 152/2006, gravava “de residuo” sul Comune di Rodi Garganico, in quanto territorialmente competente sul luogo del rinvenimento medesimo.
Peraltro, il provvedimento adottato dal Comune di Rodi Garganico, ove qualificato come ordine di bonifica del sito inquinato ex art. 244 del D.Lgs. n. 152/2006, risulta essere stato palesemente emanato da autorità amministrativa priva della relativa competenza.
Come è noto, tale provvedimento è invero di competenza della Provincia e non del Comune, come testualmente disposto dall'art. 250 del D.Lgs. 152/2006, in base al quale “le pubbliche amministrazioni che nell'esercizio delle proprie funzioni (...) accertino che i livelli di contaminazione sono superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno comunicazione alla regione, alla provincia e al comune competenti. La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere (...)” (cfr. commi 1 e 2).
Anche al netto di tale evidente vizio di incompetenza nell’adozione del provvedimento oggetto di doglianza, esso risulta altresì del tutto privo di un’adeguata istruttoria finalizzata alla individuazione del responsabile dell’inquinamento, in tal modo ponendosi anche sul piano della sua formazione procedimentale in violazione del già citato principio comunitario secondo il quale “chi inquina paga”.
Per le ragioni innanzi esposte, assorbita ogni altra censura, il ricorso è fondato e deve essere accolto (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 19.08.2019 n. 1154 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Trasporto dei rifiuti – Abbandono dei rifiuti – Obbligo di rimozione – Ordinanza sindacale di rimozione, smaltimento e ripristino dei luoghi – Carenza dei presupposti soggettivi – Proprietario “incolpevole” – Disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo – Artt. 192, 193, 255, D.L.vo n. 152/2006 – Giurisprudenza.
In materia di di abbandono dei rifiuti e al correlato obbligo di rimozione e ripristino dei luoghi, la sanzione penale di cui all’art. 255, comma 3, D.Lvo n. 152/2006, è rivolta propriamente ai destinatari formali dell’ordinanza sindacale, mentre i precetti di cui agli artt. 192 e 193, sono rivolti ai responsabili dell’abbandono di rifiuti e ai proprietari del terreno inquinato.
In ogni caso, spetta a costoro, per evitare di rendersi responsabili dell’inottemperanza, di ottenere l’annullamento dell’ordinanza sindacale per via amministrativa o per via giurisdizionale, o –al limite– di provare in sede penale di non essere proprietari del terreno ne’ responsabili dell’abbandono, al fine di ottenere dal giudice penale la disapplicazione dell’ordinanza per illegittimità (cioè per mancanza dei presupposti soggettivi).
Nella fattispecie, l’imputato, aveva provato l’assenza di sua responsabilità nell’abbandono, al fine di ottenere la disapplicazione della ordinanza illegittima (per carenza dei presupposti soggettivi), e richiedeva la disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo e conseguente assoluzione per insussistenza del fatto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2019 n. 31291 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALICome è noto, il provvedimento amministravo in sede giurisdizionale va interpretato non solo in base al tenore letterale, ma soprattutto in base al suo specifico contenuto, risalendo al potere concretamente esercitato dall'amministrazione e prescindendo dal nomen iuris che gli è stato assegnato.
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Nel caso all’esame, l’espresso riferimento all’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152 quale unica fonte normativa del potere esercitato e, nel dispositivo del provvedimento, l’avvertimento che in caso di inottemperanza si sarebbe proceduto come previsto dal comma 3 del medesimo articolo con riserva di trattenere gli importi per i costi sostenuti dal Comune mediante compensazione sulle somme in liquidazione dovute per le attività relative ai contratti in servizio in essere, con chiaro riferimento alla possibilità di esecuzione in danno del soggetto obbligato ed al recupero delle somme anticipate dal Comune in caso di inadempimento, conducono in modo univoco a qualificare il provvedimento impugnato come un vero e proprio ordine di rimozione rifiuti e non come una mera diffida.
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Il ricorso deve essere accolto perché il provvedimento è stato adottato dal dirigente anziché dal Sindaco nonostante l’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, attribuisca espressamente a quest’ultimo l’emanazione delle ordinanze di rimozione rifiuti con norma di carattere speciale e successiva, in quanto tale prevalente sulla norma generale di cui all’art. 107, comma 5, del Dlgs. 18.08.2000, n. 267.
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... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Venezia, di data incerta, con il quale il Comune di Venezia, relativamente all'area denominata “ex Officina Gas di San Francesco della Vigna Venezia”, ha diffidato la ricorrente “all'esecuzione delle operazioni di asporto e smaltimento dei rifiuti abbandonati nell'area ex Officina Gas di San Francesco della Vigna Venezia” entro 30 giorni dalla notificazione del provvedimento e con termine massimo per l'esecuzione di 120 giorni;
...
E’ vero infatti che il provvedimento impugnato formalmente si limita a diffidare la Società ricorrente alla rimozione dei rifiuti.
Tuttavia, come è noto, il provvedimento amministravo in sede giurisdizionale va interpretato non solo in base al tenore letterale, ma soprattutto in base al suo specifico contenuto, risalendo al potere concretamente esercitato dall'amministrazione e prescindendo dal nomen iuris che gli è stato assegnato (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 24.07.2018, n. 4522).
Nel caso all’esame l’espresso riferimento all’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152 quale unica fonte normativa del potere esercitato e, nel dispositivo del provvedimento, l’avvertimento che in caso di inottemperanza si sarebbe proceduto come previsto dal comma 3 del medesimo articolo con riserva di trattenere gli importi per i costi sostenuti dal Comune mediante compensazione sulle somme in liquidazione dovute per le attività relative ai contratti in servizio in essere, con chiaro riferimento alla possibilità di esecuzione in danno del soggetto obbligato ed al recupero delle somme anticipate dal Comune in caso di inadempimento, conducono in modo univoco a qualificare il provvedimento impugnato come un vero e proprio ordine di rimozione rifiuti e non come una mera diffida.
Ciò premesso, il ricorso deve essere accolto perché il provvedimento è stato adottato dal dirigente anziché dal Sindaco nonostante l’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, attribuisca espressamente a quest’ultimo l’emanazione delle ordinanze di rimozione rifiuti con norma di carattere speciale e successiva, in quanto tale prevalente sulla norma generale di cui all’art. 107, comma 5, del Dlgs. 18.08.2000, n. 267 (cfr. ex pluribus Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 07.01.2019, n. 18; Tar Puglia, Bari, Sez. I, 20.09.2018, n. 1230; Tar Lecce, Sez. II, 26.06.2018, n. 1072; Consiglio di Stato, Sez. V, 11.01.2016, n. 57).
Il vizio di incompetenza comporta l’assorbimento delle altre censure (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. V, 30.05.2018, n. 3589; Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 13.04.2018, n. 1011; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 27.04.2015 n. 5) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 17.07.2019 n. 853 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sulla illegittimità dell'ordinanza sindacale contingibile ed urgente per rimuovere l'amianto.
La giurisprudenza ha chiarito che <<la possibilità di ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto che imponga di provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale e imminente per l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana, non fronteggiabili con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento>>.
Si è inoltre precisato che i <<presupposti per l'adozione da parte del Sindaco dell'ordinanza contingibile ed urgente sono la sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, e la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità del provvedimento; non è, quindi, legittimo adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità; aggiungasi che tale potere di ordinanza presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale>>.
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A fronte di precisa e puntuale normativa tecnica, introdotta in attuazione della l. n. 257 del 1992, la legittima adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente in materia di amianto presuppone lo svolgimento di un’adeguata istruttoria e di una motivazione estremamente puntuale e dettagliata che dia conto di tutti gli elementi essenziali sopra ricordati previsti dal d.m. 06.09.1994.
Sul punto, deve ritenersi che la speciale competenza accordata dall’art. 12, l. n. 257 del 1992 alle USL, non faccia venire meno il potere extra ordinem riconosciuto dall’art. 50, d.lgs. n. 267 del 2000, in capo al Sindaco, essendo quest’ultimo finalizzato a operare in situazioni di pericolo dovuto ad una situazione di pericolo imprevedibile ed eccezionale, attuale ed urgente.
D’altronde, perché tale competenza eccezionale sia legittimamente esercitata occorre che nella motivazione del provvedimento sia dato conto in modo preciso e puntuale degli elementi peculiari della fattispecie che impongono un intervento contingibile ed urgente.
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Nel caso di specie, risulta che né l’ordinanza sindacale né i documenti tecnici da essa richiamati danno conto, tra l’altro:
   a) delle modalità e della procedura di campionamento e di analisi adottata e della puntuale compatibilità con i criteri previsti dal d.m. 06.09.1994;
   b) di una puntuale valutazione delle condizioni di rischio effettive e, in particolare, quali e quanti manufatti contenenti amianto occorra procedere a mettere in sicurezza, le dimensioni e caratteristiche degli stessi e se siano friabili o meno, e con quale grado di friabilità, in relazione anche alla maggiore o minore predisposizione al danneggiamento da parte di terzi;
   c) della gravità e rilevanza dell’estensione delle zone potenzialmente interessate;
   d) dei possibili fattori di pericolosità (manomissione) esterna dei manufatti in relazione alla consistenza degli stessi (ovvero se i beni interessati siano manomettibili e in che misura e con quale grado potenziale di rischio);
   e) del perché sia, quindi, necessaria proprio la bonifica, e quale modalità, tra quelle possibili, sia quella necessaria e sufficiente a mettere in sicurezza la zona.
L’omessa precisa e puntuale indicazione di tutti gli elementi sopra estesi non consente di comprendere se sussista o meno l’eccezionale urgenza e l’imprevedibilità del pericolo che solo giustifica l’intervento da parte del Sindaco.
Sul punto, deve ritenersi meramente ipotetico il pericolo connesso ad una possibile reiterazione di episodi di incendio, senza una puntuale descrizione e valutazione delle potenzialità di aerodispersione dell’amianto presente nei manufatti in relazione allo specifico grado di “fragilità” dei manufatti in contestazione in caso di incendio medesimo.
Peraltro, sempre con riferimento al pericolo di incendio, non è nemmeno esplicitato per quale motivo non sia possibile adottare, e, quindi, ordinare, l’adozione di misure diverse idonee a mettere adeguatamente in sicurezza l’intero sito dal rischio di incendi.
A conferma di tutto quanto sopra detto, si rammentano le pronunce giurisprudenziali che hanno sottolineato come <<è illegittimo l'ordine di rimuovere manufatti contenenti amianto che non è stato preceduto da un approfondimento tecnico-istruttorio in merito alla scelta del metodo di bonifica più opportuno tra le diverse modalità attuabili, essendo invece necessario un preventivo apprezzamento dei rischi connessi alla sua concreta attuazione>>.
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La particolarità della fattispecie in materia di amianto sia in termini di attività istruttoria che di motivazione del provvedimento, in particolare in caso di ordinanza contingibile e urgente, comporta, poi, di apprezzare diversamente la questione della “derogabilità” all’obbligo di preventiva comunicazione di avvio del procedimento.
Infatti, è vero che è affermato il principio secondo il quale <<in caso di emanazione di un'ordinanza sindacale contingibile ed urgente non occorre il rispetto delle regole procedimentali poste a presidio della partecipazione del privato, ex art. 7, l . 07.08.1990 n. 241, essendo queste incompatibili con l'urgenza di provvedere, anche in ragione della perdurante attualità dello stato di pericolo, che può aggravarsi con il trascorrere del tempo; in sostanza, la comunicazione di avvio del procedimento nelle ordinanze contingibili e urgenti del Sindaco non può che essere di pregiudizio all'urgenza di provvedere>>.
D’altronde, la complessità istruttoria, argomentativa e anche decisoria che caratterizza i provvedimenti in materia di amianto, tali da comportare anche un rilevante esercizio di discrezionalità tecnica da parte della P.A., comporta che anche nel caso di ordinanze contingibili ed urgenti, salvi casi di eccezionale urgenza e gravità adeguatamente indicati nella motivazione del provvedimento, il soggetto possibile destinatario di quest’ultimo deve essere messo nelle condizioni di contraddire e offrire anche il suo apporto tecnico alle valutazioni che la P.A. è chiamata ad adottare.
Poiché, come sopra visto, non è stato dato conto in modo adeguato e puntuale della sussistenza di una situazione di tale eccezionale urgenza e gravità, il Comune avrebbe dovuto procedere alla comunicazione di avvio del procedimento nei confronti di parte ricorrente.
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... per l'annullamento, previa sospensione, dell'ordinanza contingibile ed urgente n. 11 dell'11.05.2019, notificata a mezzo p.e.c. in pari data, avente ad oggetto l'ordine alla società di provvedere, entro 30 giorni dalla notifica dell'ordinanza, alla bonifica completa della struttura dell'ex Villaggio Marino Europa, all'interno del quale “è stata accertata la presenza di amianto crisotilo”.
...
Con ordinanza n. 11 datata 11.05.2019, il Sindaco del Comune di Riomaggiore ordinava alla società Vi.Ma.Eu. srl (d’ora in poi Vi.), proprietaria della struttura sita nell’ex Villaggio Europa, Località Spiaggione di Corniglia (Comune di Riomaggiore), in zona marino-costiera, di provvedere <<alla bonifica completa della struttura attualmente in essere nel sito dell’ex Villaggio Marino Europa, all’interno della quale è stata accertata la presenza di amianto crisotilo, secondo modalità e criteri stabiliti dalle normative vigenti>> e di comunicare al Comune il <<piano di lavoro>>.
...
1. Il provvedimento oggetto di impugnazione risulta essere stato adottato ai sensi dell’art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000, in forza del quale <<in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Le medesime ordinanze sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in relazione all'urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche>>.
Tale disposizione attribuisce al Sindaco, quale rappresentante della comunità locale, il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti tra l'altro "in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale".
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che <<la possibilità di ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto che imponga di provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale e imminente per l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana, non fronteggiabili con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento>> (TAR Piemonte, Sez. II, n. 903 del 2018; TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 05/11/2018, n. 339).
Si è inoltre precisato che i <<presupposti per l'adozione da parte del Sindaco dell'ordinanza contingibile ed urgente sono la sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, e la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità del provvedimento; non è, quindi, legittimo adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità; aggiungasi che tale potere di ordinanza presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, e in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale>> (Cons. Stato, Sez. V, n. 774 del 2017).
Con riferimento, poi, alle fattispecie nelle quali viene in esame la pericolosità della presenza di “amianto” occorre rammentare che sussiste una specifica disciplina.
Il d.m. 06.09.1994 recante <<normative e metodologie tecniche per la valutazione del rischio, il controllo, la manutenzione e la bonifica di materiali contenenti amianto presenti nelle strutture edilizie>>, contiene una disciplina che si applica a strutture edilizie ad uso civile, commerciale o industriale aperte al pubblico o comunque di utilizzazione collettiva in cui sono in opera manufatti e/o materiali contenenti amianto dai quali può derivare una esposizione a fibre aerodisperse.
Il documento contiene normative e metodologie tecniche riguardanti:
   - l'ispezione delle strutture edilizie, il campionamento e l'analisi dei materiali sospetti per l'identificazione dei materiali contenenti amianto;
   - il processo diagnostico per la valutazione del rischio e la scelta dei provvedimenti necessari per il contenimento o l'eliminazione del rischio stesso;
   - il controllo dei materiali contenenti amianto e le procedure per le attività di custodia e manutenzione in strutture edilizie contenenti materiali di amianto;
   - le misure di sicurezza per gli interventi di bonifica;
   - le metodologie tecniche per il campionamento e l'analisi delle fibre aerodisperse.
Il decreto precisa che <<la potenziale pericolosità dei materiali di amianto dipende dall'eventualità che siano rilasciate fibre aerodisperse nell'ambiente che possono venire inalate dagli occupanti. Il criterio più importante da valutare in tal senso è rappresentato dalla friabilità dei materiali: si definiscono friabili i materiali che possono essere sbriciolati o ridotti in polvere mediante la semplice pressione delle dita. I materiali friabili possono liberare fibre spontaneamente per la scarsa coesione interna (soprattutto se sottoposti a fattori di deterioramento quali vibrazioni, correnti d'aria, infiltrazioni di acqua) e possono essere facilmente danneggiati nel corso di interventi di manutenzione o da parte degli occupanti dell'edificio, se sono collocati in aree accessibili>>.
In base alla friabilità, i materiali contenenti amianto possono essere classificati come:
   - friabili: materiali che possono essere facilmente sbriciolati o ridotti in polvere con la semplice pressione manuale;
   - compatti: materiali duri che possono essere sbriciolati o ridotti in polvere solo con l'impiego di attrezzi meccanici (dischi abrasivi, frese, trapani, ecc.).
Quindi, <<una volta individuate le strutture edilizie su cui intervenire, sarà opportuno, prima di procedere al campionamento dei materiali, articolare un finalizzato programma di ispezione, che si può così riassumere:
   1) ricerca e verifica della documentazione tecnica disponibile sull'edificio, per accertarsi dei vari tipi di materiali usati nella sua costruzione, e per rintracciare, ove possibile, l'impresa edile appaltatrice;
   2) ispezione diretta dei materiali per identificare quelli friabili e potenzialmente contenenti fibre di amianto;
   3) verifica dello stato di conservazione dei materiali friabili, per fornire una prima valutazione approssimativa sul potenziale di rilascio di fibre nell'ambiente;
   4) campionamento dei materiali friabili sospetti, e invio presso un centro attrezzato, per la conferma analitica della presenza e del contenuto di amianto;
   5) mappatura delle zone in cui sono presenti materiali contenenti amianto;
   6) registrazione di tutte le informazioni raccolte in apposite schede (allegato 5), da conservare come documentazione e da rilasciare anche ai responsabili dell'edificio
>>.
Il decreto, poi, indica analiticamente la procedura che il personale incaricato dell'ispezione e del campionamento deve seguire, indicando anche i criteri di selezione del materiale da campionare.
Il decreto chiarisce altresì che <<la presenza di materiali contenenti amianto in un edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute degli occupanti. Se il materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto. Se invece il materiale viene danneggiato per interventi di manutenzione o per vandalismo, si verifica un rilascio di fibre che costituisce un rischio potenziale. Analogamente se il materiale è in cattive condizioni, o se è altamente friabile, le vibrazioni dell'edificio, i movimenti di persone o macchine, le correnti d'aria possono causare il distacco di fibre legate debolmente al resto del materiale>>.
Per la valutazione della potenziale esposizione a fibre di amianto del personale presente nell'edificio, poi, sono utilizzabili due tipi di criteri:
   - l'esame delle condizioni dell'installazione, al fine di stimare il pericolo di un rilascio di fibre dal materiale;
   - la misura della concentrazione delle fibre di amianto aerodisperse all'interno dell'edificio (monitoraggio ambientale).
Viene precisato, ancora, che il c.d. monitoraggio ambientale, non può rappresentare da solo un criterio adatto per valutare il rilascio, in quanto consente essenzialmente di misurare la concentrazione di fibre presente nell'aria al momento del campionamento, senza ottenere alcuna informazione sul pericolo che l'amianto possa deteriorarsi o essere danneggiato nel corso delle normali attività. In particolare, in caso di danneggiamenti, spontanei o accidentali, si possono verificare rilasci di elevata entità, che tuttavia, sono occasionali e di breve durata e che quindi non vengono rilevati in occasione del campionamento. In fase di ispezione visiva dell'installazione, devono essere, quindi, attentamente valutati:
   - il tipo e le condizioni dei materiali;
   - i fattori che possono determinare un futuro danneggiamento o degrado;
   - i fattori che influenzano la diffusione di fibre e l'esposizione degli individui.
Il decreto, quindi, precisa che deve essere compilata una scheda di sopralluogo, separatamente per ciascun'area dell'edificio in cui sono presenti materiali contenenti amianto.
I fattori considerati, pertanto, devono consentire di valutare l'eventuale danneggiamento o degrado del materiale e la possibilità che il materiale stesso possa deteriorarsi o essere danneggiato.
In base agli elementi raccolti per la valutazione possono, conseguentemente, delinearsi tre diversi tipi di situazioni:
a) Materiali integri non suscettibili di danneggiamento.
Sono situazioni nelle quali non esiste pericolo di rilascio di fibre di amianto in atto o potenziale o di esposizione degli occupanti, come ad esempio:
   - materiali non accessibili per la presenza di un efficace confinamento;
   - materiali in buone condizioni, non confinati ma comunque difficilmente accessibili agli occupanti;
   - materiali in buone condizioni, accessibili ma difficilmente danneggiabili per le caratteristiche proprie del materiale (duro e compatto);
   - non esposizione degli occupanti in quanto l'amianto si trova in aree non occupate dell'edificio.
In questi casi non è necessario un intervento di bonifica. Occorre, invece, un controllo periodico delle condizioni dei materiali e il rispetto di idonee procedure per le operazioni di manutenzione e pulizia dello stabile, al fine di assicurare che le attività quotidiane dell'edificio siano condotte in modo da minimizzare il rilascio di fibre di amianto, secondo le indicazioni riportate nel capitolo 4.
b) Materiali integri suscettibili di danneggiamento
Sono situazioni nelle quali esiste pericolo di rilascio potenziale di fibre di amianto, come ad esempio:
   - materiali in buone condizioni facilmente danneggiabili dagli occupanti;
   - materiali in buone condizioni facilmente danneggiabili in occasione di interventi manutentivi;
   - materiali in buone condizioni esposti a fattori di deterioramento (vibrazioni, correnti d'aria, ecc.).
In situazioni di questo tipo, in primo luogo, devono essere adottati provvedimenti idonei a scongiurare il pericolo di danneggiamento e quindi attuare un programma di controllo e manutenzione secondo le indicazioni riportate nel capitolo 4. Se non è possibile ridurre significativamente i rischi di danneggiamento dovrà essere preso in considerazione un intervento di bonifica da attuare a medio termine.
c) Materiali danneggiati
Sono situazioni nelle quali esiste pericolo di rilascio di fibre di amianto con possibile esposizione degli occupanti, come ad esempio:
   - materiali a vista o comunque non confinati, in aree occupate dell'edificio, che si presentino:
   - danneggiati per azione degli occupanti o per interventi manutentivi;
   - deteriorati per effetto di fattori esterni (vibrazioni, infiltrazioni d'acqua, correnti d'aria, ecc.), deteriorati per degrado spontaneo;
   - materiali danneggiati o deteriorati o materiali friabili in prossimità dei sistemi di ventilazione.
Sono queste le situazioni in cui si determina la necessità di un'azione specifica da attuare in tempi brevi, per eliminare il rilascio in atto di fibre di amianto nell'ambiente.
I provvedimenti possibili possono essere:
   - restauro dei materiali: l'amianto viene lasciato in sede senza effettuare alcun intervento di bonifica vera e propria, ma limitandosi a riparare le zone danneggiate e/o ad eliminare le cause potenziali del danneggiamento (modifica del sistema di ventilazione in presenza di correnti d'aria che erodono il rivestimento, riparazione delle perdite di acqua, eliminazione delle fonti di vibrazioni, interventi atti ad evitare il danneggiamento da parte degli occupanti). È applicabile per materiali in buone condizioni che presentino zone di danneggiamento di scarsa estensione (inferiori al 10% della superficie di amianto presente nell'area interessata). È il provvedimento di elezione per rivestimenti di tubi e caldaie o per materiali poco friabili di tipo cementizio, che presentino danni circoscritti. Nel caso di materiali friabili è applicabile se la superficie integra presenta sufficiente coesione da non determinare un rilascio spontaneo di fibre;
   - intervento di bonifica mediante rimozione, incapsulamento o confinamento dell'amianto. La bonifica può riguardare l'intera installazione o essere circoscritta alle aree dell'edificio o alle zone dell'installazione in cui si determina un rilascio di fibre.
Quando si presentano situazioni di incerta classificazione è necessaria anche una indagine ambientale che misuri la concentrazione di fibre aerodisperse, con le tecniche indicate nel decreto.
Una volta che si accerti una situazione per la quale è necessaria la “bonifica”, il decreto indica le metodologie applicabili.
I metodi di bonifica che possono essere attuati, sia nel caso di interventi circoscritti ad aree limitate dell'edificio, sia nel caso di interventi generali, sono:
  
1) Rimozione dei materiali di amianto
È il procedimento più diffuso perché elimina ogni potenziale fonte di esposizione ed ogni necessità di attuare specifiche cautele per le attività che si svolgono nell'edificio. Comporta un rischio estremamente elevato per i lavoratori addetti e per la contaminazione dell'ambiente; produce notevoli quantitativi di rifiuti tossici e nocivi che devono essere correttamente smaltiti.
È la procedura che comporta i costi più elevati ed i più lunghi tempi di realizzazione. In genere richiede l'applicazione di un nuovo materiale, in sostituzione dell'amianto rimosso.
  
2) Incapsulamento
Consiste nel trattamento dell'amianto con prodotti penetranti o ricoprenti che (a seconda del tipo di prodotto usato) tendono ad inglobare le fibre di amianto, a ripristinare l'aderenza al supporto, a costituire una pellicola di protezione sulla superficie esposta. Costi e tempi dell'intervento risultano più contenuti. Non richiede la successiva applicazione di un prodotto sostitutivo e non produce rifiuti tossici. Il rischio per i lavoratori addetti e per l'inquinamento dell'ambiente è generalmente minore rispetto alla rimozione. È il trattamento di elezione per i materiali poco friabili di tipo cementizio.
Il principale inconveniente è rappresentato dalla permanenza nell'edificio del materiale di amianto e dalla conseguente necessità di mantenere un programma di controllo e manutenzione. Occorre inoltre verificare periodicamente l'efficacia dell'incapsulamento, che col tempo può alterarsi o essere danneggiato, ed eventualmente ripetere il trattamento. L'eventuale rimozione di un materiale di amianto precedentemente incapsulato è più complessa, per la difficoltà di bagnare il materiale a causa dell'effetto impermeabilizzante del trattamento. Inoltre, l'incapsulamento può alterare le proprietà antifiamma e fonoassorbenti del rivestimento di amianto.
  
3) Confinamento
Consiste nell'installazione di una barriera a tenuta che separi l'amianto dalle aree occupate dell'edificio. Se non viene associato ad un trattamento incapsulante, il rilascio di fibre continua all'interno del confinamento. Rispetto all'incapsulamento, presenta il vantaggio di realizzare una barriera resistente agli urti.
È indicato nel caso di materiali facilmente accessibili, in particolare per bonifica di aree circoscritte (ad es. una colonna). Non è indicato quando sia necessario accedere frequentemente nello spazio confinato. Il costo è contenuto, se l'intervento non comporta lo spostamento dell'impianto elettrico, termoidraulico, di ventilazione, ecc. Occorre sempre un programma di controllo e manutenzione, in quanto l'amianto rimane nell'edificio; inoltre la barriera installata per il confinamento deve essere mantenuta in buone condizioni.
Con riferimento, proprio alla scelta del metodo di bonifica, il decreto fornisce precise indicazioni:
   i) un intervento di rimozione spesso non costituisce la migliore soluzione per ridurre l'esposizione ad amianto; se viene condotto impropriamente può elevare la concentrazione di fibre aerodisperse, aumentando, invece di ridurre, il rischio di malattie da amianto;
   ii) materiali accessibili, soprattutto se facilmente danneggiabili, devono essere protetti da un idoneo confinamento;
   iii) prima di scegliere un intervento di incapsulaggio deve essere attentamente valutata l'idoneità del materiale di amianto a sopportare il peso dell'incapsulante.
In particolare trattamenti incapsulanti non sono indicati:
   - nel caso di materiali molto friabili o che presentano scarsa coesione interna o adesione al substrato, in quanto l'incapsulante aumenta il peso strutturale aggravando la tendenza del materiale a delaminarsi o a staccarsi dal substrato;
   - nel caso di materiali friabili di spessore elevato (maggiore di 2 cm), nei quali il trattamento non penetra molto in profondità e non riesce quindi a restituire l'adesione al supporto sottostante.
Per contro l'aumento di peso può facilitare il distacco dell'amianto:
   - nel caso di infiltrazioni di acqua: il trattamento impermeabilizza il materiale così che si possono formare internamente raccolte di acqua che appesantiscono il rivestimento e ne disciolgono i leganti, determinando il distacco;
   - nel caso di materiali facilmente accessibili, in quanto il trattamento forma una pellicola di protezione scarsamente resistente agli urti. Non dovrebbe essere mai effettuato su superfici che non siano almeno a 3 metri di altezza, in aree soggette a frequenti interventi di manutenzione o su superfici, a qualsiasi altezza, che possano essere danneggiate da attrezzi (es. soffitti delle palestre);
   - nel caso di installazioni soggette a vibrazioni (aeroporti, locali con macchinari pesanti, ecc.): le vibrazioni determinano rilascio di fibre anche se il materiale è stato incapsulato;
   iv) tutti i metodi di bonifica alternativi alla rimozione presentano costi minori a breve termine. A lungo termine, però il costo aumenta per la necessità di controlli periodici e di successivi interventi per mantenere l'efficacia e l'integrità del trattamento. Il risparmio economico (così come la maggiore rapidità di esecuzione), rispetto alla rimozione, dipende prevalentemente dal fatto che non occorre applicare un prodotto sostitutivo e che non vi sono rifiuti tossici da smaltire. Le misure di sicurezza da attuare sono, invece, per la maggior parte le stesse per tutti i metodi;
   v) interventi di ristrutturazione o demolizione di strutture rivestite di amianto devono sempre essere preceduti dalla rimozione dell'amianto stesso.
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A fronte della precisa e puntuale normativa tecnica sopra ricordata, introdotta in attuazione della l. n. 257 del 1992, la legittima adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente in materia di amianto presuppone lo svolgimento di un’adeguata istruttoria e di una motivazione estremamente puntuale e dettagliata che dia conto di tutti gli elementi essenziali sopra ricordati previsti dal d.m. 06.09.1994.
Sul punto, deve ritenersi che la speciale competenza accordata dall’art. 12, l. n. 257 del 1992 alle USL, non faccia venire meno il potere extra ordinem riconosciuto dall’art. 50, d.lgs. n. 267 del 2000, in capo al Sindaco, essendo quest’ultimo finalizzato a operare in situazioni di pericolo dovuto ad una situazione di pericolo imprevedibile ed eccezionale, attuale ed urgente.
D’altronde, perché tale competenza eccezionale sia legittimamente esercitata occorre che nella motivazione del provvedimento sia dato conto in modo preciso e puntuale, in aggiunta a quanto già sopra rilevato, degli elementi peculiari della fattispecie che impongono un intervento contingibile ed urgente.
Come accennato, il Comune ha ordinato la “bonifica” completa della struttura attualmente in essere nel sito, limitandosi a precisare “secondo le modalità e criteri stabiliti dalle norme vigenti”.
Il provvedimento risulta fondato:
   - sui rilievi operati dal Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di La Spezia, di cui alla nota acquisita al protocollo comunale il 5.3.2019, nota che a sua volta richiama i risultati dei rapporti di prova dell’Arpal sul campione raccolto in data 21.02. u.s., “in corrispondenza della struttura” ancora in essere nell’Ex Villaggio Europa presso lo spiaggione di Corniglia, dai quali emergere la presenza di amianto crisotilo;
   - sul fatto che l’intera struttura si trova in stato di abbandono sicché <<non è esclusa la possibilità di ulteriori incendi, i quali a causa delle problematiche collegate alle difficoltà di raggiungimento del sito da parte dei vigili del fuoco, potrebbero risultare di difficile spegnimento, rappresentando un potenziale pericolo per la salute delle persone, i beni limitrofi e la salvaguardia della pubblica incolumità>>;
   - sulla nota dei vigili del fuoco che indica come <<indispensabile l’emissione da parte del Sindaco di un provvedimento amministrativo che obblighi la proprietà ad una messa in sicurezza dell’intero sito dell’Ex Villaggio Europa>>;
Per quanto concerne, poi, l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, il Comune si è limitato ad asserire che <<le particolari esigenze di celerità del procedimento connesse all’urgenza e conseguente immediata esecutività del presente provvedimento, rendono impossibile l’effettuazione della comunicazione di avvio del procedimento prevista dalla legge 07.08.1990, n. 241>>.
Esaminiamo, quindi, la documentazione richiamata dal Comune.
Per quanto concerne la <<proposta di emissione di ordinanza per ripristino rete e chiusure presso l’ex villaggio Marino Europa>> emessa, in data 19.06.2019, dai Carabinieri, questi ultimi hanno segnalato sia la presenza irregolare di persone senza fissa dimora, sia il fatto che la presenza dei soggetti nell’area non è limitata solo ad avere un giaciglio dove trascorrere la notte, ma con l’estate il luogo riceve turisti amanti della natura che invadono il terreno privato, nuovamente privo di reti, limitazioni e cartelli segnalanti la chiusura; in talune occasioni, poi, il comportamento di alcuni degli occupanti ha avuto risalto delittuoso per discussioni alimentate anche dall’alcool e sfocianti con l’aggressione l’uno contro l’altro, nonché con l’accensione di fuochi pericolosi per il rischio incendio;
I carabinieri, quindi, per risolvere i problemi di cui sopra hanno proposto al Comune di adottare un’ordinanza per:
   - sensibilizzare la proprietà a reinstallare reti interdittive e a vigilare sull’efficienza di queste, già oggetto di precedente ordinanza;
   - ripristinare il cartello (anche in inglese) ad inizio sentiero, anche in lingua inglese per preavvisare coloro che vi accedono e per mettere in condizione la FFPP di contestare la violazione sindacale oltre a quelle di settore;
   - valutare la rimozione o l’abbattimento, mantenendo traccia dei manufatti delle poche baracche ancora integre che vengono puntualmente occupate abusivamente.
Nella relazione di intervento dei vigili del fuoco del 09.01.2019, poi, è stato dato conto del fatto che gli stessi si erano recati in loco perché stava bruciando <<l’ultima baracca lato Riomaggiore dell’abbandonato villaggio turistico “Europa”, ubicato sotto la stazione ferroviaria di Corniglia>>. E <<avendo sentore di probabile presenza di materiali M.C.A. si attuavano normali e importanti precauzioni anti-contaminazione tra cui porsi sopravento (forza vento alta) e bagnare tutta la zona circostante; si provvedeva, poi, ad attaccare l’incendio e a smassare per il minuto spegnimento>>.
Con riguardo ai provvedimenti di tutela adottati, veniva dato conto di: <<lavaggio d.p.i., prelievo campione di materiale con sospetto M.C.A. e consegnato a personale NBCR DEL comando>>.
Con atto del 05.03.2019 il Comando provinciale dei VV.FF. di La Spezia ha dato conto del fatto che in occasione dell’intervento del 09.01.2019 di cui sopra, era stata <<rilevata la presenza di materiale con sospetta presenza di amianto>> <<in matrice compatta, in coperture, serbatoi, tubazioni>>, e che era stato prelevato un campione di detto materiale consegnato ad Arpal, la quale in data in data 21.02.2019 aveva fatto pervenire rapporti di prova del campione dai quali emergeva la presenza di amianto crisotilo.
E’ stato, quindi, rilevato che <<l’intera struttura era in stato di abbandono e non si esclude la possibilità che si possano verificare in futuro ulteriori incendi e visto che la viabilità del sito non consente un facile accesso agli automezzi di soccorso, si ritiene necessario che codesta amministrazione comunale competente provveda a far eseguire gli interventi necessari per la messa in sicurezza del sito>>.
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Ebbene, alla luce di tutto quanto sin qui detto risulta evidente che né l’ordinanza, né i documenti tecnici da essa richiamati danno conto, tra l’altro:
   a) delle modalità e della procedura di campionamento e di analisi adottata e della puntuale compatibilità con i criteri previsti dal d.m. 06.09.1994;
   b) di una puntuale valutazione delle condizioni di rischio effettive e, in particolare, quali e quanti manufatti contenenti amianto occorra procedere a mettere in sicurezza, le dimensioni e caratteristiche degli stessi e se siano friabili o meno, e con quale grado di friabilità, in relazione anche alla maggiore o minore predisposizione al danneggiamento da parte di terzi;
   c) della gravità e rilevanza dell’estensione delle zone potenzialmente interessate;
   d) dei possibili fattori di pericolosità (manomissione) esterna dei manufatti in relazione alla consistenza degli stessi (ovvero se i beni interessati siano manomettibili e in che misura e con quale grado potenziale di rischio);
   e) del perché sia, quindi, necessaria proprio la bonifica, e quale modalità, tra quelle possibili, sia quella necessaria e sufficiente a mettere in sicurezza la zona.
L’omessa precisa e puntuale indicazione di tutti gli elementi sopra estesi non consente di comprendere se sussista o meno l’eccezionale urgenza e l’imprevedibilità del pericolo che solo giustifica l’intervento da parte del Sindaco.
Sul punto, deve ritenersi meramente ipotetico il pericolo connesso ad una possibile reiterazione di episodi di incendio, senza una puntuale descrizione e valutazione delle potenzialità di aerodispersione dell’amianto presente nei manufatti in relazione allo specifico grado di “fragilità” dei manufatti in contestazione in caso di incendio medesimo.
Peraltro, sempre con riferimento al pericolo di incendio, non è nemmeno esplicitato per quale motivo non sia possibile adottare, e, quindi, ordinare, l’adozione di misure diverse idonee a mettere adeguatamente in sicurezza l’intero sito dal rischio di incendi.
A conferma di tutto quanto sopra detto, si rammentano le pronunce giurisprudenziali che hanno sottolineato come <<è illegittimo l'ordine di rimuovere manufatti contenenti amianto che non è stato preceduto da un approfondimento tecnico-istruttorio in merito alla scelta del metodo di bonifica più opportuno tra le diverse modalità attuabili, essendo invece necessario un preventivo apprezzamento dei rischi connessi alla sua concreta attuazione>> (in tal senso, TAR, Ancona, sez. I, 07/10/2016, n. 545; conformemente, TAR Puglia, sez. dist. Lecce, sez. I, 06/02/2014, n. 337).
La particolarità della fattispecie in materia di amianto sia in termini di attività istruttoria che di motivazione del provvedimento, in particolare in caso di ordinanza contingibile e urgente, comporta, poi, di apprezzare diversamente la questione della “derogabilità” all’obbligo di preventiva comunicazione di avvio del procedimento.
Infatti, è vero che è affermato il principio secondo il quale <<in caso di emanazione di un'ordinanza sindacale contingibile ed urgente non occorre il rispetto delle regole procedimentali poste a presidio della partecipazione del privato, ex art. 7, l . 07.08.1990 n. 241, essendo queste incompatibili con l'urgenza di provvedere, anche in ragione della perdurante attualità dello stato di pericolo, che può aggravarsi con il trascorrere del tempo; in sostanza, la comunicazione di avvio del procedimento nelle ordinanze contingibili e urgenti del Sindaco non può che essere di pregiudizio all'urgenza di provvedere>> (C. Stato, sez. V, 01/12/2014, n. 5919).
D’altronde, la complessità istruttoria, argomentativa e anche decisoria che caratterizza i provvedimenti in materia di amianto, tali da comportare anche un rilevante esercizio di discrezionalità tecnica da parte della P.A., comporta che anche nel caso di ordinanze contingibili ed urgenti, salvi casi di eccezionale urgenza e gravità adeguatamente indicati nella motivazione del provvedimento, il soggetto possibile destinatario di quest’ultimo deve essere messo nelle condizioni di contraddire e offrire anche il suo apporto tecnico alle valutazioni che la P.A. è chiamata ad adottare.
Poiché, come sopra visto, non è stato dato conto in modo adeguato e puntuale della sussistenza di una situazione di tale eccezionale urgenza e gravità, il Comune avrebbe dovuto procedere alla comunicazione di avvio del procedimento nei confronti di parte ricorrente.
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In conclusione, alla luce di quanto sopra esposto, il provvedimento impugnato deve essere annullato, nei limiti e per i motivi sopra esposti, per difetto di motivazione e omessa comunicazione dell’avvio del procedimento (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 08.07.2019 n. 603 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn tema di inquinamento del suolo, la disciplina di settore non impone il coinvolgimento dei potenziali responsabili della contaminazione sin dai primi accertamenti.
L’art. 244, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006, infatti, si limita a disporre che “la provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo”.
La necessità di un coinvolgimento del potenziale responsabile si palesa solo in un secondo tempo come si ricava dai contenuti dell’art. 242, comma 4, laddove prevede che “entro sei mesi dall'approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto responsabile presenta alla regione i risultati dell'analisi di rischio. La conferenza di servizi convocata dalla regione, a seguito dell'istruttoria svolta in contraddittorio con il soggetto responsabile, cui è dato un preavviso di almeno venti giorni, approva il documento di analisi di rischio entro i sessanta giorni dalla ricezione dello stesso. Tale documento è inviato ai componenti della conferenza di servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la conferenza e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione fornisce una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza”
(massima tratta da www.lexambiente.it).
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La ricorrente, nell’anno 1962, realizzava un impianto di produzione di laterizi (Fornace Quattro Castella) su un’area di proprietà.
Nell’anno 1982, in sede di conversione dei sistemi di generazione calore dei propri stabilimenti da idrocarburi pesanti a gas metano, dismetteva le cisterne sino a quel tempo utilizzate che, si afferma in ricorso, venivano bonificate e riempite di materiale inerte negli anni 1995/1996 e interrate.
Con atto del 24.12.1998, l’area in questione, per mq. 42.600 classificata sotto il profilo urbanistico dal PRG all’epoca vigente come D1 (artigianale industriale edificata e di completamento) e per una parte residuale, pari a mq. 4.857, mai interessata ai processi di lavorazioni e stoccaggio, classificata G2 (residenziale o vincolata a verde privato o pubblico), veniva ceduta alla Società immobiliare Ar.Be.Sc..
Nel mese di marzo 1999 veniva adottata una variante al PRG che classificava l’intera area come B4, residenziale di ristrutturazione urbanistico edilizia.
Nel novembre 2000, la medesima area, con diversa classificazione urbanistica, veniva ceduta alla Società immobiliare ST.R. S.r.l. che la acquistava per realizzavi un complesso residenziale in attuazione di un piano di recupero che l’Amministrazione comunale approvava nel dicembre 2011.
Le verifiche disposte sull’area interessata all’intervento richieste da ARPAE ai fini del rilascio del parere di competenza, affidate da ST.R. alla Ditta Ri.Am. e Si. (18.07.2012 – come da provvedimento impugnato), evidenziavano, in alcuni punti dell’area, il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) previste per i siti destinati ad uso verde pubblico privato e residenziale di cui all’allegato 5, parte IV, del d.lgs. n. 152/2006, relativamente ad una pluralità di agenti inquinati.
Per tale ragione, in data 30.07.2012, ST.R. comunicava alla Provincia ex art. 245 del D.Lgs. n. 152/2006 il superamento della CSC per i parametri fluoruri, idrocarburi pesanti e piombo, allegando la Relazione redatta da Ri. (la Società aveva già nell’anno 2000 effettuato una prima serie di accertamenti).
La Provincia, con nota del 21.09.2012, procedeva ex art. 245, comma 2, richiedendo al Comune di Quattro Castella e ad ARPAE “informazioni utili” ai fini dell’individuazione del soggetto responsabile della contaminazione.
Con nota del 29.09.2012, il Comune comunicava alla Provincia la classificazione dell’area come B4 “residenziale di ristrutturazione urbanistica soggetta a P.R.” precisando che il “comparto” veniva adottato con delibera consiliare n. 23 del 21.04.2011 e approvato con delibera n. 89 del 10.11.2011.
Precisava ulteriormente che “in sede di approvazione del comparto” la proprietà presentava una Relazione geologica dalla quale già risultava la necessità di una caratterizzazione del suolo attesa la rilevata presenza di fluoruro in misura eccedente le soglie di cui al D.M. n. 471/1999 e che il Geologo incaricato affermava che “l’alto valore dei fluoruri potrebbe essere attribuito ad una ricaduta di materiale particolato, o in altra forma, proveniente dalle emissioni dei camini dell’ex Fornace”.
Riferiva, infine, che sulla base dell’esame dei titoli edilizi richiesti e rilasciati negli anni, poteva presumersi che l’attività della fornace gestita dalla ricorrente potesse essersi svolta sino all’anno 1995.
La ST.R. provvedeva pertanto alla redazione di un Piano di caratterizzazione datato luglio 2013, acquisito dalla Provincia il 17.09.2013, “che riferisce sulle risultanze delle indagini eseguite nel 2000 e nel 2012” (pag. 3 del provvedimento impugnato).
La conferenza dei Servizi indetta dalla Provincia in data 06.11.2013 si esprimeva sfavorevolmente stante la lacunosità delle informazioni necessarie a ricostruire i fenomeni di contaminazione e richiedeva a ST.R. di provvedere alla redazione di un nuovo Piano di caratterizzazione “tenendo conto dei criteri generali previsti nell’allegato 2 titolo V parte IV del D. Lgs. 152/2006”.
A seguito di comunicazione ex art. 245 del D.Lgs. n. 152/2006 ai competenti Enti territoriali, la Provincia di Reggio Emilia, in data 17.04.2014 comunicava alla Società che “ad oggi, nonostante l’attivazione da parte della Provincia delle procedure previste dal D.Lgs. 152/2006 non è stato possibile identificare il soggetto responsabile”.
Preso atto dell’illustrato esito degli accertamenti esperiti dalla Provincia, la ST.R. nel settembre 2015, sul presupposto della rilevata presenza nel sottosuolo di contaminazioni superiori alle soglie di legge che, si afferma, non consentivano la realizzazione dell’intervento edilizio programmato, avviava un procedimento per Accertamento Tecnico Preventivo (ATP) ex art. 696 c.p.c. innanzi al Tribunale di Reggio Emilia affinché, “verificate le attività esercitate sull’area stessa dagli anni ’60 ad oggi” accertasse “quali di queste sia stata causa dell’inquinamento e che ne sia il soggetto responsabile”.
Il relativo procedimento si concludeva nell’anno 2016.
Il CTU incaricato in quella sede riteneva che esistesse un’elevata probabilità che il responsabile dell’inquinamento da idrocarburi si identificasse nel ricorrente che, tuttavia, non veniva ritenuto essere responsabile dell’inquinamento da fluoruri.
Con nota del 03.05.2016 ARPAE (estranea al procedimento di ATP cui ST.R. trasmetteva la CTU) comunicava al ricorrente l’avvio del procedimento ex art. 244, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006, volto all’individuazione del soggetto responsabile dell’inquinamento.
Nell’occasione ARPAE affermava l’esistenza di una elevata probabilità che il ricorrente potesse indentificarsi nel responsabile in virtù delle analisi svolte nel 2012 dalla Ditta RI. (incaricata da ST.R.) e precisava che “gli approfondimenti e le considerazioni contenute nell’accertamento tecnico preventivo costituiscono un nuovo elemento conoscitivo in possesso di questa Agenzia per l’individuazione della responsabilità dell’inquinamento sopra descritto”.
La ricorrente contestava i contenuti della comunicazione con nota del 30.05.2016.
Con nota del 20.09.2018, ARPAE richiedeva al ricorrente se intendesse “segnalare ulteriori informazioni” o volesse “presentare osservazioni con elementi aggiuntivi, anche emersi nell’ambito di eventuali sviluppi, nel frattempo intercorsi, nel procedimento di parte per l’accertamento tecnico preventivo”.
Con atto comunicato il 13.11.2018, ARPAE richiamava gli esiti della CTU evidenziando come il Consorzio fosse stato individuato come probabile responsabile dell’inquinamento da idrocarburi qualificando, invece, come bassa la probabilità che l’inquinamento da fluoruri potesse essere imputabile alle emissioni dei camini “ritenendo realisticamente più probabile che siano gli stessi terreni ad avere fin dall’origine variabilmente il contenuto del fluoruro riscontrato” (pag. 5 del provvedimento impugnato).
ARPAE, che evidenziava, altresì, come il CTU avesse prospettato “che l’area possa essere stata interessata da operazioni di riporto di materiali per rendere pianeggiante l’intero sedime” (pag. 5 del provvedimento impugnato) ordinava alla ricorrente di procedere alla presentazione entro 90 giorni di un piano di caratterizzazione.
Il ricorrente impugnava l’ordinanza deducendo una pluralità di profili di illegittimità.
...
Con il primo motivo il ricorrente deduceva l’incompetenza di ARPAE all’adozione del provvedimento impugnato, nonché, la violazione degli artt. 244 e 245 del D.Lgs. n. 152/2006 e dell’art. 15, comma 9, della L.R. n. 13/2015.
Con memoria depositata il 10 maggio il ricorrente prendeva, tuttavia, atto del deposito da parte della Provincia della Convenzione e dei relativi atti di approvazione “tutti antecedenti alla data di comunicazione di avvio del procedimento” (pag. 3), mediante i quali ARPAE veniva investita del potere di provvedere e rinunziava al motivo.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 242, 244 e 245 del D.Lgs. n. 152/2006 e degli artt. 3 e 7 della L. n. 241/1990, nonché, eccesso di potere per difetto di istruttoria, motivazione e di contraddittorio, difetto dei presupposti, ingiustizia grave e manifesta e, infine, la violazione dei principi di buon andamento, imparzialità e partecipazione.
Quanto alla dedotta lesione del diritto alla partecipazione procedimentale, la doglianza è infondata atteso che la disciplina di settore non impone il coinvolgimento dei potenziali responsabili della contaminazione sin dai primi accertamenti.
L’art. 244, comma 2, del D. Lgs. n. 152/2006, infatti, si limita a disporre che “la provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo”.
La necessità di un coinvolgimento del potenziale responsabile, come correttamente rilevato da ARPAE, si palesa solo in un secondo tempo come si ricava dai contenuti dell’art. 242, comma 4, laddove prevede che “entro sei mesi dall'approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto responsabile presenta alla regione i risultati dell'analisi di rischio. La conferenza di servizi convocata dalla regione, a seguito dell'istruttoria svolta in contraddittorio con il soggetto responsabile, cui è dato un preavviso di almeno venti giorni, approva il documento di analisi di rischio entro i sessanta giorni dalla ricezione dello stesso. Tale documento è inviato ai componenti della conferenza di servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la conferenza e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione fornisce una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza”.
In ogni caso non può che evidenziarsi che la vicenda dalla quale scaturiva l’iniziativa provvedimentale in questa sede impugnata era nota alla ricorrente per aver costituito oggetto, come illustrato, di più procedimenti finalizzati all’individuazione del responsabile (Conferenza dei Servizi e ATP).
Gli esiti dell’ATP richiamati da ARPA a presupposto dell’ordine impugnato, inoltre, maturavano nell’ambito di un procedimento al quale la ricorrente partecipava con un proprio consulente.
Il provvedimento impugnato veniva, infine, come anticipato, preceduto dalla richiamata nota del 20.09.2018 mediante la quale l’Amministrazione poneva la ricorrente in condizione di interloquire precedentemente all’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento.
Circa la dedotta carenza motivazionale, la ricorrente evidenzia come ARPAE abbia assunto acriticamente a presupposto della propria determinazione esiti di accertamenti commissionati da ST.R. nell’anno 2012, nonché, i contenuti della CTU disposta nell’ambito del richiamato ATP senza sottoporli ad alcuna verifica.
Circa la CTU da ultimo richiamata la ricorrente evidenzia che l’incaricato della stessa formulava le proprie conclusioni senza eseguire nuove indagini ma limitandosi a recepire gli esiti degli accertamenti disposti da ST.R. nel 2012.
ARPAE, si afferma ulteriormente, non avrebbe considerato che ST.R. avrebbe acquisito la proprietà dell’area nell’anno 2000 e che nell’anno 2011, precedentemente all’esecuzioni delle indagini in questione, avrebbe eseguito sul sito lavori di demolizione suscettibili di contaminare il terreno.
Le conclusioni cui perveniva l’Amministrazione, inoltre, contraddirebbero gli esiti degli accertamenti svolti dalla Provincia a seguito di una segnalazione di ST.R. basata sui medesimi esiti degli accertamenti del 2012, che si concludevano ritenendo l’impossibilità di individuare il responsabile della contaminazione lamentata.
Con il medesimo capo di impugnazione il ricorrente censura, altresì, la tempistica procedimentale evidenziando come:
   - il procedimento conclusosi con l’adozione dell’ordinanza impugnata, veniva avviato con atto del 03.05.2016, nonostante la segnalazione di ST.R. risalisse al 2012;
   - nonostante la tempestiva produzione delle proprie deduzioni (30.05.2016), il procedimento si arrestava sino al 20.09.2018 quanto ARPAE comunicava di volerlo “proseguire”, invitando la ricorrente ad integrare le propri deduzioni e concludendolo poi nel mese successivo.
Il descritto incedere paleserebbe la discontinuità e l’approssimazione con la quale veniva condotta l’istruttoria procedimentale, violando in tal modo il principio di buon andamento.
Quanto ai profili da ultimo evidenziati, ARPAE giustifica la censurata tempistica procedimentale allegando come la CTU disposta in sede di ATP fosse da qualificarsi in termini di elemento sopravvenuto che giustifica una riattivazione procedimentale e che, con riferimento a tale sopravvenienza, non sarebbe rilevabile alcun ritardo.
La posizione è condivisa dal Collegio.
L’acquisizione della più volte citata CTU (a prescindere dall’attendibilità dei dati in essa contenuti), è elemento sopravvenuto astrattamente idoneo a determinare una ripresa delle attività accertative.
A seguito di detta acquisizione (come già affermato, nota al ricorrente), il Consorzio veniva tempestivamente invitato a dedurre in merito (nota del 20.09.2018) e il successivo epilogo provvedimentale interveniva in un breve lasso di tempo.
In ogni caso, non è dedotto in ricorso che ARPAE sia incorsa nella violazione di termini perentori.
Quanto ai dedotti vizi di contraddittorietà e difetto di istruttoria, come anticipato, il provvedimento impugnato individua il responsabile della contaminazione nel ricorrente sulla base dei soli dati forniti dalla Società odierna proprietaria, peraltro datati, senza ulteriori accertamenti tesi a verificarne la piena attendibilità.
A tal proposito si evidenzia che la Società ST.R. è da circa 20 anni proprietaria dell’area contaminata e che, nel corso di tale significativo lasso temporale, eseguiva una pluralità di interventi potenzialmente inquinanti.
Sotto un primo profilo, si evidenzia che non è contestato che ST.R. abbia effettuato interventi di demolizione dei fabbricati industriali che insistevano sull’area.
Sotto altro profilo, è la stessa CTU resa in sede di ATP (che ARPAE assume, da un lato come elemento sopravvenuto legittimante il superamento della precedente posizione espressa dalla Conferenza dei servizi circa l’impossibilità di individuare un responsabile e, da altro lato, come fondamento dell’accertata responsabilità della contaminazione in capo al ricorrente) ad affermare, come anticipato, che “che l’area possa essere stata interessata da operazioni di riporto di materiali per rendere pianeggiante l’intero sedime” (pag. 5 del provvedimento impugnato): materiali in merito ai quali non veniva svolta alcuna indagine.
La medesima CTU, inoltre, escludeva l’imputabilità del rilevato inquinamento da fluoruri al ricorrente, precisando che potrebbero essere presenti nel terreno per condizione mineralogica dello stesso.
Tali elementi avrebbero dovuto indurre, in ossequio ai tradizionali principi di buon andamento e imparzialità, ad intraprendere un’attività di verifica dell’attendibilità delle acquisizioni in questione ed a valutare il potenziale concorso di altri soggetti alla contaminazione, nonché, la effettiva riconducibilità all’attività in precedenza esercitata di tutti gli inquinanti indicati dal consulente di parte di ST.R. (Società in posizione apertamente conflittuale con la ricorrente ai fini in esame) come presenti sul sito.
Quanto al valore probatorio, ai fini in esame, della CTU acquisita, fortemente enfatizzato dalle resistenti, deve rilevarsi che la stessa, ancorché intervenuta nell’ambito di un procedimento giudiziale e nel contraddittorio delle parti, fa proprie le conclusioni della Ditta RI. incaricata privatamente, nel 2012 (6 anni prima dell’adozione dell’atto impugnato) dalla Società ST.R., attuale proprietaria e potenziale corresponsabile.
L’evidenziata carenza istruttoria non può essere superata invocando il principio giurisprudenziale, richiamato da entrambe le resistenti, in base al quale sarebbe ammesso l’utilizzo degli esiti di rilievi eseguiti da terzi (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.08.2018, n. 802).
Deve, infatti, rilevarsi che il TAR Lombardo perveniva all’affermazione del suesposto principio, da condividersi in astratto, in presenza di una fattispecie che presentava peculiarità non rinvenibili nel caso di specie.
In quel caso, ove procedeva la Provincia di Mantova (e non un Ente dotato delle competenze e degli strumenti di ARPAE), si era in presenza di una situazione “grave e tale da non consentire ulteriori ritardi” che richiedeva una “messa in sicurezza di emergenza” precisando che era “l’urgenza di procedere verso una soluzione stabile” che giustificava “anche [e, quindi, non solo, ndr] l’utilizzazione degli studi e delle analisi già effettuate da altri soggetti”.
Una tale urgenza non è rinvenibile nel caso di specie, ove si consideri che i dati rilevanti ai fini dell’adozione dell’atto impugnato erano noti all’Amministrazione sin dall’anno 2012 e già giudicati insufficienti ai fini dell’individuazione del soggetto responsabile.
La circostanza da ultimo richiamata evidenzia, altresì, la contraddittorietà dell’agire amministrativo che in diverse occasioni, e sulla base delle medesime risultanze, perveniva ad esiti contrastanti.
Nei sensi invocati dalle resistenti, come già esposto, non può invocarsi la CTU resa in sede di ATP, che, ancorché elemento sopravvenuto, veniva redatta sulla base degli stessi accertamenti privatamente disposti da ST.R. nel 2012 e già valutati.
Ne consegue la fondatezza dei dedotti vizi di contraddittorietà e difetto di istruttoria non potendosi formulare, allo stato delle evidenze istruttorie e valutato il tempo intercorso dalla cessione delle aree e le successive attività ivi svolte, un sicuro o anche solo attendibile giudizio di imputabilità delle rilevate contaminazione alla pregressa attività della ricorrente sulla base del mero e generico richiamo ai principi giurisprudenziali del “chi inquina paga” e del “più probabile che non” (Cons. St., Sez. IV, 04.12.2017, n. 5668 e Cass. Civ. Sez. un., 11.01.2008, n. 581).
Per quanto precede il ricorso deve essere accolto ai fini di una complessiva rivalutazione della posizione dei soggetti succedutisi nella proprietà del fondo e dell’efficienza causale delle attività da ciascuno svolte sul sito alla determinazione dell’evento inquinate previo esperimento degli accertamenti del caso (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 24.06.2019 n. 177  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn materia di legittima emanazione dell'ordinanza di allontanamento e smaltimento di rifiuti abbandonati è stato specificato dalla giurisprudenza:
   - che colgono nel segno le doglianze di violazione dell’art. 192 TUAmb. e violazione del principio del contraddittorio;
   - che, infatti, con riguardo all'ordine di rimozione ex art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, deve in primo luogo sussistere la colpa specifica, e non già presunta o di posizione, del proprietario non autore materiale delle condotte di abbandono dei rifiuti;
   - che, dunque, la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti previsti dall'art. 192 d.lgs. n. 152/2006 necessita di un serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità ove si ravvisi il titolo colposo di tale responsabilità, non potendosi configurare, in assenza di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del diritto europeo, una responsabilità del proprietario da posizione;
   - che nella specie il sopralluogo comunale sul terreno è avvenuto in assenza del comproprietario ricorrente.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia e/o adozione di qualsiasi altra misura cautelare, dell’ordinanza n. 3 del 05/03/2019 prot. n. 451 del 06/03/2019 Uff. Tecnico, notificata l'11/03/2019, emessa dal Comune di San Sosti (CS), con cui si ordina ai sig.ri Ar.Co., Ar.Con., Ar.Gi.Vi. e Ar.Vi., in qualità di proprietari del terreno sito in località Castagneto censito al N.C.T. di San Sosti al foglio 16 mappale 223, “a voler provvedere, nel più breve tempo possibile e comunque entro e non oltre 60 (sessanta) giorni dalla notifica della presente ordinanza: all'allontanamento ed allo smaltimento in base alla tipologia di rifiuto e ai sensi dell'art. 192 del d.lgs 03.04.2006 n. 152 e s.m.i., dei rifiuti abbandonati presso l'area sita in loc.tà Castagneto censita al Catasto al Fg. 16 mappale 223; al ripristino e alla bonifica dello stato dei luoghi. Gli stessi, espletata la procedura corretta di smaltimento del materiale, dovranno produrre una relazione circa gli interventi eseguiti, corredata dalla certificazione comprovante l'avvenuto smaltimento dei su citati rifiuti”.
...
Considerato:
   - che colgono nel segno le doglianze di violazione dell’art. 192 TUAmb. e violazione del principio del contraddittorio;
   - che, infatti, con riguardo all'ordine di rimozione ex art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, deve in primo luogo sussistere la colpa specifica, e non già presunta o di posizione, del proprietario non autore materiale delle condotte di abbandono dei rifiuti (cfr. da ultimo Cons. Stato, IV, 07.06.2018, n. 3430);
   - che, dunque, la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti previsti dall'art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 necessita di un serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità ove si ravvisi il titolo colposo di tale responsabilità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3672 del 2017; sez. V, n. 1089 del 2017; sez. IV, n. 1301 del 2016; sez. V, n. 933 del 2015), non potendosi configurare, in assenza di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del diritto europeo, una responsabilità del proprietario da posizione (cfr. da ultimo Corte giust. UE, sez. II, 13.07.2017, C-129/2016; sez. III, 04.03.2015, n. 534; Cons. Stato, Ad. plen., n. nn. 21 e 25 del 2013);
   - che nella specie il sopralluogo sul terreno è avvenuto in assenza del comproprietario ricorrente;
   - che, tra l’altro, egli aveva esso stesso presentato denuncia al Comune di rinvenimento delle lastre di eternit e che con apposita ctp ha dimostrato vi fosse chiusura di accesso al fondo, a destinazione boschiva, con cancello in legno divelto;
Ritenuto, pertanto:
   - di accogliere il ricorso con annullamento dell’ordinanza impugnata (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 20.06.2019 n. 1235  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: E' illegittima l'ordinanza sindacale che impone al proprietario del fondo la recinzione dello stesso al fine di evitare l'abbandono incontrollato di rifiuti.
Costante giurisprudenza suffraga la natura essenzialmente facoltativa e non obbligatoria della recinzione del fondo in capo al proprietario.
In tal senso depone in termini inequivoci l’art. 841 c.c., in virtù del quale: “Il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo”. La chiusura/recinzione del fondo è dunque un atto facoltativo per il titolare del diritto dominicale.
Sicché, tra le prestazioni che il Sindaco può imporre al proprietario, tanto nell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs. 152/2006, quanto in quelle emanate ai sensi degli artt. 50 e 54 D.Lgs. 267/2000, non può essere annoverata la recinzione del fondo.
Invero:
   - “Per principio generale di diritto (cfr. art. 841 cod. civ.) la "chiusura del fondo" costituisce, infatti, una mera facoltà del proprietario, il cui mancato esercizio non può, dunque, ridondare in un giudizio di responsabilità per condotta omissiva o inottemperante ad un obbligo di diligenza”; “Secondo un principio generale del diritto, riveniente dall'art. 841 c.c., la chiusura del fondo costituisce una mera facoltà del proprietario e, dunque, giammai un suo obbligo”;
   - La possibilità di addivenire all’imposizione della recinzione potrebbe al limite ipotizzarsi in situazioni peculiari, e comunque sulla scorta di una specifica e ponderata valutazione, da parte dell’amministrazione procedente, svolta alla luce dei canoni della proporzionalità e ragionevolezza, del tutto assente negli atti qui gravati: “D’altronde, se anche si dovesse ravvisare un fondamento normativo all'obbligo di recinzione, resterebbe comunque da considerare che un obbligo di condotta di tal genere andrebbe valutato secondo criteri di ordinaria diligenza e, quindi, di proporzionata e ragionevole esigibilità, che nella specie non sono neppure astrattamente invocabili, atteso che -i paventati pericoli per la salute dei residenti, asseritamente causati dallo stazionamento di automezzi sul terreno- risultano essere frutto di affermazioni non supportate da alcun effettivo accertamento.
Conseguentemente, appare opportuno sottolineare come l’omessa recinzione del fondo, integrando una condotta del tutto legittima da parte del proprietario, non può essere assunta dal comune, in sede di adozione dell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs. 152/2006, quale indice della colpa del titolare del terreno.
Anche sotto tale profilo, invero, l’opinione giurisprudenziale è consolidata: “In caso di abbandono di rifiuti in un fondo di proprietà privata, la colpa del proprietario non può ravvisarsi nel fatto che quest'ultimo non abbia recintato l'area, posto che la chiusura del fondo costituisce una mera facoltà del proprietario, ai sensi dell'art. 841 c.c., giammai un obbligo”.
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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 61 del 30.07.2018, comunicata il 02.08.2018 e della successiva ordinanza sindacale n. 78 del 21.08.2018, comunicata il 12.09.2018, in parte qua, laddove prevedono la realizzazione della recinzione delle aree;
...
I Sigg.ri Pa.Si.Va., Ni.Bi.Va. e An.Va. sono proprietari di alcuni appezzamenti di terreno ubicati in Comune di Arnesano.
Con ordinanza n. 61 del 30.07.2018 il Sindaco del Comune di Arnesano ingiungeva ai Va.: “1. di provvedere, a propria cura e spese, all’esecuzione delle opere di difesa e prevenzione antincendio, previa estirpazione e pulizia delle erbacce cresciute nei lotti di terreno di proprietà e smaltimento presso ditte autorizzate dei rifiuti abbandonati entro e non altre 10 giorni dalla notifica della presente […]; 2. Di provvedere alla recinzione dei lotti di terreno innanzi citati entro 90 giorni dalla data di notifica della presente ordinanza, previa preventiva richiesta all’Ufficio tecnico Comunale del relativo titolo abilitativo ai sensi del TUE […]”.
Immediatamente dopo la notifica di tale ordinanza, veniva fornita all’amministrazione comunale documentazione fotografica attestante l’intervenuta esecuzione delle opere di scerbatura dei terreni.
Con successiva ordinanza n. 78 del 21.08.2018 il Sindaco ingiungeva ulteriormente ai Va., con riferimento ai fondi di loro proprietà, di “eseguire le opere di estirpazione e pulizia delle erbe infestanti, nonché la raccolta e smaltimento presso ditte autorizzate dei rifiuti di vario genere abbandonati nei lotti di terreno […]; avverte […] che i soggetti obbligati, nei termini previsti dall’ordinanza sindacale n. 61 /2018, sono tenuti a provvedere alla recinzione dei lotti di terreno innanzi citati, previa preventiva richiesta all’Ufficio Tecnico Comunale del relativo titolo abilitativo ai sensi del TUE approvato con D.P.R. n. 380 del 6.6.2001 e s.m.i.”.
Avverso i suddetti provvedimenti sindacali, i Vacca proponevano il ricorso introduttivo del presente giudizio, chiedendone l’annullamento “in parte qua, laddove prevede la realizzazione della recinzione delle aree”, per il seguente articolato motivo: ...
...
1. Il ricorso è fondato.
La porzione del provvedimento che costituisce oggetto di impugnazione da parte dei ricorrenti è quella con la quale il Sindaco imponeva ai Va. la recinzione del proprio fondo.
1.1. Le valutazioni svolte in ricorso, e suffragate da costante indirizzo giurisprudenziale, circa la natura essenzialmente facoltativa e non obbligatoria della recinzione del fondo in capo al proprietario, sono condivise dal Collegio. In tal senso depone in termini inequivoci l’art. 841 c.c., in virtù del quale: “Il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo”. La chiusura/recinzione del fondo è dunque un atto facoltativo per il titolare del diritto dominicale.
Per quanto precede, tra le prestazioni che il Sindaco può imporre al proprietario, tanto nell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs. 152/2006, quanto in quelle emanate ai sensi degli artt. 50 e 54 D.Lgs. 267/2000, non può essere annoverata la recinzione del fondo: “È fondato ed assorbente il rilievo secondo cui non può essere imposta ai proprietari la recinzione del fondo.
Per principio generale di diritto (cfr. art. 841 cod. civ.) la "chiusura del fondo" costituisce, infatti, una mera facoltà del proprietario, il cui mancato esercizio non può, dunque, ridondare in un giudizio di responsabilità per condotta omissiva o inottemperante ad un obbligo di diligenza (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. I, n. 9276/2014; Cons. Stato, sez. III, sentenza n. 4316/2018, sez. V, sentenza n. 4504/2015; sez. III, sentenza n. 2518/2010; sez. V, sentenza n. 1612/2009)” (TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 11.09.2018 n. 529; TAR Calabria); “Secondo un principio generale del diritto, riveniente dall'art. 841 c.c., la chiusura del fondo costituisce una mera facoltà del proprietario e, dunque, giammai un suo obbligo” (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 18.09.2012 n. 954; cfr: TAR Umbria, Perugia, Sez. I, 27.01.2012 n. 13).
La possibilità di addivenire all’imposizione della recinzione potrebbe al limite ipotizzarsi in situazioni peculiari, e comunque sulla scorta di una specifica e ponderata valutazione, da parte dell’amministrazione procedente, svolta alla luce dei canoni della proporzionalità e ragionevolezza, del tutto assente negli atti qui gravati: “D’altronde, se anche si dovesse ravvisare un fondamento normativo all'obbligo di recinzione, resterebbe comunque da considerare che un obbligo di condotta di tal genere andrebbe valutato secondo criteri di ordinaria diligenza e, quindi, di proporzionata e ragionevole esigibilità, che nella specie non sono neppure astrattamente invocabili, atteso che -i paventati pericoli per la salute dei residenti, asseritamente causati dallo stazionamento di automezzi sul terreno- risultano essere frutto di affermazioni non supportate da alcun effettivo accertamento
” (TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 11.09.2018 n. 529).
1.2. In conseguenza di quanto sopra, peraltro, appare opportuno sottolineare come l’omessa recinzione del fondo, integrando una condotta del tutto legittima da parte del proprietario, non possa essere assunta dall’amministrazione, in sede di adozione dell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs. 152/2006, quale indice della colpa del titolare del terreno.
Anche sotto tale profilo, invero, l’opinione giurisprudenziale è consolidata: “In caso di abbandono di rifiuti in un fondo di proprietà privata, la colpa del proprietario non può ravvisarsi nel fatto che quest'ultimo non abbia recintato l'area, posto che la chiusura del fondo costituisce una mera facoltà del proprietario, ai sensi dell'art. 841 c.c., giammai un obbligo” (Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.2009 n. 1612; cfr: TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 19.12.2012 n. 747).
1.3. Le ordinanze oggetto del presente giudizio, nella parte in cui impongono ai proprietari la recinzione delle aree di loro proprietà, risultano, per quanto precede, illegittime.
1.4. La fondatezza del rilievo dirimente qui esaminato consente di assorbire, per ragioni di ordine logico, le ulteriori censure svolte nell’atto introduttivo del giudizio.
2. Il ricorso risulta dunque fondato e deve essere accolto, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati nella parte in cui essi impongono ai proprietari la chiusura del fondo (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 11.06.2019 n. 986 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAi sensi degli articoli 242, comma 1, e 244, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, se viene accertata la potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento e cioè a coloro che abbiano in tutto o in parte dato causa alla contaminazione.
Si è di conseguenza esclusa la responsabilità del proprietario o del possessore dell'immobile solo perché rivestono tale qualità.
Lo si desume chiaramente:
   - dall’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, che considera il proprietario, o il titolare di diritti reali o personali di godimento sull'area inquinata, responsabile in solido con l’autore materiale dell'abbandono o deposito incontrollati di rifiuti, se vengono meno colpevolmente ad uno specifico obbligo di diligenza nella prevenzione dell’inquinamento in quanto prevedibile e prevenibile con l’ordinaria diligenza;
   - dall'art. 311 che detta la definizione della colpa e disciplina l'azione risarcitoria per danno ambientale e pone quindi in capo al soggetto tenuto al risarcimento una responsabilità di tipo soggettivo;
   - dall’art 245, che prevede la facoltà -non un obbligo- del proprietario o possessore del suolo di attivare le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale e di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica.
   - dall’art. 245, comma 2, che dispone: il proprietario o il gestore dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve […] attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'articolo 242, le quali, secondo la definizione dell’art. 240 consistono in “iniziative mirate a contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
   - dall’art. art. 244 che pone gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino esclusivamente a carico del responsabile della contaminazione e solo in subordine li pone a carico dalla p.a. competente ove il responsabile rimanga ignoto o non vi provveda, né vi provvedano il proprietario del sito o altro soggetto interessato;
   - dall’art. 253, comma 4, secondo il quale le spese sostenute per effettuare gli interventi necessari potranno essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile o di esercitare utilmente, nei confronti del medesimo, azioni di rivalsa), a titolo di rivalsa nei confronti del proprietario, nei limiti del valore di mercato del sito che è gravato a tal fine di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).
Grava pertanto sul proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, solo la messa in sicurezza del sito quale misura di prevenzione dei danni che potrebbero derivare all'ambiente la quale, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone l’imputabilità della contaminazione a fatto (azione o omissione) e colpa del proprietario.
Si è infatti condivisibilmente ritenuto che ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato.
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... per l'annullamento dell'ordinanza del Sindaco di Sulmona n. 19 del 14.03.2018, notificata in data 11.04.2018, avente ad oggetto la bonifica della discarica contaminata in località Santa Lucia nel Comune di Sulmona, nella parte in cui dispone che le attività di indagine ambientale, caratterizzazione e rimozione dei rifiuti, bonifica e ripristino del sito siano poste a carico, tra gli altri, anche della Sig.ra Ce.Gi., in proprio e nella qualità di legale rappresentante della Te. di Ce.Gi..
...
Con il ricorso in decisione Gi.Ce. chiede l’annullamento dell’ordinanza n. 19 del 14.03.2018 con la quale il Comune di Sulmona ha intimato a lei, quale legale rappresentante della TE. di Ce.Gi. & C. S.a.s., proprietaria dei terreni censiti in catasto al Fg. n. 29, part.lle n. 44, 52,312, 313 e 314, alla S.r.l. L’Am. e a Ma.Do., quali responsabili in solido, di eseguire indagini ambientali, caratterizzazione e rimozione di rifiuti, nonché la bonifica del sito industriale dismesso nel quale detti terreni sono compresi unitamente alla contigua particella n. 45, foglio 29, occupata da discarica abusiva si proprietà di It.Pa., parimenti intimato.
...
La questione in decisione riguarda l’ordine rivolto alla proprietaria di un’area contigua ad un suolo occupato da una discarica abusiva “di eseguire una campagna di indagini ambientali con prelievo di campioni sulla matrice Terreno superficiale (TopSoli) al fine di evidenziare l’estensione della contaminazione anche eventualmente fuori del sito, nonché relativamente alle varie matrici coinvolte; indagine di qualità ambientale sulle matrici “acqua” e suolo”; caratterizzazione e rimozione rifiuti; bonifica delle aree interessate e ripristino finale del sito; trasmissione, entro 15 (quindici) giorni di tutta la documentazione tecnica comprovante l’avvenuta esecuzione di quanto prescritto.
La ricorrente sostiene di non essere tenuta a tali adempimenti perché altri sarebbero gli autori dell’inquinamento della particella n. 45 e dell’eventuale contaminazione delle aree limitrofe comprese nel sito.
...
Gli altri motivi in quanto strettamente connessi possono essere esaminati congiuntamente.
A tal fine è necessario premettere una sintesi delle disposizioni rilevanti in materia.
Ai sensi degli articoli 242, comma 1, e 244, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, se viene accertata la potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento e cioè a coloro che abbiano in tutto o in parte dato causa alla contaminazione.
Si è di conseguenza esclusa la responsabilità del proprietario o del possessore dell'immobile solo perché rivestono tale qualità (Cons. Stato, sez. V, 30.07.2015, n. 3756).
Lo si desume chiaramente:
   - dall’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, che considera il proprietario, o il titolare di diritti reali o personali di godimento sull'area inquinata, responsabile in solido con l’autore materiale dell'abbandono o deposito incontrollati di rifiuti, se vengono meno colpevolmente ad uno specifico obbligo di diligenza nella prevenzione dell’inquinamento in quanto prevedibile e prevenibile con l’ordinaria diligenza (TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, n. 2675/2016; Cons. di Sato – Sez. IV n. 84/2010; Cass. Sez. Un. n. 4472/2009);
   - dall'art. 311 che detta la definizione della colpa e disciplina l'azione risarcitoria per danno ambientale e pone quindi in capo al soggetto tenuto al risarcimento una responsabilità di tipo soggettivo;
   - dall’art 245, che prevede la facoltà -non un obbligo- del proprietario o possessore del suolo di attivare le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale e di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica.
   - dall’art. 245, comma 2, che dispone: il proprietario o il gestore dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve […] attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'articolo 242, le quali, secondo la definizione dell’art. 240 consistono in “iniziative mirate a contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
   - dall’art. art. 244 che pone gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino esclusivamente a carico del responsabile della contaminazione e solo in subordine li pone a carico dalla p.a. competente ove il responsabile rimanga ignoto o non vi provveda, né vi provvedano il proprietario del sito o altro soggetto interessato;
   - dall’art. 253, comma 4, secondo il quale le spese sostenute per effettuare gli interventi necessari potranno essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile o di esercitare utilmente, nei confronti del medesimo, azioni di rivalsa), a titolo di rivalsa nei confronti del proprietario, nei limiti del valore di mercato del sito che è gravato a tal fine di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).
Grava pertanto sul proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, solo la messa in sicurezza del sito quale misura di prevenzione dei danni che potrebbero derivare all'ambiente la quale, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone l’imputabilità della contaminazione a fatto (azione o omissione) e colpa del proprietario.
Si è infatti condivisibilmente ritenuto che ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato (Consiglio di Stato sez. IV, 04/12/2017, n. 5668; Consiglio di Stato sez. V, 08/03/2017, n. 1089; C. Giust. UE, sez. III, 04.03.2015, C-534/13).
In applicazione dei principi richiamati la ricorrente, in qualità di proprietaria dell'area, alla quale il provvedimento gravato non imputa la responsabilità neppure indiretta dell'inquinamento attuale (della particella n. 45) o potenziale (della parte restante del sito), richiamando invece quale titolo dell’ordine impartitole l’inclusione dei terreni che le appartengono nel sito industriale dismesso, sarà, se del caso, responsabile sul piano patrimoniale e tenuta, ove occorra, al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo l'esecuzione di tali interventi, secondo quanto desumibile dalla disciplina vigente come sopra interpretata.
Ne consegue che l’ordinanza gravata deve essere annullata nella parte in cui impone alla ricorrente attività del tutto diverse dall’adozione delle misure di prevenzione che potrebbero esserle legittimamente imposte.
Non hanno infatti natura preventiva la campagna di indagini ambientali con prelievo di campioni sulla matrice Terreno superficiale (TopSoli) al fine di evidenziare l’estensione della contaminazione anche eventualmente fuori del sito, nonché relativamente alle varie matrici coinvolte né l’indagine di qualità ambientale sulle matrici “acqua” e "suolo”, né la caratterizzazione e rimozione rifiuti e la bonifica delle aree interessate e ripristino finale del sito imposti dall’ordinanza gravata, il cui obbligo di facere grava in via diretta sui responsabili dell’abbancamento dei rifiuti e, in via sostitutiva, sull’Amministrazione con rivalsa nei confronti della ricorrente nei limiti del valore di mercato del suolo.
Infine, proprio perché la ricorrente viene intimata in qualità di proprietaria, non è tenuta ad alcun adempimento con riferimento alla particella n. 45 che appartiene al cointeressato It.Pa.,
Tale considerazione assorbe le censure del terzo motivo nella parte in cui la ricorrente lamenta di non aver potuto allegare, stante l’omessa comunicazione di avvio del procedimento concluso con l’adozione dell’ordinanza, di essere estranea ad ogni coinvolgimento inerente all’inquinamento della particella n. 45 (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 10.06.2019 n. 294 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAE’ pacifico che il principio “chi inquina paga” non ammette forme di responsabilità a prescindere dalla materiale causazione del danno o del pericolo ambientale.
L’Amministrazione non può imporre, infatti, al proprietario di un’area contaminata, il quale non sia l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di provvedere alla bonifica di siffatta area. Orientamento, questo, che la Corte di Giustizia ha ritenuto compatibile con la normativa comunitaria, nello specifico la direttiva n. 2004/35 sulla responsabilità ambientale.
Per la giurisprudenza, ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere, invero, imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento e cioè ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato.
Unica eccezione è costituita dalle (mere) misure di precauzione che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppongono affatto l’accertamento del dolo o della colpa.
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... per l'annullamento, previa sospensione cautelare, dell'ordinanza sindacale del Comune di Spilimbergo n. 62 del 24.07.2018, per l'esecuzione di misure di prevenzione ai sensi dell'art. 240 c. 1, lett. i), del d.lgs. 152/2006 presso l'area industriale sita in Spilimbergo “Zona industriale Cosa”, Fg. 27 mapp. n. 335, nonché in merito alla presunta copertura in cemento-amianto dell'immobile (doc. 1);
...
La società UB.Le. S.p.A., proprietaria di una serie di immobili ed aree siti nel Comune di Spilimbergo (PN), Zona Industriale Cosa, contesta la legittimità, invocandone l’annullamento, previa sospensione cautelare, del provvedimento a firma congiunta del Sindaco e del Responsabile del Servizio Ambiente in epigrafe compiutamente indicato, laddove le è stato ordinato, quale proprietà dei mappali medesimi e, in particolare, di quelli interessati dallo stabilimento “ex Sintesi” ove insistono le vasche dell’impianto di trattamento (cromo e nichel) ancora parzialmente piene di prodotto, nonché le vasche di raccolta reflui e acque di processo del pari ancora piene, di provvedere ai sensi artt. 240, 242 e ss. d.lgs. n. 152/2006:
   “- entro il termine perentorio di 10 giorni dal ricevimento della presente, a porre in essere tutte le necessarie misure di prevenzione finalizzate ad evitare che i materiali liquidi/rifiuti liquidi sopra indicati alle lett. a) e b) delle premesse della presente ordinanza, possano costituire potenziale sorgente attiva di contaminazione del suolo, del sottosuolo e della falda sotterranea: le misure di prevenzione dovranno consistere nella totale rimozione dei materiali/rifiuti liquidi sopra indicati e nel loro avvio a recupero/smaltimento nelle forme di legge, ed altresì nel successivo completo lavaggio e pulizia di tutte le vasche/cisterne di raccolta degli stessi;
   - di effettuare, entro 30 giorni dal ricevimento della presente, l’analisi di classificazione della copertura dell’immobile indicato in premessa, e ove risultasse composta da cemento-amianto (eternit), procedere, nei 30 giorni successivi, ai sensi del D.M 06/09/1994 <Normative e metodologie tecniche di applicazione dell'art. 6, comma 3, e dell'art. 12, comma 2, della Legge 27.02.1992 n. 257, relativa alla cessazione dell'impiego dell'amianto>, attraverso ditta specializzata e/o tecnico qualificato, alla valutazione dello stato di degrado dei materiali contenti amianto sulla copertura del fabbricato, trasmettendola al Comune; in seguito alla valutazione dello stato di degrado o conservazione della copertura in cemento-amianto, effettuare altresì gli interventi di monitoraggio e controllo periodico o, se necessario, procedere, a seconda dello stato di degrado della copertura, con uno degli interventi di bonifica previsti dalla normativa vigente (D.M. 06.09.1994 rimozione, incapsulamento, confinamento)
”.
...
Il ricorso merita accoglimento.
Indiscussa, invero, la permanenza dell’interesse alla decisione nel merito in capo a parte ricorrente, atteso che, da quanto riferito da entrambe le parti, la medesima avrebbe solo dato avvio ai lavori di rimozione dei materiali/rifiuti liquidi presenti nel sito e manifestato l’intenzione di effettuare quelli di bonifica dell’eternit del pari presente nel sito, sicché –è evidente– il provvedimento gravato non ha, allo stato, ancora esaurito i propri effetti nei suoi confronti, il Collegio ritiene dirimenti i primi due motivi di gravame.
In disparte l’effettiva “perplessità” dell’adozione congiunta del provvedimento gravato da parte dell’organo politico di vertice dell’ente civico e di quello gestionale competente per materia, il Collegio ritiene, in effetti, che il provvedimento in questione fuoriesca, per il suo contenuto e la sua effettiva portata, dallo stretto perimetro delle cd. misure di prevenzione di cui all’art. 240, c. 1, lett. i), d.lgs. n. 152/2006 e, in particolare, che difetti degli stringenti presupposti stabiliti per l’emissione dei provvedimenti contingibili ed urgenti di competenza sindacale, dovendo, per converso, venire declinato secondo la procedura “ordinaria” di cui all’art. 244 d.lgs. citato, di spettanza dell’ente cui competono le funzioni amministrative in materia di ambiente.
Decisiva, nei sensi dell’illegittimità dell’ordinanza in questione laddove emessa nei confronti della ricorrente, è, in ogni caso, la circostanza che la stessa poggia sulla mera e acritica constatazione della titolarità in capo alla società Ub.Le. del bene su cui insiste l’inquinamento al quale, ancorché impropriamente, ha inteso ovviare, senza peritarsi di indagare in alcun modo se la situazione pregiudizievole per l’ambiente che è stata riscontrata le sia effettivamente ascrivibile.
E’ pacifico, però, che il principio “chi inquina paga” non ammette forme di responsabilità a prescindere dalla materiale causazione del danno o del pericolo ambientale.
L’Amministrazione non può imporre, infatti, al proprietario di un’area contaminata, il quale non sia l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di provvedere alla bonifica di siffatta area (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2016, n. 4875). Orientamento, questo, che la Corte di Giustizia ha ritenuto compatibile con la normativa comunitaria, nello specifico la direttiva n. 2004/35 sulla responsabilità ambientale (cfr. CGUE, Sez. III, 04.03.2015, causa C-534/13).
Per la giurisprudenza, ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere, invero, imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento e cioè ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 25.09.2013, n. 21; Corte di giustizia, sez. III, 04.03.2015, C-534/13).
Unica eccezione è costituita dalle (mere) misure di precauzione, ipotesi che non ricorre, però, nel caso di specie, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppongono affatto l’accertamento del dolo o della colpa (Cons. Stato, V, 08.03.2017, n. 1089; in questi termini, Cons. Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509; Cons. Stato, sez. VI, 15.07.2015, n. 3544).
In definitiva, i motivi scrutinati sono fondati (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 05.06.2019 n. 247 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALaddove si contesti l’adozione da parte del Sindaco di un provvedimento contingibile e urgente in materia ambientale, la giurisprudenza ha opportunamente evidenziato che “la competenza in materia della Provincia può essere considerata come esclusiva soltanto in relazione ai procedimenti ordinari, visto che la norma attributiva del potere non fa uno specifico riferimento alle situazioni in cui si ravvisi l’indifferibilità e l’urgenza di provvedere (per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista esplicitamente l’emanazione di ordinanze contingibili e urgenti, si veda l’art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti (…), allorquando se ne configurino i relativi presupposti.
L’astratta configurabilità di un tale modus operandi consente, altresì, di prescindere, in tale fase, dalla previa individuazione del soggetto responsabile dell’inquinamento, rendendo possibile indirizzare l’ordine di intervento direttamente al proprietario dell’area inquinata”.
Con riguardo all’ultimo profilo preso in considerazione dalla giurisprudenza, è stato, peraltro, reiteratamente affermato che “è il solo obbligo di bonifica che non può essere imposto al proprietario incolpevole, mentre le misure di precauzione ben possono essere imposte al proprietario dell’area che non sia anche responsabile dell’inquinamento, dal momento che, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, prescindono dal requisito del dolo o della colpa” e, nello specifico, che “la messa in sicurezza del sito costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra pertanto nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l’accertamento del dolo o della colpa”.
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... per l'annullamento, previa sospensione cautelare dell'ordinanza sindacale del Comune di Spilimbergo n. 64 del 26.07.2018, per l'esecuzione di misure di prevenzione e per la messa in sicurezza ai sensi dell'art. 240 del d.lgs. 152/2006 all'interno dell'area industriale sita in Spilimbergo “Zona industriale Cosa”, catastalmente censita L Fg. 27 mapp. N. 382;
...
La società UB.Le. S.p.A., proprietaria di una serie di immobili ed aree siti nel Comune di Spilimbergo (PN), Zona Industriale Cosa, contesta la legittimità, invocandone l’annullamento, previa sospensione cautelare, del provvedimento sindacale in epigrafe compiutamente indicato, con cui le è stato ordinato, quale proprietà del mappale 382 Fg. 27 ove insiste uno sversamento di una sostanza riconducibile a possibili idrocarburi o oli minerali, che potrebbe costituire una potenziale fonte di contaminazione (“hot spot”): “1. di procedere con l’adozione delle opportune misure di prevenzione e con l’immediata messa in sicurezza dell’hot spot indicato in premessa, coprendo con un telo impermeabile l’area interessata dallo stesso al fine evitare che –in caso di pioggia– possano verificarsi fenomeni di percolamento e diffusione dei contaminanti nel sottosuolo ed in falda;
2. di porre in essere immediatamente tutte le più opportune misure di sicurezza al fine di confinare la potenziale sorgente di contaminazione indicata in premessa; tali misure andranno preventivamente condivise con l’ARPA FVG – Dipartimento di Pordenone;
3. di comunicare al Comune di Spilimbergo, all’ARPA FVG – Dipartimento di Pordenone, alla Regione FVG, all’AAS n. 5 e alla Procura della Repubblica di Pordenone, con almeno 12 ore di preavviso, l’inizio delle operazioni di cui al precedenti punti 1. e 2.
”.
...
Il ricorso non ha pregio.
Invero, in disparte ogni considerazione in ordine ai “motivi di carattere soggettivo” che hanno indotto parte ricorrente a dare medio tempore esecuzione al provvedimento impugnato, deprivandola, ad avviso del Collegio, di ogni interesse a contestarne la legittimità, dato, tra l’altro, che non ha avanzato istanza risarcitoria (o, eventualmente, dichiarato di essere intenzionata a farlo), il Collegio ritiene che il provvedimento in questione sfugga, in ogni caso, ai vizi denunciati dalla medesima.
Valgono le seguenti considerazioni.
Il Collegio ritiene, innanzitutto, che la misura minimale di prevenzione posta a carico della ricorrente (copertura con un telo impermeabile dell’hot spot) possa pacificamente rientrare tra i provvedimenti contingibili e urgenti di competenza sindacale (quale deve ritenersi pacificamente essere quello gravato), essendo insita nel paventato rischio di percolamento e diffusione dei contaminanti nel sottosuolo e in falda in caso di pioggia la sussistenza di quei presupposti di straordinarietà e urgenza che ne legittimano l’adozione.
E’ evidente, infatti, che la potenziale offesa per l’incolumità pubblica si pone quale diretta (e facilmente prevedibile conseguenza) del danno all’ambiente provocato dallo sversamento della sostanza ritenuta riconducibile a possibili idrocarburi o oli minerali.
Lo strumento in questione (che, per quanto si dirà in seguito, deve ritenersi applicabile pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati) può essere utilizzato, invero, anche per evitare che un danno si verifichi o che –come nel caso in esame– si aggravi, prevalendo comunque l’esigenza di dare tutela all’interesse pubblico esposto a lesione (alla stregua dell’art. 3-quater introdotto nel testo del d.lgs. n. 152/2006 dal d.lgs. n. 4/2008, “nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità, gli interessi alla tutela dell’ambiente…devono essere oggetto di prioritaria considerazione”).
Senza trascurare, peraltro, di rilevare che la misura imposta è andata a vantaggio della stessa ricorrente, quale proprietaria dell’area, in quanto le ha consentito di evitare, al contempo, anche il prodursi di ulteriori danni a suo carico. Il Comune ha rappresentato, infatti, che le analisi sui campioni dell’hot spot nel frattempo condotte dall’ARPA (vedi nota ARPA FVG prot. 36589 del 15.10.2018) hanno confermato che trattasi di rifiuto “classificato come speciale pericoloso classi di pericolosità HP14 eco-tossico per la presenza di olio minerale (C10-C40) pari a 28000 mg/kg”.
Il Collegio condivide, peraltro, le considerazioni svolte dal Tar Lombardia, Milano, sez. IV, nella sentenza 08.06.2010, n. 1758, laddove, in un caso in cui era parimenti contestata l’adozione da parte del Sindaco di un provvedimento contingibile e urgente in materia ambientale, ha opportunamente evidenziato che “la competenza in materia della Provincia può essere considerata come esclusiva soltanto in relazione ai procedimenti ordinari, visto che la norma attributiva del potere non fa uno specifico riferimento alle situazioni in cui si ravvisi l’indifferibilità e l’urgenza di provvedere (per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista esplicitamente l’emanazione di ordinanze contingibili e urgenti, si veda l’art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti (…), allorquando se ne configurino i relativi presupposti (cfr. Consiglio di Stato, V, 12.06.2009, n. 3765; II, parere 24.10.2007, n. 2210; TAR Lombardia, Milano, IV, 16.07.2009, n. 4379).
L’astratta configurabilità di un tale modus operandi consente, altresì, di prescindere, in tale fase, dalla previa individuazione del soggetto responsabile dell’inquinamento, rendendo possibile indirizzare l’ordine di intervento direttamente al proprietario dell’area inquinata (Consiglio di Stato, V, 07.09.2007, n. 4718; TAR Lombardia, Milano, IV, 16.07.2009, n. 4379)
”.
Con riguardo all’ultimo profilo preso in considerazione dalla pronuncia richiamata, in giurisprudenza, è stato, peraltro, reiteratamente affermato che “è il solo obbligo di bonifica che non può essere imposto al proprietario incolpevole, mentre le misure di precauzione ben possono essere imposte al proprietario dell’area che non sia anche responsabile dell’inquinamento, dal momento che, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, prescindono dal requisito del dolo o della colpa” (TAR Friuli Venezia Giulia, sent. n. 34/2018; Cons. Stato, V, sent. n. 1089/2017; Cons. Stato, V, sent. n. 1509/2016 e Cons. Stato, VI, sent. n. 3544/2015; TAR Lombardia–Milano, sent. n. 1914/2015; n. 1915/2015, n. 927/2016 e n. 928/2016) e, nello specifico, che “la messa in sicurezza del sito costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra pertanto nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l’accertamento del dolo o della colpa” (Cons. Stato, V, 08.03.2017, n. 1089; in questi termini, Cons. Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509; Cons. Stato, sez. VI, 15.07.2015, n. 3544).
Nel caso di specie, è, peraltro, evidente che il Comune ha dato motivata evidenza del pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabili interventi immediati e indilazionabili di precauzione, consistenti nell’imposizione del su descritto obbligo di copertura dell’hot spot a carico del privato proprietario per evitare ulteriore contaminazione ambientale, assolvendo puntualmente alla dimostrazione della sussistenza dei presupposti legittimanti il ricorso al potere extra ordinem eccezionalmente esercitato.
Il Comune non ha, inoltre, in alcun modo travalicato i limiti del detto potere e/o posto in essere un provvedimento sviato nella causa. L’ordinanza emessa, che –si rammenta– non impone assolutamente la rimozione dello sversamento inquinante (con asportazione del terreno compromesso) e/o la bonifica del sito, ma solo l’adozione di una misura minimale preordinata al suo “contenimento”, appare, infatti, anche assolutamente proporzionata all’esigenza indilazionabile di tutela perseguita e tale da non imporre un onere irragionevole al proprietario incolpevole.
E’ evidente, infine, che trattasi di misura di prevenzione incompatibile con il rispetto dei tempi di interlocuzione con il soggetto destinatario, tale da rendere sicuramente recessive anche eventuali garanzie di coinvolgimento procedimentale in ragione del valore del bene protetto (tutela ambientale) e delle sottese esigenze di tutela dell’incolumità pubblica.
Sulla scorta delle considerazioni sin qui svolte vanno, in definitiva, respinte tutte le doglianze svolte dalla ricorrente, in quanto infondate (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 05.06.2019 n. 246 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Il comune è incompetente all'adozione dell'ordinanza che impone un piano di caratterizzazione essendo la competenza della Provincia (ndr: fatti salvi i disposti della legislazione regionale concorrente in materia).
L’art. 244, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 prescrive che “La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo”.
In base a questa disposizione, emerge che l’ente deputato a curare la gestione delle attività di bonifica e, dunque, delle attività ad essa prodromica e strumentali sia la Provincia.
La deduzione, oltre che dal chiaro tenore letterale della norma, è supportata anche da precedenti del giudice amministrativo che ha avuto modo di statuire che il comune è incompetente all'adozione dell'ordinanza che impone un piano di caratterizzazione, in quanto “l'art. 244 del D.Lgs. n. 152/2006, al comma 2, [dispone] che "La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte a identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo" e al comma 3 che "L'ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al proprietario del sito ai sensi e per gli effetti dell'art. 253”.
In linea generale, è stato anche osservato come rispetto alle attività ascrivibili a questa fase la competenza permanga sempre in capo alla Provincia, anche in quei casi in cui il privato si attivi spontaneamente, ribadendosi, per quel che qui interessa, la competenza di tale ente locale.
Altresì, “La facoltà di intervento spontaneo da parte del proprietario nell'ambito del procedimento di bonifica non elide il dovere della Provincia di attivarsi per l'individuazione dell'autore dell'inquinamento, attraverso l'apertura del procedimento previsto dall'art. 244 del D.Lgs. n. 152 del 03.04.2006. Il compimento da parte dell'amministrazione dell'attività diretta ad accertare il responsabile è una specifica e doverosa attività che l'ordinamento impone all'amministrazione, sia a garanzia degli interessi pubblici sottesi al principio "chi inquina paga", sia a tutela dell'integrità patrimoniale del proprietario incolpevole, che abbia sostenuto, direttamente o indirettamente, l'onere economico del ripristino”.
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Anche qualora si volesse, in ipotesi, ritenere sussistente la competenza del Comune all’adozione dell’atto gravato, permarrebbe il vizio censurato di incompetenza del soggetto firmatario.
Ed infatti, in ragione del chiaro tenore letterale dell’art. 192 T.U., anche a volere riportare nell’alveo di questa norma i poteri espressi nel caso in esame, dovrebbe statuirsi la competenza del Sindaco in luogo del Dirigente comunale, con analoga statuizione di incompetenza.
Sul punto, può ricordarsi quanto statuito di recente dal Consiglio di Stato: “Il Responsabile dell'ufficio tecnico comunale è competente ad adottare nei confronti di A.N.A.S. un'ingiunzione alla rimozione dei rifiuti abbandonati. Il medesimo Responsabile è invece incompetente ad adottare un ordine di bonifica, decontaminazione e risanamento igienico del sito, trattandosi di adempimenti che vanno oltre la gestione e pulizia delle strade, e sono strettamente espressione di un rimedio sanzionatorio per la violazione del divieto dei abbandono dei rifiuti, rientrante nell'ambito di operatività dell'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006. Il comma 3 dell'art. 192 enuclea, infatti, tale competenza in capo al Sindaco”.
Analogamente, il medesimo autorevole consesso ha ricordato che “In materia di competenza ad emanare l'ordinanza di rimozione dei rifiuti, se del Sindaco o del Dirigente, si sono succedute nel tempo diverse normative: il D.Lgs. n. 22/1997, art. 14; il D.Lgs. n. 267/2000, art. 107, comma 5; il D.Lgs. n. 152/2006, art. 192, comma 3, la prima e l'ultima delle quali attribuiscono la competenza al Sindaco. Va ritenuto competente il sindaco ad emanare le ordinanze in materia, ex art. 14 D.Lgs. 05.02.1997, n. 22 (decreto Ronchi), anche successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino all'entrata in vigore del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 (Codice ambientale), che ha ribadito tale competenza”.
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... per l'annullamento, dell’ordinanza prot. n. 88/07, del 27.07.2007, del Comune di Angri, avente ad oggetto la presentazione di un progetto rimozione e trasporto di rifiuti in discarica;
...
Con ordinanza n. 88 del 27.07.2007, il Comune intimato ordinava alla società ricorrente e ai sigg. Ca.Ch. e An.Br. di provvedere alla presentazione di un progetto per la caratterizzazione, rimozione e trasporto presso una discarica autorizzata dei rifiuti collocati illecitamente in un’area ubicata in Angri, località Campia, nonché alla relativa bonifica ambientale del sito.
Il provvedimento emanato scaturiva da una serie di atti istruttori e sopralluoghi compiuti dalla locale stazione dei Carabinieri e dall’ufficio ambiente dell’ente locale, indicati nelle premesse dell’ordinanza comunale.
Nel provvedimento emanato si dava espressamente conto che gli autori del presunto illecito ambientale erano i sigg. Ca.Ch. e An.Br., mentre si indicava l’area interessata come “espropriata dalla società ANAS”.
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Il motivo è fondato.
E’ doveroso precisare che, contrariamente a quanto sostenuto nella formulata eccezione, da parte dell’ANAS, il contenuto del provvedimento impugnato non è propriamente quello indicato dalla deducente società, poiché l’atto autoritativo si limita ad ordinare non già il compimento delle operazioni su indicate, ma la mera predisposizione del piano ad esse prodromico, che dovrà prima essere esaminato ed approvato dagli organi competenti.
Trattasi di un piano volto, sostanzialmente e in estrema sintesi, alla bonifica dell’area ritenuta contaminata.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tale imprecisione non infici, nella sostanza, la censura elevata dalla società pubblica né muti il quadro normativo di riferimento, e ritiene, altresì, che la fattispecie concreta, per come allegata da parte ricorrente, sia disciplinata dalle norme di cui agli artt. 240 e ss. e si rientri, dunque, nella prima delle due ipotesi prospettate dalla ricorrente.
Va dunque richiamato l’art. 244, comma 2, D.Lgs. n. 152 del 2006, il quale prescrive che “La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo”.
In base a questa disposizione, emerge che l’ente deputato a curare la gestione delle attività di bonifica e, dunque, delle attività ad essa prodromica e strumentali sia la Provincia.
La deduzione, oltre che dal chiaro tenore letterale della norma, è supportata anche da precedenti del giudice amministrativo che ha avuto modo di statuire che il comune è incompetente all'adozione dell'ordinanza che impone un piano di caratterizzazione, in quanto “l'art. 244 del D.Lgs. n. 152/2006, al comma 2, [dispone] che "La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte a identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo" e al comma 3 che "L'ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al proprietario del sito ai sensi e per gli effetti dell'art. 253” (TAR Veneto Sez. III, 07/05/2015, n. 493; analogamente, TAR Puglia Lecce Sez. I Sent., 21/06/2013, n. 1465).
In linea generale, è stato anche osservato come rispetto alle attività ascrivibili a questa fase la competenza permanga sempre in capo alla Provincia, anche in quei casi in cui il privato si attivi spontaneamente, ribadendosi, per quel che qui interessa, la competenza di tale ente locale.
Come chiarito dal TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, 15/04/2015, n. 940: “La facoltà di intervento spontaneo da parte del proprietario nell'ambito del procedimento di bonifica non elide il dovere della Provincia di attivarsi per l'individuazione dell'autore dell'inquinamento, attraverso l'apertura del procedimento previsto dall'art. 244 del D.Lgs. n. 152 del 03.04.2006. Il compimento da parte dell'amministrazione dell'attività diretta ad accertare il responsabile è una specifica e doverosa attività che l'ordinamento impone all'amministrazione, sia a garanzia degli interessi pubblici sottesi al principio "chi inquina paga", sia a tutela dell'integrità patrimoniale del proprietario incolpevole, che abbia sostenuto, direttamente o indirettamente, l'onere economico del ripristino”.
I principi, condivisi dal Collegio, sono pienamente attinenti al caso in esame e di conseguenza conducono all’accoglimento del motivo di gravame.
Per completezza, vale la pena osservare che anche qualora si volesse, in ipotesi, ritenere sussistente la competenza del Comune all’adozione dell’atto gravato, permarrebbe il vizio censurato, in ragione di quanto dedotto dalla società ricorrente.
Ed infatti, in ragione del chiaro tenore letterale dell’art. 192 T.U., anche a volere riportare nell’alveo di questa norma i poteri espressi nel caso in esame, dovrebbe statuirsi la competenza del Sindaco in luogo del Dirigente comunale, con analoga statuizione di incompetenza.
Sul punto, può ricordarsi quanto statuito di recente dal Consiglio di Stato: “Il Responsabile dell'ufficio tecnico comunale è competente ad adottare nei confronti di A.N.A.S. un'ingiunzione alla rimozione dei rifiuti abbandonati. Il medesimo Responsabile è invece incompetente ad adottare un ordine di bonifica, decontaminazione e risanamento igienico del sito, trattandosi di adempimenti che vanno oltre la gestione e pulizia delle strade, e sono strettamente espressione di un rimedio sanzionatorio per la violazione del divieto dei abbandono dei rifiuti, rientrante nell'ambito di operatività dell'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006. Il comma 3 dell'art. 192 enuclea, infatti, tale competenza in capo al Sindaco (riforma TAR Puglia-Lecce, Sez. I n. 2975/2009)” (Cons. Stato Sez. V, 14/03/2019, n. 1684).
Analogamente, il medesimo autorevole consesso ha ricordato che “In materia di competenza ad emanare l'ordinanza di rimozione dei rifiuti, se del Sindaco o del Dirigente, si sono succedute nel tempo diverse normative: il D.Lgs. n. 22/1997, art. 14; il D.Lgs. n. 267/2000, art. 107, comma 5; il D.Lgs. n. 152/2006, art. 192, comma 3, la prima e l'ultima delle quali attribuiscono la competenza al Sindaco. Va ritenuto competente il sindaco ad emanare le ordinanze in materia, ex art. 14 D.Lgs. 05.02.1997, n. 22 (decreto Ronchi), anche successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino all'entrata in vigore del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 (Codice ambientale), che ha ribadito tale competenza” (Consiglio di Stato Sez. V, 06/09/2017, n. 4230).
In definitiva, il motivo di ricorso va accolto e va pronunciato l’annullamento del provvedimento, limitatamente alla posizione della ricorrente ANAS s.p.a.
L’accoglimento del motivo di ricorso per incompetenza determina l’assorbimento di tutte le altre censure articolate nel ricorso introduttivo del giudizio, per le ragioni compiutamente ed esaustivamente esposte nella sentenza n. 5 del 2015 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, dai cui principi questo Collegio non ha ragione di discostarsi (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.05.2019 n. 830 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il proprietario del terreno non risponde dei reati di discarica non autorizzata commessi da terzi.
Non è configurabile in forma omissiva il reato di gestione o realizzazione di discarica abusiva nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano illecitamente depositato i rifiuti, in quanto nessun obbligo di controllo può ravvisarsi a carico del proprietario, mentre gli obblighi di corretta gestione e smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi.
Infatti, in materia di rifiuti, il proprietario di un terreno non risponde, in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
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4.2. In ordine al quinto e sesto motivo di censura, parimenti da affrontare congiuntamente, la sentenza impugnata non ha affatto contestato il consolidato principio in forza del quale non è configurabile in forma omissiva il reato di gestione o realizzazione di discarica abusiva nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano illecitamente depositato i rifiuti, in quanto nessun obbligo di controllo può ravvisarsi in carico del proprietario medesimo, mentre gli obblighi di corretta gestione e smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi (Sez. 3, n. 49327 del 12/11/2013, Merlet, Rv. 257294).
Infatti, in materia di rifiuti, il proprietario di un terreno non risponde, in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 40528 del 10/06/2014, Cantoni, Rv. 260754; Sez. 3, n. 28704 del 05/04/2017, Andrisani e altro, Rv. 270340; conf. altresì Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella e altro, Rv. 266030, che ha ritenuto corretta la decisione di merito che aveva condannato il proprietario non per la sua qualità di possessore dell'area di deposito, ma per avere questi consapevolmente partecipato all'attività illecita, mettendo a disposizione il terreno per lo smaltimento abusivo di rifiuti derivanti da lavori edili da egli stesso commissionati).
In specie, ed in coerenza con quanto deciso da questa Corte, la sentenza impugnata ha invece correttamente dato atto che la responsabilità doveva ascriversi al fatto che la discarica abusiva venne realizzata dalla La.St. s.r.l proprio in quell'area nella quale la società divenuta dei Pe. si era obbligata a provvedere ai lavori di urbanizzazione, sì che era stata invece prestata fattiva adesione alla condotta dell'esecutrice dei lavori, col risultato che un'area siffatta era stata invece destinata ad ospitare materiali di demolizione provenienti anche da altri cantieri, anziché essere destinati allo smaltimento in impianti autorizzati.
Laddove, a fronte di precisi obblighi, l'area in questione doveva essere vocata ad area verde ed alle relative attrezzature, e non a discarica incontrollata (tra l'altro con un, manifesto, innalzamento sul piano stradale di addirittura tre metri).
Del tutto correttamente quindi la Corte milanese, nel salvaguardare il principio per il quale il proprietario di per sé non è responsabile della realizzazione di una discarica nel proprio terreno da parte di terzi, ha osservato che la fattispecie, e gli obblighi relativi, erano del tutto differenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.05.2019 n. 21080).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Gli artt. 242 (“il responsabile dell'inquinamento mette in opera…”), 244 (co. 4: “Se il responsabile non sia individuabile…”), 250 (“Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano…”), 192 del d.lgs. 152/2006 evidenziano che le misure di bonifica gravano sui soggetti “ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa”, per cui l’ordinanza che le impone presuppone necessariamente una valutazione autonoma dei fatti “in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo” (art. 192 cit.).
Le indagini degli organi “preposti al controllo” hanno dunque la natura di atti della fase istruttoria, sulla cui base il titolare del potere di ordinanza deve formare la sua motivata decisione individuando gli specifici fatti contestati ed esponendo l’iter logico che sostiene l’attribuzione della loro responsabilità.
La esplicita volontà di escludere ogni valutazione sulle specifiche responsabilità di per sé evidenzia la illegittimità dei provvedimenti, i quali risultano manifestamente carenti della chiara individuazione dei presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’esercizio del potere a carico dei destinatari
(massima tratta da www.lexambiente.it).
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1 – Con ordinanza del 29.01.2018 il Sindaco del Comune di San Vito Chietino, “riscontrate le responsabilità di BU.Al. e VE.Co.”, ha ordinato ai medesimi di provvedere alla “messa in sicurezza del sito”, nonché alla rimozione “dei rifiuti illecitamente giacenti sui fondi agricoli oggetto di sequestro” e ciò sulla base di nota del 24.11.2017 della Stazione Carabinieri Forestali di Lanciano, con cui si comunicava “l’attività di accertamento ambientale” esperita in data 07.11.2017 su fondi agricoli di proprietà della Sig.ra Na.El., al cui esito “venivano deferiti alla competente Procura della Repubblica di Lanciano” i Sigg.ri Ve. e Bu. “per le rispettive illecite condotte perpetrate, in funzione alle attività e responsabilità esercitate, in relazione alla presenza/gestione dei rifiuti in amianto”.
A seguito di contestazioni sollevate dai destinatari, che avevano sostenuto la illegittimità dell’atto in quanto assumeva che le loro responsabilità erano state “riscontrate”, il Sindaco ha quindi adottato provvedimento del 21.02.2018, con il quale ha integrato la precedente ordinanza includendo i sigg. Pa. e Al. tra i destinatari dell’ordine di ripristino e precisando che “il riscontro delle responsabilità non rientra nell’ambito delle competenze sindacali”.
Le due ordinanze sono state impugnate con distinti ricorsi dai sigg. Bu. e Ve. (nella loro rispettiva qualità di titolare della Ditta omonima e di Responsabile del Settore assetto del territorio dello stesso Comune di S. Vito Chietino), Pa. (dipendente del Comune) e Al. (dipendente della Ditta), che ne hanno dedotto la illegittimità per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 54 d.lgs. 267/2000 e 192 d.lgs. 152/2016, nonché eccesso di potere per travisamento, falsità dei presupposti e irragionevolezza.
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3 - Quanto al merito, i ricorsi sono manifestamente fondati.
È infatti del tutto evidente che l’ordinanza impugnata, così come successivamente rettificata, individua i suoi destinatari sulla base dell’unica circostanza che gli stessi sono “interessati dal procedimento penale”. Che non si sia inteso effettuare alcuna valutazione in ordine alle responsabilità è del resto espressamente precisato nell’atto di rettifica (“il riscontro delle responsabilità non rientra nell’ambito delle competenze sindacali”), per cui il provvedimento si è limitato a prendere atto dei nominativi deferiti all’autorità giudiziaria ingiungendo ad essi la bonifica dell’area.
Gli artt. 242 (“il responsabile dell'inquinamento mette in opera…”), 244 (co. 4: “Se il responsabile non sia individuabile…”), 250 (“Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano…”), 192 del d.lgs. 152/2006, pur richiamati dall’ordinanza n. 1, al contrario evidenziano che le misure di bonifica gravano sui soggetti “ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa”, per cui l’ordinanza che le impone presuppone necessariamente una valutazione autonoma dei fatti “in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo” (art. 192 cit.).
Le indagini degli organi “preposti al controllo” hanno dunque la natura di atti della fase istruttoria, sulla cui base il titolare del potere di ordinanza deve formare la sua motivata decisione individuando gli specifici fatti contestati ed esponendo l’iter logico che sostiene l’attribuzione della loro responsabilità.
La esplicita volontà di escludere ogni valutazione sulle specifiche responsabilità di per sé evidenzia la illegittimità dei provvedimenti, i quali risultano manifestamente carenti della chiara individuazione dei presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’esercizio del potere a carico dei destinatari.
Si trattava infatti di individuare, sulla base dei rapporti dei soggetti preposti al controllo, lo specifico comportamento illecito addebitabile a ciascun destinatario, e tale contestazione doveva essere nella fattispecie particolarmente accurata in considerazione dei diversi ruoli rivestiti dagli interessati (il titolare della ditta esecutrice, un dipendente della stessa, un dirigente e un dipendente dello stesso Comune), che imponevano la chiara indicazione della specifiche condotte imputabili a ciascuno.
L’ordinanza invece si limita alla generica evocazione di un concorso tra i destinatari “per le rispettive illecite condotte perpetrate, in funzione delle attività e responsabilità esercitate in relazione alla presenza/gestione dei rifiuti in amianto”, senza tuttavia chiarire quali fossero in concreto tali attività e responsabilità e dunque non specificando le condotte materiali od omissive che hanno concorso a causare la contaminazione ambientale.
Non risultano in particolare specificate le condotte attribuite ai dipendenti comunali, non essendo chiarito se si imputano ad essi le pregresse omissioni dell’Ente (indicate dalla citata nota dei Carabinieri: “il Comune di San Vito non ha recintato l’area oggetto di illecito abbandono ed attuato le procedure previste. E’ risultato inadempiente … agli obblighi di Legge e non ha neanche segnalato il potenziale pericolo, ovvero la presenza dei tubi in amianto, giacenti sul fondo … il Comune di San Vito Chietino nonostante il mandato conferito all’impresa Bu. … non ha avvisato/segnalato del pericolo”) oppure/anche condotte concomitanti o successive alla frantumazione del materiale inquinante (che non risultano dalla segnalazione e invece evocate nell’ordinanza n. 1, dove si assume –genericamente- che i destinatari, “successivamente all’illecito evento … non hanno attuato le procedure previste…”).
Le suddette carenze non possono essere del resto colmate da argomentazioni difensive, trattandosi di valutazioni che spettano esclusivamente al titolare del potere di ordinanza e che quindi devono essere necessariamente espresse nel provvedimento.
In accoglimento delle predette censure va pertanto disposto l’annullamento delle impugnate ordinanze, fatto salvo il rinnovato esercizio del potere  (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 05.02.2019 n. 27).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sulla corretta costituzione del fondo [almeno l’8% delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria incrementato di una quota non inferiore all’8 per cento: a) del valore delle opere di urbanizzazione realizzate direttamente dai soggetti interessati a scomputo totale o parziale del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione secondaria; b) del valore delle aree cedute per la realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria; c) di ogni altro provento destinato per legge o per atto amministrativo alla realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria] destinato alla realizzazione delle attrezzature per servizi religiosi.
L
a questione si pone soltanto quando in seguito a convenzioni, atti unilaterali d’obbligo o altri accordi comunque denominati, il soggetto attuatore di interventi edilizi/urbanistici realizza opere di urbanizzazione secondaria (a scomputo), ovvero ceda aree standards (per realizzare opere di urbanizzazione secondarie) in luogo della loro monetizzazione, ed il comune non abbia ulteriori introiti derivante da oneri di urbanizzazione secondaria ovvero da monetizzazione di aree perché la dotazione del fondo previsto dalla legge regionale 12/2005 possa raggiungere almeno l’8 per cento del valore complessivo degli oneri di urbanizzazione secondaria e delle cessioni delle aree standars, secondo i parametri di quantificazione dettati dalla legge regionale (art. 73).
Ebbene, nel suddetto caso il fondo stesso può (anzi deve) essere incrementato con risorse che il comune avrebbe potuto utilizzare per realizzare le suddette opere (con l'esclusione di mutui, dell'avanzo vincolato per legge ed altre risorse comunque vincolate per determinate spese).
L'incremento del fondo, nel bilancio, dovrà avvenire quando le opere realizzate dal privato saranno consegnate al comune, ovvero nel caso di inadempimento del privato, quando saranno incassati gli introiti della fideiussione che garantisce le obbligazioni della convenzione o dell'atto unilaterale d'obbligo.
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Il Sindaco del comune di Lallio (BG) ha formulato una richiesta di parere in ordine alla possibilità di iscrivere nel bilancio di previsione delle quote relative all’8% degli oneri di urbanizzazione secondaria da destinare in apposito fondo per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi anche se gli stessi non siano stati definitivamente incassati ed accertati.
La richiesta è presentata con riferimento ad una particolare fattispecie, ovvero a quella in cui la realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria o di standards qualitativi siano realizzati in virtù di accordi (o atti unilaterali d’obbligo) con l’amministrazione da parte del soggetto attuatore di un intervento edilizio, ai sensi della legge regionale 12/2005 e successive modificazioni ed integrazioni, e non siano stati versati gli oneri di urbanizzazione secondaria in quanto scomputati a causa dell’intervento da realizzare.
Ovviamente la sezione di controllo non si esprime in ordine alla legittimità o meno degli strumenti di attuazione del PGT così come declinati in concreto dall’amministrazione comunale nella rappresentazione del caso in esame, ma si sofferma soltanto sugli aspetti che riguardano la correttezza contabile delle operazioni che il comune deve compiere per stanziare nel fondo l’8% del valore delle opere di urbanizzazione secondaria non versate dal privato, perché il soggetto attuatore ha realizzato interventi a scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria dovuti.
L’art. 73 della legge regionale 12/2005, infatti, stabilisce non solo che l’8% degli introiti dovuti per opere di urbanizzazioni secondarie devono essere destinate al fondo per le attrezzature di interesse comune per i servizi religiosi ma sancisce anche che il fondo di cui sopra, deve essere incrementato di una quota non inferire al 8% del valore delle opere di urbanizzazione realizzate direttamente dal privato a scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria e del valore delle aree cedute per la realizzazione delle suddette opere e di ogni altro provento destinato per legge o atto amministrativo alla realizzazione di opere di urbanizzazione secondarie.
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Ritenuto che la richiesta sia soggettivamente ammissibile in quanto proveniente dal rappresentante legale dell’ente ed oggettivamente ammissibile in quanto interessa una materia compresa nel perimetro della contabilità pubblica trattandosi di norma che impone all’amministrazione l’incremento di un fondo da iscrivere in bilancio e che riguarda il modo il come ed il quando, l’amministrazione debba finanziare l’incremento stesso, qualora il soggetto privato realizzi opere a scomputo di oneri urbanizzazione secondaria ai sensi dell’art. 73 della legge regionale 12/2005 ovvero debba finanziare l’8% del valore delle aree cedute (e quindi non monetizzate) per la realizzazione di standards relativi ad opere di urbanizzazione secondaria.
Per comodità espositiva si riporta, per quel che interessa, l’art. 73 della L.R. suddetta: “1. In ciascun comune, almeno l'8 per cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria è ogni anno accantonato in apposito fondo, risultante in modo specifico nel bilancio di previsione, destinato alla realizzazione delle attrezzature indicate all’articolo 71, nonché per interventi manutentivi, di restauro e ristrutturazione edilizia, ampliamento e dotazione di impianti, ovvero all'acquisto delle aree necessarie. Tale fondo è determinato con riguardo a tutti i permessi di costruire rilasciati e alle denunce di inizio attività presentate nell’anno precedente in relazione a interventi a titolo oneroso ed è incrementato di una quota non inferiore all’8 per cento:
   a) del valore delle opere di urbanizzazione realizzate direttamente dai soggetti interessati a scomputo totale o parziale del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione secondaria;
   b) del valore delle aree cedute per la realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria;
   c) di ogni altro provento destinato per legge o per atto amministrativo alla realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria
”.
Esame nel merito
Il quesito assume significato, ovviamente, solo nei limiti e per i motivi appena indicati, ovvero qualora non sia avvenuto nessun versamento (ovvero un versamento parziale) di denaro nelle casse del comune, e si è in presenza di obbligazioni convenzionali dirette alla realizzazione di opere da parte del soggetto attuatore a scomputo di oneri (di urbanizzazione secondaria, ovvero alla cessione di aree a standards (non monetizzate) per la realizzazione di opere di urbanizzazione secondarie.
In breve, la questione si pone soltanto quando in seguito a convenzioni, atti unilaterali d’obbligo o altri accordi comunque denominati, il soggetto attuatore di interventi edilizi/urbanistici realizza opere di urbanizzazione secondaria (a scomputo), ovvero ceda aree standards (per realizzare opere di urbanizzazione secondarie) in luogo della loro monetizzazione, ed il comune non abbia ulteriori introiti derivante da oneri di urbanizzazione secondaria ovvero da monetizzazione di aree perché la dotazione del fondo previsto dalla legge regionale 12/2005 possa raggiungere almeno l’8 per cento del valore complessivo degli oneri di urbanizzazione secondarie e delle cessioni delle aree standars, secondo i parametri di quantificazione dettati dalla legge regionale (art. 73).
Nel caso l’ente versi nella situazione appena rappresentata, il fondo stesso può (anzi deve) essere incrementato con risorse che il comune avrebbe potuto utilizzare per realizzare le suddette opere (con l’esclusione di mutui, dell’avanzo vincolato per legge ed altre risorse comunque vincolate per determinate spese).
L’incremento del fondo, nel bilancio, dovrà avvenire quando le opere realizzate dal privato saranno consegnate al comune, ovvero nel caso di inadempimento del privato, quando saranno incassati gli introiti della fideiussione che garantisce le obbligazioni della convenzione o dell’atto unilaterale d’obbligo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 26.09.2016 n. 256).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla illegittimità che il permesso di costruire convenzionato, ex art. 28-bis DPR 380/2001, preveda la corresponsione di un ulteriore contributo a titolo di “corredo minimo delle prestazioni economiche per servizi”.
Un onere posto a carico del privato diverso ed ulteriore (ed in aggiunta) rispetto sia al contributo di costruzione che agli oneri di urbanizzazione non trova riscontro nel dato normativo relativo al "permesso di costruire convenzionato", atteso che l’art. 28-bis del T.U in materia edilizia non prevede espressamente la possibilità per l’Amministrazione di richiedere un diverso ed ulteriore (rispetto agli oneri di urbanizzazione) contributo per opere di urbanizzazione, ma unicamente che ove “le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata, è possibile il rilascio di un permesso di costruire convenzionato”.
Peraltro, se pure è ammissibile che in sede di convezione la parte privata possa assumere impegni economici più onerosi di quelli teoricamente stabiliti dalla relativa disciplina normativa, in quanto rientranti nella libera disponibilità delle parti, nel caso in esame il censurato contributo risulta unilateralmente fissato in via preventiva in sede di pianificazione, con la conseguenza che la successiva (vincolata) trasfusione nell’accordo tra la parte pubblica e privata appare concretizzare una prestazione imposta che non trova base normativa.

Sotto distinto profilo, va rilevato che parimenti illegittima sarebbe la previsione censurata ove la stessa fosse da intendersi come previsione di contributo sovrapponibile all’ordinario contributo per oneri di urbanizzazione –ipotesi peraltro esclusa dall’Amministrazione comunale resistente-, in quanto ciò determinerebbe una ingiustificata duplicazione del corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del costruttore connesso al rilascio del titolo edilizio, quale partecipazione del titolare ai costi delle opere di urbanizzazione in relazione ai benefici ottenuti dalla nuova costruzione.
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Con il presente gravame, originariamente proposto quale ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e, successivamente, trasposto in sede giurisdizionale a seguito di opposizione del Comune di Scanzorosciate, la società La.S. e l’avv. Le.Ge. hanno impugnato la variante al PGT n. 61 del 27.09.2017, assunta dal suddetto Comune, limitatamente alla parte in cui è stato modificato il PdS con l’estensione del pagamento di una somma a titolo di “corredo minimo delle prestazioni economiche per servizi” in aggiunta al costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione.
I ricorrenti, in particolare, premesso di essere proprietari di terreni ricadenti in zona denominata “R7.1”, individuata come “Area residenziale di completamento soggetta a permesso di costruire convenzionato” sottoposta, a seguito dell’impugnata variante, al suddetto “corredo minimo”, hanno dedotto le seguenti censure:
   1) Violazione del principio di legalità per difetto di potere, in quanto la previsione del corredo minimo della prestazioni economiche per servizi –diverso dal costo di costruzione e dagli oneri di urbanizzazione– non avrebbe copertura legislativa, con conseguente contrasto con l’art. 23 Cost., tenuto che conto che l’art. 16 del d.P.R. 380/2001 e l’art. 43 della L.R. n. 12/2005 prevedono esclusivamente la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione, senza attribuire al Comune il potere di stabilire nuovi ed ulteriori contributi;
   2) in via subordinata, illegittimità dell’ammontare del contributo minimo in conseguenza della illegittima determinazione della dotazione di servizi da realizzare in funzione dell’utenza, avendo il Comune deciso il dimensionamento dei servizi in base ad un rapporto ben superiore a quello previsto dall’art. 9 della L.R. n. 12/2005, dimensionamento illogico ed irrazionale;
   3) in via subordinata, insussistenza dei presupposti per la previsione del contributo in quanto non vi era necessità di urbanizzazione dell’area e difetto di motivazione in ordine alla scelta operata dal Comune;
   4) in via subordinata, violazione del principio di correttezza e buona fede per mancato rispetto, senza alcuna motivazione, delle intese raggiunte con i proprietari dell’area in questione in occasione dell’approvazione del vigente PGT in base alle quali l’area stessa era stata resa edificabile senza imposizione del contributo minimo.
Si è costituito in giudizio il Comune di Scanzorosciate, il quale ha contestato le censure avversarie e chiesto il rigetto del ricorso.
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Si può prescindere dall’eccezione, sollevata dalla parte ricorrente, di tardività del deposito della memoria difensiva avversaria, stante la fondatezza del ricorso in relazione alla censura di cui al primo motivo, formulato in via principale.
Parte ricorrente sostiene che il contributo per “corredo minimo” sia aggiuntivo e diverso rispetto al contributo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione, con conseguente illegittimità per violazione delle disposizioni invocate, non potendo l’Amministrazione comunale imporre di corrispondere somme aggiuntive in mancanza di copertura legislativa.
Sotto un primo profilo, si rileva che il Comune resistente non afferma, invero, che tale contributo coincida con il costo di costruzione ovvero con gli oneri di urbanizzazione, dovendosi dunque ritenere che il medesimo costituisca effettivamente un onere posto a carico del privato diverso ed ulteriore (ed in aggiunta) rispetto sia al contributo di costruzione che agli oneri di urbanizzazione.
L’Amministrazione comunale sostiene che la normativa invocata dai ricorrenti riguarderebbe unicamente il permesso di costruire ordinario e non quello convenzionato, cui sarebbe, dunque, da ricollegare l’imposizione del corredo minimo.
Tale tesi, però, non persuade in quanto non trova riscontro nel dato normativo relativo al permesso convenzionato, atteso che l’art. 28-bis del T.U in materia edilizia non prevede espressamente la possibilità per l’Amministrazione di richiedere un diverso ed ulteriore (rispetto agli oneri di urbanizzazione) contributo per opere di urbanizzazione, ma unicamente che ove “le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata, è possibile il rilascio di un permesso di costruire convenzionato”.
Peraltro, se pure è ammissibile che in sede di convezione la parte privata possa assumere impegni economici più onerosi di quelli teoricamente stabiliti dalla relativa disciplina normativa, in quanto rientranti nella libera disponibilità delle parti, nel caso in esame il censurato contributo risulta unilateralmente fissato in via preventiva in sede di pianificazione, con la conseguenza che la successiva (vincolata) trasfusione nell’accordo tra la parte pubblica e privata appare concretizzare una prestazione imposta che non trova base normativa.
La doglianza di parte ricorrente risulta, dunque, fondata.
Sotto distinto profilo, va rilevato che parimenti illegittima sarebbe la previsione censurata ove la stessa fosse da intendersi come previsione di contributo sovrapponibile all’ordinario contributo per oneri di urbanizzazione –ipotesi peraltro esclusa dall’Amministrazione comunale resistente-, in quanto ciò determinerebbe una ingiustificata duplicazione del corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del costruttore connesso al rilascio del titolo edilizio, quale partecipazione del titolare ai costi delle opere di urbanizzazione in relazione ai benefici ottenuti dalla nuova costruzione.
In ogni caso, la censurata previsione del “corredo minimo delle prestazioni economiche per servizi” risulta illegittima e deve, pertanto, essere annullata (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 09.09.2019 n. 798 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATALa definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente del «governo del territorio», vincolando la legislazione regionale di dettaglio.
Cosicché, pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve essere coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia. 
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Non è ragionevole ritenere che il legislatore statale abbia reso cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei principi fondamentali della materia, di determinare quali trasformazioni del territorio siano così significative da soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo.
Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella «possibilità di estendere i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6».

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Le regioni possono sì estendere la disciplina statale dell’edilizia libera ad interventi “ulteriori” rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non anche differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a cil e cila.
L’omogeneità funzionale della comunicazione preventiva (asseverata o meno) rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla norma che la prescrive ‒al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi‒ la natura di principio fondamentale della materia del «governo del territorio», in quanto ispirata alla tutela di interessi unitari dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni regionali.
Sicché, è precluso al legislatore regionale di discostarsi dalla disciplina statale e di rendere talune categorie di opere totalmente libere da ogni forma di controllo, neppure indiretto mediante denuncia.

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Secondo la giurisprudenza costituzionale, la definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente del «governo del territorio», vincolando la legislazione regionale di dettaglio (sentenza n. 303 del 2003; in seguito, sentenze n. 259 del 2014, n. 171 del 2012; n. 309 del 2011).
Cosicché, pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve essere coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia. 
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2.2.– Con riguardo al profilo di impugnazione concernente le opere di arredo, va precisato che l’art. 6, comma 3, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 riconduce nella nozione di manutenzione ordinaria ‒e, quindi, al regime giuridico della edilizia libera, ai sensi dell’art. 21, comma 1, lettera a) della legge reg. n. 16 del 2008‒ l’installazione di «elementi di arredo urbano e privato pertinenziali non comportanti creazione di volumetria» (art. 6, comma 2, lettera i, della legge reg. n. 16 del 2008 come novellato).
Nel contempo, l’art. 6, commi 8, secondo trattino, e 11, terzo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 ha incluso nel novero delle attività edilizie “libere” l’«installazione di opere di arredo pubblico e privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di nuove volumetrie, anche interrate» (art. 21, comma 1, lettera i-bis, della legge reg. n. 16 del 2008 come novellato). Le due tipologie di intervento non sembrano presentare significative differenze: né l’utilizzo del termine «elementi» in luogo di «opere», né l’aggiunta dell’esclusione delle volumetrie «anche interrate», appaiono in grado di segnare una apprezzabile diversità dei rispettivi connotati edilizi.
Poiché il Governo lamenta l’illegittima inclusione delle opere in questione tra gli interventi edilizi eseguibili liberamente, senza necessità di titolo abilitativo, occorre verificare se il legislatore regionale, nel precisare l’ambito riservato all’attività edilizia libera, si sia mantenuto nei limiti di quanto gli è consentito.
L’art. 6, comma 6, del TUE prevede che le regioni a statuto ordinario possano estendere tale disciplina a «interventi edilizi ulteriori» (lett. a), nonché disciplinare «le modalità di effettuazione dei controlli» (lett. b). Nel definire i limiti del potere così assegnato alle regioni, questa Corte ha escluso «che la disposizione appena citata permetta al legislatore regionale di sovvertire le “definizioni” di “nuova costruzione” recate dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001» (sentenza n. 171 del 2012).
L’attività demandata alla Regione si inserisce pur sempre nell’ambito derogatorio definito dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, attraverso la enucleazione di interventi tipici da sottrarre a permesso di costruire e SCIA (segnalazione certificata di inizio attività).
«Non è perciò ragionevole ritenere che il legislatore statale abbia reso cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei principi fondamentali della materia, di determinare quali trasformazioni del territorio siano così significative da soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo» (sentenza n. 139 del 2013).
Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella «possibilità di estendere i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6» (così ancora la sentenza n. 139 del 2013).
Su queste basi, si deve ritenere che il legislatore regionale ligure, nell’includere nel novero delle attività edilizie “libere” l’installazione di opere di arredo privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di nuove volumetrie, non abbia esteso i casi di attività edilizia libera a un’ipotesi integralmente nuova, non coerente e logicamente assimilabile agli interventi già previsti ai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE.
Come si può desumere anche dalla diversa disciplina riservata dallo stesso legislatore regionale alle «opere di sistemazione e di arredo» di natura pertinenziale (art. 17 della legge reg. n. 16 del 2008) assoggettate a DIA “obbligatoria” (ai sensi dell’art. 23 della stessa legge), la tipologia di arredo incluso tra gli interventi non subordinati a titoli abilitativi corrisponde a manufatti che, per le loro caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, sono destinati a soddisfare esigenze contingenti e circoscritte nel tempo, e non sono pertanto idonei a configurare un aumento del volume e della superficie coperta, né ad alterare il prospetto o la sagoma dell’edificio.
Si tratta dunque di opere assimilabili a quelle previste all’art. 6, comma 6, del TUE, che alla lettera e) considera gli «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici». La legge regionale appare anzi più restrittiva, perché precisa (a differenza della legge statale) che tali opere non possono comportare la creazione di volumetria. Sussiste, tuttavia, un profilo rispetto al quale il legislatore regionale ha ecceduto dalla sfera della competenza concorrente assegnata dall’art. 117, terzo comma, Cost.
Mentre il citato art. 6, comma 2, lettera e), del TUE, subordina gli «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici» alla previa comunicazione dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato al comune, la previsione regionale impugnata accomuna la disciplina dell’arredo su area pertinenziale e di quello sugli spazi “scoperti” dell’edificio, ma non impone per il primo lo stesso onere formale.
Le regioni possono sì estendere la disciplina statale dell’edilizia libera ad interventi “ulteriori” rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non anche differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a cil e cila.
L’omogeneità funzionale della comunicazione preventiva (asseverata o meno) rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla norma che la prescrive ‒al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi‒ la natura di principio fondamentale della materia del «governo del territorio», in quanto ispirata alla tutela di interessi unitari dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni regionali.
Essendo precluso al legislatore regionale di discostarsi dalla disciplina statale e di rendere talune categorie di opere totalmente libere da ogni forma di controllo, neppure indiretto mediante denuncia, l’art. 6 della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente ai commi 3, 8, secondo trattino, e 11, terzo trattino
(Corte Costituzionale, sentenza 03.11.2016 n. 231).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio..
Conseguentemente, «Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile. Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
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3.‒ Il Governo ritiene ancora che le modifiche apportate dal sesto comma dell’art. 6 della legge impugnata all’art. 18, comma l, della legge regionale n. 16 del 2008, recante la disciplina delle distanze da osservare negli interventi sul patrimonio edilizio esistente e di nuova costruzione, contrastino con l’art. 2-bis del TUE, in quanto la disciplina introdotta dalla Regione Liguria sarebbe destinata, non a soddisfare esigenze di carattere urbanistico, bensì a consentire interventi edilizi puntuali, in deroga alla normativa statale in materia di distanze, e invaderebbe così la sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento civile» (di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.).
La questione è fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte sul riparto di competenze in tema di distanze legali, «la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 134 del 2014 e n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011).
Si è affermato di conseguenza che: «Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013)» (sentenza n. 134 del 2014).
Queste conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce dell’introduzione −ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98− dell’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
La disposizione recepisce la giurisprudenza di questa Corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità di deroghe solo a condizione che esse siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; da ultimo sentenze 185 e 178 del 2016)
(Corte Costituzionale, sentenza 03.11.2016 n. 231).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 10, comma l, lettera c), del TUE, subordina a permesso di costruire la realizzazione delle opere di ristrutturazione edilizia sugli immobili compresi nelle zone omogenee A, che comportino mutamenti della destinazione d’uso.
Per la stessa tipologia di opere, l’art. 22, comma 3, del TUE consente all’interessato, per ragioni di carattere acceleratorio, di optare per la presentazione della DIA (cosiddetta “super DIA”).
Tale facoltà esaurisce i propri effetti sul piano esclusivamente procedimentale, mentre sul piano sostanziale dei presupposti, nonché su quello penale e contributivo, resta ferma l’applicazione della disciplina dettata per il permesso di costruire.
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5.‒ È fondata anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 15, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, nella parte in cui assoggetta obbligatoriamente a DIA gli «interventi [di ristrutturazione edilizia] comportanti mutamenti della destinazione d’uso aventi ad oggetto immobili compresi nelle zone omogenee A o nelle zone o ambiti ad esse assimilabili e non rientranti nei casi di cui al ridetto articolo 21-bis, comma 1, lettera f)», per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento all’art. 10, comma l, lettera c), del TUE.
L’art. 10, comma l, lettera c), del TUE, subordina a permesso di costruire la realizzazione delle opere di ristrutturazione edilizia sugli immobili compresi nelle zone omogenee A, che comportino mutamenti della destinazione d’uso. Per la stessa tipologia di opere, l’art. 22, comma 3, del TUE consente all’interessato, per ragioni di carattere acceleratorio, di optare per la presentazione della DIA (cosiddetta “super DIA”). Tale facoltà esaurisce i propri effetti sul piano esclusivamente procedimentale, mentre sul piano sostanziale dei presupposti, nonché su quello penale e contributivo, resta ferma l’applicazione della disciplina dettata per il permesso di costruire
(Corte Costituzionale, sentenza 03.11.2016 n. 231).

EDILIZIA PRIVATA: L’onerosità del titolo edilizio abilitativo «riguarda un principio della disciplina un tempo urbanistica e oggi ricompresa fra le funzioni legislative concorrenti sotto la rubrica “governo del territorio”», e anche le deroghe al principio (elencate all’art. 17 del TUE), in quanto legate a quest’ultimo da un rapporto di coessenzialità, partecipano della stessa natura di principio fondamentale.
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6.1.‒ La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 20 e 21, primo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 , è fondata.
Con tali disposizioni il legislatore regionale esonera dal contributo di costruzione due categorie di intervento che secondo la legge statale devono invece restare soggette a contribuzione, nei termini fissati dal TUE: gli interventi sul patrimonio edilizio esistente che determinano un aumento della superficie agibile dell’edificio o delle singole unità immobiliari, quando l’incremento della superficie agibile all’interno delle unità immobiliari sia inferiore a 25 metri quadrati, e quando le variazioni di superficie derivino da mera eliminazione di muri divisori; gli interventi di frazionamento di unità immobiliari che determinino un numero di unità immobiliari inferiore al doppio di quelle esistenti, sia pure con aumento di superficie agibile.
A seconda delle loro concrete caratteristiche costruttive, questi interventi (qualificati genericamente dal legislatore regionale come «interventi sul patrimonio edilizio esistente») possono rientrare nella nozione di «manutenzione straordinaria», come definita agli artt. 3, comma 1, lettera b) e 6, comma 2, lettera a) del TUE, o in quella di «ristrutturazione edilizia», come definita dall’art. 3, comma 1, lettera d) del TUE.
La disciplina statale prevede per la prima (ove ricorrano i presupposti dell’art. 17, comma 4, del TUE) una riduzione del contributo alla sola parte corrispondente alla incidenza delle opere di urbanizzazione, e per la seconda la regola del pagamento del contributo per intero, salvi casi particolari di esonero, come quello della ristrutturazione di edifici unifamiliari (art. 17, comma 3, lettera b, del TUE), o di riduzione, come quello della ristrutturazione di immobili dismessi o in via di dismissione (art. 17, comma 4-bis, del TUE).
Le fattispecie di esonero introdotte dalle norme regionali impugnate vanno al di là di queste ipotesi e contrastano, dunque, con i principi fondamentali della materia.
L’onerosità del titolo abilitativo «riguarda infatti un principio della disciplina un tempo urbanistica e oggi ricompresa fra le funzioni legislative concorrenti sotto la rubrica “governo del territorio”» (sentenza n. 303 del 2003), e anche le deroghe al principio (elencate all’art. 17 del TUE), in quanto legate a quest’ultimo da un rapporto di coessenzialità, partecipano della stessa natura di principio fondamentale (sentenze n. 1033 del 1988 e n. 13 del 1980)
(Corte Costituzionale, sentenza 03.11.2016 n. 231).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 04.09.2019, "Ordine del giorno concernente i contributi per la rimozione di coperture e di altri manufatti in cemento-amianto" (deliberazione C.R. 26.07.2019 n. 589).

VARI: G.U. 28.08.2019 n. 201 "Regolamento di organizzazione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, dell’Organismo indipendente di valutazione della performance e degli Uffici di diretta collaborazione" (D.P.C.M. 19.06.2019 n. 97).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 35 del 28.08.2019, "Registro delle Unioni di comuni lombarde. 2° aggiornamento 2019 (in attuazione della d.g.r. 27.03.2015, n. 3304)" (decreto D.S. 22.08.2019 n. 12188).

PATRIMONIO: G.U. 12.08.2019 n. 188 "Testo del decreto-legge 28.06.2019, n. 59, coordinato con la legge di conversione 08.08.2019, n. 81, recante: «Misure urgenti in materia di personale delle fondazioni lirico sinfoniche, di sostegno del settore del cinema e audiovisivo e finanziamento delle attività del Ministero per i beni e le attività culturali, di credito d’imposta per investimenti pubblicitari nei settori editoriale, televisivo e radiofonico, di normativa antincendio negli edifici scolastici e per lo svolgimento della manifestazione UEFA Euro 2020, nonché misure a favore degli istituti superiori musicali e delle accademie di belle arti non statali».
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Di particolare interesse si legga:
  
Art. 4-bis - Modifiche all’articolo 4 del decreto-legge 30.12.2016, n. 244, e piano straordinario per l’adeguamento alla normativa antincendio degli edifici pubblici adibiti ad uso scolastico

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: G. Nicolucci, La tutela paesaggistica degli assetti fondiari collettivi: Naturschutz vs. Landschaftspflege (04.09.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Gli usi civici, beni paesaggistici. — 2. Quali usi civici? — 3. Il paradosso normativo. — 4. La tutela che non c’è: Naturschutz vs. Landschaftspflege. — 5. L’ossimoro della sovraordinata pianificazione paesaggistica nelle aree protette. — 6. Considerazioni di sintesi.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Bonomo, ACCESSO GENERALIZZATO E RICHIESTE MASSIVE: IL TAR IMPONE IL DIALOGO COOPERATIVO - TAR Campania, Sez. VI, sentenza 09.05.2019 n. 2486 (settembre 2019 - tratto da www.ambientediritto.it).
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Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Istanze massive ed eccessivamente onerose – Dialogo cooperativo -– Intralcio al buon funzionamento dell’amministrazione – Accoglimento.
È illegittimo il provvedimento di diniego di accesso generalizzato sulla base di un generico riferimento alla mole cospicua di documenti. L’intralcio al buon andamento della pubblica amministrazione va adeguatamente dimostrato e comunque deve seguire una fase di dialogo endoprocedimentale tesa a permettere la specificazione dei documenti richiesti da parte dell’istante.
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SOMMARIO - Premessa – 1. La vicenda. – 2. I limiti dell’accesso generalizzato: tra genericità del dato normativo e misure di soft law. – 3. Le istanze massive e la giurisprudenza amministrativa. – 4. La decisione del Tar Campania e il dialogo cooperativo.

APPALTI SERVIZI - ENTI LOCALI: M. Lucca, Il servizio pubblico di trasporto scolastico (e la copertura della spesa) (02.07.2019 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: M. Terrei, I VERBALI DI GARA NELL’ERA DELLE PIATTAFORME ELETTRONICHE DI NEGOZIAZIONE (giugno 2019 - tratto da www.ambientediritto.it).
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Sommario: 1. Introduzione. - 2. Il verbale. Breve descrizione di carattere generale. – 2.1. sulla forma del verbale - 3. Il soggetto verbalizzante. - 4. I contenuti e le formalità delle verbalizzazioni. - 5. La redazione del verbale. - 6. Il verbale nella normativa Appalti. - 7. La funzione assegnata dalla norma alle Piattaforme Elettroniche di Negoziazione. - 7.1. Le norme tecniche dei sistemi telematici nella Direttiva e nel Codice. – 7.2. Circolare n. 3 del 06.12.2016 dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AGID). – 7.2.1. Circolare n. 3/2016 AGID – Appendice. – 7.2.2. I sistemi telematici di acquisto e le norme tecniche. Una riflessione sul verbale - 8. Le procedure di esame e valutazione delle offerte con l’avvento delle Piattaforme Elettroniche di Negoziazione. – 8.1. L’avvio della seduta di gara. – 8.2. l’accesso alla Piattaforma e l’avvio della seduta di gara. – 8.3. La pubblicità delle sedute di gara. - 8.4. l’analisi della documentazione amministrativa. - 8.5. l’analisi dell’offerta tecnica. - 8.6. l’analisi dell’offerta economica. - 9. Le procedure di valutazione dell’anomalia. – 10. I verbali di gara nel MePA (Mercato elettronico della Pubblica Amministrazione). - 11. Conclusioni.

A.N.AC.

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALISulla contemporanea titolarità delle funzioni di Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT) e di componente ovvero di titolare dell’ufficio procedimenti disciplinari (UPD) di una pubblica amministrazione - Fascicolo UVMAC/3992/2018 (delibera 23.07.2019 n. 700 - link a www.anticorruzione.it).
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Conclusioni
Una situazione di totale incompatibilità tra le due funzioni è pertanto da escludersi, nei casi in cui l’UPD sia un organo collegiale (come in molti Comuni, nei quali il Segretario Generale, di norma svolgente il ruolo di RPCT, è componente dell’UPD).
Più delicata la situazione laddove l’UPD sia un organo monocratico, poiché in questi casi l’RPCT segnala i dipendenti che non hanno attuato le misure di prevenzione della corruzione previste dal PTPCT. Qui la pur insussistente incompatibilità potrebbe presentarsi nella specie di conflitto di interessi tra il soggetto segnalante (RPCT) e il soggetto che valuta le infrazioni disciplinari (UPD).
Anche se esclusa la piena incompatibilità resta, ad avviso di questa Autorità, altamente opportuno che le amministrazioni e gli enti di diritto privato che dovranno nominare il proprio RPCT evitino di attribuire ad esso anche le funzioni di componente dell’UPD.
Resta fermo l’orientamento dell’Autorità n. 111 del 04.11.2014, secondo il quale una situazione di conflitto di interessi sussiste nel caso in cui oggetto del procedimento disciplinare sia un’infrazione commessa dallo stesso RPCT.
Tutto ciò premesso e considerato,
DELIBERA
   • in via generale, di ritenere non sussistente, specie nel caso in cui l’Ufficio Procedimenti Disciplinari dell’Amministrazione sia costituito come Organo Collegiale, una situazione di incompatibilità tra la funzione di RPCT e l’incarico di componente dell’ufficio dei procedimenti disciplinari, salvo i casi in cui oggetto dell’azione disciplinare sia un’infrazione commessa dallo stesso RPCT;
   • di raccomandare, come altamente auspicabile, alle pubbliche amministrazioni e agli enti interessati, laddove possibile, di distinguere le due figure, soprattutto nelle amministrazioni e negli enti di maggiori dimensioni e nel caso in cui l’UPD sia organo monocratico;

   • di pubblicare la presente delibera sul sito istituzionale dell’ANAC e di darne comunicazione al RPCT e al Sindaco del comune di [omissis].
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MASSIMA
In via generale non sussiste una situazione di incompatibilità in capo al RPCT titolare o componente dell’ufficio dei procedimenti disciplinari, salvo i casi in cui oggetto dell’azione disciplinare sia un’infrazione commessa dallo stesso RPCT.
Tuttavia è altamente auspicabile, negli Enti che ne hanno la possibilità, tenere distinte le due figure, soprattutto nelle amministrazioni di maggiori dimensioni e nel caso in cui l’UPD sia organo monocratico.

APPALTI FORNITURE E SERVIZIOggetto: Pubblicazione del testo integrale dei contratti di acquisto di beni e servizi di importo unitario superiore a 1 milione di euro in esecuzione del Programma biennale, e dei suoi aggiornamenti, dopo l’abrogazione dell’art. 1, comma 505, della legge di stabilità 2016, operata dall’art. 217 del Codice dei contratti pubblici (comunicato del Presidente 23.07.2019 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTIOggetto: sospensione dell’operatività dell’Albo dei commissari di gara di cui all’articolo 78 del Decreto Legislativo 19.04.2016, n. 50 (comunicato del Presidente 15.07.2019 - link a www.anticorruzione.it).
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Albo nazionale dei componenti delle commissioni giudicatrici. Sospesa l'operatività dell'Albo dei commissari di gara fino al 31.12.2020.
Con il Comunicato del Presidente del 15.07.2019, è sospesa l’operatività dell’Albo dei commissari di gara. Si informano, pertanto, i soggetti interessati, che non è più possibile procedere all’iscrizione al suddetto Albo e che l’Autorità, con successivo comunicato, renderà noti gli adempimenti in relazione alla tariffa di iscrizione versata.

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Aggiornamento «Linee Guida n. 4, di attuazione del Decreto Legislativo 18.04.2016, n. 50, recanti “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici”» (delibera 10.07.2019 n. 636 - link a www.anticorruzione.it).
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Nelle more dell’adozione del nuovo regolamento governativo di attuazione del codice dei contratti pubblici, l’ANAC è autorizzata a modificare le proprie Linee guida n. 4, ai soli fini dell’archiviazione della procedura di infrazione n. 2018/2273.
Aggiornati i punti 1.5, 2.2, 2.3 e 5.2.6, lett. j), delle Linee guida.
Di particolare interesse i punti 2.3. e 2.3. che recitano:
   2.2 Per le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire, nel calcolo del valore stimato devono essere cumulativamente considerati tutti i lavori di urbanizzazione primaria e secondaria anche se appartenenti a diversi lotti, connessi ai lavori oggetto di permesso di costruire, permesso di costruire convenzionato (articolo 28-bis d.P.R. 06.06.2001 n. 380) o convenzione di lottizzazione (articolo 28 l. 17.08.1942 n. 1150) o altri strumenti urbanistici attuativi. Quanto disposto dall’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e 36, comma 4, Codice dei contratti pubblici si applica unicamente quando il valore di tutte le opere di urbanizzazione, calcolato ai sensi dell’articolo 35, comma 9, Codice dei contratti pubblici, non raggiunge le soglie di rilevanza comunitaria. Per l’effetto: se il valore complessivo delle opere di urbanizzazione a scomputo –qualunque esse siano– non raggiunge la soglia comunitaria, calcolata ai sensi dell’articolo 35, comma 9, Codice dei contratti pubblici, il privato potrà avvalersi della deroga di cui all’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, esclusivamente per le opere funzionali; al contrario, qualora il valore complessivo di tutte le opere superi la soglia comunitaria, il privato sarà tenuto al rispetto delle regole di cui al Codice di contratti pubblici sia per le opere funzionali che per quelle non funzionali. Per opere funzionali si intendono le opere di urbanizzazione primaria (ad es. fogne, strade, e tutti gli ulteriori interventi elencati in via esemplificativa dall’articolo 16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) la cui realizzazione è diretta in via esclusiva al servizio della lottizzazione ovvero della realizzazione dell’opera edilizia di cui al titolo abilitativo a costruire e, comunque, quelle assegnate alla realizzazione a carico del destinatario del titolo abilitativo a costruire.
  
2.3 Si applica l’articolo 35, comma 11, del codice dei contratti pubblici.

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOIntegrazioni e modifiche della delibera 08.03.2017, n. 241 per l’applicazione dell’art. 14, co. 1-bis e 1-ter, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 20 del 23.01.2019 (delibera 26.06.2019 n. 586 - link a www.anticorruzione.it).
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La delibera prevede Integrazioni e modifiche della delibera 08.03.2017, n. 241 per l’applicazione dell’art. 14, co. 1-bis e 1-ter, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 20 del 23.01.2019 sugli obblighi concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali.

APPALTILinee Guida n. 11 recanti «Indicazioni per la verifica del rispetto del limite di cui all’articolo 177, comma 1, del codice, da parte dei soggetti pubblici o privati titolari di concessioni di lavori, servizi pubblici o forniture già in essere alla data di entrata in vigore del codice non affidate con la formula della finanza di progetto ovvero con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione europea» (delibera 26.06.2019 n. 570 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTILinee Guida n. 15 recanti «Individuazione e gestione dei conflitti di interesse nelle procedure di affidamento di contratti pubblici» (delibera 05.06.2019 n. 494 - link a www.anticorruzione.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOObblighi di pubblicità e trasparenza bandi di concorso.
Domanda
Tra poche settimane dovremo pubblicare un bando di concorso. Quali sono gli obblighi di trasparenza che ha il comune?
Risposta
Relativamente ai bandi di concorso, la legislazione vigente prevede vari e diversi obblighi di pubblicità e trasparenza.
Il primo è rappresentato dalla pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale, 4ª Serie Speciale – Concorsi ed Esami. Come previsto dall’articolo 4, comma 1-bis, del DPR 09.05.1994, n. 487, per gli enti locali, la diffusione in Gazzetta può essere sostituita dalla pubblicazione, sempre nella G.U., del solo avviso di concorso, contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione delle domande.
Il secondo obbligo è quello di pubblicare il bando e il relativo schema di domanda di partecipazione all’albo pretorio on-line dell’ente, per tutta la durata del termine di presentazione della domanda. Per evitare possibili confusioni tra le date è bene che la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e quella all’albo pretorio comunale sia prevista nella stessa data.
Sempre nella medesima data, parte il terzo obbligo che è quello di pubblicare il bando e lo schema di domanda nella sezione del sito web, denominata Amministrazione trasparente > Bandi di concorso.
Per tale sezione gli obblighi di trasparenza sono fissati nell’articolo 19, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che testualmente recita:
Art. 19 Bandi di concorso
   1. Fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale, le pubbliche amministrazioni pubblicano i bandi di concorso per il reclutamento, a qualsiasi titolo, di personale presso l’amministrazione, nonché i criteri di valutazione della Commissione e le tracce delle prove scritte.
   2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e tengono costantemente aggiornato l’elenco dei bandi in corso.

Come si può notare, gli obblighi contenuti nel decreto Trasparenza (d.lgs. 33/2013) fanno salvi gli altri obblighi di pubblicità legale (Gazzetta e albo) e non si limitano alla pubblicazione del bando e del fac-simile di domanda, ma riguardano anche:
   • i criteri di valutazione della Commissione (spesso previsti nel regolamento dei concorsi ed eventualmente integrati dalla Commissione stessa, nella sua prima seduta);
   • le tracce delle prove scritte, intendendo sia quelle estratte per lo svolgimento delle prove, sia quelle preparate dalla Commissione e non utilizzate nella procedura concorsuale.
Con le ultime modifiche introdotte dall’articolo 18, del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, è stato soppresso l’obbligo di pubblicare tutti i bandi espletati nel corso dell’ultimo triennio, accompagnati dall’indicazione, per ciascuno di essi, del numero dei dipendenti assunti e delle spese sostenute per l’espletamento del concorso.
Contrariamente a quanto previsto per le commissioni di gara (si veda articolo 37, comma 1, lettera b, del d.lgs. 33/2013 e art. 29, comma 1, d.lgs. 50/2016), per i bandi di concorso non vengono previsti obblighi particolari di pubblicità circa la composizione della commissione giudicatrice, né per la pubblicazione dei curricula dei suoi componenti (10.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - VARIResidenza in roulotte.
Domanda
Un nostro cittadino vive in una roulotte posteggiata in un parcheggio pubblico comunale, senza alcuna autorizzazione in tal senso e vuole chiedere la residenza.
È possibile ricevere tale tipo di richiesta, viste le norme antiabusivismo? Se si, è da iscrivere come “normale” residente APR, oppure come senza fissa dimora?
Risposta
Sicuramente la richiesta deve essere ricevuta, questo per evitare l’ipotesi del reato di omissione d’atti d’ufficio.
In seguito, eventualmente, si procederà con gli appositi strumenti nell’ambito del procedimento amministrativo: se ricorre l’ipotesi dell’irricevibilità (mancando ad es. i dati obbligatori previsti nel modulo di richiesta…) si formerà un provvedimento negativo in forma semplificata, oppure si farà ricorso al preavviso di rigetto previsto dall’art. 10-bis della legge 241/1990, infine l‘Ufficiale di Anagrafe potrà provvedere al ripristino della posizione anagrafica precedente, mediante annullamento della mutazione registrata, a decorrere dalla data della ricezione della dichiarazione.
Prima, però, di provvedere in tal senso, in riferimento al quesito specifico, è necessario riflettere bene sulla situazione di fatto. L’impostazione che si è consolidata nel tempo a proposito, che possiamo riassumere brevemente come segue, è a grandi linee questa:
   • l’Anagrafe si occupa di registrare la situazione di fatto e tradizionalmente tale funzione non viene snaturata dalla difesa di altri interessi (urbanistici, igienico -sanitari, di ordine pubblico, etc.). Esistono strumenti giuridici appositi, differenti da quelli anagrafici, per la tutela di tali interessi. Pertanto, in termini generali, se gli accertamenti relativi alla dimora abituale danno esito positivo, il cittadino viene iscritto in APR, indipendentemente dalle eventuali violazioni edilizie. Ovviamente la presenza deve avere carattere di stabilità e non essere itinerante;
   • gli organi preposti (quali il Sindaco, l’Ufficio Tecnico comunale ed il comando di Polizia) ricevono la segnalazione ad hoc da parte dell’Ufficio Anagrafe (art. 1 della legge anagrafica: “L’iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza, ai sensi delle vigenti norme sanitarie”).
Relativamente alle norme antiabusivismo, per potersi configurare un’occupazione abusiva, secondo quanto previsto dall’art. 5 del d.l. 47/2014, occorre la contestuale presenza di due requisiti: l’occupazione arbitraria di terreni o immobili altrui e la querela di parte della persona offesa. Essendo il terreno dove è posizionata la roulotte di proprietà comunale, a seguito della richiesta del cittadino, è necessario fare la segnalazione agli organi preposti (Sindaco, Comando di Polizia, Ufficio Tecnico). Il cittadino stesso dovrà indicare nella richiesta di residenza il titolo in base al quale sta occupando legittimamente l’immobile (in questo caso il terreno).
Pertanto una verifica in tal senso è necessaria. Se queste segnalazioni porteranno ad una ordinanza di sgombero, o comunque alla rimozione della roulotte, prima della conclusione del procedimento anagrafico, sarebbe possibile non effettuare l’iscrizione stessa, per carenza del requisito della dimora abituale. Quindi in questo caso la motivazione del rifiuto sarà proprio determinata dalla situazione di fatto.
Riguardo all’ipotesi senza fissa dimora, è necessario chiarire che SFD è chi non fermandosi mai per lungo tempo in uno stesso luogo, non possiede i requisiti per essere considerato residente da nessuna parte e necessita dunque di un trattamento diverso (in pratica si tratta di far coincidere la residenza anagrafica con il domicilio). Secondo l’Istat (“Avvertenze, note illustrative e normativa AIRE, Metodi e Norme, serie B – n. 29 –“, edizione 1992) è chi non abbia in alcun Comune quella dimora abituale che è elemento necessario per l’accertamento della residenza (girovaghi, artisti delle imprese spettacoli viaggianti, commercianti e artigiani ambulanti, ecc.); per tali persone si è adottato il criterio dell’iscrizione anagrafica nel Comune di domicilio.
In base alla norme del c.d. decreto sicurezza del 2009, sono cambiate le modalità di iscrizione anagrafica delle persone senza fissa dimora, vista l’introduzione dell’obbligo di fornire all’ufficiale d’anagrafe, al momento della richiesta di iscrizione, “gli elementi necessari allo svolgimento degli accertamenti atti a stabilire l’effettiva sussistenza del domicilio”. Quindi fondamentalmente la distinzione tra iscrizione APR e SFD si gioca sulla differenza tra i concetti di residenza (dimora abitale) e domicilio (sede principale dei propri affari e interessi).
Per concludere, e tornare al caso oggetto del quesito, sarà il cittadino che farà una richiesta di “normale” residenza APR, oppure di iscrizione come SFD, alla quale dovrete rispondere, utilizzando gli strumenti procedimentali ad hoc, in base alle verifiche ed agli elementi emersi nel corso dell’istruttoria, tenendo presenti i concetti che abbiamo cercato di chiarire per delineare le due diverse situazioni (06.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità per interscambio.
Domanda
Come funzione la mobilità per interscambio o compensazione?
Risposta
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con la nota prot. n. 20506 del 27.03.2015, al fine di chiarire alcuni dubbi interpretativi in tema di ricollocazione del personale degli enti di area vasta, ha inserito, tra gli altri argomenti, anche un paragrafo dedicato alla mobilità per interscambio (o per compensazione).
Il Dipartimento prevede che la stessa possa essere mutuata dal d.p.c.m. 325/1988 che, all’articolo 7, dispone che è consentita in ogni momento, nell’ambito delle dotazioni organiche, la mobilità dei singoli dipendenti presso la stessa o altre pubbliche amministrazioni, anche di diverso comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri dipendenti.
Si deve, in ogni caso, trattare di corrispondente categoria e profilo professionale e l’operazione può concludersi previo nulla osta dell’amministrazione di provenienza e di quella di destinazione. Ciò che si realizza è solamente una reciproca sostituzione di dipendenti che ricoprono un determinato ruolo, sostanzialmente neutra, in quanto non copre fabbisogni evidenziati nel piano occupazionale, né genera nuovi fabbisogni.
Il contesto normativo che riguarda tale istituto è sicuramente quello della mobilità volontaria disciplinato dall’art. 30 del TUPI, con la sola eccezione, puntualizzata anche dal Dipartimento citato, che si possa prescindere dall’adozione di veri e propri avvisi pubblici di mobilità.
È però indispensabile che le amministrazioni coinvolte accertino che non vi siano controinteressati al passaggio, nel rispetto dei principi di imparzialità e trasparenza, eventualmente ricorrendo, a seconda della dimensione organizzativa e del numero di dipendenti, ad un interpello interno finalizzato a verificare l’eventuale contestuale interesse alla mobilità di altri dipendenti da sottoporre a valutazione (può essere semplicemente un’e-mail destinata ai lavoratori appartenenti alla medesima categoria e profilo professionale oggetto della mobilità in parola).
Non è necessario che l’ente si doti di apposita regolamentazione in materia, potendo far riferimento ai comportamenti e/o regole già in uso per la mobilità, dato che l’esigenza rimane quella di individuare, nell’ambito del personale delle pubbliche amministrazioni, il soggetto più idoneo per titoli e competenze possedute (non è mai una graduatoria), alla copertura della posizione di lavoro interessata, in risposta comunque al criterio di buon andamento dell’azione amministrativa (05.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - VARIQuesto Commissariato sta rilasciando una licenza art. 88 TULPS per sala scommesse ed intende prescrivere, d'accordo con il Sindaco, dei limiti di orario delle attività di gioco.
Sono legittime queste prescrizioni o vi sono rischi di ricorso?

L'art. 9 del TULPS (R.D. 18.06.1931, n. 773 dispone "Oltre le condizioni stabilite dalla legge , chiunque ottenga un'autorizzazione di polizia deve osservare le prescrizioni, che l'autorità di pubblica sicurezza ritenga di imporgli nel pubblico interesse". In questo caso la prescrizione consiste nel rinvio alla disciplina degli orari delle attività economiche stabiliti dalla competente autorità comunale (Sindaco) ai sensi dell'art. 50 TUEL (D.Lgs. 18.08.2000, n. 267).
La normativa in materia di gioco è divenuta negli ultimi anni più restrittiva al fine di contrastare il cosiddetto "gioco patologico" e le conseguenze sanitarie che derivano dallo stesso. Si ritiene che la limitazione degli orari di attivazione delle apparecchiature da gioco costituisce uno strumento concretamente idoneo a ridurne la possibilità di utilizzo, così da integrare una misura amministrativa funzionale a delimitare la diffusione del fenomeno del gioco patologico (l'art. 50, comma 7, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 è una statuizione di carattere generale, nel cui ambito non vi sono ragioni preclusive a ritenere rientrante anche il potere sindacale di determinazione degli orari delle sale da gioco o di accensione e spegnimento degli apparecchi durante l'orario di apertura degli esercizi, in cui i medesimi sono installati).
La giurisprudenza infatti ritiene che il Sindaco possa disciplinare gli orari delle sale giochi e degli esercizi nei quali siano installate apparecchiature per il gioco essendo attribuiti allo stesso poteri di ordinanza a tutela della salute dei cittadini ed essendo considerate tali apparecchiature nel loro aspetto negativo di strumenti di grave pericolo per la salute individuale ed il benessere psichico e socio-economico della popolazione.
Il potere esercitato dal Sindaco non interferisce con quello degli organi statali preposti alla tutela dell'ordine e della sicurezza, atteso che la competenza di questi ha ad oggetto rilevanti aspetti di pubblica sicurezza, mentre quella del Sindaco concerne in senso lato gli interessi della comunità locale, con la conseguenza che le rispettive competenze operano su piani diversi non configurandosi alcuna violazione dell'art. 117, comma 2, lett. h), della Costituzione.
Anche recentemente è stata ritenuta legittima la licenza per l'esercizio di attività di gioco lecito, rilasciata dalla Questura ai sensi dell'art. 88 T.U.L.P.S., anche nella parte in cui prescrive che "devono essere rispettati gli orari imposti dal Sindaco in materia di apertura degli esercizi pubblici localizzati nel territorio. Il cartello dell'orario dell'attività deve essere esposto ben visibile al pubblico, all'ingresso del locale".
Si ritiene pertanto legittima la citata prescrizione e comunque, anche ove non disposta, resta salvo i potere ordinatorio del Sindaco.
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Riferimenti normativi e contrattuali
R.D. 18.06.1931, n. 773, art. 88
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 50
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. III, 01.07.2019, n. 4509
Cons. Stato Sez. IV, 10.07.2018, n. 4199
Cons. Stato Sez. V Sent., 22.10.2015, n. 4861
Cons. Stato Sez. V, 20.10.2015, n. 4794
TAR Lombardia-Milano Sez. I, 02.04.2019, n. 716
TAR Lombardia-Milano Sez. I, 25.03.2019, n. 619
 (04.09.2019 - tratto da  www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

PATRIMONIO: Acquisto immobile da destinare a Caserma dei Carabinieri.
Quesito
Il Comune chiede se ed eventualmente entro che limiti possa legittimamente procedere all’acquisto di un immobile di proprietà privata, attualmente locato come caserma dei Carabinieri ed alla cui vendita i proprietari abbiano necessità di procedere; ciò al fine di evitare la delocalizzazione dell'attuale stazione di comando.
Parere espresso
La materia dell’accasermamento rientra nella competenza dello Stato e, nel caso specifico, del Ministero dell’Interno, sul quale pertanto indubbiamente gravano in prima istanza i relativi oneri. Questo provvede all’alloggiamento dei Carabinieri tramite la messa a disposizione di strutture idonee rientranti nel proprio patrimonio, ove presenti, oppure, in mancanza, verificando la possibilità di acquisire in locazione passiva immobili delle Amministrazioni locali o, in ultima istanza, di proprietà di privati.
Presupposto per un’attivazione del Comune sul tema in oggetto è dunque, anzitutto, che pervenga ad esso una specifica richiesta dal Commissariato del Governo (cui sono state attribuite tutte le funzioni esercitate a livello periferico dallo Stato).
Ciò precisato, va approfondito fino a che punto l’Amministrazione possa legittimamente spingere la propria azione, ove, come nel caso di specie, non abbia un immobile idoneo libero da mettere a disposizione e, precisamente, se possa acquistarne uno, per destinarlo a Caserma e locarlo al Corpo.
In verità, un intervento sussidiario del Comune, ove risulti effettivamente necessario ad assicurare il mantenimento di un presidio di pubblica sicurezza, appare coerente con le finalità istituzionali proprie degli enti locali.
A suffragare tale affermazione, apparentemente solo di buon senso, soccorrono del resto le argomentazioni dedotte nella deliberazione n. 91/2017 della Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la Liguria, inerente un caso analogo, secondo la quale «la sicurezza dei cittadini non può appartenere ad un unico livello di Amministrazione (lo Stato), ma deve rappresentare una responsabilità per tutti gli enti che si occupano degli interessi pubblici della collettività amministrata, concorrendo, infatti, “a soddisfare interessi pubblici generali meritevoli di intensa e specifica tutela”». In tal senso è senz’altro legittimo, secondo il Collegio, che l’Ente locale di “prossimità” «si adoperi con attività amministrativa e finanziaria, a garantire la sicurezza dei cittadini coadiuvando l’attività statale e delle Prefetture».
A conferma di tale inquadramento, il Collegio richiama alcune specifiche disposizioni presenti nell’ordinamento giuridico che consentono ai Comuni di alleggerire il peso finanziario che grava sullo Stato per la sicurezza: il comma 439 della legge n. 311 del 2004, che riconosce ai comuni la facoltà di concedere in uso gratuito alle amministrazioni dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime, beni immobili di loro proprietà; il comma 4-bis. dell’art. 3, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, che riconosce ai comuni la facoltà di contribuire al pagamento del canone di locazione determinato dall’Agenzia delle Entrate, di immobili, di proprietà di terzi, destinate a caserme delle forze dell’ordine.
Il Collegio sottolinea come le finalità perseguite da tali norme siano evidentemente conseguibili anche con diverse modalità, compreso l’acquisto diretto dell’immobile, a patto che la decisione consegua ad un’attenta ponderazione in merito alla maggior convenienza, sotto il profilo finanziario, della scelta optata rispetto alle possibili alternative.
Il Comune dovrà quindi essere in grado di dimostrare:
   - l’effettiva necessità del proprio intervento, per evitare la delocalizzazione dell'attuale stazione di comando; a tal fine occorrerà disporre di una espressa richiesta di attivazione da parte del Commissariato del Governo che dia conto della indisponibilità del proprietario a rinnovare il contratto di locazione in essere;
   - l’assenza di alternative più economiche rispetto all’acquisto di un immobile e, in particolare, l’assenza di altri immobili idonei acquistabili sul territorio comunale, a condizioni più vantaggiose di quello attualmente abitato dal Corpo; in proposito il Comune darà conto di aver esperito lo scorso anno idoneo avviso pubblico, con esito negativo e, nell’ipotesi -prospettata- che l’immobile in questione sia posto in vendita ad un’asta fallimentare, dell’opportunità di acquistarlo a condizioni vantaggiose.
Naturalmente è essenziale che di tutte queste circostanze e valutazioni si dia conto attraverso una compiuta e documentata motivazione.
Con riguardo ai quesiti ancillari al tema principale sopra affrontato, si conferma che:
   • nel caso in cui l'immobile sia messo all'sta, non si ritiene che sussistano motivi o norme che impediscono all'amministrazione di presentare offerta; peraltro, in tal caso dovranno essere valutate le condizioni per far precedere l'offerta da un provvedimento che autorizza la presentazione della medesima e modalità per garantirne la segretezza;
   • il comproprietario dell’immobile consigliere comunale può alienare pro quota il bene, non partecipando ovviamente al provvedimento che autorizza l’acquisto, in quanto la normativa vigente pone in capo al consigliere solo il divieto di essere acquirenti di beni immobili del Comune (07.01.2019 - link a www.comunitrentini.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Incentivi alla pianificazione urbanistica, è danno erariale se superano i limiti ministeriali.
Tra gli incentivi di progettazione la normativa all'epoca ha incluso anche la possibilità, per i dipendenti tecnici, di liquidare gli importi per gli atti di pianificazione urbanistica «comunque denominati», includendo anche la definizione e l'approvazione del regolamento urbanistico, nel limite del 30% dell'importo che l'ente avrebbe dovuto corrispondere in caso di affidamento degli atti a professionisti esterni.
La Corte dei conti della Toscana (sentenza 03.09.2019 n. 329), non tenendo conto dell'assoluzione in ambito penale, ha condannato per danno erariale i due responsabili tecnici che si erano liquidati degli incentivi aumentando la base di calcolo della tariffa esterna.
Sul tema degli incentivi tecnici agli atti di pianificazione si è recentemente pronunciata la Cassazione (ordinanza 14.08.2019 n. 21424), precisando il principio di diritto secondo il quale sono remunerabili esclusivamente gli atti di pianificazione urbanistica qualora strettamente collegati alla realizzazione di una opera pubblica, quindi nel caso di specie nulla avrebbe dovuto essere corrisposto ai due dipendenti tecnici.
La vicenda
A seguito del complesso iter di approvazione dei piani urbanistici e del regolamento, alcuni responsabili tecnici si erano liquidarti importi per incentivi loro dovuti nel limite del 30% della tariffa che sarebbe stata applicata ai professionisti esterni. Tuttavia, nel calcolo della tariffa, in ragione della complessità delle attività svolte, i dipendenti non si sarebbero attenuti alla circolare del ministero dei Lavori pubblici 01.12.1969 n. 6679 secondo cui la maggiorazione dell'onorario professionale, in caso di progettazione interna, non avrebbe potuto essere superiore al 50%.
I dipendenti hanno, invece, proceduto a maggiorare la tariffa del 70% tanto che la Procura ha chiamato i responsabili a rispondere del danno erariale pari alla differenza della percentuale applicata rispetto a quella massima. In sede di difesa i tecnici hanno evidenziato come, sul medesimo giudizio di congruità dei valori presi a riferimento, il tribunale penale li ha assolti perché non sussisteva il fatto ascritto.
Le precisazioni del collegio contabile
Secondo i giudici contabili toscani, in considerazione dell'autonomia dei due giudizi (penale e contabile) e in ragione anche della non definitività della sentenza, entrambi i responsabili sono stati condannati per danno erariale per essersi distribuiti risorse in violazione del limite massimo stabilito nella circolare ministeriale.
La Corte, inoltre, non ha ritenuto valide le giustificazioni della difesa secondo cui alla tariffa di base avrebbero dovuto essere aggiunti, in quanto non previsti nella circolare ministeriale, gli onorari a discrezione e a vacazione, giustificazioni queste accolte invece in sede penale. Secondo la Corte, infatti, gli onorari richiesti in aumento si fondano in ogni caso su voci "eventuali" e non dimostrate e comunque al di fuori del limite massimo previsto nella circolare.
L'indirizzo della Cassazione
Il giudice di legittimità è stato di recente chiamato a verificare due diversi indirizzi assunti dai giudici contabili, il primo (Corte dei conti Veneto) che ha ritenuto incentivabili gli atti di pianificazione «comunque denominati» non necessariamente collegato alla realizzazione di un opera pubblica, mentre il secondo riteneva incentivabili i soli atti di pianificazione strettamente collegati alla realizzazione dell'opera pubblica, tanto che la Sezione delle Autonomie, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha chiuso il contrasto precisando l'obbligatorio collegamento con la sola realizzazione dell'opera pubblica.
La Cassazione, che ha aderito al medesimo orientamento della nomofilachia contabile, ha stabilito che gli atti di pianificazione comunque denominati devono obbligatoriamente prevedere, ai fini della remunerazione degli incentivi, la realizzazione dell'opera pubblica, risultando dirimente la precisazione del legislatore secondo cui l'incentivo inerente l'atto di pianificazione è ripartito fra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice, termine quest'ultimo che evoca il legame fra l'atto stesso e la successiva aggiudicazione dei lavori finalizzati alla realizzazione dell'opera pubblica (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.09.2019).
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SENTENZA
Osserva il Collegio che in via preliminare occorre esaminare l’efficacia della sentenza di assoluzione penale nel processo contabile, atteso che le parti convenute invocano l’assoluzione disposta dal Tribunale di Firenze in data 28.02.2018 ( n. 704/2018).
Le contestazioni delle condotte in sede penale attenevano la violazione del reato di cui agli artt. 110 e 314 c.p. in quanto “la maggiorazione dell’onorario professionale in caso di progettazione interna non avrebbe potuto essere superiore al 50%; in questo modo entrambi (il Co.e la Tr.), in concorso tra loro, si appropriavano dei fondi stanziati dal Comune in relazione della costituzione del fondo, avendo in particolare il Co. percepito complessivamente la somma di € 18.018,00 in luogo di quanto gli sarebbe effettivamente spettato, tenuto conto del limite sopra ricordato, e cioè € 11.681,71; la Tr. percepito la somma di € 19.110,00 in luogo di quanto le sarebbe spettato, tenuto conto del limite sopra ricordato e cioè € 12.389,69”.
Da tali condotte ai due imputati, nelle rispettive qualità, veniva imputato di essersi appropriati di fondi stanziati dal Comune per la redazione del regolamento urbanistico di Impruneta in misura superiore a quello spettante, avendo la Te. redatto la notula di liquidazione di € 54.600,00 in luogo di quella dovuta pari a € 35.399,10, applicando una maggiorazione dell’onorario professionale del 70% invece del 50%.
Il giudice penale osservava che “alla luce delle emergenze probatorie assunte nel corso del dibattimento” (simulazione di calcolo sulla scorta di un programma software esistente presso l’Ordine degli Architetti dalla Guardia di Finanza con l’ausilio dell’arch. Bi. referente della Commissione notule dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Firenze), escussione di alcuni testi unitamente al consulente tecnico di parte degli imputati) “non può reputarsi che la notula della Tr. abbia determinato l’appropriazione di una maggiore somma a vantaggio dei due imputati…. si impone, dunque, sentenza di assoluzione nei confronti di entrambi gli imputati perché il fatto non sussiste”.
Osserva il Collegio che, vista l’autonomia dei giudizi penale e contabile, non può assegnarsi alcuna efficacia esimente alla sentenza penale di assoluzione dal reato di peculato pronunciato dal magistrato penale di primo grado a favore degli odierni convenuti, atteso che oltre a non trovare applicazione l’art. 652 c.p.p., non essendo stata data prova dell’irrevocabilità della sentenza, “la non ravvisabilità del delitto di cui all’art. 314 c.p. non esclude ex se la censurabilità sul piano amministrativo-contabile della condotta….. stante l’autonomia e separatezza dei giudizi e dei beni rispettivamente proposti dai diversi livelli ordinamentali”: in termini Sez. II Centr. 24.10.2018.
Entrando nel merito la domanda attorea va accolta parzialmente nei sensi di cui in motivazione.
Nella specie si verte delle disposizioni applicabili all’epoca (2012) ed in specie della legge n. 143 del 1949 – Tariffa Professionale per gli Architetti e Ingegneri nella circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 6679 del 1969.
Ai sensi dell’art. 5 della menzionata Circolare la maggiorazione dell’onorario non poteva essere superiore al 50%, mentre il calcolo delle spese, vertendo in spese espressamente indicate non poteva essere aggregato in modo forfettario.
Nella specie l’arch. Pa.Tr. ha formulato una proposta di incentivo, avvallata dall’arch. Co., determinando la notula professionale con una maggiorazione del 70% - in luogo del 50% e calcolando le spese in misura del 36,20%.
L’eccesso dei coefficienti maggiorativi ha determinato una maggiore spesa per l’ente, in quanto si fonda su voci “eventuali” e non dimostrate.
I convenuti deducevano che occorreva considerare nella specie la mancata indicazione separata della quota di compenso a vacazione, la mancata indicazione della quota di compenso a discrezione, la sottostima della percentuale di adeguamento ISTAT e l’ulteriore sottostima per essere stati utilizzati criteri applicabili solo ai piani della previgente L.R. 5/1995 e non a quelli della L.R. n. 1/2005.
Operando correttamente i calcoli e applicando tutti i criteri della citata circolare, osservavano i convenuti, i compensi quantificabili ai sensi della richiamata circolare era superiore sia a quanto indicato nell’atto di citazione sia a quanto determinato dai convenuti, siccome si evinceva dalla perizia tecnica depositata nel giudizio penale (all. 8): la sommatoria della quota di compenso a quantità (€ 138.050,40), della quota di compenso a vacazione per l’esame delle osservazioni e la partecipazione a commissioni pubbliche (con misura di compenso orario) pari ad € 52.268,00, e della quota di compenso a discrezione (eventuali rifacimenti dopo gli esami delle Autorità) e corrispondente ad un 10% di quello richiesto dal Piano nella sua interezza (€ 138.050,40 + € 52.268,00) x 10/100 per un importo pari a € 19.031,84, determinava un totale complessivo pari a € 209.350,24 (a mente della L.R. 5/1995), mentre ove si fosse dovuto tener conto della L.R. 1/2005 si sarebbe addivenuti ad un compenso di € 230.825,26.
Concludevano, i convenuti che, anche considerando il minor importo di € 209.350,24 si sarebbe dovuto computare una somma, pari al 30% del compenso, di € 62.805,07 o, tenuto conto dell’applicazione del criterio, ritenuto congruo dal giudice penale, di € 69.085,57 importi inferiori all’incentivo calcolato (dalla Tr.) e poi liquidato (da Co.) pari a € 54.600,00.
Con riferimento alla quantificazione del danno secondo i convenuti occorreva considerare, ove anche si ritenesse il compenso base pari a quello indicato dalla Procura contabile, che le prestazioni non remunerate con la voce relativa al cd. onorario base (valutazione delle osservazioni, partecipazioni alle assemblee e commissioni, rielaborazione del piano) è pari a € 21.398,95 (rappresentato dal 30% del valore delle medesime - € 52.268,00+ € 19.031,84 = € 71.389,95) dovevano essere detratte dall’ipotetico danno erariale con elisione dello stesso.
Le osservazioni delle parti convenute non escludono la colpa grave, ritenuto il chiaro dettato normativo di cui agli artt. 5, 11 e 12 della richiamata circolare che gli architetti hanno adottato come parametro congruo per il costo della prestazione, non elidono gli elementi della responsabilità amministrativa per erronea applicazione della normativa tariffaria determinativa di un danno alle pubbliche finanze.
In particolare l’art. 5 della Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici 01.12.1969 n. 6679 (tariffa degli onorari per le prestazioni urbanistiche degli ingegneri ed architetti prevede che “le integrazioni all’onorario vanno applicate tenendo conto delle elaborazioni specifiche effettivamente svolte dal professionista in relazione ai temi suddetti secondo l’entità delle caratteristiche cui si riferiscono: esse sono cumulabili fino ad una integrazione massima complessiva del 50% con chiara preclusione di importi superiori”.
D’altro canto, il Consiglio Nazionale degli Architetti con una circolare di chiarimento (circolare n. 34/2012) ha affermato che nel calcolo dell’importo si possono utilizzare le ex tariffe per i lavori privati (legge 143/1949) o per i lavori pubblici (D.M. 04/04/2001 oppure nuovi parametri, liberamente scelti, purché connotati dal requisito della trasparenza con il cliente.
Sussiste, pertanto, oltre alla condotta antigiuridica, il nesso di causalità ed il danno erariale, perlomeno la colpa grave (se non il dolo eventuale) vista la chiara indicazione del dettato normativo.
Nonostante il parametro utilizzato non sia stato correttamente applicato nella specie, la condanna va quantificata e rimodulata nella misura di € 5.000,00 per ognuno dei convenuti, vista la riduzione derivante dalle attività svolte (per natura, quantità, qualità e durata, cfr. Cass. 6888/1983) e non contabilizzate. La somma è comprensiva di rivalutazione e ad essa vanno aggiunti gli interessi legali dal deposito della sentenza al soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate nella misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dei conti - Sezione Giurisdizionale della Regione Toscana - definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dal Procuratore Regionale nei confronti dei signori Pa.Tr. e Le.Co., respinta ogni contraria istanza ed eccezione, condanna entrambi i convenuti alla somma di € 5.000,00 per ognuno, comprensivi di rivalutazione monetaria, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al soddisfo.

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Danno erariale al segretario comunale che autorizza l'incarico professionale esterno a un dipendente dell'Ente.
I dipendenti della Pa a tempo parziale -che svolgono un orario lavorativo non superiore alle 18 ore settimanali- possono essere autorizzati dall'ente di appartenenza anche a svolgere altra attività lavorativa, inclusa quella professionale a partita Iva. Tuttavia, l'amministrazione non può conferire un incarico professionale esterno al medesimo dipendente.
Queste sono in sintesi le conclusioni della Corte dei conti - Sez. giurisdiz. Puglia (sentenza 31.07.2019 n. 501) che ha condannato per danno erariale in solido il responsabile del servizio finanziario e il segretario comunale che ha autorizzato l'incarico esterno di resistenza nei giudizi tributari al medesimo responsabile del servizio finanziario e dei tributi.
La vicenda
Il commissario straordinario di un Comune di modeste dimensioni aveva attivato le procedure di recupero delle somme indebitamente corrisposte al responsabile finanziario e dei tributi per l'incarico professionale di resistenza in giudizio davanti alle commissioni tributarie.
In considerazione del mancato versamento degli importi, la Procura della Corte dei conti ha chiamato a rispondere di danno erariale sia il segretario comunale, per aver espresso parere favorevole all'incarico professionale al dipendente, sia il responsabile finanziario e dei tributi che, pur a conoscenza della normativa, ha formalizzato e ricevuto le parcelle professionali.
Nel caso di specie, la Procura ha contestato un reale conflitto tra le due posizioni assunte dal medesimo soggetto, in quanto l'attività di recupero tributario, non può che rientrare nelle funzioni istituzionali dell'ente e del responsabile del settore preposto e, qualora esternalizzato, non può essere affidato allo stesso soggetto che svolge, all'interno, le funzioni di responsabile del servizio.
La difesa dei convenuti
Nelle memorie di costituzione in giudizio è stato rilevato come il responsabile finanziario fosse un dipendente in part-time, con orario non superiore alla metà del tempo pieno, autorizzato dall'ente a svolgere attività professionale esterna.
La disposizione legislativa -articolo 11, comma 3, Dlgs 546/1992– prevede espressamente che «L'ente locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il dirigente dell'ufficio tributi …», mentre l'articolo 15, comma 2-bis, dispone che «Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto».
La decisione del collegio contabile
I giudici contabili pugliesi oltre a ritenere fondate le conclusioni cui è giunto il Pm contabile, di un reale conflitto tra le due posizioni assunte dal responsabile finanziario -da un lato resistente in giudizio in quanto dirigente dell'ufficio tributi e dall'altro lato in qualità di libero professionista- hanno anche accertato l'inconsistenza del pagamento previsto dalla normativa.
L'Aran ha, infatti, da sempre chiarito che, per l'attività di difesa avanti alle Commissioni tributarie, ai funzionari può essere riconosciuta un'integrazione dell'indennità di risultato oppure una diversa forma di incentivazione, a condizione che sussista al riguardo uno specifico intervento di regolazione nell'ambito della contrattazione integrativa.
Nel caso di specie, ha precisato il collegio contabile, non c'è stato alcun iter contrattuale per forme integrative di incentivi al personale, bensì l'affidamento al dirigente responsabile del settore finanziario di due incarichi esterni di rappresentanza del Comune davanti alle commissioni tributarie, in palese violazione di legge.
Inoltre, stante la consapevolezza dei convenuti di tenere un comportamento vietato dalla legge, si rientra nell'ipotesi di dolo con conseguente responsabilità solidale dei convenuti al pagamento delle somme indebitamente corrisposta al responsabile finanziario (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.08.2019).
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MASSIMA
Il thema decidendum del presente giudizio riguarda l’accertamento della responsabilità dei convenuti –in qualità di dipendenti del Comune di Roseto Valfortore- per il danno patrimoniale, asseritamente arrecato all’ente, in conseguenza dell’indebito affidamento di incarico professionale al responsabile del settore finanziario dott. MI., in difetto dei presupposti di legge.
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2. Nel merito, la domanda è fondata.
Occorre premettere che
l’obbligo della pubblica amministrazione di provvedere ai compiti istituzionali con la propria organizzazione e con il proprio personale, costituisce regola fondamentale dell’ordinamento, codificata da specifiche disposizioni di legge.
In particolare, l’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, recependo quanto già previsto dal d.lgs. n. 29 del 1993, ha rafforzato il principio di onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti delle pubbliche amministrazioni, stabilendo che il trattamento economico contrattualmente determinato remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o, comunque, conferito dall’Amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa.
Pertanto, risulta in primo luogo violato il principio di onnicomprensività della retribuzione, svolgendo il Mi. l’incarico di dirigente a tempo determinato ex art. 110, comma 2, del d.lgs n. 267 de 2000.
Egli, seppure in regime di part-time, svolgeva le funzioni di responsabile del settore finanziario e, come tale, era responsabile anche della gestione dei tributi, ivi compresa, appunto, tutta l'attività relativa al loro recupero.
Invero, in quanto titolare di posizione organizzativa, al Mi. era già attribuita l'indennità di posizione, l'indennità di risultato e la specifica indennità ad personam prevista dall'art. 110, comma 3, del d.lgs. n. 267 del 2000, oltre ad un rimborso spese di viaggio per raggiungere la sede di servizio (deliberazione della Giunta comunale n. 116 del 13.11.2002).
In merito alle attività attribuite alla responsabilità dell’odierno convenuto, inoltre, il decreto del Sindaco del Comune di Roseto Valfortore, n. 5912 del 13.11.2002 dispone espressamente che il dott. Mi. dal 01.01.2003 veniva chiamato o svolgere le funzioni di responsabile del Settore economico–finanziario, “comprendente tutti servizi economico e finanziari esemplificativamente riferiti a: ….tributi ed entrate patrimoniali (gestione di tutte le fasi compreso controllo riscossioni in concessione)”.
Di conseguenza, la rappresentanza dell’ente avanti alle Commissioni tributarie rientrava appieno tra i compiti istituzionali affidati al Mi., con ciò smentendo tutte le eccezioni opposte dai convenuti circa la legittimità dell’affidamento dell’incarico professionale. Né vi è prova che l’Amministrazione non fosse in grado di provvedervi per l’eccessivo carico di lavoro, meramente enunciato dal Mi..
Al riguardo, l'art. 11, comma 3, del D.Lgs 546/1992, come modificato dall'art. 3-bis del D.L. 31.03.2005, n. 44 prevede espressamente che "L'ente locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il dirigente dell'ufficio tributi, ovvero, per gli enti locali privi di figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione organizzativa in cui è collocato detto ufficio".
Il Procuratore regionale, pertanto, ha correttamente contestato agli odierni convenuti un reale conflitto tra le due posizioni assunte dal medesimo soggetto (art. 6, comma 2, d.p.c.m. 117/1989). In particolare, l’attore pubblico ha osservato che l’attività di recupero dell'ICI, non può che rientrare nelle funzioni istituzionali dell'ente e del responsabile del settore preposto e, qualora esternalizzato, non può essere affidato allo stesso soggetto che svolge, all'interno, le funzioni di responsabile del servizio.
Il Collegio non può che condividere tale assunto.
Per l’attività in questione, al dirigente non spettava alcun compenso.
Priva di pregio appare, al riguardo l’eccezione opposta da parte convenuta secondo cui il compenso sarebbe comunque spettato al Mi. ex art. 15, comma 2-bis (ora comma 2-sexies) del d.lgs n. 546 del 1992 che dispone “Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto”.
Non vi è dubbio, infatti, che la liquidazione delle spese di difesa avviene nei confronti dell’Amministrazione, risultata vittoriosa nel giudizio tributario, e non già nei confronti del soggetto che la rappresenta. Sulla questione, l'ARAN (RAL 1660) ha chiarito che, per l’attività di difesa avanti alle Commissioni tributarie, ai funzionari può essere riconosciuta un’integrazione dell'indennità di risultato oppure una diversa forma di incentivazione, a condizione che sussista al riguardo uno specifico intervento di regolazione nell’ambito della contrattazione integrativa.
Nel caso di specie, non vi è stata alcun iter contrattuale per forme integrative di incentivi al personale, bensì vi è stato l’affidamento al dirigente responsabile del settore finanziario di due incarichi esterni di rappresentanza del Comune avanti alle Commissioni tributarie, in palese violazione di legge.
Sicché
il compenso che è stato erogato al Mi., nella veste di professionista esterno, rappresenta certamente un’indebita spesa sostenuta dal Comune.
Il danno risarcibile ammonta a complessivi euro 163.991,74.
Responsabili in solido di tale indebita spesa risultano entrambi i convenuti a titolo di dolo. Al riguardo, occorre chiarire che,
nel processo contabile, per dolo deve intendersi la consapevolezza dell’agente di tenere un comportamento vietato dalla legge.
Il Mi. è responsabile per aver scientemente lucrato il compenso per la difesa del Comune, pur nella piena consapevolezza di aver assunto l’obbligo di svolgere tale attività in veste di dirigente responsabile del settore finanziario.
La dott.ssa Ce., in qualità di
Segretario generale dell’ente, per il ruolo rivestito di garante della legittimità dell’azione amministrativa del Comune, che nulla ha obiettato a tutela della corretta e proficua gestione del denaro pubblico, esprimendo per di più parere favorevole per l’affidamento dell’incarico in questione e provvedendo ad impegnare e liquidare il compenso de quo.
L’indebita spesa, pari a complessivi euro 163.991,74, erogata dal Comune di Roseto Valfortore è la conseguenza unica e diretta delle
condotte tenute dai convenuti, nella piena consapevolezza del totale dispregio degli interessi dell’Amministrazione.
Ai soli fini della ripartizione interna delle quote di danno, per cui ciascuno potrà eventualmente rivalersi nei confronti dell’altro responsabile in solido, per il ruolo preponderante rivestito nella vicenda dal dott. Mi., a lui compete la maggior quota di danno pari al 70 per cento del danno risarcibile, mentre il restante 30 va attribuito alla responsabilità della dott.ssa Ce..
Trattandosi di responsabilità per dolo deve essere escluso il ricorso al potere riduttivo dell’addebito.
Sull’importo di euro 163.991,74 per cui è condanna va computata la rivalutazione monetaria dalla data dei pagamenti e fino alla pubblicazione della presente sentenza. Per tutte le ragioni espresse, la domanda è accolta.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia, definitivamente pronunciando, accoglie la domanda attrice e, per l’effetto,
CONDANNA
I signori Ma.MI. e Ma.Ce.An.CE. al pagamento in solido della complessiva somma di euro 163.991,74 (centossessantatremilanovecentonovantuno/74), oltre rivalutazione monetaria, in favore del Comune di Roseto Valfortore.

Sulle somme rivalutate spettano all’Amministrazione gli interessi al tasso legale decorrenti dalla data di deposito della sentenza e fino al totale soddisfo.

APPALTI SERVIZI - ENTI LOCALINella determinazione del costo relativo all’espletamento del servizio di trasporto scolastico lo stesso deve essere integralmente coperto dall’utenza (art. 5, comma 2, Dlgs n. 63/2017).
Tuttavia, nell’obbligatorio rispetto dell’economicità del servizio, presupposto essenziale per consentire l’effettività e la continuità della sua erogazione, tra le risorse volte ad assicurare l’integrale copertura dei costi possono essere ricomprese le contribuzioni regionali e quelle autonomamente destinate dall’ente nella propria autonomia finanziaria purché reperite nel rispetto della clausola d’invarianza finanziaria espressa nel divieto dei nuovi e maggiori oneri.
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Con la citata nota il Sindaco del Comune di San Pietro in Lama (LE) ha formulato una richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della l. 05.06.2003, n. 131 diretto a conoscere se, nella determinazione del costo afferente all’espletamento del servizio di trasporto scolastico, il Comune sia tenuto a stabilire la misura percentuale di partecipazione finanziaria dell’Ente locale e quantificare la residua parte di costi da finanziare mediante tariffe a carico dell’utenza o se il costo del servizio debba essere integralmente coperto dall’utenza, anche nel rispetto del principio di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 63/2017.
...
2. Nel merito, il Collegio osserva che, come recentemente affermato dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte (cfr. parere 06.06.2019 n. 46) la giurisprudenza contabile, allo stato, ritiene che il servizio di trasporto scolastico sia a tutti gli effetti un servizio pubblico di trasporto, e, come tale, escluso dalla disciplina normativa dei servizi pubblici a domanda individuale, che individua un sistema di predeterminazione della misura percentuale della quota dei costi complessivi di tutti i servizi pubblici a domanda individuale che viene finanziata da tariffe o contribuzioni ed entrate specificamente destinate (v., Sezione controllo Campania, parere 21.06.2017 n. 222; id., Sezione controllo Sicilia, parere 10.10.2018 n. 178).
Come noto, i servizi a domanda individuale trovano classificazione nel dm 31.12.1983, emanato in attuazione del dl 28.02.1983 n. 55, come convertito dalla legge 26.04.1983 n. 131: nell’elencazione riportato nel decreto citato non è ricompreso il servizio di trasporto scolastico. La Corte dei conti in più occasioni –tra le quali le citate deliberazioni- ha evidenziato come né il dl 55/1983, convertito dalla richiamata legge n. 131/1983, né il decreto 31.12.1983 del Ministero dell'Interno ricomprendano tra i servizi pubblici locali a domanda individuale quello di trasporto scolastico.
Tanto premesso, il Collegio ritiene di condividere le argomentazioni formulate dalla Sezione piemontese citata che ha affermato il principio secondo cui «…il trasporto scolastico è un servizio pubblico, ma non potendo essere classificato tra quelli a domanda individuale, non possono allo stesso reputarsi applicabili i conseguenti vincoli normativi e finanziari che caratterizzano i servizi pubblici a domanda individuale, espressamente individuati dal menzionato D.M. n. 131/1983.
La natura di servizio pubblico, in quanto oggettivamente rivolto a soddisfare esigenze della collettività, comporta, pertanto, che per il trasporto scolastico siano definite dall’Ente adeguate tariffe a copertura dei costi, secondo quanto stabilito dall'articolo 117 del Tuel.
In effetti, per tutti i servizi pubblici, anche non definibili “a domanda individuale”, come nella specie, l’
art. 117 TUEL stabilisce che:
1. Gli enti interessati approvano le tariffe dei servizi pubblici in misura tale da assicurare l'equilibrio economico-finanziario dell'investimento e della connessa gestione. I criteri per il calcolo della tariffa relativa ai servizi stessi sono i seguenti:
   a) la corrispondenza tra costi e ricavi in modo da assicurare la integrale copertura dei costi, ivi compresi gli oneri di ammortamento tecnico-finanziario;
   b) l'equilibrato rapporto tra i finanziamenti raccolti ed il capitale investito;
   c) l'entità dei costi di gestione delle opere, tenendo conto anche degli investimenti e della qualità del servizio;
   d) l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato.
2. La tariffa costituisce il corrispettivo dei servizi pubblici; essa è determinata e adeguata ogni anno dai soggetti proprietari, attraverso contratti di programma di durata poliennale, nel rispetto del disciplinare e dello statuto conseguenti ai modelli organizzativi prescelti.
3. Qualora i servizi siano gestiti da soggetti diversi dall'ente pubblico per effetto di particolari convenzioni e concessioni dell'ente o per effetto del modello organizzativo di società mista, la tariffa è riscossa dal soggetto che gestisce i servizi pubblici».
Pertanto, fermo restando che l’erogazione del servizio pubblico debba avvenire in equilibrio ai se
nsi dell’art. 117 TUEL –circostanza che ovviamente presuppone una efficace rappresentazione dei costi ed una copertura nel rispetto dei criteri generali di cui alla norma del Testo unico degli enti locali- l’erogazione dello stesso non solo non può essere gratuita per gli utenti ma la sua copertura deve avvenire mediante i corrispettivi versati dai richiedenti il servizio (cfr. SRC Sicilia parere 25.02.2015 n. 115, SRC Molise parere 14.09.2011 n. 80, SRC Campania parere 25.02.2010 n. 7), di modo che le quote di partecipazione finanziaria, correlate al servizio e poste a carico dell’utenza dovranno completamente concorrere alla copertura integrale della spesa del medesimo.
Detto orientamento trova assoluto ed inequivoco riscontro nella stessa giurisprudenza amministrativa, ad avviso della quale, in occasione dell’erogazione di un servizio pubblico, gli Enti “…saranno tenuti, in sede di copertura, alla stretta osservanza delle disposizioni dell’art. 117 TUEL, in particolare, del principio dell’equilibrio ex ante tra costi e risorse a copertura, principio che riguarda indistintamente tutti i servizi pubblici erogati dall’ente locale, a prescindere dalla forma contrattuale di affidamento del servizio (v., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.05.2012 n. 2537).
Simile interpretazione riceve pieno ed incontrovertibile conforto da ulteriori recenti arresti giurisprudenziali contabili (v. Sezione regionale di controllo della Sicilia,
parere 10.10.2018 n. 178), che, analizzando la natura del servizio di trasporto degli alunni organizzato dai Comuni nell'ambito del diritto allo studio, hanno reso un’interpretazione conforme all’indirizzo sopra enunciato alla luce della nuova connotazione conferita dall'articolo 5, comma 2, del Dlgs 63/2017.
A mente del citato disposto dell’art. 5, comma 2, del decreto legislativo 63/2017, infatti, gli enti locali “assicurano il trasporto delle alunne e degli alunni delle scuole primarie statali per consentire loro il raggiungimento della più vicina sede di erogazione del servizio scolastico. Il servizio è assicurato su istanza di parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati”.
Il D.lgs. 63/2017, secondo l’indirizzo giurisprudenziale richiamato, non solo non ha inciso nell’ambito delineato in via generale dalle menzionate disposizioni del TUEL, bensì ha introdotto una disciplina specifica, che si innesta nell'ampio perimetro disciplinato dall'articolo 112 del Tuel, il quale attribuisce agli enti la gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni e delle attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.
Ma soprattutto il richiama
to articolo 5 del D.lgs. 63/2017 prevede una espressa clausola di invarianza finanziaria, richiedendo che il servizio di trasporto vada realizzato “senza determinare nuovi e maggiori oneri per gli enti territoriali” e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta da parte dell’utenza quale corrispettivo della prestazione ricevuta.
Deve, quindi, concludersi nel senso che, ferme restando le scelte gestionali e l'individuazione dei criteri di finanziamento demandate alla competenza dell'ente locale, il quadro normativo sopra delineato non consenta l'erogazione gratuita del servizio di trasporto pubblico scolastico, servizio che deve avere a fondamento una adeguata copertura finanziaria necessariamente riconducibile nei limiti fissati dai parametri normativi del Tuel, alla luce della espressa previsione normativa della corresponsione della quota di partecipazione diretta da parte degli utenti, quota la quale, nel rispetto del rapporto di corrispondenza tra costi e ricavi, non può non essere finalizzata ad assicurare l’integrale copertura dei costi del servizi
o».
Appare necessario precisare, ad ulteriore chiarimento, che nell’obbligatorio rispetto dell’economicità del servizio, presupposto essenziale per consentire l’effettività e la continuità della sua erogazione, tra le risorse volte ad assicurare l’integrale copertura dei costi possono essere ricomprese le contribuzioni regionali e quelle autonomamente destinate dall’ente nella propria autonomia finanziaria purché reperite nel rispetto della clausola d’invarianza finanziaria espressa nel divieto dei nuovi e maggiori oneri (v. C.d.c., Sezione controllo Campania, parere 06.05.2019 n. 102), con corrispondente minor aggravio a carico all’utenza (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 25.07.2019 n. 76).

PUBBLICO IMPIEGODanno da disservizio per il dipendente che si allontana senza timbrare.
Pochi minuti di allontanamento dal posto di lavoro, senza autorizzazione, non sempre comportano il licenziamento ma possono rientrare in una sanzione disciplinare conservativa, disciplinata dal contratto di lavoro degli enti locali in caso di violazione dei doveri di servizio. Il danno erariale, invece, corrisponde sicuramente ai minuti di allontanamento non registrati cui si aggiunge anche il danno da disservizio, corrispondente alle risorse inutilmente spese per l'attivazione e la conclusione della procedura disciplinare, mentre non si configura danno all'immagine previsto dalla disposizione di legge.

Queste sono le conclusioni cui è giunta la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. per la Basilicata, sentenza 08.05.2019 n. 18).
Il caso
La vicenda è quella del dipendente di un ente locale, con funzioni di autista, che nei periodi nei quali non era impiegato nelle sue funzioni, si rifiutava di svolgere attività di ufficio dimostrando incapacità di attendere ai suoi compiti di servizio. Convocato dal responsabile per chiarire questa continua situazione di inoperatività lavorativa, era risultato assente dalla sede.
A seguito della ricostruzione delle sue assenze dal servizio, nei periodi di non impiego come autista, l'ente aveva attivato una procedura disciplinare dalla quale emergeva che molte delle ore venivano passate presso il collega al centralino, mentre l'allontanamento dal servizio, senza autorizzazione, pur ammesso dall'interessato, si riducevano a soli 23 minuti di omessa timbratura.
L'Ufficio dei procedimento disciplinari non ha, tuttavia, giudicato sufficienti i minuti di allontanamento dall'ufficio, per irrogare la sanzione disciplinare espulsiva -sanzione tesa a reprimere la falsificazione dei dati di presenza in servizio- ritenendo invece congrua quella conservativa prevista dall'articolo 3, comma 6, lettera d) (persistente insufficiente rendimento), lettera g) (comportamento di elusione dei sistemi di rilevamento elettronico della presenza) e lettera i) (comportamenti che cagionino danno grave all'ente) del contratto Regioni-Enti Locali del 11.04.2008, quale frutto di noncuranza e trascuratezza dei doveri di ufficio.
A seguito di segnalazione, da parte dell'Ufficio dei procedimenti disciplinari, alla Procura della Corte dei conti, in presenza di avvio della procedura disciplinare del licenziamento con sospensione immediata del dipendente -poi terminata con la sanzione conservativa della sospensione dal servizio di quattro mesi- il dipendente è stato rinviato a giudizio per responsabilità erariale.
Il Pm ha quantificato il danno erariale in tre separate poste. La prima corrispondente alla mancata presenza in servizio, per violazione del sistema di rilevazione delle presenze, pari al pagamento delle prestazioni non rese. La seconda posta di danno, qualificata da disservizio, è stata considerata pari al alla spesa sostenuta per l'impiego dei soggetti coinvolti nel procedimento disciplinare distolti dai loro compiti di istituto. L'ultima posta di danno erariale, quantificabile ex lege, qualificabile come danno all'immagine, è stata quantificata pari a sei mensilità così come previsto dall'articolo 55-quater del Dlgs 165/2001. Il dipendente ha confutato la tesi del Pm evidenziando che l'allontanamento per pochi minuti era dovuto a una dimenticanza.
Le indicazioni del collegio contabile
Il collegio contabile ha osservato che, dalla documentazione i del procedimento disciplinare, è emerso che lo stesso dipendente abbia ammesso di aver sbagliato per non avere timbrato l'uscita, ritenendo per questo motivo configurabile la piena responsabilità del dipendente anche se per soli 23 minuti, sia pure di natura non fraudolenta, che ha cagionato un nocumento di lieve entità e tuttavia suscettibile di essere commisurato in termini risarcitori per una somma pari a 9,50 euro.
Anche l'altra posta di danno erariale da disservizio è applicabile, in considerazione del procedimento disciplinare che ha impiegato dipendenti pubblici distogliendoli dai loro compiti istituzionali per causa dei comportamenti negligenti del dipendente. Mentre l'ultima posta di danno, qualificata dalla Procura come danno all'immagine, direttamente previsto dalla normativa, nel caso di specie non risulta applicabile in quanto la condotta del dipendente non è stata considerata dalla stessa amministrazione come effettuata in modo fraudolento ma per trascuratezza nell'assolvimento dei doveri di ufficio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALINiente responsabilità erariale al sindaco per l’assunzione a contratto di un funzionario.
Spetta al sindaco l'assunzione del funzionario apicale a contratto, mentre spetta alla dirigenza l'istruttoria e la verifica delle condizioni di conformità alla normativa. La mancanza dell'impegno contabile non rileva ai fini della responsabilità del sindaco, trattandosi di un atto monocratico (decreto) e non collegiale (giunta), come non rileva la successiva mancata stipula del contratto rimesso dalla normativa alla sola competenza dirigenziale.
Sono questi i principi enunciati dalla Corte dei conti del Molise (sentenza 08.04.2019 n. 10) che ha sollevato dalla responsabilità contabile il sindaco per l'avvenuto conferimento dell'incarico apicale.
La vicenda
Su specifica segnalazione della Sezione di controllo della Corte dei conti, la Procura ha rinviato a giudizio per danno erariale il sindaco di un Comune, tra l'altro, per illegittimo e illecito conferimento di un incarico a contratto effettuato in base all'articolo 110, comma 1, del Tuel.
Tra le contestazioni avanzate dalla Procura, la presunta illegittimità dell'atto di conferimento dell'incarico –e conseguente illiceità dell'esborso– dipendeva da una presunta incompetenza del sindaco nell'adottare, con iniziativa esclusiva, un provvedimento di amministrazione attiva o di gestione, di competenza degli uffici amministrativi, privo di adeguata istruttoria e dei prescritti pareri tecnici e visti favorevoli.
La diversa posizione del collegio contabile
Il Collegio contabile molisano ha confutato la tesi della Procura in merito all'asserita illegittimità e illiceità del conferimento dell'incarico a contratto da parte del sindaco. In via preliminare, rientra nell'esclusivo potere del sindaco (articolo 50, comma 10, del Dlgs 267/2000) l'emissione del decreto di nomina del responsabile dei servizi avvenuta a seguito di apposita selezione, in base all'articolo 110, comma 1, del Tuel e poi successivamente prorogata.
Si tratta, in altri termini, dell'ipotesi che riguarda la tipologia della copertura dei posti previsti «in dotazione» organica di responsabili dei servizi o degli uffici, cosiddetti responsabili di posizione organizzativa o unità operative (come pure di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione). Quindi, l'iniziativa e l'esercizio del potere di nomina spetta al sindaco, mentre rientra nelle prerogative e competenze proprie del dirigente o del responsabile amministrativo, diverso dall'organo di governo, sulla base del tradizionale riparto o distinzione tra organi e funzioni di indirizzo politico o di gestione, curare l'istruttoria, valutare la fattibilità del provvedimento e riferire eventuali problematiche in ordine alle scelte da effettuare.
Per queste ragioni, secondo il collegio contabile, non può certo ricadere alcuna responsabilità amministrativa sul sindaco per fatto colpevole omissivo di terzi. Pertanto, in primo luogo, non vi è alcuna responsabilità del primo cittadino per la mancata apposizione del visto contabile sul decreto di nomina, poiché nessun parere avrebbe dovuto essere preventivamente rilasciato, non trattandosi di deliberazione di un organo collegiale ma di un decreto sindacale.
Inoltre, va rilevato in ogni caso che la mancanza del visto contabile e finanziario da parte del responsabile del servizio, si risolve nella mera attestazione della copertura finanziaria del provvedimento su cui viene apposto, ovvero sulla verifica dell'effettiva disponibilità delle risorse impegnate. Infatti, il parere contabile non investendo la preventiva valutazione di legittimità della presupposta decisione sindacale, una sua eventuale omessa apposizione -sempre che obbligatoria- non sarebbe comunque suscettibile di costituire, quanto meno ai fini dell'accertamento della responsabilità amministrativa, un fatto eziologicamente addebitabile al sindaco per fatto omissivo.
Né a miglior sorte può condurre a responsabilità sindacale la mancata successiva stipula del contratto, in quanto sia la stipula del contratto, sia l'adozione di ogni altro atto conseguenziale o esecutivo di detto decreto rientra nella competenza propria dei dirigenti o dei responsabili dei servizi (articolo 107, comma 3, del Tuel) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Danno all'immagine della PA, la sanzione al dipendente assenteista dev'essere proporzionata.
Per contrastare i furbetti del cartellino, la specifica (e rilevante) normativa sanzionatoria prevede la quantificazione del danno all'immagine accanto agli aspetti disciplinari della procedura che accelera il licenziamento. La mancanza di proporzionalità del danno all'immagine è questione sulla quale la magistratura contabile ha sollevato la questione di legittimità costituzionale (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 17.10.2018).

La Corte dei conti siciliana, invece, nella sentenza 27.03.2019 n. 213 ha preferito azzerare il danno all'immagine di un dipendente per le poche ore di violazione della propria presenza in ufficio, non essendo stata fornita puntuale dimostrazione del clamore mediatico necessario per la quantificazione equitativa del danno subito dall'ente.
La vicenda
Essendo stata accertata l'assenza ingiustificata, perché non autorizzata, di un dipendente comunale, il dirigente avviava la procedura del licenziamento senza preavviso con invio della documentazione alla competente procura della Corte dei conti. Il Pm contabile quantificava in 81,54 euro il danno erariale, corrispondente alle ore indebitamente fruite dal dipendente, e in circa 10mila euro il danno all'immagine, pari a sei mensilità dello stipendio del dipendente.
Nelle proprie memorie difensive, non accolte dal Pm, il dipendente ha evidenziato la sproporzione tra il danno delle ore addebitate e la quantificazione automatica del danno all'immagine, confutando la mancata dimostrazione del pregiudizio subito dall'ente, anche in termini di notizie mediatiche del tutto assenti nel caso di specie.
La posizione del Corte
La contestazione riguarda la nuova disposizione dell'articolo 55-quater del Dllgs n. 165/2001 che ha previsto, nei casi di assenteismo fraudolento «la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti entro 15 giorni dall'avvio del procedimento disciplinare», precisando, inoltre, che «la procura della Corte dei conti, quando ne ricorrono i presupposti, emette invito a dedurre per danno d'immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento».
La nuova norma ha anche stabilito che «l'ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia».
Il collegio contabile siciliano, tuttavia, contesta la legittimità della quantificazione automatica elaborata dalla procura, in quanto a fronte di 81,54 euro di danno erariale, corrispondenti alla falsa attestazione della propria presenza in servizio, il Pm non ha dimostrato il pregiudizio subito dall'ente, anzi, risulta che la vicenda non ha avuto alcuna diffusione mediatica.
Per il Collegio contabile, infatti, va accolta un'interpretazione che ammette una nozione unitaria del danno all'immagine come davvero compromettente la reputazione dell'ente danneggiato, ipotizzabile solo in presenza di una propagazione di notizie da cui sia potuto derivare uno scadimento dell'opinione pubblica sulla correttezza dell'operato delle amministrazioni, escludendo la presunzione di dannosità intrinseca o in re ipsa.
Ora, se tale non fosse la lettura, la medesima sarebbe censurabile sotto il profilo dell'esorbitanza dalla delega, dato che la legge 04.03.2009 n. 15 non contiene alcun principio che possa giustificare un simile intervento da parte del legislatore delegato.
Conclusioni
In conclusione, l'inserimento della quantificazione del danno in sei mensilità previsto dal legislatore, in conclusione, può solo considerarsi quale parametro utile alla quantificazione del danno che il legislatore ha inteso fornire, stante la natura estremamente astratta e intangibile del bene leso, per assicurare proporzionalità, certezza e omogeneità delle decisioni.
Il dipendente, pertanto, deve essere condannato per il solo danno erariale pari alle ore indebitamente percepite, senza addebito per danno all'immagine non essendo stato provato dalla procura (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019).

CONSIGLIERI COMUNALILa causa inutile arreca un danno erariale e nessuna utilità per l'Ente Locale.
Va condannato per danno erariale il sindaco di un comune che, anche nella qualità di Presidente del Consiglio comunale, pone in essere una condotta antigiuridica, consistente nel dichiarare nullo il voto di un consigliere comunale, con ciò determinando l’impugnazione della delibera comunale, annullata dal Tar con contestuale refusione delle spese processuali a carico del comune stesso.

Così si esprime la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Basilicata, con la sentenza 11.03.2019 n. 10.
Il fatto
La Procura Regionale del capoluogo lucano ha convenuto in giudizio il Presidente del consiglio comunale, per aver determinato l’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo, da parte di un consigliere comunale, di due deliberazioni.
Le delibere consiliari sono state impugnate perché il Presidente del Consiglio, ritenuto che il consigliere fosse in conflitto d’interesse, ha dichiarato la nullità del voto da questo espresso.
All’esito del contenzioso amministrativo, il Comune è stato condannato al pagamento delle spese processuali, cosa che poteva essere evitata, perché non compete al Presidente del Consiglio Comunale dichiarare la nullità di un voto espresso da un Consigliere Comunale. Il voto espresso dal Consigliere Comunale in conflitto d’interessi, infatti, può essere annullato soltanto dalla competente Autorità Giudiziaria.
Il pagamento delle spese processuali è stato considerato un inutile dispendio di risorse pubbliche, circostanza che ha determinato la condanna del Sindaco/Presidente del Consiglio Comunale.
La decisione
Per il collegio giudicante risulta evidente che il comune ha dovuto sostenere un esborso del tutto inutile: allo stesso, infatti, non corrisponde alcuna utilità né per l'ente né per la collettività amministrata; tale esborso costituisce danno erariale determinato dalle antigiuridiche e gravemente colpose condotte del Sindaco f.f., Presidente del Consiglio e Vice Sindaco.
Le condotte attuate sono state considerate antigiuridiche perché contrastanti con i compiti istituzionali e i doveri d'ufficio: - di responsabile dell'amministrazione del comune, di rappresentanza dell'ente, di direzione e coordinamento dell'attività politica amministrativa del comune nonché dell'attività della giunta, di sovrintendenza al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti, compiti e doveri allo stesso intestati, in qualità di Vice sindaco e Sindaco f.f., - di direzione delle sedute consiliari, di accertamento del relativo esito e di proclamazione del risultato della votazione, compiti e doveri allo stesso intestati in qualità di Presidente del Consiglio comunale.
Risulta, inoltre, dagli processuali, che le su indicate condotte del predetto responsabile sono state adottate anche in contrasto con l'espresso parere del segretario comunale e debbono considerarsi quanto meno gravemente colpose, in quanto connotate da inescusabile negligenza nell'adempimento dei doveri connessi all’ufficio pubblico (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.05.2019).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOComuni, contributi ai privati. Per realizzare interventi a beneficio della comunità. Per la Corte conti del Piemonte non conta la qualificazione soggettiva del beneficiario.
Un comune può erogare un contributo a un soggetto privato per un intervento di adeguamento della viabilità, destinato ad essere fruito dall'intera comunità.
La Corte dei conti, sez. reg. controllo Piemonte, con il parere 06.02.2019 n. 7 ha chiarito che qualunque genere di intervento di natura economica da parte dell'amministrazione comunale, per poter essere eventualmente qualificato in termini di legittimità, deve sottendere alla realizzazione di un significativo interesse proprio della comunità stanziata sul territorio, posto che il comune, per espressa disposizione legislativa (art. 3, comma 2, del dlgs n. 267/2000) è l'ente locale che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità.
Pertanto, se l'azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal comune, l'erogazione di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, e ciò in considerazione dell'utilità che l'ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo.
In ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo comunale, la Corte dei conti precisa che la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, se il criterio di orientamento è quello della necessità che l'attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell'ente pubblico, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità soggetti aventi natura privata e che nella stessa attività amministrativa la legge prevede che l'amministrazione agisca con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non vi sia l'obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico.
Il profilo di maggior interesse del particolare tipo di interazione si sostanzia peraltro nello sviluppo concreto del principio di sussidiarietà statuito dall'art. 118 della Costituzione.
La Corte dei conti rileva come l'amministrazione comunale abbia pieno interesse al fatto che gli edifici insistenti su pubblica via, o alla medesima adiacenti, esistenti sul proprio territorio siano mantenuti in piena efficienza o che in relazione agli stessi vengano garantite le necessarie esigenze di sicurezza della collettività locale.
L'amministrazione deve pertanto evidenziare i presupposti di fatto e l'iter logico alla base dell'erogazione a sostegno dell'attività svolta dal destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa delle prestazioni per la realizzazione dell'intervento, potendo peraltro disciplinare il rapporto nella prospettiva di un'azione coordinata al perseguimento delle finalità pubbliche nell'ambito di uno strumento quale una convenzione, regolante anche i relativi rapporti finanziari e le eventuali previsioni restitutorie.
Specifiche cautele dovranno essere adottate dal comune relativamente alla corretta e congrua attribuzione dei fondi pubblici, dovendosi prevedere nello stesso strumento convenzionale adeguate rendicontazioni sulle attività rese e sulle opere realizzate, sì di permettere il controllo da parte dell'ente locale sull'effettiva destinazione della spesa al fine pubblico per cui è stata sostenuta
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019).
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PARERE
Il Sindaco del Comune di Moriondo Torinese (TO)
, riproponendo un quesito, già sottoposto di recente alla Sezione Regionale di Controllo del Piemonte di questa Corte e dalla medesima dichiarato inammissibile con Deliberazione n. 132/2018, ha riformulato, attraverso l’istanza all’esame, la richiesta di parere in termini generali ed astratti.
Più precisamente, viene chiesto se sia “...lecita sotto il profilo contabile l’esecuzione di un’opera pubblica in forma diversa da quella canonica”, o meglio, a mezzo della richiesta di parere viene chiesto di precisare se sia lecita l’attribuzione di un contributo pubblico a privati al fine di conseguire “...l’adattamento ad esigenze di viabilità di immobile adiacente a pubblica via”, con la precisazione che detto intervento verrebbe eseguito a cura del soggetto privato affidatario dell’incarico sotto la supervisione della parte pubblica.
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Il quesito, riproposto dall’Ente interessato, concerne la problematica della eventuale destinazione di fondi comunali, sotto forma di contributo pubblico, a sostegno di interventi su beni di proprietà di un soggetto giuridico diverso –segnatamente, privato– riferendosi il quesito ad immobili privati, adiacenti a pubblica via, che necessitino di interventi funzionali ad esigenze di sicurezza della viabilità.
La Sezione ritiene di ribadire (v., Sez. Controllo Piemonte, parere 23.03.2018 n. 30) che qualunque genere di intervento di natura economica da parte dell’amministrazione comunale, per poter essere eventualmente qualificato in termini di legittimità, debba necessariamente sottendere alla realizzazione di un significativo interesse proprio della comunità stanziata sul territorio, posto che il Comune, per espressa disposizione legislativa (art. 3, co. 2, D.lgs. n. 267/2000) è l'ente locale che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità. A tal fine, il Comune, dovendo in via generale realizzare gli interessi della collettività locale, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 267/2000, esercita tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, in particolare nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio nonché dello sviluppo economico e della sicurezza.
Al riguardo, va osservato che
la giurisprudenza contabile, nell’esercizio della propria funzione consultiva, ha elaborato da tempo il principio generale per cui se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (come tali generalmente ammissibili), l’erogazione di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, e ciò “…in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (v., ex multis, Corte conti, Sez. Controllo Lombardia 13.12.2007, n. 59; id, parere 31.05.2012 n. 262).
Di modo che compete esclusivamente all’Ente valutare, nell’esercizio della propria discrezionalità, se la spesa, oltre che finanziariamente sostenibile, possa effettivamente corrispondere, in concreto, al perseguimento di un interesse pubblico affidato alle proprie cure.
Inoltre, anche in ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo comunale, la medesima giurisprudenza ha precisato che
la natura pubblica o privata del soggetto, che riceve l’attribuzione patrimoniale, è indifferente se il criterio di orientamento è quello della necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa amministrazione pubblica opera ormai utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata e che nella stessa attività amministrativa la legge di disciplina del procedimento amministrativo (L. n. 241/1990, come modificata dalla L. n. 15/2005), prevede che l’amministrazione agisca con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico (Corte conti, Sez. Contr. Lombardia, 13.01.2010 n. 1; id. parere 31.05.2012 n. 262; Corte conti, Sez. Contr. Piemonte, parere 19.02.2014 n. 36).
Sotto il richiamato profilo, in base alle norme ed ai principi della contabilità pubblica,
non solo non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove le stesse siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali ma l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
E’ stato altresì precisato che
ogniqualvolta l’amministrazione ricorra a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosca loro benefici di natura patrimoniale (come nella forma della contribuzione) ovviamente le cautele debbono essere maggiori –rispetto ai casi in cui vengano in rilievo enti pubblici- anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa (Corte conti, Sez. Contr. Lombardia, parere 11.09.2015 n. 279).
Ne discende che sotto il profilo della liceità da un punto di vista contabile dell’esecuzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità
il discrimine circa il corretto impiego delle risorse pubbliche risulta condizionato dall’effettivo perseguimento e realizzazione di un interesse pubblico (comunque riferibile all’ente pubblico interessato) a prescindere dal formale soggetto destinatario in via diretta dell’attribuzione patrimoniale.
In tale contesto non sembra revocabile in dubbio che l’amministrazione comunale sia interessata al fatto che gli edifici insistenti su pubblica via, o alla medesima adiacenti, esistenti sul proprio territorio siano mantenuti in piena efficienza e/o che in relazione agli stessi vengano garantite le necessarie esigenze di sicurezza della collettività locale.
In situazioni peculiari, l’ente locale, al fine di realizzare gli interventi oggetto del quesito, piuttosto che procedere direttamente con il ricorso a strumenti pubblicistici, può agire, in via mediata, per il tramite di soggetti privati destinatari di risorse pubbliche, rappresentando la stessa una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico.
In siffatta ipotesi l’eventuale intervento economico del Comune destinato a finanziare lavori manutentivi e/o di adeguamento per le finalità rappresentate su beni di proprietà di altro soggetto (peraltro, privato), deve, comunque, si ribadisce, trovare puntuale giustificazione nella dimostrazione del perseguimento di un inequivoco e indifferibile interesse della comunità locale.
Il necessario profilo teleologico, idoneo ad escludere la concessione di contributi dal divieto di spese per sponsorizzazioni (come noto interdetto alle amministrazioni pubbliche, v., art. 6, comma 9, del decreto legge 31.05.2010, n. 78, e art. 4, comma 6, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 135), deve essere palesato dall’ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
L’Amministrazione avrà cura di evidenziare i presupposti di fatto e l’iter logico alla base dell’erogazione a sostegno dell’attività svolta dal destinatario del contributo, nonché il rispetto dei criteri di efficacia, efficienza ed economicità delle modalità prescelte di resa del servizio.
D’altro canto una siffatta tipologia di intervento potrebbe essere disciplinata tra i soggetti interessati in virtù di un’azione coordinata nell’ambito di uno strumento quale una convenzione, regolante altresì i relativi rapporti finanziari e le eventuali previsioni restitutorie.
E’ necessario, comunque, sottolineare che simile convenzione, da stipularsi tra ente pubblico e privato, debba evidenziare le finalità pubbliche perseguite e le modalità di destinazione ad uso pubblico del bene oggetto dell’intervento.
Altrettante cautele dovranno essere adottate dal Comune relativamente alla corretta e congrua attribuzione dei fondi pubblici, dovendosi prevedere convenzionalmente adeguate rendicontazioni sul servizio reso e/o sulle opere realizzate, al fine di permettere il controllo da parte dell’Ente locale sull’effettiva destinazione della spesa al fine pubblico per cui è stata sostenuta.
Sulla base di quanto premesso, competerà all’amministrazione comunale procedere ad effettuare tutte le valutazioni discrezionali di propria spettanza quale ente esponenziale della collettività insediata sul territorio.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALe ipotesi di scomputo degli oneri di urbanizzazione e di esonero del costo di costruzione devono considerarsi tassative e di stretta interpretazione perché derogatorie alla regola della normale onerosità del permesso a costruire che costituisce principio fondamentale della normativa di settore.
La possibilità di scomputare dalle opere di urbanizzazione, realizzate dal privato, l'importo dei relativi oneri anche quando le suddette opere vengano realizzate su beni privati e non si preveda il relativo trasferimento a titolo gratuito in favore dell'Ente, va esclusa sulla base dell'interpretazione letterale, ex art. 12 delle Preleggi, dell'art. 16 del D.P.R. 380 del 2001 ed s.m.i. (Testo Unico edilizia).
L'espressione "conseguente acquisizione delle opere al patrimonio indisponibile del Comune" ed in particolare l'impiego del sostantivo "acquisizione" nella formulazione dell'art. 16 sopra richiamato, evoca chiaramente il concetto di proprietà.
Limitare la possibilità di scomputo degli oneri di urbanizzazione dalle relative opere realizzate dal privato alle sole ipotesi del trasferimento in proprietà delle stesse è l'unica modalità che garantisce l'effettiva funzionalizzazione del bene all'interesse pubblico e ne preserva la natura pubblica.
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La L.r. n. 56 del 05.12.1977 e ss.mm.ii. all'art. 21, comma 4, non contempla la previsione di casi speciali di esoneri e/o esenzioni dal pagamento degli oneri in relazione ad opere di urbanizzazione, realizzate su suoli privati, ancorché destinate in perpetuo all'uso pubblico.
Né è possibile, al fine di introdurre ulteriori ipotesi di scomputo, non contemplate dalla Legge, prendere in considerazione un ipotetico ed ingiustificato arricchimento dell'Ente ai danni del privato per l'ipotesi in cui non si riconosca il beneficio dello scomputo a fronte di opere realizzate sulla proprietà privata, ancorché assoggettate in via permanente all'uso pubblico.
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Con nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Novara, dopo un breve excursus normativo in ordine alla fattispecie delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione ha chiesto alla Sezione di pronunciarsi in ordine al quesito di seguito riportato: “se la possibilità di scomputare gli importi relativi all’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione da quanto dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione possa essere sempre accordata, anche quando dette opere ricadano su aree solo assoggettate all’uso pubblico o se per contro il mancato scomputo di detti importi nei suddetti casi possa configurarsi come indebito arricchimento da parte dell’Ente”.
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In via preliminare, la Sezione precisa che le scelte relative alle concrete modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione, al riconoscimento dell’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione come pure il regime dominicale loro impresso dalla convenzione urbanistica, spettano, in concreto, all’Ente, quali scelte di amministrazione attiva.
Ciò premesso, la richiesta in esame attiene sostanzialmente all’interpretazione delle previsioni normative che regolamentano la possibilità, per il privato, di realizzare opere di urbanizzazione in luogo del pagamento dei relativi oneri anche allorquando le suddette opere vengano realizzate su beni privati e non si preveda il relativo trasferimento a titolo gratuito in favore dell’Ente.
Al fine di inquadrare compiutamente la tematica, questa Sezione ritiene utile procedere ad un seppur sintetico excursus normativo in materia di oneri di urbanizzazione tracciando le linee distintive tra questi ed il “contributo di costruzione” talvolta adoperati come sinonimi anche se profondamente diversi.
La legge 06.08.1967 n. 765 c.d. “legge - Ponte” ha previsto per la prima volta nell’ordinamento il principio della normale onerosità del permesso a costruire (rectius licenza urbanistica) secondo cui l’obbligo ed il costo di realizzazione delle infrastrutture dell’intervento edificatorio spetta ai soggetti attuatori. L’art. 31 della l. n. 1150/1942, come modificato dalla richiamata Legge Ponte, ha poi previsto che il rilascio del titolo abilitativo edilizio dovesse essere subordinato alla presenza dell’urbanizzazione primaria o, comunque, all’impegno del proprietario a realizzarla contemporaneamente all’intervento costruttivo.
Con tale previsione normativa è stato introdotto l’obbligo, a carico dell’attuatore, di cedere gratuitamente al Comune le aree destinate alle opere di urbanizzazione.
Infine l'art. 1 della legge n. 10 del 1977, a chiusura del sistema, ha normato il principio fondamentale in base al quale ogni attività comportante trasformazione urbanistico/edilizia del territorio partecipa agli oneri da essa derivanti.
Il testo Unico delle norme in materia edilizia, approvato con d.p.r. n. 380/2001 ha conferito maggiore sistematicità alla materia.
L’art. 16 del T.U. 380 del 2001 rubricato come “Contributo per il rilascio del permesso di costruire” prevede, come sopra affermato, che il rilascio del permesso a costruire “Salvo quanto disposto all'articolo 17, comma 3” obblighi al pagamento di un contributo “commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione” .
Gli oneri di urbanizzazione si sostanziano in una prestazione patrimoniale di diritto pubblico non avente natura tributaria posta a carico del privato. Tali oneri, determinati in misura corrispondente all’entità ed alla qualità delle opere di urbanizzazione necessarie ed in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne trae, rappresentano il corrispettivo previsto in favore del Comune (ex multis Cons. Stato, sez. V 20.04.2009 n. 2359).
La quota di contributo per costo di costruzione, invece, non presenta natura corrispettiva, configurandosi come prestazione tributaria (cfr. Cass., Sez. I 27.09.1994 n. 7874). Tale quota è rapportata alle caratteristiche e alla tipologia delle singole costruzioni, riguarda esclusivamente l'attività edificatoria in sé, non avendo in alcun modo una funzione recuperatoria delle spese sostenute dalla collettività comunale per le trasformazioni del territorio su cui insiste. Il criterio di riferimento è quindi la specifica “produzione di ricchezza connessa all’uso edificatorio del territorio e delle potenzialità economiche che ne derivano” (cfr. TAR Liguria, sez. I, 28.03.2013 n. 552).
Il Giudice amministrativo in due recenti interventi nomofilattici ha affermato che il contributo per il permesso a costruire, articolato nelle due differenti voci —oneri di urbanizzazione e costo di costruzione— rappresenta la compartecipazione del singolo alla spesa pubblica necessaria alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, individuandone la ratio nel “surplus di opere di urbanizzazione che l'amministrazione comunale è tenuta ad affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del richiedente il titolo edilizio”, riconducendolo quindi al novero delle prestazioni patrimoniali imposte ex art. 23 Cost. (cfr. Ad. Plen. 30.08.2018, n. 12 e 07.12.2016, n. 24).
La partecipazione del privato, titolare del permesso a costruire, a tali spese, si sostanzia dunque nell’assunzione di una parte dei costi della vocazione edificatoria impressa al territorio e trova giustificazione nel beneficio, economicamente rilevante in termini di valore del suolo, che il privato medesimo riceve per effetto della concreta attuabilità del progetto di costruzione. ( cfr. ex multis TAR Liguria n. 955 del 2016).
L’art. 16 del richiamato testo normativo ha poi confermato la possibilità per il privato di obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con relativo scomputo, parziale o totale degli oneri prevedendo, altresì la “
conseguente acquisizione delle opere al patrimonio indisponibile del Comune”.
Da tali previsioni vanno, invece, tenute distinte, le ipotesi di esonero dal pagamento del costo di costruzione (componente anch’essa del contributo per il rilascio del permesso a costruire), di cui all’art. 17 del D.P.R. 380 del 2001 s.m.i. che, in particolare al terzo comma, dispone la non debenza del contributo di costruzione in relazione agli “impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Orbene venendo ora all’esame, più nello specifico, del quesito formulato dal Comune istante questo Collegio, facendo ricorso al criterio letterale quale regola ermeneutica primaria, ex art 12 delle Preleggi, ritiene che l’espressione “
conseguente acquisizione delle opere al patrimonio indisponibile del Comune” ed in particolare l’impiego del sostantivo “acquisizione” nella formulazione dell’art. 16 evochi chiaramente il concetto di proprietà. Ad avviso della Sezione il Legislatore ha inteso limitare l’operatività dello scomputo degli oneri all’ipotesi del trasferimento in proprietà delle opere di urbanizzazione in quanto unica modalità in grado di garantire l’effettiva funzionalizzazione del bene all’interesse pubblico ed a preservarne la natura pubblica (cfr. Cass. sez. I, sentenza 25.07.2016 n. 1534).
Con riferimento invece al costo di costruzione di cui all’art. 17 sopra citato, questa Corte ha già avuto modo di affermare (sezione controllo per la Lombardia
parere 09.10.2009 n. 783; Lombardia parere 21.02.2011 n. 91), la necessaria sussistenza di due requisiti concorrenti, uno oggettivo e l’altro soggettivo. Per effetto del primo la costruzione deve riguardare “opere pubbliche o d’interesse generale”; per effetto del secondo le opere devono essere eseguite da “un ente istituzionalmente competente”.
Anche la giurisprudenza amministrativa in considerazione dell’espressione utilizzata dal Legislatore "opere di urbanizzazione eseguite in attuazione di strumenti urbanistici" ha più volte ribadito che la fattispecie di esonero dal contributo di costruzione ricorre quando l’opera sia non solo conforme agli strumenti urbanistici ma sia da questi espressamente contemplata(in tal senso C.d.S., sez. V, 10.05.1999, n. 536; C.d.S., sez. V, 21.01.1997, n. 69; C.d.S., sez. V, 01.06.1992, n. 489).
La ratio della “gratuità” in termini di contributi di costruzione è “quella di incentivare solo la dotazione di quelle infrastrutture che danno ordinata e coerente attuazione alle previsioni urbanistiche espressamente previste dall’Autorità comunale”. Pertanto affinché possa qualificarsi un intervento come “opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di strumenti urbanistici” è necessario che, oltre a potersi qualificare opera di urbanizzazione, sia specificamente indicata nello strumento urbanistico, corrispondendo ad una precisa indicazione dello stesso (TAR Lombardia -Sez. Brescia- n. 163/2005).
Infine, la normativa regionale richiamata dall’Amministrazione istante, L.r. n. 56 del 05.12.1977 e ss.mm.ii. all’art. 21, comma 4, prevede che ai fini del computo degli standards si tenga conto oltre che delle superfici delle quali sia prevista l’acquisizione da parte della p.a. anche di quelle private per le quali sia previsto l’assoggettamento permanente ad uso pubblico disciplinato con convenzione.
Neppure la disposizione regionale, invero, consente di fornire una risposta positiva alla richiesta dell'Amministrazione, non essendo ivi contemplata la previsione di casi speciali di esoneri e/o esenzioni dal pagamento degli oneri in relazione ad opere di urbanizzazione, realizzate su suoli privati, ancorché destinate in perpetuo all’uso pubblico.
D’altronde, le ipotesi di scomputo e di esonero, passate in rassegna, anche ad avviso della giurisprudenza amministrativa, devono considerarsi tassative e di stretta interpretazione proprio perché derogatorie rispetto alla regola della normale onerosità del permesso a costruire (cfr. tra le molte, Consiglio di Stato IV sez. n. 2754 del 2012) che costituisce principio fondamentale della normativa di settore (cfr. Corte cost. 03.11.2016 n. 231).
Né è possibile, al fine di introdurre ulteriori ipotesi di scomputo, non contemplate dalla Legge, prendere in considerazione un ipotetico ed ingiustificato arricchimento dell’Ente ai danni del privato per l’ipotesi in cui non si riconosca il beneficio dello scomputo a fronte di opere realizzate sulla proprietà privata, ancorché assoggettate in via permanente all’uso pubblico.
Ciò ancor più se si tiene conto che le spese di manutenzione delle opere e delle aree destinate all’uso pubblico, asseritamente ritenute a carico del privato nella richiesta di parere, gravano, al contrario, normalmente sulla P.A. ai sensi dell’art. 1069 c.c. in quanto titolare della servitù perpetua di uso pubblico, salvo che sia diversamente stabilito dal titolo o dalla Legge (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 22.01.2019 n. 5).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuova posizione organizzativa e impossibilità di superare il limite.
A fronte dell'assunzione di un dipendente al quale affidare la responsabilità di un settore, l'ente può riconoscere la retribuzione di posizione e di risultato se questo causa lo sforamento del limite previsto dalla norma ancorato all'anno 2016?
L'importo relativo alla retribuzione di posizione e di risultato da attribuire alla nuova assunzione può essere escluso da quello complessivo del salario accessorio di competenza dei dipendenti in servizio prima della «nuova assunzione»?

Con il parere 25.10.2018 n. 293 la Corte dei conti della Lombardia ritiene irrilevante il fatto che il trattamento accessorio si riferisca a una nuova assunzione, in quanto la norma non consente distinzione di sorta, ma indica soltanto un limite finanziario che non deve essere superato.
Pertanto, il collegio conferma l'orientamento secondo cui le risorse destinate a remunerare le indennità, di posizione e risultato, spettanti ai titolari di posizione organizzativa, anche dopo l'aggiornamento dei valori minimi e massimi contenuto nell'articolo 15, comma 2, del Ccnl del 21.05.2018, devono complessivamente osservare, sommate alle risorse confluenti nei fondi per la contrattazione integrativa, il limite di finanza pubblica posto dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
Come è stato precisato, peraltro, dall'articolo 67, comma 7, dello stesso Ccnl (salve le facoltà di rimodulazione, a invarianza complessiva di spesa, previste dagli articoli 15, comma 7, e 7, comma 4, lettera u) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.11.2018).
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PARERE
Il Sindaco del Comune di Barni (CO) con la nota sopraindicata ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto la disciplina relativa ai limiti finanziari della spesa inerente le posizioni organizzative in un comune di piccole dimensioni (popolazione inferiore a 1000 abitanti) Premette che, nell'anno 2011, un dipendente del Comune è cessato dal servizio per pensionamento e l’amministrazione non ha provveduto alla sua sostituzione, ma ha garantito l’espletamento del relativo servizio affidando la responsabilità di tutti i servizi all’unico dipendente presente nell’Ente.
Il pensionamento del dipendente è avvento nel contesto della dichiarazione di dissesto finanziario, la cui procedura si è conclusa nel 2016 con l’estinzione di tutti i debiti. Soltanto recentemente l’amministrazione ha potuto procedere all’assunzione del dipendente (in sostituzione di quello collocato in quiescenza) cui l’amministrazione intende affidare la responsabilità del servizio finanziario attribuendo al medesimo la relativa indennità contrattualmente prevista.
Ciò posto l’Istante chiede se occorre rispettare il disposto dell’art 23 della legge 75/2017 che sancisce il divieto di superamento del fondo accessorio previsto per il personale nel 2016 ovvero se ”l'importo relativo alla retribuzione di posizione e di risultato da attribuire alla nuova assunzione possa essere escluso dall'importo complessivo del salario accessorio di competenza dei dipendenti in servizio prima della "nuova assunzione”, e ritiene che qualora non fosse possibile escludere dal salario accessorio complessivo quanto necessario per compensare le responsabilità del nuovo assunto titolare di posizione organizzativa sarebbe vanificato il merito di chi svolge un ruolo avente funzione dirigenziale senza poter remunerare quella posizione e penalizzando il dipendente di quell’amministrazione che per scelte gestionali non ha proceduto ad assumere personale negli anni precedenti".
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Questa sezione della Corte de Conti, si è già espressa su questione analoga ed in particolare con il parere 02.07.2018 n. 200 ha formulato il proprio orientamento dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, pur comprendendo le osservazioni del Sindaco in ordine alle criticità di talune conseguenze che l’interpretazione della norma comporta, soprattutto nei piccoli comuni stante l’esiguità del fondo.
Infatti, l’Istante riferisce che se non sarà possibile escludere dal computo della spesa complessiva del trattamento accessorio per il personale sostenuta nel 2016 quella necessaria per finanziare l’indennità di posizione del neoassunto, sarà necessario operare riduzioni di altre indennità o di altre voci del fondo deputato al trattamento accessorio, con pregiudizio della remunerazione che deve premiare il merito di chi assume responsabilità di gestione.
Il tenore letterale della norma non consente, tuttavia, un’interpretazione diversa da quella già espressa con il parere 02.07.2018 n. 200 ossia che ai sensi del comma 2 dell’art. 23 del decreto legislativo 75/2017 stabilisce che “
…, a decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. …”.
Questa Sezione, con parere 02.07.2018 n. 200, si è già pronunciata sulla questione stabilendo che “
le risorse destinate a remunerare le indennità, di posizione e risultato, spettanti ai titolari di posizione organizzativa, anche dopo l’aggiornamento dei valori minimi e massimi contenuto nell’art. 15, comma 2, del CCNL Funzioni locali del 21.05.2018, debbano complessivamente osservare, sommate alle risorse confluenti nei fondi per la contrattazione integrativa, di cui all’art. 67 del medesimo CCNL, il limite di finanza pubblica posto dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, come, peraltro, precisato dall’art. 67, comma 7, del ridetto CCNL (salve le facoltà di rimodulazione, ad invarianza complessiva di spesa, previste dagli artt. 15, comma 7, e 7, comma 4, lett. u)”.
Nel dare risposta negativa al quesito si evidenzia che
è irrilevante ai fini del rispetto della disposizione sopra citata il fatto che il trattamento accessorio si riferisca ad una nuova assunzione in quanto la norma non consente distinzione di sorta, ma indica soltanto un limite finanziario che non deve essere superato e pertanto, questa Sezione conferma l’orientamento già espresso rinviando alle motivazioni contenute nel parere 02.07.2018 n. 200.

EDILIZIA PRIVATA: Gli oneri relativi al trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi di cui all'art. 19 T.U. Edilizia devono ascriversi alla categoria dei "corrispettivi di diritto pubblico".
Ne deriva che essi hanno natura di entrata di parte capitale ordinariamente utilizzabili solo per spese di investimento, salvo eccezione di legge.
Eccezione che per gli anni 2016 e 2017 è costituita dalla legge n. 208/2015, in base alla quale i proventi delle concessioni edilizie possono essere impiegati per una quota pari al 100% per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche.
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Il Sindaco del Comune di Landriano (PV) –premesso:
   che, a norma dell’art. 43 L. R. n. 12 del 11.03.2005, i titoli abilitativi per interventi di nuova costruzione, ampliamento di edifici esistenti e ristrutturazione edilizia sono soggetti alla corresponsione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, nonché del contributo sul costo di costruzione; che l’art. 19 del T.U. Edilizia prevede, inoltre, che il permesso di costruire relativo a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi comporta anche la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi;
   che il contributo di costruzione è costituito da due differenti voci e cioè: gli oneri di urbanizzazione (suddivisi in primari e secondari) e il contributo per il costo di costruzione;
   che quest’ultimo sarebbe sostituito, nel caso degli insediamenti produttivi, da una ulteriore quota di oneri relativi al trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi; che l’art. 1, comma 737, legge 208 del 2015 ha disposto che: “per gli anni 2016 e 2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, fatta eccezione per le sanzioni di cui all’articolo 31, comma 4-bis, del medesimo testo unico, possono essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche”;
   che codesta Corte, con parere numero 38/2016, reso nella seduta del 19.01.2016, ha chiarito che: “quanto invece alle entrate connesse al versamento dei contributi sul costo di costruzione, la natura tributaria delle stesse le fa invece necessariamente riconfluire, come già rilevato da questa Sezione nella deliberazione n. 1/pareri/2014, nel totale delle entrate che, come tali, in virtù del principio di unità di bilancio finiscono con l’essere destinate al finanziamento del totale delle spese”;–
ha chiesto alla Sezione conferma della possibilità dell’utilizzo delle quote di oneri relativi al trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi per il finanziamento delle spese correnti, senza particolari vincoli di destinazione
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In via preliminare, la Sezione precisa che la decisione di procedere ad una determinata spesa attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra, pertanto, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente; spetta altresì all’ente procedere alle attività amministrative e giuscontabili conseguenti alla qualificazione della spesa, oggetto del presente parere.
In generale, si osserva che l’allocazione in bilancio e la conseguente corretta utilizzazione delle entrate derivanti dai contributi per permesso di costruire è stata oggetto di ripetute modifiche da parte del legislatore, nonché di ripetute interpretazioni da parte delle Sezioni regionali di controllo di questa Corte.
Al riguardo, può rammentarsi che prima dell’attuale “contributo per permesso di costruire”, i Comuni riscuotevano gli “oneri di urbanizzazione” previsti dalla legge n. 10 del 1977, che subordinava la concessione edilizia alla corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione (art. 3).
In tale contesto, i proventi delle concessioni erano espressamente destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché, nel limite massimo del 30 per cento, a spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale (art. 12, come modificato dall’art. 16-bis del decreto legge n. 318 del 1986, convertito con modificazioni dalla legge n. 488 del 1986).
In seguito, il d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), nel ridisciplinare interamente la materia, ha al contempo introdotto il contributo per il rilascio del permesso di costruire, commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione (art. 16, comma 1).
In riferimento a tale novella, si è consolidata la tesi (Sezione regionale di controllo per la Basilicata, deliberazione 27.11.2013 n. 123); Sezione controllo Piemonte, parere 10.05.2013 n. 168), già condivisa da questa Sezione (parere 09.02.2016 n. 38), che l’intervento normativo organico di settore, rappresentato dal testo unico, ha determinato la tacita abrogazione –in via consequenziale– oltre che del citato disposto della legge 10/1978, anche dell’art. 49, comma 7, legge n. 449 del 1997, in base al quale i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni potevano essere destinati anche al finanziamento di spese di manutenzione del patrimonio comunale.
Come già evidenziato da questa sezione (parere 09.02.2016 n. 38), ciò ha determinato l’ulteriore effetto, in mancanza di una diversa ed espressa previsione di legge, del venir meno dei relativi vincoli e facoltà, stabiliti dalle norme abrogate, di destinazione dei proventi riscossi a titolo di contributi per il rilascio del permesso di costruire.
In conseguenza del venir meno di un’espressa destinazione, s’era in quel contesto sottolineato che l’entrata derivante dal rilascio dei permessi di costruire finisse per confluire nel totale delle entrate – ed in particolare, s’è ritenuto, in quelle di natura tributaria – che intrinsecamente sono destinate a finanziare il totale delle spese, secondo il principio dell’unità di bilancio (art. 162, comma 2, T.U.E.L.), con l’ulteriore conseguenza della riallocazione di queste risorse, in considerazione del venir meno del predetto vincolo legislativo di destinazione di cui all’art. 12, legge n. 10 del 1977 e ss.mm.ii., tra quelle che contribuiscono complessivamente a determinare gli equilibri di bilancio ex art. 193, comma 3, T.U.E.L. (cfr. ancora questa Sezione, deliberazione 1/parere/2004; cfr. altresì la circolare della Ragioneria Generale dello Stato 07.04.2004, n. 39656 ed il Principio contabile n. 2, par. 20, dei “Principi contabili per gli Enti locali” elaborati nel 2004, principio che ha ritenuto detta entrata ascrivibile al Titolo I dell’Entrata, cioè alle entrate tributarie).
Tale approdo, riportato anche dal Comune nella parte motiva della richiesta di parere, deve tuttavia essere ulteriormente precisato nei termini già espressi dal parere 09.02.2016 n. 38.
Invero, se tale allocazione da un lato, in quel medesimo contesto, ha portato a considerare astrattamente l’entrata come liberamente disponibile per il finanziamento (anche) di spese correnti, dall’altro, essa non ha fatto venir meno la natura intrinsecamente aleatoria e irripetibile della risorsa stessa, natura che trova una conferma nella specifica forma di accertamento per essa prevista dei Principi contabili del 2004 (accertamento effettuato sulla base degli introiti effettivi); pertanto, tale risorsa, anche nel sistema derivante dall’entrata in vigore del d.P.R. n. 380 del 2001, non avrebbe comunque potuto essere destinata a finanziare spese correnti consolidate e ripetibili, come ripetutamente rilevato anche da questa Sezione (v. sul punto, le deliberazioni nn. 382/2015/PRSE; 360/2015/PRSE; 160/2015/PRSE; 155/2015/PRSE; 152/2015/PRSE).
In materia, il legislatore è successivamente intervenuto con disposizioni aventi un’efficacia temporalmente limitata, al fine di introdurre facoltà e limiti all’utilizzo di proventi delle concessioni edilizie, da ultimo con la legge 208/2005, di cui si dirà oltre.
In assenza di una normazione specifica, quale quella da ultimo citata, valgono invece i principi generali innanzi esposti così come ulteriormente precisati dal parere 09.02.2016 n. 38, che il Comune ha citato solo parzialmente e che la Sezione intende confermare.
Quest’ultima delibera, infatti, ha declinato in maniera più analitica il principio generale innanzi ricordato, a seconda delle diverse componenti in cui concretamente si articola l’entrata derivante dal rilascio dei permessi di costruire.
Giova, pertanto, ripercorrere seppur per sommi capi quanto già espresso nella citata precedente deliberazione, sulla base delle cui conclusioni deve darsi risposta anche al quesito specifico oggetto del presente parere.
Più precisamente, secondo quanto già affermato da questa Corte (v. Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 22.04.2015 n. 219) –peraltro sulla scorta anche dell’ampia giurisprudenza amministrativa resa in materia (v. in generale TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.05.2014, n. 464; Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160; TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 25.03.2011, n. 469; Consiglio di Stato, sez. V, 23.01.2006, n. 159)– deve essere sottolineato che il contributo collegato all’assentimento dell’attività edilizia si compone di due distinti elementi: uno, di natura contributiva, afferente alle spese per l’urbanizzazione del territorio, e che costituisce pertanto una modalità di concorso del privato agli “oneri sociali” derivanti dall’incremento del carico urbanistico (oneri di urbanizzazione in senso stretto); l’altro, di natura impositiva, conseguente invece all’aumento della capacità contributiva del titolare dell’opera, in ragione dell’incremento, in virtù dell’assentimento dell’attività edilizia, del patrimonio immobiliare detenuto da tale soggetto (contributo di costruzione).
Quest’ultimo consiste in una prestazione patrimoniale ascrivibile alla categoria dei tributi locali, in quanto il prelievo non si basa, come nel caso degli oneri di urbanizzazione, sui costi collettivi derivanti dall’insediamento di un nuovo edificio, ma sull’incremento di ricchezza immobiliare determinato dall’intervento edilizio stesso. Gli oneri propriamente di urbanizzazione sono invece ascrivibili alla categoria dei “corrispettivi di diritto pubblico” e sono, conseguentemente, dovuti in ragione dell’obbligo del privato di partecipare ai costi delle opere di trasformazione del territorio di cui in definitiva si giova.
Tale natura “corrispettiva” emerge con evidenza da più indici normativi, sia derivanti dalla possibilità di scomputare le opere pubbliche realizzate dal privato dagli oneri dovuti, sia connessi alla possibilità di escludere specifiche attività edilizie, in determinate ipotesi, dal versamento dal contributo sul costo di costruzione, ma non dal versamento degli oneri di urbanizzazione (v. le ipotesi contemplate dagli artt. 17 e 18, da un lato, e dall’art. 19, dall’altro, del d.P.R. n. 380 del 2001; cfr. altresì l’art. 43, comma 2-ter, legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005).
Pertanto, quanto alla corretta allocazione in bilancio e utilizzazione di dette risorse, in generale e sul presupposto dell’assenza di specifiche normative applicabili, non può che muoversi dal riconoscimento di tale natura duale dell’entrata, peraltro affermata, nell’ambito dell’armonizzazione, anche dal principio 3.11. dell’Allegato 4/2 al decreto legislativo n. 118 del 2011, come modificato dal decreto legislativo n. 126 del 2014, il quale correttamente evidenzia che “l’obbligazione per i permessi di costruire è articolata in due quote”: “la prima (oneri di urbanizzazione) è immediatamente esigibile, ed è collegata al rilascio del permesso al soggetto richiedente, salva la possibilità di rateizzazione (eventualmente garantita da fidejussione), la seconda (costo di costruzione) è esigibile nel corso dell'opera ed, in ogni caso, entro 60 giorni dalla conclusione dell'opera medesima”, con le relative conseguenze in tema d’accertamento ed imputazione.
Alla luce di tale considerazione, si deve conseguentemente rilevare che le entrate connesse al versamento degli oneri di urbanizzazione hanno necessariamente natura di entrate di parte capitale, derivando in definitiva dal “consumo” del suolo, cioè dall’irreversibile (almeno in linea tendenziale) impiego di un bene pubblico, ed essendo intrinsecamente destinate alla realizzazione di opere, volte al razionale e salubre impiego dello stesso, destinate comunque ad incrementare il “patrimonio immobiliare” dell’ente, sub specie di realizzazione (diretta o indiretta) di beni rientranti nelle categorie, a seconda delle evenienze, del demanio (ad es. strade, piazze, acquedotti, v. gli artt. 822, secondo comma, e 824 c.c.), o del patrimonio indisponibile (v. al riguardo l’art. 826, terzo comma, c.c.).
In tali ipotesi, infatti, si verte nell’ambito di entrate naturalmente destinate all’incremento dei beni annoverabili nel “patrimonio” latamente inteso dell’ente e che, come tali, devono essere rappresentate nel bilancio; in particolare, la naturale allocazione di tali entrate è, dunque, tra le risorse di parte capitale, ordinariamente utilizzabili solo per spese di investimento, salvo le eccezioni di legge (art. 162, comma 6, T.U.E.L.; v. per la nozione d’investimento l’art. 3, comma 18, legge n. 350 del 2003). Quanto, invece, alle entrate connesse al versamento dei contributi sul costo di costruzione, la natura tributaria delle stesse le fa invece necessariamente confluire, come già rilevato da questa Sezione nella deliberazione n. 1/pareri/2014, nel totale delle entrate che, come tali, in virtù del principio dell’unità di bilancio (art. 162, comma 2, T.U.E.L.), finiscono coll’esser destinate a finanziare il totale delle spese.
E’ alla luce delle coordinate ermeneutiche innanzi esposte, che deve trovare risposta il quesito concretamente posto dal Comune di Landriano relativo alla possibilità dell’utilizzo delle quote di oneri relativi al trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi (onere c.d. ecologico) per il finanziamento delle spese correnti, senza particolari vincoli di destinazione.
Invero, la soluzione non può che dipendere dalla natura che si intende riconoscere a detti oneri: tributaria, come parrebbe implicitamente presupporre il Comune; ovvero di “corrispettivo pubblico” nel senso innanzi precisato.
Già l’art 10, primo comma, legge 28.01.1977 n. 10 prevedeva che l’onere contributivo dovuto per il rilascio della concessione edilizia relativa ad opere o impianti non destinati alla residenza va commisurato, oltre che in relazione all’incidenza delle opere di urbanizzazione, a quella delle opere “necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi” ed a quelle “necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche”.
Tale previsione trova oggi confermata nell’art. 19, T.U. 380/2001, rubricato “Contributo di costruzione per opere o impianti non destinati alla residenza”.
Se ne deduce che l’onere c.d. ecologico grava solo sugli insediamenti di tipo industriale per il maggior impatto di tali costruzioni sul territorio ed è, infatti, rapportato alle opere e ai correlati oneri economici gravanti sulla collettività, che siano necessari per eliminare l’impatto ambientale negativo che la realizzazione degli impianti industriali può comportare sul territorio.
Più precisamente, non vengono in considerazione solo le usuali opere per lo smaltimento dei rifiuti e delle sostanze inquinanti che altrimenti graverebbero sull’amministrazione locale, ma anche tutti quegli interventi che si richiedono per la sistemazione dell’ambiente circostante, le cui caratteristiche possono risultare alterate in vario modo sia dalle opere costituenti specificamente lo stabilimento industriale autorizzato, sia dagli stessi impianti di disinquinamento realizzati.
In altre parole, l’onere di cui si discorre riguarda la partecipazione del privato agli interventi tesi a mitigare il complessivo impatto ambientale delle opere autorizzate e va commisurato agli effetti inquinanti che, seppur mantenuti nei limiti consentiti dalla legge, devono per quanto possibile essere contrastati con adeguati interventi il cui costo economico graverebbe, altrimenti, per intero sulla collettività.
La ragione giustificativa di tale onere appare, dunque, immediatamente assimilabile a quella degli oneri di urbanizzazione in senso stretto, trattandosi in entrambi i casi di modalità di concorso del privato agli “oneri sociali” derivanti dalla nuova costruzione.
Tale conclusione è avvalorata dalla lettera del T.U. Ediliza, che nell’art. 19 tratta in modo sostanzialmente unitario il contributo pari alla incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche, rivelandone così la medesima natura (“Il permesso di costruire relativo a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi comporta la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche. La incidenza di tali opere é stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base a parametri che la regione definisce con i criteri di cui al comma 4, lettere a) e b), dell'articolo 16, nonché in relazione ai tipi di attività produttiva”).
Del resto, l’assimilazione del c.d. onere ecologico agli oneri di urbanizzazione è confermata anche dalla giurisprudenza amministrativa, secondo la quale: “il contributo commisurato agli oneri di urbanizzazione ha carattere generale perché prescinde totalmente dall’esistenza o meno delle singole opere di urbanizzazione, ha natura di prestazione patrimoniale imposta e viene determinato senza tenere conto né dell’utilità che il privato ritrae dal titolo edificatorio, né delle spese effettivamente occorrenti per realizzare le suddette opere. Analoghe caratteristiche vanno per coerenza riconosciute al contributo commisurato al c.d. “onere ecologico”, arbitrarie essendo distinzioni che non troverebbero fondamento né nella lettera della legge, né nella “ratio” dell’istituto” (Consiglio di Stato 2325/2007; Tar Emilia Romagna 431/2008).
La medesima giurisprudenza ha di conseguenza ritenuto applicabile all’onere ecologico, in assenza di parametri regionali, la disposizione di cui all’art. 16, T.U. edilizia (espressamente riferita alla sola fattispecie del contributo concernete gli oneri di urbanizzazione), laddove prescrive che nel caso di mancata definizione delle tabelle parametriche da parte della regione e fino alla definizione delle stesse, i comuni provvedono, in via provvisoria, con deliberazione del consiglio comunale.
Alla luce delle considerazioni che precedono appare, dunque, corretto ascrivere alla categoria dei “corrispettivi di diritto pubblico” anche gli oneri relativi al trattamento ed allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi.
Ne deriva che essi hanno necessariamente natura di entrate di parte capitale, derivando in definitiva dall’utilizzo del territorio, cioè dall’irreversibile (almeno in linea tendenziale) impiego di un bene pubblico, ed essendo intrinsecamente destinate alla realizzazione di opere volte al razionale e salubre impiego dello stesso, destinate comunque ad incrementare il “patrimonio immobiliare” dell’ente.
Anche in tale ipotesi, infatti, si verte nell’ambito di entrate naturalmente destinate all’incremento dei beni annoverabili nel “patrimonio” latamente inteso dell’ente e che, come tali, devono essere rappresentate nel bilancio; in particolare la naturale allocazione di tali entrate è, dunque, tra le risorse di parte capitale, ordinariamente utilizzabili solo per spese di investimento, salvo le eccezioni di legge.
Da ultimo, deve osservarsi che tale eccezione, per gli anni 2016 e 2017, è rappresentata dalla legge n. 208 del 2015, secondo la quale “per gli anni 2016 e 2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, fatta eccezione per le sanzioni di cui all’articolo 31, comma 4-bis, del medesimo testo unico possono essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche” (art. 1, comma 737).
Tale disposizione contiene una specifica previsione facoltizzante, circa la destinazione dell’entrata, di cui l’ente, nella propria autonomia, potrà dunque avvalersi negli anni 2016 e 2017 e viene a configurare un’espressa disciplina, parzialmente derogatoria rispetto al regime ordinario d’imputazione di detti proventi, che tuttavia conferma a contrario, sotto il profilo concettuale, la tendenziale annoverabilità degli stessi, quantomeno pro parte, fra quelli di parte capitale (tanto che per destinare integralmente tali entrate a spese di parte corrente il legislatore ha ritenuto necessario dettare una disposizione ad hoc).
Spetta al comune di Landriano, sulla base dei principi espressi dalla giurisprudenza contabile, oltre che da questo stesso parere, valutare la fattispecie concreta al fine di addivenire, nel caso di specie, al migliore esercizio possibile del proprio potere di autodeterminazione in riferimento alla corretta copertura della spesa, nel rispetto del quadro legislativo ratione temporis di volta in volta applicabile, anche in considerazione della natura propria dello specifico intervento concretamente realizzato (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 11.05.2017 n. 144).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla possibilità di sostituzione del versamento degli oneri di urbanizzazione dovuti per la realizzazione di un centro per anziani non autosufficienti mediante erogazione di servizi alla persona a carico del Comune.
Non è ammissibile per il comune lo scomputo dell’entrata corrispondente al provento relativo al permesso di costruire (pur teoricamente compensata da una futura eventuale minore spesa) al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge.
Detto altrimenti, non risulta ammissibile la sostituzione di un onere di pagamento determinante un provento immediato e certo con una prestazione in termini di servizi indeterminabile sia sotto il profilo temporale (l’eventuale sconto dipenderebbe da una serie di variabili non determinabili a priori, quali ad esempio il numero degli anziani non abbienti e l’entità dello sconto) che quantitativo.

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Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Pasian di Prato (UD) ha formulato alla Sezione una richiesta di motivato avviso con cui ha rappresentato che:
   - L’art. 1, c. 737, della L. 208/2005 dispone che per gli anni 2016 e 2017 i proventi delle concessioni edilizie e delle relative sanzioni, di cui al DPR 380/2001, fatta eccezione per le sanzioni previste dall’arti 31, comma 4-bis, possono essere utilizzati per una quota pari al 100% per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche;
   - L’art. 1, comma 460, della L. 232/2016 dispone che per l’anno 2018 (nel testo della norma “dal 01.01.2018”) i proventi delle concessioni edilizie e delle relative sanzioni, di cui al DPR 380/2001, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate a interventi di riuso e rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all’acquisizione di e alla realizzazione di aree verdi destinate ad uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l’insediamento di attività di agricoltura nell’ambito urbano;
   - Il Comune ha stipulato una convenzione di urbanizzazione per la realizzazione di un fabbricato ad uso residenza per anziani non autosufficienti nella quale si prevede, oltre al versamento diretto, la possibilità di procedere allo scomputo degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e del costo di costruzione dovuti per il rilascio di un permesso di costruire, mediante servizi compensativi alla persona che sarebbero di spettanza del Comune in quanto diretti a persone non abbienti, e sarebbero svolti direttamente da parte del titolare del permesso di costruire o da società controllate. Ad esempio il Comune ventila l’ipotesi di una riduzione o compensazione delle rette di ricovero per anziani indigenti, qualora la retta sia in tutto o in parte a carico del Comune in qualità di domicilio di soccorso;
   - Il quesito riguarda le modalità di contabilizzazione dei servizi eventualmente erogati dalla società in base alla convenzione (rilevazione della spesa tramite mandato ed emissione in entrata di apposita reversale per lo stesso importo) nonché la conformità dello scomputo, collegato a servizi alla persona, alla normativa disciplinante le possibilità di scomputo e i particolari vincoli di destinazione per detti proventi.
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La richiesta dell’Ente riguarda la possibilità di scomputare in tutto o in parte gli oneri di urbanizzazione (senza distinzione tra urbanizzazione primaria secondaria e costo di costruzione) dovuti per la realizzazione di una residenza per anziani non autosufficienti tramite la compensazione con uno “sconto” sull’eventuale pagamento dovuto dall’Ente qualora lo stesso dovesse farsi carico delle rette di degenza per anziani non abbienti ricoverati nella predetta struttura.
L’Ente richiede, altresì, se sia corretta la contabilizzazione dell’operazione sotto forma di una regolazione contabile che registri nella spesa l’importo dovuto per i servizi alla persona (ospitalità ad anziani non abbienti) resi dal titolare del permesso di costruzione (o da società dallo stesso controllate) in base alla convenzione ed emetta contemporaneamente apposita reversale nella parte entrata per un importo corrispondente.
Premesso che le determinazioni definitive relative alle decisioni in termini di allocazione della spesa restano riservate all’ambito dell’esclusiva discrezionalità dell’Ente, la problematica posta nella richiesta di motivato avviso può essere ricondotta alla materia della contabilità pubblica in quanto attinente il rispetto degli equilibri e l’adeguatezza delle coperture disposte in bilancio.
Prima di effettuare valutazioni più specifiche sull’ambito applicativo delle disposizioni recentemente introdotte in merito nell’art. 1. comma 737, dalla L. 208/2015 e nell’art. 1, commi 460-461, della L. 232/2016 in relazione alle destinazioni ammissibili per l’allocazione di tali proventi, richiamate dal Comune nella richiesta di parere, appare opportuno considerare la disciplina e la finalità degli oneri imposti al privato che richieda l’autorizzazione ad effettuare un intervento costruttivo.
L’art. 22 della L.R. 19/2009, codice regionale dell’edilizia, stabilisce che il permesso di costruire risulta, comunque, subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte del Comune dell’attuazione delle stesse per il periodo di validità del permesso medesimo ovvero all’impegno, da parte degli interessati, di procedere all’attuazione delle opere di urbanizzazione richieste dal Comune contemporaneamente alla realizzazione dell’intervento oggetto del permesso.
Il successivo art. 29 prevede che il rilascio del permesso di costruire comporti la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione (fatti salvi i casi di esonero o riduzione previsti dagli artt. 30 e 32 della medesima legge regionale) consentendo, tuttavia, lo scomputo totale o parziale del contributo nell’ipotesi in cui il richiedente il permesso si obbligasse a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione necessarie. Giova ricordare che le opere di urbanizzazione primaria elencate nell’art. 5 del Regolamento emanato con D.P.Reg. 18 del 20.01.2012 riguardano precipuamente strade, reti fognarie idriche e di distribuzione dell’energia elettrica e del gas e altri interventi sostanzialmente imprescindibili per consentire l’insediamento umano, mentre le opere di urbanizzazione secondaria prevedono la realizzazione di scuole, strade di quartiere impianti sportivi e altri interventi di completamento dell’insediamento urbano mirati ad una migliore fruizione dei nuovi interventi costruttivi anche sotto il profilo della convivenza sociale.
Natura diversa può, invece, riconoscersi al costo di costruzione che, come può desumersi dall’art. 6 quarto comma del Regolamento citato, rappresenta sostanzialmente un onere corrispondente all’incremento di valore determinato dall’intervento edilizio. Trattandosi di entrate non continuative e straordinarie, correlate alla necessaria realizzazione di infrastrutture sul territorio, i proventi da oneri urbanistici sono stati ab origine considerati entrate in conto capitale e, in quanto tali, destinati esclusivamente alla coperture di spese di investimento.
Tra queste, va tenuta presente proprio la necessità per l’Ente di provvedere, nel caso in cui il privato richiedente non se ne sia accollato direttamente la realizzazione, alle opere di urbanizzazione primaria. Tuttavia, nel tempo, probabilmente in ragione di particolari situazioni di difficoltà finanziaria degli enti, successivi puntuali interventi legislativi hanno eccezionalmente consentito la destinazione di detti proventi anche alla copertura di spese correnti (una esaustiva ricostruzione della successione degli interventi legislativi di deroga in materia è contenuta nella deliberazione della Sezione di Controllo della Lombardia parere 09.02.2016 n. 38).
Peraltro, la normativa più recente, intervenuta in un contesto ormai fortemente caratterizzato dai principi della cosiddetta “armonizzazione contabile”, ha segnato un
deciso cambiamento di rotta rispetto alle deroghe consentite in epoche precedenti: l’art. 1, comma 460, della L. 232/2016 dispone che a decorrere dall’01.01.2018 i proventi delle concessioni edilizie e delle relative sanzioni, di cui al DPR 380/2001, siano destinati “esclusivamente e senza vincoli temporali” alla realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate a interventi di riuso e rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all’acquisizione di e alla realizzazione di aree verdi destinate ad uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l’insediamento di attività di agricoltura nell’ambito urbano.
Giova ricordare che, in periodo di poco precedente, a conferma di un orientamento restrittivo sulle eccezioni ai principi in materia di destinazione di entrate di parte capitale, la norma regionale (art. 18, comma 25, della LR 18/2011) che prorogava per il 2013 e 2014 la possibilità prevista dall’art. 11, comma 4, della LR. 22/2010, di destinare per intero i proventi da urbanizzazione a spese correnti, è stata abrogata a decorrere dall’01.01.2013 dall’art. 14, comma 38, della LR 7/2012 (cfr. Sezione Controllo Friuli Venezia Giulia
parere 24.06.2014 n. 112).
Il tenore della recente disposizione (art. 1, comma 460, L. 232/2016), introdotta dal Legislatore statale con effetto dal prossimo esercizio finanziario, ha ricondotto l’allocazione dei proventi da urbanizzazione all’alveo della naturale destinazione di una risorsa, eventuale e irripetibile, utile a finanziare l’area degli interventi di conservazione e sviluppo dei beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile, necessari anche ai fini di un bilanciamento del “consumo del territorio” conseguente all’intervento costruttivo di nuova realizzazione. Una tale interpretazione, nel senso di un ritorno alle “origini” e ai principi generali, può, peraltro, farsi discendere anche dallo stesso tenore letterale della norma introdotta con la legge di bilancio 2017: il comma 460, infatti, dispone la destinazione dei proventi dei titoli abitativi edilizi “…a decorrere dall’01.01.2018… e senza vincoli temporali…” ancorandola ad interventi strettamente correlati alle opere di urbanizzazione o in generale ad interventi di tutela e qualificazione del territorio.
Il legislatore sembrerebbe quindi aver provveduto ad un intervento stabilizzatore della disciplina della materia scegliendo una forma espressiva diversa dai precedenti interventi riferiti in modo puntuale ad esercizi specifici. L’attuale disciplina introdotta a partire dall’01.01.2018 ha ricondotto la gestione dei proventi derivanti dai titoli abitativi edilizi, in quanto entrata eccezionale e non ricorrente, ad un utilizzo compatibile con un rispetto sostanziale dell’equilibrio di parte corrente e non suscettibile di sortire l’effetto di sottrarre le risorse necessarie ad investimenti comunque obbligatori.
In un’ottica di sana gestione finanziaria e di attenzione alla qualità e congruità delle coperture, le norme derogatorie al rispetto di tali principi devono essere, pertanto, oggetto di un’interpretazione assolutamente restrittiva.
Premesse queste considerazioni relative al ristretto ambito interpretativo che deve essere riconosciuto alle eccezioni in materia di destinazione di entrate in conto capitale al finanziamento di spese della medesima natura, si deve rilevare che l’esempio ipotizzato nel quesito non risulta, comunque, riconducibile alla normativa citata, in quanto l’Ente non riscuoterebbe risorse da riservare a destinazioni più o meno riconducibili alle eccezioni previste dalla legge, ma accetterebbe, in applicazione della convenzione, di sostituire un’entrata certa e immediata con una minore spesa del tutto aleatoria ed eventuale.
Si tratterebbe, in buona sostanza, di una prestazione in luogo dell’adempimento di cui all’art. 1197 c.c. che non risulta in alcun modo riconducibile all’unico caso ammesso dalla legge, relativo all’impegno, assunto contrattualmente dal privato, di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione che sarebbero di spettanza del comune.
Al di fuori della predetta ipotesi, prevista dall’art. 29, secondo comma, del codice regionale dell’edilizia e in difetto di ulteriore specifica previsione legislativa (in tal senso risulta d’interesse anche il parere n. 60/2017/PAR reso dalla Sezione Emilia Romagna in relazione ad una ipotesi di datio in solutum in materia tributaria)
non risulta ammissibile la sostituzione di un onere di pagamento determinante un provento immediato e certo con una prestazione in termini di servizi indeterminabile sia sotto il profilo temporale (l’eventuale sconto dipenderebbe da una serie di variabili non determinabili a priori, quali ad esempio il numero degli anziani non abbienti e l’entità dello sconto) che quantitativo.
Una tale conclusione si desume, del resto, anche dalla lettura del principio contabile (Principio contabile concernente la contabilità finanziaria Allegato 4/2 al D.Lgs.118/2011 punto 3.11) che consente l’imputazione della regolazione contabile dell’ipotesi di scomputo (evidentemente riferita ai casi di opere di urbanizzazione realizzate direttamente dal privato richiedente) solo nell’esercizio in cui venga effettuato il collaudo e la consegna delle opere.
Da tutto quanto premesso
emerge non solo che la destinazione dei proventi da urbanizzazione deve essere esclusivamente correlata, in un’ottica volta ad assicurare la copertura degli interventi necessari a consentire l’insediamento umano nel territorio, alle specifiche ipotesi previste dalla legge, ma anche che non è ammissibile per l’Ente lo scomputo dell’entrata corrispondente al provento relativo al permesso di costruire (pur teoricamente compensata da una futura eventuale minore spesa) al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia, parere 11.05.2017 n. 41).

INCENTIVO PROGETTAZIONEL'art. 92, comma 5, consente l'erogazione dell'incentivo, ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all'aggiudicazione ed esecuzione "di un'opera o un lavoro".
Il regolamento deve ripartire gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti, con la conseguenza che le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie.
La previsione, da parte di un regolamento interno, della corresponsione dell'emolumento anche nell'ipotesi di attività svolta da un soggetto esterno risulta in contrasto con la ratio della disposizione legislativa, concretando un'ipotesi di duplicazione di spesa.
Il primo presupposto per l¿erogazione dell'incentivo in esame è comunque costituito dall'applicabilità del d.lgs. n. 163/2006.
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Il Sindaco del Comune di Seregno (MI), con nota 04.03.2014 (prot. Comunale n. 10252/14), ricevuta dalla Corte dei Conti il 10.03.2013 (prot. n. 2978), ha formulato una richiesta di parere in merito all’interpretazione dell’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006.
In particolare il rappresentante dell’ente chiede se “possa prevedersi in sede regolamentare l’incentivo FIP destinato al personale comunale che svolga le funzioni di
   a) responsabile unico del procedimento,
   b) collaudatore, nel caso di opere pubbliche progettate da professionisti esterni all’ente e di
   c) collaudatore nel caso di opere pubbliche realizzate da privati a scomputo di oneri di urbanizzazione
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L’art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163/2006 (c.d. Codice dei contratti pubblici), oggetto della richiesta di parere così recita: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
La disciplina in discorso è stata già oggetto di attenzione da parte di precedenti pronunce della Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie
deliberazione 13.11.2009 n. 16 e Sezione Lombardia parere 08.10.2012 n. 425 e parere 24.10.2012 n. 453) alle cui motivazioni e conclusioni può farsi riferimento.
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dall’art. 92 del Codice dei contratti pubblici, costituisce uno dei casi nei quali il legislatore, derogando al generale principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
Rispetto ai generali principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 costituisce un’eccezione che si presta a stretta interpretazione e per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso Sezione Lombardia, parere 08.10.2012 n. 425).
Come evincibile dalla lettera della disposizione, la legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
Il regolamento interno deve rispettare quanto disposto dall’art. 92, comma 5, che consente l’erogazione dell’incentivo, dal punto di vista soggettivo –profilo oggetto della richiesta di parere-, ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non presuppone, tuttavia, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di tutte le attività (per esempio, la progettazione) purché siano rispettate alcune condizioni. In particolare il regolamento deve ripartire gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti, con la conseguenza che “le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
Ne consegue che il comma 5 in esame impone la ripartizione del trattamento economico accessorio ivi previsto in quote di prestazioni frazionate, sì da poterlo corrispondere –anche in caso di prestazioni parzialmente esternalizzate– limitatamente a quelle svolte da personale interno (in termini Sezione Veneto parere 22.11.2013 n. 361).
Presupposto indefettibile dell’erogazione dell’incentivo è infatti chiaramente costituito dall’effettivo espletamento, da parte del dipendente, dell’attività alla quale si riferisce. Già la normativa generale sul pubblico impiego e, in particolare, l’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 dispone che “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
In aderenza al suddetto criterio generale di attribuzione del trattamento accessorio il legislatore, anche nella materia degli incentivi di cui si discute, ha previsto per il caso in cui l’accertamento delle specifiche attività rese dai pubblici dipendenti sia negativo la medesima regola della devoluzione in economia stabilita per il caso di attività eseguita da professionisti esterni. Pertanto, la previsione, da parte di un regolamento interno, della corresponsione dell’emolumento anche nell’ipotesi di attività svolta da un soggetto esterno risulta in contrasto con la ratio della disposizione legislativa, concretando un’ipotesi di duplicazione di spesa.
Alla luce del dettato normativo e dei precedenti sopra richiamati, appare necessario ribadire che l’amministrazione non può, in sede di regolamento, adottare disposizioni in contrasto con quanto previsto dall’art. 92 comma 5 del d.lgs. n. 165/2006 e dai principi posti in tema di pubblico impiego dal d.lgs. n. 165/2001 e dall’ulteriore normativa di rango primario. Ne deriva che il regolamento deve prevedere analiticamente, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano svolte da professionisti esterni, la devoluzione in economia delle relative quote del fondo incentivante (in termini Sezione Lombardia parere 06.03.2013 n. 72).
Il medesimo regolamento deve altresì contenere la ripartizione, con i criteri individuati dall’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, dell’incentivo in discorso fra i dipendenti che hanno adempiuto agli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori) sul presupposto –oggetto di accertamento da parte del dirigente preposto alla struttura competente- che la specifica attività alla quale è ancorato il beneficio economico non sia stata svolta da un professionista esterno e anzi sia stata espletata nel concreto dal soggetto incaricato di svolgerla. Ciò vale anche per il responsabile del procedimento e l’incaricato del collaudo di cui alla richiesta di parere.
Al riguardo è però necessario precisare che il primo presupposto per l’erogazione dell’incentivo in esame è comunque costituito dall’applicabilità del d.lgs. n. 163/2006.
Pertanto nelle ipotesi di assenza di tale condizione –ipotesi che ad esempio ricorre, per espressa disposizione normativa, per l’esecuzione diretta, a scomputo degli oneri di urbanizzazione, delle opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia di cui all’art. 28, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006, prevista dall’art. 16, comma 2-bis, del d.p.r. n. 380/2001- manca il presupposto preliminare perché il regolamento disponga la corresponsione dell’indennizzo.
Ciò anche in considerazione del fatto che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 costituisce, per i motivi anzidetti, un’eccezione che, in quanto tale, deve essere interpretata in modo stringente e senza poter applicare il criterio dell’analogia (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 25.03.2014 n. 131).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Domanda di sanatoria – Doppia conformità – Verifica di conformità delle opere abusive agli strumenti urbanistici – Rilascio del permesso in sanatoria – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Attività vincolata della P.A. – Necessità di motivazione del pubblico funzionario – Art. 36 D.P.R. 380/2001 – Giurisprudenza.
L’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un’attività vincolata della P.A., consistente nell’applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all’Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
Pertanto, costituendo la verifica della “doppia conformità” il fulcro di tale potere in ordine all’atto adottato ex art. 36 DPR 380/2001, consegue che del relativo accertamento deve darsi conto in motivazione come dimostrazione della avvenuta effettuazione della funzione affidata al pubblico funzionario e quale strumento di controllo del corretto esercizio della medesima.

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Sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità” – Verifica affidata al giudice penale – Responsabile del procedimento amministrativo – Motivazione dell’atto scrutinato – Effetti.
In materia urbanistica, la verifica affidata al giudice penale, diretta a stabilire la sussistenza o meno del requisito della “doppia conformità”, passa per il previo accertamento di una motivazione che dia conto dell’avvenuto, positivo esercizio della funzione di sanatoria dell’atto adottato ex art. 36 DPR 380/2001, incentrata sulla verifica di conformità delle opere abusive agli strumenti urbanistici vigenti al momento della loro realizzazione e della presentazione della richiesta di sanatoria.
Cosicché, l’eventuale esito negativo della verifica, sul piano motivazionale dell’atto scrutinato, dell’avvenuto espletamento di tale attività, portando all’esclusione del controllo “tipico” dell’atto di sanatoria ex art. 36 DPR 380/2001, consente al giudice penale già di escludere qualsivoglia estinzione sopravvenuta del reato edilizio.
Di converso invece, in caso di verifica positiva del profilo motivazionale dell’atto di sanatoria nei termini anzidetti, non può escludersi che il giudice penale approfondisca ulteriormente, ove ritenuto opportuno, il tema della sussistenza del requisito della “doppia conformità” attraverso una verifica “in concreto” dell’avvenuto rispetto degli strumenti urbanistici nel predetto intervallo temporale, in grado in tal modo di confermare o meno la correttezza del giudizio di doppia conformità sostenuto in motivazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.09.2019 n. 37050 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAAttività connesse riconducibili all’ambito agricolo.
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Agricoltura - Attività connesse - Riconducibilità all'ambito agricolo - Presupposti.
Le attività connesse, per essere riconducibili all’ambito agricolo, devono essere svolte dallo stesso imprenditore agricolo e devono riguardare prevalentemente prodotti propri (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 2135 c.c. esclude che possano qualificarsi come connesse attività ausiliare dell’agricoltura svolte da chi già non eserciti un’attività qualificabile come essenzialmente agricola ai sensi del primo e secondo comma dello stesso art. 2135 c.c.
Il comma 423 della legge finanziaria 2006 ha ampliato le categorie delle attività agricole connesse di cui al terzo comma dell’art. 2135 c.c., riconducendovi anche la produzione di energia elettrica o calorica derivante da fonti rinnovabili agroforestali (biomasse) e fotovoltaiche.
L’art. 1, comma 369, della legge finanziaria 2007 ha sostituito il comma n. 423 sopra citato, riformulandolo nel senso di sottolineare che, sebbene la connessione sia stabilita ex lege, devono essere rispettate le condizioni di prevalenza e di esercizio da parte dello stesso imprenditore agricolo.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 66/2015 ha evidenziato che il legislatore ha delineato la categoria delle attività connesse utilizzando il concetto della prevalenza dell’attività propriamente agricola nell’economia complessiva dell’impresa; nello stesso senso dispone l’art. 32, d.P.R. n. 917 del 1986 ai fini dell’Irpef.
La ratio dell’art. 52, comma 2-bis, d.l. n. 83 del 2012 è quella di concentrare nello stesso imprenditore agricolo lo svolgimento dell’attività primaria diretta alla produzione agricola e quella accessoria di utilizzazione di un biodigestore, alimentato con i prodotti della propria azienda o di quella di altre aziende a lui collegate.
Nel concetto di agroindustria, da intendersi come l’insieme dei processi produttivi dedicati alla raccolta, al trattamento e alla trasformazione dei prodotti agricoli, non può rientrare, quindi, l’attività industriale di produzione di carburanti svolta dalla società appellata.
Ha aggiunto la Sezione che il tema dei sottoprodotti è particolarmente delicato perché incide sulla materia ambientale e sulla salute umana.
Sebbene la normativa europea (direttiva 2008/98/CE) promuova il riciclaggio dei rifiuti, ed incentivi le fonti rinnovabili per la produzione di energia elettrica (direttiva 2001/77/CE, direttiva 2009/28/CE), sollecitando il massimo sfruttamento delle risorse, la riduzione dei rifiuti ed il loro recupero/riciclaggio, nondimeno la qualificazione come sottoprodotto di un residuo necessita particolare cautela e presuppone la verifica della sussistenza delle condizioni caso per caso.
Nella specie l’Amministrazione, facendo applicazione del principio di precauzione e prevenzione, nel disciplinare il digestato per usi agronomici, ha ritenuto di ammettere i soli materiali per i quali l’impiego doveva ritenersi sicuramente privo di rischi sotto il profilo ambientale e sanitario e, dunque, presuntivamente innocuo per l’ambiente e per la salute umana (Consiglio diStato, Sez. III, sentenza 04.09.2019 n. 6093 - tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: La richiesta avente ad oggetto il rilascio delle credenziali informatiche di accesso all’area “Contabile e Patrimonio” appare esorbitante rispetto alla ratio ed al perimetro del diritto di accesso esercitabile da parte dei consiglieri regionali, sicché risulta legittimo il diniego opposto.
In linea generale, l'accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali e provinciali, e, per estensione, anche regionali, espressione delle loro prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio che lo astringe.
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Vero è che l’accesso previsto dall’art. 43 del T.U.E.L. -pacificamente estensibile ai consiglieri regionali- deve essere letto ed applicato in conformità alla progressiva digitalizzazione che ha interessato negli ultimi anni l’attività degli uffici pubblici, ciò che rende sicuramente ammissibile l’accesso mediante l’utilizzo di sistemi informatici.
E’ però parimenti vero che la concreta modalità dell’accesso con l’impiego di applicativi informatici non deve determinare la elusione dei principi di fondo che conformano l’esercizio del relativo diritto, nei termini stabiliti dagli artt. 22 e 24 della legge n. 241 del 1990.
In particolare, resta ferma la regola per cui l’esercizio del diritto di accesso presuppone la presentazione di una richiesta specifica e puntuale, che deve riferirsi a documenti preesistenti e già formati.
Invece, nel caso di specie, il rilascio delle credenziali informatiche di accesso all’area “Contabile e Patrimonio”, nei termini richiesti dai ricorrenti, consentirebbe ai consiglieri regionali di accedere alla generalità indiscriminata dei documenti relativi alla contabilità dell’ente in mancanza di apposita istanza.
Tale forma di accesso “diretto” si risolve in un monitoraggio assoluto e permanente sull’attività degli uffici, tale da violare la ratio dell’istituto, che, così declinato, eccede strutturalmente la sua funzione conoscitiva e di controllo in riferimento ad una determinata informazione e/o ad uno specifico atto dell’ente, siccome ritenuti strumentali al mandato politico, per appuntarsi, a monte, sull’esercizio della funzione propria dell’area “Contabile e Patrimonio” e sulla complessiva attività degli uffici, con finalità essenzialmente esplorative, che eccedono dal perimetro delle prerogative attribuite ai consiglieri regionali.
In tal senso è stato affermato che “è legittimo il diniego opposto alla richiesta tendente ad ottenere la documentazione relativa a molteplici settori dell'Ente ed ancorata non ad un determinato periodo di tempo, ma sostanzialmente riferita anche ad epoche future. Infatti una richiesta così strutturata, tesa ad utilizzare, in lettura, gli applicativi informatici del Comune, appare preordinata a compiere un sindacato generalizzato sull'attività, presente, passata e futura, degli organi decidenti, deliberanti e amministrativi dell'Ente e non risulta strumentale al mandato politico, che deve essere riferito a singole problematiche che di volta in volta interessano l'elettorato e desumibili da atti e documenti già in possesso dell’Amministrazione … omissis … In definitiva, compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse, attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che non può mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia esercitato da soggetti cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata. Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a fondamento del contestato diniego, secondo cui il rilascio delle richieste credenziali si tradurrebbe in un accesso generalizzato e indiscriminato a tutti i dati della corrispondenza in entrata e uscita e della contabilità”.
Più di recente, la giurisprudenza del TAR ha ritenuto legittimo il rilascio delle credenziali di accesso al sistema informatico dell’ente ai soli fini della consultazione del protocollo informatico, avendo cura di precisare espressamente che tali credenziali non devono consentire l’accesso diretto ai documenti: “… al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di richiesta specifica)”.
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6. Il ricorso è infondato.
6.1. Innanzi tutto si osserva che è condivisibile quanto sostenuto dai ricorrenti in riferimento al fatto che il diritto di accesso del consigliere regionale non incontra il limite della riservatezza.
Infatti, sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha recentemente chiarito che: “l'accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali e provinciali, e, per estensione, anche regionali, espressione delle loro prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio che lo astringe” (Cons. Stato, Sez. V, 02.03.2018 n. 1298).
Ciò nondimeno, la predetta questione non è conferente nel caso di specie, dal momento che il limite della riservatezza, inizialmente opposto dalla Regione Molise con la nota del 01.03.2019, non ha trovato ulteriore riscontro in sede di riesame.
6.2. Con la nota in data 05.03.2019 la Regione Molise ha conclusivamente giustificato il provvedimento di diniego in ragione del fatto che “la concessione della richiesta abilitazione equivarrebbe ad un accesso indiscriminato e generale su non ben definiti atti d’ufficio”.
Sotto tale profilo il diniego di rilascio delle credenziali di accesso al sistema informativo Urbi Smart appare giustificato e conforme ai principi desumibili dalla normativa di riferimento.
Vero è che l’accesso previsto dall’art. 43 del T.U.E.L. -pacificamente estensibile ai consiglieri regionali- deve essere letto ed applicato in conformità alla progressiva digitalizzazione che ha interessato negli ultimi anni l’attività degli uffici pubblici, ciò che rende sicuramente ammissibile l’accesso mediante l’utilizzo di sistemi informatici.
E’ però parimenti vero che la concreta modalità dell’accesso con l’impiego di applicativi informatici non deve determinare la elusione dei principi di fondo che conformano l’esercizio del relativo diritto, nei termini stabiliti dagli artt. 22 e 24 della legge n. 241 del 1990.
In particolare, resta ferma la regola per cui l’esercizio del diritto di accesso presuppone la presentazione di una richiesta specifica e puntuale, che deve riferirsi a documenti preesistenti e già formati.
Invece, nel caso di specie, il rilascio delle credenziali di accesso all’area “Contabile e Patrimonio” del sistema Urbi Smart, nei termini richiesti dai ricorrenti, consentirebbe ai consiglieri regionali di accedere alla generalità indiscriminata dei documenti relativi alla contabilità dell’ente in mancanza di apposita istanza.
Tale forma di accesso “diretto” si risolve in un monitoraggio assoluto e permanente sull’attività degli uffici, tale da violare la ratio dell’istituto, che, così declinato, eccede strutturalmente la sua funzione conoscitiva e di controllo in riferimento ad una determinata informazione e/o ad uno specifico atto dell’ente, siccome ritenuti strumentali al mandato politico, per appuntarsi, a monte, sull’esercizio della funzione propria dell’area “Contabile e Patrimonio” e sulla complessiva attività degli uffici, con finalità essenzialmente esplorative, che eccedono dal perimetro delle prerogative attribuite ai consiglieri regionali.
6.3. In tal senso è stato affermato che “è legittimo il diniego opposto alla richiesta tendente ad ottenere la documentazione relativa a molteplici settori dell'Ente ed ancorata non ad un determinato periodo di tempo, ma sostanzialmente riferita anche ad epoche future. Infatti una richiesta così strutturata, tesa ad utilizzare, in lettura, gli applicativi informatici del Comune, appare preordinata a compiere un sindacato generalizzato sull'attività, presente, passata e futura, degli organi decidenti, deliberanti e amministrativi dell'Ente e non risulta strumentale al mandato politico, che deve essere riferito a singole problematiche che di volta in volta interessano l'elettorato e desumibili da atti e documenti già in possesso dell’Amministrazione … omissis … In definitiva, compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse, attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che non può mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia esercitato da soggetti cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata (TAR Toscana, I, 30.03.2016, n. 563). Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a fondamento del contestato diniego, secondo cui il rilascio delle richieste credenziali si tradurrebbe in un accesso generalizzato e indiscriminato a tutti i dati della corrispondenza in entrata e uscita e della contabilità” (TAR Toscana, Sez. I, 22.12.2016 n. 1844).
6.4. Più di recente, la giurisprudenza del TAR ha ritenuto legittimo il rilascio delle credenziali di accesso al sistema informatico dell’ente ai soli fini della consultazione del protocollo informatico, avendo cura di precisare espressamente che tali credenziali non devono consentire l’accesso diretto ai documenti: “… al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di richiesta specifica)” (TAR Basilicata, 10.07.2019 n. 599).
6.5. Per le ragioni sopra esposte la richiesta avente ad oggetto il rilascio delle credenziali di accesso all’area “Contabile e Patrimonio” del sistema Urbi Smart o comunque la previsione di equivalenti strumenti di reperimento di atti ed informazioni, appare esorbitante rispetto alla ratio ed al perimetro del diritto di accesso esercitabile da parte dei consiglieri regionali, sicché il ricorso merita di essere respinto (TAR Molise, sentenza 03.09.2019 n. 285 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTIDiscrezionalità tecnica nelle valutazioni espresse dalla Commissione giudicatrice sulle offerte tecniche e sindacato del giudice amministrativo.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Offerta - Offerte tecniche - Declaratoria di inammissibilità del ricorso per insindacabilità della valutazione - Annullamento con rinvio al giudice di primo grado.
Va annullata con rinvio al giudice di primo grado la sentenza del Tar che ha dichiarato inammissibile l’impugnazione dell’esito di una gara pubblica per la non corretta valutazione delle offerte tecniche sul rilievo dell’insindacabilità giurisdizionale dell’attività valutativa da parte della Commissione giudicatrice, senza però in alcun modo supportare tale affermazione con una almeno sintetica disamina circa il contenuto delle censure tecniche (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che il sindacato del giudice amministrativo sull’esercizio della propria attività valutativa da parte della Commissione giudicatrice di gara non può sostituirsi a quello della pubblica amministrazione, in quanto la valutazione delle offerte nonché l’attribuzione dei punteggi da parte della Commissione giudicatrice rientrano nell’ampia discrezionalità tecnica riconosciuta a tale organo.
Le censure che attingono il merito di tale valutazione (opinabile) sono inammissibili, perché sollecitano il giudice amministrativo ad esercitare un sindacato sostitutivo, al di fuori dei tassativi casi sanciti dall’art. 134 c.p.a., fatto salvo il limite della abnormità della scelta tecnica (v., tra le numerose pronunce, Cons. St., sez. V, 08.01.2019, n. 173; Cons. St., sez. III, 21.11.2018, n. 6572).
Ne deriva che, come da consolidato indirizzo giurisprudenziale, per sconfessare il giudizio della Commissione giudicatrice non è sufficiente evidenziarne la mera non condivisibilità, dovendosi piuttosto dimostrare la palese inattendibilità e l’evidente insostenibilità del giudizio tecnico compiuto.
La declaratoria di inammissibilità del ricorso, senza nemmeno scrutinare l’essenza delle sue fondamentali censure tecniche, è tuttavia una “formula pigra” e reca una motivazione apparente, che cela un sostanziale rifiuto di giurisdizione e un’abdicazione alla propria doverosa potestas iudicandi da parte del giudice amministrativo anche entro il limite, indiscusso, di un giudizio che in nessun modo intenda sostituirsi a quello della pubblica amministrazione e, cioè, di un sindacato giurisdizionale intrinseco, ma “debole”.
Una sentenza che quindi non eserciti alcun sindacato giurisdizionale sull’attività valutativa da parte della Commissione giudicatrice, affermando sic et simpliciter che il ricorso a tal fine proposto solleciterebbe un sindacato sostitutivo del giudice amministrativo, senza però in alcun modo supportare tale affermazione con una almeno sintetica disamina circa il contenuto delle censure tecniche, e trincerandosi apoditticamente dietro la natura non anomala o non manifestamente irragionevole della valutazione espressa dalla Commissione, reca una motivazione apodittica e tautologica e, in quanto tale, meritevole di annullamento con rinvio al primo giudice, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., per nullità della stessa in difetto assoluto di motivazione, come ha stabilito l’Adunanza plenaria in alcune fondamentali pronunce (Cons. St., A.P., 28.09.2018, n. 15).
La motivazione tautologica non è sindacabile dal giudice dell’appello, in quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato e, dunque, non è nemmeno integrabile da detto giudice, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture circa la vera ratio decidendi della sentenza impugnata, che tuttavia non è dato rinvenire nell’apparato motivazionale, sicché una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale –o, se si preferisce, e all’estremo opposto, un atto di puro arbitrio– e, quindi, un atto di abdicazione al proprio potere decisorio da parte del giudice.
Da rilevare che nel caso all'esame della Sezione non c'è stato annullamento con rinvio perché nella sentenza impugnata una motivazione, pur embrionale, era presente (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.09.2019 n. 6058 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAApplicabilità delle informazioni antimafia alle attività soggette a s.c.i.a..
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Informativa antimafia - Provvedimenti di tipo abilitativo-autorizzativo – Attività soggette a s.c.i.a. – Applicabilità.
Le informazioni antimafia si applicano anche ai provvedimenti autorizzatori e alle attività soggette a s.c.i.a. (1).
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   (1) La Sezione del Consiglio di Stato, nel ribadire l’orientamento già espresso dalla sentenza n. 1109 del 22.02.2018 (e condiviso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 4 del 18.01.2018), ha riaffermato, ancora una volta, l’applicabilità delle informazioni antimafia anche ai provvedimenti autorizzatori e alle attività soggette a s.c.i.a.
L’art. 89, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 prevede espressamente, alla lett. a), che l’autocertificazione, da parte dell’interessato, che nei propri confronti non sussistono le cause di divieto, di decadenza o di sospensione, di cui all’art. 67, riguarda anche «attività private, sottoposte a regime autorizzatorio, che possono essere intraprese su segnalazione certificata di inizio attività da parte del privato alla pubblica amministrazione».
La Sezione ha ritenuto quindi che, per lo stesso tenore letterale del dettato normativo e per espressa volontà del legislatore antimafia, che le attività soggette a s.c.i.a. non sono esenti dai controlli antimafia, e che il Comune ben possa e anzi debba verificare che l’autocertificazione dell’interessato sia veridica e richiedere al Prefetto di emettere una comunicazione antimafia liberatoria o, come nel caso di specie, revocare la s.c.i.a. in presenza di una informazione antimafia comunque comunicatagli o acquisita dal Prefetto.
Nulla infatti impedisce al Prefetto e, anzi, l’art. 89-bis, d.lgs. n. 159 del 2011 –che ha superato il vaglio di legittimità costituzionale (sent. n. 4 del 18.01.2018 della Corte costituzionale)– espressamente gli impone di emettere una informazione antimafia, in luogo della comunicazione antimafia liberatoria richiesta dal Comune, laddove accerti la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa nell’impresa, anche quando tale richiesta sia effettuata in ipotesi di s.c.i.a. e/o durante i controlli che concernono le attività ad esse soggette, potendo le verifiche di cui all’art. 88, comma 2, essere attivate anche nel caso di autocertificazione, previsto dall’art. 89, comma 2, lett. a), anche per la s.c.i.a..
Una visione moderna, dinamica e non formalistica del diritto amministrativo, quale effettivamente vive e si svolge nel tessuto economico e nell’evoluzione dell’ordinamento, individua un rapporto tra amministrato e amministrazione in ogni ipotesi in cui l’attività economica sia sottoposta ad attività provvedimentale, che essa sia di tipo concessorio o autorizzatorio o, addirittura soggetta a s.c.i.a., come questo Consiglio, in sede consultiva, ha chiarito nei numerosi pareri emessi in ordine all’attuazione della l. n. 124 del 1015 (v., in particolare e tra gli altri, il parere n. 839 del 30.03.2016 del Consiglio di Stato sulla riforma della disciplina della s.c.i.a.).
La natura vincolata della revoca della s.c.i.a. o, comunque dir si svoglia, l’effetto inibitorio conseguente all’emissione della documentazione antimafia (anche nella forma dell’informazione antimafia), applicabile anche all’attività soggetta a s.c.i.a. per stessa previsione legislativa (art. 89, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011), escludono qualsivoglia contrasto con l’affermata natura privatistica dell’attività soggetta a s.c.i.a.
La stessa Corte costituzionale, di recente, ha chiarito che l’attività soggetta a s.c.i.a., pur orientata al principio della liberalizzazione, non è esente da controlli e verifiche, previste dall’art. 19, l. n. 241 del 1990, «cosicché la fase amministrativa che ad essa accede costituisce una –sia pur importante– parentesi puntualmente delimitata nei modi e nei tempi» (ord. n. 45 del 13.03.2019) e ciò vale, a maggior ragione, anche per i controlli antimafia (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.09.2019 n. 6057 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICANecessità di sottoporre a V.I.A. normativamente non obbligatoria le modifiche ad un progetto a suo tempo sottoposto a V.I.A..
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Ambiente - Valutazione di impatto ambientale – Modifiche e estensioni di progetti sottoposti a V.I.A. - Non soggetti a V.I.A. alla luce della normativa sopravvenuta – Conseguenza.
Non devono essere necessariamente sottoposte a valutazione di impatto ambientale (od a verifica di assoggettabilità) le "estensioni" o le "modifiche" di progetti che, in base alla normativa sopravvenuta, non siano più soggetti ex lege a V.I.A. e che, dunque, se presentati ex novo, non dovrebbero esservi necessariamente sottoposti (1).
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   (1) Ha affermato la Sezione che l’Amministrazione, ove ritenga che un intervento possa comunque determinare, in concreto, “impatti ambientali significativi e negativi”, può sempre disporre -previa idonea motivazione- l’attivazione della verifica di assoggettabilità a V.I.A. anche al di fuori degli specifici casi prescritti dalla legge; ove, invece, ritenga che esulino tali "impatti" non è tenuta a confezionare alcuna specifica motivazione, posto che, a monte, il legislatore ha escluso che quella tipologia di intervento sia, di regola, in grado di arrecare potenziali danni all’ambiente.
La rinnovazione del giudizio di compatibilità ambientale, di regola doverosa allorché siano introdotte delle modificazioni progettuali che determinino la costruzione di un manufatto significativamente diverso da quello già esaminato, è viceversa superflua ogni qualvolta al progetto originario siano apportate modifiche che risultino più conformi agli interessi pubblici, determinando, in particolare, una più efficace mitigazione del rischio ambientale presentato dall'originario progetto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.08.2019 n. 5972 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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MASSIMA
5. Sulla scorta di tali premesse in fatto e in diritto, il Collegio giudica infondato il ricorso di primo grado per le seguenti ragioni.
5.1. Il Collegio prende le mosse dalla disposizione dell’Allegato IV alla Parte II del d.lgs. n. 152 del 2006, punto 8, lett. t), ai sensi del quale
sono sottoposte a verifica di assoggettabilità a VIA le “modifiche o estensioni di progetti di cui all’allegato III o all’allegato IV già autorizzati, realizzati o in fase di realizzazione, che possono avere notevoli ripercussioni negative sull’ambiente”.
Orbene, tale disposizione muove dall’implicita premessa che
il progetto “già autorizzato, realizzato o in fase di realizzazione” sia ancora da sottoporre a VIA secondo la normativa vigente: in altre parole, la disposizione sottopone a VIA le “modifiche o estensioni” di progetti che, se fossero presentati ex novo, sarebbero tuttora da sottoporre a VIA.
Siffatta interpretazione risponde a ragioni d’ordine logico: la sottoposizione di modifiche od estensioni di progetti alla procedura di VIA si spiega solo se il progetto modificato od esteso sia, a sua volta, ancora da sottoporre a VIA.

Argomentando a contrario, infatti, si avrebbe che dovrebbero essere sottoposte a VIA (ossia ad un aggravamento del procedimento - cfr. art. 1, comma 2, l. n. 241 del 1990) modifiche od estensioni di un progetto che, se fosse presentato ora, non vi dovrebbe essere ab ovo sottoposto.
Né è ragionevole opinare che, per il solo fatto che ab origine un progetto fu sottoposto a VIA, ogni successiva estensione o modifica, pur se disposta a distanza di tempo, debba comunque e per ciò solo essere sottoposta a tale sub-procedimento: ciò, invero, significherebbe, da un punto di vista giuridico, ascrivere efficacia ultra-attiva alle norme che perimetrano l’ambito dei progetti da sottoporre a VIA (od alla preliminare verifica di assoggettabilità), sterilizzando irreversibilmente l’efficacia normativa dell’eventuale disciplina sopravvenuta.

Nella specie, la richiamata novella del 2008 ha modificato l’Allegato IV, prescrivendo la verifica di assoggettabilità a VIA per i parcheggi con capacità superiore ai 500 posti e, dunque, implicitamente ma inequivocabilmente escludendola (recte, qualificandola come non doverosa) per i parcheggi con capienza minore.
Se il progetto fosse stato presentato ex novo nel 2014, quindi, non avrebbe dovuto necessariamente essere sottoposto alla verifica di assoggettabilità, in considerazione del numero di posti previsto (293), ben inferiore ai 500: ne consegue, per le esposte ragioni logico-testuali, che la modifica in questione non era ex lege da sottoporre a verifica di assoggettabilità.
5.2. Vi è, inoltre, un’altra ragione, parimenti di carattere logico-testuale.
La disposizione in esame si riferisce ai “progetti autorizzati, realizzati o in corso di realizzazione”: ora, al luglio 2014 il parcheggio de quo non era ancora né materialmente “in corso di realizzazione” (tanto meno “realizzato”), né giuridicamente “autorizzato”: difettava ancora, infatti, il titolo edilizio, unico atto con cui l’Amministrazione presta il proprio definitivo assenso alla costruzione di un opus.
Esulano anche per tale profilo, pertanto, i requisiti fattuali per applicare la disposizione de qua.
6. Vi sono, altresì, ulteriori e più pregnanti considerazioni da svolgere.
6.1. Il progetto in variante presentato da CAM ed approvato con la delibera gravata determina una generale e decisa riduzione dell’intervento contemplato dal precedente progetto: il verificatore nominato nel presente giudizio, invero, ha precisato che “il progetto del 2014 presenta un volume pari a meno della metà di quello del 2010” ed “una superficie ad ogni piano pari a molto meno della metà di quello del 2010” (così la relazione di verificazione, pag. 10).
Il nuovo progetto, per vero, presenta pure una “maggiore profondità media di scavo, pari a circa 1,5 metri”, corrispondente ad un incremento di circa il 13% rispetto al pregresso: tuttavia, una variazione di tale entità è da considerarsi “poco rilevante da un punto di vista tecnico”, giacché “i progettisti e gli enti di controllo adottano nella stesura e nell’approvazione dei progetti il giudizio di scarsa rilevanza tecnica per una differenza dimensionale del 10%. E’ questo uno dei principi fondatori per il moderno ed internazionale metodo di calcolo semiprobabilistico delle costruzioni, accettato da tutte le norme internazionali più evolute” (così la relazione di verificazione, pagine 17 e 18).
Oltretutto, “il volume ubicato al di sotto della massima quota di scavo considerata nella relazione geologica (e, quindi, valutata positivamente dall’Area Valutazione di Impatto Ambientale) è pari solo al 5,9% dello stesso volume assentito con VIA” (così la relazione di verificazione, pagina 11): anche in tal caso, dunque, la variazione risulta tecnicamente poco significativa.
Pertanto, nell’ambito di una considerazione unitaria, globale e sintetica dell’intervento, il nuovo progetto costituisce prima facie una riduzione, un contenimento, un ridimensionamento del precedente: da un lato, infatti, non si ravvisa alcuna “estensione”, dall’altro la “modifica” apportata è pressoché tutta “al ribasso”, nel senso di una contrazione strutturale dell’opus con conseguente minor impatto ambientale.
Tale, evidentemente, è stata la conclusione della Giunta capitolina, che ha implicitamente escluso che fosse il caso di procedere alla (facoltativa) verifica di assoggettabilità a VIA, in considerazione della complessiva riduzione dell’impatto ambientale recata dal nuovo progetto rispetto al pregresso, tale da non determinare alcuna “estensione” né alcuna “modifica” in senso potenzialmente deteriore per l’ambiente.
Invero,
in termini generali l’Amministrazione, ove ritenga che un intervento possa determinare, in concreto, “impatti ambientali significativi e negativi”, può sempre disporre l’attivazione della verifica di assoggettabilità a VIA anche al di fuori degli specifici casi prescritti dalla legge: evidentemente, tale scelta dovrà essere puntualmente motivata, in ossequio alla previsione di cui all’art. 1, comma 2, l. n. 241 del 1990.
Di converso,
al di fuori dei casi prescritti dalla legge la scelta di non procedere a verifica di assoggettabilità non richiede alcuna specifica motivazione, posto che, a monte, il legislatore ha escluso che quella tipologia di intervento sia, di regola, in grado di arrecare potenziali danni all’ambiente.

Nel caso di specie, pertanto, ben poteva l’Amministrazione disporre la verifica di assoggettabilità a VIA, benché il parcheggio fosse inferiore a 500 posti e, dunque, non vi fosse un puntuale obbligo in tale senso: per far ciò, tuttavia, avrebbe dovuto attendere ad una puntuale motivazione che desse ragione dell’aggravamento dell’istruttoria.
In caso contrario, viceversa, non era necessaria alcuna motivazione ed il progetto poteva essere approvato de plano: l’operato della Giunta, pertanto, non disvela sotto questo aspetto alcun vizio della funzione.
6.2. Per di più, osserva il Collegio, la verificazione disposta nel presente grado di giudizio ha confermato ex post la correttezza della valutazione giuntale: ai fini dell’impatto idraulico ed idrogeologico, infatti, il dato che assume rilievo centrale è costituito non dalla profondità di scavo, bensì dal volume dell’intervento, che, quale “rappresentativo del quantitativo di liquido spostato … costituisce l’azione di disturbo nel sottosuolo”, sì che “non appare, sulla base dei dati acquisiti, alcun motivo per il quale un manufatto notevolmente inferiore per superficie e volume rispetto a quello previsto nel progetto del 2010, seppure localmente più approfondito, potrebbe interferire con la falda profonda” (cfr. relazione di verificazione, pagine 15, 16 e 18).
In sostanza, minore il volume interrato, minore la massa d’acqua (attualmente o potenzialmente) spostata, minore il conseguente impatto idraulico ed idrogeologico.
Oltretutto, ha osservato il verificatore, “l’interferenza con la falda profonda … è meno rilevante, perché le paratie perimetrali sono meno profonde di quelle previste nel progetto del 2010” (cfr. relazione di verificazione, pagine 16 e 17).
Del resto, nel corso dei lavori, a quanto consta ultimati in data 28.07.2016, non risultano essere emerse problematiche idrauliche o idrogeologiche (cfr. relazione di verificazione, pag. 9).
7. In conclusione, l’Amministrazione, nell’approvare la variante, ha implicitamente ritenuto, con valutazione ex ante, che l’esecuzione dei relativi lavori non fosse in grado di determinare ripercussioni negative sull’ambiente ulteriori rispetto a quelle già positivamente in precedenza vagliate: tale scelta, conforme all’apparato normativo applicabile ratione temporis, si palesava ab initio logica e coerente e si è vieppiù confermata tale all’esito dello scrutinio specialistico disposto da questo Consiglio.
Il Collegio, in ottica più ampia, evidenzia che
la rinnovazione del giudizio di compatibilità ambientale –di regola doverosa allorché siano introdotte delle modificazioni progettuali che determinino la costruzione di un manufatto significativamente diverso da quello già esaminato– è superflua ogni qualvolta al progetto originario siano apportate modifiche che risultino più conformi agli interessi pubblici, determinando, in particolare, una più efficace mitigazione del rischio ambientale (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 22.11.2006, n. 6831; Cons. Stato, Sez, VI, 22.03.2012, n. 1640; in tal senso anche la Corte di Giustizia Europea con la sentenza 17.03.2011, C-275/09, Brussels Hoofdstedelijk Gewest).
Laddove, dunque, le modifiche si sostanzino, come nella presente vicenda, in un generale ridimensionamento strutturale dell’opus proprio con riferimento a quegli aspetti (nella specie, il volume) potenzialmente pericolosi per gli specifici profili di sensibilità ambientale presi in considerazione (nella specie, quelli di carattere idraulico/idrogeologico), non vi è ragione di attivare il sub-procedimento di verifica di assoggettabilità a VIA, anche alla luce della valenza generale rivestita dal principio di economicità dell’azione amministrativa (cfr. art. 1 l. n. 241 del 1990).
8. Per le esposte ragioni, i ricorsi in appello svolti da CAM e da Roma Capitale debbono essere accolti: conseguentemente, in riforma delle sentenze impugnate deve essere rigettato il ricorso di primo grado.

ATTI AMMINISTRATIVILa responsabilità da comportamento illecito ha trovato progressivamente riconoscimento nella giurisprudenza sia civile che amministrativa, che ha affermato in più occasioni che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza.
«Come è stato efficacemente rilevato in dottrina, in questi casi il provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico. Si tratta, in altri termini, di una responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale» (il CdS ha espressamente evocato un modello di pubblica amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente, permeato dai principi di correttezza e buona amministrazione, desumibili dall’art. 97 della Costituzione).
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Sul punto il Collegio rileva per completezza come la sentenza del TAR per la Lombardia, anche omettendo di affrontare l’eccepita eccezione di prescrizione, non perimetri l’esatto thema decidendum in relazione al tipo di responsabilità addebitata all’Amministrazione procedente.
Alla base dell’odierna richiesta risarcitoria, infatti, si pongono una serie di atti, o favorevoli alla parte, e pertanto non impugnati (delibera e atti del 1961), ovvero pregiudizievoli (ingiunzione a demolire dell’08.07.1988), ma ormai cristallizzati nei relativi effetti dalla scelta di non coltivare il contenzioso originariamente intrapreso, con ciò di fatto accettandone per acquiescenza presupposti e conseguenze.
La controversia finisce pertanto per collocarsi in una zona chiaroscurale, non potendo essere ascritta alle richieste risarcitorie conseguenti a provvedimento illegittimo, mancando il relativo presupposto causativo; ma neppure identificandosi nel danno da solo comportamento, per come incardinato dal Giudice di prime cure, avendo il provvedimento finale (legittimo) contraddetto atti orientati contenutisticamente in senso diametralmente opposto, e dunque divenendone soltanto l’epifenomeno terminale.
La responsabilità da comportamento illecito, sicuramente lambita dall’odierna vicenda per come prospettata dalle parti, ha trovato progressivamente riconoscimento nella giurisprudenza sia civile che amministrativa, che ha affermato in più occasioni che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza (sul punto v. Cons. Stato, A.P. 04.05.2018, n. 5, nonché, fra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 06.02.2013, n. 633; Cons. Stato, sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; Cons. Stato, A.P., 05.09.2005, n. 6; Cass. civ., Sez. un. 12.05.2008, n. 11656; Cass. civ., Sez. I, 12.05.2015, n. 9636; Cass. civ., Sez. I, 03.07.2014, n. 15250).
«Come è stato efficacemente rilevato in dottrina, in questi casi il provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico. Si tratta, in altri termini, di una responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale» (v. ancora Cons. Stato, A.P. n. 5/2018. Cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 06.03.2018, n. 1457, che ha espressamente evocato un modello di pubblica amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente, permeato dai principi di correttezza e buona amministrazione, desumibili dall’art. 97 della Costituzione).
12. L’avvenuto radicamento della vicenda senza valutarne l’esatta perimetrazione, consegue all’innegabile anomalia di aver sostanzialmente riaperto una controversia, in realtà ormai definita, finendo per rimettere in discussione -indebitamente- la legittimità di provvedimenti stabilizzati da tempo. Ove, infatti, fosse emersa una qualche fondatezza della pretesa della parte, essa non avrebbe potuto non impattare sulla qualificazione dell’illecito posta a base dell’ingiunzione a demolire; l’eventuale incidenza sulla colpevolezza della condotta, infatti, indirettamente pure invocata, attiene al profilo della responsabilità penale ed è pertanto estranea ai contenuti dell’odierno giudizio.
Tuttavia, anche ripercorrendo la vicenda secondo la logica della parte appellante, l’operato della pubblica amministrazione appare esente da mende sia in termini comportamentali che provvedimentali, non potendosi ascrivere alla stessa l’eventuale agire del singolo, al di fuori di qualsiasi schema legale e dunque uti singulus, appunto, e non nel ruolo ricoperto. Né appare scusabile, o comprensibile, ovvero indice di incolpevole affidamento, la condotta dell’autore dell’abuso.
Al riguardo, va rilevato che la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa, recide, in tutto o in parte, il nesso causale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili ( cfr. Cons. Stato, A.P. 23.03.2011, n. 3).
Per quanto sopra esposto, ciò è quanto avvenuto anche nel caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.08.2019 n. 5966 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La casetta mobile ancorata a terra è un abuso edilizio e non c’è tenuità del fatto.
Sistemare casette mobili (ma anche camper o roulotte) fissandoli al suolo in assenza di titolo edilizio è un reato senza se e senza ma, del quale non è riconosciuta la «lieve tenuità».
E' configurabile il reato di costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380) nell'ipotesi di installazione su un terreno, senza permesso di costruire, di strutture mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia pure montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una destinazione duratura al soddisfacimento di esigenze abitative (Sez. 3, n. 25015 del 23/03/2011 - dep. 22/06/2011, Di Rocco, Rv. 250601: nella specie si trattava di case prefabbricate munite di ruote gommate).
Altresì,
integra il reato di costruzione edilizia abusiva la collocazione su un'area di una "casa mobile" con stabile destinazione abitativa, in assenza di permesso di costruire, perché quest'ultimo non è necessario, ai sensi dell'art. 3 del citato d.P.R. (come modificato dalla l. 03.08.2013, n. 98 e dalla l. 23.05.2014, n. 80), per i soli interventi in cui ricorrono contestualmente i requisiti di cui al comma primo, lett. e 5), del predetto art. 3 (collocazione all'interno di una struttura ricettiva all'aperto, temporaneo ancoraggio al suolo, conformità alla normativa regionale di settore, destinazione alla sosta ed al soggiorno, necessariamente occasionali e limitati nel tempo, di turisti).
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1. Il ricorso è inammissibile perché meramente riproduttivo delle medesime doglianze già rigettate dalla Corte territoriale con motivazione immune da vizi logici e giuridici.
2. Per dare un ordine logico alla trattazione dei motivi di ricorso, occorre prendere le mosse dal secondo, con cui la ricorrente contesta la sussistenza dei reati.
Il motivo è manifestamente infondato perché diretto a una diversa valutazione dei dati probatori, non consentita in sede di legittimità.
2.1. Secondo quanto accertato dai giudici di merito, con doppia valutazione conforme, sul terreno di proprietà dell'imputata era stato posizionato un prefabbricato modulare di 42 mq., in parte poggiato su carrello, in parte su pali telescopici, articolato in due unità abitative arredate, con ingressi distinti, dotate la prima di cucina, bagno e una camera da letto e la seconda di una cucina, due camere da letto e un vano adibito a bagno; all'esterno, il manufatto presenta una terrazza con parapetti in metalli a protezione e un'area pavimentata con mattoni autobloccanti.
2.2. Ciò posto, con apprezzamento fattuale logicamente motivato, la Corte territoriale ha ribadito che il manufatto era adibito ad uso abitativo, il che esclude in radice l'invocata applicazione della disciplina regionale, la quale si riferisce a impianti prefabbricati a uso non abitativo.
La Corte territoriale, inoltre, ha ribadito la sussistenza del reato, facendo corretta applicazione del principio secondo cui è configurabile il reato di costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380) nell'ipotesi di installazione su un terreno, senza permesso di costruire, di strutture mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia pure montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una destinazione duratura al soddisfacimento di esigenze abitative (Sez. 3, n. 25015 del 23/03/2011 - dep. 22/06/2011, Di Rocco, Rv. 250601: nella specie si trattava di case prefabbricate munite di ruote gommate).
Si è parimenti precisato che integra il reato di costruzione edilizia abusiva la collocazione su un'area di una "casa mobile" con stabile destinazione abitativa, in assenza di permesso di costruire, perché quest'ultimo non è necessario, ai sensi dell'art. 3 del citato d.P.R. (come modificato dalla l. 03.08.2013, n. 98 e dalla l. 23.05.2014, n. 80), per i soli interventi in cui ricorrono contestualmente i requisiti di cui al comma primo, lett. e 5), del predetto art. 3 (collocazione all'interno di una struttura ricettiva all'aperto, temporaneo ancoraggio al suolo, conformità alla normativa regionale di settore, destinazione alla sosta ed al soggiorno, necessariamente occasionali e limitati nel tempo, di turisti) (Sez. 3, n. 41067 del 15/09/2015 - dep. 13/10/2015, Pullara, Rv. 264840).
2.3. Nel caso in esame, come anticipato, i giudici di merito hanno accertato che l'opera, seppur potenzialmente mobile e precaria, era fissata al terreno attraverso tubi telescopi posizionati alla base del terreno ed era corredata, nella parte esterna, da una terrazza con parapetti e una pavimentazione in mattino, da ciò logicamente desumendo che era destinata a soddisfare esigenze abitative di carattere duraturo, come tra l'altro dimostrato dal fatto che dal momento dell'installazione de fabbricato (settembre 2014) fino al giugno 2015 la casa mobile era rimasta in maniera stabile e perdurante sul fondo dell'imputata.
3. Il primo motivo è manifestamente infondato.
3.1. La speciale causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen. -applicabile, ai sensi del comma 1, ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta- è configurabile in presenza di una duplice condizione, essendo congiuntamente richieste la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento.
Il primo dei due requisiti richiede, a sua volta, la specifica valutazione della modalità della condotta e dell'esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall'art. 133 cod. pen., cui segue, in caso di vaglio positivo -e dunque nella sola ipotesi in cui si sia ritenuta la speciale tenuità dell'offesa-, la verifica della non abitualità del comportamento, che il legislatore esclude nel caso in cui l'autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
3.2. Con riferimento, in particolare, alla speciale tenuità dell'offesa, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa che prenda in esame tutte le peculiarità della fattispecie concreta riferite alla condotta in termini di possibile disvalore e non solo di quelle che attengono all'entità dell'aggressione del bene giuridico protetto, che comunque ricorre senza distinzione tra reati di danni e reati di pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 - dep. 06/04/2016, Tushaj, Rv. 266590).
3.3. Nel caso in esame, la Corte territoriale, con apprezzamento fattuale logicamente motivato, ha correttamente negato la sussistenza dei presupposti integranti la causa di non punibilità in esame, per l'assorbente ragione che è stata esclusa la "speciale tenuità" dell'offesa in considerazione del tipo e delle dimensioni del manufatto, come sopra descritto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.08.2019 n. 36481).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell'art. 23 ss., d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in presenza di D.I.A. in materia edilizia, decorso il termine di trenta giorni dalla sua presentazione, l'Amministrazione può assumere determinazioni soltanto nel rispetto delle condizioni prescritte per l'esercizio dei poteri di autotutela dall'art. 21-nonies della l. n. 241/1990.
La denuncia di inizio attività (D.I.A.), una volta perfezionatasi, costituisce, infatti, un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l'esercizio del potere di autotutela decisoria.
Ne consegue l'illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una D.I.A. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.

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4) Il ricorso è fondato.
5) Colgono nel segno i primi due motivi di ricorso con i quali la ricorrente deduce l’illegittimità del provvedimento inibitorio impugnato per inosservanza del termine di trenta giorni previsto dall’art. 23 DPR 380/2001 per la sua adozione.
6) Sul punto, la giurisprudenza è costante nell’affermare che “ai sensi dell'art. 23 ss., d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in presenza di D.I.A. in materia edilizia, decorso il termine di trenta giorni dalla sua presentazione, l'Amministrazione può assumere determinazioni soltanto nel rispetto delle condizioni prescritte per l'esercizio dei poteri di autotutela dall'art. 21-nonies della l. n. 241/1990. La denuncia di inizio attività (D.I.A.), una volta perfezionatasi, costituisce, infatti, un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l'esercizio del potere di autotutela decisoria. Ne consegue l'illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una D.I.A. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela" (ex multis: TAR Sicilia Palermo sez. III 28/02/2018 n. 514; TAR Campania Napoli sez. VIII 21/02/2018 n. 1145) (TAR Lazio-Latina, sentenza 24.08.2019 n. 525 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATANell'impugnazione di un diniego di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione, il proprietario confinante non configura un controinteressato in senso formale e sostanziale, nei riguardi dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per lo stesso dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando egli abbia provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso, atteso che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze solo indirette o riflesse), ma unicamente a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica
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8) E’ principio costante in giurisprudenza che “Nell'impugnazione di un diniego di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione, il proprietario confinante non configura un controinteressato in senso formale e sostanziale, nei riguardi dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per lo stesso dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando egli abbia provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso, atteso che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze solo indirette o riflesse), ma unicamente a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica” (ex multis TAR Lazio Latina 17/04/2015 n. 346) (TAR Lazio-Latina, sentenza 24.08.2019 n. 523 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990 e ordinanza di demolizione: l’irrilevanza dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento.
La motivazione del TAR Calabria, sez. Reggio Calabria, contenuta nella sentenza n. 513 del 2019, non si discosta dalla giurisprudenza dominante che identifica l’ordinanza di demolizione come un atto di natura vincolata e che l’eventuale omessa comunicazione dell’avvio del relativo procedimento non produce effetti vizianti sull’atto sanzionatorio emanato ex art. 31 D.P.R. 380/2001.
Infatti, secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’ordinanza di demolizione costituisce un atto di natura vincolata, con la conseguenza che l’eventuale omessa comunicazione dell’avvio del relativo procedimento non produce effetti vizianti sull’atto sanzionatorio emanato ex art. 31 D.P.R. 380/2001: “L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della PA con la conseguenza che i relativi provvedimenti -tra cui l’ordinanza di demolizione- costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto”
(ex pluribus: TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 09.06.2015 n. 3119).
Tuttavia, il TAR Calabria, sez. Reggio Calabria si sofferma su un aspetto estremamente rilevante, ossia: “in virtù dell’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, che l’omessa comunicazione ex art. 7 L.n. 241/1990 non determina l’annullabilità del provvedimento: “Per effetto della dequotazione introdotta dall’art. 21-octies L. 241/1990, nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato” (TAR Lecce sez. II, 14.03.2019 n. 441; Cons. St. Sez. VI, 12.08.2016 n. 3620).
Nel caso concreto, se anche tale comunicazione fosse intervenuta, l’apporto partecipativo del ricorrente non sarebbe stato decisivo, quanto meno nei termini dallo stesso prospettati con la censura in esame”. Rimane, quindi, da approfondire un argomento (a contrario), di estremo interesse anche da un punto di vista “pratico” e di “casistica”: l’identificazione dei termini minimi e necessari per considerare l’apporto partecipativo del ricorrente come “decisivo” al fine di poter concludere che l’eventuale omissione di partecipazione al procedimento amministrativo ex L. 241/1990 possa essere ritenuta “rilevante” dal Giudice Amministrativo.

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Rapporto tra l’ordine di demolizione e la tutela dell’affidamento del privato: aspetti esemplificativi del “carattere incolpevole”.
In ordine al rapporto tra l’ordine di demolizione e la tutela dell’affidamento del privato, il decorso anche di un lungo tempo non è idoneo a far perdere il potere dell’amministrazione di provvedere in quanto, se così fosse, si realizzerebbe una sorta di sanatoria “extra ordinem”, non potendo la distanza temporale tra l’abuso e la sua repressione giustificare la formazione di un legittimo affidamento anche nell’ipotesi in cui l’attuale proprietaria dell’immobile non sia responsabile dell’abuso (cfr. Cons. St. sez. II, 24.06.2019 n. 4315).
Tuttavia, l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole (…) (sentenza n. 9 del 2017 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato).
Invero, alcuni degli elementi sintomatici del predetto carattere incolpevole sono rinvenibili:
   1. nell’ipotesi in cui il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato
(TAR Napoli, con sentenze n. 5473 del 20.11.2017, n. 184 del 10.01.2018, n. 685 del 31.01.2018, n. 1273 del 26.02.2018 e n. 1493 del 08.03.2018);
   2. la risalenza nel tempo dell’abuso contestato, l’affidamento ingeneratosi in conseguenza del rilascio del titolo edilizio del locale integrano, complessivamente considerati, altrettanti parametri oggettivi di riferimento da valutare
(Consiglio di Stato con la sentenza n. 3372 del 04.06.2018).
L’incolpevole affidamento del privato è caratterizzato, nel caso in esame, dalla piena conoscenza dello stato dei luoghi da parte della P.A. e dall’implicita attività di controllo dalla stessa effettuato in merito alla regolarità edilizia ed urbanistica del manufatto.

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Il decorso di un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso edilizio determina l’obbligo di motivazione del Comune sulla prolungata inerzia.
Nel caso sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso edilizio, l’Amministrazione è tenuta a specificare la sussistenza dell’interesse pubblico all’eliminazione dell’opera realizzata o, addirittura, a indicare le ragioni della sua prolungata inerzia, atteso che si sarebbe ingenerato un affidamento in capo al privato, solo in caso di situazioni assolutamente eccezionali nelle quali risulti evidente la sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata (cfr.TAR Napoli sez. VII, 03.05.2018 n. 2972).
Nel caso in esame il TAR Calabria, puntualizza come il Comune “per superare le smagliature della contraddittoria azione amministrativa posta in essere, avrebbe dovuto ricorrere ad una adeguata motivazione su quello che era il concreto ed attuale l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi, comparandolo con l’interesse oppositivo del privato a conservare l’integrità dell’assetto edilizio minacciato”.

...
L’ordine di demolizione di un manufatto di modeste dimensioni: l’assenza di un pregiudizio all’interesse pubblico urbanistico.
Discutendosi nel caso in esame di un manufatto di modeste dimensioni ricadente in un cortile di proprietà esclusiva della ricorrente, intercluso alla pubblica via e destinato a vano cucina, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto illegittimo “il provvedimento con il quale un Comune ha ordinato la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, in relazione a un abuso edilizio (accertato 54 anni dopo la realizzazione) nel caso in cui lo stesso si traduca in una modifica di lieve entità, con sostanziale assenza di un pregiudizio all’interesse pubblico urbanistico e, pertanto, in mancanza di “offensività” per l’interesse pubblico tutelato. Ciò che viene a mancare è proprio l’esistenza di un abuso rilevante, tale da giustificare l’irrogazione della sanzione edilizia” (cfr. Cons. St. sez. VI 28.05.2018 n. 2237) (TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I, sentenza 24.08.2019 n. 513 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza maggioritaria, l’ordinanza di demolizione costituisce un atto di natura vincolata, con la conseguenza che l’eventuale omessa comunicazione dell’avvio del relativo procedimento non produce effetti vizianti sull’atto sanzionatorio emanato ex art. 31 D.P.R. 380/2001.
Invero, “L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della PA con la conseguenza che i relativi provvedimenti–tra cui l’ordinanza di demolizione–costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto”.
Ne consegue, anche in virtù dell’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, che l’omessa comunicazione ex art. 7 L. n. 241/1990 non determina l’annullabilità del provvedimento: “Per effetto della dequotazione introdotta dall’art. 21-octies L. 241/1990, nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato”.
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1. Con ricorso notificato in data 25.10.2018 e tempestivamente depositato, la sig.ra Pa.An. ha agito in giudizio nei confronti del Comune di Reggio Calabria e del Dirigente del Settore Pianificazione Urbana per ottenere l’annullamento dell’ordine di esecuzione delle opere di demolizione e di sgombero dei lavori abusivi con ripristino dello stato dei luoghi entro il termine di novanta giorni, assunto in data 08.08.2018 e comunicato il 31.08.2018.
2. Nei fatti, la ricorrente ha esposto:
   - di essere comproprietaria dell’immobile sito in Reggio Calabria alla via ... n. 7f, primo piano fuori terra;
   - di aver ricevuto in data 31.08.2018 la notifica del predetto ordine di demolizione relativo ad un “corpo avanzato in m.o. e c.a…. munito di apertura finestra lato monte con conseguente ampliamento volumetrico dell’immobile in quanto collegato al vano soggiorno tramite apertura interna”, ordine giunto a seguito dell’esecuzione di rilievi e misurazioni del manufatto -poi individuato come abusivo ad opera degli agenti del Comando di Polizia Municipale di Reggio Calabria- effettuati in data 13.06.2018.
3. Avverso l’ordine di demolizione è insorta l’esponente, deducendone l’illegittimità sulla base dei seguenti motivi:
   - Violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 8 della L. 241/1990 per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento relativamente al provvedimento di ingiunzione impugnato.
Con il primo motivo viene censurata la violazione dell’art. 7 della L. 241/1990, in quanto la comunicazione dell’avvio del procedimento, se avvenuta, avrebbe consentito all’odierna ricorrente di modificare il contenuto della statuizione amministrativa attraverso la dimostrazione del fatto che il manufatto era stato realizzato in data anteriore al 1967;
   - Illegittimità del provvedimento per contraddittorietà degli atti; violazione dell’art. 32, comma 37, della L. 326/2003, del principio del legittimo affidamento, nonché sull’errata applicazione del D.P.R. 380/2001.

Con il secondo motivo viene censurata la contraddittorietà degli atti adottati dal Comune sulla scorta di una perizia giurata allegata dalla ricorrente, da cui emergerebbe che in data 01.08.1991 erano state effettuate delle ristrutturazioni interne sull’unità immobiliare in questione di cui il Comune era stato portato a conoscenza, senza che venisse contestato alcunché rispetto al manufatto oggetto del contenzioso, ingenerando nel privato un legittimo affidamento sulla regolarità edilizia dell’opera.
Completava il mezzo di gravame la doglianza relativa alla carenza motivazionale del provvedimento di demolizione.
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7. Il Collegio, dando seguito alla sommaria valutazione della controversia espressa in sede cautelare, reputa che il ricorso meriti di essere accolto, avuto riguardo alla fondatezza del secondo motivo di impugnazione.
8. Affrontando nell’ordine di prospettazione le censure formulate dalla ricorrente, va innanzitutto disattesa la prima censura incentrata sulla mancata comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. n. 241/1990.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’ordinanza di demolizione costituisce un atto di natura vincolata, con la conseguenza che l’eventuale omessa comunicazione dell’avvio del relativo procedimento non produce effetti vizianti sull’atto sanzionatorio emanato ex art. 31 D.P.R. 380/2001: “L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della PA con la conseguenza che i relativi provvedimenti–tra cui l’ordinanza di demolizione–costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto” (ex pluribus: TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 09.06.2015 n. 3119).
Ne consegue, anche in virtù dell’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, che l’omessa comunicazione ex art. 7 L. n. 241/1990 non determina l’annullabilità del provvedimento: “Per effetto della dequotazione introdotta dall’art. 21-octies L. 241/1990, nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato” (TAR Lecce sez. II, 14.03.2019 n. 441; Cons. St. Sez. VI, 12.08.2016 n. 3620).
Nel caso concreto, se anche tale comunicazione fosse intervenuta, l’apporto partecipativo del ricorrente non sarebbe stato decisivo, quanto meno nei termini dallo stesso prospettati con la censura in esame.
La ricostruzione difensiva di parte ricorrente si fonda, infatti, sul rilievo che gli abusi contestati consisterebbero nell’esecuzione di interventi realizzati al di fuori del centro abitato del Comune resistente in epoca anteriore alla entrata in vigore della legge n. 765/1967, atteso che, solo con l'entrata in vigore della stessa è stato generalizzato, dal 01.09.1967, l’obbligo sino ad allora limitato ai centri urbani, di richiedere al Sindaco apposita “licenza edilizia” per l’attività costruttiva.
Sennonché, mentre in atti è stato offerto un riscontro probatorio idoneo ad attestare la preesistenza del contestato intervento edilizio in epoca anteriore al 1967 (v. planimetria catastale del 01.04.1966 in cui si nota chiaramente l’esistenza del vano adibito a cucina di cui si discute -all. 2 parte ricorrente), non è invece stata sufficientemente dimostrata la sicura collocazione fisica dell’edificio principale, rispetto al quale il manufatto da demolire rappresenta un’evidente struttura aggiuntiva, all’esterno del centro abitato, tale da non necessitare del titolo edilizio espresso.
Il motivo in esame non può dunque essere accolto (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 24.08.2019 n. 513 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla tutela dell’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole.
Il Collegio non intende rimettere qui in discussione il condivisibile approdo giurisprudenziale raggiunto dalla sentenza n. 9 del 2017 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato concernente il rapporto tra ordine di demolizione e tutela di affidamento del privato.
Come è noto, l’Adunanza Plenaria ha chiarito che il decorso anche di un lungo tempo non è idoneo a far perdere il potere dell’amministrazione di provvedere in quanto, se così fosse, si realizzerebbe una sorta di sanatoria “extra ordinem”, non potendo la distanza temporale tra l’abuso e la sua repressione giustificare la formazione di un legittimo affidamento.
Questi esiti, condivisi anche dalla recente giurisprudenza amministrativa, devono rimanere fermi anche nell’ipotesi, come quella in decisione, in cui l’attuale proprietaria dell’immobile non sia responsabile dell’abuso.
Bisogna tuttavia dar conto che, in epoca relativamente recente, la giurisprudenza amministrativa ha apportato significative precisazioni sul tema del rapporto tra ordine di demolizione e legittimo affidamento, attualizzando la portata interpretativa della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9/2017 che si era limitata a ribadire l’esistenza dell’istituto (al paragrafo 7.3, si riconosce che: “(…) l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole (…)”, senza peraltro ancora chiarire quando in concreto esso rivestisse portata “scriminante” nei confronti del responsabile dell’abuso.
Il TAR Napoli, ad esempio, con sentenza n. 5473 del 20.11.2017, anch’essa successiva all’arresto dell’A.P. n. 9/2017, puntualmente richiamata, e più recentemente, con sentenze n. 184 del 10.01.2018, n. 685 del 31.1.2018, n. 1273 del 26.02.2018 e n. 1493 del 08.03.2018 ha stabilito “come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa”.
Similarmente, il Consiglio di Stato ha aggiunto qualche ulteriore elemento chiarificatore, affermando che “La risalenza nel tempo dell’abuso contestato, l’affidamento ingeneratosi in conseguenza del rilascio del titolo edilizio del locale (tecnico-deposito poi utilizzato come) garage, integrano, complessivamente considerati, altrettanti parametri oggettivi di riferimento da valutare, decorsi oltre quaranta anni dalla realizzazione dell’abuso, prima d’adottare la misura ripristinatoria ovvero da dover indurre il Comune a fornire adeguata motivazione sull’interesse pubblico attuale al ripristino dello stato dei luoghi”.
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In casi analoghi a quello qui in discussione, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto illegittimo “il provvedimento con il quale un Comune ha ordinato la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, in relazione a un abuso edilizio (accertato 54 anni dopo la realizzazione) nel caso in cui lo stesso si traduca in una modifica di lieve entità, con sostanziale assenza di un pregiudizio all'interesse pubblico-urbanistico e, pertanto, in mancanza di“ offensività” per l'interesse pubblico tutelato. Ciò che viene a mancare è proprio l'esistenza di un abuso rilevante, tale da giustificare l'irrogazione della sanzione edilizia”.
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9. Meritano invece condivisione le doglianze illustrate con il secondo motivo di ricorso.
Va premesso che il Collegio non intende rimettere qui in discussione il condivisibile approdo giurisprudenziale raggiunto dalla sentenza n. 9 del 2017 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato concernente il rapporto tra ordine di demolizione e tutela di affidamento del privato.
Come è noto, l’Adunanza Plenaria ha chiarito che il decorso anche di un lungo tempo non è idoneo a far perdere il potere dell’amministrazione di provvedere in quanto, se così fosse, si realizzerebbe una sorta di sanatoria “extra ordinem”, non potendo la distanza temporale tra l’abuso e la sua repressione giustificare la formazione di un legittimo affidamento.
Questi esiti, condivisi anche dalla recente giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. St. sez. II, 24.06.2019 n. 4315), devono rimanere fermi anche nell’ipotesi, come quella in decisione, in cui l’attuale proprietaria dell’immobile non sia responsabile dell’abuso.
Bisogna tuttavia dar conto che, in epoca relativamente recente, la giurisprudenza amministrativa ha apportato significative precisazioni sul tema del rapporto tra ordine di demolizione e legittimo affidamento, attualizzando la portata interpretativa della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2017 che si era limitata a ribadire l’esistenza dell’istituto (al paragrafo 7.3, si riconosce che: “(…) l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole (…)”, senza peraltro ancora chiarire quando in concreto esso rivestisse portata “scriminante” nei confronti del responsabile dell’abuso.
Il TAR Napoli, ad esempio, con sentenza n. 5473 del 20.11.2017, anch’essa successiva all’arresto dell’A.P. n. 9/2017, puntualmente richiamata, e più recentemente, con sentenze n. 184 del 10.01.2018, n. 685 del 31.01.2018, n. 1273 del 26.02.2018 e n. 1493 del 08.03.2018 ha stabilito “come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2009, n. 5509)”.
Affrontando una vicenda simile a quella che deve essere qui decisa, il Consiglio di Stato con la sentenza n. 3372 del 04.06.2018 ha aggiunto qualche ulteriore elemento chiarificatore, affermando che “La risalenza nel tempo dell’abuso contestato, l’affidamento ingeneratosi in conseguenza del rilascio del titolo edilizio del locale (tecnico-deposito poi utilizzato come) garage, integrano, complessivamente considerati, altrettanti parametri oggettivi di riferimento da valutare, decorsi oltre quaranta anni dalla realizzazione dell’abuso, prima d’adottare la misura ripristinatoria ovvero da dover indurre il Comune a fornire adeguata motivazione sull’interesse pubblico attuale al ripristino dello stato dei luoghi”.
Vero che qui il Comune di Reggio Calabria non ha rimosso alcun titolo edificatorio in precedenza rilasciato alla ricorrente o al suo dante causa e che quindi non si può applicare a un fatto illecito -quale è, si ribadisce, l’abuso edilizio- il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per il ben diverso ordine di presupposti su cui si fonda l’istituto dell’autotutela decisoria, ma è altrettanto vero che la stessa Amministrazione resistente, come pacificamente emerso in corso di causa (v. perizia giurata all. 5 parte ricorrente, depositata il 09.11.2018) ha avuto o poteva avere certamente contezza della natura abusiva del vano cucina in contestazione fin dal 1991, epoca in cui lo stesso Comune resistente ne ha permesso la ristrutturazione attraverso la ridistribuzione degli spazi disponibili.
Più precisamente, il riferimento corre alla comunicazione di inizio lavori datata 01.08.1991, a seguito della quale la ricorrente ha realizzato sull’immobile per cui è causa opere di ristrutturazione interna ai sensi dell’art. 26 della Legge n. 47 del 28.02.1985, comportanti una nuova distribuzione degli spazi interni, destinando il vano di cui oggi si è ingiunta la demolizione al solo angolo cottura e lo spazio occupato originariamente dalla cucina a soggiorno.
In quell’occasione, come puntualmente evidenziato dalla difesa della ricorrente, l’Amministrazione comunale non ha posto alcuna obiezione né sulla regolarità dei lavori da eseguire né tanto meno sul carattere abusivo o meno del vano ripostiglio all’interno del quale essi furono realizzati né sulla sua destinazione d’uso rimasta peraltro immutata.
10. A fronte di siffatto contesto fattuale, è opinione del Collegio che l’incolpevole affidamento del privato possa dirsi positivamente, ancorché eccezionalmente, caratterizzato dalla piena conoscenza dello stato dei luoghi da parte della P.A. e dall’implicita attività di controllo dalla stessa effettuato in merito alla regolarità edilizia ed urbanistica del manufatto in questione, discendendone sul piano giuridico due decisive considerazioni.
La prima è che, come annotato da attenta giurisprudenza (cfr.TAR Napoli sez. VII, 03.05.18 n. 2972), “ove sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell'abuso edilizio, l'Amministrazione è tenuta a specificare la sussistenza dell'interesse pubblico all'eliminazione dell'opera realizzata o, addirittura, a indicare le ragioni della sua prolungata inerzia, atteso che si sarebbe ingenerato un affidamento in capo al privato, solo in caso di situazioni assolutamente eccezionali nelle quali risulti evidente la sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e l'interesse pubblico al ripristino della legalità violata”.
La seconda è che il Comune, per superare le smagliature della contraddittoria azione amministrativa posta in essere, avrebbe dovuto ricorrere ad una adeguata motivazione su quello che era il concreto ed attuale l'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi, comparandolo con l’interesse oppositivo del privato a conservare l’integrità dell’assetto edilizio minacciato.
Sotto questo profilo -evidenzia il Collegio- ciò di cui si va discorrendo è un manufatto di modeste dimensioni ricadente in un cortile di proprietà esclusiva della ricorrente, intercluso alla pubblica via e destinato a vano cucina.
In casi analoghi, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto illegittimo “il provvedimento con il quale un Comune ha ordinato la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, in relazione a un abuso edilizio (accertato 54 anni dopo la realizzazione) nel caso in cui lo stesso si traduca in una modifica di lieve entità, con sostanziale assenza di un pregiudizio all'interesse pubblico-urbanistico e, pertanto, in mancanza di“ offensività” per l'interesse pubblico tutelato. Ciò che viene a mancare è proprio l'esistenza di un abuso rilevante, tale da giustificare l'irrogazione della sanzione edilizia” (cfr. Cons. St. sez. VI 28.05.2018 n. 2237).
Quanto illustrato conferma, pertanto, il convincimento che l’Amministrazione resistente debba necessariamente rivalutare, prima di riadottare una nuova ed eventuale misura demolitoria, il tempo trascorso, l’attività di controllo già implicitamente posta in essere quasi trent’anni fa e la preminenza dell’interesse pubblico in relazione all’entità e alla destinazione dell’opera da demolire.
Del resto, anche la giurisprudenza della Corte europea, intervenendo sulla compatibilità dell’ordine di demolizione con la CEDU, non ha mancato di sottolineare che il giudice nazionale deve sempre verificare se l’Amministrazione abbia esercitato i propri poteri valutando “caso per caso” se l’esecuzione dell’ordine possa incidere, in violazione del principio di proporzionalità, sul diritto all’abitazione, richiedendo in tal caso un obbligo particolare di motivazione (cfr. Corte eur. dir. uomo, 21.04.2016, ric. n. 46577/15).
11. Per le ragioni sin qui esaminate, il ricorso in epigrafe deve essere accolto e, per l’effetto, deve essere disposto l’annullamento dell’atto impugnato (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 24.08.2019 n. 513 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza).
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Sul tema della sorte processuale del ricorso avverso l’ordinanza di demolizione seguita da un’istanza di sanatoria, è ormai principio acquisito nella giurisprudenza anche di questa Sezione quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza)” (cfr. ex multis TAR Reggio Calabria 17.9.18, n. 559; 03.07.18, n. 406) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 24.08.2019 n. 511 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul cambio di destinazione d’uso da laboratorio a luogo di aggregazione e di preghiera (moschea).
Come chiarito efficacemente dalla giurisprudenza, la ratio dell’art. 52, comma 3-bis, L.R. 11.03.2005 n. 12 (Lombardia) é quella di garantire il controllo dei mutamenti di destinazione d'uso suscettibili, per l'afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali) aventi come destinazione principale o esclusiva l'esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni.
Essendo questa la sua ratio, affinché la disposizione possa dirsi effettivamente violata è necessario che sia adeguatamente dimostrato che l'edificio costituisca, in ragione delle funzioni che gli sono state impresse in assenza di titolo edilizio, un forte centro di aggregazione umana presso il quale si riunisce, a fini religiosi o sociali, un elevato numero di persone.
Non è invece sufficiente, come ha chiarito la succitata sentenza, l'occasionale riscontro della presenza di persone raccolte in preghiera, non potendosi qualificare, ai predetti fini, "luogo di culto", un centro culturale o altro luogo di riunione nel quale si svolgano, privatamente e saltuariamente, preghiere religiose; tanto più ove si consideri che non rileva, di norma, ai fini urbanistici l'uso di fatto dell'immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è libero di esplicare.
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Come affermato dalla giurisprudenza e dalla prassi (in tal senso il parere al Ministero dell'Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l'Islam Italiano), per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l'uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l'altro estrinseco, dato dal dover accogliere "tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte" e "consentire la pratica del culto a tutti i fedeli della religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola o nazionalità essi siano".
Allo stesso modo, si ribadisce che una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica, e anche di altri culti, può esistere anche all'interno di una proprietà privata —come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di istituti, dove è ben possibile dire regolarmente Messa— ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli.
Pertanto, l'uso incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l'accesso per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai membri dell'associazione ma indiscriminato, perché è in quest'ultimo caso che si verifica l'aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto accertato dall'autorità attraverso una corretta e completa istruttoria.
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Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, la modifica della destinazione d'uso -nel caso di specie a luogo di culto- deve trovare una precisa corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere realizzate in quanto la stessa non può essere certamente inferita dall'uso di fatto che possa, in precedenza, essere stato posto in essere.
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Dall’esame degli atti risulta che l’utilizzo permanente ad uso di culto è provato non solo dall’accesso presso la sede dell’associazione ma anche dalle dichiarazioni delle persone interrogate sul luogo, da video su youtube, da estratti di siti web e dalle dichiarazioni rese sul motore di ricerca google da persone che hanno frequentato il luogo.
Deve quindi escludersi che l’individuazione dell’uso dell’immobile sia stato affidato ad un solo accesso ma deriva da una pluralità di elementi che formano un complesso di indizi gravi precisi e concordanti in merito all’utilizzo non saltuario dell’immobile quale luogo di culto aperto alla generalità dei fedeli.
A ciò si aggiunge che dal sopralluogo effettuato dalla Polizia Locale risulta, tra l’altro, un’insegna sull’immobile con la denominazione “....”, ossia moschea.
A ciò si aggiunge che nessuna prova contraria è fornita dalla ricorrente, neppure in merito al preteso mancato accertamento dei caratteri delle suppellettili presenti nell’immobile.

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Sebbene possa convenirsi con la giurisprudenza citata dalla ricorrente, secondo la quale non è luogo di culto ai fini urbanistici quello utilizzato a tali fini saltuariamente, per uso privato, e con frequenza limitata, manca nel caso di specie alcuna prova che effettivamente si sia trattato di un uso di tal fatta.
Infatti non esiste traccia dell’uso a laboratorio dell’immobile né di altro uso diverso da quello individuato dagli accertamenti della polizia locale. Si tratta inoltre di locali assurti all’onore della cronaca per l’uso a fini religiosi continuo da parte di un ampio numero di persone, con la conseguenza che si deve escludere che l’uso religioso sia saltuario ed abbia natura privata.
In merito la giurisprudenza ha chiarito che il mutamento d’uso dell’immobile, in assenza di opere edilizie, diviene rilevante, in base all’articolo 32 del D.P.R. n. 380/2001, esclusivamente ove implichi variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968.
L’afflusso non sporadico di un notevole numero di persone porta ad escludere che il cambio di destinazione d’uso in questione non sia idoneo a determinare un aumento del fabbisogno di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale tale da renderlo irrilevante dal punto di vista urbanistico.
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1. La ricorrente ha impugnato l’ordine di rimessione in pristino della precedente destinazione edilizia dell’immobile sito in Milano via ... n. 15, sede dell’associazione ricorrente. Il Comune ha contestato il cambio di destinazione d’uso da laboratorio a luogo di aggregazione e di preghiera e la realizzazione di opere di manutenzione straordinaria.
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Come chiarito efficacemente dalla giurisprudenza del TAR adito, infatti, (cfr. ex multis TAR Lombardia Milano, Sez. II, 08.11.2013 n. 2486) la ratio dell’art. 52, comma 3-bis, L.R. 11.03.2005 n. 12 é quella di garantire il controllo dei mutamenti di destinazione d'uso suscettibili, per l'afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali) aventi come destinazione principale o esclusiva l'esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni (cfr. TAR Lombardia Milano, Sez. II, 28.10.2010 n. 7050).
Essendo questa la sua ratio, affinché la disposizione possa dirsi effettivamente violata è necessario che sia adeguatamente dimostrato che l'edificio costituisca, in ragione delle funzioni che gli sono state impresse in assenza di titolo edilizio, un forte centro di aggregazione umana presso il quale si riunisce, a fini religiosi o sociali, un elevato numero di persone. Non è invece sufficiente, come ha chiarito la succitata sentenza, l'occasionale riscontro della presenza di persone raccolte in preghiera, non potendosi qualificare, ai predetti fini, "luogo di culto", un centro culturale o altro luogo di riunione nel quale si svolgano, privatamente e saltuariamente, preghiere religiose; tanto più ove si consideri che non rileva, di norma, ai fini urbanistici l'uso di fatto dell'immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è libero di esplicare (cfr. TAR Milano, Sez. Il, 17.09.2009 n. 4665).
Come affermato dalla giurisprudenza (in tal senso C.d.S., Sez. IV, 28.01.2011, n. 683) e dalla prassi (in tal senso il parere al Ministero dell'Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l'Islam Italiano), per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l'uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l'altro estrinseco, dato dal dover accogliere "tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte" e "consentire la pratica del culto a tutti i fedeli della religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola o nazionalità essi siano".
Allo stesso modo, si ribadisce che una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica, e anche di altri culti, può esistere anche all'interno di una proprietà privata —come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di istituti, dove è ben possibile dire regolarmente Messa— ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l'uso incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l'accesso per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai membri dell'associazione ma indiscriminato, perché è in quest'ultimo caso che si verifica l'aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto accertato dall'autorità attraverso una corretta e completa istruttoria (cfr. TAR Lombardia Brescia Sez. I sent. 29.05.2013 n. 522).
Trattasi, tuttavia, di indagini che l'Amministrazione comunale non può aver in alcun modo affrontato nel corso dell'istruttoria, dal momento in cui il provvedimento gravato è stato emesso in conseguenza di un unico e sporadico sopralluogo da parte della Polizia Locale.
3) Eccesso di potere sotto il profilo del difetto assoluto di motivazione in merito alla correlazione tra mutamento della destinazione d'uso a luogo di aggregazione e preghiera e le opere edilizie realizzate dalla ricorrente (ristrutturazione dei bagni e realizzazione di un bagno per disabili).
Secondo la ricorrente il provvedimento impugnato omette del tutto di specificare quale sia la presunta correlazione tra la realizzazione delle suddette opere e l'ipotizzato cambio di destinazione a "luogo di aggregazione e preghiera".
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, infatti, la modifica della destinazione d'uso -nel caso di specie a luogo di culto- deve trovare una precisa corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere realizzate in quanto la stessa non può essere certamente inferita dall'uso di fatto che possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. TAR Lombardia Milano Sez. II, Sent., 23.09.2010, n. 6415; TAR Lombardia Milano Sez. II, Sent., 23.09.2010, n. 6416; Tar Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665).
...
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Dall’esame degli atti risulta che l’utilizzo permanente ad uso di culto è provato non solo dall’accesso presso la sede dell’associazione ma anche dalle dichiarazioni delle persone interrogate sul luogo, da video su youtube, da estratti di siti web e dalle dichiarazioni rese sul motore di ricerca google da persone che hanno frequentato il luogo.
Deve quindi escludersi che l’individuazione dell’uso dell’immobile sia stato affidato ad un solo accesso ma deriva da una pluralità di elementi che formano un complesso di indizi gravi precisi e concordanti in merito all’utilizzo non saltuario dell’immobile quale luogo di culto aperto alla generalità dei fedeli.
A ciò si aggiunge che il sopralluogo effettuato dalla Polizia Locale in data 23.09.2014 è stato confermato da un ulteriore sopralluogo della Polizia Locale, in data 21.03.2019, dal quale risulta, tra l’altro, un’insegna sull’immobile con la denominazione “Sh.Ja.Ma.”, ossia moschea.
A ciò si aggiunge che nessuna prova contraria è fornita dalla ricorrente, neppure in merito al preteso mancato accertamento dei caratteri delle suppellettili presenti nell’immobile.
2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Sebbene possa convenirsi con la giurisprudenza citata dalla ricorrente, secondo la quale non è luogo di culto ai fini urbanistici quello utilizzato a tali fini saltuariamente, per uso privato, e con frequenza limitata, manca nel caso di specie alcuna prova che effettivamente si sia trattato di un uso di tal fatta.
Infatti non esiste traccia dell’uso a laboratorio dell’immobile né di altro uso diverso da quello individuato dagli accertamenti della polizia locale. Si tratta inoltre di locali assurti all’onore della cronaca per l’uso a fini religiosi continuo da parte di un ampio numero di persone, con la conseguenza che si deve escludere che l’uso religioso sia saltuario ed abbia natura privata.
In merito la giurisprudenza ha chiarito che il mutamento d’uso dell’immobile, in assenza di opere edilizie, diviene rilevante, in base all’articolo 32 del D.P.R. n. 380/2001, esclusivamente ove implichi variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968 (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 27.01.2015 n. 91).
L’afflusso non sporadico di un notevole numero di persone porta ad escludere che il cambio di destinazione d’uso in questione non sia idoneo a determinare un aumento del fabbisogno di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale tale da renderlo irrilevante dal punto di vista urbanistico.
3. Anche l’ultimo motivo di ricorso è infondato.
La correlazione tra i lavori di ristrutturazione dei bagni e la realizzazione di un bagno per disabili da un lato e la funzione religiosa dall’altro, è facilmente desumibile dal fatto che si tratta di servizi presenti normalmente in luoghi aperti al pubblico destinati a soddisfare le esigenze di persone che provengono dall’esterno.
Nessuna prova dell’uso privato di tali servizi è stata fornita dalla ricorrente. Poiché non è fornita prova di alcun uso dell’immobile diverso da quello religioso è del tutto ragionevole ritenere che i bagni siano a servizio degli avventori della moschea.
In definitiva quindi il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.08.2019 n. 1916 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L'art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, a norma del quale il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito...tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto, va letto alla luce di quanto previsto dai commi da 1 a 5 della stessa disposizione nonché dall'art. 90 del d.lgs., e, pertanto, è applicabile nei soli casi in cui l'atto di pianificazione sia prodromico e strettamente correlato alla realizzazione di un'opera pubblica.
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4.1. è necessario premettere che l'approvazione delle linee guida per la stesura del progetto pilota denominato «la logistica pubblica e privata nella filiera degli elettrodomestici» è avvenuta con delibera n. 953 del 10.09.2006, cui ha fatto seguito il decreto del 07.12.2006, con il quale il dirigente del settore mobilità, trasporti ed infrastrutture ha costituito il gruppo di lavoro e ripartito gli incarichi fra dipendenti assegnati allo stesso settore nonché alle funzioni «ciclo dei rifiuti» e «informatica»;
4.2. non vi è dubbio, pertanto, che debba trovare applicazione ratione temporis il richiamato art. 92 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, intitolato «corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti», con il quale il legislatore delegato, nel riprendere la previsione già contenuta, al momento della redazione del Codice dei contratti pubblici, nell'art. 18 comma 2 della legge n. 109/1994 (modificato dall'articolo 6, comma 1, lettera b), del D.L. 03.04.1995, n. 101, convertito con modificazioni dalla Legge 02.06.1995, n. 216 e successivamente sostituito dall'articolo 6, comma 13, della Legge 15.05.1997, n. 127 e dall'articolo 13, comma 4, della Legge 17.05.1999, n. 144) ha previsto che «Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.»;
4.3. sull'interpretazione della disposizione in parola si sono formati, principalmente nella giurisprudenza contabile, opposti orientamenti e se, da un lato, nei pareri espressi ex art. 7 l. n. 131/2003, è prevalso l'indirizzo che ritiene il corrispettivo previsto dall'art. 92, comma 6, necessariamente connesso alla realizzazione di un'opera pubblica, dall'altro è stata comunque espressa un'opinione minoritaria (Sezione Regionale di Controllo per il Veneto parere 22.11.2013 n. 361, parere 03.12.2013 n. 380
e parere 03.12.2013 n. 381) che, facendo leva sul tenore letterale della norma, ha ritenuto la stessa, per come formulata, idonea a ricomprendere nel suo ambito oggettivo ogni atto di pianificazione, a prescindere dal collegamento diretto con la progettazione e realizzazione dell'opera pubblica;
4.4. l'indirizzo maggioritario ha avuto l'avallo della Sezione Centrale delle Autonomie, la quale nell'adunanza del 04.04.2014 (
deliberazione 15.04.2014 n. 7), risolvendo il contrasto, ha privilegiato la tesi che, oltre a valorizzare il criterio sistematico e la ratio legis, armonizza la disposizione con i principi, desumibili dal d.lgs. n. 165/2001, cui si ispira la disciplina del trattamento economico dei dipendenti pubblici;
4.5. il Collegio ritiene condivisibile detta opzione interpretativa perché, a fronte di un tenore letterale della norma non univoco e compatibile con entrambe le tesi a confronto, occorre innanzitutto tener conto della collocazione della disposizione, che non può essere avulsa dal contesto nel quale è inserita, riguardante, nell'ambito dei «servizi attinenti all'architettura ed all'ingegneria» (così la rubrica del capo IV sostituita dall'articolo 2 del d.lgs. 31.07.2007 n. 113), la «progettazione interna ed esterna e livelli di progettazione» (art. 90) ed in particolare «le prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente competente alla formazione del programma triennale dei lavori pubblici» (così l'incipit dell'art. 90);
4.6. l'art. 90 circoscrive in modo chiaro l'ambito di applicazione della disciplina alle attività direttamente connesse con la realizzazione dell'opera pubblica o con la programmazione triennale degli interventi, sicché, evidentemente, anche l'atto di pianificazione al quale fa riferimento il comma 6 dell'art. 92 deve porsi in stretta correlazione con il successivo intervento;
4.7. d'altro canto l'espressione utilizzata dal legislatore, «atto di pianificazione comunque denominato», non è di per sé sufficiente a far attrarre nell'ambito oggettivo della disposizione qualsivoglia attività di programmazione, perché l'avverbio «comunque» è riferito alla denominazione, che evidentemente può variare da ente ad ente, e, quindi, non è di per sé sufficiente ad esprimere una volontà del legislatore di riconoscere l'incentivo in relazione ad ogni intervento programmatorio che venga svolto dal soggetto pubblico per mezzo dei propri dipendenti, anche se del tutto avulso dalla realizzazione di opere pubbliche;
4.8. è significativo che nello stesso periodo si precisi che l'incentivo inerente l'atto di pianificazione è ripartito fra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice, termine quest'ultimo che evoca il legame fra l'atto stesso e la successiva aggiudicazione dei lavori finalizzati alla realizzazione dell'opera pubblica;
4.9. la sentenza impugnata, della quale va corretta la motivazione ex art. 384, comma 4, cod. proc. civ., è conforme a diritto nella parte in cui ha escluso l'applicabilità del richiamato art. 92 d.lgs. n. 163/2006, assorbente rispetto alle ulteriori censure sviluppate nel secondo motivo, atteso che le disposizioni regolamentari non possono disciplinare la materia in modo difforme dalla legge che, nel caso di specie, legittima le singole amministrazioni a stabilire «modalità e criteri» per la ripartizione dell'incentivo fra i soggetti indicati nello stesso art. 92, ma non consente di attribuire il beneficio anche in relazione ad attività che esulano dalla previsione normativa;
4.10. al riguardo osserva il Collegio che le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92, nel riconoscere ai dipendenti pubblici un compenso ulteriore e speciale, derogano alla disciplina generale dettata dal d.lgs. n. 165/2001 che, quanto ai dirigenti, sancisce, all'art. 24, il principio dell'onnicomprensività della retribuzione e, per il restante personale, prevede, all'art. 45, che il trattamento economico, fondamentale ed accessorio, è quello previsto dalla contrattazione collettiva (con i limiti indicati dallo stesso decreto per la contrattazione decentrata);
4.11. le richiamate disposizioni, pertanto, non sono suscettibili di interpretazione analogica ed inoltre delle stesse non può essere fornita un'esegesi che, mortificando la ratio legis, finisca per estendere il beneficio anche ad attività che il legislatore non ha inteso espressamente includere fra quelle meritevoli di incentivazione;
4.12. in via conclusiva, poiché i ricorrenti non contestano in alcun modo che il progetto del quale qui si discute non fosse collegato alla realizzazione di un'opera pubblica (pag. 17 del ricorso) la censura è infondata e va rigettata perché il dispositivo della sentenza impugnata, di rigetto della domanda, è conforme al principio di diritto che il Collegio ritiene di dover enunciare nei termini che seguono: «l'art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, a norma del quale il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito...tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto, va letto alla luce di quanto previsto dai commi da 1 a 5 della stessa disposizione nonché dall'art. 90 del d.lgs., e, pertanto, è applicabile nei soli casi in cui l'atto di pianificazione sia prodromico e strettamente correlato alla realizzazione di un'opera pubblica»
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 14.08.2019 n. 21424).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: In tema di impiego pubblico, l'annullamento d'ufficio di provvedimenti che comportano l'illegittimo esborso di risorse pubbliche «non richiede una specifica valutazione in ordine all'interesse pubblico, atteso che esso deve considerarsi in re ipsa, con la conseguente irrilevanza "di ogni altra circostanza idonea a qualificare il contrapposto interesse del privato, quale, ad esempio, il perdurare nel tempo della situazione di fatto a lui vantaggiosa"».
La natura privatistica degli atti di gestione dei rapporti di lavoro di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 non consente alle Pubbliche Amministrazioni di esercitare il potere di autotutela, che presuppone la natura amministrativa del provvedimento e l'esercizio di poteri autoritativi.
Tuttavia, qualora l'atto adottato risulti in contrasto con norma imperativa, l'ente pubblico, che è tenuto a conformare la propria condotta alla legge, nel rispetto dei principi sanciti dall'art. 97 Cost., ben può sottrarsi unilateralmente all'adempimento delle obbligazioni che trovano titolo nell'atto illegittimo ed in tal caso, al di là dello strumento formalmente utilizzato e dell'autoqualificazione, la condotta della P.A. è equiparabile a quella del contraente che non osservi il contratto stipulato, ritenendolo inefficace perché affetto da nullità.
Dalla natura privatistica degli atti di gestione del rapporto discende inoltre che, qualora il dipendente intenda reagire all'atto unilaterale adottato dalla P.A., deve fare valere in giudizio il diritto soggettivo che da quell'atto è stato ingiustamente mortificato e non limitarsi a sostenere l'illegittimo esercizio di poteri di autotutela, perché il giudice ordinario è giudice non dell'atto ma del rapporto e dei diritti/doveri che dallo stesso scaturiscono.
Sulla base di detti principi è stato affermato, in relazione al trattamento economico, che l'atto deliberativo non è sufficiente a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al dipendente, occorrendo anche la conformità alle previsioni della legge e della contrattazione collettiva, in assenza della quale l'atto risulta essere affetto da nullità, con la conseguenza che la Pubblica Amministrazione, a ciò tenuta in forza della previsione di cui al richiamato art. 97 Cost., deve ripristinare la legalità violata.

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6. il motivo è, poi, infondato quanto alla doglianza relativa all'esercizio del potere di autotutela, che, secondo l'assunto dei ricorrenti contrapposto all'opinione espressa dalla Corte territoriale, richiederebbe da parte del datore di lavoro pubblico una valutazione comparativa fra gli interessi in rilievo, perché quello del privato può essere sacrificato solo in presenza di ragioni di interesse pubblico che giustifichino l'annullamento del provvedimento accrescitivo della sfera giuridica soggettiva del destinatario dell'atto;
6.1. il principio invocato è stato da tempo superato, in tema di impiego pubblico, dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui l'annullamento d'ufficio di provvedimenti che comportano l'illegittimo esborso di risorse pubbliche «non richiede una specifica valutazione in ordine all'interesse pubblico, atteso che esso deve considerarsi in re ipsa (ex multis, Cons. Stato, VI, 23.04.2009, n. 2510; più di recente, V, 23.10.2014 n. 5267; VI, 10.05.2013 n. 2539; III, 04.06.2012, n. 3290), con la conseguente irrilevanza "di ogni altra circostanza idonea a qualificare il contrapposto interesse del privato, quale, ad esempio, il perdurare nel tempo della situazione di fatto a lui vantaggiosa"» (C.d. S. 07.02.2018 n. 790);
6.2. nel caso di specie, inoltre, l'atto della cui legittimità si discute non può essere propriamente qualificato di autotutela, perché la giurisprudenza di questa Corte da tempo è consolidata nell'affermare che la natura privatistica degli atti di gestione dei rapporti di lavoro di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 non consente alle Pubbliche Amministrazioni di esercitare il potere di autotutela, che presuppone la natura amministrativa del provvedimento e l'esercizio di poteri autoritativi;
6.3. è stato, però, aggiunto che, qualora l'atto adottato risulti in contrasto con norma imperativa, l'ente pubblico, che è tenuto a conformare la propria condotta alla legge, nel rispetto dei principi sanciti dall'art. 97 Cost., ben può sottrarsi unilateralmente all'adempimento delle obbligazioni che trovano titolo nell'atto illegittimo ed in tal caso, al di là dello strumento formalmente utilizzato e dell'autoqualificazione, la condotta della P.A. è equiparabile a quella del contraente che non osservi il contratto stipulato, ritenendolo inefficace perché affetto da nullità (Cass. 26.02.2016 n. 3826, Cass. 01.10.2015 n. 19626, Cass. 08.04.2010 n. 8328 e Cass. 24.10.2008 n. 25761 quest'ultima in tema di revoca di inquadramento illegittimamente attribuito);
6.4. dalla natura privatistica degli atti di gestione del rapporto discende inoltre che, qualora il dipendente intenda reagire all'atto unilaterale adottato dalla P.A., deve fare valere in giudizio il diritto soggettivo che da quell'atto è stato ingiustamente mortificato e non limitarsi a sostenere l'illegittimo esercizio di poteri di autotutela, perché il giudice ordinario è giudice non dell'atto ma del rapporto e dei diritti/doveri che dallo stesso scaturiscono;
6.5. sulla base di detti principi è stato affermato, in relazione al trattamento economico, che l'atto deliberativo non è sufficiente a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al dipendente, occorrendo anche la conformità alle previsioni della legge e della contrattazione collettiva, in assenza della quale l'atto risulta essere affetto da nullità, con la conseguenza che la Pubblica Amministrazione, a ciò tenuta in forza della previsione di cui al richiamato art. 97 Cost., deve ripristinare la legalità violata (cfr. fra le più recenti Cass. n. 3826/2016, Cass. 16088/2016 e Cass. n. 25018/2017)
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 14.08.2019 n. 21424).

EDILIZIA PRIVATAE' pacifico che ai fini dell'accoglimento dell'istanza di sanatoria relativa ad un intervento edilizio già realizzato abusivamente sia necessaria la sussistenza del rispetto della c.d. doppia conformità, ossia non solo la conformità agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati al momento della realizzazione dell'opera, ma anche al momento della presentazione della domanda della conformità.
La c.d. doppia conformità costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie.
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3.2. Come è pacifico, ai fini dell'accoglimento dell'istanza di sanatoria relativa ad un intervento edilizio già realizzato abusivamente, è necessaria la sussistenza del rispetto della c.d. doppia conformità, ossia non solo la conformità agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati al momento della realizzazione dell'opera, ma anche al momento della presentazione della domanda della conformità (cfr. ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI , 18/01/2019 , n. 470, id. sez, IV, 05/05/2017, n. 2603; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17/05/2018, n. 1298).
La c.d. doppia conformità costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.08.2019 n. 1173 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le “varianti essenziali” sono quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall' art. 32 t.u.e., sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario.
Per quanto normativamente non compiutamente definita, l'essenzialità, o meno, della variazione risiede anche, ma non soltanto, nell'aspetto quantitativo. Una variazione essenziale si manifesta nella realizzazione abusiva d'un ampliamento che, pur senza creare un organismo edilizio nuovo ed incompatibile col progetto assentito e con la sua essenza, ne altera la struttura e le dimensioni sì da apparire la dilatazione strutturale, funzionale e spaziale di quanto invece sarebbe dovuto essere nella realtà.

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7.1. Che si tratti di variazione essenziale scaturisce dalla circostanza che le opere realizzate non possono essere inquadrate nella fattispecie della sopraelevazione di edificio già esistente, trattandosi di realizzazione di un ulteriore piano abitabile in un edificio in costruzione, abuso assoggettabile alla rimessione in pristino e non, come ritenuto dalla ricorrente, regolarizzabile mediante pagamento di una sanzione pecuniaria, ex art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380/2001.
Le “varianti essenziali” sono quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall' art. 32 t.u.e., sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario.
Per quanto normativamente non compiutamente definita, l'essenzialità, o meno, della variazione risiede anche, ma non soltanto, nell'aspetto quantitativo. Una variazione essenziale si manifesta nella realizzazione abusiva d'un ampliamento che, pur senza creare un organismo edilizio nuovo ed incompatibile col progetto assentito e con la sua essenza, ne altera la struttura e le dimensioni sì da apparire la dilatazione strutturale, funzionale e spaziale di quanto invece sarebbe dovuto essere nella realtà (Cons. Stato, sez. VI, 04/06/2018, n. 3371; id., 23/11/2017, n. 5473).
Pare difficile non ritenere che tale debba considerarsi la realizzazione di un ulteriore piano abitabile al quarto piano fuori terra, dal quale ricavare ulteriori due unità immobiliare, avente superficie lorda di mq. 140, superficie utile di mq. 120, altezza di m. 2,70 e volumetria di mc. 380.
D’altra parte, non può non rilevarsi che l’art. 133, co. 2, della l.reg. n. 1/2005 stabilisce che "Le variazioni concernenti la superficie e l'altezza costituiscono variazioni essenziali anche se inferiori ai limiti di cui alle lettere b), c) e d) del comma 1 ove comportino aumento del numero di piani o delle unità immobiliari"
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.08.2019 n. 1173 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per consolidata giurisprudenza, il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo (oltre a non costituire, stante la sua autonomia rispetto ai precedenti eventuali atti autorizzativi un contraris actus), per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo' in capo al destinatario dell’atto.

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9. Lamenta, infine, la ricorrente la violazione dell'obbligo di motivazione ex art. 3 l. n. 241/1990 sia perché si tratterebbe di un contrarius actus, soggetto ad un pregnante onere motivazionale, sia perché il provvedimento non tiene conto dell'affidamento ingeneratosi per effetto degli atti precedentemente adottati e ometterebbe qualsivoglia indicazione circa la valutazione dell'interesse pubblico.
La tesi non ha fondamento.
Per consolidata giurisprudenza, il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo (oltre a non costituire, stante la sua autonomia rispetto ai precedenti eventuali atti autorizzativi un contraris actus), per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo' in capo al destinatario dell’atto (tra le tante, Cons., sez. VI, 05/11/2018, n. 6233, id. sez. VI, 05/09/2018, n. 5204, id. sez. VI, 19.11.2018 n. 6493)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.08.2019 n. 1173 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONEL'IRAP dovuta sugli incentivi tecnici e dell'avvocatura non può essere a carico dell'Ente.
Mentre non vi è alcun dubbio sul fatto che gli incentivi tecnici e quelli corrisposti alle avvocature interne debbano essere distribuiti ai dipendenti al netto degli oneri assistenziali e previdenziali a carico dell'ente, la giurisprudenza amministrativa (tra le tante Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.10.2017 n. 4970) e parte di quella contabile hanno invece ritenuto che l'Irap dovesse restare a carico solo dell'ente.
Di contrario avviso, su questa posta fiscale, è la Corte di Cassazione - Sez. lavoro (
ordinanza 13.08.2019 n. 21398) secondo la quale non è ammissibile che una parte del costo resti a carico dell'ente locale, con la conseguenza che le amministrazioni dovranno quantificare le somme che gravano sull'ente a titolo di Irap, rendendole indisponibili, e successivamente procedere alla ripartizione dell'incentivo, corrispondendo lo stesso ai dipendenti interessati al netto degli oneri assicurativi e previdenziali.
Questa è la corretta interpretazione della normativa, a suo tempo già indicata dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti (
deliberazione 30.06.2010 n. 33) secondo la quale, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l'Irap) si riflettono in sostanza sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l'avvocatura interna, ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere Irap gravante sull'amministrazione.
In altri termini, la percentuale di incentivazione prevista dai regolamenti interni deve prevedere l'iniziale scorporo dell'Irap per essere successivamente distribuita ai dipendenti al netto degli oneri previdenziali e assistenziali. Eventuali disposizioni che prevedono spese ulteriori per gli enti locali, con l'Irap a loro carico, sono da considerare nulle per violazione di norme imperative.
La questione controversa
Alcuni dipendenti comunali hanno chiesto la restituzione dell'Irap, indebitamente trattenuta dall'ente locale, sugli incentivi ai lavori pubblici loro liquidati in diversi anni. La Corte d'appello, in riforma della sentenza del tribunale di primo grado, ha rigettato la domanda dei ricorrenti ritenendo che le disposizioni legislative prevedono che gli accantonamenti disposti dall'ente locale per gli incentivi tecnici devono essere comprensivi di tutti gli oneri accessori gravanti sul datore di lavoro pubblico, inclusa la componente fiscale.
In considerazione di una errata lettura delle disposizioni legislative, per non avere correttamente valorizzato la distinzione fra oneri fiscali e oneri contributivi e previdenziali, escludendo che l'Irap possa essere ricompresa negli oneri riflessi inclusi nel fondo incentivante, la questione è giunta in Cassazione. Infatti, per i ricorrenti gli obblighi di copertura finanziaria, che certamente gravano sull'ente, impongono a quest'ultimo di accantonare anche la provvista necessaria al pagamento dell'Irap, ma non incidono sull'ammontare del compenso spettante ai lavoratori che va determinato nel rispetto dei criteri fissati dal regolamento.
Le indicazioni della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità, l'onere fiscale dell'Irap non potrà mai essere posto a carico del dipendente pubblico, ma questo non significa che la quantificazione dell'incentivo non risenta della necessità di tener conto della maggiore imposta che verrà a gravare sull'ente, quale conseguenza indiretta dell'erogazione del trattamento retributivo speciale e aggiuntivo, che comporta un innalzamento della base imponibile.
Infatti, ogni incremento della retribuzione accessoria determina anche una maggiorazione del tributo, della quale non può non tenersi conto ai fini del rispetto del tetto massimo delle risorse disponibili.
Sulla questione si è già espressa la Corte dei conti a Sezioni Riunite (
deliberazione 30.06.2010 n. 33) precisando che «le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l'IRAP) si riflettono in sostanza sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l'avvocatura interna, ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere IRAP gravante sull'amministrazione».
Nel caso di specie, le aliquote previste sono state determinate dall'ente nel limite massimo previsto dalla normativa, con la conseguenza che l'eventuale risorsa addizionale dell'Irap corrisponderebbe a una spesa disposta in violazione della normativa e della contrattazione collettiva.
In altri termini, eventuali regolamenti dell'ente, che dovessero disciplinare la distribuzione di risorse addizionali, non potranno essere considerati sufficienti a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al dipendente medesimo, occorrendo anche la conformità alle previsioni della legge e della contrattazione collettiva, in assenza della quale l'atto risulta essere affetto da nullità, con la conseguenza che la Pa, a ciò tenuta in forza dell'articolo 97 della Costituzione, sarà obbligata a ripristinare la legalità violata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.08.2019).
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RILEVATO CHE
1. la Corte d'Appello di Firenze, previa riunione dei giudizi ed in riforma delle sentenze del Tribunale di Pistoia che avevano accolto i ricorsi, ha respinto le domande proposte nei confronti del Comune di Pistoia dai litisconsorti indicati in epigrafe i quali, tutti dipendenti comunali che avevano partecipato ad attività di progettazione, direzione dei lavori o collaudo di opere pubbliche, avevano agito in giudizio chiedendo l'accertamento del diritto ad ottenere la liquidazione degli incentivi ex artt. 18 l. n. 109/1994 e 92 d.lgs. n. 163/2006 al netto dell'IRAP e la conseguente condanna dell'ente convenuto al pagamento delle somme che a detto titolo il Comune, erroneamente, aveva trattenuto negli anni compresi fra il 2004 ed il 2009;
2. la Corte territoriale ha premesso che il Tribunale non aveva compreso gli esatti termini della questione perché pacificamente l'IRAP deve gravare sull'ente pubblico, il quale, nel caso di specie, aveva scorporato l'imposta dopo aver determinato gli importi spettanti a ciascun dipendente;
3. ad avviso del giudice d'appello il Comune aveva agito nel rispetto del principio generale secondo cui qualsiasi stanziamento o destinazione di bilancio si deve intendere al lordo delle imposte, principio questo che, quanto all'incentivo previsto dalla legge n. 109/1994, è stato espressamente applicato dal legislatore nel dettare l'art. 3, comma 29, della legge n. 350/2003 con la quale, in via interpretativa, è stato chiarito che la somma stanziata o accantonata deve essere comprensiva di tutti gli oneri accessori, ivi compresi quelli a carico del datore di lavoro;
4. ha precisato che l'espressione atecnica utilizzata dalla norma di interpretazione autentica è di ampiezza tale da ricomprendere tutti i costi che vengono a gravare sull'ente pubblico ed ha aggiunto che negli stessi termini deve essere interpretato l'art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, con il quale non sono stati esclusi gli oneri fiscali nella quantificazione dell'ammontare complessivo dello stanziamento bensì si è solo precisato che quest'ultimo deve comprendere "anche" le ritenute previdenziali e assistenziali;
5. ha richiamato a sostegno della decisione i principi affermati da questa Corte con la sentenza 12.04.2011 n. 8344 nonché la
deliberazione 30.06.2010 n. 33 con la quale la Corte dei Conti, a Sezioni Riunite in sede di controllo, ha precisato che le somme stanziate sono ripartibili tra i dipendenti destinatari dell'incentivo soltanto se al netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere IRAP;
...
CONSIDERATO CHE
1. con il primo motivo i ricorrenti denunciano «violazione e falsa applicazione di legge dell'art. 18 della legge n. 109/1994 (come modificato dall'art. 3, comma 29, della legge n. 350 del 24.12.2003, interpretato autenticamente dall'art. 1, comma 207, della legge n. 266 del 23.12.2005 e abrogato con decorrenza 01.07.2006 dall'art. 256 d.lgs. 163/2006) nonché dell'art. 92, V e VI comma, d.lgs. 163 del 12.04.2006.....dell'art. 2 nonché del combinato disposto dell'art. 10-bis, commi 1 e 3, comma 1, lett. e-bis), del d.lgs. 15.12.1997 n. 446» e sostengono, in sintesi, che la Corte territoriale, nel ritenere legittima la trattenuta operata dal Comune di Pistoia, oltre a fornire un'interpretazione della normativa in contrasto con il tenore letterale della stessa, ha finito per trasformare inammissibilmente l'IRAP da imposta sulle attività produttive in imposta sul reddito da lavoro dipendente;
1.2. aggiungono che il giudice d'appello, pur richiamandola, si è discostato dalla giurisprudenza dei giudici contabili i quali, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, hanno rimarcato la distinzione fra oneri fiscali e oneri contributivi e previdenziali, escludendo che l'IRAP possa essere ricompresa negli oneri riflessi inclusi nel fondo incentivante;
1.3. sottolineano la non pertinenza del rinvio alla sentenza 12.04.2011 n. 8344 di questa Corte, i cui principi risultano applicabili alla diversa questione degli oneri fiscali gravanti sul reddito del lavoratore e delle ritenute previdenziali;
1.4. sostengono, in sintesi, che gli obblighi di copertura finanziaria, che certamente gravano sull'Ente, impongono a quest'ultimo di accantonare anche la provvista necessaria al pagamento dell'IRAP, ma non incidono sull'ammontare del compenso spettante ai lavoratori che va determinato nel rispetto dei criteri fissati dal regolamento;
2. la seconda censura addebita alla sentenza impugnata l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti che i ricorrenti individuano nella «questione della diversa formulazione dei regolamenti approvati dal Comune di Pistoia per la ripartizione degli incentivi, susseguitisi nel tempo, rispetto alla bozza di nuovo regolamento attualmente in discussione che per la prima volta reca espressa menzione dell'IRAP come onere compreso nel fondo accantonato (sì da intaccare il compenso netto spettante ai lavoratori professionisti o avvocati)»;
2.1. si sostiene che i regolamenti adottati dal Comune di Pistoia, pur attribuendo ai dipendenti la percentuale massima prevista dalla legge, non avevano ricompreso nell'importo del fondo anche l'IRAP, che doveva essere oggetto di separato accantonamento, sicché l'ente non poteva, al momento della liquidazione, ridurre unilateralmente l'importo;
3. il terzo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., denuncia la «violazione e falsa applicazione delle norme di carattere regolamentare (di cui all'art. 1 del Regolamento di ripartizione degli incentivi approvato con Delibera di Giunta Comunale di Pistoia n. 250 del 20/11/2000 ed all'art. 1 del Regolamento di ripartizione degli incentivi approvato con Delibera di Giunta Comunale n. 202 del 07/12/2006)»;
3.1. richiamato il testo degli atti regolamentari succedutisi nel tempo, i ricorrenti sostengono che solo con la delibera di giunta n. 151 del 07.07.2011, per la prima volta e con disposizione di carattere innovativo, il Comune ha precisato che al momento dello stanziamento occorre indicare in modo esplicito la presenza degli oneri fiscali all'interno del fondo incentivante «articolando l'aliquota da ripartire in una quota indisponibile (destinata alla copertura delle somme che gravano su l'ente per oneri fiscali, nella fattispecie a titolo di IRAP) e la restante quota destinata al pagamento degli incentivi (comprensiva degli oneri previdenziali ed assistenziali a carico dell'Amministrazione)»;
4. i motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente in ragione della loro connessione logico giuridica, sono infondati;
5. l'art. 18 della n. 109/1994, con il quale il legislatore ha introdotto un compenso ulteriore e speciale in favore dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni impegnati nell'attività di progettazione e realizzazione di opere pubbliche, è stato più volte riformulato e le modificazioni ed integrazioni rispetto al testo originario hanno principalmente riguardato, da un lato, la platea dei destinatari, dall'altro l'ambito di intervento della contrattazione collettiva decentrata nonché i rapporti fra quest'ultima e l'esercizio della potestà regolamentare attribuita alle singole amministrazioni (si rimanda per l'evoluzione della normativa a Cass.
sentenza 05.06.2017 n. 13937), aspetti, questi, che non rilevano in modo specifico nella fattispecie;
5.1. in tutte le versioni succedutesi nel tempo il legislatore ha quantificato la somma massima da destinare all'incentivazione rapportandola in termini percentuali al costo dell'opera o del lavoro, senza precisare se l'importo così determinato dovesse essere al lordo o al netto degli oneri fiscali, previdenziali ed assistenziali che gravano sull'obbligazione retributiva;
5.2. infatti, nella versione risultante all'esito delle modifiche apportate dalla legge n. 144/1999, la norma disponeva, per quel che qui rileva, «Una somma non superiore all'1,5 per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'art. 16, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile unico del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo dell'1,5 per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare......
»;
5.3. il legislatore, pertanto, è intervenuto sul tema, dapprima con la legge n. 350/2003, art. 3, comma 29, prevedendo che «I compensi che gli enti locali, ai sensi dell'articolo 18 della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, ripartiscono, a titolo di incentivo alla progettazione, nella misura non superiore al 2 per cento dell'importo a base di gara di un'opera o di un lavoro, si intendono al lordo di tutti gli oneri accessori connessi alle erogazioni, ivi compresa la quota di oneri accessori a carico degli enti stessi» e successivamente con la legge n. 266/2005, art. 1, comma 207, espressamente qualificata di interpretazione, con la quale si è precisato che «L'articolo 18, comma 1, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, che prevede la possibilità di ripartire una quota percentuale dell'importo posto a base di gara tra il responsabile unico del progetto e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori, si interpreta nel senso che tale quota percentuale è comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione»;
5.4. il testo dell'art. 18, come integrato dalla legge interpretativa, è stato poi trasfuso, con modificazioni, nell'art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 secondo cui «Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare....»;
5.5. il decreto legislativo, inoltre, ha espressamente previsto, all'art. 256, l'abrogazione della legge n. 109/1994 e della norma interpretativa dettata dal richiamato art. 1, comma 207, della legge n. 266/2005;
6.
questa Corte, nell'interpretare le disposizioni sopra richiamate, da tempo ha affermato che il compenso incentivante ha natura retributiva e, quindi, su di esso vanno operate le ordinarie ritenute previdenziali e fiscali, ivi comprese quelle gravanti sul datore di lavoro, con la conseguenza che la quota percentuale massima va calcolata al lordo e non al netto delle ritenute medesime (cfr. Cass. sentenza 27.04.2015 n. 8522, n. 19328/2012, sentenza 12.04.2011 n. 8344, n. 17536/2010);
7. si tratta, però, di pronunce rese in controversie nelle quali venivano in rilievo le obbligazioni, gravanti sul lavoratore e sul datore, direttamente connesse alla prestazione lavorativa in regime di subordinazione, e, quindi, il principio affermato non è risolutivo nella fattispecie, nella quale si discute dell'incidenza dell'IRAP, ossia di un onere posto ad esclusivo carico dell'amministrazione, tenuta al versamento dell'imposta, ex artt. 2 e 3, comma 1, lett. e bis, del d.lgs. n. 446/1997, in ragione della produzione o dello scambio di beni ovvero della prestazione di servizi;
7.1. la circostanza che l'ammontare dell'imposta debba essere quantificato assumendo a base di calcolo, ex art. 10 del richiamato d.lgs. n. 446/1997, le retribuzioni spettanti al personale dipendente ed i compensi corrisposti ai collaboratori autonomi, non incide sulla natura del tributo, che non colpisce il reddito bensì il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate;
7.2. ciò induce il Collegio a ritenere condivisibile l'orientamento espresso dalla giurisprudenza contabile (Corte dei Conti, Sezioni Riunite in sede di controllo,
deliberazione 30.06.2010 n. 33) secondo cui, in ragione dei presupposti impositivi, l'onere fiscale non può gravare sul lavoratore dipendente e, pertanto, si deve escludere che i commi 207 e 208 dell'art. 1 legge n. 266/2005, nella parte in cui si riferiscono, rispettivamente, agli «oneri assistenziali e previdenziali a carico dell'amministrazione» e, quanto al personale delle avvocature interne degli enti pubblici, agli «oneri riflessi», possano essere interpretati nel senso di ricomprendere anche la maggiore imposta che il datore di lavoro dovrà corrispondere a titolo di maggiorazione IRAP, in ragione del compenso aggiuntivo corrisposto al proprio personale;
7.3. per le medesime ragioni
la previsione contenuta nell'art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, che ricalca sostanzialmente la norma di interpretazione autentica dell'art. 18 della legge n. 109/1994, è riferibile ai soli oneri previdenziali e costituisce un'eccezione al principio di carattere generale sancito dall'art. 2115 cod. civ., secondo cui «l'imprenditore e il prestatore di lavoro contribuiscono in parti eguali alle istituzioni di previdenza e di assistenza»;
8. ciò, peraltro, non significa che la quantificazione dell'incentivo non risenta della necessità di tener conto della maggiore imposta che verrà a gravare sull'ente, quale conseguenza indiretta dell'erogazione del trattamento retributivo speciale ed aggiuntivo, che comporta un innalzamento della base imponibile, perché soccorrono al riguardo altre disposizioni dettate sempre dalla legge n. 266/2005 nonché i principi generali ai quali, in tema di spesa, deve sempre essere orientata l'azione delle pubbliche amministrazioni;
8.1. al riguardo va, infatti, osservato che le disposizioni della richiamata legge n. 266/2005, specificatamente volte a disciplinare le modalità di costituzione dei fondi destinati a spese relative al personale, includono in modo espresso nell'ammontare complessivo anche i maggiori oneri che ne derivano a titolo di IRAP (commi 181, 185 e 198), e ciò perché, se così non fosse, sui bilanci dello Stato e degli enti pubblici graverebbero spese prive della necessaria copertura;
8.2. si è già detto che l'imposta è commisurata all'ammontare della spesa per il personale sicché ogni incremento della retribuzione accessoria determina anche una maggiorazione del tributo, della quale non può non tenersi conto ai fini del rispetto del tetto massimo delle risorse disponibili;
8.3.
il Collegio, pertanto, condivide e fa proprie le conclusioni alle quali sono già pervenuti i giudici contabili secondo cui, in sede interpretativa, l'art. 1, comma 207, della legge n. 266/2005 e l'art. 92 del d.lgs. 163/2006, che del primo ripete il contenuto, vanno armonizzati con i principi che regolano la costituzione dei fondi, con la conseguenza che le amministrazioni dovranno quantificare le somme che gravano sull'ente a titolo di IRAP, rendendole indisponibili, e successivamente procedere alla ripartizione dell'incentivo, corrispondendo lo stesso ai dipendenti interessati al netto degli oneri assicurativi e previdenziali;
8.4.
in altri termini «le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l'IRAP) si riflettono in sostanza sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l'avvocatura interna, ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere IRAP gravante sull'amministrazione» (Corte dei Conti
deliberazione 30.06.2010 n. 33 cit.);
9. le richiamate conclusioni sono coerenti con i principi desumibili, quanto alla spesa per il personale, dal d.lgs. n. 165/2001 le cui disposizioni, pur nella diversità delle formulazioni succedutesi nel tempo, hanno sempre perseguito l'obiettivo di armonizzare l'avvenuta contrattualizzazione del rapporto di impiego pubblico con l'esigenza primaria di garantire il controllo ed il contenimento della spesa pubblica, esigenza dalla quale derivano, da un lato, il divieto per il datore di corrispondere trattamenti economici che non trovino fondamento nella contrattazione collettiva o nella legge (ciò, perché entrambe dette fonti presuppongono la previa valutazione della sostenibilità finanziaria), dall'altro la previsione di nullità delle clausole della contrattazione integrativa non compatibili con i vincoli di bilancio delle amministrazioni;
10. l'esegesi data alle norme che qui vengono in rilievo si armonizza, altresì, con il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui
anche in materia di spese per il personale l'esigenza di prevedere la copertura economica si pone per la pubblica amministrazione contraente quale presupposto per la formazione di una valida volontà negoziale (Cass. 17770/2017 e in tema di incarichi di consulenza Cass. n. 17358/2019);
11. non si traggono argomenti di segno contrario dalle sentenze di questa Corte nn. 16579, 16838 e 17356/2017, riprese da Cass. n. 29375/2018, perché in quei casi si discuteva unicamente dell'incidenza degli oneri previdenziali e non dell'IRAP, che il datore di lavoro aveva già restituito sua sponte al personale assegnato all'avvocatura interna;
12. sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato, non potendo i ricorrenti fare leva sulla circostanza che solo in occasione dell'adozione del regolamento approvato con delibera n. 151 del 07.07.2011 il Comune di Pistoia abbia fatto espresso riferimento all'accontamento delle somme da versare a titolo di IRAP in relazione all'incentivo corrisposto;
13. detto obbligo di accantonamento, infatti, discendeva già in precedenza dalla disciplina vigente, da interpretare nei termini sopra indicati, sicché non poteva l'ente corrispondere ai dipendenti l'intero ammontare del fondo stanziato, quantificato nella misura massima, ponendo in essere un atto dispositivo in contrasto con norma imperativa;
14. nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, è ormai consolidato il principio secondo cui
in relazione al trattamento economico del dipendente pubblico, l'atto deliberativo non è sufficiente a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al dipendente medesimo, occorrendo anche la conformità alle previsioni della legge e della contrattazione collettiva, in assenza della quale l'atto risulta essere affetto da nullità, con la conseguenza che la Pubblica Amministrazione, a ciò tenuta in forza della previsione di cui al richiamato art. 97 Cost., deve ripristinare la legalità violata (cfr. fra le più recenti Cass. n. 3826/2016, Cass. 16088/2016 e Cass. n. 25018/2017) (Corte di cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 13.08.2019 n. 21398).

ESPROPRIAZIONERichiesta risarcimento danni per equivalente pari al valore del fondo formulata in costanza di occupazione acquisitiva.
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Risarcimento danni - Espropriazione per pubblica utilità – Richiesta di risarcimento danni per equivalente pari al valore del fondo – Formulata in costanza di occupazione acquisitiva – Riconoscimento risarcimento danni da occupazione illegittima – Possibilità.
  
Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione acquisitiva - Possesso ad usucapionem – Esclusione – Conseguenza.
   Non viola il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato la sentenza che, a fronte della richiesta del danno per equivalente pari al valore del fondo formulata allorché l'ordinamento contemplava l'istituto dell'occupazione acquisitiva, abbia disposto il solo danno da occupazione illegittima, nel presupposto della permanente proprietà del cespite in capo al privato: la tutela giurisdizionale, infatti, deve essere modulata in base all'assetto esegetico generalmente condiviso al momento della pronuncia (1).
  
Nel periodo di tempo in cui trovava applicazione l'istituto dell'occupazione acquisitiva non è in radice ravvisabile alcun possesso ad usucapionem, di talché non può ipotizzarsi l'acquisto in capo a terzi (nella specie, assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica) della proprietà del bene ai sensi dell'art. 1159 c.c. (cd. "usucapione abbreviata") allorché il decennio sia maturato in costanza dell'indirizzo giurisprudenziale che riconosceva l'occupazione acquisitiva (2).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la richiesta di giustizia avanzata dall’appellante aveva come causa petendi la posizione dominicale illo tempore incisa dall’indebita occupazione del bene da parte dell’Amministrazione e ne chiedeva la tutela nell’ambito dei rimedi allora considerati rilevanti dalle Corti.
Correttamente, dunque, il Tribunale ha fatto riferimento alla (diversa) tutela contemplata dall’attuale diritto vivente, che ha espunto dall’ordinamento, per insuperabile contrasto con superiori principi sovranazionali cui la Repubblica è costituzionalmente tenuta a conformarsi, l’istituto dell’occupazione acquisitiva.
Più in particolare, venuto meno il riconoscimento della valenza acquisitiva dei comportamenti di apprensione materiale del bene posti in essere sine titulo dall’Amministrazione, il Tribunale ha ricondotto la domanda nell’alveo dell’ordinario illecito aquiliano ed ha, pertanto, condannato l’Ente al risarcimento del solo danno (“a carattere permanente”) da perdita della disponibilità materiale del bene, specificando che la proprietà è rimasta in capo ai ricorrenti.
   (2) Cons. St., A.P., 09.02.2016, n. 2; id., sez. IV, 01.08.2017, n. 3838; id. 30.08.2017, n. 4106 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.08.2019 n. 5703
- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Accertamento dell’obbligo di sottoposizione del progetto alla valutazione di compatibilità ambientale.
Le preclusioni di diritto interno devono essere valutate dalla prospettiva del diritto comunitario; è possibile, infatti, che la mancanza di rimedi giurisdizionali costituisca essa stessa un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi fissati dalla normativa comunitaria, e debba quindi essere superata mediante la disapplicazione delle norme interne che impediscono la proposizione di nuovi ricorsi.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha precisato che il diritto comunitario, pur consentendo agli Stati di fissare un termine per le impugnazioni dei provvedimenti in materia di VIA, non tollera che i progetti la cui autorizzazione non è più esposta a un ricorso giurisdizionale diretto, data la scadenza del termine di ricorso previsto dalla normativa nazionale, siano puramente e semplicemente considerati autorizzati sotto il profilo dell’obbligo di valutazione della compatibilità ambientale; in particolare, non è possibile impedire la proposizione di un’azione di risarcimento basata sulla violazione dell’obbligo di valutazione della compatibilità ambientale.
Poiché il risarcimento in forma specifica può consistere, prima dell’esecuzione dei lavori, nell’apertura di una procedura di VIA, si deve ritenere che i soggetti interessati, compresi i comitati di cittadini che risentono delle conseguenze dell’opera, possano chiedere l’accertamento dell’obbligo di sottoposizione del progetto alla valutazione di compatibilità ambientale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 13.08.2019 n. 739 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Sul problema dell’ammissibilità del ricorso
17. Come si è visto sopra, il Comitato ha già proposto davanti a questo TAR un ricorso diretto a ottenere l’accertamento della decadenza del decreto di VIA del 22.10.2002 allo scadere dei cinque anni. In quel caso, è stata scelta la doppia qualificazione di ricorso per ottemperanza e di ricorso contro il silenzio. Nel presente giudizio, invece, viene proposta direttamente un’azione di accertamento. La sostanza della domanda, tuttavia, non cambia.
La causa petendi è la stessa (ossia la tesi, condivisa dalla sentenza di questo TAR n. 859/2008, della retroattività della norma nazionale del 2006 che prevede l’efficacia quinquennale della VIA), e identico è anche il petitum (accertare l’obbligo di reiterazione della valutazione di compatibilità ambientale, con blocco immediato dei lavori che si basano sulla precedente serie procedimentale, alla cui origine si colloca appunto il decreto di VIA del 22 ottobre 2002).
È quindi fondata l’eccezione di litispendenza, essendosi già pronunciato questo TAR con la sentenza in rito n. 1264/2017.
18. Occorre poi sottolineare che la presentazione di nuove istanze all’amministrazione non rimette in termini il Comitato per la formulazione di ricorsi costituenti una replica di quelli dichiarati irricevibili e inammissibili. Anche se pronunciata in rito, la sentenza n. 1264/2017 ha esaurito per il Comitato le vie interne di ricorso dedicate alle censure contro l’inottemperanza alla sentenza n. 859/2008 e contro il silenzio sull’apertura di una nuova procedura di VIA. È quindi fondata anche questa eccezione di inammissibilità.
19. La circostanza che all’azione venga ora applicato un nome nuovo (da ottemperanza/silenzio ad accertamento) non individua una realtà giuridica diversa, che possa essere oggetto di cognizione senza limiti di tempo e indipendentemente dall’esito di precedenti ricorsi.
20. Un ricorso che, riproponendo questioni già decise in passato dal giudice amministrativo su impulso di altri soggetti, cercasse di perseguire non l’ottemperanza alla precedente sentenza ma una pronuncia con lo stesso contenuto, ossia accertativa della precedente, incontrerebbe la preclusione costituita dall’assenza nell’ordinamento interno di una giurisdizione di diritto oggettivo a presidio della legittimità degli atti amministrativi. La stessa sentenza n. 859/2008, nel dichiarare la decadenza della VIA, ha specificato (v. punti 5 e 6) che la tutela giurisdizionale è stata concessa unicamente nei limiti in cui è stata ravvisata una lesione diretta e attuale dell’interesse dei Comuni ricorrenti.
Dopo che questi ultimi, tramite l’accordo transattivo del 19.12.2008, hanno rinunciato agli effetti della sentenza n. 859/2008, con alcune garanzie riferite ai rispettivi territori, non vi è alcun giudicato, né alcuna possibilità per altri soggetti di invocare l’autorità della precedente sentenza allo scopo di ottenere la medesima dichiarazione di decadenza della VIA.
Non potrebbe farlo l’interveniente Legambiente Lombardia Onlus, la cui posizione accessoria segue la sorte dei ricorrenti, come precisato nella sentenza n. 1264/2017, e a maggior ragione non possono farlo soggetti come il Comitato, del tutto estranei al giudizio originario. Dal punto di vista del Comitato, la sentenza n. 859/2008 è dunque un generico precedente giurisprudenziale, che non integra in alcun modo i presupposti processuali necessari per esperire un’autonoma azione di accertamento.
21. Peraltro, le preclusioni di diritto interno devono essere valutate dalla prospettiva del diritto comunitario. È possibile, infatti, che la mancanza di rimedi giurisdizionali costituisca essa stessa un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi fissati dalla normativa comunitaria, e debba quindi essere superata mediante la disapplicazione delle norme interne che impediscono la proposizione di nuovi ricorsi.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha precisato che il diritto comunitario, pur consentendo agli Stati di fissare un termine per le impugnazioni dei provvedimenti in materia di VIA, non tollera che i progetti la cui autorizzazione non è più esposta a un ricorso giurisdizionale diretto, data la scadenza del termine di ricorso previsto dalla normativa nazionale, siano puramente e semplicemente considerati autorizzati sotto il profilo dell’obbligo di valutazione della compatibilità ambientale. In particolare, non è possibile impedire la proposizione di un’azione di risarcimento basata sulla violazione dell’obbligo di valutazione della compatibilità ambientale (v. C.Giust. Sez. I 17.11.2016 C-‘348/15, Stadt Wiener Neustadt, punti 43 e 48).
Poiché il risarcimento in forma specifica può consistere, prima dell’esecuzione dei lavori, nell’apertura di una procedura di VIA, si deve ritenere che i soggetti interessati, compresi i comitati di cittadini che risentono delle conseguenze dell’opera, possano chiedere l’accertamento dell’obbligo di sottoposizione del progetto alla valutazione di compatibilità ambientale.
22. Nel caso in esame, tuttavia, non vi sono i presupposti per riconoscere la protezione individuata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Il raccordo autostradale tra la A4 e la Valtrompia è stato infatti sottoposto regolarmente alla procedura di VIA, e ha ottenuto in data 22.10.2002 una valutazione favorevole di compatibilità ambientale.
Il medesimo giudizio è stato confermato dalla Commissione Tecnica VIA-VAS in data 19.06.2008 per due stralci funzionali dell’originario progetto esecutivo, tra cui quello relativo alla realizzazione del tratto Concesio-Sarezzo, che qui interessa. Non essendovi stata quindi alcuna violazione degli obblighi comunitari, non vi è neppure l’esigenza di rimediare attraverso l’ampliamento delle facoltà processuali e la rimessione in termini di quanti si oppongono al progetto.

APPALTIÈ la stazione appaltante a decidere se la valutazione dell'anomalia compete al Rup o alla commissione
Il codice dei contratti non ha operato una scelta precisa circa il soggetto/organo competente alla verifica dell'anomalia dell'offerta. Ciò induce a ritenere che rimanga nella competenza della stazione appaltante individuare l'organo competente e questa è tenuta ad esplicitarlo nella legge speciale di gara.

In questi termini si è espresso il TAR Liguria, Sez. II, con la sentenza 13.08.2019 n. 688.
La vicenda
Risulta di particolare importanza la posizione espressa dal giudice ligure in relazione alla competenza in tema di verifica della potenziale anomalia dell'offerta.
Le linee guida Anac n. 3, come noto, attribuiscono questa competenza al Rup con il supporto solo eventuale (nel senso che sarà il Rup a decidere il coinvolgimento o meno dell'organo collegiale nel procedimento) della commissione di gara.
Nel caso di specie, la stazione appaltante ha proceduto secondo le indicazioni appena prospettate. In questo modo, però, secondo il ricorrente sono state violate le disposizioni della legge speciale di gara che, in più punti, richiamavano l'esigenza di una procedura svolta in concerto tra Rup e commissione di gara, perciò l'organo collegiale non poteva essere estromesso dalla verifica di congruità dell'offerta. Il giudice condivide la ricostruzione prospettata dalla parte ricorrente.
La sentenza
Secondo il giudice, il tenore della legge di gara risulta chiaro «nell'imporre che la valutazione di anomalia dell'offerta sia svolta obbligatoriamente dal Rup con il supporto della commissione». Dirimente in questo senso diverse prescrizioni contenute nella lex specialis.
Il richiamo, per esempio, alla seduta riservata in cui avrebbero dovuto essere valutate le giustificazioni. Lo stesso richiamo a una seduta riservata, secondo quanto si legge in sentenza, renderebbe palese l'esigenza della «presenza contemporanea del Rup e della commissione, non avendo altrimenti senso esprimersi in termini di seduta relativamente a un organo monocratico».
Depone, inoltre, nel senso invocato dal ricorrente anche la previsione che l'esclusione sia prerogativa propria del Rup, con il che al contrario, deve ritenersi la competenza concorrente all'esame delle giustificazioni della commissione e del Rup.
Il necessario coinvolgimento della commissione di gara, si legge ancora nel decisum, emergerebbe in maniera chiara dall'articolo 77, comma 1, del codice dei contratti secondo cui «nelle procedure di aggiudicazione di contratti di appalti o di concessioni, limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa la valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico è affidata a una commissione giudicatrice, composta da esperti nello specifico settore cui afferisce l'oggetto del contratto».
Nel momento in cui questa norma impone che sia la «commissione a valutare l'offerta induce a ritenere» che la stessa valutazione di anomalia costituisca una «competenza della commissione posto che anche la valutazione di anomalia si sostanzia in una valutazione dell'offerta e che nessuno meglio della commissione, che conosce l'offerta per averla valutata, può operare la verifica di anomalia della stessa».
In definitiva, il codice dei contratti non individuerebbe uno specifico soggetto competente a condurre il procedimento di verifica della congruità dell'offerta riferendosi in modo generico alla stazione appaltante tenuta a operare attraverso i propri organi.
Non si può dubitare, rileva il giudice che, sia il Rup sia la commissione siano, nella normalità dei casi, organi della stazione appaltante, ne consegue, quindi, «che la disciplina di fonte primaria non opera una scelta a favore di un organo o di un altro».
La scelta deve, pertanto, essere rimessa alla stazione appaltante, «la sola che conoscendo le peculiarità della singola competizione, in termini di valore economico, complessità fattuale, esigenze di rapidità eccetera, può consapevolmente decidere a quale organo fare svolgere la verifica di anomalia».
La legge di gara ha previsto la conduzione della procedura di concerto tra Rup e commissione di gara e a questa disposizione occorreva adeguarsi non apparendo questa previsione neppure «illogica o irrazionale ed anzi (…) giustificata dalla complessità e dal valore della competizione».
In ultima analisi, quindi, a prescindere dalle indicazioni fornite dalle linee guida Anac n. 3, il codice dei contratti «contiene degli indizi tali da fare ritenere che la scelta in ordine alla competenza sulla verifica di anomalia dell'offerta sia (…) rimessa alla stessa stazione appaltante in sede di redazione della lex specialis di gara» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.08.2019).
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MASSIMA
Il primo motivo, che configura come obbligatorio il supporto della Commissione all’attività valutativa dell’anomalia dell’offerta del RUP, è fondato.
La lex specialis di gara, art. 22 del disciplinare di gara (doc n. 1 prod. ricorrente 10 aprile 2019) ha previsto, infatti, che: “Al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 97, comma 3, del Codice e in ogni altro caso in cui, in base a elementi specifici, l’offerta appaia anormalmente bassa, il RUP, con il supporto della Commissione, valuta la congruità, serietà, sostenibilità e realizzabilità delle offerte che appaiono anormalmente basse (comma 1)”.
L’art. 22 del disciplinare ha ulteriormente confermato il ruolo della Commissione nella valutazione di anomalia dell’offerta precisando che: “Il RUP, con il supporto della Commissione, esamina in seduta riservata le spiegazioni fornite dall’offerente e, ove non le ritenga sufficienti ad escludere l’anomalia, chiede per iscritto la presentazione, per iscritto, di ulteriori chiarimenti, assegnando un termine di n. giorni 5 dal ricevimento dell’offerta” (comma 4).
L’ultimo comma poi precisa: “Il RUP esclude, ai sensi dell’art. 97, commi 5 e 6 del Codice, le offerte che, in base all’esame degli elementi forniti con le spiegazioni risultino, nel complesso, inaffidabili”.
Il tenore della lex specialis è chiaro nell’imporre che la valutazione di anomalia dell’offerta sia svolta obbligatoriamente dal RUP con il supporto della Commissione.
A tal riguardo oltre al dato costituito dal tenore letterale dei commi primo e quarto depone in tal senso la previsione secondo la quale, come prescritto dal comma quarto, l’esame della giustificazioni avvenga in seduta riservata, con ciò rendendo palese la presenza contemporanea del RUP e della Commissione, non avendo altrimenti senso esprimersi in termini di seduta relativamente ad un organo monocratico.
Depone, inoltre, nel senso invocato dal ricorrente la previsione che l’esclusione sia prerogativa propria del RUP, con il che a contrario, deve ritenersi la competenza concorrente all’esame delle giustificazioni della Commissione e del RUP.
La controinteressata, tuttavia, ha spiegato ricorso incidentale avverso la disposizione di cui all’art. 22 del disciplinare di gara ove interpretata nel senso di richiedere obbligatoriamente l’intervento della Commissione, lamentandone l’illegittimità per violazione e falsa applicazione degli artt. 31, 77 e 97 del d.lgs. 50/2016, oltre che delle linee guida ANAC n. 3/2016 come modificate con deliberazione del Consiglio n. 1096 del 26.10.2016, e per violazione e falsa applicazione del principio di economicità e non aggravio del procedimento.
Si sostiene che le norme di cui agli artt. 31, 77 e 97 d.lgs. 50/16 escluderebbero la competenza della Commissione in merito alla valutazione di anomalia dell’offerta che conseguentemente ricadrebbe nella competenza residuale del RUP.
La tesi è priva di fondamento.
L’art. 77, comma 1, d.lgs. 50/2016 stabilisce: “Nelle procedure di aggiudicazione di contratti di appalti o di concessioni, limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa la valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico è affidata ad una commissione giudicatrice, composta da esperti nello specifico settore cui afferisce l'oggetto del contratto”.
Orbene tale norma nel prevedere che sia la commissione a valutare l’offerta induce a ritenere che anche la valutazione di anomalia dell’offerta sia di competenza della Commissione posto che anche la valutazione di anomalia si sostanzia in una valutazione dell’offerta e che nessuno meglio della Commissione, che conosce l’offerta per averla valutata, può operare la verifica di anomalia della stessa.
L’art. 97 d.lgs. 50/2016 stabilisce una generica competenza della stazione appaltante in ordine alla verifica di anomalia dell’offerta. A tal riguardo occorre rilevare come sia il RUP sia la Commissione siano, nella normalità dei casi, organi della stazione appaltante
L’art. 97, tuttavia, contiene degli indizi tali da fare ritenere che la scelta in ordine alla competenza sulla verifica di anomalia dell’offerta sia in ultima analisi rimessa alla stessa stazione appaltante in sede di redazione della lex specialis di gara.
Deve, infatti, rilevarsi come ai commi 2 e 2-bis dell’art. 97 d.lgs. 50/2016 sia prevista la competenza alternativa della Commissione o del RUP nella predisposizione dei criteri per la determinazione della soglia di anomalia.
Ne consegue che la disciplina di fonte primaria non opera una scelta a favore di un organo o di un altro.
La scelta deve, pertanto, essere rimessa alla stazione appaltante, la sola che conoscendo le peculiarità della singola competizione, in termini di valore economico, complessità fattuale, esigenze di rapidità ecc., può consapevolmente decidere a quale organo fare svolgere la verifica di anomalia.

Nella specie la lex specialis ha stabilito la regola del concorso di RUP e Commissione nella valutazione di anomalia dell’offerta.
Tale previsione non appare illogica o irrazionale ed anzi appare giustificata dalla complessità e dal valore della competizione.
Né può essere utilmente invocato il principio di speditezza o non aggravio del procedimento amministrativo posto che le esigenze di valutazione ponderata, attenta e competente dell’anomalia dell’offerta devono ritenersi prevalenti sull’esigenza di celerità che, non altrimenti specificata, si risolve in una mera petizione di principio.
La valutazione di anomalia dovrà, pertanto, essere ripetuta secondo le modalità di cui si darà conto di seguito.
Il Collegio ritiene di esaminare anche il merito del ricorso al fine di fornire orientamenti alla futura attività di verifica di anomalia dell’offerta da compiersi congiuntamente in apposita seduta secondo le previsioni dell’art. 22 del disciplinare di gara da parte del RUP con il supporto della Commissione.
A tal riguardo una premessa metodologica si impone al fine di evitare malintesi in ordine alla portata della verifica di anomalia dell’offerta nella gara de qua.
Si è, infatti, sostenuto, in particolare da parte della controinteressata, che, nelle fattispecie di partenariato pubblico-privato, la verifica di anomalia dell’offerta dovrebbe essere circoscritta alla coerenza del piano economico finanziario proposto.
Simile tesi è infondata, in generale, dovendo essere svolta, specie nelle concessioni -dove l’introito atteso dalla gestione del bene o del servizio appare fondamentale per l’equilibrio economico finanziario del rapporto- una penetrante indagine in ordine alla attendibilità e coerenza delle previsioni fornite, indagine che non può pretermettere l’esame dei dati sulla cui base le previsioni di redditività sono state formulate.
Simile tesi, inoltre, è infondata nello specifico caso portato all’attenzione del Collegio, atteso che la lex specialis di gara ha richiesto, in sede di valutazione di anomalia dell’offerta, una valutazione della “congruità, serietà, sostenibilità e realizzabilità delle offerte” (art. 22, comma 1, del disciplinare di gara).
L’enfasi posta dalla lex specialis di gara non appare frutto del caso ma di una meditata e condivisibile scelta di verificare la fondatezza delle giustificazioni e dei dati sulle quali le stesse si fondano per evitare che una concessione dall’oggetto così delicato, quale la gestione di presidi ospedalieri, possa essere compromessa successivamente per erronee valutazioni in ordine alla redditività e alla capacità di generare flussi di cassa.

EDILIZIA PRIVATALa presentazione (prima o dopo la proposizione del ricorso) di un’istanza di sanatoria di un abuso edilizio non determina l’inammissibilità, per carenza di interesse, o l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordine di demolizione, ma comporta, al più, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva, che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
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Premesso che tale domanda ha ad oggetto soltanto la traslazione dell’area di sedime dell’edificio il fase di realizzazione dello stesso, l’eccezione comunque non può essere accolta in quanto -secondo una consolidata e condivisibile giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 10.09.2018, n. 5293; id., Sez. VI, 27.02.2018, n. 1171)- la presentazione (prima o dopo la proposizione del ricorso) di un’istanza di sanatoria di un abuso edilizio (alla quale può essere assimilata la domanda di regolarizzazione ai sensi dell’art. 128, comma 8, legge provinciale n. 1/2008) non determina l’inammissibilità, per carenza di interesse, o l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordine di demolizione, ma comporta, al più, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva, che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria (TRGA Trentino Alto Adige, sentenza 08.08.2019 n. 108 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

APPALTI: Esclusione dalla gara per gravi illeciti professionali.
In relazione alle ipotesi in cui i fatti considerati dall’amministrazione siano oggetto di un procedimento penale, deve riconoscersi alla stazione appaltante la facoltà di escludere un concorrente per ritenuti “gravi illeciti professionali” a prescindere dalla definitività degli accertamenti compiuti in sede penale, ma resta ferma la necessità che il potere esercitato dall’amministrazione sottenda un’adeguata istruttoria, un compiuto contraddittorio e una congrua motivazione.
E' certamente vero che, mentre nel processo penale deve essere raggiunta la prova piena degli elementi del reato contestato, un’amministrazione aggiudicatrice che intenda escludere un operatore economico deve solo dimostrare i fatti che ne rendano dubbia l’integrità e affidabilità; nondimeno, il fatto in sé del rinvio a giudizio, seppure per un grave reato commesso, in ipotesi, in correità con funzionari comunali, non è espressivo dell’inaffidabilità dell’operatore, perché nella materia in esame non è configurabile alcun automatismo, ma si impone all’amministrazione, dotata di poteri discrezionali, di procedere ad un vaglio accurato degli elementi di fatto a disposizione, delle risultanze istruttorie, dei supporti probatori e delle risultanze del confronto dialettico con l’operatore interessato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 24.07.2019 n. 1724 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2) Con un primo gruppo di censure, la ricorrente lamenta la violazione sostanziale delle garanzie partecipative e la carenza di istruttoria e di valutazione, quanto meno in ordine all’adozione di misure di self cleaning.
2.1) Tanto la ricorrente, quanto l’amministrazione resistente, sviluppano argomentazioni che pongono sullo sfondo il problema della possibilità per una stazione appaltante di prendere in esame, ai fini della valutazione della sussistenza in concreto della fattispecie delineata dall’art. 80, comma 5, lett. c), del d.l.vo 2016, n. 50, anche i fatti che siano oggetto di un rinvio a giudizio.
Sul punto, il Tribunale evidenzia, in linea generale e in coerenza con il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa e della Corte di Giustizia UE, che anche i fatti oggetto di un procedimento penale in corso possono costituire “mezzi adeguati”, per un’amministrazione aggiudicatrice, al fine di dimostrare che un operatore economico si sia reso responsabile di gravi illeciti professionali.
La giurisprudenza eurounitaria, nell’individuare le “ricerche e verifiche” che le stazioni appaltanti possono condurre per accertare se determinati fatti, oggetto di un procedimento penale, abbiano reso dubbia l’integrità di un operatore economico, laddove esista “una procedura specifica disciplinata dal diritto dell'Unione o dal diritto nazionale per perseguire determinate violazioni e in cui particolari organismi sono incaricati di effettuare indagini al riguardo”, ha precisato che l’amministrazione aggiudicatrice, “nell’ambito della valutazione delle prove fornite, deve basarsi in linea di massima sull'esito di siffatta procedura” (Corte di Giustizia UE, 24.10.2018, C-124/17, punti 24-25).
Si badi, la Corte di Giustizia non ha affermato l’impossibilità per una stazione appaltante di procedere ad un’autonoma valutazione dei fatti oggetto di un procedimento penale in corso, ma ha statuito che “occorre tener conto delle funzioni rispettive, da un lato, delle amministrazioni aggiudicatrici e, dall'altro, delle autorità investigative”, precisando che “mentre queste ultime hanno il compito di stabilire la responsabilità di determinati agenti nel commettere una violazione a una norma di diritto, accertando con imparzialità la realtà di fatti che possono costituire una siffatta violazione, nonché punendo il comportamento illecito pregresso di detti agenti, le amministrazioni aggiudicatrici devono valutare i rischi cui potrebbero essere esposte aggiudicando un appalto a un offerente la cui integrità o affidabilità sia dubbia” (v. punto 26, giur. cit.).
Ad analoghe conclusioni giunge la giurisprudenza amministrativa, ritenendo che, in linea generale, l’art. 80, c. 5, lett. c) cit., rimetta alla stazione appaltante il potere di apprezzamento delle condotte dell’operatore economico che possono integrare un “grave illecito professionale”, tale da porne in dubbio l’integrità e l’affidabilità, anche oltre le ipotesi elencate nel medesimo articolo (Consiglio di Stato, Sez. V, 03.09.2018, n. 5142).
E’ pacifico in giurisprudenza che non è indispensabile che i gravi illeciti professionali, posti a fondamento dell’espulsione del concorrente dalla gara, siano accertati con sentenza, anche se non definitiva, essendo, infatti, sufficiente che gli stessi siano ricavabili da altri gravi indizi (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 27.02.2019, n. 1367; Consiglio di Stato, Sez. V, 20.03.2019, n. 1846), nel contesto di un ampio potere discrezionale riconosciuto alle stazioni appaltanti.
Potere che trova diretto riconoscimento nell’ampiezza della formulazione lessicale utilizzata dall’art. 57, comma 4 lett. c), della direttiva 2014/24, che, consentendo di escludere i partecipanti che abbiano commesso “gravi illeciti professionali”, riconosce un ampio potere valutativo alle amministrazioni aggiudicatrici, ciò che ha indotto la giurisprudenza a dubitare della legittimità degli automatismi previsti dall’art. 80, comma 5, lett. c), del d.l.vo 2016, n. 50.
Sul punto vale rammentare che, a fronte del quesito posto dal TAR Campania (ordinanza n. 5893 del 13.12.2017), l’Avvocato Generale -nelle conclusioni rese nella causa C-41/18 in data 07.03.2019- ha sostenuto che la normativa italiana, nella parte in cui preclude la partecipazione ad un operatore economico che non avesse contestato in giudizio la risoluzione anticipata di un precedente contratto di appalto, “sottrae all’amministrazione aggiudicatrice la facoltà di valutare pienamente l’affidabilità del candidato” (v. punto 53), restringendone indebitamente il campo di azione (v. punto 55. Un’analoga questione è stata peraltro sollevata da Consiglio di Stato, 03.05.2018 n. 2639).
L’art. 80, comma 5, cit. è stato modificato dall’art. 5, comma 1, del d.l. 2018, n. 135, convertito con L. 2019 n. 12, sicché se, da un lato, si consente alle amministrazioni aggiudicatrici di escludere il concorrente cha abbia subito una risoluzione per inadempimento, una condanna al risarcimento, o altre sanzioni, anche a fronte dalla loro mancata contestazione, dall’altro, si prescrive che, in tali casi, la stazione appaltante motivi anche con riferimento al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità della stessa.
Ecco, allora, che tanto il paradigma normativo, quanto quello giurisprudenziale, palesano, ai fini dell’individuazione dei “gravi illeciti professionali”, una tendenziale riduzione delle fattispecie tipiche, normativamente previste, in favore della dilatazione dei poteri valutativi delle stazioni appaltanti.
In altre parole, le stazioni appaltanti sono chiamate ad individuare in concreto le condotte suscettibili di integrare un “grave illecito professionale” e, pertanto, devono soddisfare un preciso onere motivazionale, palesando le ragioni fattuali e giuridiche sottese all’esercizio dei poteri discrezionali loro attribuiti.
In tal senso, la giurisprudenza riconosce che il vigente art. 80, comma 5 lett. c), del dl.vo 2016 n. 50 ha dilatato il potere valutativo discrezionale delle amministrazioni aggiudicatrici in tema di esclusione dei concorrenti, correlandone l’esercizio ad un “concetto giuridico indeterminato”, sicché spetta alle stazioni appaltanti declinare, caso per caso, la condotta dell’operatore economico “colpevole di gravi illeciti professionali” (sul punto, Consiglio di Stato, Sez. III, 23.11.2017, n. 5467).
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, va evidenziato (cfr. giur. ult. cit.) che:
   - la categoria dei concetti giuridici a contenuto indeterminato attiene ad una particolare tecnica legislativa, nella quale, per individuare il fatto produttivo di effetti, la norma non descrive la fattispecie astratta in maniera tassativa ed esaustiva, ma rinvia, per la sussunzione del fatto concreto nell’ipotesi normativa, all’integrazione dell’interprete, mediante l’utilizzo di concetti che vanno completati e specificati con elementi o criteri extragiuridici;
   - a fronte di concetti giuridici indeterminati, l’Amministrazione dispone di un più ampio potere discrezionale, ciò che è potenzialmente suscettibile di pregiudicare il principio di legalità, dovendo, pertanto, richiedersi l’adempimento di un onere motivazionale rafforzato;
   - conseguentemente, quando la stazione appaltante esclude un operatore economico perché considerato colpevole di un grave illecito professionale, non compreso nell’elenco dell’art. 80, comma 5 lett. c) cit., deve adeguatamente motivare l’esercizio di siffatta discrezionalità ed in maniera ben più rigorosa ed impegnativa rispetto a quanto avviene a fronte delle particolari ipotesi esemplificate dal testo di legge (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 02.03.2018, n. 1299).
In definitiva, anche in relazione alle ipotesi in cui i fatti considerati dall’amministrazione siano oggetto di un procedimento penale, deve riconoscersi alla stazione appaltante la facoltà di escludere un concorrente per ritenuti “gravi illeciti professionali” a prescindere dalla definitività degli accertamenti compiuti in sede penale, ma resta ferma la necessità che il potere esercitato dall’amministrazione sottenda un’adeguata istruttoria, un compiuto contraddittorio e una congrua motivazione, secondo quanto sinora precisato.

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Valutazione d'incidenza ambientale, il Tar verifica illogicità e difetti procedimentali.
La valutazione di incidenza ambientale (cd. Vinca), similmente alla valutazione di impatto ambientale (Via), si caratterizza quale giudizio di ampia discrezionalità oltre che di tipo tecnico, anche amministrativa, sul piano dell'apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all'interesse all'esecuzione dell'opera.
Il sindacato del giudice amministrativo, di conseguenza, è limitato alla manifesta illogicità, incongruità, travisamento o macroscopici difetti di motivazione o di istruttoria, diversamente ricadendosi in un inammissibile riesame nel merito con sostituzione della valutazione giudiziale a quella affidata dal legislatore all'amministrazione.

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Nell’esame dei diversi motivi risulta necessario rammentare che la valutazione di incidenza ambientale (cd. Vinca), similmente alla valutazione di impatto ambientale (Via), si caratterizza quale giudizio di ampia discrezionalità oltre che di tipo tecnico, anche amministrativa, sul piano dell'apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all'interesse all'esecuzione dell'opera (TAR Calabria–Catanzaro n. 2057/2016; TAR Umbria, 07.11.2013, n. 515; per la VIA cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 22.06.2009, n. 4206; Cons. Stato., Sez. V, 21.11.2007, n. 5910; Cons. Stato, Sez. VI, 17.05.2006, n. 2851; Cons. Stato, Sez. IV, 22.07.2005, n. 3917).
Il sindacato del giudice amministrativo, di conseguenza, è limitato alla manifesta illogicità, incongruità, travisamento o macroscopici difetti di motivazione o di istruttoria (Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2007, n. 5910; Cons. Stato, Sez. IV, 17.09.2013, n. 4611; TAR Puglia-Lecce, Sez. I, 26.01.2011, n. 135; TAR. Toscana, Sez. II, 20.04.2010, n. 986), diversamente ricadendosi in un inammissibile riesame nel merito con sostituzione della valutazione giudiziale a quella affidata dal legislatore all'amministrazione (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 19.07.2019 n. 1455 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Scelta delle misure per far cessare le immissioni da rumore e prova del danno patrimoniale da immissioni superiori alla normale tollerabilità.
Nell'accogliere la domanda volta a far cessare le immissioni, il giudice del merito, pur avendo la facoltà di scegliere tra le diverse misure consentite dalla norma, ha tuttavia l'obbligo di precisare le ragioni della scelta dell'una o dell'altra e di indicare con sufficiente determinazione le misure in concreto adottate, soprattutto quando ritenga impossibile adottare misure meno invasive ed indispensabile condannare il convenuto alla cessazione delle immissioni e quindi anche dell'attività che ad esse dà luogo.
Il danno non patrimoniale subito in conseguenza di immissioni di rumore superiore alla normale tollerabilità non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno risarcibile con la lesione del diritto (nella specie quello al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane) ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi è copertura normativa, ponendosi così in contrasto sia con l'insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972 del 2008), secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l'ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l'ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell'art. 23 Cost.;
Ne consegue che il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi a tal fine avvalersi anche di presunzioni gravi, precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari (da allegare e provare da parte del preteso danneggiato) diversi dal fatto in sé dell'esistenza di immissioni di rumore superiori alla normale tollerabilità
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 18.07.2019 n. 19434 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
7. È altresì fondato il terzo motivo, di rilievo logico preliminare rispetto al secondo.
La pronunzia impugnata conferma la decisione di primo grado, che aveva riconosciuto il danno in questione nella misura sopra indicata —in quanto derivante dalla lesione del diritto (non alla salute ma) al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali diritti costituzionalmente garantiti, nonché tutelati dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo— limitandosi a richiamare il principio rinvenibile in alcune pronunce di questa Corte, predicativo dell'esistenza di un danno in re ipsa ogniqualvolta venga accertata la non tollerabilità delle immissioni (Cass. 18/10/1978, n. 4693; 12/03/1987, n. 2580 Rv. 451713; 13/03/2007, n. 5844).
Siffatto principio, tralaticiamente ribadito ancora di recente (v. Cass. 12/02/2016, n. 2864), non è condiviso da più recente giurisprudenza, secondo la quale, anche nell'ipotesi considerata, il danno non può essere considerato in re ipsa ma deve essere provato secondo la regola generale dell'art. 2697 cod. civ.. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico (Cass. 09/11/2018, n. 28742; 29/01/2018, n. 2056).
A tale secondo indirizzo si intende qui dare continuità.
È invero ormai generalmente riconosciuta, almeno in via di principio, l'antiteticità del concetto di danno in re ipsa —il quale, anche letteralmente, postula la coincidenza del danno risarcibile con l'evento dannoso (e al quale pure, in passato, non va dimenticato, si era fatto ricorso, per giustificare la risarcibilità del danno biologico, attraverso l'elaborazione del concetto, sovrapponibile, di danno- vento: v. Corte cost. n. 184 del 1986)— rispetto al sistema di responsabilità civile, fondato all'opposto sulla netta distinzione, ex artt. 1223 e 2056 cod. civ., tra fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, produttivo del danno e il danno stesso, da identificare nelle conseguenze pregiudizievoli di quel fatto, nella loro duplice possibile fenomenologia di «danno emergente» (danno «interno», che incide sul patrimonio già esistente del soggetto) e di «lucro cessante» (che, di quel patrimonio, è proiezione dinamica ed esterna), come tale apprezzabile sia in ambito patrimoniale che non patrimoniale (v. Cass. 17/01/2018, n. 901, in motivazione, pag. 27): perdita-danno emergente-sofferenza interiore, da un lato, e, dall'altro, mancato guadagno-lucro cessante-danno alla persona nei suoi aspetti esteriori/relazionali.
In ambito di responsabilità aquiliana ciò è definitivamente chiarito dalle già richiamate sentenze c.d. di San Martino (Cass. Sez. U. 11/11/2008, nn. 26972-26975) che, proprio con riferimento al danno non patrimoniale, evidenziano come il sistema fornisce una struttura dell'illecito «articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza)», essendo l'evento dannoso rappresentato dalla «lesione dell'interesse protetto».
Pertanto quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, «che deve essere allegato e provato»; non è accettabile la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, ovvero come danno-evento, e parimenti da disattendere è la tesi che colloca il danno appunto in re ipsa, perché così «snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo».
Può peraltro al riguardo rammentarsi che già Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576, di poco anteriore, in materia di responsabilità da trasfusione di sangue infetto, avvertiva che «il danno rileva ... sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è ... esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l'evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria».
È ben vero che la prova del pregiudizio (sofferto a causa della lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane assolta conseguente alle immissioni intollerabili) può —e anzi normalmente non potrà che— essere fornita attraverso presunzioni (come nel caso considerato da Cass. 03/10/2018, n. 23754, ove si evidenzia che il complessivo materiale probatorio comprovava «un quadro sufficientemente chiaro e completo dei disagi sofferti dalla famiglia ..., con i trasferimenti fuori di casa, le assenze a scuola dei figli e le altre circostanze sopravvenute in dipendenza della difficile vivibilità della casa»).
Ciò tuttavia è ben diverso dall'affermare che il danno da immissioni intollerabili sia da considerare in re ipsa.
Ed invero, una cosa è dire che il danno è presunto (con inversione dell'onere della prova, addossandosi al danneggiante quello di provare il contrario), altra è dire che può essere provato per presunzioni.
La «presunzione» del danno, in quest'ultima corretta prospettiva, è solo il risultato finale della valutazione da compiere ed equivale a dire «convincimento basato su ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ex art. 2729 cod. civ.», il quale però non può mancare e deve poter essere verificabile. Nel senso usato invece secondo l'orientamento qui respinto, mancando sovente ogni riferimento a tale necessario passaggio logico intermedio, esso acquista il diverso significato di mera regola di giudizio che solleva (il «presunto» danneggiato) dall'onere di fornire elementi indiziari (diversi rispetto al mero fatto lesivo) che possano giustificare quel convincimento e pone piuttosto l'onere della prova contraria a carico del «presunto» danneggiante.
Mette conto al riguardo ancora soggiungere che, in mancanza di allegazione e prova di tali elementi indiziari, il riconoscimento di un danno risarcibile comporta la sovrapposizione tra danno-evento e danno-conseguenza, con il che si trasmoda dal «tradizionale danno compensativo/ripristinatorio» a quello del risarcimento con funzione punitiva in contrasto anche con l'ulteriore intervento nomofilattico di Cass. Sez. U. 05/07/2017, n. 16601, che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l'ordinamento ponendo però come limite l'espressa sua previsione normativa, in applicazione dell'art. 23 Cost..
Ogni elemento sanzionatorio che venga a sostituire —in ultima analisi— quello risarcitorio non può, dunque, derivare da volontà del giudicante, bensì esige riserva di legge (v. in tal senso, sia pure in ambito di danno patrimoniale, ma alla stregua di considerazioni certamente valide anche, mutatis mutandis, nel presente contesto, Cass. 04/12/2018, n. 31233; 25/05/2018, n. 13071).
Deve sul punto in conclusione affermarsi il seguente principio di diritto:
il danno non patrimoniale subito in conseguenza di immissioni di rumore superiore alla normale tollerabilità non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno risarcibile con la lesione del diritto (nella specie quello al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane) ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi è copertura normativa, ponendosi così in contrasto sia con l'insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l'ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l'ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell'art. 23 Cost..
Ne consegue che il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi a tal fine avvalersi anche di presunzioni gravi, precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari (da allegare e provare da parte del preteso danneggiato) diversi dal fatto in sé dell'esistenza di immissioni di rumore superiori alla normale tollerabilità.

La sentenza impugnata applica una regola di giudizio evidentemente difforme da tale principio e va pertanto, anche sul punto, cassata, restando assorbito l'esame dei restanti due motivi di ricorso.

EDILIZIA PRIVATAL’espressione “volumi tecnici” corrisponde a opere prive di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, in quanto aventi una consistenza volumetrica del tutto contenuta e destinati unicamente a contenere impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima e che non possono essere in alcun modo ubicati al suo interno.
Volumi che non comportano, cioè, aumento di carico territoriale o di impatto visivo, mentre al di fuori di tale ambito deve escludersi che possa negarsi rilevanza giuridica a volumi comunque esistenti nella realtà fisica.
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La conclusione non può essere condivisa, se si considera che l’espressione “volumi tecnici” corrisponde a opere prive di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, in quanto aventi una consistenza volumetrica del tutto contenuta e destinati unicamente a contenere impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima e che non possono essere in alcun modo ubicati al suo interno.
Volumi che non comportano, cioè, aumento di carico territoriale o di impatto visivo, mentre al di fuori di tale ambito deve escludersi che possa negarsi rilevanza giuridica a volumi comunque esistenti nella realtà fisica (fra le moltissime, cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.07.2016, n. 3059; id., sez. VI, 29.01.2015, n. 406; id., sez. V, 17.06.2014, n. 3074) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.07.2019 n. 1113 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICAIncostituzionale la legge regionale lombarda in materia di consumo di suolo che, nella fase transitoria, impedisca varianti urbanistiche anche di tipo riduttivo.
La Corte costituzionale dichiara la illegittimità costituzionale delle disposizioni regionali della Lombardia che impedivano ai Comuni -nelle more dell’adeguamento dei piani urbanistici comunali ai principi regionali relativi alla riduzione del consumo di suolo ed alla riqualificazione di quello già degradato- la variazione dei documenti di piano vigenti nella ipotesi di “anticipata riduzione” delle esistenti potenzialità edificatorie (Corte Costituzionale, sentenza 16.07.2019 n. 179).
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Urbanistica ed edilizia – Regione Lombardia – Riduzione del consumo del suolo e riqualificazione del suolo degradato – Fase transitoria – Funzione di pianificazione urbanistica comunale – Limiti – Incostituzionalità
È incostituzionale, per violazione del combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali, e degli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., con riguardo al principio di sussidiarietà verticale, l’ultimo periodo dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Lombardia 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato), nel testo precedente alle modifiche apportate dalla legge della Regione Lombardia 26.05.2017, n. 16, recante «Modifiche all’articolo 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato)», nella parte in cui non consente ai Comuni, sino all’adeguamento degli strumenti urbanistici sulla base dei principi previsti dalla medesima legge regionale n. 31 del 2014 (riduzione consumo suolo e riqualificazione di quello degradato), di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente (1).
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   (1) I. – Con la sentenza in rassegna la Corte costituzionale dichiara illegittima la disposizione regionale di cui all’art. 5, comma 4, ultimo periodo, l.r. Lombardia 28.11.2014, n. 31 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato”), con la quale, in attesa dell’adeguamento del piano urbanistico comunale alle finalità ed ai principi generali ivi contenuti, venivano mantenute ferme le previsioni edificatorie contemplate nei vigenti strumenti di piano di livello comunale.
Una simile disposizione, secondo la Corte, si pone in contrasto con le norme costituzionali in tema di funzioni fondamentali degli enti locali e di sussidiarietà verticale atteso che il potere urbanistico comunale verrebbe di fatto vanificato e paralizzato nell’ipotesi, altresì, ove quest’ultimo risulti preordinato ad introdurre, sempre nella fase transitoria, modificazioni riduttive delle attuali potenzialità edificatorie (modificazioni, queste, idonee anzi ad “anticipare” le suddette finalità della richiamata legge regionale).
   II. – Più in particolare:
      a) alcuni proprietari di suoli (a loro tempo edificabili) impugnavano la variante al piano regolatore del Comune di Brescia con cui le loro rispettive originarie facoltà edificatorie venivano cancellate.
Il Tar per la Lombardia, sez. staccata di Brescia, con sentenza 17.01.2017, n. 47, accoglieva il ricorso dal momento che l’art. 5, comma 4, ultimo periodo, della legge regionale n. 31 del 2014, impedisce la possibilità di introdurre varianti di questo tipo nelle more dell’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali alle finalità ed ai principi di cui alla stessa legge regionale (riduzione consumo suolo e riqualificazione di quello degradato).
Una volta appellata la suddetta sentenza di primo grado il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 5711 del 04.12.2017 della quarta sezione (oggetto della News US del 21.12.2017 ed alla quale si rinvia per ogni approfondimento di giurisprudenza e di dottrina), ha sollevato q.l.c. della richiamata disposizione regionale transitoria per la violazione sia delle competenze esclusive statali in materia di funzioni fondamentali degli enti locali di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. (e tra queste anche di quella in tema di pianificazione urbanistica comunali), sia del principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118, primo comma, Cost.;
      b) questo in sintesi il ragionamento sviluppato dalla Corte costituzionale:
         b1) la disposizione transitoria regionale consente, nelle more dell’adeguamento del piano comunale alle predette finalità di riduzione e di riqualificazione della stessa legge regionale, soltanto varianti di riorganizzazione planovolumetrica, tipologica o progettuale di interventi già previsti. Compressioni delle facoltà edificatorie quali quelle apportate con la variante oggetto di impugnativa non sarebbero invece ammesse;
         b2) le finalità perseguite dalla legge regionale n. 31 del 2014 sono senz’altro degne della massima considerazione, atteso che il consumo di suolo costituisce uno dei più gravi problemi in termini di sostenibilità e di tutela delle risorse ambientali;
         b3) occorre al tempo stesso considerare: da un lato il riconoscimento della pianificazione urbanistica nel novero delle funzioni fondamentali degli enti locali e in particolare di quelli comunali; dall’altro lato la possibilità per il legislatore regionale, data la competenza costituzionalmente riservata in materia di “governo del territorio” (art. 117, terzo comma, Cost.), di disciplinare e di conformare tale competenza amministrativa comunale;
         b4) nella ricerca di un “punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo” occorre comunque che le leggi regionali in materia di “governo del territorio”, nel conformare e disciplinare come detto la funzione urbanistica comunale, non giungano mai a paralizzare o a vanificare quest’ultima;
         b5) un tale punto di equilibrio non va fissato in astratto ma va ricercato in concreto, attraverso una valutazione “caso per caso” basata su un test di proporzionalità che deve bilanciare: da un lato la meritevolezza dell’interesse perseguito dal legislatore regionale; dall’altro lato la adeguatezza e la stretta necessità del mezzo utilizzato per disciplinare ed eventualmente limitare le funzioni urbanistiche comunali in vista degli obiettivi che, più “a monte”, si intendono realizzare (criterio del “minimo mezzo utile per perseguire gli scopi del legislatore regionale”);
         b6) in questa direzione, se per un verso lo scopo perseguito dal legislatore regionale (riduzione consumo di suolo) costituisce senz’altro legittimo esercizio delle proprie competenze costituzionalmente riservate, per altro verso lo strumento utilizzato (divieto varianti anche in caso di eliminazione di facoltà edificatorie) si rivela non solo non necessario ma addirittura contraddittorio rispetto alle finalità poste dalla stessa legge regionale;
         b7) ed infatti: la compressione della potestas variandi in capo all’amministrazione comunale, anche in caso di eliminazione di precedenti facoltà edificatorie, non solo impedisce oltre misura l’esplicazione di una funzione fondamentale degli enti locali ma addirittura preclude, in termini “paradossali”, il raggiungimento “in anticipo” delle finalità di fondo della legislazione regionale (riduzione consumo di suolo);
         b8) né potrebbe invocarsi la violazione del legittimo affidamento in capo ai proprietari circa la pregressa vocazione edificatoria dei rispettivi suoli, e tanto in considerazione di una univoca giurisprudenza del Consiglio di Stato (vengono qui citate: “Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 12.05.2016, n. 1907 e 07.11.2012, n. 5665.....”) diretta a non ritenere tutelabili, sotto tale specifico profilo, le posizioni di coloro che non hanno stipulato almeno una convenzione urbanistica.
   III. – Si segnala per completezza quanto segue:
      c) sulle iniziative legislative in tema di riduzione del consumo di suolo si veda:
         c1) disegno di legge n. A.C. 2039 della XVII Legislatura (disegno di legge di iniziativa governativa, c.d. collegato ambientale, in materia di “Contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato” – presentato il 03.02.2014) poi non definitivamente approvato e secondo cui il suolo costituisce “bene comune e risorsa non rinnovabile, che esplica funzioni e produce servizi ecosistemici e che deve essere tutelato anche in funzione della prevenzione e della mitigazione degli eventi di dissesto idrogeologico e delle strategie di adattamento ai cambiamenti climatici” (cfr. relazione illustrativa, pag. 2). Ulteriore principio fondamentale è poi “quello della priorità del riuso del suolo edificato esistente e della rigenerazione urbana rispetto all’ulteriore consumo di suolo inedificato” (cfr. relazione illustrativa, pag. 2).
Con decreto ministeriale, da adottare dietro parere della Conferenza unificata e sulla base di criteri da quest’ultima predeterminati, sarebbe poi stato fissato “a livello nazionale … il limite quantitativo di riduzione del consumo di suolo in vista del graduale azzeramento del consumo in coerenza con quanto stabilito dalla Commissione europea circa il traguardo da raggiungere entro il 2050” (cfr. relazione illustrativa, pag. 3). Sulla base di tale programmazione di livello nazionale le singole regioni avrebbero poi dato concreta attuazione alle norme di principio della legislazione statale. Ciò anche ai fini del riuso e della rigenerazione edilizia (attuata in concreto dalle amministrazioni comunali).
Veniva infine prevista una disposizione transitoria (alquanto più stringente di quella della Regione Lombardia oggetto della decisione della Corte costituzionale n. 179 del 2019) diretta a congelare per tre anni il consumo di suolo, fatta eccezione per opere già inserite nei relativi strumenti di programmazione e con salvezza, in ogni caso, dei procedimenti in corso al momento della entrata in vigore della legge stessa;
         c2) A.S. 984 della XVIII Legislatura tuttora in corso (disegno di legge di iniziativa parlamentare recante “Disposizioni per la rigenerazione urbana e per il contrasto al consumo di suolo”, presentato in data 07.12.2018) con cui, dopo avere ribadito alcuni principi sulla riduzione del consumo di suolo e sulla priorità del riuso e della rigenerazione in analogia rispetto al richiamato d.d.l. 2039 (ma senza prevedere una programmazione di livello nazionale), viene prevista una più ampia ed articolata disciplina del periodo transitorio con cui, tra l’altro, sono innanzitutto fatti salvi “i poteri di pianificazione urbanistica dei comuni in senso più riduttivo” (art. 3, comma 5).
Si prevede poi un progressivo decremento, quanto al nuovo consumo di suolo, sia dei piani già previsti dagli strumenti urbanistici vigenti al momento della entrata in vigore della legge, sia di quelli approvati successivamente ad essa. È in ogni caso previsto un incremento del contributo di costruzione;
      d) a livello eurounitario si veda:
         d1) comunicazione della Commissione del 22.09.2006, recante “Strategia tematica per la protezione del suolo”, la quale, dopo avere descritto il quadro di intervento e lo stato di estremo degrado del suolo in ambito europeo, si propone tra gli obiettivi quello di adottare una direttiva quadro in materia nonché di procedere alla modifica in parte qua delle direttive sui fanghi di depurazione e sulla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento (direttiva IPPC), di verificare la coerenza e la congruità dei piani di sviluppo rurale e di avviare progetti di sensibilizzazione e di supporto ai progetti di ricerca;
         d2) decisione n. 1386/2013/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20.11.2013, recante approvazione del cosiddetto Settimo programma di azione per l’ambiente, la quale si concentra “su tre obiettivi tematici: a) proteggere, conservare e migliorare il capitale naturale dell’Unione; b) trasformare l’Unione in un’economia a basse emissioni di carbonio, efficiente nell’impiego delle risorse, verde e competitiva; c) proteggere i cittadini dell’Unione da pressioni e rischi d’ordine ambientale per la salute e il benessere”.
In particolare, dopo avere rammentato i problemi ambientali derivanti dal degrado e della frammentazione del suolo, nonché dopo avere dato atto che alcuni Stati membri hanno già compiuto alcuni progressi in materia, ci si sofferma sull’importanza di “affrontare le problematiche legate alla qualità del suolo all’interno di un quadro giuridico vincolante utilizzando un approccio basato sui rischi mirato e proporzionato. Dovrebbero inoltre essere stabiliti degli obiettivi per un uso sostenibile dei terreni e del suolo” (cfr. punto 25 dell’Allegato alla decisione);
      e) sul tema della riduzione del consumo del suolo si veda, in dottrina: W. TOCCI, L'insostenibile ascesa della rendita urbana; P. BERDINI, Il consumo di suolo in Italia: 1995-2006; J.P. LACAZE, La speculazione, danni e benefici; H. NESSI e A. DELPIROU, La «compensazione» urbanistica a Roma; P. URBANI, L'edilizia abitativa tra piano e mercato - I programmi integrati di promozione di edilizia residenziale e di riqualificazione urbana; V. CERULLI IRELLI e L. DE LUCIA, Il secondo «piano casa»: una (incostituzionale) depianificazione del territorio, tutti in Democrazia e diritto, 2009, fasc. n. 1; C. BOVINO, Pac, biodiversità agraria, consumo del suolo (Agricoltura e ambiente ai tempi di Expo 2015), in Ambiente, 2015, suppl. al n. 7, 33; P. CHIRULLI, La pianificazione urbanistica tra esigenze di sviluppo e riduzione del consumo di suolo: la riqualificazione dell’esistente, in Riv. giuridica urbanistica, 2015, 4, 592; W. GASPARRI, Suolo, bene comune? Contenimento del consumo di suolo e funzione sociale della proprietà privata, in Dir. pubbl., 2016, 69; F. SCALIA, Governo del territorio e tutela dell'ambiente: urbanistica e limitazione del consumo di suolo, in Urbanistica e appalti, 2016, 1065; P. URBANI, A proposito della riduzione del consumo di suolo, in Riv. giur. edilizia, 2016, II, 227; G.F. CARTEI, Il suolo tra tutela e consumo, in Riv. giur. urbanistica, 2016, 4, 10; F.F. GUZZI, Il contenimento del consumo di suolo alla luce della recente legislazione nazionale e regionale, in Riv. giur. urbanistica, 2016, 4, 25; E. FERRERO, Il contenimento del consumo di suolo: problemi e prospettive, in Urbanistica e appalti, 2017, 191; S. CIRIESI, Consumo del suolo e scenari urbanistici (Nota a Tar Lombardia, sede Brescia, sez. I, n. 47/2017, in www.lexitalia.it, 2017); N. LUCIFERO, Il «contenimento del consumo del suolo agricolo»: un problema di qualificazione e regolamentazione giuridica, in Dir. agroalimentare, 2017, 27; L. DE LUCIA, Il contenimento di consumo di suolo in Veneto, in Riv. giur. urbanistica, 2017, 597; M. ROVERSI MONACO, Tutela dell'ambiente e riduzione del consumo di suolo nella legge regionale dell'Emilia Romagna n. 24/2017, in Istituzioni del federalismo, 2017, 827; G. IACOVONE, Politiche fiscali nella costruzione della città pubblica - A margine del consumo di suolo, in Dir. e processo amm., 2018, 957; G. GUZZARDO, La regolazione multilivello del consumo di suolo e del riuso dell'abitato, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2018, 119; A. QUARANTA, Il consumo del suolo fra impasse normativa, proposte settoriali e necessità di un cambio di marcia, in Ambiente, 2018, 539;
      f) sulla rigenerazione urbana si veda il Piano nazionale per la rigenerazione urbana sostenibile, a cura del Consiglio nazionale degli architetti pianificatori paesaggisti e conservatori (maggio 2012), il quale si pone quale obiettivo principale quello di garantire “efficienza, sicurezza e vivibilità alle 100 città italiane che ospitano il 67% della popolazione nazionale”.
Di qui l’importanza di attivare “un Piano Nazionale per la Rigenerazione Urbana Sostenibile -sul modello del Piano Energetico nazionale- che fissi gli obiettivi e ne deduca gli strumenti politici, normativi e finanziari”.
In questa direzione, “La riqualificazione degli spazi pubblici, incidendo sulla qualità della vita degli abitanti e sul loro senso di appartenenza ai luoghi può, infatti, costituire un fattore decisivo nella riduzione delle disparità tra quartieri ricchi e poveri, contribuendo a promuovere una maggiore coesione sociale”. Iniziative queste “da attuarsi anche mediante sostituzione di isolati, parti o interi quartieri costruiti nel secondo dopoguerra, caratterizzati da un’edilizia di scarsissima qualità, inadeguata sia in riferimento alle norme antisismiche ed idrogeologiche, che a quelle sulla qualità degli impianti e contenimento dei consumi”.
Questi i principali obiettivi del piano:
         f1) messa in sicurezza, manutenzione e rigenerazione del patrimonio edilizio pubblico e privato (nelle zone a rischi sismico risiedono oltre 24 milioni di persone, mentre altri 6 milioni convivono con il rischio idrogeologico);
         f2) drastica riduzione del consumo del suolo e degli sprechi degli edifici, energetici e idrici, promuovendo “distretti energetici ed ecologici”;
         f3) rivalutazione degli spazi pubblici, del verde urbano, dei servizi di quartiere;
         f4) razionalizzazione della mobilità urbana e del ciclo dei rifiuti;
         f5) implementazione delle infrastrutture digitali innovative con la messa in rete delle città italiane, favorendo l’home working e riducendo così spostamenti e sprechi;
         f6) salvaguardia dei centri storici e loro rivitalizzazione, evitando di ridurli a musei;
      g) sulla rigenerazione urbanistica quale strumento di contrasto al consumo del suolo si veda, in dottrina: E.M. TRIPODI, Distretti del commercio e reti di impresa: le strategie per la rigenerazione urbana, in Disciplina comm., 2014, fasc. 1, 17; R. DIPACE, La rigenerazione urbana tra programmazione e pianificazione, in Riv. giur. edilizia, 2014, II, 237; P. MANTINI, La perequazione urbanistica nel tempo della rigenerazione urbana, in Riv. giur. edilizia, 2017, II, 375; M. BITONDO, La nuova legge regionale del Lazio in materia di «rigenerazione urbana» e di «recupero edilizio», in www.lexambiente.it, 2017; La rigenerazione urbana e le nuove sfide per il governo del territorio, in Istituzioni del federalismo, 2017, 603; ivi anche i saggi di: G.F. CARTEI, Rigenerazione urbana e governo del territorio; R. DIPACE, Le politiche di rigenerazione dei territori tra interventi legislativi e pratiche locali; G. TORELLI, La rigenerazione urbana nelle recenti leggi urbanistiche e del governo del territorio; T. BONETTI, La riforma urbanistica in Emilia Romagna tra presente e futuro; F. SPANICCIATI, Emergenza sisma e nuovi strumenti decisionali: la pianificazione delle zone colpite dai terremoti 2016-2017; (a cura di) DI F. LASCIO e F. GIGLIONI, La rigenerazione di beni e spazi urbani - Contributo al diritto delle città, Bologna, 2017; F. DI LASCIO, Quali tendenze in corso nella rigenerazione delle città? (in Riv. giur. edilizia, 2018, II, 135); A. GIUSTI, La rigenerazione urbana - Temi, questioni e approcci nell'urbanistica di nuova generazione, Napoli, 2018; B. GRAZIOSI, Gli interventi di riuso e rigenerazione urbana all'interno del perimetro del territorio urbanizzato nella legge regionale dell'Emilia Romagna 21.12.2017 (commento alla l.reg. Emilia Romagna 21.12.2017 n. 24), in Riv. giur. edilizia, 2018, III, 71; M. BITONDO, La nuova legge regionale del Lazio in materia di «rigenerazione urbana» e di «recupero edilizio» - Modifiche legislazione previgente (art. 10), in www.lexambiente.it, 2018; A. CALDERAZZI, N. OISHI, A.L.G. TARANTINO, G. TORTORICI e C.M. TORRE, Lifestyle nella rigenerazione urbana: contesti, strumenti ed azioni, a cura di A.L.G. TARANTINO, Bari, 2019;
      h) sulle funzioni fondamentali degli enti locali e su una loro eventuale compressione, anche nella materia urbanistica, si veda:
         h1) Corte cost., 27.12.2018, n. 245 (in Giur. cost., 2018, 2758) secondo cui “Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 4, l.reg. Abruzzo 01.08.2017, n. 40, censurato, per violazione dell'art. 117, comma 2, lett. s), Cost., in relazione agli artt. 6, comma 3, 12 e 65, comma 4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152; nonché dell'art. 117, comma 3, Cost., in relazione agli artt. 2, comma 4, e 9 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e agli artt. 4 e 7 l. 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), in quanto prevede che il recupero dei vani e locali di cui all'art. 2, comma 1 (ossia dei vani e locali accessori situati in edifici esistenti o collegati direttamente ad essi ed utilizzati anche come pertinenze degli stessi e dei vani e locali seminterrati) «è ammesso anche in deroga ai limiti e prescrizioni edilizie degli strumenti urbanistici ed edilizi comunali vigenti, ovvero in assenza dei medesimi». La disposizione censurata è dettata nell'esercizio della potestà legislativa concorrente in materia di governo del territorio e si limita, unitamente alle altre contenute nella l.reg. n. 40 del 2017, ad incentivare il recupero dei vani seminterrati ed accessori nel rispetto della normativa ambientale e dei princìpi fondamentali della disciplina urbanistica ed edilizia nazionale, dettando minute prescrizioni edilizie. Essa, quindi, non comporta una «elusione» dell'obbligo di verifica di assoggettabilità a VAS, mediante l'attrazione alla sfera legislativa della modifica di strumenti amministrativi di pianificazione suscettibili di incidere sull'ambiente. La norma censurata non pone, inoltre, alcuna deroga alle previsioni del piano di bacino che, proprio in forza del parametro interposto invocato (art. 65 d.lgs. n. 152 del 2006), si impongono a tutte le amministrazioni e ai privati, a prescindere dal loro recepimento in altre fonti legislative o regolamentari. Neanche sussiste la dedotta violazione del principio fondamentale di attribuzione ai Comuni della funzione di pianificazione urbanistica del territorio, poiché la disposizione censurata consente esclusivamente deroghe minute alla disciplina edilizia comunale, dettate nell'esercizio della competenza legislativa concorrente in materia di governo del territorio, né del principio fondamentale stabilito dall'art. 9 TUE, che individua l'attività edilizia realizzabile in assenza degli strumenti urbanistici (sentt. nn. 232, 254 del 2009, 168, 254 del 2010, 58, 251 del 2013, 46, 197 del 2014, 117, 219 del 2015, 84, 114 del 2017, 68 del 2018)”;
         h2) Corte cost., 09.02.2017, n. 32 (in Foro it., 2018, I, 1848), che ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità sollevata dalla Regione Veneto, per violazione delle competenze legislative regionali in materia di “polizia amministrativa locale” (art. 117, quarto comma, Cost.), in ordine alle disposizioni del d.l. 19.06.2015, n. 78 (c.d. Legge Del Rio), nella parte in cui veniva variamente regolato il transito del personale di polizia provinciale nel ruolo degli enti locali. La Corte ha ritenuto in tale occasione che: “Le censurate disposizioni si inseriscono nel processo di riordino delle province e delle città metropolitane, avviato con la l. 07.04.2014 n. 56 (disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), con la quale, nell'esercizio delle proprie competenze di cui agli art. 114 e 117, 2° comma, lett. p, Cost., «il legislatore ha inteso realizzare una significativa riforma di sistema della geografia istituzionale della repubblica»”.
Ed inoltre che: “Parallelamente alla nuova disciplina concernente il riordino di detti enti, il legislatore statale ha previsto misure dirette all'individuazione del personale da riallocare … disciplinandone altresì le modalità di trasferimento e ridefinendo le dotazioni organiche … In proposito, questa corte ha già affermato che «non c’è dubbio che la disciplina del personale costituisca uno dei passaggi fondamentali della riforma» … da farsi rientrare, in termini generali, nella competenza esclusiva dello Stato in materia di «funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane» (art. 117, 2° comma, lett. p, Cost.). È del tutto evidente, infatti, che «la ridefinizione delle funzioni amministrative spettanti a regioni ed enti locali non può prescindere, per divenire effettiva, dall’individuazione delle corrispondenti risorse di beni, di mezzi finanziari e di personale»”.
Prosegue la Corte affermando che: “In particolare, la disciplina dettata … stabilisce il transito del personale nei ruoli degli enti locali, rimettendo peraltro agli enti di area vasta, alle città metropolitane e alle stesse regioni l'individuazione di quel personale che, di volta in volta, è necessario allo svolgimento delle proprie funzioni”.
Infine che: “La normativa impugnata deve essere ricondotta … non solo alla materia di competenza esclusiva statale «funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane» —trattandosi, come detto, di intervento che si colloca nel processo di riordino degli enti territoriali avviato con la l. n. 56 del 2014—, ma anche a ulteriori titoli di competenza statale”.
Ed infatti, trattandosi di “misure relative a rapporti lavorativi già in essere”, le disposizioni statali impugnate erano dunque preordinate a garantire le posizioni e le qualifiche già rivestite dai membri del suddetto corpo, rendendo così “effettivo il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost.”: di qui il pieno titolo ad intervenire mediante norme statali dal momento che si rientrava, altresì, nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile” (art. 117, secondo comma, lett. l);
         h3) Corte cost., 07.07.2016, n. 160 (in Giur. cost., 2016, 1312) secondo cui “Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 609, lett. a), l. 23.12.2014, n. 190, censurato, per violazione degli artt. 117, commi 3 e 4, 118 e 123 Cost., nonché dell'art. 3, comma 2, st. reg. Veneto, nella parte in cui, al fine di organizzare i servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, afferma l'obbligo per gli enti locali di partecipare agli enti istituiti o designati per il governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, sanzionando la mancata adesione con la previsione di poteri sostitutivi in capo al Presidente della Regione. La disposizione censurata trova un duplice fondamento nelle competenze che l'art. 117 Cost. attribuisce allo Stato, nell'ambito del coordinamento della finanza pubblica e della tutela della concorrenza, essendo diretta al conseguimento di risultati economici migliori nella gestione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica e, quindi, a un contenimento della spesa pubblica attraverso sistemi tendenzialmente virtuosi di esercizio delle relative funzioni e, al contempo, essendo finalizzata, nel disciplinare gli ambiti territoriali ottimali e le relative autorità di governo, a superare situazioni di frammentazione e a garantire la competitività e l'efficienza dei relativi mercati. Né le norme censurate ledono l'autonomia amministrativa degli enti locali, in quanto si limitano a razionalizzarne le modalità di esercizio, al fine di superare la frammentazione nella gestione, preservando uno specifico ruolo agli enti locali titolari di autonomia costituzionalmente garantita, nella forma della partecipazione agli organismi titolari dei poteri decisionali. Infine, benché il coordinamento tra la disposizione censurata e l'art. 1, comma 90, l. 07.04.2014, n. 56 (che rafforza il ruolo delle Province, attribuendogli il compito di organizzare i servizi pubblici locali, prima assegnato a enti o agenzie soppressi) da essa richiamato non sia enunciato in termini del tutto univoci, è pur sempre possibile conciliare le due disposizioni, attraverso una lettura sistematica, rispettosa della ratio di entrambe, posto che nulla impedisce alle Regioni, nei casi in cui optino per ambiti o bacini di dimensioni provinciali (o, eccezionalmente, sub-provinciali), di designare come enti di governo, titolari delle relative funzioni di organizzazione, le Province secondo i principi di adeguatezza e sussidiarietà, anche valorizzando, ove possibile, le autonomie funzionali. Una tale scelta non impedisce alle Regioni di sopprimere, nel contempo, enti e agenzie alle quali sia stato demandato, in precedenza, l'esercizio delle stesse funzioni. In questi casi non si porrà alcun problema di adesione dei Comuni agli enti di governo designati: più semplicemente, si verificherà un trasferimento delle funzioni, per ragioni di esercizio unitario, presso le Province, attualmente caratterizzate come enti di secondo grado”;
         h4) Corte cost., 13.03.2014, n. 46 (in Giur. cost., 2014, 1134) secondo cui “Non è fondata la q.l.c. dell'art. 2 l. reg. Sardegna 23.10.2009, n. 4 -sollevata in riferimento agli art. 3, 25, 117, 118 cost. e all'art. 3 dello statuto speciale per la Sardegna- che consente l'ampliamento dei fabbricati ad uso residenziale, di quelli destinati a servizi connessi alla residenza e di quelli relativi ad attività produttive, entro il limite del venti per cento della volumetria esistente, "anche mediante il superamento degli indici massimi di edificabilità previsti dagli strumenti urbanistici".
La previsione regionale -che costituisce attuazione dell'intesa sul cosiddetto "piano casa", raggiunta tra Stato, regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata nel 2009- non viola gli art. 117, comma 3, cost. e 3, comma 1, dello statuto speciale in ragione del suo asserito contrasto con il "sistema della pianificazione" che assegna in modo preminente ai comuni la valutazione generale degli interessi coinvolti nell'attività urbanistica ed edilizia, in quanto il primo parametro risulta inconferente, posto che lo statuto assegna alla Regione, in virtù della “clausola di maggior favore” dettata dall'art. 10 l. cost. n. 3 del 2001, potestà legislativa primaria, ossia piena, nella materia dell'"edilizia ed urbanistica", entro la quale si colloca la norma censurata, né il parametro statutario, atteso che, anche riconoscendo il "sistema della pianificazione" come "principio dell'ordinamento giuridico della Repubblica" ed espressione degli "interessi nazionali", esso non potrebbe ritenersi assoluto, tale da impedire deroghe quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritte, censurabili solo laddove investono profili evocativi di specifici titoli di competenza legislativa esclusiva dello Stato, quale, in particolare, la disciplina delle distanze tra i fabbricati rientrante nella materia dell'”ordinamento civile”.
Né è ravvisabile la denunciata violazione degli art. 117, comma 6, ultimo periodo, e 118 cost., per avere la norma censurata esautorato i comuni delle loro competenze in tema di pianificazione urbanistica, in quanto essa si limita a consentire ampliamenti volumetrici di edifici esistenti ad una certa data in deroga agli indici massimi di fabbricabilità, collegati a specifici presupposti e circoscritti in limiti ben determinati.
La disposizione regionale, poi, non contrasta con l'art. 117, comma 1, cost., in quanto non elude la disciplina in materia di valutazione ambientale strategica (v.a.s.), la quale trova applicazione nei casi da essa previsti senza necessità di uno specifico richiamo, né viola la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia penale ex art. 25 e 117 cost., per avere la norma denunciata reso lecita in Sardegna una condotta (l'edificazione in contrasto con gli strumenti urbanistici) che, in base all'art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, dovrebbe rimanere invece soggetta a pena, atteso che tale ultima disposizione configura pacificamente una norma penale in bianco, rispetto alla quale la legislazione regionale -pur non potendo costituire fonte diretta e autonoma di norme penali- può, concorrere a precisare, "secundum legem", i presupposti di applicazione di norme penali statali, svolgendo, in pratica, funzioni analoghe a quelle che sono in grado di svolgere fonti secondarie statali.
Non sono fondate, infine, le censure concernenti la lesione del principio di eguaglianza ex art. 3 cost. in quanto le doglianze del giudice remittente sono meramente “ancillari” rispetto a quelle prospettate in riferimento agli altri parametri, delle quali condividono pertanto la sorte (sentt. n. 487 del 1989; 14, 213, 504 del 1991; 185 del 2004: 168 del 2010, 173 del 2011; 63 del 2012; 251 del 2013)”;
         h5) Corte cost., 27.07.2000, n. 378 (in Urbanistica e appalti, 2000, 1183, con nota di MANFREDI) secondo cui: “La tutela del bene culturale è contemplata nell'art. 9 cost., insieme a quella del paesaggio e dell'ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell'ambito territoriale in cui si svolge la vita dell'uomo e tali forme di tutela, esposte con un'endiadi, costituiscono compito dell'apparato della repubblica nelle sue diverse articolazioni, dello stato, in primo luogo, oltre che delle regioni e degli enti locali; pertanto, rispetto a dette materie non può configurarsi un assorbimento nei compiti comunali di autogestione del territorio né tanto meno un'esclusività delle funzioni degli enti locali in forza della loro autonomia in campo urbanistico, potendo semmai il comune imporre, in relazione a particolari esigenze locali, vincoli aggiuntivi o più rigorosi riguardo ai beni già vincolati sul piano culturale o ambientale”.
Aggiunge la Corte che: “Pur se l'autonomia comunale, inclusa quella urbanistica, non costituisce un'elargizione delle regioni nell'esercizio delle loro competenze legislative, fruendo i comuni di una posizione di autonomia presupposta dagli art. 5 e 128 cost. e non comprimibile dalle stesse regioni fino al punto di negarla, la medesima autonomia comunale non implica una riserva funzionale intangibile, essendo viceversa consentito al legislatore regionale individuare le dimensioni di detta autonomia, valutando la maggiore efficienza della gestione ad un livello sovra comunale degli interessi coinvolti, come avviene peculiarmente per la protezione dei valori estetico-culturali e ambientali; pertanto, gli art. 5, 3º comma e 6, 2º comma, l.reg. Emilia Romagna 07.12.1978 n. 47, nel testo di cui alla l. reg. 29.03.1980 n. 23, e gli art. 15 l.reg. stessa regione 05.09.1988 n. 36, nonché 55 predetta l.reg. n. 47 del 1978, che attribuiscono carattere immediatamente precettivo e vincolante verso i privati ai piani territoriali stralcio, e specie al piano territoriale paesistico regionale, con valore prevalente sulle destinazioni dei piani regolatori comunali, non contrastano con l'art. 128 cost.”.
Afferma infine la Corte che: “Gli art. 5, 3º comma e 6, 2º comma, l.reg. Emilia Romagna 07.12.1978 n. 47, nel testo di cui alla l.reg. 29.03.1980 n. 23, e gli art. 15 l.reg. stessa regione 05.09.1988 n. 36, nonché 55 predetta l.reg. n. 47 del 1978, che attribuiscono carattere immediatamente precettivo e vincolante verso i privati ai piani territoriali stralcio e specie al piano territoriale paesistico regionale, con valore prevalente sulle destinazioni dei piani regolatori comunali, non contrastano con l'art. 128 cost., neppure sotto il profilo procedimentale, essendo previste nella legislazione regionale idonee forme di partecipazione dei comuni alla composizione dei piani paesistici, con termini congrui e cadenze procedimentalizzate non solo nella fase di approvazione, ma anche in quella di formazione”;
         h6) Corte cost., 30.07.1997, n. 286 (in Foro it., 1998, I, 32) la quale giunge alla pronuncia di infondatezza negando innanzi tutto che, attraverso la legge regionale siciliana impugnata (l.r. n. 9 del 1986), si sia dato vita ad un ente territoriale intermedio tra il comune e la provincia, in quanto la delimitazione delle aree metropolitane realizzerebbe solo un diverso assetto delle funzioni ripartite tra i due livelli di governo locale esistenti, mentre l’attribuzione alle province di funzioni prima spettanti ai comuni non lederebbe l’autonomia di questi ultimi, in quanto l’autonomia comunale, fermo restando che “gli art. 5 e 128 Cost. presuppongono una posizione di autonomia dei comuni che le leggi regionali non possono mai comprimere fino a negarla … non implica una riserva intangibile di funzioni e non esclude che il legislatore regionale possa, nell’esercizio della sua competenza esclusiva, individuare le dimensioni dell’autonomia stessa, valutando la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti”.
Puntualizza la Corte che “Il problema del rispetto delle autonomie non riguarda, perciò, in via astratta, la legittimità dell’intervento del legislatore, ma, piuttosto, la verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali”;
         h7) si veda altresì, con riguardo alla medesima sentenza n. 286 del 1997 della Corte costituzionale, la nota di F. DELLO SBARBA, Organizzazione funzionale o strutturale delle aree metropolitane: modelli a confronto innanzi alla Corte costituzionale (in Giur. cost., 1997, 2603) secondo cui: in via generale, il fenomeno relativo all’aumento dimensionale dei “governi locali” viene istituzionalmente affrontato attraverso “soluzioni di tipo funzionale” oppure mediante “soluzioni di tipo strutturale: nella prima categoria rientrano le scelte volte a mantenere l'assetto istituzionale esistente e basate sul ricorso a moduli di collaborazione, nella seconda, invece, sono da ricondursi tutti i tentativi volti alla riorganizzazione dell'assetto istituzionale, in particolare quelli che rinviano alla creazione di un ente nuovo da preporsi al governo dell'«area vasta»”.
Ebbene il modello seguito dalla legge regionale siciliana si ispira secondo l’autrice alla prima soluzione (rimodulazione assetto funzioni per ragioni di maggiore efficienza e razionalità), per quanto una simile scelta sembrerebbe piuttosto “essere imposta dall'alto, in maniera autoritaria”, ossia attraverso “un intervento imperativo del legislatore”;
         h8) sulla stessa sentenza n. 286 del 1997 della Corte costituzionale si veda la nota di C. L. KUSTERMANN, Autonomia comunale, tassatività degli enti territoriali e istituzione delle aree metropolitane in Sicilia (in Giur. cost., 1997, 2610), secondo cui il “totem” dell’autonomia locale di cui agli artt. 5 e 128 Cost. è destinato “a infrangersi contro lo scoglio della discrezionalità del legislatore … nell'oggettiva esigenza di rendere più efficiente, economica e razionale l'azione amministrativa (art. 97 Cost.)”.
Da una lettura della Carta costituzionale e della giurisprudenza costituzionale, ancora secondo l’autore, sembra del resto non essere “mai esplicitamente enunciato il principio del numero chiuso degli enti territoriali autonomi”.
In questa direzione si assisterebbe ad “un'interpretazione più elastica dell'art. 114 Cost.” in virtù della quale “sarebbero così compatibili con l'art. 114 Cost. … le comunità montane, i comprensori, e in generale gli enti locali istituiti con legge, per il fatto che i loro organi rappresentativi non sono eletti direttamente dal popolo”;
         h9) Corte cost., 08.04.1997, n. 83 (in Foro it., 1998, I, 2739) secondo cui “È incostituzionale l’art. 3, 4° comma, l. prov. Trento 12.03.1990 n. 10, nella parte in cui stabilisce che le previsioni dei programmi per l’attuazione di interventi diretti alla riorganizzazione della mobilità nelle zone urbane ed interurbane e in quelle ad alta concentrazione di presenze turistiche, approvati dalla giunta provinciale, prevalgono su quelle eventualmente diverse contenute negli strumenti urbanistici subordinati, potendo il comune esprimere su detti interventi solo un parere non vincolante, in contrasto con il potere, costituzionalmente riconosciuto, di autodeterminazione dei comuni in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio”.
È stato in particolare affermato che: “Questa corte ha già riconosciuto in via generale, con riferimento al sistema delle autonomie ordinarie, che il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e all’utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica, siano libere di compiere. Si tratta invece di un potere che ha il suo diretto fondamento nell’art. 128 Cost., che garantisce, con previsione di principio, l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse regioni, la cui competenza nelle diverse materie elencate nell’art. 117, e segnatamente nella materia urbanistica, non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni. Questa, infatti, non può dirsi rispettata se il procedimento finalizzato all’approvazione, da parte della regione, degli strumenti urbanistici non assicuri la partecipazione degli enti il cui assetto territoriale venga coinvolto [...]; partecipazione –si aggiunga– che non può essere puramente nominale ma deve essere effettiva e congrua, nel senso che non potrebbero le regioni disporre la trasformazione dei poteri comunali in ordine all’uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive”.
Afferma infine la Corte che: “L’art. 3, 4° comma, l. prov. n. 10 del 1990, nello stabilire che le previsioni dei programmi per l’attuazione di interventi diretti alla riorganizzazione della mobilità nelle zone urbane ed interurbane e in quelle ad alta concentrazione di presenze turistiche, approvati dalla giunta provinciale –programmi sui quali i comuni hanno la facoltà di esprimere un parere entro trenta giorni dalla richiesta– «prevalgono su quelle eventualmente diverse contenute negli strumenti urbanistici subordinati», riserva invece alla provincia il potere di irrompere in via autoritativa nei piani regolatori dei comuni e si pone in contrasto con il principio di salvaguardia dell’autonomia comunale. Tale disposizione, infatti, riduce la capacità del comune di autodeterminarsi in ordine alla programmazione e all’utilizzazione del proprio territorio nei troppo angusti limiti della facoltà di esprimere, entro un termine breve, un parere non vincolante, laddove il rispetto di quel principio avrebbe richiesto forme più incisive di partecipazione del comune alla programmazione provinciale di interventi incidenti sul proprio territorio, mediante l’impiego di moduli procedimentali, analoghi a quelli peraltro già conosciuti nell’ordinamento regionale, che, pur scongiurando situazioni di stallo decisionale, valorizzino l’apporto di tutti gli enti interessati”;
         h10) La decisione n. 83 del 1997 della Corte costituzionale è commentata da GROPPI, Principio costituzionale di autonomia locale e regioni a statuto speciale: la corte individua limiti al legislatore regionale validi anche per le leggi statali? e da ESPOSITO, Autonomia comunale e governo del territorio (in Giur. cost., 1997, rispettivamente, 811 e 824);
      i) in tema di allocazione di funzioni amministrative e di chiamata in sussidiarietà si veda:
         i1) Corte cost., 13.06.2018, n. 126 (in Giur. cost., 2018, 1374) secondo cui “Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 33, commi 3, 9, 10 e 13, d.l. 12.09.2014, n. 133, come convertito, censurato per violazione degli art. 117, comma 2, lett. s), e comma 3, nonché 118 , comma 1, Cost. nella parte in cui non è previsto che l'approvazione del programma di rigenerazione urbana, quanto al comprensorio Bagnoli-Coroglio, sia preceduta dall'intesa tra lo Stato e la Regione Campania e da una specifica valorizzazione del ruolo del Comune. Benché la disciplina dettata dalle disposizioni in esame intrecci indubbiamente diverse competenze, statali e regionali, in particolare la «tutela dell'ambiente» e il «governo del territorio», l'intervento del legislatore statale, in quanto teso al risanamento e alla bonifica di un sito d'interesse nazionale, può essere certamente ricondotto, in via prevalente, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato di cui all'art. 117, comma 2, lett. s), Cost., cui spetta disciplinare, pure con disposizioni di dettaglio e anche in sede regolamentare, le procedure amministrative dirette alla prevenzione, riparazione e bonifica dei siti contaminati. Dunque, per tutti gli aspetti concernenti la bonifica dell'area interessata, la compressione delle attribuzioni regionali in materia urbanistica è diretta conseguenza delle esigenze di tutela ambientale, di competenza esclusiva statale, senza che possa profilarsi una violazione delle disposizioni costituzionali sul riparto di competenze. La disciplina censurata appare rispettosa anche dell'art. 118 Cost., in relazione ai contenuti del programma di risanamento più propriamente ascrivibili al «governo del territorio», quali ad esempio la localizzazione delle opere infrastrutturali, sebbene si tratti comunque di aspetti strettamente connessi al risanamento dell'area. Infatti, nell'allocare in capo allo Stato le varie funzioni amministrative, il legislatore statale ha previsto varie forme di coinvolgimento della Regione e del Comune, le quali, pur disegnando un procedimento diverso dall'intesa, assicurano una costante e adeguata cooperazione istituzionale (sentt. nn. 378 del 2000, 478 del 2002, 50 del 2005, 50, 214 del 2008, 10, 61, 225, 247 del 2009, 278, 331, 334 del 2010, 33, 244 del 2011, 54 del 2012, 285 del 2013, 44, 269 del 2014, 58, 140, 149, 180 del 2015, 1, 7, 21, 251 del 2016)”;
         i2) Corte cost., 21.01.2016, n. 7 (in Foro it., 2016, I, 770) secondo cui “Lo Stato può ricorrere alla chiamata in sussidiarietà «al fine di allocare e disciplinare una funzione amministrativa (sentenza n. 303 del 2003 …) pur quando la materia, secondo un criterio di prevalenza, appartenga alla competenza regionale concorrente, ovvero residuale» (sentenza n. 278 del 2010 …). Questa corte ha affermato in proposito che, «perché nelle materie di cui all’art. 117, 3° e 4° comma, Cost., una legge statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso regolarne l’esercizio, è necessario che essa innanzi tutto rispetti i principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nell’allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni. È necessario, inoltre, che tale legge detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni, e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine. Da ultimo, essa deve risultare adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, deve prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali. Quindi, con riferimento a quest’ultimo profilo, nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi —anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art. 11 l. cost. 18.10.2001 n. 3 (modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione)— la legislazione statale di questo tipo ‘può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà’ (sentenza n. 303 del 2003, cit.)» (sentenza n. 6 del 2004 …). Si è aggiunto che deve trattarsi di «intese forti» … non superabili con una determinazione unilaterale dello Stato se non nella «ipotesi estrema, che si verifica allorché l’esperimento di ulteriori procedure bilaterali si sia rivelato inefficace»”;
      j) si evidenzia come la Corte, nella sentenza in rassegna, avalli infine la tesi più rigorosa e consolidata in seno al Consiglio di Stato sui limiti in cui si ammette la tutela dell’affidamento in sede di pianificazione urbanistica. Si veda, a tale specifico riguardo:
         j1) Cons. Stato, sez. IV, 03.07. 2018, n. 4071, secondo cui “Sul piano più generale, le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al PRG, a meno che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 4037 del 2017)”;
         j2) Cons. Stato, sez. IV, 09.05.2018, n. 2780 (citata anche dalla sentenza qui in rassegna), secondo cui, tra l’altro: “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.08.2017, n. 4037; sez. VI, 05.03.2013, n. 1323; sez. IV, 25.11.2013, n. 5589; sez. IV, 16.04.2014, n. 1871)".
Ed ancora che: “l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5478)”.
Infine che: “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell’attitudine edificatoria di un’area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l’amministrazione in ordine ad una diversa “zonizzazione” dell’area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. ex plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)”;
         j3) Cons. Stato, sez. IV, 06.10.2017, n. 4660, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute con gli atti di pianificazione generale non richiedono una motivazione puntuale e, purché non manifestamente illogiche o contraddittorie o ingiustificate, sono sufficientemente motivate con riguardo ai principi e ai criteri di fondo del piano, quali emergono dagli atti del procedimento e particolarmente dalla relazione di accompagnamento (cfr. per tutte, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 03.07.2017, n. 3237)”;
         j4) Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2016, n. 1907 (in Foro amm., 2016, 5, 1189), secondo cui “In sede di pianificazione generale del territorio la discrezionalità, di cui l'Amministrazione dispone per quanto riguarda le scelte in ordine alle destinazioni dei suoli, è talmente ampia da non richiedere una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il piano regolatore generale, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo”;
         j5) Cons. Stato, sez. IV, 07.11.2012, n. 5665 (in Foro amm. CDS, 2012, 11, 2843), secondo cui “le scelte di destinazione urbanistica costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali che non richiedono una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano lo strumento di pianificazione, potendosi derogare a tale regola soltanto in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del proprio suolo, quali ad esempio la sussistenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2011 n. 6049)”;
         j6) Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710 (in Foro amm. CDS, 2012, 5, 1160), secondo cui “L’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata, così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione” (Corte Costituzionale, sentenza 16.07.2019 n. 179 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAPer costante giurisprudenza, il principio generale dell’onere della prova previsto nell’art. 2697 cod. civ. si applica anche all’azione di risarcimento per danni proposta dinanzi al giudice amministrativo, con la conseguenza che spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove la domanda di risarcimento manchi dalla prova del danno da risarcire, la stessa deve essere respinta.
Pertanto, il danno ingiusto va dimostrato sia sotto il profilo dell’esistenza, sia sotto il profilo dell’ammontare, sicché in mancanza di idonea allegazione e di prova da parte di colui che assume di essere stato danneggiato, non può essere accordato alcun risarcimento; né al riguardo può sopperire la liquidazione equitativa del giudice, che ha natura sussidiaria e non sostitutiva dell’onere di allegazione e di prova della parte: essa interviene laddove l’impossibilità o l’estrema difficoltà di una stima esatta dei danni patiti dal danneggiato dipenda da fattori oggettivi e non dalla negligenza di questi nell’adempiere all’onere su di esso incombente.
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La domanda di risarcimento dei danni avanzata dal ricorrente, deve essere respinta, in quanto assolutamente generica e sfornita di prova, atteso che il ricorrente si limita a chiedere il risarcimento di € 50.000, ovvero della somma “che sarà per risultare ovvero ritenuta per equità”.
Per costante giurisprudenza, invero, il principio generale dell’onere della prova previsto nell’art. 2697 cod. civ. si applica anche all’azione di risarcimento per danni proposta dinanzi al giudice amministrativo, con la conseguenza che spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove la domanda di risarcimento manchi dalla prova del danno da risarcire, la stessa deve essere respinta (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 19/11/2018 n. 6506).
Pertanto, il danno ingiusto va dimostrato sia sotto il profilo dell’esistenza, sia sotto il profilo dell’ammontare, sicché in mancanza di idonea allegazione e di prova da parte di colui che assume di essere stato danneggiato, non può essere accordato alcun risarcimento; né al riguardo può sopperire la liquidazione equitativa del giudice, che ha natura sussidiaria e non sostitutiva dell’onere di allegazione e di prova della parte: essa interviene laddove l’impossibilità o l’estrema difficoltà di una stima esatta dei danni patiti dal danneggiato dipenda da fattori oggettivi e non dalla negligenza di questi nell’adempiere all’onere su di esso incombente (v. TAR Lombardia, Sez. II, 06/02/2019 n. 269) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.07.2019 n. 1629 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALe nuove disposizioni ex lege n. 124/2015 trovano applicazione “solo ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch’essi, successivi all’entrata in vigore della nuova disposizione”.
Va, d’altronde, considerato che la nuova disposizione àncora l’esercizio del potere al momento di emanazione del primo atto ponendo, quindi, una limitazione temporale calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di secondo grado rimuove. La generalizzata applicazione del termine dalla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015 muta il presupposto fondante su cui poggia la previsione imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela –per i provvedimenti già emessi prima del 28.08.2015– necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data. In tal modo, però, si altera la ratio della norma nella sua applicazione nella dinamica intertemporale, trasformando la stessa in un termine generale di definizione di tutti i provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già adottati prima della novella.
Aderendo alla tesi pur autorevolmente patrocinata da parte della giurisprudenza, l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza, onerata di una verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi entro un generale termine di 18 mesi onde non vedersi precludere la possibilità di successiva rimozione.
In tal modo, però, per gli atti adottati prima della novella il termine di decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi sulla data di emanazione del singolo atto –come espressamente disposto dalla norma– ma, al contrario, sulla data di entrata in vigore della legge. Si perviene, così, al risultato di negare la ratio della previsione che, come detto, intende calibrare temporalmente l’atto di esercizio del potere sul provvedimento da rimuovere.
L’interpretazione che appare, pertanto, maggiormente acconcia al dato letterale e alla specifica ratio legis è quella che àncora le nuove disposizioni all’esercizio del potere su atti emanati dopo l’entrata in vigore della nuova legge.
Conclusione che, del resto, appare confermata dalla circostanza che il legislatore non ha voluto approntare una disciplina di diritto transitorio, l’unica che, in tale quadro, avrebbe potuto medio tempore derogare al rigido parametro temporale di riferimento ora previsto dall’ordinamento (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).
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5. Con il primo motivo di ricorso si assume l’illegittimità dell’atto di annullamento degli effetti della d.i.a. n. 63/2014, avuto riguardo all’avvenuto superamento del termine ragionevole indicato dagli artt. 19 e 21-nonies della legge n. 241 del 1990, essendo trascorsi ben trentasei mesi dalla formazione del titolo, avvenuta nel mese di dicembre 2014, rispetto all’atto di autotutela, adottato il 20.11.2017.
5.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che la fattispecie de qua è sorta sotto il vigore della disciplina antecedente all’introduzione della legge n. 124 del 2015 e quindi alla stessa non risulta applicabile il novellato testo dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, a mente del quale “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
Difatti, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento secondo cui le nuove disposizioni trovano applicazione “solo ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch’essi, successivi all’entrata in vigore della nuova disposizione” (TAR Lazio, Roma, I-bis, 02.07.2018, n. 7272).
Va, d’altronde, considerato che la nuova disposizione àncora l’esercizio del potere al momento di emanazione del primo atto ponendo, quindi, una limitazione temporale calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di secondo grado rimuove. La generalizzata applicazione del termine dalla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015 muta il presupposto fondante su cui poggia la previsione imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela –per i provvedimenti già emessi prima del 28.08.2015– necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data. In tal modo, però, si altera la ratio della norma nella sua applicazione nella dinamica intertemporale, trasformando la stessa in un termine generale di definizione di tutti i provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già adottati prima della novella.
Aderendo alla tesi pur autorevolmente patrocinata da parte della giurisprudenza, l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza, onerata di una verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi entro un generale termine di 18 mesi onde non vedersi precludere la possibilità di successiva rimozione.
In tal modo, però, per gli atti adottati prima della novella il termine di decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi sulla data di emanazione del singolo atto –come espressamente disposto dalla norma– ma, al contrario, sulla data di entrata in vigore della legge. Si perviene, così, al risultato di negare la ratio della previsione che, come detto, intende calibrare temporalmente l’atto di esercizio del potere sul provvedimento da rimuovere.
L’interpretazione che appare, pertanto, maggiormente acconcia al dato letterale e alla specifica ratio legis è quella che ancora le nuove disposizioni all’esercizio del potere su atti emanati dopo l’entrata in vigore della nuova legge.
Conclusione che, del resto, appare confermata dalla circostanza che il legislatore non ha voluto approntare una disciplina di diritto transitorio, l’unica che, in tale quadro, avrebbe potuto medio tempore derogare al rigido parametro temporale di riferimento ora previsto dall’ordinamento (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) [TAR Lombardia, Milano, II, 21.01.2019, n. 118; 03.10.2018, n. 2200; si veda anche Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 8] (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.07.2019 n. 1628 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl “pergolato” è una struttura aperta su almeno tre lati e nella parte superiore.
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Del resto, non può in alcun modo ritenersi che il provvedimento del 10.09.2014 costituisca un “inutile doppione” del titolo edilizio 175/98: quest’ultimo, infatti ha ad oggetto una struttura in legno aperta sui lati e sulla sommità (cfr. pag. 2 del ricorso), mentre il primo riguarda una struttura in legno aperta su tutti i lati con soprastante telo/rete ombreggiante; ed è noto che il “pergolato” è una struttura aperta su almeno tre lati e nella parte superiore (Cons. Stato, sez. VI, 25.01.2017, n. 306; che un’opera, per essere definita “pergolato”, non debba essere chiusa nel lato di copertura, lo ribadisce anche Cons. Stato, sez. IV, 29.09.2011, n. 5409) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.07.2019 n. 839 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'indagine penale non preclude l'accesso agli atti se non sono confluiti nel fascicolo del procedimento.
Il diritto d'accesso tradizionale non può spingersi fino al controllo indiscriminato dell'azione pubblica. Forme di accesso più ampie sono oggi invece garantite dal più giovane accesso civico alle informazioni disponibili in rete sui siti web degli enti pubblici. Se queste informazioni non sono disponibili sul sito web dell'ente, supplisce l'ancor più giovane diritto d'accesso «di chiunque» di accedere a documenti ulteriori rispetto a quelli oggetto di obbligo di pubblicazione, purché nel limite degli interessi privati o pubblici, argomentati e non pretestuosi, opposti dall'ente coinvolto.
Anche quest'ultimo strumento generalizzato di trasparenza deve essere utilizzato senza abusi, nell'ambito di finalità partecipative e di leale collaborazione tra cittadini e istituzioni: sono inammissibili istanze esplorative che comportino un carico di lavoro paralizzante per l'ente.

Con la sentenza 12.07.2019 n. 1085, il TAR Toscana-Sez. II indaga sul possibile sviamento dell'istituto del diritto d'accesso dalle proprie funzioni, che a seconda delle forme utilizzate, sono di tutela di interessi privati, ovvero civici, ovvero difensivi.
La vicenda
Un cittadino era stato rinviato a giudizio penale per interruzione di servizio pubblico causato da ripetitive e spesso immotivate richieste di accesso ad atti, richieste e solleciti di informazioni in merito a procedimenti amministrativi, richieste di accesso agli atti in relazione a presunti abusi edilizi con conseguenti istanze di trasmissione di notizie di reato, istanze di sopralluogo, inviti all'immediata adozione di provvedimenti, minacciando continuamente denunce.
A seguito della citazione penale, il cittadino ha formulato (ulteriore) istanza di accesso agli atti anche interni, relativi a ciascun esposto denuncia avanzato. L'ente coinvolto ha rigettato l'istanza poiché a suo dire si tratta di atti relativi a un procedimento penale in corso. Il cittadino ha impugnato dinanzi al Tar il diniego per ragioni attinenti al proprio diritto d'accesso difensivo.
La strada tracciata dal Tar
Il Tar ha chiarito che il diritto d'accesso tradizionale non è una sorta di azione popolare diretta a consentire una forma di controllo generalizzato sulla pubblica amministrazione, né può essere trasformato in uno strumento di ispezione pubblica sull'efficienza di un soggetto pubblico. Da una parte, l'interesse che legittima ciascun soggetto all'istanza deve essere personale e concreto, dall'altra la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a quell'interesse, oltre che individuata/individuabile.
La legittima aspirazione del cittadino al controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali può invece trovare soddisfazione attraverso la consultazione della sezione «Amministrazione Trasparente» del sito web degli enti pubblici e, in seconda (eventuale) battuta, attraverso l'esercizio del diritto di accesso civico a documenti ulteriori rispetto a quelli pubblicati, seppur nel limite degli interessi pubblici o privati, individuati dal legislatore. Ma attenzione: anche quest'ultimo strumento di trasparenza va utilizzato senza abusarne, bensì nell'ambito delle finalità partecipative e di leale collaborazione tra cittadini e pubblica amministrazione.
Sulla base di queste condizioni non possono essere ritenute ammissibili da una parte richieste meramente indagatorie, cioè volte unicamente a scoprire di quali informazioni l'ente dispone, e tali da generare un carico di lavoro in grado d'interferire sul buon funzionamento dell'ente, e dall'altra preclusioni meccaniche e generali opposte dall'ente alla conoscibilità dei documenti richiesti. In altre parole l'amministrazione non può trincerarsi (come nel caso di specie) dietro l'esistenza di un'indagine penale che non è di per sé causa ostativa all'accesso ai documenti se questi ultimi non sono confluiti nel fascicolo del procedimento penale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 31.07.2019).
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MASSIMA
Giova premettere che il presente giudizio ha per oggetto la verifica della spettanza o meno del diritto di accesso ex L. n. 241/1990, più che la verifica della sussistenza o meno di vizi di legittimità dell’atto amministrativo. Infatti,
il giudice può ordinare l’esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all’Amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, solo se ne sussistono i presupposti (art. 116, co. 4, c.p.a.). Questo implica che, al di là degli specifici vizi e della specifica motivazione del provvedimento amministrativo di diniego dell’accesso, il giudice deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell’accesso, potendo pertanto negarlo anche per motivi diversi da quelli indicati dal provvedimento amministrativo (cfr., TAR Toscana, sez. II, 16.02.2015, n. 268; Cons. di Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 117).
Ciò premesso, come noto, l’art. 24 della L. n. 241/1990, nel disciplinare le ipotesi di esclusione del diritto di accesso, stabilisce, al comma III, che “Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni”.
Il diritto d'accesso ai documenti riconosciuto dall'art. 22 legge n. 241/1990, non si atteggia dunque come una sorta di azione popolare diretta a consentire una forma di controllo generalizzato sull'Amministrazione, né può essere trasformato in uno strumento di ispezione popolare sull'efficienza di un soggetto pubblico o di un determinato servizio, nemmeno in ambito locale (cfr. Cons. St., VI, 25.08.2017, n. 4074).
Ne deriva che, da una parte, l'interesse che legittima ciascun soggetto all'istanza, e che va accertato caso per caso, deve essere personale e concreto e, dall'altra, la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse, oltre che individuata o ben individuabile.
Ebbene, nel caso in esame l’istanza di accesso, inoltrata dal ricorrente ai sensi della L. n. 241/1990, come si evince dalla precedente esposizione in fatto, è dichiaratamente volta ad effettuare un controllo generalizzato sull’operato del -OMISSIS-, al fine di verificare l’efficienza della sua attività o accertare eventuali negligenze, o colpevoli ritardi od omissioni da parte dei suoi funzionari e del comandante della Polizia Municipale in particolare. Il tutto senza che sia ravvisabile il collegamento degli atti richiesti con l’interesse diretto concreto e attuale dell’odierno ricorrente ad apprestare la propria difesa nell’ambito del giudizio penale, il quale ha per oggetto, invece, la documentazione depositata dallo stesso ricorrente presso il -OMISSIS-, che nell’ipotesi accusatoria, per il suo contenuto e per la sua mole eccezionale, costituirebbe il mezzo di realizzazione delle condotte delittuose di minaccia a pubblico ufficiale e interruzione di pubblico servizio.
In aggiunta, il Collegio, condividendo le difese dell’Amministrazione resistente, osserva come l’istanza in esame sia formulata in modo generico, in quanto riferita ad una quantità indefinita di atti, non specificamente individuati (tutti gli atti relativi a…), afferenti ad un numero altrettanto irragionevole di segnalazioni, diffide, richieste d’informazioni, esposti, ordinanze etc.; mentre
come noto, l'Amministrazione, in sede di accesso, è tenuta a produrre documenti individuati in modo sufficientemente preciso e circoscritto, e non anche a compiere attività di ricerca ed elaborazione degli stessi, atteso che richieste generiche sottoporrebbero l'Amministrazione a ricerche incompatibili sia con la funzionalità dei plessi, sia con l'economicità e la tempestività dell'azione amministrativa (TAR Emilia Romagna, Bologna, 04.04.2016, n. 366; Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2016, n. 68).
Nel caso in esame, il carico di lavoro che deriverebbe al -OMISSIS- dalla domanda di accesso dell’odierno ricorrente sarebbe tale da paralizzarne l’attività almeno per diversi giorni.
Pertanto il diniego espresso al riguardo dall'Amministrazione deve ritenersi del tutto legittimo, dovendosi bilanciare gli interessi personali del ricorrente con il mantenimento dell’efficienza e del buon funzionamento di quest’ultima.
Piuttosto, la legittima aspirazione che anima il ricorrente, come da questi chiarito in sede di discussione orale, alla trasparenza amministrativa e al controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali da parte del -OMISSIS-, potrà trovare soddisfazione attraverso l’utilizzo degli strumenti a tal fine apprestati dall’ordinamento con il d.lgs. n. 33/2013, ovvero, in primo luogo, attraverso la consultazione della sezione “amministrazione trasparente” del sito web istituzionale del detto Comune, ed in seconda battuta, attraverso l’esercizio del diritto (di chiunque) di accedere ai documenti ulteriori rispetto a quelli oggetto di obbligo di pubblicazione, nel limite degli interessi pubblici e privati, quali individuati dal legislatore.
Tuttavia, anche quest’ultimo strumento di trasparenza (accesso civico generalizzato) dovrà essere utilizzato senza abusare dello stesso, bensì nell’ambito delle finalità partecipative perseguite dal legislatore e di un rapporto di leale collaborazione tra cittadini e Amministrazione.
Sulla base di tali condizioni si dovrà concordemente pervenire alla corretta individuazione dell’oggetto dell’istanza di accesso civico, che, anche se libera da requisiti soggettivi legittimanti, dovrà comunque identificare “i dati, le informazioni o i documenti richiesti” ex art. 5 comma 3, d.lgs. n. 33/2013; non potendo, da una parte, anche in base a tale disciplina, essere ritenute ammissibili richieste meramente esplorative, cioè volte semplicemente a scoprire di quali informazioni l’Amministrazione dispone, o manifestamente irragionevoli, tali cioè da dover comportare un carico di lavoro in grado d’interferire con il buon funzionamento dell’Amministrazione (come quella oggetto del presente giudizio); e dall’altra, dovendosi quest’ultima astenere dall’opporre preclusioni automatiche e assolute alla conoscibilità dei documenti richiesti, al di fuori dei casi previsti dall’art. 5-bis, comma 3, del d.lgs. n. 33/2013; considerato che
anche l’esistenza di un’indagine penale non è di per sé causa ostativa all’accesso ai documenti se quest’ultimi non sono confluiti nel fascicolo del procedimento penale e non rientrano tra gli “atti di indagine compiuti dal pubblico ministero” di cui all’art. 329 c.p.p..
In conclusione, per le sopra esposte ragioni, il ricorso deve essere respinto.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI – Utilizzazione delle terre e rocce da scavo – Abbandono o deposito in modo incontrollato rifiuti – Procedura di riutilizzo del “materiale da scavo” – Modalità operative della nuova normativa – Dubbi interpretativi della norma penale – Inevitabilità dell’errore – Limiti – Criteri oggettivi – Artt 192, 256, D.L.vo n. 152/2006 – Giurisprudenza.
Integra una situazione di assoluta non conoscibilità del precetto, in base a criteri (c.d. oggettivi puri), l’oscurità del testo legislativo, oppure, un atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari o amministrativi gravemente caotico, ma non può configurasi, certamente, come “ignoranza inevitabile” l’evenienza del tutto normale e ordinaria, che fisiologicamente si riconnette con le incertezze applicative di una legge appena entrata in vigore, ciò che dovrebbe rendere più cauta la condotta dell’agente, il quale, perdurando quell’incertezza, deve astenersi dal compimento di qualsivoglia attività, in attesa di indicazioni certe e affidabili, provenienti da organi qualificati, circa le modalità operative della nuova normativa (Corte costituzionale, sentenza n. 364/1988).
...
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Scusabilità dell’ignoranza della legge da parte del comune cittadino – Limite di inevitabilità dell’errore – Criterio dell’ordinaria diligenza – Dovere di informazione – Svolgimento di attività professionale.
Il limite di inevitabilità dell’errore, per il comune cittadino è sussistente ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica.
Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto
(Sez. U, n. 8154/1994, P.G. in proc. Calzetta).
Si è inoltre affermato che l’incertezza derivante da contrastanti orientamenti giurisprudenziali nell’interpretazione e nell’applicazione di una norma non abilita da sola ad invocare la condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile della legge penale; al contrario, il dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza n. 364/1988 della Corte Costituzionale, all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza, dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016 – dep. 18/01/2017, Incardona)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.07.2019 n. 30536 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Gestione non autorizzata di rifiuti – Rifiuti sottoposti a lavorazione – Attività soggetta a specifico titolo abilitativo – D.l. 172/2008 – Art. 181 digs. 42/2004 – D.L.vo n. 152/2006 – Giurisprudenza.
Configura il reato di gestione non autorizzata di rifiuti, di cui all’art. 256 D.L.vo n. 152/2006, in assenza di titolo abilitativo, l’effettuazione della raccolta e smaltimento di rifiuti pericolosi, anche se di fatto sottoposti ad un certo tipo lavorazione, in considerazione che tale processo presuppone un’attività svolta in maniera certamente non occasionale.
Nella specie gestione senza la preventiva autorizzazione di rifiuti provenienti da carcasse di autovetture in parte smontate, materiale ferroso, pneumatici, fusti metallici, filtri laminati, batterie esauste, componenti di autoveicoli
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.07.2019 n. 30533 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALI: Cassazione: la scelta del titolo autorizzativo rientra nelle competenze tecniche del progettista.
La scelta del titolo autorizzativo all'esecuzione di opere, in relazione al tipo di intervento edilizio progettato, rientra nelle competenze tecniche del professionista incaricato di progettare l'opera, anche nell'ipotesi di un accordo illecito fra le parti per porre in essere un abuso edilizio.
Con l'ordinanza 09.07.2019 n. 18342, la III Sez. civile della Corte di Cassazione ha ribadito che la scelta del titolo autorizzativo all'esecuzione di opere, in relazione al tipo di intervento edilizio progettato, rientra nelle competenze tecniche del professionista incaricato di progettare l'opus finanche nell'ipotesi di un accordo illecito fra le parti per porre in essere un abuso edilizio (Cass. 21/05/2012, n. 8014).
Pertanto, la incompletezza della istruttoria della pratica amministrativa o l'erronea individuazione del titolo autorizzatorio, avendo carattere strumentale e preliminare rispetto all'esecuzione dell'opera su cui il direttore dei lavori aveva uno specifico ed ulteriore obbligo di controllo e di verifica, non possono ricadere sul committente che, in quanto profano, neppure avrebbe avuto gli strumenti per percepire l'errore (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
FATTI DI CAUSA
An.Ri. ricorre per la cassazione della sentenza n. 2813/2017 della Corte D'appello di Milano, n. 2813/2017, pubblicata il 21/06/2017, formulando tre motivi.
Nessuna attività difensiva è svolta da Ch.Gr..
Il Tribunale di Lodi, adito dall'odierno ricorrente perché fosse dichiarata la risoluzione del contratto d'opera stipulato con Ch.Gr. e perché quest'ultimo fosse condannato al risarcimento dei danni subiti, rigettava la domanda attorea: riteneva che difettasse la prova che al convenuto, progettista e direttore dei lavori, fosse stato conferito l'incarico in relazione alle opere rivelatesi abusive, che la prova testimoniale non fosse concludente perché troppo generica, che le prestazioni indicate negli avvisi di parcella non contenessero indicazioni circa gli interventi rilevatisi abusivi, che non fosse stato dimostrato il danno lamentato.
L'odierno ricorrente asseriva che il professionista, progettista e direttore dei lavori, aveva omesso, a sua insaputa, di presentare al Sindaco e al Responsabile del Servizio Settore edilizia privata, la relazione tecnica illustrativa degli interventi da realizzare su sua commissione: relazione che egli aveva ricevuto in copia, in occasione della sottoscrizione della DIA, e che conteneva l'elenco delle singole opere oggetto dell'intervento di manutenzione straordinaria; lamentava, inoltre, che il convenuto neppure in seguito, avvedutosi dell'errore, avesse presentato una variante.
La mancanza di tale relazione, l'unica in cui venivano descritti tutti i lavori da realizzare, anche quelli rivelatisi abusivi, aveva determinato, ad avviso del ricorrente, l'adozione dell'ordinanza di demolizione e la sua iscrizione nel registro degli indagati per il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), del dpr. n. 380/2001.
Ch.Gr., dunque, in quanto non solo progettista, ma anche direttore dei lavori, avrebbe dovuto essere considerato responsabile per avere eseguito delle opere sanzionate come abusive e, per l'effetto, non solo non avrebbe avuto diritto di percepire l'onorario pattuito, ma sarebbe stato tenuto a restituire quanto ricevuto, a corrispondergli il danno all'immagine, gli importi pagati per la realizzazione delle opere e a rifonderlo delle spese di lite e di tutti gli esborsi per sanzioni, multe, spese di rimessione in pristino, difesa in sede penale.
La Corte d'Appello di Milano, investita del gravame dall'odierno ricorrente, confermava la decisione di prime cure, ritenendo che l'ordinanza comunale di demolizione desse atto che, durante il sopralluogo del responsabile comunale, la formazione del bagno e del portico e la copertura del passaggio pedonale risultavano riconducibili a nuova costruzione realizzata in assenza di permesso di costruire. La planimetria allegata alla Dia, infatti, non menzionava gli interventi rivelatisi abusivi e il lamentato inadempimento del professionista Gr. non trovava riscontro nel confronto tra l'elenco delle opere redatto da questi e quelle contestate dalla PA.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1218 c.c., degli artt. 22, 23 e 29 D.p.r. n. 380/2001, degli artt. 1173, 1375, 1176, comma 2, 2222, 2226, 2229-2230 e 2236 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1453 e 2697 c.c., per avere la Corte territoriale disatteso il principio di cui alla sentenza n. 13533 del 30/10/2001, mandando esente da responsabilità Ch.Gr., inadempiente rispetto all'obbligo di assicurare la conformità del progetto e dei lavori in variante alla normativa edilizia primaria e secondaria, sebbene egli non avesse fornito la prova liberatoria di cui all'art. 1218 c.c.
3.Con il terzo motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione: il fatto omesso è costituito dalla condotta posta in essere dal professionista che, avendo anche il ruolo di direttore dei lavori, avrebbe dovuto informare anche in corso d'opera il committente della difformità tra capitolato e Dia e tra lavori da eseguirsi e Dia, rappresentando la necessità di presentare una variante.
4. I motivi possono essere esaminati congiuntamente, in ragione della loro innegabile connessione.
Sia il Tribunale che la Corte d'Appello si sono limitati ad escludere la responsabilità del professionista sull'assunto che non fosse provato che gli fosse stato conferito l'incarico di eseguire proprio ed anche le opere risultate abusive.
Non hanno, tuttavia, tenuto conto del fatto che —non risultando escluso che dette opere siano state realizzate sotto la sua direzione— egli non poteva sottrarsi alle domande formulate dal committente, se non provando di aver stipulato con lui un contratto contra legem al fine di perpetrare un abuso edilizio che, al netto delle implicazioni estranee all'odierna vicenda, avrebbe precluso all'istante di lamentarsi delle conseguenze di un comportamento conforme a quanto, sia pure illecitamente, convenuto.
Nei rapporti interni, provato il conferimento dell'incarico di progettare e dirigere i lavori edilizi, con individuazione dell'impresa costruttrice e con assunzione dell'incarico di provvedere agli adempimenti urbanistici ed edilizi, è da ritenere che, quand'anche i lavori rivelatisi abusivi non fossero stati da lui progettati (in questo senso deve intendersi che non rientravano nell'incarico conferito), Ch.Gr., in quanto anche direttore dei lavori, avesse un obbligo di controllo e di verifica, il quale oltre ad un controllo dinamico, continuativo, di accertamento per gradi e tappe intermedie della effettiva concretizzazione e specificazione di quanto programmato e, quindi, dovuto, comprendeva anche un obbligo di controllo e di verifica, per così dire, statico e retrospettivo di comparazione tra l'opera da realizzare, quella oggetto del programma negoziale e da lui stesso progettata, e quella che in concreto veniva realizzata (Cass. 05/10/2018, n. 24555), la quale, oltre che difforme rispetto a quella da lui stesso progettata, risultava anche priva dei necessari titoli autorizzatori.
Il cumulo dell'incarico di progettista dei lavori e di direttore degli stessi fa sì che egli debba rispondere nei confronti del committente della conformità del progetto alla normativa urbanistica, della individuazione in termini corretti della procedura amministrativa da utilizzare, così da assicurare l'acquisizione del permesso di costruire e la realizzazione di quanto commissionato in conformità con la normativa edilizia.
La giurisprudenza di questa Corte ritiene, in particolare, che la scelta del titolo autorizzativo all'esecuzione di opere, in relazione al tipo di intervento edilizio progettato, rientri nelle competenze tecniche del professionista incaricato di progettare l'opus finanche nell'ipotesi un accordo illecito fra le parti per porre in essere un abuso edilizio (Cass. 21/05/2012, n. 8014).
Sicché
la incompletezza della istruttoria della pratica amministrativa o l'erronea individuazione del titolo autorizzatorio, avendo carattere strumentale e preliminare rispetto all'esecuzione dell'opera su cui Cr.Gr., in quanto direttore dei lavori, aveva uno specifico ed ulteriore obbligo di controllo e di verifica, non possono ricadere sul committente che, in quanto profano, neppure avrebbe avuto gli strumenti per percepire l'errore.
La Corte di merito si è limitata a respingere le censure, ribadendo le argomentazioni del giudice di prime cure sul difetto di prova che gli interventi abusivi fossero stati commissionati al professionista, omettendo di considerare che essi erano stati realizzati dalla ditta appaltatrice, sotto la direzione di Ch.Gr., il quale, dunque, non poteva non assumersi la responsabilità della lacunosa od erronea istruttoria della pratica amministrativa, preliminare e strumentale alla loro realizzazione, e/o (ipotizzando che i lavori eseguiti non fossero quelli da lui progettati) della responsabilità di non aver rilevato la difformità tra l'opera progettata e quella eseguita e il difetto di titoli autorizzatori relativi a quest'ultima.
Anche il difetto di argomentazioni della Corte territoriale sul motivo di appello con cui il ricorrente lamentava la violazione da parte del professionista delle obbligazioni ex lege su di lui gravanti in quanto progettista e direttore dei lavori per avere realizzato un'opera sprovvista di permesso di costruire, senza informarne il cliente e senza provvedere a correggere l'errore, giustifica l'accoglimento del ricorso.
5. Il ricorso merita, dunque, accoglimento (Corte di Cassazione, Sez. III civile, ordinanza 09.07.2019 n. 18342).

EDILIZIA PRIVATAIl passaggio da una destinazione agricola ad una destinazione commerciale (di vicinato) risulta essere urbanisticamente rilevante in quanto, a prescindere o meno dalla realizzazione di opere, implica una variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444.
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Dall’esame della disciplina urbanistica applicabile all’area in cui insiste il fabbricato di proprietà della ricorrente emerge con evidenza che per poter porre in essere interventi urbanisticamente rilevanti sarebbe stata necessaria la previa approvazione di un Piano attuativo, unitamente alla previsione di delocalizzazione dell’attività agricola in essere.
Il passaggio da una destinazione agricola ad una destinazione commerciale (di vicinato) risulta essere urbanisticamente rilevante in quanto, a prescindere o meno dalla realizzazione di opere, implica una variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444 (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 04.07.2019, n. 1529)
(TAR Lombardia-Milano Sez. II, sentenza 08.07.2019 n. 1573 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il provvedimento di inammissibilità della presentata "comunicazione di cambio di destinazione d’uso", essendo stata riscontrata l’assenza dei richiesti presupposti per dar corso ad una tale variazione, che invece avrebbe richiesto la sussistenza di un idoneo titolo edilizio (Piano attuativo); in tal modo si è proceduto a sanzionare l’attività edilizia realizzata in violazione della normativa di settore, visto che in tali frangenti l’Amministrazione dispone esclusivamente di un potere sanzionatorio.
Del resto, è compito dell’Amministrazione riscontrare l’ammissibilità e/o la legittimità delle istanze dei privati al fine di verificare la sussistenza dei presupposti delle stesse e quindi accertarsi che l’effetto legale prodotto dalle stesse sia conforme alle prescrizioni normative ed intervenire, se necessario, utilizzando i poteri repressivi e sanzionatori (cfr. la disciplina in materia di c.i.l.a.: sul punto Consiglio di Stato, Commissione Speciale, parere 04.08.2016, n. 1784).
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Quanto alla mancata comunicazione del preavviso di rigetto, si può richiamare il disposto di cui all’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, secondo il quale un provvedimento non è annullabile per il mancato rispetto della normativa sul procedimento, qualora si tratti di atto vincolato o comunque l’Amministrazione dimostri in giudizio che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

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4. Con la terza doglianza del ricorso R.G. n. 2492/2016 e la prima del ricorso R.G. n. 2775/2016, da trattare congiuntamente in quanto connesse, si deduce l’illegittimità del provvedimento inibitorio, considerata la natura di mera comunicazione del cambio di destinazione d’uso effettuata dal privato e, in ogni caso, la mancata trasmissione del preavviso di rigetto.
4.1. Le doglianze sono infondate.
Correttamente lo Sportello unico ha adottato un provvedimento di inammissibilità della comunicazione di cambio di destinazione d’uso, avendo riscontrato l’assenza dei richiesti presupposti per dar corso ad una tale variazione, che invece avrebbe richiesto la sussistenza di un idoneo titolo edilizio (Piano attuativo); in tal modo si è proceduto a sanzionare l’attività edilizia realizzata in violazione della normativa di settore, visto che in tali frangenti l’Amministrazione dispone esclusivamente di un potere sanzionatorio (TAR Sicilia, Catania, I, 16.07.2018, n. 1497; TAR Toscana, III, 20.09.2016, n. 1625; assume, invece, la nullità dell’atto dichiarativo dell’inammissibilità della c.i.l.a. ai sensi dell’art. 21-septies, L. n. 241/1990, poiché espressivo di un potere non tipizzato nell’art. 6-bis D.P.R. n. 380/2001, salva e impregiudicata l’attività di vigilanza contro gli abusi e l’esercizio della correlata potestà repressiva dell’Ente territoriale, il TAR Calabria, Catanzaro, II, 29.11.2018, n. 2052).
Del resto, è compito dell’Amministrazione riscontrare l’ammissibilità e/o la legittimità delle istanze dei privati al fine di verificare la sussistenza dei presupposti delle stesse e quindi accertarsi che l’effetto legale prodotto dalle stesse sia conforme alle prescrizioni normative ed intervenire, se necessario, utilizzando i poteri repressivi e sanzionatori (cfr. la disciplina in materia di c.i.l.a.: sul punto Consiglio di Stato, Commissione Speciale, parere 04.08.2016, n. 1784).
Quanto alla mancata comunicazione del preavviso di rigetto, si può richiamare il disposto di cui all’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, secondo il quale un provvedimento non è annullabile per il mancato rispetto della normativa sul procedimento, qualora si tratti di atto vincolato o comunque l’Amministrazione dimostri in giudizio che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (Consiglio di Stato, V, 21.06.2013, n. 3402; TAR Lombardia, Milano, II, 28.01.2019, n. 186).
4.2. Ciò determina il rigetto delle suesposte censure
(TAR Lombardia-Milano Sez. II, sentenza 08.07.2019 n. 1573 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuto accertamento della realizzazione, in totale difformità dalle cc.ii.ll.aa., di varie tipologie di interventi edilizi che hanno condotto alla realizzazione di un immobile con destinazione d’uso differente da quella sua propria, in palese difformità dalla disciplina urbanistica vigente.
Sulla base di tali elementi fattuali è stata adottata l’ordinanza di ripristino, quale atto di carattere del tutto vincolato, che ponendosi quale conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività degli interventi non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso.
Nemmeno è possibile delimitare la portata della sanzione ripristinatoria a seconda della rilevanza dei singoli abusi o effettuando una valutazione specifica per ognuno di essi, dovendo l’abuso essere considerato complessivamente e non atomisticamente.
Difatti, nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi, il carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e “la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti”.
Anche le conseguenze di carattere ablatorio, in caso di inottemperanza all’ordine di riduzione in pristino sono previste direttamente dalla legge e operano ipso iure al ricorrere di determinati presupposti.

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8. Con le successive doglianze –rubricate dalla 4 alla 8 e da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse– si assume l’illegittimità dell’annullamento d’ufficio ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 per carenza del requisito dell’interesse pubblico prevalente su quello dei privati alla conservazione delle opere edilizie realizzate, unitamente alla irrogazione della sanzione ex art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, avuto riguardo alla natura degli interventi, qualificabili quale manutenzione ordinaria/straordinaria, e alla inattualità della destinazione agricola che dovrebbe essere ripristinata in capo all’immobile.
8.1. Le doglianze sono complessivamente infondate.
L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuto accertamento della realizzazione, in totale difformità dalle cc.ii.ll.aa., di varie tipologie di interventi edilizi che hanno condotto alla realizzazione di un immobile con destinazione d’uso differente da quella sua propria, in palese difformità dalla disciplina urbanistica vigente.
Sulla base di tali elementi fattuali è stata adottata l’ordinanza di ripristino, quale atto di carattere del tutto vincolato, che ponendosi quale conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività degli interventi non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 21.01.2019, n. 112; 02.05.2018, n. 1190).
Nemmeno è possibile delimitare la portata della sanzione ripristinatoria a seconda della rilevanza dei singoli abusi o effettuando una valutazione specifica per ognuno di essi, dovendo l’abuso essere considerato complessivamente e non atomisticamente (TAR Lombardia, Milano, II, 04.07.2019, n. 1529).
Difatti, nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi, il carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e “la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti” (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9).
Anche le conseguenze di carattere ablatorio, in caso di inottemperanza all’ordine di riduzione in pristino, peraltro non attuali, sono previste direttamente dalla legge e operano ipso iure al ricorrere di determinati presupposti, certamente sussistenti nella fattispecie de qua.
Va comunque sottolineato come dall’esame dell’ordinanza impugnata emerga l’approfondita istruttoria svolta dall’Amministrazione e l’esaustiva motivazione posta a supporto della stessa determinazione
(TAR Lombardia-Milano Sez. II, sentenza 08.07.2019 n. 1573 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONEIl provvedimento di acquisizione sanante è competenza riservata al consiglio comunale.
La competenza all'adozione del provvedimento di acquisizione sanante è riservata al Consiglio comunale, in quanto riconducibile al novero dei provvedimenti di acquisizione ex articolo 42, comma 2, lett. l), del Dlgs n. 267/2000, che dispone doversi adottare con delibera consiliare gli acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del Segretario o di altri funzionari.

È quanto afferma il TAR Campania-Salerno, Sez. II, con la sentenza 05.07.2019 n. 1205.
L’approfondimento
Il Tar Salerno è intervenuto sui profili di legittimità del provvedimento di acquisizione sanante adottato con atto monocratico del dirigente del settore patrimonio dell’Ente locale, piuttosto che con deliberazione del Consiglio comunale.
La decisione
Nell’accogliere parzialmente il ricorso, il Collegio ha avuto modo di rilevare come la competenza all'adozione del provvedimento di acquisizione sanante è riservata al Consiglio comunale, in quanto riconducibile al novero dei provvedimenti di acquisizione ex articolo 42, comma 2, lett. l), del Dlgs n. 267/2000, che dispone doversi adottare con delibera consiliare gli «acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari», così ricomprendendo anche l'ipotesi di acquisto di immobili disciplinata dall'articolo 42-bis del Dpr n. 327/2001.
Per il Collegio, inoltre, in tema di espropriazione per pubblica utilità, sussiste la giurisdizione del Giudice ordinario, ove si discuta –come, appunto, nella specie– della quantificazione dell'importo dovuto in applicazione dell'articolo 42-bis del Dpr n. 327/2001, e le relative controversie sulla determinazione e corresponsione dell'indennizzo, globalmente inteso, previsto per la c.d. acquisizione sanante, sono, quindi, devolute, in unico grado, alla Corte d’appello, secondo una regola generale dell'ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità, dovendosi interpretare in via estensiva l'articolo 29 del Dlgs n. 150/2011, tanto più che tale norma non avrebbe potuto fare espresso riferimento a un istituto –quale quello della acquisizione sanante– introdotto nell'ordinamento solo in epoca successiva.
Pertanto, nella fattispecie di cui all'articolo 42-bis del Dpr n. 327/2001, l'illecita o illegittima utilizzazione dell'immobile per scopi di interesse pubblico costituisce solo un presupposto dell'acquisizione del bene, sicché, ove il provvedimento acquisitivo sia stato adottato in conformità agli altri presupposti normativi, l'indennizzo previsto per la perdita della proprietà non ha natura risarcitoria, ma indennitaria, e la controversia sulla sua determinazione e corresponsione appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario ai sensi degli articoli 53 del Dpr n. 327/2001 e 133, lett. g, c.p.a. (si veda Cassazione, Sezioni unite, n. 2583/2018; n. 11180/2018).
Conclusioni
Alla luce di queste premesse, ne deriva che il provvedimento impugnato è viziato da incompetenza, siccome adottato dal Responsabile del Settore patrimonio, ambiente e lavori pubblici, anziché dal Consiglio comunale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.08.2019).
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MASSIMA
Considerato, in rito, che:
   - sul petitum sostanziale volto a far valere l’erronea quantificazione dell’indennizzo ex art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001 sussiste, per ius receptum, la giurisdizione del giudice ordinario;
   - in particolare,
in tema di espropriazione per pubblica utilità, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, ove si discuta –come, appunto, nella specie– della quantificazione dell'importo dovuto in applicazione dell'art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001, e le relative controversie sulla determinazione e corresponsione dell'indennizzo, globalmente inteso, previsto per la c.d. acquisizione sanante, sono, quindi, devolute, in unico grado, alla Corte d’appello, secondo una regola generale dell'ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità, dovendosi interpretare in via estensiva l'art. 29 del d.lgs. n. 150/2011, tanto più che tale norma non avrebbe potuto fare espresso riferimento a un istituto –quale quello della acquisizione sanante– introdotto nell'ordinamento solo in epoca successiva (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., m. 15283/2916; n. 15343/2018; n. 28572/2018; n. 33539/2018; Cons. Stato, sez. IV, n. 4550/2017; n. 5739/2018; n. 6272/2018);
   -
nella fattispecie di cui all'art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001, l'illecita o illegittima utilizzazione dell'immobile per scopi di interesse pubblico costituisce, infatti, solo un presupposto dell'acquisizione del bene, sicché, ove il provvedimento acquisitivo sia stato adottato in conformità agli altri presupposti normativi, l'indennizzo previsto per la perdita della proprietà non ha natura risarcitoria, ma indennitaria, e la controversia sulla sua determinazione e corresponsione appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario ai sensi degli artt. 53 del d.p.r. n. 327/2001 e 133, lett. g, cod. proc. amm. (cfr. Cass., sez. un., n. 2583/2018; n. 11180/2018);
Considerato, in merito alla proposta censura di incompetenza, esulante dal perimetro delle questioni sul quantum indennitario, che:
   -
la competenza all'adozione del provvedimento di acquisizione sanante è riservata al Consiglio comunale, in quanto riconducibile al novero dei provvedimenti di acquisizione ex art. 42, comma 2, lett. l), del d.lgs. n. 267/2000, che dispone doversi adottare con delibera consiliare gli «acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari», così ricomprendendo anche l'ipotesi di acquisto di immobili disciplinata dall'art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001 (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 775/2010; sez. V, n. 7472/2010; sez. IV, n. 2810/2018; TAR Puglia, Bari, sez. III, n. 750/2014; TAR Campania, Napoli, sez. V, n. 219/2016; n. 5031/2018);
   - conseguentemente, il provvedimento impugnato è viziato da incompetenza, siccome adottato dal Responsabile del Settore Patrimonio, Ambiente e Lavori Pubblici, anziché dal Consiglio comunale di Baronissi;
Ritenuto, in conclusione, che:
- alla stregua delle considerazioni svolte:
   - quanto alle contestazioni rivolte alla determinazione dell’indennizzo ex art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001, va dichiarato il difetto di giurisdizione dell’adito Tribunale amministrativo regionale, dovendosi individuare, ai sensi dell’art. 11 cod. proc. amm., nel giudice ordinario l’autorità munita di giurisdizione, dinanzi alla quale il processo andrà riassunto, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali delle domande proposte;
   - quanto alla rassegnata censura di incompetenza, il ricorso va accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato;

APPALTI SERVIZIAppalti di servizi, illegittima la clausola che prescrive il sopralluogo obbligatorio.
La regola di gara che prescrive il sopralluogo a pena di esclusione, è illegittima se l’adempimento assume un ruolo meramente formale.

Lo stabilisce il TAR Basilicata con la sentenza 28.06.2019 n. 544.
Il caso
Il caso si riferisce ad una gara per l’affidamento del servizio di gestione di un asilo nido comunale. Nella specie la stazione appaltante aveva stabilito l’esclusione della ricorrente per aver violato la norma del disciplinare di gara che disponeva l’obbligatorietà del sopralluogo per partecipare alla competizione. Il provvedimento, tuttavia, è stato annullato dal Tar sul presupposto che l’adempimento assumeva nel caso di specie un ruolo meramente formale, quindi, sul piano sostanziale, non necessario per la formulazione dell’offerta.
Per il Giudice amministrativo la previsione escludente del disciplinare di gara si presenta del tutto priva di reale contenuto sostanziale in relazione alle caratteristiche concrete del servizio oggetto della procedura.
La decisione
La questione giuridica giunta all’attenzione del Tar Basilicata riguarda i rapporti tra obbligo di sopralluogo e clausole escludenti.
Per il Giudice amministrativo
«anche negli appalti di servizi, la clausola di lex specialis, con la quale il sopralluogo è prescritto a pena di esclusione, non può di per sé dirsi contraria alla legge o non prevista dalla legge, sempre che detto adempimento venga ad assumere un ruolo sostanziale, e non meramente formale, per consentire ai concorrenti di formulare un'offerta consapevole e più aderente alle necessità dell'appalto» (si veda Consiglio di Stato, Sezione V, 26.07.2018, n. 4597).
Nei casi in cui detta proiezione funzionale non ricorra, la prescrizione escludente viene a porsi in contrasto «con i principi di massima partecipazione alle gare e divieto di aggravio del procedimento, ponendo in capo all’operatore economico in maniera irragionevole un onere formale sproporzionato e ingiustificato» (si veda Consiglio di Stato, Sezione V, 29.05.2019, n. 3581), e quindi in violazione dell’articolo 83, comma 8, del Dlgs n. 50/2016, in quanto la sua inosservanza non precluderebbe in alcun modo il perseguimento dei risultati verso cui è diretta l’azione amministrativa ovvero il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.07.2019).
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MASSIMA
6. E’, invece, fondato il secondo motivo di ricorso.
Preliminarmente,
va richiamato in materia di rapporti tra obbligo di sopralluogo e clausole escludenti, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, anche negli appalti di servizi, la clausola di lex specialis, con la quale il sopralluogo è prescritto a pena di esclusione, non può di per sé dirsi contraria alla legge o non prevista dalla legge, sempre che detto adempimento venga ad assumere “un ruolo sostanziale, e non meramente formale, per consentire ai concorrenti di formulare un'offerta consapevole e più aderente alle necessità dell'appalto (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26.07.2018, n. 4597).
Nei casi in cui detta proiezione funzionale non ricorra, la prescrizione escludente viene a porsi in contrasto “con i principi di massima partecipazione alle gare e divieto di aggravio del procedimento, ponendo in capo all’operatore economico in maniera irragionevole un onere formale sproporzionato e ingiustificato (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2019, n. 3581), e quindi in violazione dell’art. 83, co. 8, del D.Lgs. n. 50/2016, in quanto la sua inosservanza non precluderebbe in alcun modo il perseguimento dei risultati verso cui è diretta l’azione amministrativa ovvero il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara.
In adesione alle richiamate coordinate interpretative, deve ritenersi che la previsione escludente di cui l’art. 11 del Disciplinare di gara si presenta del tutto priva di reale contenuto sostanziale in relazione alle caratteristiche concrete del servizio oggetto della procedura.
Depongono in tal senso i seguenti profili.
Il servizio oggetto di causa non ha nessuna diretta e stretta attinenza con le strutture edilizie in cui viene esercitato, come desumibile dalla descrizione delle prestazioni oggetto dell’affidamento (cfr. art. 10 del Capitolato speciale) e dei criteri di valutazione dell’offerta tecnica (art. 18.1 del Disciplinare di gara). Nessuna di tali previsioni di lex specialis riconnette, infatti, alcuna rilevanza a tale profilo nell’economia dell’affidamento.
A dimostrazione dell’assenza di una stretta connessione tra lo svolgimento del servizio e la sede comunale dell’asilo nido, è persino previsto che il Comune di Melfi possa modificare in corso di rapporto detta sede (cfr. art. 8 del Capitolato speciale). Circostanza che, sia pure indirettamente, testimonia l’irrilevanza sostanziale del sopralluogo dei locali ai fini della formulazione dell’offerta e, quindi, della successiva prestazione del servizio.
Le planimetrie e la descrizione dell’immobile di proprietà comunale adibito a svolgimento del servizio sono state incluse tra i documenti della lex specialis, essendo, dunque, lo stato e la conformazione dei luoghi conoscibili da ciascun offerente, a prescindere dal sopralluogo fisico.
L’ATI esclusa ha, nel suo complesso, comunque acquisito effettiva conoscenza dei luoghi, avendo due delle imprese associate svolto il sopralluogo prima della formulazione dell’offerta unitariamente formulata.
A fronte di tali perspicui elementi fattuali, unitariamente intesi, deve ritenersi che il Comune di Melfi non ha esposto alcuna convincente motivazione riguardo al carattere sostanziale del prescritto sopralluogo e, quindi, alla giustificazione della sanzione escludente. Invero, non può rilevare la dedotta essenzialità del sopralluogo in relazione alla dislocazione del servizio presso due sedi (una comunale e l’altra messa a disposizione dall’aggiudicatario), considerato che trattasi di un profilo meramente estrinseco che non è di per sé stesso in grado di incidere sulle conclusioni cui le considerazioni dianzi esposte conducono.
A ciò consegue il contrasto dell’art. 11 del Disciplinare di gara con l’art. 83, co. 8, del D.Lgs. n. 50/2016, con conseguente nullità della clausola escludente e, dunque, illegittimità del conforme provvedimento di esclusione.
7. Conclusivamente, il ricorso va accolto e, per l’effetto, va disposto –previa declaratoria di nullità dell’articolo 11 del Disciplinare di gara- l’annullamento del provvedimento di esclusione impugnato.

AMBIENTE-ECOLOGIAQuanto alla legittimità dell’esercizio del particolare potere di ordinanza sindacale contingibile e urgente delineato dall'art. 9 della legge 26.10.1995 n. 447 esso deve ritenersi "normalmente" consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione dell'art. 2 della legge n. 447 del 1995)- rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la legge quadro sull'inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento amministrativo ordinario che consenta di ottenere il risultato dell'immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti.
In siffatto contesto normativo, l'accertata presenza di un fenomeno di inquinamento acustico (pur se non coinvolgente l'intera collettività) appare sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con l'efficace strumento previsto soltanto dall'art. 9, comma 1, della citata legge n. 447 del 1995.
Più in dettaglio e facendo applicazione dei principi enucleati dalla giurisprudenza amministrativa in materia, si osserva che:
   - l’art. 9, comma 1, della legge n. 447 del 1995 “non può essere riduttivamente intesa come una mera (e, quindi, pleonastica) riproduzione, nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al Sindaco (quale Ufficiale di Governo) in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente interpretata nel particolare significato che assume all'interno di una normativa dettata -in attuazione del principio di tutela della salute dei cittadini previsto dall'art. 32 della Costituzione- allo scopo primario di realizzare un efficace contrasto al fenomeno dell'inquinamento acustico, tenendo nel dovuto conto il fatto che la Legge n. 447/1995 (nell'art. 2 primo comma lettera "a") ha ridefinito il concetto di inquinamento acustico, qualificandolo come "l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane", sancendo espressamente che esso concreta (in ogni caso) "un pericolo per la salute umana"”;
   - conseguentemente, l'utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile e urgente delineato dal menzionato art. 9 è legittimo laddove ha a presupposto l’accertamento da parte delle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale (nel caso di specie sussistente), effettuato sulla base di appositi rilievi tecnici, di un fenomeno di inquinamento acustico;
   - l'accertata presenza di detto fenomeno (pur se non coinvolgente l'intera collettività, ma una singola persona o famiglia) giustifica il ricorso allo strumento previsto dall'art. 9, comma 1, della legge n. 447 del 1995.
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... per l'annullamento dell’ordinanza del Sindaco di San Benedetto del Tronto n. 56 del 01.10.2018, notificata tramite PEC in data 02.10.2018, avente ad oggetto “Ordinanza Sindacale ai sensi dell’art. 9 della Legge n. 447/1995 – Inquinamento acustico prodotto da attività in Via ... a San Benedetto del Tronto”, nonché di ogni atto conseguente, presupposto o comunque connesso, anche non conosciuto, ivi inclusi:
...
3. Passando all’esame degli ulteriori motivi, essi sono infondati e vanno respinti.
3.1. Quanto alla legittimità dell’esercizio del particolare potere di ordinanza contingibile e urgente delineato dall'art. 9 della legge 26.10.1995 n. 447, il Collegio non ha motivo per discostarsi -condividendolo- dall’orientamento secondo cui esso deve ritenersi "normalmente" consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione dell'art. 2 della legge n. 447 del 1995)- rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la legge quadro sull'inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento amministrativo ordinario che consenta di ottenere il risultato dell'immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti.
In siffatto contesto normativo, l'accertata presenza di un fenomeno di inquinamento acustico (pur se non coinvolgente l'intera collettività) appare sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con l'efficace strumento previsto soltanto dall'art. 9, comma 1, della citata legge n. 447 del 1995 (TAR Umbria-Perugia, sez. I, 15.05.2015, n. 215; TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2011, n. 1276; TAR Campania Napoli, sez. V, 06.07.2011, n. 3556).
Più in dettaglio e facendo applicazione dei principi enucleati dalla giurisprudenza amministrativa in materia, si osserva che:
   - l’art. 9, comma 1, della legge n. 447 del 1995 “non può essere riduttivamente intesa come una mera (e, quindi, pleonastica) riproduzione, nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al Sindaco (quale Ufficiale di Governo) in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente interpretata nel particolare significato che assume all'interno di una normativa dettata -in attuazione del principio di tutela della salute dei cittadini previsto dall'art. 32 della Costituzione- allo scopo primario di realizzare un efficace contrasto al fenomeno dell'inquinamento acustico, tenendo nel dovuto conto il fatto che la Legge n. 447/1995 (nell'art. 2 primo comma lettera "a") ha ridefinito il concetto di inquinamento acustico, qualificandolo come "l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane", sancendo espressamente che esso concreta (in ogni caso) "un pericolo per la salute umana"” (testualmente, TAR Lombardia Brescia, sentenza n. 1276 del 2011, citata);
   - conseguentemente, l'utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile e urgente delineato dal menzionato art. 9 è legittimo laddove ha a presupposto l’accertamento da parte delle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale (nel caso di specie sussistente), effettuato sulla base di appositi rilievi tecnici, di un fenomeno di inquinamento acustico;
   - l'accertata presenza di detto fenomeno (pur se non coinvolgente l'intera collettività, ma una singola persona o famiglia) giustifica il ricorso allo strumento previsto dall'art. 9, comma 1, della legge n. 447 del 1995 (sul punto, oltre alle sentenze innanzi richiamate, si segnalano ulteriormente TAR Trento, sez. I, 29.01.2014, n. 19; TAR Piemonte-Torino, sez. I, 05.04.2013, n. 422; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 27.12.2007, n. 6819).
Facendo applicazione dei suesposti principi al caso in esame, va, dunque, respinto il primo motivo di ricorso (TAR Marche, sentenza 26.06.2019 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di abusi edilizi, l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia, è atto vincolato che non richiede una valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto contra legem.
Deve, infatti, riconoscersi all’illecito edilizio natura permanente in quanto, un immobile interessato da un intervento illegittimo, conserva nel tempo il suo carattere abusivo tale per cui l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è “in re ipsa”, dovendosi, quindi, considerare l’interesse del privato necessariamente recessivo rispetto a quello pubblico all’osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio.
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Con il secondo motivo di ricorso viene dedotto l’eccesso di potere per carenza di motivazione e la violazione del principio di affidamento del privato.
Il ricorrente sostiene che l’ordinanza di demolizione, intervenuta a distanza di circa sessant’anni dalla costruzione dell’immobile oggetto degli abusi accertati, avrebbe dovuto essere corredata di indicazioni specifiche circa l’interesse pubblico perseguito, anche in ragione del legittimo affidamento ingenerato nel frattempo nell’interessato.
La censura è priva di pregio.
Sul punto è sufficiente richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in caso di abusi edilizi, l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia, è atto vincolato che non richiede una valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto contra legem.
Deve, infatti, riconoscersi all’illecito edilizio natura permanente in quanto, un immobile interessato da un intervento illegittimo, conserva nel tempo il suo carattere abusivo tale per cui l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è “in re ipsa”, dovendosi, quindi, considerare l’interesse del privato necessariamente recessivo rispetto a quello pubblico all’osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio (cfr. ex multis Consiglio di Stato, Sezione VI, 04.06.2018, n. 3351) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 30.05.2019 n. 767 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATASe è pur vero che l’art. 21-nonies della L. n. 241/1990, al primo comma, individua in diciotto mesi il termine ragionevole al fine di annullare d’ufficio un provvedimento, sussistendone motivi di interesse pubblico, è necessario specificare che la stessa disposizione, al comma 2-bis, statuisce che “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28.12.2000, n. 445”.
In merito, la giurisprudenza più recente ha specificato che, pur in carenza di una sentenza passata in giudicato, in ipotesi di falsa rappresentazione del privato l’Amministrazione ben può agire in autotutela oltre il termine prefissato dalla succitata norma.
Difatti, “appare del tutto logico, in siffatta situazione –in cui l’Amministrazione sia stata propriamente indotta della misrepresentation dei presupposti necessari al conseguimento del riconosciuto vantaggio– che la parte non possa beneficiare, contra factum proprium, della rigidità del termine imposto all’esercizio dell’autotutela: e ciò in quanto, per l’appunto:
   a) per un verso, l’affidamento vantato non avrebbe i connotati della meritevolezza di tutela;
   b) per altro verso, l’immutazione dei dati di realtà sottesi all’azione amministrativa non potrebbe plausibilmente comprimere –di là dal generale e generico limite di complessiva ragionevolezza– i tempi per l’accertamento della verità … in quanto la norma si limita a valorizzare la (paritetica) rilevanza della (dolosa) prospettazione di insussistenti presupposti di fatto, indipendentemente dalla allegazione (che ne rappresenta soltanto una della alternative modalità di ingresso nel procedimento amministrativo) di dichiarazioni sostitutive e di atti di notorietà”.
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Come è noto, la CILA (Comunicazione Inizio Lavori Asseverata) è stata introdotta con la legge n. 73/2010 che ha modificato l’art. 6 del Testo Unico dell’edilizia (d.p.r. n. 380/2001). Si tratta di uno strumento normativo finalizzato alla realizzazione di interventi di manutenzione straordinaria che non tocchino le parti strutturali dell’edificio.
La successiva legge n. 164 del 2014 ha esteso gli interventi di manutenzione straordinaria anche a quelli di frazionamento o accorpamento di unità immobiliari.
Quest’ultima ipotesi è quella che risulta essersi verificata nel caso di specie.
In relazione alla CILA oggetto del presente contenzioso, non appare condivisibile la tesi sostenuta dal Comune di Foggia, secondo cui sussisterebbe una “impossibilità da parte dell’ente comunale ad annullare la CILA per il decorso termine di 18 mesi” dalla data di acquisizione al protocollo comunale, nell’ottobre 2015.
Orbene, se è pur vero che l’art. 21-nonies della L. n. 241/1990, al primo comma, individua in diciotto mesi il termine ragionevole al fine di annullare d’ufficio un provvedimento, sussistendone motivi di interesse pubblico, è necessario specificare che la stessa disposizione, al comma 2-bis, statuisce che “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28.12.2000, n. 445”.
In merito, la giurisprudenza più recente ha specificato che, pur in carenza di una sentenza passata in giudicato, in ipotesi di falsa rappresentazione del privato l’Amministrazione ben può agire in autotutela oltre il termine prefissato dalla succitata norma.
Difatti, “appare del tutto logico, in siffatta situazione –in cui l’Amministrazione sia stata propriamente indotta della misrepresentation dei presupposti necessari al conseguimento del riconosciuto vantaggio– che la parte non possa beneficiare, contra factum proprium, della rigidità del termine imposto all’esercizio dell’autotutela: e ciò in quanto, per l’appunto:
a) per un verso, l’affidamento vantato non avrebbe i connotati della meritevolezza di tutela;
b) per altro verso, l’immutazione dei dati di realtà sottesi all’azione amministrativa non potrebbe plausibilmente comprimere –di là dal generale e generico limite di complessiva ragionevolezza– i tempi per l’accertamento della verità … in quanto la norma si limita a valorizzare la (paritetica) rilevanza della (dolosa) prospettazione di insussistenti presupposti di fatto, indipendentemente dalla allegazione (che ne rappresenta soltanto una della alternative modalità di ingresso nel procedimento amministrativo) di dichiarazioni sostitutive e di atti di notorietà
” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, Sent. n. 3940/2018).
Nel caso di specie, anche a seguito delle due pronunce del Tribunale Ordinario di Foggia, è conclamato che la controinteressata abbia abbattuto il muro perimetrale del condominio “Spezzati” senza aver ottenuto alcuna autorizzazione assembleare preventiva, nonostante le dichiarazioni sostitutive contrarie rese sul punto.
Su tali presupposti, non vi è dubbio che i ricorrenti siano titolari di un interesse a che il Comune di Foggia prenda una specifica posizione provvedimentale sul caso in esame, adottando una determinazione espressa sulla richiesta così come avanzata.
In conclusione, le considerazioni sin qui svolte impongono l’accoglimento dell’introdotto ricorso (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 30.05.2019 n. 754 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'atto amministrativo plurimo è caratterizzato dal fatto di contenere una pluralità di autonome e separate determinazioni amministrative, concernenti una pluralità di altrettanto specifici destinatari, che si trovano occasionalmente riunite in unico provvedimento, ma che avrebbero potuto assumere anche la veste di tanti separati provvedimenti quanti sono i singoli destinatari (L. n. 241/1990).
La circostanza, del tutto accidentale e contingente, che vi sia formalmente un ordine unico, indirizzato uno actu a tre distinti destinatari, nulla toglie circa la qualificazione dell’atto come plurimo e circa le conseguenze, soltanto parziali, del giudicato di annullamento.
Sul punto, valgano i principi espressi dalle seguenti massime del Consiglio di Stato, per il quale:
   - “Solamente per gli atti collettivi l'annullamento giurisdizionale ha efficacia erga omnes (ad es., proclamazione degli eletti, scioglimento di un organo collegiale) e lo stesso per gli atti normativi (regolamenti); per l'atto plurimo, invece, ammettere lo stesso principio di efficacia generalizzata ultra partes della sentenza di annullamento significherebbe sottrarre i singoli destinatari di esso, che sono portatori di uno specifico interesse personale e differenziato in relazione ad una volontà amministrativa rivolta distintamente a più destinatari occasionalmente raggruppati in un unico provvedimento, ai principi del processo impugnatorio e dei relativi termini decadenziali. In tal caso la diligenza e la solerzia di alcuni andrebbe a beneficio di coloro che non hanno fatto valere tempestivamente il loro diritto di difesa” e
   - “L'annullamento giurisdizionale di un atto plurimo, in "parte qua", non ha effetto generale nei confronti anche dei soggetti estranei alle parti impugnate di esso. Negli atti plurimi, insomma, l'annullamento rimane comunque scindibile in ragione dell'interesse di chi se ne avvale e l'illegittima composizione della commissione giudicatrice non è suscettibile di travolgere parti del provvedimento oggettivamente estranee alla pretesa del ricorrente”.
Vale la pena evidenziare che, di regola, i co-interessati hanno l’onere di proporre un’autonoma impugnazione, non essendo loro neppure consentito di spiegare intervento adesivo autonomo (o, secondo altra denominazione, litisconsortile)..
Quest’ultimo ove proposto, se ne ricorrono i requisiti di forma e di sostanza, dovrà essere qualificato –in ossequio al principio di conservazione dei mezzi giuridici– come autonomo ricorso.
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... per l'annullamento, dell’ordinanza prot. n. 88/07, del 27.07.2007, del Comune di Angri, avente ad oggetto la presentazione di un progetto rimozione e trasporto di rifiuti in discarica;
...
Con ordinanza n. 88 del 27.07.2007, il Comune intimato ordinava alla società ricorrente e ai sigg. Ca.Ch. e An.Br. di provvedere alla presentazione di un progetto per la caratterizzazione, rimozione e trasporto presso una discarica autorizzata dei rifiuti collocati illecitamente in un’area ubicata in Angri, località Campia, nonché alla relativa bonifica ambientale del sito.
Il provvedimento emanato scaturiva da una serie di atti istruttori e sopralluoghi compiuti dalla locale stazione dei Carabinieri e dall’ufficio ambiente dell’ente locale, indicati nelle premesse dell’ordinanza comunale.
Nel provvedimento emanato si dava espressamente conto che gli autori del presunto illecito ambientale erano i sigg. Ca.Ch. e An.Br., mentre si indicava l’area interessata come “espropriata dalla società ANAS”.
...
E’ doveroso puntualizzare la portata dell’annullamento pronunciato, ossia se dall’accoglimento della domanda proposta da ANAS s.p.a. discenda automaticamente l’eliminazione dell’ordine impartito dal Comune intimato anche nei confronti dei sigg. Ch. e Br..
Sul punto, ritiene il Collegio che il provvedimento gravato costituisca un esempio di provvedimento amministrativo plurimo, formalmente unico, ma che si scinde, sul piano sostanziale degli effetti giuridici, in tanti provvedimenti quanti sono i suoi destinatari.
Da ciò discende che, effettivamente, i sigg. Ch. e Br. erano titolari di un interesse legittimo oppositivo autonomo a resistere alla pretesa dell’amministrazione.
Ciascuno di costoro aveva dunque l’onere di spiegare autonoma impugnazione del provvedimento, deducendone i vizi di illegittimità.
Invero, “L'atto amministrativo plurimo è caratterizzato dal fatto di contenere una pluralità di autonome e separate determinazioni amministrative, concernenti una pluralità di altrettanto specifici destinatari, che si trovano occasionalmente riunite in unico provvedimento, ma che avrebbero potuto assumere anche la veste di tanti separati provvedimenti quanti sono i singoli destinatari (L. n. 241/1990) (Conferma della sentenza del Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 18.09.2009, n. 5074)” (Cons. Stato Sez. V Sent., 10/09/2014, n. 4587).
Con riferimento alla vicenda in esame, si ritiene che l’ente competente ben avrebbe potuto adottare tre atti amministrativi, distinti e separati sul piano formale, ciascuno dei quali contenente l’ordine per il destinatario di provvedere alla predisposizione del progetto di caratterizzazione e bonifica del sito inquinato.
Qualora l’ente avesse agito in tal modo, se uno degli interessati non avesse proceduto ad esperire azione di annullamento nei confronti dell’atto a lui notificato, non vi sono dubbi che ciò ne avrebbe comportato l’inoppugnabilità, anche laddove analoghi ordini, basati su identici presupposti e contenuto, e riferentesi alla medesima vicenda, frutto dello stesso procedimento e di un’unica volontà deliberativa dell’amministrazione, fossero stati invece impugnati da parte degli altri destinatari ed annullati dal G.A.
Conseguentemente, la circostanza, del tutto accidentale e contingente, che vi sia formalmente un ordine unico, indirizzato uno actu a tre distinti destinatari, nulla toglie circa la qualificazione dell’atto come plurimo e circa le conseguenze, soltanto parziali, del giudicato di annullamento.
Sul punto, valgano i principi espressi dalle seguenti massime del Consiglio di Stato, per il quale “Solamente per gli atti collettivi l'annullamento giurisdizionale ha efficacia erga omnes (ad es., proclamazione degli eletti, scioglimento di un organo collegiale) e lo stesso per gli atti normativi (regolamenti); per l'atto plurimo, invece, ammettere lo stesso principio di efficacia generalizzata ultra partes della sentenza di annullamento significherebbe sottrarre i singoli destinatari di esso, che sono portatori di uno specifico interesse personale e differenziato in relazione ad una volontà amministrativa rivolta distintamente a più destinatari occasionalmente raggruppati in un unico provvedimento, ai principi del processo impugnatorio e dei relativi termini decadenziali. In tal caso la diligenza e la solerzia di alcuni andrebbe a beneficio di coloro che non hanno fatto valere tempestivamente il loro diritto di difesa” (Cons. Stato Sez. V, 15/12/2005, n. 7144) e “L'annullamento giurisdizionale di un atto plurimo, in "parte qua", non ha effetto generale nei confronti anche dei soggetti estranei alle parti impugnate di esso. Negli atti plurimi, insomma, l'annullamento rimane comunque scindibile in ragione dell'interesse di chi se ne avvale e l'illegittima composizione della commissione giudicatrice non è suscettibile di travolgere parti del provvedimento oggettivamente estranee alla pretesa del ricorrente” (Cons. Stato Sez. V, 23/09/2005, n. 5035).
Vale la pena evidenziare che, di regola, i co-interessati hanno l’onere di proporre un’autonoma impugnazione, non essendo loro neppure consentito di spiegare intervento adesivo autonomo (o, secondo altra denominazione, litisconsortile) (ex multis, TAR Campania-Salerno Sez. II, 05/03/2019, n. 370; Cons. Stato Sez. IV, 28/08/2018, n. 5065; TAR Liguria Genova Sez. I, 06/11/2018, n. 873).
Quest’ultimo ove proposto, se ne ricorrono i requisiti di forma e di sostanza, dovrà essere qualificato –in ossequio al principio di conservazione dei mezzi giuridici– come autonomo ricorso (Cons. Stato Sez. IV Sent., 29/11/2017, n. 5596, in particolare ai paragrafi 10.5 e 10.6 e ivi per ulteriore giurisprudenza; TAR Campania Napoli Sez. I, 10/02/2004, n. 2017).
Nel caso di specie, tuttavia, la memoria di costituzione dei sigg. Ch. e Br. non è stata notificata alle altre parti del processo e, conseguentemente, non è possibile effettuare la suddetta riqualificazione della memoria in autonomo ricorso.
Le regole finora affermate sono state recentemente ribadite dall’autorevole sentenza del Cons. Stato, Ad. Plen., 27/02/2019, n. 4, che ha avuto modo di statuire che “Il giudicato amministrativo ha di regola effetti limitati alle parti del giudizio e non produce effetti a favore dei cointeressati che non abbiamo tempestivamente impugnato. I casi di giudicato con effetti ultra partes sono eccezionali e si giustificano in ragione dell'inscindibilità degli effetti dell'atto o dell'inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l'indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l'esistenza di un legame altrettanto inscindibile fra le posizione dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile, logicamente, ancor prima che giuridicamente, che l'atto annullato possa continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato. Per tali ragioni deve escludersi che l'indivisibilità possa operare con riferimento a effetti del giudicato diversi da quelli caducanti e, quindi, per gli effetti conformativi, ordinatori, additivi o di accertamento della fondatezza della pretesa azionata, che operano solo nei confronti delle parti del giudizio (riforma TAR Lazio Latina, n. 172/2018)”.
In conclusione, il ricorso va accolto e il provvedimento gravato annullato limitatamente alla posizione della società ricorrente (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.05.2019 n. 830 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATANel procedimento di rilascio del permesso di costruire, così come in quello finalizzato al provvedimento di diniego di sanatoria, l'Amministrazione Comunale ha il potere-dovere di verificare che a favore del richiedente esista un titolo idoneo al godimento dell'intero bene interessato, pur a fronte della circostanza che il titolo abilitativo è comunque rilasciato "facendo salvi i diritti dei terzi".
L'Amministrazione deve quindi condurre un'attività istruttoria il cui scopo non è tuttavia di risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in merito all'assetto proprietario degli immobili. L'obiettivo principale è, invece, quello di accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
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2.1. In ordine al primo motivo di ricorso.
Al riguardo, occorre rammentare che nel procedimento di rilascio del permesso di costruire, così come in quello finalizzato al provvedimento di diniego di sanatoria, l'Amministrazione Comunale ha il potere-dovere di verificare che a favore del richiedente esista un titolo idoneo al godimento dell'intero bene interessato, pur a fronte della circostanza che il titolo abilitativo è comunque rilasciato "facendo salvi i diritti dei terzi". L'Amministrazione deve quindi condurre un'attività istruttoria il cui scopo non è tuttavia di risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in merito all'assetto proprietario degli immobili. L'obiettivo principale è, invece, quello di accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente (TAR Campania, sez. IV, 13/12/2018, n. 7167; similmente, TAR Abruzzo, sez. I, 08/11/2011, n. 525; TAR Valle d'Aosta, sez. I, 17/11/2010, n.63).
Nel caso che ci occupa, è pacifico che le opere realizzate da parte ricorrente abbiano seppur parzialmente invaso un terreno che non spetta interamente in proprietà delle sole ricorrenti, ma anche di Va.Pa. il quale ha manifestato espressamente la sua contrarietà alla sanatoria e, quindi, alle opere che ne costituiscono l’oggetto.
Peraltro, a poco rileva il fatto che tale “invasione” sia stata determinata “a monte” dal progetto approvato, in quanto in ogni caso la Pubblica Amministrazione non avrebbe potuto, ex post, legittimare, mediante un provvedimento in sanatoria, opere che comunque incidono su un terreno non di proprietà esclusiva della parte istante in contrasto con i diritti di un soggetto terzo avente interesse contrario alla sanatoria.
Sotto altro profilo, poi, l’eccezione di usucapione, sollevata da parte ricorrente, non è fondata.
Infatti, allo stato non risulta essere intervenuta alcuna sentenza, passata in giudicato, di accertamento della predetta usucapione.
Ferma restando, infatti, la portata dichiarativa di una eventuale sentenza accertativa dell’intervenuta usucapione, per escludere la rilevanza dell’occupazione di un terreno formalmente intestato o cointestato a soggetti terzi contrari, occorre comunque che tale sentenza di accertamento sia passata in giudicato al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria e prima della decisione sulla stessa.
Peraltro, l’azione civilistica di accertamento non risulta ancora essere stata nemmeno esperita, sicché non si pone il problema di disporre la sospensione del presente giudizio ex art. 295 c.p.c. (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 22.05.2019 n. 470 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 32 d.p.r. n. 380/2001 le regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni:
   a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal d.m. 02.04.1968;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
   d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
   e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.

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L
a difformità parziale dal permesso di costruire è una categoria residuale e presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall'autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale.
Si è, pertanto, in presenza di difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.

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3.2. In merito al sesto motivo di ricorso.
Al riguardo, occorre premettere che, ai sensi dell’art. 31, comma 1, d.p.r. n. 380 del 2001, sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.
All’esecuzione in assenza o totale difformità dal permesso è equiparata la costruzione con “variazioni essenziali”, determinate ai sensi dell’articolo 32.
In entrambi i casi, l’organo competente dell’Ente comunale ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3.
Ai sensi dell’art. 32 d.p.r. n. 380 del 2001, fermo restando quanto disposto dal comma 1 dell’art. 31 sopra richiamato, le regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni:
   a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
   d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
   e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Secondo la normativa regionale, e, in particolare, l’art. 44, l.r. Liguria n. 16 del 2008, poi, si è di fronte ad una ipotesi di “variazione essenziale” in caso di:
   a) mutamento parziale della destinazione d’uso comportante alternativamente:
      1) l’insediamento di una diversa destinazione d’uso non consentita dallo strumento urbanistico generale;
      2) un incremento degli standard urbanistici, salvo il reperimento da parte dell’interessato, a mezzo di atto unilaterale d’obbligo o convenzione, delle aree o dotazioni di standard dovuti per la nuova destinazione, da formalizzare prima della ultimazione dei lavori nel contesto dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 49;
   b) aumento della cubatura o della superficie agibile ovvero della superficie coperta rispetto al progetto approvato nei limiti sotto indicati, sempre che non comportante la realizzazione di manufatti edilizi autonomamente utilizzabili:
      1) per gli edifici residenziali e per quelli aventi destinazione turistico-ricettiva, direzionale e commerciale, ad esclusione della grande struttura di vendita, di qualunque dimensione, in misura pari ad almeno 80 metri cubi ovvero ad almeno 25 metri quadrati;
      2) per gli edifici aventi destinazione industriale, artigianale e commerciale, costituita da grandi strutture di vendita e da quelle di distribuzione all’ingrosso, di qualunque dimensione, in misura pari ad almeno 50 metri quadrati di superficie coperta;
   c) modifiche di entità superiore al 10 per cento rispetto all’altezza dei fabbricati, alle distanze da altri fabbricati, dai confini di proprietà e dalle strade, anche a diversi livelli di altezza, nonché diversa localizzazione del fabbricato sull’area di pertinenza, quando la sovrapposizione della sagoma a terra dell’edificio in progetto e di quello realizzato sia inferiore al 50 per cento;
   d) aumento del numero dei piani o del numero delle unità immobiliari dell’edificio comportanti l’incremento di almeno due nuove unità, al di fuori dei casi di varianti in corso d’opera di cui all’articolo 25, comma 2;
   e) mutamenti delle caratteristiche degli interventi edilizi di ristrutturazione edilizia, comportanti il passaggio ad interventi di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica;
   f) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Non possono comunque ritenersi variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Infine, norma di chiusura del sistema normativo statale in punto sanzioni edilizie è l’art. 34, comma 2-ter, d.p.r. n. 380 del 2001, ai sensi del quale, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2% delle misure progettuali.
L’art. 47, l.r. Liguria n. 16 del 2008, al riguardo, prevede che gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, dalla DIA obbligatoria o dalla DIA alternativa al permesso di costruire sono demoliti o rimossi a cura e spese dei responsabili dell’abuso entro il congruo termine fissato dalla relativa ordinanza del responsabile dello SUE. Decorso tale termine sono demoliti o rimossi nei modi stabiliti dall’articolo 56 a cura del Comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso.
Ai sensi del comma 2 della predetta norma, non si configura parziale difformità dal titolo abilitativo in caso di opere comportanti discostamenti dai parametri dell’altezza, dei distacchi, della cubatura o della superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento rispetto alle misure del progetto assentito.
Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il responsabile dello SUE applica una sanzione amministrativa pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere.
D’altronde, la difformità parziale dal permesso di costruire è una categoria residuale e presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall'autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale. Si è, pertanto, in presenza di difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera (C. Stato, sez. VI, 30/03/2017, n. 1484).
Nel caso di specie, le difformità rilevanti sono date, come si è più sopra visto: dal fatto che le opere realizzate hanno determinato uno “sconfinamento” sul mapp. 584; che al posto del c.d. terrapieno è stato realizzato un locale uso ripostiglio avente volumetria di 55,84 mc e superficie aggiunta di mq 18,93.
Ebbene, fermo restando che a fronte dello “sconfinamento”, contestato dal terzo comproprietario, l’opera non può che essere oggetto di demolizione, per la parte recante occupazione illegittima, con riferimento al volume oggetto di contestazione occorre considerare che, se anche non integrante una “variazione essenziale”, ad ogni modo determina l’applicabilità dell’art. 34, comma 1, d.p.r. n. 380 del 2001 e 47, l.r. Liguria n. 16 del 2008, posto che per le caratteristiche dimensionali del manufatto abusivo rispetto alle caratteristiche dell’opera a progetto (che prevedeva un mero terrapieno), non può ritenersi integrata l’ipotesi, meramente residuale, di cui all’art. 34, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001 sopra richiamato.
Parimenti, con riguardo alla “traslazione” del manufatto, è evidente che essa si risolve in una difformità parziale tale da comportare l’obbligo di rimessione in pristino.
Peraltro, occorre rilevare che l’asserito errore di rappresentazione grafica in sede di progetto, dedotto da parte ricorrente negli atti del presente giudizio, oltre a non essere stato sollevato in modo chiaro nel corso dell’istruttoria del procedimento conseguente all’istanza di accertamento di conformità, non risulta dimostrato dalle produzioni in atti, laddove il profilo stradale come disegnato nella documentazione progettuale non risulta differente rispetto a quello rappresentato nella documentazione grafica ritenuta “corretta” da parte ricorrente.
Pertanto, il motivo di ricorso deve essere respinto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 22.05.2019 n. 470 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'eventuale impossibilità tecnica di demolire il manufatto, senza arrecare un grave pregiudizio per le parti legittime dell'edificio, non produce alcun effetto sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio, dunque la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.
Parimenti, <<con riguardo agli interventi e alle opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dall' art. 34, del d.p.r. n. 380 del 2001, deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione. In quella sede, le parti ben possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione del muro di contenimento del terrapieno>>.
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3.3. In merito al settimo e all’ottavo motivo di ricorso.
Al riguardo, è sufficiente rammentare l’insegnamento secondo il quale l'eventuale impossibilità tecnica di demolire il manufatto, senza arrecare un grave pregiudizio per le parti legittime dell'edificio, non produce alcun effetto sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio, dunque la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi (TAR Campania, sez. VIII, 31/07/2018, n. 5122; TAR Puglia, sez. dist. Lecce, sez. III, 27/02/2015, n. 717).
Parimenti, <<con riguardo agli interventi e alle opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dall' art. 34, del d.p.r. n. 380 del 2001, deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione. In quella sede, le parti ben possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione del muro di contenimento del terrapieno>> (C. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4169).
Pertanto, entrambi i motivi dedotti devono essere respinti (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 22.05.2019 n. 470 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La demolizione di un immobile edificato senza il necessario titolo, avendo natura vincolata ed essendo rigidamente ancorato alla sussistenza dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non necessita di specifica motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che impongono la rimozione dell'abuso.
Tale principio, peraltro, non ammette deroghe neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione sia intervenuta a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non sia finalizzato ad eludere l'onere di ripristino.
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3.4. In merito al nono motivo di ricorso.
Al riguardo, premesso che dal testo del provvedimento si comprende in modo sufficiente, anche per relationem, quali siano le difformità in considerazione delle quali è stato disposto l’ordine di rimessione in pristino, è sufficiente rammentare l’insegnamento secondo il quale <<la demolizione di un immobile edificato senza il necessario titolo, avendo natura vincolata ed essendo rigidamente ancorato alla sussistenza dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non necessita di specifica motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che impongono la rimozione dell'abuso; tale principio, peraltro, non ammette deroghe neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione sia intervenuta a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non sia finalizzato ad eludere l'onere di ripristino>> (C. Stato, sez. VI, 03/12/2018, n. 6839).
Pertanto, anche tale ultimo di motivo di impugnazione deve essere respinto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 22.05.2019 n. 470 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICALa previsione di un vincolo a parcheggio ovvero di opera di pubblica utilità, pur se condizionata nell’attuazione ad un piano attuativo di iniziativa privata, è da ritenersi immediatamente efficace, secondo la disciplina dei vincoli c.d. strumentali o di rinvio, assimilabile quanto al termine di decadenza a quelli preordinati all'espropriazione o che comportano l'inedificabilità solo in ipotesi di attuazione esclusivamente per mano pubblica.
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4. - Venendo al merito l’atto di motivi aggiunti, per la residua parte, è fondato e merita accoglimento.
5. - Giova premettere in punto di fatto come la tettoia in questione, realizzata senza alcun titolo abilitativo, abbia dimensioni pari a circa 5,50 x 2,8 mt. con altezza in gronda pari a 2,10 mt. e risulti aperta sui lati e dotata di copertura di tipo precario, come da documentazione fotografica allegata.
Quanto alla vasca ad uso piscina, di dimensioni 14,00 x 6,00 mt. corredata da pavimentazione lungo i bordi, essa è stata autorizzata nel 2001 quale vasca antincendio e per dimensioni leggermente inferiori (13,60 x 5,50 mt.) con traslazione, rispetto al progetto autorizzato, dell’area di sedime di 11 mt. in direzione sud e 4 mt. in direzione est.
Entrambe le opere insistono su area non soggetta a vincoli paesaggistici, come è pacifico.
6. - Preliminarmente ritiene il Collegio di dover esaminare la fondatezza dei motivi veicolati avverso la presunta incompatibilità delle opere con il vincolo urbanistico derivante dall’insistenza delle opere in zona P “parcheggi aggiuntivi” di cui all’art. 15 N.T.A., incompatibilità con cui l’Amministrazione ha integrato la motivazione a sostegno del potere repressivo esercitato.
Segnatamente secondo l’art. 15 delle N.T.A., richiamato nell’ordinanza, in dette zone “è vietata la costruzione di qualsiasi edificio. E’ facoltà dell’Amministrazione Comunale autorizzare la costruzione di tettoie smontabili per la formazione di zone d’ombra”.
6.1. - Ad avviso del ricorrente (IV motivo) il vincolo in questione, in sintesi, sarebbe allo stato del tutto inefficace e comunque irrilevante, stante che l’intera conformazione del comparto in questione C4 è destinata ad essere definita soltanto a seguito dell’approvazione di un piano attuativo di iniziativa privata, allo stato del tutto mancante.
6.2. - Non ritiene il Collegio di poter del tutto condividere tale assunto.
6.3. - La previsione di un vincolo a parcheggio ovvero di opera di pubblica utilità, pur se condizionata nell’attuazione ad un piano attuativo di iniziativa privata, è infatti da ritenersi immediatamente efficace, secondo la disciplina dei vincoli c.d. strumentali o di rinvio, assimilabile quanto al termine di decadenza a quelli preordinati all'espropriazione o che comportano l'inedificabilità solo in ipotesi di attuazione esclusivamente per mano pubblica (Consiglio di Stato, sez. IV, 24.03.2009, n. 1765).
6.4. - Non può dunque dubitarsi, nel caso di specie, dell’efficacia del vincolo di cui all’art. 15 delle N.T.A. e della sua idoneità ad impedire la realizzazione dell’opera di pubblica utilità, anche se -come si dirà- detto regime urbanistico nella fattispecie non è concretamente ostativo alla realizzazione delle opere.
6.5. - Non ritiene infatti il Collegio che i contestati interventi possano rientrare nella nozione di “edifici” accolta dall’art. 15 delle richiamate N.T.A. (TAR Umbria, sentenza 09.04.2019 n. 193 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come noto per giurisprudenza consolidata la qualifica di pertinenza urbanistica è meno ampia di quella civilistica ed è applicabile solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che ne risulti possibile una diversa utilizzazione economica.
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Una tettoia, per caratteristiche morfologiche di realizzazione e destinazione funzionale -in quanto struttura in ferro aperta sui lati, ricoperta da onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza incremento del carico urbanistico- è riconducibile alla nozione di pertinenza urbanistica, ordinariamente sottratta al regime del titolo edilizio concessorio.
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Quanto alle piscine realizzate in un complesso immobiliare esistente, parte della giurisprudenza invero ne nega la riconducibilità al regime delle pertinenze urbanistiche in ragione della pretesa funzione autonoma rispetto a quella propria dell’edificio al quale accede mentre secondo altra tesi costituiscono opere pertinenziali soggette a DIA/SCIA non creando volumi ma solo superfici.
Ritiene il Collegio come non possa ritenersi in via del tutto aprioristica la necessità di autorizzazione edilizia per la realizzazione di ogni piscina, dovendosi di volta in volta verificare dimensioni e compatibilità urbanistica anche alla luce della disciplina di dettaglio regionale.
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4. - Venendo al merito l’atto di motivi aggiunti, per la residua parte, è fondato e merita accoglimento.
5. - Giova premettere in punto di fatto come la tettoia in questione, realizzata senza alcun titolo abilitativo, abbia dimensioni pari a circa 5,50 x 2,8 mt. con altezza in gronda pari a 2,10 mt. e risulti aperta sui lati e dotata di copertura di tipo precario, come da documentazione fotografica allegata.
Quanto alla vasca ad uso piscina, di dimensioni 14,00 x 6,00 mt. corredata da pavimentazione lungo i bordi, essa è stata autorizzata nel 2001 quale vasca antincendio e per dimensioni leggermente inferiori (13,60 x 5,50 mt.) con traslazione, rispetto al progetto autorizzato, dell’area di sedime di 11 mt. in direzione sud e 4 mt. in direzione est.
Entrambe le opere insistono su area non soggetta a vincoli paesaggistici, come è pacifico.
...
6.6. - Occorre premettere che sia la piscina che la tettoia costituiscono pertinenza urbanistica quali opere di modesta entità ed accessorie all’edificio principale costituito, come detto, da una mostra di mobili da arredamento.
Come noto per giurisprudenza consolidata la qualifica di pertinenza urbanistica è meno ampia di quella civilistica ed è applicabile solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che ne risulti possibile una diversa utilizzazione economica (ex multis TAR Campania, Napoli sez. VII, 26.02.2018, n. 1228; Consiglio di Stato, sez. IV, 24.10.2017, n. 4887; id. sez. VI , 14.01.2019, n. 323).
6.7. - Ciò premesso, secondo giurisprudenza anche dell’adito Tribunale una tettoia, per caratteristiche morfologiche di realizzazione e destinazione funzionale -in quanto struttura in ferro aperta sui lati, ricoperta da onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza incremento del carico urbanistico- è riconducibile alla nozione di pertinenza urbanistica, ordinariamente sottratta al regime del titolo edilizio concessorio (ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 13.12.2017, n. 5867; TAR Umbria 29.01.2014, n. 82; TAR Sardegna sez. II, 16.01.2015, n. 183).
6.8. - Quanto alle piscine realizzate in un complesso immobiliare esistente, parte della giurisprudenza invero ne nega la riconducibilità al regime delle pertinenze urbanistiche in ragione della pretesa funzione autonoma rispetto a quella propria dell’edificio al quale accede (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 08.01.2016, n. 35) mentre secondo altra tesi costituiscono opere pertinenziali soggette a DIA/SCIA non creando volumi ma solo superfici (ex multis TAR Potenza 16.01.2016, n. 5; TAR Puglia, Lecce, sez. II, 14.01.2019, n. 40; vedi anche Consiglio di Stato sez. V, 16.04.2014, n. 1951).
Ritiene il Collegio come non possa ritenersi in via del tutto aprioristica la necessità di autorizzazione edilizia per la realizzazione di ogni piscina, dovendosi di volta in volta verificare dimensioni e compatibilità urbanistica (Consiglio di Stato sez. V, 16.04.2014, n. 1951) anche alla luce della disciplina di dettaglio regionale.
6.9. - Nel caso di specie la piscina, come la tettoia, risulta collocata nella medesima particella catastale circostante l’edificio principale e dunque nel lotto dell’insediamento produttivo, si da risultare priva di autonoma rilevanza economica ed edilizia, quale opera strumentale all’edificio mostra mobili di cui costituisce pertinenza. Inoltre giova ancora evidenziare come la piscina in questione sia stata realizzata in virtù di autorizzazione, sebbene ne sia contestata la realizzazione con variazioni essenziali (TAR Umbria, sentenza 09.04.2019 n. 193 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl decorso di un notevole lasso di tempo fra la repressione dell’abuso edilizio e la commissione dello stesso non muta i termini della questione, ossia la presenza di un abuso edilizio che, come tale, non può generare alcun affidamento nei confronti del soggetto comproprietario, atteso che l’ordinamento tutela unicamente l’affidamento incolpevole e che questo non è accaduto nel caso in questione, dove la radicale mancanza di un precedente provvedimento abilitativo da parte dell’Amministrazione Comunale è assodata, tanto che la stessa ha -subito- agito nei confronti del marito dell’odierna ricorrente, comproprietario ritenuto responsabile dell’abuso, ed ha lasciato decorrere un notevole lasso di tempo per agire anche nei confronti dell’odierna ricorrente solo perché non si era avveduta che la stessa era comproprietaria dell’area su cui è stata realizzata la costruzione abusiva di che trattasi.
Pertanto, il Collegio ritiene di non doversi discostare da quanto stabilito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2017 secondo cui “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
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In data 11.04.1978 la Squadra Edilizia del Comune di Lecce effettuava un sopralluogo sul lotto di terreno sito in Lecce, località Torre Chianca, di proprietà del signor Ca.Br. e, alla presenza del di lui padre Ca.Fr., verificava che erano in corso, in assenza di alcun titolo abilitativo, lavori di realizzazione di un’unità immobiliare composta da piano terra e primo piano.
Con ordinanza sindacale n. 1803 del 16.05.1978 veniva, dunque, ingiunta al signor Ca.Br., in qualità di proprietario e responsabile dell’abuso edilizio, la demolizione delle opere realizzate senza titolo, con l’avvertimento che, in mancanza di spontaneo adempimento, si sarebbe proceduto all’acquisizione delle aree al patrimonio pubblico.
Successivamente, a distanza di circa 33 anni, a seguito di visura catastale il Comune di Lecce accertava che la particella di terreno su cui era stata realizzata la predetta costruzione abusiva era di proprietà, in comunione, del signor Ca.Br. e della moglie del medesimo, signora Or.Gi., odierna ricorrente, la quale, dunque, risultava proprietaria di metà della particella di terreno su cui è stato costruito il complesso edilizio abusivo.
Pertanto il Comune di Lecce, ravvisata la persistenza di un interesse attuale alla demolizione delle opere abusive, non avendo il signor Ca.Br. ottemperato spontaneamente all’ordine del 1978, con ordinanza dirigenziale n. 985 del 19.07.2011 ha confermato l’ordine di demolizione al predetto signor Ca.Br. e ha ingiunto la demolizione anche alla signora Orizzonte Giovanna, sua consorte, quale comproprietaria dell’area.
...
2. Col primo motivo di gravame, parte ricorrente deduce l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata in quanto la stessa sarebbe “illegittima per difetto di adeguata motivazione in relazione al pubblico interesse in concreto tutelato”, in quanto, nel caso de quo, “è incontestabile che il ragguardevole decorso del tempo rispetto alla remota risalenza della commissione dell’abuso de quo accompagnato dal comportamento inerte tenuto dall’Ente anche a seguito dell’emanazione della precedente ordinanza di demolizione nei confronti dell’altro comproprietario abbiano determinato un sicuro affidamento in capo all’odierna ricorrente in ordine al consolidamento della situazione di fatto tale da imporre la necessità di una specifica motivazione sulle ragioni di pubblico interesse da porre a base dell’ordinanza di demolizione”.
2.1 Il motivo è infondato.
Il decorso di un notevole lasso di tempo fra la repressione dell’abuso edilizio e la commissione dello stesso non muta i termini della questione, ossia la presenza di un abuso edilizio che, come tale, non può generare alcun affidamento nei confronti del soggetto comproprietario, atteso che l’ordinamento tutela unicamente l’affidamento incolpevole e che questo non è accaduto nel caso in questione, dove la radicale mancanza di un precedente provvedimento abilitativo da parte dell’Amministrazione Comunale è assodata, tanto che la stessa ha -subito- agito nei confronti del marito dell’odierna ricorrente, comproprietario ritenuto responsabile dell’abuso, ed ha lasciato decorrere un notevole lasso di tempo per agire anche nei confronti dell’odierna ricorrente solo perché non si era avveduta che la stessa era comproprietaria dell’area su cui è stata realizzata la costruzione abusiva di che trattasi.
Pertanto, come già espresso in una recente pronuncia di questa Sezione (TAR Puglia-Lecce, n. 1421/2018), il Collegio ritiene di non doversi discostare da quanto stabilito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2017 secondo cui “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
Né risultano convincenti, sul punto, le considerazioni espresse da parte ricorrente nella memoria difensiva del 24.10.2018, in cui la stessa, pur dando atto delle conclusioni raggiunte dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2017 sopra menzionata, ha asserito che “nel caso non viene in considerazione una mera inerzia della P.A. nell’esercizio del proprio potere-dovere di vigilanza sugli abusi edilizi, (inerzia) ritenuta ex se (a differenza che in passato) non (più) idonea a fondare alcun legittimo affidamento tutelato dal vigente ordinamento di settore, bensì una vera e propria desistenza della stessa P.A. dall’adozione dei corrispondenti atti repressivi a speculare contenuto favorevole per la ricorrente protratta per un lunghissimo periodo (oltre 33 anni, ad oggi oltre 40 anni) sufficientemente ampio per costituire e consolidare una corrispondente posizione di affidamento (sostanziale e procedimentale) in capo alla stessa interessata”.
Con tale argomentazione, parte ricorrente mira a valorizzare la successiva inattività del Comune di Lecce nella demolizione del manufatto abusivo, attribuendo a tale inerzia un valore giuridico idoneo a paralizzare altri successivi atti repressivi, inibiti dal rilevante ritardo del Comune di Lecce nella demolizione del manufatto abusivo oggetto del provvedimento impugnato.
Tale ricostruzione risulta non condivisibile, atteso che da un atteggiamento (asseritamente) inerte della P.A. resistente non è certo consentito trarre altra conclusione se non una valutazione circa l’efficienza dell’azione amministrativa posta in essere dall’Ente medesimo, senza che tale considerazione, però, possa avere un qualche effetto sulla legittimità della (doverosa) azione provvedimentale precedentemente posta in essere né su quella successiva, atteso che, mutatis mutandis, la supposta presenza, nel caso de quo, di una desistenza da parte del Comune di Lecce, piuttosto che di una semplice temporanea inerzia, risulta essere un mero artificio linguistico per reintrodurre la censura relativa agli effetti del mero decorso del tempo sui provvedimenti repressivi edilizi successivamente adottati, censura definitivamente bandita dall’Adunanza Plenaria n. 9/2017 sopra citata.
Infine, sul punto, va ricordato che (peraltro), nel caso di specie, non si è in presenza di un intervento pubblico giustificato dal mero ripristino della legalità in quanto, come ricordato dal Comune resistente, “l’abuso per cui è causa consiste nella realizzazione di un manufatto di consistenti dimensioni (circa mq. 342) destinato a residenza in area sottoposta a vincolo paesaggistico e ricompresa nella fascia di tutela del parco “Rauccio” e in ambito territoriale esteso di tipo C” e, pertanto, vengono in considerazione anche interessi alla tutela del paesaggio, completamente obliterati dall’odierna ricorrente nella sua ricostruzione (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.02.2019 n. 262 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giustificare l’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente la descrizione delle opere da demolire (correttamente contenuta nel caso de quo nel verbale di sopralluogo e nel provvedimento sanzionatorio) in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento. In particolare, non occorre anche la descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata, spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale.
In altri termini, il Collegio ritiene che la precisa indicazione della superficie da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale, in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, non sia un elemento essenziale dell’ingiunzione di demolizione, in quanto trattasi di mera indicazione di un evento futuro ed incerto, (e, pertanto, non direttamente lesivo), subordinato ad accadimenti nella esclusiva disponibilità della ricorrente medesima (inottemperanza all’ordine di demolizione), e non incida, pertanto, immediatamente sulla posizione giuridica soggettiva della stessa ricorrente, ben potendo quest'ultima reagire nei confronti del successivo (eventuale) provvedimento di acquisizione gratuita (che deve, invece, individuare precisamente l’area che viene acquisita al patrimonio comunale) nel caso in cui lo stesso contenga l’indicazione di un’area non correttamente e motivatamente individuata.
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3. Col secondo motivo di ricorso, la signora Orizzonte deduce l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione n. 985 del 19.07.2011 di cui in epigrafe in quanto la stessa reca l’indicazione che, in caso di mancata demolizione e ripristino dello stato dei luoghi da parte dell’odierna ricorrente, saranno acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune di Lecce l’area di sedime nonché la superficie di terreno di mq. 3.200 ma tale precisa indicazione contrasterebbe con l’articolo 31 del D.P.R. n. 380/2001, in quanto nell’atto impugnato non vi sarebbe la specifica quantificazione della superficie utile delle opere abusive da assoggettare a demolizione né del “criterio in concreto seguito per l’estensione della “confisca” all’intera (notevole) superficie innanzi richiamata”.
3.1 La censura è infondata.
Come correttamente dedotto dal Comune di Lecce nella memoria difensiva finale del 17.05.2018, difatti, “per giustificare l’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente la descrizione delle opere da demolire (correttamente contenuta nel caso de quo nel verbale di sopralluogo e nel provvedimento sanzionatorio) in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento. In particolare, non occorre anche la descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata, spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale (tra le tante TAR Napoli, (Campania), sez. VII, 28/12/2017, n. 61172)”.
In altri termini, il Collegio ritiene che la precisa indicazione della superficie da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale, in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, non sia un elemento essenziale dell’ingiunzione di demolizione, in quanto trattasi di mera indicazione di un evento futuro ed incerto, (e, pertanto, non direttamente lesivo), subordinato ad accadimenti nella esclusiva disponibilità della ricorrente medesima (inottemperanza all’ordine di demolizione), e non incida, pertanto, immediatamente sulla posizione giuridica soggettiva della stessa ricorrente, ben potendo la signora Or. reagire nei confronti del successivo (eventuale) provvedimento di acquisizione gratuita (che deve, invece, individuare precisamente l’area che viene acquisita al patrimonio comunale) nel caso in cui lo stesso contenga l’indicazione di un’area non correttamente e motivatamente individuata (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.02.2019 n. 262 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa traslazione identifica lo spostamento del fabbricato rispetto alla dislocazione prevista nell’originario progetto, mentre la modifica della sagoma riguarda la diversità della forma della costruzione.
Traslazione e modifica della sagoma sono concettualmente distinte tra loro, con la conseguenza che non è dato desumere dalla prima l’esistenza della seconda, tanto più che nel caso di specie si è trattato di traslazione parziale, ovvero di spostamento in avanti di circa un metro, talché la superficie fondiaria occupata dal corpo di fabbrica secondo l’originario progetto continua ad esserlo in gran parte.
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3. Priva di pregio è la tesi propugnata dalla difesa del Comune, secondo cui sarebbe insita nella traslazione dell’edificio la modifica della sagoma, talché osterebbe alla qualificazione come variante in corso d’opera l’art. 143, comma 1, lett. b), della L.R. n. 65/2014 (ai sensi del quale la modifica della sagoma dell’edificio è inconciliabile, in determinate zone, con le caratteristiche proprie della variante in corso d’opera).
Il Collegio osserva che la traslazione identifica lo spostamento del fabbricato rispetto alla dislocazione prevista nell’originario progetto, mentre la modifica della sagoma riguarda la diversità della forma della costruzione (Cons. Stato, V, 02.04.2001, n. 1898): traslazione e modifica della sagoma sono concettualmente distinte tra loro, con la conseguenza che non è dato desumere dalla prima l’esistenza della seconda, tanto più che nel caso di specie si è trattato di traslazione parziale, ovvero di spostamento in avanti di circa un metro, talché la superficie fondiaria occupata dal corpo di fabbrica secondo l’originario progetto continua ad esserlo in gran parte (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.02.2019 n. 281 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICALa convenzione avente a oggetto l’urbanizzazione di un’area di espansione nel contesto di una lottizzazione per un intervento di edilizia agevolata ha normalmente natura di convenzione di lottizzazione ed è in quanto tale idonea a configurare l’obbligazione di trasferimento dei beni a favore del comune.
Essa necessita di un successivo atto negoziale di trasferimento i cui effetti possono essere conseguiti, nell’ipotesi di inadempimento del promittente, attraverso una sentenza esecutiva dell’obbligo a contrarre.
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Motivi della decisione
I. - Col primo motivo il comune denunzia la violazione dell'art. 11 della l. n. 10 del 1977 e degli artt. 1364, 1365 e 1369 cod. civ., assumendo che l'obbligo di trasferimento delle opere era da ritenere implicito ed essenziale allo scopo perseguito, e dunque compreso nella prima proposizione letterale della norma speciale, relativa alla realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione da parte del privato.
Col secondo motivo il comune denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 28 della l. n. 1150 del 1942 e 1339 cod. civ. non avendo la corte d'appello considerato che, nella specie, veniva in rilievo non l'edificabilità legale (secondo la destinazione d'uso del p.r.g.) ma l'effettiva e attuale possibilità di edificare la lottizzazione de qua in base alla convenzione del 1980 stipulata con la società Ic., dal fallimento della quale la Gl. aveva acquistato le aree. 
Col terzo motivo, e in subordine, il comune deduce la violazione degli artt. 28 della l. n. 1150 del 1942 e 1364, 1365 e 1369 cod. civ. essendosi la corte d'appello basata su una mera interpretazione letterale della convenzione del 1980, senza tener conto dell'avere quella convenzione rivestito la funzione di disciplina dell'intervento di edilizia agevolata ai sensi degli artt. 7 e 8 della l. n. 10 del 1977, e con scomputo di oneri ai sensi del successivo art. 10, nell'ottica della convenzione di lottizzazione; per cui in tal senso ne erano conseguite le obbligazioni di cui all'art. 28 sopra citato.
Giova premettere che il ricorso è stato dichiaratamente proposto dal comune contro il capo della sentenza d'appello che ha respinto la domanda di accertamento del diritto al trasferimento gratuito delle opere di urbanizzazione e delle annesse aree di sedime, realizzate in esecuzione della convenzione urbanistica.
A tal proposito è inconsistente la questione di giurisdizione sollevata dalla società in questa sede, nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ.. Non risultando la stessa anteriormente prospettata, devesi ritenere già formato sul punto un giudicato implicito preclusivo, rinveniente dalla statuizione di merito (v. Sez. un. n. 24883/2008; 26019/2008).
III. - Deve poi osservarsi che l'impugnata sentenza, pur mentovando sia la convenzione del 1980 intercorsa tra il comune e la società lottizzante Ic., sia la convenzione del 1990, interamente recettiva della prima, intercorsa con la società Gl., ha omesso di stabilirne la concreta natura giuridica: se cioè quella di convenzione di lottizzazione (come sostenuto dal comune e come ben vero sembrerebbe possibile dedurre dall'avere la sentenza riferito alla convenzione del 1980 l'assunto obbligo di esecuzione diretta di opere di urbanizzazione a scomputo di contributi concessori) ovvero quella di semplice convenzione urbanistica.
La differenza si coglie in ciò: che
la convenzione di lottizzazione rileva come strumento urbanistico (sebbene di rango inferiore e appunto convenzionale), volto a suddividere il terreno in lotti fabbricabili e ad assicurare la conciliazione dell'interesse dei singoli privati lottizzanti con quello più generale di un corretto assetto urbanistico del territorio; sicché nel contenuto indefettibile di essa -da distinguersi dal contenuto eventuale e propriamente pattizio- viene normalmente annoverata proprio la cessione gratuita delle aree necessarie per opere di urbanizzazione primaria e secondaria relative ai lotti (art. 28 l. urb.); viceversa, la convenzione urbanistica è un mero contratto a oggetto pubblico, in cui la p.a., in cambio dell'autorizzazione a realizzare un progetto proposto dal privato, richiede la realizzazione di opere che, secondo usuale prassi urbanistica, non sarebbero di sua competenza.
IV. - La corte d'appello, rinunciando a definire la natura giuridica della convenzione de qua, posta dal comune a fondamento della propria pretesa, e soffermandosi invece sul fatto che nella convenzione non era prevista esplicitamente la cessione gratuita al comune delle opere di urbanizzazione eseguite dall'impresa lottizzante (e delle aree di sedime), ha mostrato di non aver compreso affatto i termini del problema agitato in causa.
La realizzazione di opere di urbanizzazione primaria è difatti inscindibilmente correlata all'esercizio dell'attività edilizia. Ciò fin dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, la quale all'art. 31 ha stabilito che la (ivi definita) licenza sia comunque subordinata alla esistenza delle opere di urbanizzazione primarie o alla previsione da parte dei comuni dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero, ancora, all'impegno dei privati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alle costruzioni oggetto di licenza.
Nell'ottica della convenzione di lottizzazione, doveva quindi venire in rilievo l'art. 28 della citata l. urbanistica, che ha previsto, da un lato, il divieto di procedere a lottizzazione di terreni a scopo edilizio prima dell'approvazione del piano regolatore generale o del programma di fabbricazione e, dall'altro, che, in presenza di programma di fabbricazione e di piano regolatore generale, fino all'approvazione del piano particolareggiato di esecuzione, la lottizzazione di terreno a scopo edilizio può essere autorizzata dal comune subordinatamente "alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda: 1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al successivo n. 2;
2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi, determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni
".

V. - E' adesso da ricordare che con la l. n. 10 del 1977 il rilascio della concessione edilizia è stato a sua volta subordinato al pagamento di un contributo proporzionato al vantaggio patrimoniale acquisito dal concessionario e determinato in base all'ammontare delle spese di urbanizzazione e dei costi di costruzione, stante il rilievo che ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale debba partecipare agli oneri relativi.
In questo contesto viene in considerazione, nella presente causa ratione temporis, la regola generale dell'onerosità della concessione edilizia, rispetto alla quale peraltro l'art. 11 della l. n. 10 del 1977 ha attribuito al titolare della concessione l'alternativa fra il versare il contributo dovuto per gli oneri di urbanizzazione ovvero l'obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione stesse, sia pure con le modalità e le garanzie stabilite dall'amministrazione comunale interessata.
La norma, dalla quale l'impugnata sentenza ha preso abbrivio, contiene in sé il principio per cui
le opere di urbanizzazione, comunque realizzate, anche cioè a scomputo totale o parziale degli oneri, hanno sempre natura di opera pubblica.
Tale dato è oggi assolutamente pacifico, e lo era anche al momento della sentenza d'appello, non foss'altro perché la corte di giustizia, nell'ambito di un'interpretazione della direttiva n. 93-37/CE (v. ora direttiva 04-18/CE) volta a coordinare le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici in rapporto a normativa nazionale in materia urbanistica, previdente, da parte del titolare di concessione edilizia o di piano di lottizzazione, la realizzazione diretta di opere a scomputo del contributo dovuto per il rilascio della concessione, ha chiarito che le opere di urbanizzazione sono da ritenere pubbliche sin dalla loro origine.
E' così irrilevante che le opere suddette siano state eseguite su proprietà privata e siano, per questo, formalmente di proprietà privata prima del passaggio al patrimonio pubblico (cfr. c. giust. 12-7-2001, causa C-399/98, cd. sent. "Bicocca").
Fermo che ogni questione al riguardo è oggi da considerare superata dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 16, nell'esplicito riferimento alla conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune, quanto appena evidenziato serve a dire che, diversamente dalla tesi del giudice a quo, non poteva comunque negarsi, in vigenza della legislazione urbanistica, il diritto dell'ente pubblico al trasferimento delle opere di urbanizzazione eseguite dal privato lottizzante.
Il diritto dell'amministrazione alla cessione delle aree sulle quali il privato avesse eseguito direttamente le opere di urbanizzazione primaria supponeva sì, prima del 2001, l'esistenza di uno specifico atto a ciò funzionale, ma tale atto andava identificato nella convenzione di lottizzazione.
La convenzione di lottizzazione determina invero di per sé (non direttamente la cessione quanto appunto) l'insorgere dell'obbligo a carico del lottizzante di trasferire le opere suddette.
Nell'aver trascurato tutto quanto esposto è l'errore di diritto dell'impugnata sentenza, la quale, senza neppure definirne la natura, ha superficialmente sottolineato che la convenzione del 1980, come pure quella successiva del 1990, non aveva previsto la cessione gratuita al comune delle opere di urbanizzazione e delle aree sulle quali esse insistevano. Mentre una tale esplicita previsione non era necessaria dal momento che con l'art. 3 della convenzione -il cui testo è riportato nel ricorso senza avverse contestazioni- l'impresa si era "impegnata a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione primaria".
La corte d'appello avrebbe dovuto esaminare la questione della conformità di simile impegno a quanto stabilito dall'art. 11 della l. n. 10 del 1977, tenendo conto sia del tipo di convenzione esistente, sia e soprattutto del principio per cui,
assunto l'impegno, è sempre implicito l'obbligo di trasferimento al comune delle realizzande opere di urbanizzazione, trattandosi di condizione coessenziale al loro fine precipuo, giacché le opere medesime, una volta fatte, non tollerano di rimanere in proprietà privata. Il che rende priva di costrutto l'obiezione della società Gl. incentrata sull'avere perfezionato l'acquisto delle opere di urbanizzazione in sede fallimentare, in modo da imporre al comune di far valere il diritto al trasferimento solo in quella sede.
VI. - La sentenza ha anche affermato che le quote dovute per gli oneri di urbanizzazione e il costo di costruzione erano state applicate senza agevolazione; circostanza posta a fondamento dell'inferenza che era da escludere che vi fosse stata la cessione gratuita quale corrispettivo dell'esenzione del pagamento dei contributi.
Sennonché anche siffatta precisazione non serve a sostenere l'inesistenza di un obbligo di trasferimento, tenuto conto che, come dalla stessa sentenza si evince,
la lottizzazione era stata autorizzata su area destinata per la prima volta a urbanizzazione.
Si palesano allora falsamente applicate le norme di riferimento costituite dagli artt. 9 e seg. della l. n. 10 del 1977 e dall'art. 28 della l. urbanistica, dovendosi ulteriormente sottolineare la grave contraddizione che si annida nel percorso argomentativo della corte territoriale.
Difatti la circostanza del versamento del contributo dovuto per gli oneri di urbanizzazione, che la sentenza lascia intendere, contrasta l'ipotizzata realizzazione diretta delle opere medesime da parte dell'impresa lottizzante; realizzazione diretta che pure la sentenza ha adombrato a petto della valutazione dell'esito della prova testimoniale, asseritamente incerto a riguardo dell'essere state le opere eseguite dal comune medesimo.
VII. - In definitiva, l'impugnata sentenza va cassata con rinvio alla medesima corte d'appello di Ancona, diversa sezione, la quale rinnoverà l'esame degli atti prendendo in specifica considerazione il tipo di convenzione stipulata e uniformandosi ai principi di diritto sopra indicati.
All'uopo essa considererà che la convenzione avente a oggetto l'urbanizzazione di un'area di espansione nel contesto di una lottizzazione per un intervento di edilizia agevolata ha normalmente natura di convenzione di lottizzazione ed è in quanto tale idonea a configurare l'obbligazione, di trasferimento dei beni a favore del comune. Essa necessita di un successivo atto negoziale di trasferimento i cui effetti possono essere conseguiti, nell'ipotesi di inadempimento del promittente, attraverso una sentenza esecutiva dell'obbligo a contrarre (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 25.07.2016 n. 15340).

INCENTIVO PROGETTAZIONEIl compenso incentivante di che trattasi ha natura retributiva e quindi su di esso vanno operate le ordinarie ritenute previdenziali e fiscali, cosicché la quota prevista dalla normativa è da corrispondere al lordo di tali oneri, con la conseguenza che, stante appunto la natura retributiva di tale trattamento incentivante, su tale compenso il percettore deve -come per l'ordinario trattamento retributivo- corrispondere la quota contributiva (e quella fiscale) con il meccanismo della ritenuta operata dall'Amministrazione datrice di lavoro.
Invero,
non si rinviene alcuna normativa derogatoria che consenta di ritenere che tale particolare trattamento retributivo accessorio sia da calcolare come netto rispetto ad un altro maggior valore che inglobi gli oneri previdenziali (e fiscali) suddetti e che la differenza debba essere posta a carico dell'Amministrazione erogante.
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Con il secondo motivo denuncia violazione dell'articolo 11 delle preleggi, dell'articolo 18, comma 1, della legge n. 109 del 1994, degli articoli 1, comma 2, 2, comma 2, 3, comma 24, della legge n. 350 del 2003 (legge finanziaria) secondo cui si intendono al lordo) anche in relazione all'articolo 12 della legge 153 del 1969 (o 65) e successive modifiche (disciplina del salario accessorio determinato al netto); violazione dell'articolo 1, comma 207, della legge 266 del 2005 (finanziaria 2006), e dell'articolo 3 della costituzione nonché dell'articolo 6 della convenzione CEDU.
Censura l'affermazione della natura interpretativa della norma in esame e ne afferma la natura innovativa in quanto propone un contenuto completamente nuovo che deve valere solo per l'avvenire.
La questione sollevata con tale motivo di ricorso è già stata affrontata dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., Cass., n. 17536/2010), che l'ha risolta nel senso che
la L. 23.12.2005, n. 266, art. 1, comma 207 -secondo il quale la L. 11.02.1994, n. 109, art. 18, comma 1, e successive modificazioni, deve interpretarsi nel senso che la quota percentuale di ripartizione della incentivazione per la progettazione di opere pubbliche, "è comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione"- è norma di interpretazione autentica, con efficacia retroattiva, che è enunciabile nello specifico ambito, senza che rilevi la circostanza che il legislatore sia già intervenuto sulla norma con la L. n. 350 de 2003, art. 3, comma 29, trattandosi, quest'ultima, di disposizione diretta a disciplinare la ripartizione dei compensi per i soli enti locali, senza rinnovare il testo dell'art. 18, comma 1 citato; né in senso contrario è invocabile il successivo disposto della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 223, secondo il quale il comma 207 costituisce norma non derogabile dai contratti o accordi collettivi, giacché, riguardando la interpretazione autentica anche le vicende verificatesi anteriormente, lo stesso comma 223 va letto in collegamento con il principio di derogabilità della legge ad opera della contrattazione collettiva, stabilito dall'allora vigente D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 2, comma 2.
Al riguardo è stato evidenziato da questa Corte il carattere certamente interpretativo dell'intervento legislativo di cui al ridetto art. 1, comma 297, L. 23.12.2005, n. 266, dove il legislatore, evidentemente al fine di fare chiarezza ed escludere incertezze, ha assunto ad oggetto della norma la precedente disposizione nella sua interezza e, senza apportare ad essa alcuna modifica, ha qualificato in maniera incontrovertibile il suo intervento come diretto solo a fissarne l'interpretazione; né tale conclusione poteva ritenersi messa in forse dal fatto che il legislatore si trovasse di fronte ad un testo su quale era intervenuto nel 2003, visto che, secondo l'intenzione, sebbene forse non compiutamente realizzata, tale intervento non mirava a modificare, ma solo ad interpretare, mentre il successivo intervento del 2005 ha fatto diretto riferimento al testo della L. n. 109 del 1994, art. 18 e successive modifiche.
Tali considerazioni, che il Collegio condivide, non sono inficiate dalla circostanza che la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 207, sia stato successivamente abrogata dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 256, posto che: la disposizione successivamente abrogata, proprio perché di interpretazione autentica di una precedente normativa, aveva già esplicato i propri effetti volti a chiarire l'effettiva valenza della norma interpretata; il D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 92, comma 5, ha riformulato la disciplina in materia, prevedendo espressamente, per quanto qui specificamente rileva, che tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori, è ripartita una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, "comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione", riproducendo, quindi, quanto già previsto dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 207 ("La l. 11.02.1994, n. 109, art. 18, comma 1, e successive modificazioni, che prevede la possibilità di ripartire una quota percentuale dell'importo posto a base di gara tra il responsabile unico del progetto e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i Ioni collaboratori, si interpreta nel senso che tale quota percentuale è comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione").
Fermo il carattere assorbente delle considerazioni che precedono, deve altresì osservarsi, per completezza di motivazione, che questa Corte, con ulteriore pronuncia (cfr., Cass.,
sentenza 12.04.2011 n. 8344), ha rilevato che il compenso incentivante di che trattasi ha natura retributiva e che quindi su di esso vanno operate le ordinarie ritenute previdenziali e fiscali, cosicché la quota prevista dalla normativa era da corrispondere al lordo di tali oneri, con la conseguenza che, stante appunto la natura retributiva di tale trattamento incentivante, su tale compenso il percettore deve -come per l'ordinario trattamento retributivo- corrispondere la quota contributiva (e quella fiscale) con il meccanismo della ritenuta operata dall'Amministrazione datrice di lavoro.
Come è stato osservato nell'anzidetta decisione,
non si rinviene infatti alcuna normativa derogatoria che consenta di ritenere che tale particolare trattamento retributivo accessorio sia da calcolare come netto rispetto ad un altro maggior valore che inglobi gli oneri previdenziali (e fiscali) suddetti e che la differenza debba essere posta a carico dell'Amministrazione erogante, nel mentre la ricordata interpretazione ha trovato conferma nella L. n. 350 del 2003, art. 3, comma 29, e nella L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 207, riprodotto nel D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 92, comma 5.
Il ricorrente ha, poi, rilevato che, ove si attribuisca all'art. 1 , comma 207, citato natura interpretativa e retroattiva esso sarebbe in contrasto con l'art. 6 della CEDU che esclude l'ingerenza del potere legislativo in quello giudiziario allorché è volto a risolvere un contenzioso nei confronti della pubblica amministrazione in senso favore a quest'ultima.
Anche tale censura è infondata.
La norma ha fornito un'interpretazione sulla quale non si era formato uno specifico e vasto contenzioso ed anzi i precedenti erano in senso sfavorevole alla tesi di parte ricorrente il quale, pertanto, non poteva fare affidamento sull'accoglimento della tesi sostenuta.
Del resto l'interpretazione accolta dalla norma si manifestava già chiara dall'origine atteso che
il compenso incentivante di che trattasi ha natura retributiva e che quindi su di esso vanno operate le ordinarie ritenute previdenziali e fiscali al pari di qualsiasi altro trattamento retributivo (Corte di cassazione, Sez. lavoro, sentenza 27.04.2015 n. 8522).

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